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Stefano Beccastrini IL LUNGO CAMMINO DELLO ZERO. DA GWALIOR ALLA MATEMATICA OCCIDENTALE, DALLA PSICOANALISI AL CINEMA L’immagine mostra una serie di numeri tracciati, verso l’800 dopo Cristo, sulla parete di un tempio a Gwalior, città dell’India centrale. Tra questi numeri c’è anche lo Zero: esso è il cerchietto che compare a destra, dopo i numeri 2 e 7, a comporre la cifra di 270 (il modo di scrivere i numeri non è proprio uguale a quello che usiamo attualmente ma gli assomiglia alquanto, essendone il diretto l’antenato). Il numero Zero, senza il quale attualmente non sapremmo contare, era logicamente stato inventato, in India, vari anni prima ma questa è la sua più antica rappresentazione scritta che sia giunta, in originale, fino a noi. Osserviamolo con stupito rispetto poiché esso, come ha scritto il matematico tedesco Albrecht Beutelspacher, “…è una delle invenzioni più geniali dell’umanità…” (Beitelspacher, 2002). Il fatto che i primi a utilizzare, nel contesto di un sistema numerico di tipo posizionale decimale, lo Zero siano stati gli indiani pare ormai difficilmente smentibile. Quanti, un po’ pateticamente, non vogliono rinunciare alla primogenitura europea in tutti i campi dello scibile si affannano a sostenere che già gli antichi Greci conoscessero lo Zero e, anzi, che proprio loro, raggiungendo le terre dell’Indo a seguito della spedizione di Alessandro, lo avessero fatto conoscere agli indiani. Questi ultimi, verrebbe peraltro da obiettare, sarebbero stati assai lenti di comprendonio se, ricevuto lo Zero dai Greci più o meno tre secoli prima dell’era cristiana (la spedizione di Alessandro è, infatti, del 326 a. C. come sa chi, oltre a leggere i libri di storia, ama il cinema e ha visto Alessandro il Grande, 1956, di Robert Rossen e Alexander, 2004, di Oliver Stone) avessero impiegato più di mille anni per giungere a scrivere su un muro del tempio di Gwalior quello Zero che avevano a suo tempo appreso dai Greci. In realtà, come ci narra la storia della matematica, soltanto gli 1

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Stefano BeccastriniIL LUNGO CAMMINO DELLO ZERO.

DA GWALIOR ALLA MATEMATICA OCCIDENTALE, DALLA PSICOANALISI AL CINEMA

L’immagine mostra una serie di numeri tracciati, verso l’800 dopo Cristo, sulla parete di un tempio a Gwalior, città dell’India centrale. Tra questi numeri c’è anche lo Zero: esso è il cerchietto che compare a destra, dopo i numeri 2 e 7, a comporre la cifra di 270 (il modo di scrivere i numeri non è proprio uguale a quello che usiamo attualmente ma gli assomiglia alquanto, essendone il diretto l’antenato). Il numero Zero, senza il quale attualmente non sapremmo contare, era logicamente stato inventato, in India, vari anni prima ma questa è la sua più antica rappresentazione scritta che sia giunta, in originale, fino a noi. Osserviamolo con stupito rispetto poiché esso, come ha scritto il matematico tedesco Albrecht Beutelspacher, “…è una delle invenzioni più geniali dell’umanità…” (Beitelspacher, 2002). Il fatto che i primi a utilizzare, nel contesto di un sistema numerico di tipo posizionale decimale, lo Zero siano stati gli indiani pare ormai difficilmente smentibile. Quanti, un po’ pateticamente, non vogliono rinunciare alla primogenitura europea in tutti i campi dello scibile si affannano a sostenere che già gli antichi Greci conoscessero lo Zero e, anzi, che proprio loro, raggiungendo le terre dell’Indo a seguito della spedizione di Alessandro, lo avessero fatto conoscere agli indiani. Questi ultimi, verrebbe peraltro da obiettare, sarebbero stati assai lenti di comprendonio se, ricevuto lo Zero dai Greci più o meno tre secoli prima dell’era cristiana (la spedizione di Alessandro è, infatti, del 326 a. C. come sa chi, oltre a leggere i libri di storia, ama il cinema e ha visto Alessandro il Grande, 1956, di Robert Rossen e Alexander, 2004, di Oliver Stone) avessero impiegato più di mille anni per giungere a scrivere su un muro del tempio di Gwalior quello Zero che avevano a suo tempo appreso dai Greci. In realtà, come ci narra la storia della matematica, soltanto gli antichi popoli della Mesopotamia – ovverosia i Sumeri e poi gli Assiri e i Babilonesi - avevano, prima degli Indiani (e prima dei Maya, a loro volta giunti a concepire lo Zero, del tutto autonomamente, nella lontana e all’epoca sconosciuta America più o meno negli stessi anni in cui lo concepirono gli Indiani), utilizzato un segno, una cifra, che indicava l’assenza di valore numerico. Esso, tuttavia, non costituiva un vero e proprio numero e, comunque, fu dimenticato con la fine di quella grande e antichissima civiltà.

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A inventare (o reinventare in forma nuova e più ricca e rigorosa) lo Zero sarebbe stato, verso il 540 dopo Cristo, il matematico indiano Brahmagupta, quello rappresentato nell’immagine soprastante, autore di un libro, intitolato Brahmasputhasiddantha, in cui sistematizzò razionalmente e illustrò a un più grande pubblico il primo sistema numerico posizionale decimale, comprendente lo Zero quale vero e proprio numero, che mente umana avesse concepito. Perché furono gli Indiani a inventare lo Zero? Premesso che ci è difficile chiederci “Perché furono, contemporaneamente agli Indiani, i Maya a farlo?”, in quanto poco sappiamo della cultura Maya, che già era finita e quasi dimenticata al momento in cui arrivarono, quali insaziabili e distruttivi predatori, gli invasori spagnoli), è legittimo invece porsi la domanda relativamente alla cultura Indù. C’è chi sostiene, probabilmente con qualche ragione, che ciò sia stato dovuto alla particolare visione del mondo, religiosa e filosofica, di quel popolo che non soltanto non teme, come ha fatto a lungo il pensiero occidentale, ma anzi valorizza l’idea del Vuoto e del Nulla, ponendosi verso di essa (verrebbe da dire, sul ciglio di essa e del suo abisso non percepito come tale) con serenità d’animo e totale razionalità concettuale (del resto, anche l’idea di Infinito è rimasta a lungo ostica per il pensiero occidentale, matematico e non). Nella cultura indiana, lo Zero trovò piena accoglienza. Gli Indiani furono subito consapevoli di aver fatto un’importantissima invenzione (o forse una scoperta: la questione tocca la stessa filosofia della matematica, la sua natura, il suo statuto epistemologico ma ancor prima ontologico). Lo Zero divenne ben presto un elemento essenziale della loro cultura così scientifica come letteraria. Per esempio scrisse, in sanscrito e riferendosi all’uso femminile di porsi un punto nero sulla fronte, un letterato del XVII secolo di nome Biharilal: “Il punto sulla fronte/accresce la sua bellezza di dieci volte/proprio come il punto Zero/accresce un numero di dieci volte..” (citato in Barrow, 2001). Tali versi fanno riferimento al fatto che lo Zero (in sanscrito Sunya) era inizialmente rappresentato da un punto (il Sunya-Bindu), soltanto successivamente diventando un cerchietto. Comunque sia, fu merito della matematica, anzi del pensiero, dell’India di considerare lo Zero come un numero vero proprio e non soltanto come un segno dell’assenza di valore numerico, un segnale del vuoto, un simbolo inquietante del nulla. Passarono gli anni, anzi un paio di secoli, e lo Zero, oltre che apparire su un muro del tempio di Gwalior (così dando inizio, nel mondo globalizzato d’oggidì, persino a un curioso e peraltro intelligente turismo matematico), finì col farsi viaggiatore e prendere la strada verso l’Occidente ovverosia la Via della Seta. La Via della Seta non era, in realtà, un’unica via (non c’è mai un’unica via per i percorsi importanti del mondo, neppure per quelli dei pellegrinaggi: non a caso il Cammino di Santiago di Compostela ha almeno tre o quattro itinerari tutti quanti canonici): essa aveva varie diramazioni, almeno un paio delle quali passavano dall’India. Lungo una di tale diramazioni, lo Zero giunse prima in Medio Oriente e poi sulle sponde del Mediterraneo. Fu verso la fine dell’800 dopo Cristo che, sul tragitto indiano della Via della Seta, giunse a Bagdad, all’epoca una delle principali (più ricche, più colte) capitali del variegato impero islamico, una delegazione a un tempo diplomatica e commerciale proveniente dalla terra dell’Indo e del Gange. L’Islam esisteva già da oltre due secoli ma soltanto in quel periodo aveva avviato l’espansione territoriale, assieme militare e ideologica, che doveva per un paio di secoli renderlo padrone di gran parte del Mediterraneo.

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Tra le molte cose, mercanzie soprattutto, che la delegazione indiana offrì al califfo di Bagdad, probabilmente il celebre al-Mansur, ci fu anche una copia del libro di Brahmagupta. Il califfo, che non era affatto un illetterato come sono invece molti governanti d’oggidì, ne colse l’importanza e la passò subito ai proprio intellettuali, operanti nella Casa della Cultura da lui istituita. Il libro giunse così nelle mani del più grande matematico indiano del tempo, al-Kwaritzmi, raffigurato nell’immagine in un francobollo dell’ex-URSS (su al-Kwarizmi e sulla scienza islamica esiste un bel documentario, Le ciel a livre ouvert, 1999, di Mahmoud Hussein)..Egli ne comprese pienamente il valore innovativo, non soltanto scientifico ma anche pratico, e ne fece una traduzione che nei decenni successivi fu diffusa in tutti gli immensi territori dell’impero islamico. I numeri indiani stavano, insomma, diventando numeri arabi. Fu così che il sistema numerico, posizionale in base decimale e comprendente lo Zero, divenne ciò che oggi si usa chiamare, usandoli in tutti il mondo, con l’appellativo di “numeri arabi”. Fu, altresì, in tale forma che questo sistema numerico, estremamente vantaggioso – come già si è detto - non soltanto scientificamente ma anche commercialmente, venne all’orecchio degli europei, i quali oltre che a combattere ogni tanto i – a

loro vedere miscredenti – mussulmani, quotidianamente commerciavano con loro, rendendosi conto della loro maggiore destrezza nel fare calcoli e conteggi.

Il primo incontro, di cui si abbia una fonte sicura, tra numerazione indo-araba e cultura europea (nella persona di un anonimo intellettuale o, magari, semplicemente di un mercante che sapeva leggere e scrivere) avvenne in Spagna, non a caso il luogo ove la cultura islamica e quella cristiana più direttamente si fronteggiavano, spesso facendosi la guerra ma più spesso (intelligentemente e almeno per un lungo lasso di tempo) scambiandosi conoscenze e competenze oltre che merci. Di tale incontro, avvenuto verso la fine del IX secolo dopo Cristo, resta testimonianza nel cosiddetto Codex Vigilianus (conservato a Madrid) ove un europeo, appunto, ha copiato su carta i numeri arabi (prima, indiani) riportandoli, come da trascrizione esatta del modo di scrivere degli arabi medesimi, da destra a sinistra. L’immagine è quella sovrastante. Come sarà facile notare, manca lo Zero. Insomma, il primo incontro di cui si abbia testimonianza scritta tra un europeo e i numeri indo-arabi nasce sulla rimozione, da parte dell’europeo, del numero Zero. Se occorresse una tangibile testimonianza della difficoltà – metafisica, filosofica – degli europei di accettare nel loro sistema di numerazione il “segno del nulla”, il Codex Vigilianus potrebbe pienamente rappresentarla. Il suo autore prende atto con curiosità della nuova numerazione introdotta dagli arabi ma non soltanto non la diffonde ma esclude da essa lo Zero. Una vera e propria rimozione culturale.

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Dovettero passare più di due secoli perché il sistema numerico posizionale indo-arabo, comprendente lo Zero, diventasse pienamente, seppur faticosamente, europeo. Avvenne grazie a un europeo (un italiano, più esattamente un pisano) che era andato, fin da ragazzo, a impregnarsi di cultura araba, Leonardo Fibonacci (compare nel film Antonio, guerriero di Dio, 2005, di Antonello Bellucco, ove si vede il protagonista, sant’Antonio da Padova , naufragare mentre fa ritorno, in nave, dall’Africa ma viene salvato proprio da Fibonacci, che si trovava sulla medesima nave: evidentemente, al cinema almeno, i matematici nuotano meglio dei santi). Figlio del responsabile di dogana, istituita a seguito di un accordo commerciale col califfo di Tunisi, della Repubblica marinara di Pisa in terra islamica, e precisamente a Bejaja (in italiano, Bugia: oggi in terra algerina, celebre per la fabbricazione delle omonime candele), Leonardo imparò a contare e calcolare con destrezza tramite i numeri indo-arabi, bene ne comprese il vantaggio sia scientifico che mercantile, ne promosse (fattosi adulto e grande matematico per così dire arabeggiante) la conoscenza in Europa. Lo fece con un libro scritto in latino nel 1202, il De Abaco, che pian piano e con non indifferenti difficoltà, si affermò prima nella natia Pisa (ove Leonardo fu incaricato di educare al nuovo sistema di numerazione i funzionari del Comune), poi in tutta la Toscana, poi - ma ci vollero altri due secoli - in tutta l’Europa. Egli scrisse, all’inizio del suo trattato: “Nove sono le figure indiane e con esse e il segno 0 che gli arabi chiamano Zefiro, si può scrivere qualunque numero”. Ormai lo Zero faceva parte della cultura occidentale. La distinzione di Fibonacci tra gli altri nove numeri e il “segno Zero” pare più una concessione alle difficoltà altrui che un suo stato d’animo: egli sapeva benissimo che lo Zero era un numero come gli altri. Ma, chiediamoci, è davvero così?

L’immagine mostra, sotto l’allegorica egida di Monna Matematica, la disputa tra un abacista (il personaggio di destra) che usava tuttora i numeri romani e il sistema di calcolo fondato sull’uso dell’abaco, e un algoritmista, ovverosia uno che invece già usava gli algoritmi (dal nome di al-Kwarizmi, il matematico che li aveva diffusi nel Mediterraneo) arabi cioè il sistema di numerazione posizionale in base decimale che tanti vantaggi portava, per esempio, al calcolo commerciale. L’incisione che mostra la contesa è del tardo Quattrocento: essa prova quante resistenze ci furono, in Europa, all’accettare il nuovo sistema di numerazione e, con esso e in esso, lo Zero. Alla fine, il metodo algoritmico si affermò ma per alcuni secoli, dal XV al XIX secolo, lo Zero, e il suo contrario speculare, l’Infinito angustiarono la matematica occidentale, chiamandola alfine a vertiginose acquisizioni, considerazioni, ragionamenti culminati poi, nel XIX secolo, nel pensiero di David Hilbert e di George Cantor. Come scrive un’eccellente studiosa francese della storia e della didattica della matematica, Silvia Baruk, se pure è vero che “…nella storia delle civiltà…la scoperta dello Zero resterà sempre una delle opere… più considerevoli della specie umana…” (Baruk, 1998), resta il fatto che, per secoli, la sua accettazione nella cultura occidentale ha subito la

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tentazione del dubbio angoscioso. Essa, modernamente, è stata bene espressa dallo psichiatra americano Karl Menninger: “Che razza di pazzo simbolo è questo che non significa nulla?” (citato in Ibidem). Non a caso è stato uno psichiatra a fare tale affermazione. Infatti, con la nascita e lo sviluppo della psicoanalisi, lo Zero è diventato ben presto materia di considerazione anche di questa nuova disciplina, tipicamente e inquietamente novecentesca. In particolare, è stato in Jacque Lacan e nella sua scuola che lo Zero, non soltanto e non tanto quale numero bensì quale segno del Vuoto, del Nulla, dell’abisso su cui l’essere umano si sporge disorientato e dal quale deve essere in grado di prendere le mosse, cominciando o meglio ricominciando a vivere e dunque anche a contare e misurare, da quella visione dell’orrido ripartendo, segnando una discontinuità (più sul versante dell’Infinito che su quello dello Zero, sebbene come si è visto siano alquanto connessi, si è invece mossa la ricerca psicoanalitica di Ignacio Matte Blanco). . Insomma, il passaggio dallo Zero all’Uno non è semplice, non è banale, non è innocuo. La cultura dell’Occidente non è sintetica bensì analiticamente disciplinare, spezza (spesso proficuamente e razionalmente ma non sempre, come dimostrano il sapere sistemico e quello ecologico) l’Episteme nella sua unità, crea configurazioni diverse a seconda dell’ambito di riflessione di concetti apparentemente identici. Lo Zero è uno di tali concetti: la matematica occidentale – ma ormai globale - lo considera un numero come gli altri e se ne serve, giustamente dal suo punto di vista, in maniera efficace, prendendo atto della sua fondamentale importanza in un sistema numerico decimale posizionale. Però, fuori dai confini della matematica (ma, forse, persino all’interno di essi, che tendono a delimitare, non sempre riuscendoci, una disciplina assai più incerta, vertiginosa, alla fin fine umanistica di quel che troppa gente non creda) c’è chi continua a interrogarsi se non abbiano ragione coloro che, nello Zero, vedono tuttora anche e forse soprattutto il segno del Nulla ovverosia, come Charles Seife ha intitolato il suo libro alla storia dello Zero dedicato, una “idea pericolosa” Egli scrive infatti:che “nessun numero può causare altrettanto danno…Lo Zero è diverso dagli altri numeri, consente di spingere lo sguardo sull’ineffabile e sull’infinito…Alla base di ogni rivolgimento si trova lo Zero e, con lui, l’Infinito…” (Seife. 2002). Anche il cinema ha vissuto questa divaricazione tra una concezione prettamente numerica, matematica, alla fin fine rassicurante dello Zero, e una visione invece disorientante di esso. Del resto, essa era intrinseca alla stessa, antica invenzione indiana dello Zero in quanto, come scrive Stella Baruk, “…già a partire dal V secolo lo Zero indiano nelle sue diverse rappresentazioni simboliche in lingua sanscrita significava non solamente il vuoto, lo spazio, l’atmosfera e l’etere ma anche il non essere, la non esistenza, il nulla…” (Baruk, 1998). Nel cinema, le due accezioni del tremendo concetto si ripropongono pienamente. Lo Zero ha un chiaro e non troppo inquietante valore numerico in Zero in condotta, 1933, di Jean Vigo (e, di riflesso, in Maddalena…zero in condotta, 1940, di Vittorio De Sica) così come in Atmosfera Zero, 1981 (ma il titolo riguarda soltanto la versione italiana del film, che in originale si chiama invece, più semplicemente, Outyland) di Peter Hyams. Per non dire dei tanti film che hanno nel loro titolo lo Zero in quanto prima cifra di espressioni come, per esempio, 007. Vari altri esempi si potrebbero fare, ma il senso è chiaro: nel titolo di tali film lo Zero è puramente e semplicemente un numero, che indica appunto un valore numerico: negli esempi citati, un voto in condotta (il peggiore possibile, data la totale, e totalmente inaccettabile dal potere, ribellione degli studenti), un livello di pressione dell’atmosfera, la sigla in codice di un agente segreto fin troppo famoso. Ma in Germania anno zero, 1948, di Roberto Rossellini, cosa significa invece lo Zero?

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Non certamente l’inizio di una serie numerica ossia un numero dopo il quale venga l’Uno e il Due e il Tre e così via. Quando Rossellini ha filmato l’Italia della stessa epoca della Germania di Germania anno zero (ovverosia dell’immediato dopoguerra e dopo) ha intitolato il film Anno Uno, 1974: per l’Italia, il periodo subito successivo alla fine della guerra era da lui considerato, a posteriori, l’Anno Uno perché c’era stata la Resistenza, perché c’era stato un rifiuto attivo del regime che aveva portato alla catastrofe, mentre in Germania, nello stesso periodo, c’era soltanto la catastrofe stessa, quella ove il regime aveva precipitato tutti quanti i propri cittadini, trasformati in esseri nei quali la cittadinanza, e dunque la responsabilità, era totalmente assente. Non è quindi detto, a vedere il film di Rossellini, che dopo lo Zero venga l’Uno. Per adesso, nella tragedia umana e civile e sociale che ci viene mostrata, c’è soltanto da contemplare, inorridendo, lo Zero di una società crollata disperatamente e senza alcuna difesa né interiore né esteriore nel vuoto, nel nulla, nell’annichilimento d’ogni valore umano, nel suo distruggersi e anzi trasformarsi in Male assoluto, nel suo fare persino di un adolescente ricco di fantasia e volenteroso di operare qualcosa di buono uno strumento del Male stesso prima e una vittima non innocente se non nel profondo dell’animo poi.

Il pianto disperato, nel senso letterale – senza speranza – del termine, del giovane Edmund sancisce, persino solennemente oltre che in maniera straziante, nel finale del film, l’abisso morale in cui un’intera città, un’intera civiltà, un’intera espressione antropologica è finita col cadere, con l’inabissarsi. Rispetto a tale condizione, ove “…le persone vivono nella tragedia come nel loro elemento naturale…” (come afferma, a un certo punto, la voce fuori campo) credo che dobbiamo, per così dire filosoficamente, trarre ispirazione per almeno un paio di considerazioni: la prima riguarda la necessità che del lato nichilistico dello Zero, nel mentre utilizziamo con profitto il suo lato dinamico e matematicamente efficiente, occorra sempre avere consapevolezza e coscienza; la seconda riguarda il fatto che il precipitare nell’Anno Zero (che non necessariamente ha un Anno Uno dopo di sé) da parte della Germania è, in Rossellini e per tutti noi, semplicemente metaforico o almeno esemplificativo: ogni civiltà, ogni società, ogni comunità, se abbassa la guardia sulla propria etica civile e sulla propria responsabilità morale e solidale, rischia di precipitarci.

Riferimenti bibliografici

Barrow J., Da zero a infinito. La grande storia del nulla, Milano, Mondatori, 2001 Baruk S., Dizionario di di matematica elementare, Bologna, Zanichelli, 1998 Beutelspacher, A. , Matematica in tasca. Dall’abaco allo zero, Milano, Ponte alle Grazie, 2002 Seife G., Zero. Storia di un’idea pericolosa, Torino, Bollati Boringhieri, 2002

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