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MED EXECUTIVE BRIEFINGS
LLee MMoonnaarrcchhiiee ddeell GGoollffoo ddii ffrroonnttee aallllaa rriivvoollttaa aarraabbaa
pprroossppeettttiivvee ppoolliittiicchhee,, eeccoonnoommiicchhee ee ffiinnaannzziiaarriiee
Palazzo Clerici, 23 giugno 2011
Dossier a cura del Programma Mediterraneo dell’ISPI
L’incontro è realizzato nell’ambito del progetto Med Business promosso da
Politica
1. Monarchie del Golfo: quadro politico-istituzionale
2. Monarchie del Golfo: quadro politica estera e difesa
3. L’Arabia Saudita di fronte all’instabilità del Golfo
4. La crisi in Bahrein
5. Lo Yemen nel caos
Economia
1. Crescita economica
2. Quadro macroeconomico
3. Interscambio commerciale con Italia e Ue
4. Investimenti diretti esteri
5. I fondi sovrani
6. Risorse energetiche
Approfondimenti
1. Il Consiglio di cooperazione del Golfo e l’Unione monetaria
2. Le relazioni tra l’Unione europea e il Ccg
3. Le relazioni con gli Stati Uniti
LLEE MMOONNAARRCCHHIIEE DDEELL GGOOLLFFOO
DDII FFRROONNTTEE AALLLLAA RRIIVVOOLLTTAA AARRAABBAA
IINNDDIICCEE DDEELL DDOOSSSSIIEERR
PPOOLLIITTIICCAA
11.. MMOONNAARRCCHHIIEE DDEELL GGOOLLFFOO:: QQUUAADDRROO PPOOLLIITTIICCOO –– IISSTTIITTUUZZIIOONNAALLEE
Regime politico Organi rappresentativi Ultime elezioni Prossime elezioni
Arabia Saudita Monarchia assoluta. Non è prevista una Costituzione (“il Corano è la nostra Costituzione”) ma nel 1992 è stata approvata una “Legge fondamentale”.
Dal 1993 Consiglio consultivo composto da 150 membri nominati dal re per un periodo di 4 anni. Dal 2004 ha capacità di iniziativa legislativa e di veto sulle bozze di legge del governo.
Febbraio-aprile 2005: elezioni municipali parziali (metà dei consigli), le prime dagli anni Sessanta. Suffragio universale maschile (21 anni).
29 Settembre 2011: elezioni municipali.
Bahrein Monarchia costituzionale dal 2002. Il primo ministro è nominato dal re.
Parlamento bicamerale: - Consiglio consultivo (40 membri nominati dal re); - Camera dei deputati (40 membri eletti per un periodo di 4 anni).
23 e 30 Ottobre 2010: elezioni parlamentari. Suffragio universale (18 anni dal maggio 2011).
Ottobre 2014: elezioni parlamentari.
Emirati Arabi Uniti
Federazione di sette emirati. Costituzione permanente dal 1996. Il Consiglio federale supremo, composto dai sette emiri, è la più alta autorità federale, elegge il presidente (è l’emiro di Abu Dhabi) e nomina il primo ministro (l’emiro di Dubai).
Consiglio nazionale federale (Cnf), composto da 40 membri nominati dagli emiri di ciascuno stato della federazione. Anche le donne possono essere membri del Cnf, sebbene finora non ce ne siano state.
16-18-20 dicembre 2006: prime elezioni parziali del Cnf da parte di collegi elettorali di notabili (in tutto 6.689 persone, sia uomini sia donne).
Settembre 2011: elezioni parlamentari (Cnf).
Kuwait Monarchia costituzionale. Il primo ministro è nominato dall’emiro. Dal 2002 l’incarico di primo ministro è separato da quello di principe della corona.
Assemblea generale composta da 50 membri eletti. Il parlamento, esistente dal 1963, è stato sospeso dal 1976 al 1981 e dal 1986 al 1992, dopo l’invasione irachena la vita parlamentare non è più stata interrotta.
2010: elezioni parlamentari. Suffragio universale per tutti i cittadini ( 20 anni, circa il 33% della popolazione), dal 2006 esteso alle donne
Maggio 2013: elezioni parlamentari (Assemblea generale).
Oman Monarchia assoluta, ma dal 1996 è in vigore una “Legge fondamentale”. Il sultano è anche capo del governo.
Consiglio bicamerale: Consiglio di stato (58 membri, con poteri consultivi, nominati dal sultano); Consiglio consultivo (83 membri eletti per un periodo di 4 anni, con limitati poteri di proposta legislativa).
2007: elezioni parlamentari. a suffragio universale (21 anni).
Ottobre 2011: elezioni parlamentari (Consiglio consultivo)
Qatar Monarchia costituzionale. Il governo è nominato dall’emiro.
Consiglio consultivo di 45 membri, di cui 2/3 eletti e 1/3 nominato dal re. Consiglio municipale centrale (Cmc), potere consultivo.
Il mandato del Consiglio è stato continuamente esteso fin dall’entrata in vigore della costituzione nel 2005, rimandando le elezioni.
30 giugno 2013: elezioni di 2/3 del consiglio. Suffragio universale (18 anni).
PPOOLLIITTIICCAA
22.. MMOONNAARRCCHHIIEE DDEELL GGOOLLFFOO:: QQUUAADDRROO PPOOLLIITTIICCAA EESSTTEERRAA EE DDIIFFEESSAA
Politica estera Accordi di difesa e cooperazione militare
Arabia Saudita
“Dialogo strategico” con gli Stati Uniti, con cui però di recente si sono però verificate tensioni in seguito alla pozioni di Washington sulla “primavera araba”. Crescente orientamento verso l’Asia, dove re Abdullah ha compiuto il suo primo viaggio di stato.
Accordi per forniture e addestramento in materia di difesa con gli Stati Uniti e Russia (2008). La presenza militare statunitense è cessata nel 2003, quando le forze Usa sono state spostate in Qatar.
- Spesa mil. % Pil 2007: 9,20% - Effettivi forze armate (f.a.): 249.000
Bahrein Tensioni con l’Iran per il suo programma nucleare e il sostegno alla maggioranza sciita. Tensioni con gli Stati Uniti in seguito alla repressione della rivolta.
Patto di difesa con gli Stati Uniti. Quartier generale della V flotta americana. A ottobre 2006 è stato il primo paese arabo a partecipare a una esercitazione nel Golfo nell’ambito della Proliferation Security Initiative.
- Spesa mil. % Pil 2007: 3,20% - Effettivi f.a.: 19.460
Emirati Arabi Uniti
Disputa con l’Iran per la sovranità territoriale su tre isolette dello Stretto. Dubai mantiene comunque intense relazioni economiche con l’Iran. Nel 2006 gli Stati Uniti hanno bloccato l’acquisizione da parte di Dubai Ports della gestione di sei importanti porti statunitensi.
Patto di difesa con gli Stati Uniti. Accordo di cooperazione militare con la Gran Bretagna. Patto di cooperazione con la Francia (2009) che include l’apertura di una base militare francese nel proprio territorio. Fornisce supporto alle operazioni anti-pirateria nel Golfo di Aden. Contribuisce alla no fly zone in Libia.
- Spesa mil. % Pil 2007: 5,60% - Effettivi f.a.: 51.000
Kuwait Relazioni molto strette con gli Stati Uniti che garantiscono la sicurezza dell’emirato. Relazioni complesse e altalenanti con Iran e Iraq.
Patto di difesa con gli Stati Uniti. Trattati di difesa con Francia, Gran Bretagna e Russia.
- Spesa mil. % Pil 2007: 3,80% - Effettivi f.a.: 22.600
Oman Mantiene relazioni tradizionalmente buone con le altre monarchie e con l’Iran (con cui controlla lo stretto di Hormuz). Le tensioni degli anni 70 con lo Yemen sono sopite.
Accordi di difesa con la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Tradizionale cooperazione militare con la Gran Bretagna.
- Spesa mil. % Pil 2007: 10,30% - Effettivi f.a.: 47.000
Qatar Forte alleanza con gli USA. Politica estera molto visibile, uso spregiudicato dei media (al-Jazeera), viene considerato l’enfant terrible del Golfo. Mantiene buoni rapporti con l’Iran.
Patto di difesa con gli Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Dal 2003 ospita il Combined Air Operation Center (Caoc) e il quartier generale del US Central Command (Centcom) Contribuisce alla no fly zone in Libia.
- Spesa mil. % Pil 2007: 2.2% - Effettivi f.a.: 11.800
L’effetto contagio delle rivolte scoppiate in Nord Africa all’inizio del 2011 si è esteso anche alle ricche
monarchie del Golfo. La rendita petrolifera e i generosi sistemi di welfare non sono infatti riusciti, come
alcuni pensavano, a rendere questi paesi immuni dalle manifestazioni di protesta, sia di piazza sia su
Internet. Seppure con modalità e intensità diverse, il dissenso nei confronti dei regimi al potere unito a
istanze di aperture politiche si è diffuso in quasi tutti gli stati della penisola arabica. Mentre in Arabia
Saudita lo stretto controllo del regime sulla vita politica del paese unito a un ampio schieramento di
forze di polizia, soprattutto nella capitale a Riyadh, ha prevenuto lo svolgimento di manifestazioni
pubbliche, in particolare nel giorno designato della collera (11 marzo), gravi crisi sono scoppiate in
Yemen e Bahrein con effetti destabilizzanti per l’intera regione. Va da sé che la stabilità dei regimi al
potere nei paesi del Golfo è di fondamentale importanza per la sicurezza dell’Arabia Saudita che per
ragioni politiche, economiche e religiose (è il bastione dell’ortodossia sunnita e il re saudita è il custode
dei luoghi sacri di Mecca e Medina) svolge un ruolo di guida nella regione. Se di fronte alle crisi in
Nord Africa la monarchia saudita ha avuto un atteggiamento oscillante – a favore della volontà popolare
in Tunisia pur accogliendo l’ex presidente Ben Ali in esilio, a sostegno di Mubarak in Egitto contro le
infiltrazioni esterne volte a destabilizzare il paese, allineata alla Lega araba nel chiedere l’imposizione
di una no-fly zone in Libia e alle posizioni del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) nel sostenere
l’illegittimità del regime di Gheddafi e la necessità di avviare contatti con il Consiglio nazionale ad
interim – maggiore fermezza è stata adottata nei confronti delle proteste nel proprio vicinato.
In Yemen – il paese più povero della penisola arabica con il 40% della popolazione (23 milioni) che
vive con 2 dollari al giorno – la monarchia saudita ha tentato di trovare una soluzione alla crisi politica
lanciando attraverso il Ccg, nel quale svolge un ruolo di primo piano, una iniziativa di mediazione per
favorire una transizione pacifica del potere dal presidente Ali Abdullah Saleh a un governo di unità
nazionale ed evitare il crollo dello stato yemenita (si veda la scheda 5). Oltre alla presenza di un
potenziale “failed state” ai suoi confini meridionali, il timore saudita è quello di una diffusione dallo
Yemen – avamposto di al Qaeda – del terrorismo di matrice islamica che negli ultimi anni il regime di
Riyadh è riuscito a sradicare all’interno del paese.
Più ampio e diretto è stato invece il coinvolgimento saudita nel ricomporre la crisi in Bahrein (si veda la
scheda 4) per ragioni sia politiche sia economiche – la famiglia degli al Saud rappresenta il principale
sostenitore finanziario del piccolo regno attraverso la rendita di un giacimento petrolifero comune. La
caduta della monarchia dei Khalifa avrebbe avuto infatti un impatto dirompente non solo a livello
interno, per il carattere settario del paese, ma anche sul piano degli equilibri regionali in quanto avrebbe
potuto spostare il Bahrein dall’orbita di influenza saudita a quella iraniana. Inoltre, si è voluto evitare il
crollo finanziario del paese che avrebbe avuto conseguenze negative anche per le altre monarchie del
Golfo e per il progetto di unione monetaria (si veda scheda 12) .
L’intervento saudita si è concretizzato innanzitutto nell’approvazione – insieme a Emirati Arabi Uniti,
Qatar e Kuwait (gli altri stati ricchi del Ccg) – di un pacchetto di aiuti economici pari a 20 miliardi di
dollari per lo sviluppo nei prossimi dieci anni di progetti infrastrutturali e di edilizia abitativa, con
conseguente creazione di nuova occupazione, in Bahrein e Oman. Agli aiuti economici ha fatto seguito
l’invio, anche in questo caso sotto l’egida del Ccg, di forze militari (1.000 effettivi).
Visto l’ampliarsi dello scenario di crisi in Medio Oriente con lo scoppio delle rivolte in Siria, l’Arabia
Saudita potrebbe estendere il proprio aiuto economico a paesi alleati che, come la Giordania, sono
importanti per gli equilibri regionali ma risultano particolarmente vulnerabili. Ciò che emerge dalla
diffusione delle rivolte nel mondo arabo è un rafforzamento dei legami tra le monarchie del Golfo nel
comune interesse al mantenimento dello status quo nella regione.
PPOOLLIITTIICCAA
33.. LL’’AARRAABBIIAA SSAAUUDDIITTAA DDII FFRROONNTTEE AALLLL’’IINNSSTTAABBIILLIITTÀÀ DDEELL GGOOLLFFOO
Il Bahrein presenta una struttura sociale estremamente complessa dove divisioni politiche e settarie si
intersecano e si sovrappongono. Sul piano politico il paese ha una lunga storia di rivolte politiche – la
società civile locale è tra le più organizzate e attive della regione – che risale al periodo immediatamente
precedente all’indipendenza (ottenuta nel 1971). All’inizio degli anni Settanta vi furono vaste manifestazioni
che spinsero il governo a introdurre una Costituzione nel 1973, sospesa però due anni dopo, mentre le
proteste furono soffocate con la forza.
Le origini della rivolta scoppiata il 14 febbraio, sull’onda degli eventi del Maghreb, si possono far risalire
alla crisi politica dei primi anni del duemila. Nel 1999, il sovrano Hamad al-Khalifa appena salito al trono
aveva promesso di avviare un programma di riforme (il piano d’azione nazionale) che prevedeva la
reintroduzione della Costituzione del 1973. Il piano fu approvato tramite referendum con il 98% delle
preferenze nel 2001, ma un anno dopo il governo varò una versione emendata e più autoritaria della vecchia
Costituzione, senza consultazione referendaria o parlamentare. Se da una parte è stato reintrodotto il
bicameralismo, il potere della camera bassa eletta è stato fortemente subordinato sia alla camera alta
(nominata dal re), che detiene potere di veto, sia all’esecutivo, che mantiene il diritto esclusivo di iniziativa
legislativa. Inoltre, l’opposizione è fortemente limitata: i gruppi politici (formare partiti è illegale) devono
ottenere il permesso dall’esecutivo per poter operare apertamente.
Alle questioni istituzionali si aggiungono le divisioni religiose che complicano ulteriormente i rapporti
politici e sociali: il paese a maggioranza sciita è governato da una monarchia sunnita che fa leva su rapporti
clientelari con la privilegiata minoranza sunnita. Gli sciiti non sono discriminati sul piano prettamente
religioso ma sul piano politico e socio-economico. In primo luogo, i distretti elettorali sono organizzati in
modo tale da assicurare la maggioranza parlamentare alla minoranza sunnita. In secondo luogo, gli sciiti
sono sotto rappresentati nell’amministrazione pubblica e in tutti gli enti controllati dallo stato (che controlla
la maggior parte della vita economica del paese e quindi dell’occupazione nazionale). Inoltre, le politiche di
immigrazione vigenti in Bahrein favoriscono la naturalizzazione di immigranti sunniti, tanto che il governo è
accusato di mirare ad alterare l’equilibrio demografico del paese sfavorendo gli sciiti. Infine, le forze di
sicurezza sono reclutate tra gli immigrati sunniti (siriani, giordani e sauditi), il che rafforza il senso di
alienazione e ostilità della popolazione che le vede più come mercenari che come difensori dell’ordine
pubblico. Le recenti rivolte sono quindi motivate dalla rabbia e dalla frustrazione della popolazione verso un
regime oligarchico e autoreferenziale.
Il regime ha reagito ai disordini con una dura repressione. La brutalità della polizia ha portato le
organizzazioni dell’opposizione a fare fronte comune e a schierarsi con i manifestanti. Messo alle strette, il
regime ha tentato la via delle trattative con l’opposizione legale, che tuttavia riteneva necessarie le
dimissioni del potentissimo primo ministro, Khalifa bin Salman al Khalifa (personaggio chiave sia per il
sistema interno sia per l’alleanza con i sauditi), come primo passo di un processo di cambiamento interno.
Allo stesso tempo le altre monarchie del Golfo hanno fatto pressioni su Manama perché non facesse
concessioni ai manifestanti, temendo che il successo delle rivolte potesse incoraggiare la diffusione delle
proteste a tutta la penisola araba. Dipingendo le proteste come una rivolta sciita sponsorizzata dall’Iran e
scatenata da infiltrati con contatti a Tehran (per quanto non vi siano prove a sostegno di questa tesi), il
governo ha giustificato la repressione.
Nell’ambito degli accordi di sicurezza comune del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), Arabia
Saudita, Emirati Arabi e Kuwait sono intervenuti a sostegno del Bahrein inviando una forza di 2.000 uomini.
Rimane controverso il loro reale impiego: ufficialmente schierati a protezione di siti strategici, non si
esclude che abbiano partecipato alla repressione che ha messo fine alla rivolta.
Nonostante l’apparante stabilizzazione della situazione politica, rimangono molti interrogativi sulla
sostenibilità delle politiche repressive del regime. Se la monarchia non avvierà un processo di riforme, sarà
destinata a fronteggiare nuove rivolte in futuro.
PPOOLLIITTIICCAA
44.. LLAA CCRRIISSII IINN BBAAHHRREEIINN
Lo Yemen è il paese della penisola araba maggiormente colpito dalle rivolte e si trova oggi in uno stato
di forte instabilità e incertezza. Già prima dello scoppio della crisi il paese era teatro di due rivolte,
quella della tribù Huthi nel nord del paese e del movimento secessionista attivo nel sud. A queste si
aggiunge la presenza attiva di cellule terroristiche di al-Qaeda. La cause dell’instabilità hanno le loro
radici nella struttura socio-politica del paese dove a istituzioni statali estremamente deboli e inefficienti
si contrappongono forti legami e tradizioni tribali, clanici e religiosi. Il presidente Alì Abdullah Saleh
(al potere dal 1978) ha infatti governato basandosi su network clientelari e sfruttando le rivalità tribali,
con ciò indebolendo ulteriormente la legittimità e l’efficienza della pubblica amministrazione e delle
istituzioni. La corruzione endemica, lo spreco di risorse pubbliche e l’accumulo di ricchezza da parte
delle clientele presidenziali a scapito dello sviluppo del paese sono tra le cause principali dello
scontento popolare verso il regime.
Gli elementi che hanno scatenato il profondo malcontento popolare: la rimozione a dicembre 2010 del
limite massimo di due mandati presidenziali, permettendo di fatto a Saleh di presentarsi ancora alle
elezioni del 2013, e il successo delle rivolte in Tunisia ed Egitto, che hanno incoraggiato gli yemeniti a
scendere in piazza. Le manifestazioni cominciate a febbraio hanno guadagnato progressivamente
consensi e partecipazione, soprattutto tra gli studenti e i professionisti. La violenta reazione del regime,
nell’inutile tentativo di reprimere le proteste sul nascere, ha avuto l’effetto contrario di rafforzare la
rivolta e di ampliarne il consenso tra la popolazione, provocando anche divisioni all’interno delle
istituzioni statali e tra le tribù e gli esponenti religiosi. Sebbene i clan e le tribù più vicine al presidente
si siano schierati con il regime, non sono mancate le defezioni di esponenti delle istituzioni e di militari
che si sono uniti ai rivoltosi.
In questo contesto, sia l’opposizione interna sia la comunità internazionale si sono adoperate per
superare la situazione di crisi. Da una parte, Stati Uniti e Gran Bretagna hanno fatto pressioni sul regime
perché facesse concessioni ai manifestanti, dall’altra il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) ha
tentato la strada della mediazione proponendo un accordo che prevedeva un periodo di transizione di un
mese durante il quale il presidente avrebbe presieduto un governo di unità nazionale prima di dimettersi.
Tuttavia, i ripetuti tentativi di mediazione sono finora falliti a causa dell’irriducibilità sia del presidente
– nonostante l’atteggiamento più accomodante dell’opposizione parlamentare e dello stesso partito di
Saleh – sia dei manifestanti, che invece richiedevano dimissioni immediate. La diffidenza dei
manifestanti nei confronti della proposta negoziale del Ccg è stata alimentata dalla loro esclusione dalle
trattative. In due occasioni le parti sono state vicine al raggiungimento di un accordo per poi rifiutarsi di
siglarlo all’ultimo minuto.
Una svolta, dagli esiti tuttavia ancora incerti, è stata segnata a inizio giugno dall’attentato al palazzo
presidenziale che ha costretto il presidente Saleh a lasciare il paese per sottoporsi a un intervento
chirurgico d’urgenza in Arabia Saudita. Nonostante uno stato di salute ancora precario, sembra che
Saleh sia intenzionato a non dimettersi e a ritornare in Yemen, anche se le probabilità che ciò avvenga
appaino scarse vista l’opposizione di Arabia Saudita e Stati Uniti a un ripristino dello status quo ante.
L’interesse principale di Ryhad e Washington è di ristabilire in tempi brevi l’ordine nel paese per
evitare che lo Yemen diventi uno stato fallito nelle mani di al-Qaeda. E l’Arabia Saudita è l’unica che
possa esercitare pressioni su Saleh perché si dimetta. Tuttavia, l’attuale situazione di caos – nel paese è
rimasto il figlio del presidente a capo della guardia repubblicana – e il perdurare degli scontri rendono
difficile l’apertura di una fase di transizioni politica che traghetti il paese verso la pacificazione e nuove
e libere elezioni.
PPOOLLIITTIICCAA
55.. LLOO YYEEMMEENN NNEELL CCAAOOSS
La crescita economica dei paesi del Golfo si prospetta positiva anche grazie al fatto che l’area è stata
investita in misura minore dalle rivolte che hanno attraversato i paesi arabi. Fa eccezione il Bahrein che,
teatro negli scorsi mesi di violente manifestazioni di protesta, presenta prospettive di crescita meno
favorevoli. Secondo l’Economist Intelligence Unit, la crescita media dei paesi del Ccg sarà del 6,3% nel
2011 in aumento rispetto al 5,3% del 2010.
Questa è sostenuta, da un lato, dall’aumento del prezzi del petrolio e della produzione e, dall’altro,
dall’incremento della spesa pubblica, soprattutto i sussidi alla popolazione, per sostenere i consumi
interni e prevenire un eventuale “contagio rivoluzionario”. Elevati prezzi del greggio e maggiori livelli
di produzione dovrebbero far aumentare le entrate dei paesi del Ccg provenienti dagli idrocarburi da
362 miliardi di $ nel 2010 a 533 miliardi di $ nel 2011. Ciò consentirà di coprire l’aumento della spesa
pubblica. Considerati il basso debito pubblico medio dei paesi dell’area e le dimensioni delle loro
riserve di valuta estera, i paesi del Ccg sono in grado di sostenere alti livelli di spesa pubblica
nell’immediato futuro.
Tabella crescita economica dei paesi Ccg più Yemen (% pil)
Fonte: dati Economist Intelligence Unit
EECCOONNOOMMIIAA
11.. CCRREESSCCIITTAA EECCOONNOOMMIICCAA
2007 2008 2009 2010 2011 2012
Arabia
Saudita
2,0% 4,2% 0,2% 3,8%b 6,3%c 5,3%
Bahrein 8,4% 6,3% 3,1% 4,6%b 2,9%c 3,3%
EAU 3,2% 3,3% -1,6%b 2,1%b 3,6%c 4,7%
Kuwait 4,4% 8,5% -4,6%b 2,7%b 4,4%c 5,4%
Oman 6,7% 12,8% 1,1% 4,5%b 4,7%c 5,0%
Qatar 17,3%b 11,7%b 9,5%b 14,0%b 15,8%c 5,9%
Yemen 3,5% 3,2% 3,8% 6,,2% -5,5% 4,0%
Grafico 1 - Debito pubblico
Fonte dati: Economist Intelligence Unit
EECCOONNOOMMIIAA
22.. QQUUAADDRROO MMAACCRROOEECCOONNOOMMIICCOO
Tabella 1 – Indicatori macroeconomici Popolazione
(milioni di
persone)
Pil Procapite
(migliaia di US
$)
Pil (miliardi di
US $)
Disoccupazione
(% della forza
lavoro)
Arabia Saudita 26.106 16995,780 443,691 10,476
Bahrein 1,107 20.474,819 22,656 3,8*
EAU 5,055 59716,851 301,880 -
Kuwait 3,606 36.411,998 131,315 1,639
Oman 2,981 18.656,960 55,620 -
Qatar 1,700 76167,849 129,485 - Fonte: Fondo monetario internazionale (Fmi); *stima IIF
Tabella 2 – Indicatori macroeconomici Inflazione (%) Bilancia di conto corrente
(miliardi $)
Bilancia di conto corrente
(%Pil)
2009 2010 2011 2009 2010 2011 2009 2010 2011
Arabia
Saudita 5,057 5,354 6,016 22,795 38,792 114,444 6,058 8,743 19,781
Bahrein 2,785 1,970 3,000 0,564 1,041 3,454 2,919 4,594 13,042
EAU 1,560 0,897 4,486 8,227 23,273 37,703 3,043 7,709 10,363
Kuwait 3,952 4,100 6,128 28,610 41,712 68,084 26,136 31,765 39,405
Oman 3,537 3,256 3,500 -0,281 6,460 9,830 -0,599 11,615 14,883
Qatar -4,865 -2,433 4,232 10,015 24,261 70,181 10,187 18,736 36,125 Fonte: Fmi
Tabella 2 - Interscambio commerciale dell’Ue con i paesi del Ccg più lo Yemen (milioni di euro)
Fonte: dati DG Trade/Eurostat
EU16%
Giappone13%India
10%Cina9%
Stati Uniti8%
Sud Corea
8%
Altri36%
Maggiori patner commerciali del CCG - 2010
EECCOONNOOMMIIAA
33.. IINNTTEERRSSCCAAMMBBIIOO CCOOMMMMEERRCCIIAALLEE CCOONN IITTAALLIIAA EE UUEE
Export var. (%)
Import var. (%)
Saldo
2006 54.792 7,7 35.948 -5,4 18.843
2007 61.479 12,2 31.769 -11,6 29.710
2008 69.020 12,3 37.465 17,9 31.555
2009 57.865 -16,2 22.362 -40,3 35.503
2010 64.709 11,8 33.379 49,3 31.330
Export Import Saldo assoluto
2009 2010 var. % 2009 2010 var. % 2009 2010
Arabia Saudita 19.565 23.007 17,6 11.676 15.950 36,6 7.889 7.057
Bahrein 1.684 1.547 -8,1 420 696 65,8 1.264 851
Eau 25.053 27.709 10,6 3.775 5.724 51,6 21.277 21.985
Kuwait 3.723 4.096 10,0 2.852 3.776 32,4 871 320
Oman 2.522 3.026 20,0 537 498 -7,2 1.985 2.528
Qatar 5.319 5.306 -0,2 3.202 7.782 143,0 2.117 -2.475
Yemen 1.012 1.104 9,0 30 273 812,3 982 830
Tabella 1 - Interscambio commerciale dell’Italia con i paesi del Ccg più lo Yemen (migliaia di
euro) Export Import Saldo assoluto Saldo
normalizzato
%
2009 2010 var.
%
2009 2010 var.
%
2009 2010 2009 2010
Arabia
Saudita
2.443.352 2.674.555 9,5 19.566.830 3.089.874 57,9 4.856.532 -415.320 11,1 -7,2
Bahrein 165.089 142.129 -13,9 36.688 112.413 215,0 129.401 29.716 64,5 11,7
E.A.U. 3.756.037 3.684.565 -1,9 352.573 451.300 28,0 3.403.464 3.233.265 82.8 78,2
Kuwait 626.297 734.211 17,7 75.856 108.435 43,0 550.443 625.776 78,4 74,3
Oman 319.945 307.090 -4,0 41.795 76.612 83,0 278.150 230.478 76,9 60,1
Qatar 1.211.424 939.735 -22,4 331.683 1.499.676 351,0 879.741 -559941 57,0 -23,0
Yemen 114.765 123.996 8,0 5.357 8.375 56,3 109.407 115.621 91,1 87,3
Fonte: dati Ice
Interscambio comm. Dell’Ue con il Ccg (milioni
€)
Dal 2000 a oggi gli investimenti diretti esteri (Ide) delle monarchie del Golfo hanno conosciuto una progressiva
crescita. Come mostrato dalla Tabella 1, se nel 2000 i flussi di Ide in entrata nei paesi del Ccg ammontavano solo
allo 0,03 % del totale mondiale, nel 2009 questa percentuale ha raggiunto il 4,56%. La crescita degli Ide è stata
favorita dal miglioramento delle condizioni interne di investimento, dal boom petrolifero a partire dal 2003 e
soprattutto dalla graduale diversificazione economica in diversi settori dell’industria e dei servizi. Un
significativo incremento si è registrato anche negli Ide in uscita (Tabella 2) passati da 1,69 miliardi $ (pari allo
0,12% del totale mondiale) nel 2000 a 20,32 miliardi $ nel 2009 (pari all’1,85% del totale mondiale). I paesi del
Ccg investono principalmente nel settore dei servizi (immobiliare, turismo, telecomunicazioni, trasporti, servizi
finanziari). Le società statali sono i principali investitori, mentre il ruolo delle società private rimane ancora
limitato.
Tabella 1 – Ccg: Ide flussi in entrata (milioni di dollari)
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2000-09
Bahrain 364 80 217 517 865 1049 2,915 1756 1794 257 16458,92
Kuwait 16 -175 4 -68 24 234 122 123 56 145 817
Oman 83 5 122 494 229 1538 1688 3125 2928 2211 22636
Qatar 252 296 624 625 1199 2500 3500 4700 6700 8722 49513
Saudi Arabia 183 504 453 778 1942 12097 18293 24318 38223 35514 229097
UAE -506 1184 1314 4256 10004 10900 12806 14187 13700 4003 139692
GCC Total 391 1894 2734 6602 14262 28318 39324 48209 63401 50852 461123
% World Total 0.03 0.23 0.44 1.18 1.99 2.91 2.69 2.44 3.74 4.56 3.98
Tabella 2 – Ccg: Ide flussi in uscita (milioni di dollari)
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2000-09
Bahrain 10 216 190 741 1036 1135 980 1669 1620 -1791 5806
Kuwait -303 -242 -78 -5016 2581 5142 8240 10156 8521 8737 37738
Oman -2 55 0 153 250 234 275 243 329 406 1943
Qatar 18 17 -21 88 438 352 127 5263 2400 3772 12454
Saudi Arabia 1550 39 2020 473 78 53 1257 13139 1080 6526 26215
UAE 424 214 413 991 2208 3749 10892 14568 15800 2723 51982
GCC Total 1696 299 2524 -2569 6591 10665 21772 45038 29750 20373 136139
% World Total 0.12 0.04 0.40 -0.46 0.92 1.21 1.56 2.10 1.60 1.85 1.17
Fonte: Unctad
EECCOONNOOMMIIAA
44.. IINNVVEESSTTIIMMEENNTTII DDIIRREETTTTII EESSTTEERRII
I fondi sovrani, una categoria disomogenea di fondi d’investimento di proprietà statale, hanno come obbiettivo
l’amministrazione delle rendite generate dal commercio di materie prime (tendenzialmente paesi africani), in
particolare di idrocarburi (che includono le monarchie del Golfo ma anche fondi occidentali come Norvegia e
Alaska), che hanno accumulato sostanziose riserve di valuta
estera (tra questi spiccano i fondi asiatici di Singapore e
Cina). Esistono pochi dati sulla dimensione e sulle loro
strategie di investimento (come lamentato dallo stesso Fmi),
dovuto in parte alla scarsa trasparenza nella gestione di quei
fondi facenti capo a paesi poco democratici.
I fondi sovrani dei paesi del Golfo sono pensati per la gestione
dei ricavi del commercio di idrocarburi e hanno la funzione di
proteggere le finanze statali dalle debolezze strutturali del
rentier state. La dipendenza delle finanze dei paesi del Golfo
dall’esportazione di materie prime espone i bilanci statali alle
oscillazioni dei prezzi delle materia stesse; i fondi servono ad
accumulare liquidità per far fronte a eventuali abbassamenti
dei prezzi e quindi stabilizzare le disponibilità finanziarie nazionali. Inoltre, i fondi sovrani trasformano risorse
finanziarie non rinnovabili come le materie prime in asset rinnovabili, investendo in altri settori economici sia nel
mercato domestico sia all’estero. Per questo motivo le strategie di investimento dei fondi sovrani sono state
piuttosto conservatrici, almeno fino al 2005, prediligendo operazioni che garantissero ritorni a lungo termine. Dal
2005 si è registrato un cambio di strategia, prediligendo i mercati finanziari occidentali e soprattutto europei.
Verso la fine del 2007 e l’inizio del 2008 fondi sovrani asiatici e arabi hanno acquistato azioni di istituzioni
finanziarie americane e europee rispettivamente per un valore totale stimato intorno ai 90 miliardi di dollari. La
crisi finanziaria ha però segnato un nuovo cambio di strategia, a parte i bail-out degli istituti finanziari nazionali
(Qia del Qatar, per esempio ha investito 22,7 milioni di dollari nella banca Commerciale del Qatar), i fondi hanno
cominciato a diversificare gli investimenti. Dal 2009 l’obiettivo è diventato la diversificazione, investendo
nell’industria e nel settore alberghiero e immobiliare. Per esempio il Qia, detentore di sostanziose quote di
Barclays e Credit Suisse, ha spostato il suo interesse verso il settore industriale (Volkswagen, Vinci, Hochtief),
ma anche Veolia e Harrods. Nel 2010, secondo il Think Tank specializzato Swf Monitor, l’unico investimento
significativo in un istituto finanziario in Europa è stata l’acquisizione del 4,99% delle azioni di Unicredit da parte
di Acabar Investments, sussidiaria di Ipic (Eau). La stessa IPIC, sempre tramite Acabar, dal 2008 in poi ha
acquisito pacchetti azionari di Daimler, Man Ferrostaal e dell’italiana Atlantia. Di particolare interesse per i fondi
sovrani sono il settore aereo-spaziale e, più recentemente, l’industria della difesa: Mubadala ha stabilito joint
venture con EADS, Finmeccanica, Rolls Royce e l’americana Boeing.
La crisi finanziaria ha contribuito a dissipare la tradizionale diffidenza europea e americana per i fondi sovrani.
L’urgente necessità di liquidità dovuto allo scoppio della bolla finanziaria ha reso i mercati europei meglio
disposti verso gli investimenti dei paesi del Golfo. Secondo il Fmi, i fondi sovrani hanno avuto una funzione
stabilizzante durante la crisi. Infatti, fondi sovrani medio orientali e asiatici hanno provveduto a iniettare
sostanziose quantità di capitali nel mercato finanziario per un totale stimato dal Fmi che supera i 35 miliardi di
dollari. Tuttavia, sono state messe in discussione la volontà e la capacità dei fondi d’investimento del Golfo di
continuare a investire nelle economie occidentali. Da una parte, la disponibilità finanziaria dei fondi arabi si è
ridotta negli ultimi anni. La caduta del prezzo del petrolio, la necessità di salvare le banche nazionali e le perdite
subite in Europa sono state un duro colpo anche per gli stati del Golfo. Deutsche Bank sostiene che, in media, i
pacchetti azionari dei fondi sovrani hanno perso il 45% del loro valore tra il 2007 e il 2009, con le perdite
generali, includendo altri asset, intorno al 18% in totale. Dall’altra, la “primavera araba” ha incoraggiato ad
aumentare la spesa pubblica (sotto forma di sussidi, aumenti salariali e investimenti) per contrastare il dissenso
interno. Per esempio l’Arabia Saudita a marzo ha messo a disposizione 130 miliardi di dollari (1/3 del Pil
nazionale) per il welfare nazionale. Queste politiche potrebbero avere conseguenze negative per le disponibilità
finanziarie dei fondi. Oltre al rallentamento dell’accumulo di ricchezza, tale aumento della spesa pubblica
potrebbe portare a livelli critici l’inflazione, già strutturalmente alta nei rentier state. Secondo Swf Monitor,
questo avrebbe conseguenze negative sul rating di credito, colpendo le casse statali.
EECCOONNOOMMIIAA
55.. FFOONNDDII SSOOVVRRAANNII
37%
36%
20%
3% 4%
Distribuzione geografica fondi sovrani
Medio Oriente
Asia Orientale
Europa e Asia CentraleAfrica
Americhe
Fonte: SWF, Corner House Briefing 38, 2008
EECCOONNOOMMIIAA
66.. RRIISSOORRSSEE EENNEERRGGEETTIICCHHEE
Nella regione del Golfo si concentrano il 35,8% delle riserve mondiali di petrolio e il 23,2% delle riserve di gas.
Per quanto riguarda il greggio, le riserve conosciute più cospicue sono quelle dell’Arabia Saudita – 264,5 Gb
pari al 19% del totale mondiale – che è il principale produttore al mondo: 10.007 Mb/d pari al 12% del totale.
Seguono gli EAU e il Kuwait che nel 2010 hanno raggiunto un livello di produzione rispettivamente di 2.849
Mb/d (3,3%) e a 2.508 Mb/d (3,1%), con riserve pari al 7,1% (97,8 Gb) e al 7,3% (101,5 Gb) del totale mondiale.
In coda il Qatar con una produzione di 1.565 Mb/d e l’Oman 865 Mb/d nel 2010.
Negli ultimi anni le esportazioni del petrolio del Golfo, in particolare quelle saudite, si sono spostate verso i paesi
asiatici – che oggi ne sono i principali importatori – mentre solo una piccola quota è diretta verso l’Europa. La
leadership nella produzione mondiale di greggio ha storicamente consentito all’Arabia Saudita di influire sulle
decisioni dell’Opec relative ai livelli di produttività. Tuttavia, nell’ultimo incontro dei paesi Opec svoltosi la
proposta saudita di incrementare la produzione per contrastare il continuo aumento del prezzo ha incontrato
l’opposizione di Venezuela e Iran. Nonostante le resistenze interne all’Opec, i paesi del Ccg hanno dichiarato che
aumenteranno la loro produzione.
Tabella 1 - Riserva e Produzione di petrolio e gas naturale nei paesi del Ccg
2010
Petrolio Gas Naturale
Riserve Produzione Ratio
R/P Riserve Produzione
Ratio
R/P
(Gb) % (Mb/d) % (anni) (Gmc) % (Gmc/a) % (anni) Arabia Saudita
264,5 19,1% 10.007 12,0% 72.4 8.000 4,3% 83,9 2,6% 95.5
Bahrain - - - - - 200 0,1% 13,1 0,4% 16.7
E.A.U. 97,8 7,1% 2.849 3,3% 94.1 6.000 3,2% 51,0 1,6% *
Kuwait 101,5 7,3% 2.508 3,1% * 1.800 1,7% 11,6 0,4% *
Oman 5,5 0,4% 865 1,1% 17.4 700 0,4% 27,1 0,8% 25.5
Qatar 25,9 1,9% 1.569 1,7% 45.2 25.300 13,5% 116,7 3,6% *
Totale 384,5 35,8% 17.798 21,2% 42.000 23,2% 303,4 9,0% Fonte: 2010 BP Statistical Review of World Energy June 2011; Gb= miliardi di barili; Mb/d= migliaia di barili al giorno; Gmc= miliardo
di metri cubi; *= più di cent’anni; % sul totale mondiale.
Per quanto riguarda il gas naturale, il Qatar è il primo produttore dell’area Ccg: 116,7 Gmc/a pari al 3,6% della
produzione mondiale nel 2010. Le esportazioni di gas del Qatar sono dirette principalmente verso gli Eau, la cui
produzione non riesce a soddisfare l’elevato fabbisogno interno, l’Europa (tra cui l’Italia che nel 2010 ne ha
acquistato il 6,5%) e le economie avanzate dell’Asia (India, Giappone e Corea del Sud). La produzione saudita
(83,9 Gmc/a) per quanto consistente, è appena sufficiente a coprire il fabbisogno domestico.
Grafico 1 - Maggiori importatori di petrolio
Saudita
Fonte: 2010 BP, Country Profile
Estremo Oriente
57%
Europa4%
Meditteraneo5%
Stati Uniti14%
Altri20%
Grafico 2 - Principali paesi importatori di
gas naturale dal Qatar
Fonte: 2010 BP Statistical Review of World Energy June
2011
EAU; 18,30%
Regno Unito;
14,60%
India; 11,10%
Giappone;
10,70%
Sud Corea; 10,70%
Italia; 6,50%
Belgio; 6,10%
Spagna; 5,80%
Altri; 16,40%
AAPPPPRROOFFOONNDDIIMMEENNTTOO
11.. IILL CCOONNSSIIGGLLIIOO DDII CCOOOOPPEERRAAZZIIOONNEE DDEELL GGOOLLFFOO EE LL’’UUNNIIOONNEE
MMOONNEETTAARRIIAA
Il Consiglio di cooperazione del Golfo si è costituito nel 1981 quando le sei monarchie della penisola arabica
decisero di istituzionalizzare la loro cooperazione in materia politica e di sicurezza in seguito agli avvenimenti
che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta – il trattato di pace tra Egitto e Israele, la
rivoluzione in Iran, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la guerra tra Iran e Iraq – mutarono la geopolitica
regionale e le percezioni di sicurezza nell’area del Golfo.
Allo scopo di aggiungere una dimensione economica alla cooperazione politica e di sicurezza, gli stati membri
firmarono un accordo, entrato in vigore nel 1983, che fissava l’obiettivo di creare un’unione doganale come
prima tappa verso la realizzazione di un mercato comune e l’adozione di una moneta unica. L’accordo stabiliva
innanzitutto l’abolizione delle tariffe sui beni prodotti dagli stati membri e fissava un livello minimo e massimo
(rispettivamente, 4% e 20%) per le tariffe da applicare sulle importazioni provenienti dai paesi terzi. Tuttavia, lo
smantellamento tariffario all’interno della regione non ha favorito un incremento degli scambi commerciali tra i
paesi membri, a causa della scarsa complementarità delle economie del Ccg, caratterizzate da una struttura
produttiva (fondata sugli idrocarburi) assai simile. Proprio per questo motivo la cooperazione economica tra le sei
monarchie del Golfo, più che a sviluppare i flussi commerciali regionali, punta ad assumere posizioni comuni
nelle trattative economiche internazionali, aumentando in tal modo il peso negoziale degli stati membri.
L’unione doganale, entrata in vigore a gennaio 2003, ha rappresentato un passaggio di grande importanza dopo
quasi due decenni di continui rinvii dovuti principalmente alle notevoli differenze tariffarie tra gli stati membri.
Essa è stata seguita dalla creazione del mercato comune nel 2008. Invece l’unione monetaria, prevista per il 2010,
non è stata ancora realizzata, sebbene la maggior parte dei criteri di convergenza richiesti siano stati soddisfatti
dai paesi membri (si veda Tab. 1). Questi criteri, che ricordano quelli stabiliti dall’unione europei, sono: 1) deficit
di bilancio al di sotto del 3% del Pil (o 5% quando il prezzo del petrolio è basso); 2) rapporto debito pubblico/Pil
al di sotto del 60%; 3) eccedenze di riserve di valuta estera; 4) tassi di interesse non superiori del 2% della media
dei tre paesi con i tassi di interesse più bassi; 5) inflazione non deve essere superiore di più del 2% del tasso
medio dei sei stati.
Una battuta d’arresto nel processo di convergenza monetaria è stata segnata nel 2007 dall’annuncio del Kuwait di
abbandonare l’ancoraggio della propria moneta al dollaro per sostituirlo a un paniere di valute cui ha fatto seguito
la decisione di Oman e Emirati Arabi Uniti di non voler entrare nell’Unione monetaria. Oltre a ciò, le questioni
chiave da affrontare per fare ripartire includono la necessità di una struttura istituzionale e di governante che
assicuri la presa di decisioni monetarie trasparenti ed efficaci, il miglioramento della capacità dei paesi del Ccg
nel fornire dati finanziari ed economici armonizzati e aggiornati e infine maggiori investimenti nello sviluppo di
infrastrutture finanziarie. L’adozione dell’unione monetaria e di una moneta unica, se attuata, avrebbe importanti
benefici tra cui l’eliminazione dei costi di transazione e dei rischi di cambio, un maggiore peso negoziale nei
contesti internazionali, l’incremento dell’interscambio tra gli stati membri in vista anche dei piani di
diversificazione economica, miglioramento delle prospettive di investimento, ecc.
Fonte: KAMCO Research, GCC Monetary Union (GMU). Are GCC Countries Ready for a Monetary Union?, April 2011, p.
2.
AAPPPPRROOFFOONNDDIIMMEENNTTOO
22.. LLEE RREELLAAZZIIOONNII TTRRAA LL’’UUNNIIOONNEE EEUURROOPPEEAA EE IILL CCCCGG
Il dialogo tra l’Unione europea (Ue) e il Consiglio di cooperazione del Golfo è iniziato alla metà degli
anni Ottanta sotto la spinta dei rispettivi interessi economici ed è sfociato nella firma dell’accordo di
cooperazione economica del 1989. L’accordo, all’interno di obiettivi assai ambiziosi come il
rafforzamento della stabilità in una zona del mondo di importanza strategica, indicava come obiettivo
iniziale il miglioramento delle relazioni commerciali, e in particolare il raggiungimento di un accordo di
libero scambio. Il successivo mandato negoziale europeo, approvato nel 1991, poneva l’unione
doganale tra i paesi del Ccg come condicio sine qua non per avviare i negoziati per il libero scambio.
In generale, le relazioni economiche tra la Ue e il Ccg sono state caratterizzate da un dialogo altalenante
che, a partire dal 1992, si è svolto nell’ambito di tre gruppi di lavoro riguardanti l’energia, l’ambiente e
l’industria. Questi si sono aggiunti alla sessione annuale del Joint Council – riunito a livello di ministri
degli esteri o più spesso di alti funzionari – che, inizialmente creato per promuovere la cooperazione
economica e commerciale, è divenuto anche sede di dialogo su questioni politiche, esclusivamente di
carattere regionale e internazionale e non attinenti a problematiche interne agli stati del Ccg. I risultati
modesti finora raggiunti riflettono in primo luogo i limiti di una cooperazione che ha poco peso nel
settore più significativo, l’energia, dove né la Ue né il Ccg hanno una forte voce in capitolo. Tutte le
principali decisioni in materia rientrano infatti nell’ambito della sovranità nazionale, aspetto
particolarmente significativo per i paesi del Ccg, alcuni dei quali hanno un ruolo chiave nel mercato
petrolifero internazionale (si veda scheda 11).
Ma anche sul piano delle relazioni commerciali, la cooperazione Ue-Ccg ha inizialmente stentato a
decollare. Una crescita degli scambi si è registrata soltanto a partire dal 2001. Parallelamente al rilancio
dell’unione doganale da parte del Ccg, l’Ue ha approvato nel 2001 un nuovo mandato negoziale che non
è più – come il precedente – incentrato sul solo interscambio commerciale, ma riguarda anche la
liberalizzazione del commercio di servizi, la proprietà intellettuale, la concorrenza, gli appalti pubblici,
la cooperazione doganale e le barriere non tariffarie al commercio. Se il Ccg ambisce soprattutto alla
riduzione delle tariffe europee sulle sue esportazioni di prodotti petrolchimici, l’Ue dal canto suo è
interessata a un abbattimento tariffario sulle sue esportazioni industriali (in parte già ottenuto grazie al
basso livello della tariffa esterna concordata dal Ccg per l’unione doganale) e soprattutto alle
prospettive offerte dal settore dei servizi, che con l’ingresso dei paesi del Ccg nel Wto, si è
progressivamente aperto all’esterno.
Il Ccg nel suo insieme è il quinto mercato per le esportazioni dell’Unione europea, assorbendo il 4,8%
delle esportazioni totali della Ue e fornendo il 2,3% delle importazioni totali della Ue (dati 2010). La Ue
a sua volta rappresenta il secondo partner commerciale del Ccg dopo il Giappone. Nel 2010 le
esportazioni della Ue verso il Ccg ammontavano a 64,7 miliardi di euro mentre le importazioni erano
pari a più di 33,3 miliardi di euro. Le esportazioni europee sono abbastanza diversificate; la parte
prevalente riguarda macchinari e mezzi di trasporto (49,9%), mentre le importazioni della Ue sono
costituite principalmente da risorse energetiche (73,4%, 2009).
Dopo l’entrata in vigore dell’unione doganale tra i paesi del Ccg nel gennaio del 2003 era sembrato che
un accordo di libero scambio potesse essere raggiunto in tempi relativamente brevi. Contrariamente alle
aspettative, la questione è ancora sul tavolo negoziale.
AAPPPPRROOFFOONNDDIIMMEENNTTOO
33.. LLEE RREELLAAZZIIOONNII CCOONN GGLLII SSTTAATTII UUNNIITTII
Gli Stati Uniti sono il principale alleato esterno e garante della sicurezza dei paesi del Ccg. In virtù
dell’importanza strategica della regione del Golfo, tanto per i collegamenti tra l’Oceano Indiano e
l’Atlantico attraverso il Mediterraneo quanto perché in essa si concentra buona parte delle riserve mondiali
di idrocarburi, la stabilità dell’area è cruciale per Washington. Stati Uniti e paesi del Ccg sono legati da
accordi di difesa che, oltre a prevedere addestramento e forniture militari, consentono agli americani di
dislocare basi negli stati della penisola arabica. Manama, capitale del Bahrein, è sede del comando della V
flotta americana. Tra l’altro nel 2002 proprio il Bahrein è stato designato come “più importante alleato”
americano al di fuori della Nato. Stesso titolo è stato in seguito attribuito anche a Eau, Kuwait e Qatar.
Quest’ultimo ha assunto un ruolo sempre più importante nella strategia statunitense verso l’area da quando
le basi militari dislocate sul suo territorio sono state utilizzate per la conduzione delle operazioni in Iraq
(dalla primavera del 2003) sostituendosi a quelle dell’Arabia Saudita, fino ad allora alleato privilegiato
nell’area.
Dopo gli attentati dell’11 settembre (la maggior parte degli attentatori era di origine saudita) e l’invasione
anglo-americana dell’Iraq le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita hanno infatti subito un deterioramento.
L’instabilità irachena seguita al crollo del regime di Saddam Hussein e l’ascesa degli sciiti al governo in Iraq
hanno destato notevole preoccupazione nella monarchia saudita per il venire meno del contrappeso iracheno,
da un lato, e per il rafforzamento dell’Iran a livello regionale, dall’altro. Il disaccordo saudita sulla politica
dell’amministrazione Bush verso l’area del Golfo ha avuto inevitabili ricadute a livello bilaterale. Sul piano
militare, i sauditi hanno interrotto il monopolio americano sui rifornimenti alle loro forze armate, stipulando
accordi con compagnie europee, russe e cinesi per l’acquisto di armi e veicoli. Sul piano economico, la
Saudi Aramco ha preferito stringere accordi con società cinesi, russe ed europee per condurre nuove
esplorazioni (soprattutto di giacimenti di gas), abbandonando i negoziati (in fase di stallo) con compagnie
americane. Grazie alla politica più distensiva del presidente Obama, le relazioni tra Stati Uniti e Arabia
Saudita sono recentemente migliorate. In particolare, Riyadh ha apprezzato il tentativo di apertura verso
Tehran sulla questione del programma nucleare iraniano: i sauditi sono infatti contrari a eventuali attacchi
preventivi agli impianti iraniani, per timore tra l’altro di essere oggetto di rappresaglie.
Oltre alla cooperazione
strategica e militare, di
rilievo nelle relazioni tra
Stati Uniti e Ccg è la
dimensione economica.
Nell’ambito della Middle
East Free Trade Initiative,
lanciata da Washington a
maggio del 2003, gli Stati
Uniti hanno firmato un
accordo di libero scambio
con il Bahrein nel 2004
(entrato in vigore ad agosto
del 2006) e con l’Oman nel 2006 (in vigore dal gennaio 2009). I negoziati iniziati con gli Eau nel 2004 non
sono stati invece portati avanti. Ciò ha favorito un incremento dell’interscambio commerciale. Agli accordi
di libero scambio se ne sono aggiunti degli altri in materia di investimenti con tutti i paesi del Ccg, a
eccezione dell’Oman. Nel periodo tra il 2003 e il 2008 gli Stati Uniti sono stati il primo destinatario degli
Ide provenienti dai paesi del Ccg: 450 miliardi di dollari, cioè il 49% del totale degli investimenti in uscita.
Nel corso degli anni le relazioni tra Stati Uniti e paesi del Golfo hanno conosciuto anche difficoltà e
tensioni. Ciò nonostante i rapporti con l’alleato americano difficilmente sono stati messi in discussione e la
patnership strategica rimane un pilastro della politica estera dei paesi del Golfo.
Tabella 1 – Interscambio commerciale degli Stati Uniti con i paesi del Ccg
(milioni di dollari) 2010 Export % totale
export
Import % totale
import
Saldo Imp./Exp.
Arabia S. 11.556,3 0,90% 31.412,8 1,62% -19.856,5 42.969,1
Bahrain 1.249,6 0,10% 420,3 0,22% 829,3 1.669,9
Eau 11.673,4 0,91% 1.145,4 0,06% 10.528,1 12.818,8
Kuwait 2.774,1 0,22% 5.382,0 0,28% -2.607,9 8.156,1
Oman 1.105,0 0,09% 773,3 0,40% 331,6 1.878,3
Qatar 3.159,7 0,25% 466,4 0,24% 2.693,4 3.626,1
Totale 31.518,10 2,47 39.600,20 2,82% -8.082,1 71.118,30 Fonte: dati Economics Statistics Administration, US Department of Commerce