Livio Maitan Anticapitalismo e comunismo potenzialità e antinomie di una rifondazione 1992

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Livio Maitan ANTICAPITALISMO E COMUNISMO potenzialità e antinomie di una rifondazione ~ CUEN

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Communism

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Livio Maitan

ANTICAPITALISMO E COMUNISMOpotenzialità e antinomie di una rifondazione

~CUEN

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@ CUEN 1992

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INDICE

Introduzione 7

PARTE PRIMA

Cento anni dopo 11

Un bilancio essenziale Il

Validità e limiti delle conquiste parziali 14Tre fattori convergenti 15

"Crisi del comunismo?" 19

Una messa a punto necessaria 19Bilancio sintetico della socialdemocrazia 22

Il capitalismo oggi: mistificazioni e realtà 29

Le potenzialità non valorizzate 30Il profitto resta la molla essenziale 32Quali mutamentinella composizionesociale? 35Tendenze in Italia ...41

È possibile un rilancio globale del capitalismo? : 43

PARTE SECONDA

Difficoltà e contraddizioni dell'impresa rifondatrice 55

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Contraddizioni internazionali 59

Internazionalizzazione,grandi aree economichee conflittualità mondiale. 60

Socialismo: insopprimibiledimensione sovrannazionale 64

Quale modo di produzione? 69

"Economicismo"e "statalismo" 69

Quale alternativa? 71Essenzialità della democraziasocialista 74

Quale strategia anticapitalista? 77

Difficoltà e contraddizioni 77

Una strategiamai sperimentata ..: 79Qualche ipotesi di orientamento 81

Difficoltà e necessità di una ricomposizione 89

Scomposizionee frammentazione : 89Un problema politico centrale 91Con quale "materiale" rifondare? 93

Un nodo centrale: la democrazia operaia 97

Democrazia negata 97Significative esperienzestoriche 100Linee di un rinnovamento 107

D nuovo sfondo: la minaccia alla vita sul pianeta II 1

Evoluzionismopositivistico e critica materialista 111Il grido ~ Walter Benjamin 113L'imperativo: invertire la tendenza 116

Appendice 119

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Introduzione

Il punto di partenza per una riflessione sulle potenzialità e sulleantinomie di una rifondazione comunista non può che essere una lucidapresa di coscienza del momento storico in cui stiamo'vivendo, specialmen-te da alcuni anni a questa parte.

Autori di interessi e orientamenti diversi usano concetti come "crisi

del comunismo", "crisi del marxismo" o più in generale, "crisi delleideologie". Per parte nostra, riteniamo che sia più corretto parlare da unlato di crisi del movimento operaio, dall'altro di crisi di civiltà. Le duecose sono ovviamente legate, almeno per chi continua a considerare validoil metodo e l'analisi di fondo definiti da Marx e il progetto alternativo disocietà che ne deriva. Proprio perché il movimento operaio ha registratosinora insuccessi e fallimenti nel raggiungimento del suo fine storico, cioèla costruzione di una nuova società sorta dal rovesciamento della societàesistente, le società umane e la loro civiltà sono immerse in una crisicomplessiva i cui elementi costitutivi sono in misura crescente percepitianche a livello di massa. In ultima analisi, è questa crisi ch~ è alle radicidelle tendenze centrifughe che si moltiplicano, del nuovo sonno dellaragione non meno allarmante dei precedenti, dell' angoscia sotterranea chesi rifrange nei comportamenti e nelle ideologie di movimenti sociali epolitici che si diffondono in varie regioni del mondo.

Questa schematica evocazione del contesto in cui dobbiamo operare,non intende suggerire prospettive crepuscolari, suscettibili di accrescerelo smarrimento e il pessimismo già largamente diffusi anche nelle file dicoloro che sono rimasti sulla breccia. L'essenziale è comprendere l'im-

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mensità e al tempo stesso, storicamente parlando, l'urgenza dei compiti dianalisi e di generalizzazione e, a maggior ragione, di azione di tutti coloroche vogliono partecipare all'impresa della rifondazione comunista. Èassimilare pienamente t'idea che questa impresa deve porsi in termini nondi continuità, ma di rottura. Questo non solo perché un'impostazionecontinuistica impedirebbe di trarre tutte le lezioni degli errori e dellecontraddizioni del passato, ma anche e soprattutto perché dobbiamo agirein un contesto che è radicalmente diverso da quello di settanta, cinquantao anche quindici anni or sono e che è destinato a mutare forse ancor piùprofondamente.

L'inizio di una nuova fase del movimento operaio e comunista e laricostruzione di una prospettiva di edificazione socialista e, in ultimaanalisi, di una nuova città, non possono essere che il risultato di un enormelavoro collettivo, di ampio respiro, multidisciplinare nella misura in cuiesistono nessi sempre più stretti tra condizioni fisico-ambientali e condi-zioni socio-politiche di riorganizzazione, se non semplicemente di soprav-vivenza, della comunità umana. Questo saggio non può avere che un fineincomparabilmente più modesto, quello di contribuire alla individuazionedelle potenzialità effettivamente esistenti e delle contraddizioni di unarifondazione comunista e di un rilancio del movimento operaio in questafase, in Italia in particolare.

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Capitolo primo

CENTO ANNI DOPO

Il 1992 è un anno di scadenze e di anniversari. E ricorre un anniversarioche dovrebbe interessarci più direttamente: nell' agosto 1892 nasceva aGenova il Partito dei lavoratori italiani che avrebbe assuQto l'anno suc-cessivo il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani e nel 1895 quelloclassico di Partito socialista. Di organizzazioni operaie ne erano esistitein Italia anche prima di quella data. Ma ciò non sminuisce il valorestorico-simbolico del congresso genovese. In buona sostanza, la fondazio-ne del nuovo partito segnava l'affermazione esplicita dell' autonomiapolitica della classe operaia e del suo movimento organizzato.

Un bilancio essenziale

Ebbene, per dare un'idea della situazione in cui ci troviamo oggi, acento anni di distanz'l, suggeriamo una semplice, ma fondamentalecon-statazione: a parte filoni o correnti, incontestabilmenteminoritari - rap-presentati essenzialmente da quanti sono confluiti nel Partito dellarifondazione comunista, da ristretti settori del Partito democratico dellasinistra e dal gruppo politico-culturale de "il Manifesto" -, la nozionestessa di autonomiapolitica del movimentooperaio è non solo rimessa indiscussione,ma negata, più o meno esplicitamente,e comunquesvuotatadi ogni contenuto.

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Qualche esempio significativo tratto da documenti di commemorazio-ne del centenario comparsi sino ad ora (a nostra conoscenza, abbastanzascarsi).

Uno dei più noti storici del PSI, Giuseppe Tamburrano ha scritto in undossier pubblicato da "l'Unità" (26, 28 e 31 gennaio e 4 febbraio):"Il PSI celebra i suoi cento anni per ragioni solamente anagrafi che, didiscendenza simbolica: niente di più. A ben vedere, vi è maggiore comu-nanza storica tra il PLI e Cavour, e tra il PRI e Mazzini che tra il PSI eTurati" .

Apprezziamo la franchezza e condividiamo la sostanza del giudizio.Effettivamente, il PLI rispetto a Cavour e il PRI rispetto a Mazzini possonorivendicare, sia pure non senza forzature, una continuità storica, mentredifficilmente l'odierno PSI potrebbe fare lo stesso per quanto riguardal'ispirazione ideologica e la rappresentanza di interessi di classe del suoantenato del 1892. Del resto, Tamburrano aggiunge che esiste rottura dicontinuità "non perché Craxi abbia «tradito» il riformismo, ma perché quelriformismo, ormai attuato il suo «programma minimo», non ha più gran-ché da dire oggi. E nel suo «programma massimo» -il quale era tout courtil socialismo - nessuno si riconosce più".

Si potrebbe far notare che il «programma minimo», che, secondoTamburrano,sarebbe stato realizzato,cioè certe conquisteparziali,hannosubito ormai una prolungata usura, grazie anche all'azione di governi dicui il PSI è stato magna parso Ma ci interessa più sottolineare comeTamburranoabbandoni esplicitamentel'obiettivo storico della creazionedi una societàsocialista,sopprimendocon ciò stesso l'esigenza dell' auto-nomiapoliticad~1movimentooperaio.La sua conclusione,del resto, è, sepossibile, ancor più chiara:"Il socialismo dell'Europa continentale è nato marxista, cioè sulla basedell'idea che la classe operaia e le sue istituzioni politiche e sindacaliavrebbero espropriato - con la democrazia (socialisti) e con la violenza(comunisti)-il capitalismo e realizzato la società di liberi e uguali: centoanni dopo, nei partiti di sinistra e nei loro documenti non si trova tracciané di classismo né di marxismo, non si incontra quasi mai il nome delpadre fondatore".

Tutto questo è senz'altro vero per il PSI, ma vale anche per il PDS. Inultima analisi, il senso della formazione di questo nuovo partito va proprioin questa direzione, non solo in pratica, ma anche sul piano ideologico.

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Valga la definizione che Occhetto stesso ha dato della sua prospettiva nelcorso del dibattito prima del congresso di Rimini:"Non si tratta di contrapporsi tra antidemocristiani e anticomunisti, comenon ha senso essere antisocialisti... L'alternativa implica che una ricollo-cazione strategica di tutte le forze di progresso e le differenzi azioni traconservatori, moderati e riformisti sono destinate ad attraversare gli attualischieramenti e a dar vita a inedite aggregazioni di maggioranza e a nuoveaggregazioni di opposizione e, noi pensiamo, a nuove forze politiche". Il«modello», che si vorrebbe stimolare, anche con una riforma elettorale, èquello di una contrapposizione, se non rigorosamente bipartitica, di dueschieramenti, da una parte i progressisti, dall'altra i conservatori. Lospartiacque sociale, di classe, viene così diluito sino a scomparire. Chepoi, nel corso di una campagna elettorale, per non perdere voti, ci si ricordia volte dell'esistenza di una classe lavoratrice, non cambia minimamentela sostanza delle cose.

Del resto, il dossier de "l'Unità" contiene anche un'intervista conRenato Zangheri. L'intervistato, dopo aver giustamente ricordato chel'apporto di Antonio Labriola è consistito soprattutto nella rivendicazione"con rigore" dell"'autonomia politica (del movimento operaio) rispettoalle correnti borghesi", traccia un quadro sintetico della parabola delPartito socialista sino all'avvento del fascismo e della storia dello stessoPartito comunista per arrivare a porsi la domanda: "quale può essere nelmondo attuale una prospettiva di concreta emancipazione umana?". E larisposta, pur essendo meno netta di quella di Tamburrano, va nella stessadirezione: "Come minimo (sic!) andrebbe detto che il socialismo variesaminato e che esso non coincide più con l'immagine che ne avevano iriformisti, i massimalisti e i comunisti. Quello della collettivizzazione edella socializzazione dei mezzi di produzione è divenuto ormai un mitoimpraticabile... Non è chiusa l'aspirazione a una società socialmentegiusta. Certo questa aspirazione vive dentro la pratica graduali sta e demo-cratica delle socialdemocrazie, tuttavia non si lascia delimitare da essa...Quel che mi pare limitato, insufficiente è l'ancoraggio di classe; come levapur necessaria all'emancipazione". Detto altrimenti, anche in Zangheric'è, da un lato, l'estrema relativizzazione dell"'ancoraggio di classe",dall' altro, la rinuncia all'obiettivo storico-strategico di una nuova società,fondamentalmente diversa dalla società esistente!.

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Validità e limiti delle conquiste parziali

Il bilancio sintetico che si impone a un secolo dalla nascita del movi-mento operaio in Italia non implica affatto un giudizio sistematicamentenegativo, come se nulla fosse stato realizzato e cento anni fossero trascorsiinvano.

Sarebbe ovviamente assurdo ignorare o sottovalutare la portata delleconquiste che le organizzazioni operaie sono riuscite a strappare, non soloin Europa occidentale: conquiste economiche, sociali, politiche e culturali,importanti intrinsecamente e forse ancora di più per la maturazione dellecoscienze che hanno stimolato. In diversi periodi e in diversi paesi, nellefasi più mature, larghi strati di proletariato e di masse popolari non solohanno migliorato le loro condizioni materiali, ottenuto diritti politici e unaserie di garanzie sociali, ma hanno egualmente potuto costruire un tessutosocio-politico e culturale parzialmente alternativo, con un complesso diorganizzazioni di fabbrica, di quartiere, di associazioni di vario genere cheal tempo stesso sono divenute parte integrante della vita quotidiana ehanno rafforzato la consapevolezza dei lavoratori di essere una classedistinta dalle classi dominanti e fatto apparire più concreta la prospettivadi una nuova società. Uno degli aspetti del regresso della fase attuale èappunto il deperimento, se non la pura e semplice scomparsa, di questerealtà.

Al di là delle ragioni generali o specifiche di un tale riflusso, ciòrappresenta un'ulteriore conferma di una lezione elementare di tutta lastoria del movimento operaio: per importanti che siano, le conquisteparziali non sono conseguite una volta per tutte, al contrario, sono sotto-poste a una usura inevitabile e, a determinate scadenze, sono rimesse,parzialmente o radicalmente, in discussione. Si possono fare a questoproposito esempi innumerevoli, che, proprio per tutte le loro particolarità,rivelano una tendenza generale.

Pensiamo al fatto traumatico della prima guerra mondiale, che haributtato indietro di decenni la classe operaia e tutte le sue organizzazioni,in primo luogo in paesi come la Germania, dove più imponente era statal'accumulazione di forze; alla devastazione delle acquisizioni e del patri-monio del movimento operaio provocata dall' avvento del fascismo e delnazismo e di altre dittature di vario tipo in paesi balcanici e nell'Europaorientale, per non parlare dei casi più noti d~l Portogallo e della Spagna;

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alle tragedie sofferte durante la seconda guerra mondiale che, ancor piùdella prima, ha fatto tabula rasa delle conquiste operaie, in particolare neipaesi sotto l'occupazione nazista; alla restrizione dei diritti democraticicon l'avvento in Francia della V Repubblica nel 1958; alle conseguenzedell'instaurazione in Grecia del regime dei colonnelli dopo un troppobreve interludio democratico; alla tragedia, comparabile solo a quella del1933 in Germania, di cui sono state vittime nel 1965 in Indonesia le masseoperaie e contadine e le loro organizzazioni, le cui lotte avevano conse-guito risultati considerevoli nel periodo precedente e che non sono ancorauscite dal tunnel a quasi trent' anni di distanza.

Per venire all'epoca più recente e a vicende per ora meno drammatiche,c'è forse bisogno di ricordare il costante riflusso del nostro movimentooperaio dalla seconda metà degli anni '70 con il logoramento e l'annulla-mento di buona parte delle conquiste dell'immediato dopoguerra e dell'a-scesa del 1968-69 e, più in generale, nella stessa Europa occidentale, ilprogressivo smantellamento del tanto celebrato "stato sociale"?

Tutto questo dovrebbe dimostrare quanto poco fondata fosse la filoso-fia, meglio sarebbe dire la metafisica, del riformismo gradualistico clas-sico della socialdemocrazia, cioè la concezione secondo cui il socialismosarebbe stato costruito senza rotture rivoluzionarie, per "approssimazionisuccessive". E dovrebbe far riflettere egualmente sulla fondatezza delleconcezioni neoriformistiche e neogradualistiche, rilanciate dopo la secon-da guerra mondiale e via via assimilate dagli stessi partiti comunisti. Masu questo torneremo successivamente.

Tre fattori convergenti

Ritornando alla situazione attuale, la valutazione che abbiamo dato

potrebbe sembrare eccessivamente pessimistica. Dopo tutto, ci si potrebbeobiettare, la classe operaia e il suo movimento organizzato non hannosubito una sconfitta paragonabile a quella del 1922, dispongono pursempre di elementari diritti democratici e di mezzi di lotta consistenti ehanno potuto anche negli ultimi anni condurre lotte significative. Questoè senz'altro vero, anche se si iscrive in una parabola discendente. Ma, sela sconfitta di fronte al fascismo aveva provocato un vero e propriotraumatismo stimolando rimesse in discussione anche di alcuni punti fermi

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tradizionali delle concezioni del marxismo e più generalmente del socia-lismo, oggi assistiamo a un fenomeno per certi aspetti di maggiore portata,cioè, per ripetere un'espressione divenuta corrente, a una crisi di identitàpiù profonda che mai in precedenza.

La crisi delle società di transizione burocratizzate, il crollo di alcunimiti e il venir meno di ogni punto di riferimento internazionale sono unodei fattori di questa crisi. Ma, soprattutto a livello di massa, l'attualesmarrimento è il risultato del convergere, oltre che di questo, di altri duefattori.

Ha inciso, infatti, in misura crescente la perdita di fiducia nei tradizio-nali strumenti di lotta e in particolare nei sindacati. Il fenomeno ha radiciabbastanza lontane e certe manifestazioni clamorose risalgono alla finedegli anni '60 e agli inizi degli anni '70. La contestazione proveniva allorada strati di avanguardia, che criticavano le direzioni sindacali perché nonsfruttavano tutte le potenzialità di un movimento di massa in ascesa nelquadro di una crisi socio-politico complessiva. Tuttavia, agli occhi nonsolo delle grandi masse, ma anche di buona parte delle stesse avanguardie,i sindacati apparivano ancora come uno strumento utilizzabile, come lasola forza capace di esprimere un'alternativa, sia pure in termini riformi-stici o moderatamente riformistici, e di garantire significative conquisteparziali. A cominciare dalla cosiddetta svolta dell ,EUR, anche questafiducia critica limitata cominciava a venir meno. E la tendenza si accen-

tuava dopo la sconfitta alla FIAT, sulle prime, non dimentichiamolo,gabellata come vittoria, sino alla deriva degli ultimi anni e all'accettazioneda parte della burocrazia sindacale della logica padronale sul piano dellapolitica economica e della stessa organizzazione del lavoro.

In terzo luogo, hanno pesato negativamente gli effetti della scomposi-zione e frammentazione che la classe operaia ha subito in seguito alle vasteristrutturazioni che hanno colpito interi settori industriali, coinvolgendo avolte intere comunità locali. Allo stesso tempo hanno pesato, all'internodelle fabbriche, i mutamenti connessi alle innovazioni tecnologiche e allenuove forme di organizzazione del lavoro. Anche a questo proposito, nonsi tratta di una novità assoluta, ma piuttosto di un fenomeno ricorrente. Leinnovazioni provocano un disorientamento tra gli operai nella misura incui rimettono in discussione situazioni consolidate, mansioni e competen-ze preesistenti, un adattamento faticosamente ottenuto, forme di controllooperaio di fatto sulle operazioni da compiere, sui ritmi, sulle pause ecc.In

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altri termini, gli operai avvertono più direttamente e dolorosamente la loroalienazione nel processo produttivo e perdono fiducia nella loro capacitàdi resistere e di farsi valere. Questo viene, prima o poi, superato. Ma ilsuperamento non dipende unicamente dalle condizioni interne alla fabbri-ca, dipende anche e, per certi aspetti, ancor di più dal clima socio-politicocomplessivo, dai rapporti di forza più generali. Proprio per questo imutamenti degli anni '80 hanno avuto conseguenze più negative e piùdurature che in altre fasi precedenti.

Note

l Per parte sua, Nicola Tranfaglia parla di "un nuovo modello di societàdemocratica e socialista che ponga al capitalismo limiti più efficaci di quelliapplicati dagli esperimenti socialdemocratici europei" (''l'Unità'', 31 gennaio1992). Dunque, si tratta di correttivi nel quadro di un sistema sostanzialmentemantenuto.

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Capitolo secondo

"CRISI DEL COMUNISMO"?

Illeit motiv, intonato universalmente soprattutto dal 1989, è stato econtinua a essere quello della crisi finale, della irreversibile sconfittastorica del comunismo. Questo fallimento sarebbe il risultato inevitabiledella natura intrinseca delle teorie di Marx e di tutti coloro che si sonorichiamati al marxismo in varie epoche.

Una messa a punto necessaria

Va ribadito ancora una volta che una simile impostazione è da respin-gere innanzitutto per ragioni di metodo. Infatti, lo sviluppo storico nonpuò essere interpretato come una sorta di traduzione in pratica di certeidee, mentre è determinato fondamentalmente da forze sociali concrete,dall'intrecciarsi e dal contrastare dei loro interessi, nonché dalla dinamicadel quadro politico entro cui queste forze si confrontano. L"'ideologia",tradizionale uccello di Minerva, non sopraggiunge che al calar del sole o,fuori di metafora, ha la funzione di sistematizzare la realtà socio-econo-mica e politica.

Non intendiamo ridurre l'ideologia a pura propaganda ,senza realeinfluenza sugli avvenimenti. Nelle sue formulazioni più alte, l'ideologianon è propaganda e ancora meno falsificazione o distorsione deliberata.ma, per dirla in termini marxiani, è coscienza mistificata. se non automi-

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stificante. Quando viene espressa da una classe storicamente in ascesa ogiunta alla maturazione del suo sistema, diventa uno strumento insostitui-bile, politicamente e culturalmente, e agisce come un fattore materiale.Ma anche in questo caso la chiave per comprendere la dinamica storicareale è la dinamica delle componenti sociali e politiche e non la dialetticadelle idee in sé considerata.

Fatta questa premessa, per una demistificazione della problematicadella crisi-fallimento del comunismo, si può anche partire dal terrenoideologico o, più esattamente, teorico. Si può del tutto legittimamenterinviare i nostri avversari - siano difensori di concezioni borghesi toutcourt o aderiscano a correnti socialdemocratiche o socialiste - a quello cheMarx, Engels e lo stesso Lenin, per non parlare di Rosa Luxemburg e diTrockij, hanno scritto sui caratteri distintivi, sulla natura e sulla dinamicadi una società socialista e di quella fase del socialismo definita piùspecificamente comunista, nonché della fase di transizione immediata-mente successiva all'avvento della nuova classe dirigente. Solo chi sifaccia scudo della più volgare ignoranza - è! il caso della stragrandemaggioranza di quanti pontificano sulla stampa o sugli schermi televisivi-, giudichi partendo da dati del tutto unilaterali con arbitrarie forzature - èil caso di certi critici anche tra i meno tendenziosi - o abbia dimenticatocose che in passato non ignorava- è il caso del folto stuolo degli intellet-tuali pentiti -, può sorvolare disinvoltamente sulla differenza abissale trale concezioni teoriche e i progetti strategici dei teorici del movimentooperaio e la pratica dei cosiddetti paesi socialisti. Questa differenza si era,del resto, tradotta in un autentico revisionismo. Al di là delle proclama-zioni stereotipe di ortodossia, i dirigenti e gli ideologhi del "socialismoreale" hanno via via apportato rettifiche radicali alle concezioni marxianee allo stesso metodo materialistico: a partire dalla teorizzazione apologe-tica del "socialismo in un paese solo" sino alla trasformazione del concettodi egemonia del proletariato - peraltro, di portata transitoria, data latransitorietà della sopravvivenza di una specifica classe proletaria qualesi forma storicamente in una società capitalistica - nell'idea del potere

onnivoro di un partito-Stato ben difficilmente rintracciabile nel pensierodi Marx e dello stesso Lenin (e non solo del Lenin di Stato e rivoluzione).

Ma la risposta alle interpretazioni storiche e alle mistificazioni propa-gandistiche degli avversari va data soprattutto sul piano dell'analisi storicaconcreta, dei processi che si sono svolti nell'Unione Sovietica a partire

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dagli anni '20 e nelle altre società di transizione dalla loro stessa forma-zione dopo la seconda guerra mondiale. Se si vuole intraprendere un' operafeconda di rifondazione ed essere in grado di prospettare, sia pure a grandilinee, un progetto alternativo di società, di qui bisogna partire. Bisognaindividuare le origini, le caratteristiche, le contraddizioni e le dinamichedi società burocratizzate in cui non solo non è mai stata portata a termineun' edificazione socialista, ma la classe operaia, i contadini e gli altri stratipopolari non hanno mai avuto - o hanno perduto abbastanzarapidamente- la possibilità di esercitare veramente il potere politico e di gestirel'economia e sono stati addirittura privati di organizzazioni indipendentiin grado di esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, costrettecom'erano ad accettare il monopolio del partito-Stato, privo del benchéminimo funzionamento democratico al suo stesso internol. Questa rifles-sione critica implica la presa di coscienza di quella che è stata, sul pianodel metodo, una distorsione di fondo cui ben pochi dirigenti e teorici delmovimento operaio internazionale hanno saputo sottrarsi. Mentre si affer-mava la validità del metodo materialistico nell'analisi del mondo capita-lista e della sua dinamica (anche se molto spesso lo si applicava solo moltoparzialmente), nel caso delle società burocratizzate, dall'URSS alla Cina,si rinunciava a ogni analisi sia socio-economica sia politica, si accettavanoacriticamente dati e interpretazioni ufficiali, quasi sempre nelle forme piùsfacciatamente propagandistiche e meno credibili. Anche quando le con-traddizioni di queste società esplodevano alla luce del sole (URSS 1956,Cina 1966-67, URSS nella seconda metà degli anni '80 ecc.), invece dianalizzare materialisticamente, sulla base di dati che pure esistevano,quello che stava avvenendo e quali fossero la natura e i progetti delle stesseforze che aprivano un capitolo critico e progettavano misure di riforma,ci si affidava al pensiero e all'iniziativa di personalità demiurgiche, sitrattasse di Krusciov, di Mao o di Gorbaciov, di cui peraltro non ci sipreoccupava di analizzare veramente le stesse formulazioni ideologiche2.

Questo riesame critico storico-teorico deve essere centrato sugli avve-nimenti degli ultimi anni e sui problemi che si pongono ora e non certo surichiami dottrinari, per legittimi che possano essere. In questo senso esisteil compito enorme - che non può essere assolto da un partito o da unaqualsiasi organizzazione e neppure da qualche singolo individuo - discrivere una storia dell'URSS e delle altre società burocratizzate, che sia,

per così dire, una storia contemporanea, cioè parta dal punto di arrivo e

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dai problemi attuali. Sarebbe tuttavia poco scientifico e ingiusto ignoraretutto il lavoro che è stato fatto già a partire dagli anni '20 da correntiteorico-politiche, prima all'interno dell'URSS e dello stesso movimentodell'Internazionale comunista, poi al di fuori per le ragioni a tutti note,.oltre che da storici, economisti e sociologhi che hanno fornito un ampiomateriale di analisi, e tentativi più o meno organici di generalizzazione.Tutto questo avrebbe potuto essere conosciuto e valorizzato già da moltidecenni, se preoccupazioni politico-propagandistiche non avessero pre-valso sulle esigenze conoscitive. Ma, come si suoI dire, meglio tardi chemai: che tutto questo lavoro venga utilizzato e valorizzato almeno nellericerche e nelle elaborazioni attuali3.

Per parte nostra, non vediamo alcuna ragione di abbandonare il filonecon cui ci siamo identificati sin dall'inizio della nostra riflessione teorica

e della nostra militanza politica. C'è appena bisogno di aggiungere chesiamo convinti che anche gli apporti più validi, verificati alla luce di unalunga e molteplice esperienza, devono oggi essere riconsiderati e rilanciatipartendo dalla realtà e dalla problematica di questi anni.

Bilancio sintetico della socialdemocrazia

La mistificazione sul fallimento del comunismo ha comportato, nelmovimento operaio e al di fuori di esso, una seconda mistificazione, e cioèla rivalutazione della socialdemocrazia e delle sue concezioni di riformi-

snio gradualistico e di democratizzazione-razionalizzazione del sistemacapitalistico. È, del rèsto, partendo dal presupposto che il "comunismo"era ormai irrimediabilmente condannato e che la socialdemocrazia avreb-

be dovuto e potuto occupare lo spazio rimasto libero, che l'Internazionalesocialista è intervenuta in Europa orientale per creare partiti o raggruppa-menti a propria immagine e somiglianza. Va aggiunto che la plausibilitàdi un tale progetto era, direttamente o indirettamente, confermata dal fattoche vari partiti comunisti o comunque formalmente definiti - alcuni giànel corso della crisi, altri dopo la caduta - si ribattezzavano assumendodenominazioni di sapore socialdemocratico, battendo alla porta dell'Inter-nazionale socialista4.

Senza pregiudicare gli sviluppi futuri, a quasi tre anni di distanza dagliavvenimenti dell' 89, si può constatare che il disegno è rimasto sulla carta:

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in nessun paese la socialdemocrazia è emersa come forza politica consi-stente, ancora meno come forza egemonica, e nella stessa Germaniaorientale le speranze sono andate deluse, almeno per il momento. Para-dossalmente, sono ora gli ex-partiti comunisti ribattezzati a riguadagnareuna certa influenza, anche sul terreno elettorale, per loro il meno favore-vole. La realtà è che partiti riformisti, per così dire, classici difficilmentepossono trovare un terreno solido su cui svilupparsi e adottare una strate-gia credibile in un fase così tormentata come quella che i paesi dell' Europaorientale stanno attraversando e dalla quale non usciranno così presto. Inultima analisi, non possono sottrarsi a una scelta che non è solo astratta-mente di principio, ma ha concrete implicazioni pratiche: o accettano,dietro lo schermo dell"'economia di mercato", la restaurazione del capi-talismo - in questo caso rischiano di essere perdenti nella concorrenza conle forze più conseguentemente restauratrici che rifiutano ogni richiamo,anche ultramoderato, al socialismo -, o si oppongono alla restaurazione,all'ondata di privatizzazioni, in via di realizzazione o progettate a brevescadenza - ma tutte le loro concezioni e impostazioni e i loro legamiinternazionali costituiscono un ostacolo difficilmente supera bile per porsieffettivamente su questo terreno, su cui dovrebbero peraltro fronteggiarela concorrenza di certi settori almeno dei vecchi partiti comunisti e diorganizzazioni sindacali riciclate o di nuova formazione e di nuovi rag-gruppamenti di orientamento socialista.

Soprattutto a partire dagli anni '70, la socialdemocrazia internazionalenon ha risparmiato energie e risorse nell'intento di assumere un ruolo diprimo piano anche nel Terzo mondo, cioè nei paesi capitalisti sottosvilup-pati. Ha cercato di definire principi e obiettivi politici, di conquistaredirigenti e quadri sindacali e settori dell'intelligentsia e, quel che è ancorapiù importante, di ottenere l'adesione di partiti e movimenti con base dimassa, se non addirittura maggioritari elettoralmente, in particolare inAmerica Latina e in Africa. Sono così entrati a far parte dell 'Internazionalesocialista, sia pure a diverso titolo, una serie di organizzazioni, tra cuil'APRA peruviana, l'Accion democratica venezuelana, il PRO della Re-pubblica dominicana, il MIR boliviano, il Partito senegalese di LeopoldSenghor, e altre ancora.

Alcuni di questi partiti o movimenti sono stati o sono ancora algoverno, spesso da soli, disponendo di una larga base di massa e dell' ap-poggio di organizzazioni sindacali. Ebbene, perché i socialisti e i social-

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democratici che hanno fatto e fanno del "fallimento del comunismo" unleit motiv della loro propaganda e delle loro teorizzazioni (nella misura incui ancora si preoccupano di darsi una teoria), non si preoccupano di fareun bilancio dei loro partiti "fratelli" in Africa o in America Latina?

La risposta è semplice: non avrebbero troppe ragioni di compiacersi. Igoverni diretti da queste organizzazioni, lungi non diciamo dall'averrisolto, ma anche solo dall' aver evitato l'aggravarsi dei problemi ango-sciosi dei loro paesi, lungi dall' aver cercato di sottrarsi all'egemoniaeconomica imperiali sta e dall' aver dato vita a istituzioni democratiche incui le masse potessero esprimere i loro interessi e le loro aspirazioni, hannoassolto sistematicamente il ruolo di gerenti di regimi neocoloniali. Hannoaccettato le imposizioni del FMI e delle altre istituzioni capitalisticheinternazionali, hanno adottato drastiche misure di austerità (che, moresolito, mai hanno colpito le classi possidenti indigene o le élites degliapparati statali e dell'intelligentsia) e quando ci sono state risposte dimassa a queste politiche, non hanno esitato a far ricorso alla più durarepressione, mobilitando esercito, polizia e altri corpi specializzati.

Due esempi di significato quasi simbolico. Nel19861'Internazionalesocialista aveva convocato un congresso a Lima, dov' era al potere l'APRAcon la presidenza di Alan Garcia. Proprio al momento dell'apertura, ilgoverno apri sta, che doveva poi fallire in modo miserando lasciando ilpaese in condizioni ancora più tragiche di quelle in cui l'aveva trovato,soffocava una rivolta nelle carceri massacrando centinaia di detenuti. Nel

febbraio 1989, mentre gli ospiti stranieri, tra cui non pochi illustri dirigentisocialdemocratici, non avevano ancora digerito le laute pietanze dei ban-chetti per l'insediamento presidenziale, il presidente Carlos Perez, anch' e-gli membro dell'Internazionale socialista, schiacciava la. protesta dellapopolazione povera di Caracas facendo massacrare indiscriminatamentedall' esercito molte centinaia, se non migliaia di persone (probabilmentenon meno, anche in termini assoluti, di quante non ne siano state uccisesulla piazza Tien Anmen). A tre anni distanza, lo stesso personaggio haimposto radicali restrizioni dei più elementari diritti democratici dopo averridotto letteralmente alla fame milioni di venezuelani con l'applicazionedi misure di privatizzazione e delle famigerate ricette del FMI.

Terzo esempio, non meno illuminante: Leopold Senghor sarà un bril-lante letterato e teorico della négritude. Ciò non toglie che il regime cheha instaurato e trasmesso ai suoi successori, è un esempio da manuale di

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regime neocoloniale, in cui non solo non è stata presa la più timida misura"socialista", ma in cui il capitale internazionale ha mantenuto ed allargatole sue riserve di caccia, si è formata una parassitaria e vorace classedominante indigena, la vecchia potenza coloniale ha mantenuto una pe-santissima ingerenza, le masse popolari hanno subito un deterioramentocostante delle già miserevoli condizioni di vita e il sistema politico,nonostante correzioni più recenti, è stato ed è più vicino al deprecatomonopartitismo che a una democrazia parlamentare o presidenziale di tipo"occidentale"5.

Ci si dirà che il bilancio della socialdemocrazia deve essere fatto

soprattutto partendo dai paesi in cui ha avuto una più lunga tradizione, haaccumulato le forze più consistenti e ha contribuito, a volte in mododecisivo, all'introduzione del Welfare State o Stato sociale.

Per la verità, sarebbe mistificatorio fare un bilancio del genere sorvo-lando sul fatto che la prosperità, reale o presunta, di una serie di paesidell'Europa occidentale è stata possibile grazie ai meccanismi economicie politici di un sistema internazionale, di cui uno degli elementi essenzialiè stato e continua a essere lo sfruttamento, in diverse forme, dei paesisottosviluppati. Al di là dei discorsi di occasione e di vaghe enunciazionidi buoni propositi, nessun partito e, a maggior ragione, nessun governosocialdemocratico ha lottato contro questi meccanismi, accontentandositutt'al più di prospettare timidi corretti vi, rivelatisi, com'era prevedibile,del tutto inoperanti.

Ma, dato e non concesso che si possa far astrazione da questo, oltre chedal ruolo che partiti socialdemocratici hanno avuto anche dopo la secondaguerra mondiale nei tentativi di impedire l'ascesa dei movimenti anti-im-perialisti e nell' esercizio della più brutale repressione6, il bilancio storicocomplessivo della socialdemocrazia europea non è meno fallimentare diquello dello stalinismo. A questo proposito, non c'è nulla di nuovo dascoprire. Ma per rinfrescare le memorie non sarà inutile riprendere som-mariamente gli argomenti essenziali, su tre piani, di una critica da un puntodi vista marxista e rivoluzionario:

1) I partiti socialdemocratici o socialisti non hanno realizzato in nessunpaese il fine storico che si erano prefissi al momento della loro formazione,cioè la sostituzione della società capitalista con una società socialista. Dipiù, ormai da molti decenni hanno rinunciato addirittura a perseguirequesto fine. Come abbiamo già accennato, conquiste parziali di portata

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incontestabile sono state ottenute in varie epoche. Ma, in ultima analisi,queste realizzazioni hanno agito come elemento di riequilibrio o di rista-bilizzazione del sistema, subendo successivamente un'usura che le halargamente svuotate del loro contenuto, se non annullate completamente.

2) È nei momenti in cui partiti socialdemocratici e socialisti (anche invarianti massimalistiche) hanno avuto la maggiore influenza sulle masselavoratrici e disposto della maggiore forza organizzata, che il movimentooperaio ha subito una serie di sconfitte storiche che lo hanno disarticolato,ributtandolo indietro di decenni. Ricordiamo, per l'esempio, l'agosto1914, quando i partiti e i sindacati operai si sono rivelati drammaticamenteincapaci di contrastare la guerra e, tranne parziali eccezioni, si sonoassociati alle imprese belliche delle rispettive classi dominanti; il 1919 iòGermania, quando la socialdemocrazia è stata lo strumento principaledella riorganizzazione dello Stato e del rilancio dell' economia capitalistain una situazione in cui, dopo la sconfitta militare, il regime era entrato inuna crisi socio-politica globale senza precedenti; il 1921-22 in Italia,quando il fascismo è riuscito a imporsi nell'arco di due soli anni su unmovimento operaio ricco di potenzialità, ma privo di una reale direzione;il 1933 in Germania, quando la classe operaia ha subito una sconfitta lecui conseguenze a lungo termine non sono state ancora interamentesuperate; il 1936-37 in Francia, quando le forze potenziali espresse dallavittoria del Fronte popolare sono state dilapidate con un rapido esaurimen-to di un'esperienza, che aveva alimentato grandi speranze anche al di làdei confini francesi.

Un bilancio complessivo non dissimile dal nostro è stato abbozzato daun autore non sospettabile di stalinismo o di estremismo e aperto allasocialdemocrazia, François Fejto. Vale la pena di ricordarlo:

"La storia dell 'Internazionale socialista è scandita da fallimenti memo-

rabili. 1914: i partiti e i sindacati socialisti della Germania, della Franciae degli altri paesi occidentali, nonostante i loro effettivi impressionanti, sidimostrano impotenti a impedire la guerra più stupida della storia mon-diale che rende inevitabili la frammentazione e la decadenza dell'Europa.1919: il movimento operaio, nel cui seno erano esistite in precedenzasperanze rivoluzionarie e pratiche riformiste, si scinde in due, e i militantirivoluzionari più attivi aderiscono alla III Internazionale, fondata daLenin. 1933: il distaccamento più potente del socialismo europeo, lasocialdemocrazia tedesca, incapace di padroneggiare la crisi economica,

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tenuta sotto pressione e rosicchiata da un Partito comunista che applica lapolitica del tanto peggio tanto meglio, capitola di fronte al nazismo.1935-39: le esperienze di fronte popolare, lanciate per fare sbarramento aifascismi in ascesa, non contribuiscono a rialzare il prestigio dei partitisocialisti che vi partecipano. Profittano soprattutto ai comunisti legati aMosca. Si trascinano stancamente e si disgregano. Più tardi, nei paesioccupati dai nazisti, i partiti socialdemocratici, decimati dall' occupante,ben poco preparati alla clandestinità, sono eclissati nella Resistenza daicomunisti e hanno bisogno di molto tempo per riprendersi" (La socia/-dé-mocratie quand meme, Robert Laffont, Parigi 1980).

3) Per venire a un periodo più recente, in particolare dall'inizio deglianni '80 a oggi, partiti socialdemocratici o socialisti hanno avuto respon-sabilità primarie di governo, sulla base di maggioranze presidenziali eparlamentari, in paesi come la Francia, la Spagna e la Grecia. In nessunodi questi casi sono stati capaci di realizzare le riforme economiche, socialie politiche, peraltro molto moderate, che avevano enunciato nei loroprogrammi (in Francia, dopo qualche misura dei primissimi anni dellapresidenza di Mitterrand, c'è stato un rapido e radicale ripiegamento).Nonostante le polemiche contro concezioni e tendenze conservatrici, igoverni socialdemocratici hanno accettato e tradotto in pratica orienta-menti economici del tutto simili a quelli di governi conservatori o amaggioranza di destra, hanno imposto tutta una serie di misure di austerità,non hanno fatto niente per combattere la piaga di una disoccupazionecronica e crescente. Per poter imporre queste politiche, che non potevanonon provocare reazioni di malcontento da parte delle masse che costitui-scono la loro base elettorale, non solo non hanno introdotto nessuna realeriforma in senso democratico, ma, al contrario, si sono perfettamenteinseriti nella più generale tendenza dei paesi capitalisti a restringere neifatti i diritti democratici e ad accrescere il peso degli esecutivi con unaulteriore co~centrazione di poteri, non esitando a utilizzare largamenteregole costituzionali e meccanismi imposti da governi o regimi conserva-tori o reazionari precedenti (dal gollismo in Francia e dallo stesso franchi-smo in Ispagna) e a introdurre nuove leggi o norme ancor più restrittive.

Il discorso potrebbe continuare. Ma, nel quadro di questo saggio, nonvogliamo aggiungere altro. Esistono tutti gli elementi per un bilanciocomplessivo della socialdemocrazia. Non si tratta di lanciare scomunicheo di appiccicare etichette, ma semplicemente di riandare a una lunga serie

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di esperienze su scala internazionale e nell' arco di circa ottant' anni. Inconclusione, il fallimento della socialdemocrazia non è stato, per il movi-mento operaio, meno pesante di quello dei partiti stalinisti e ha egualmentecontribuito alla perdita di identità della fase attuale.

Note

l L'esistenza di questi tratti distintivi comuni non comporta un annullamentodelle specificità di singole esperienze. Per esempio, un' analisi particolare è neces-saria per la Cina (v. il nostro Esercito, partito e masse nella crisi cinese, Samonàe Savelli, Roma, 1969) e a maggior ragione per Cuba, dove ha avuto luogo unaautentica rivoluzione e ben diverso che in altri paesi è stato il rapporto tra gruppodirigente e masse.

2 Anche qui la caratterizzazione generica non significa che i tre personaggiabbiano avuto esattamente lo stesso ruolo e adottato le stesse concezioni e gli stessimetodi.

3 Ricordiamo in particolare le analisi di Leone Trockij, il cui contributoprincipale per quanto riguarda la natura dell' URSS e la sua dinamica è senza dubbioLa rivoluzione tradita (ultima edizione italiana, Mondadori, Milano, 1990), i librie i saggi di Isaac Deutscher, in primo luogo la sua trilogia su Trockij (pubblicatain Italia da Longanesi a partire dal 1956) e l'opera monumentale di E. Carr(pubblicata in Italia da Einaudi in vari volumi a partire dal 1964). Per quantoriguarda le nostre valutazioni cfr. l'articolo comparso su "Bandiera Rossa" n. 24,aprile 1992, ripreso parzialmente in appendice a questo volume.

4 Concezioni e orientamenti di ispirazione socialdemocratica si riscontranoanche nei programmi o nelle prese di posizione di raggruppamenti nuovi orinnovati dell'ex-Unione Sovietica. Una considerazione analoga si può fare aproposito del progetto di programma del PCUS che Gorbaciov aveva presentatopoco prima della crisi dell'agosto 1991.

5 Per una analisi più ampia ci permettiamo di rinviare al nostro contributo e adaltri comparsi sul numero 36 (dicembre 1989 -gennaio 1990) della rivista francese"Quatrième Intemationale", in parte ripresi su "Bandiera Rossa" (n. 2, marzo1990).

6 L'esempio più noto e più vergognoso è quello del ruolo del Partito socialistafrancese e del suo dirigente di allora Guy Mollet nella guerra contro il popoloalgerino. Ma molti altri se ne potrebbero fare: per quanto riguarda i laburisti inglesi,per esempio, il loro ruolo nelle campagne militari dell'imperialismo britannico inMalesia e nel Kenya.

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Capitolo terzo

IL CAPITALISMO OGGI: MISTIFICAZIONI E REALTÀ

Proprio perché facciamo un bilancio così radicalmente negativo degliultimi decenni di lotte del movimento operaio, dobbiamo porci una seriedi interrogativi di fondo. Dalla risposta dipende se il progetto di rifonda-zione comunista ha un fondamento oggettivo o se invece non è che unsogno di nostalgici.

Questi interrogativi si possono sintetizzare nei termini seguenti:l) L'involuzione del movimento operaio e la sua deriva moderata non

sono iscritte nella realtà e nella dinamica del periodo storico in cuiviviamo? Non era inevitabile che la società capitalistica riuscisse a man-tenersi e ad apparire, al punto di arrivo di una lunga sequenza di avveni-menti, come l'unico quadro socio-politico possibile?

2) Le tendenze della società attuale non rimettono in discussionel'esistenza stessa della classe operaia come forza sociale decisiva e porta-trice di un progetto di società qualitativamente diverso? Non sarebbeminata nei suoi stessi presupposti la costruzione teorica e strategica delmarxismo e, più generalmente, del movimento operaio?

3) Da un'analisi della situazione attuale -oltre che da quella della crisiepocale cui già ci siamo riferiti - non bisogna trarre la conclusione cheogni prospettiva di trasformazione è chiusa per un periodo di tempoindefinito o, in altri termini, che il capitalismo è in grado di realizzare unrilancio su scala internazionale di ampio respiro e di durata presumibil-mente lunga?

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Le potenzialità non valorizzate

Non riprendiamo qui il discorso più generale sulle alternative possibilinell'URSS degli anni '20 e '30 e per il movimento operaio di vari paesi edi quello italiano più in particolare nello stesso periodo e successivamen-te1. Limitiamoci a qualche considerazione sulle potenzialità degli ultimitrent' anni.

Prima di tutto, è un dato di fatto che anche in questo periodo la societàcapitalistica ha conosciuto ripetutamente crisi socio-economiche e politi-che, a volte acute e prolungate. Questo non solo in quelli che continuanoa essere gli anelli più deboli della catena, cioè i paesi sottosviluppati, maanche nei paesi capitalisti più industrializzati.

Così, a smentita di tutti coloro che negli anni ' 50 e ' 60, partendo daun'analisi statica e troppo immediatistica, avevano teorizzato il supera-mento delle crisi cicliche e di fenomeni tipici della storia del capitalismo(la disoccupazione in primo luogo), di crisi cicliche ce ne sono state e apiù riprese, con tutte le ben note conseguenze. Si sono avute recessioni diparticolare gravità, come quella del 1981-82 e quella tuttora in corsomentre scriviamo. Prima c'era stata la recessione del 1974-75, la piùprofonda di questo secolo dopo gli anni '30. Quel che è ancora piùimportante, la recessione della metà degli anni '70 ha segnato definitiva-mente l'esaurirsi del lungo boom del dopoguerra, cioè dell'onda lunga diespansione durata oltre un ventennio, e ha inaugurato una fase prolungatadi ristagno da cui l'economia capitalistica non è ancora uscita, nonostantetutti gli sforzi compiuti e riprese congiunturali a volte non irrilevanti.

Non sono mancate, d'altra parte, crisi sociali e politiche che, in certefasi e in certi paesi, hanno assunto il carattere di crisi globali del sistema,con una rimessa in discussione su scala di massa dei suoi meccanismi,delle sue istituzioni e dei suoi valori.

C'è appena bisogno di richiamare gli esempi più significativi:-Il maggio 1968 in Francia, dove uno sciopero generale ha paralizzato

il paese per circa cinque settimane, con imponenti e ripetute mobilitazionidi massa, in cui giovani studenti e giovani operai si sono trovati fianco afianco contro le forze di repressione, facendo temere allo stesso De Gaullee ai suoi generali il rovesciamento del regime.

- La crisi italiana, che, iniziatasi nello stesso anno, si è allargata eapprofondita nell'anno successivo, prolungandosi sino ai primi anni '70,

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con radici sociali ancora più profonde di quelle del movimento francese.L'odierna riscrittura della storia in chiave conservatrice tende a presentarequelle vicende come un'esplosione di irresponsabili e sterili estremismi,preludio del terrorismo, e a far dimenticare la realtà, cioè le mobilitazioniinesauribili di vasti strati sociali, non solo proletari, l'emergere impetuosodella forza nuova rappresentata dal movimento studentesco, la radicaliz-zazione di ampi settori di piccola borghesia che per la prima volta conte-stavano l' establishment, le crepe che si producevano a diversi livelli dellestesse istituzioni.

- Avvenimenti non meno significativi in altri paesi europei. Peresempio, nel Belgio, una situazione critica, con uno sciopero generale, siera creata già alla fine del 1960 e all'inizio del 1961, mentre la GranBretagna ha attraversato una fase prolungata di aspre lotte operaie, cuinon ha posto fine che l'avvento del thatcherismo (durante il quale c'èstato, tuttavia, il grande sciopero dei minatori). D'altra parte, grandimobilitazioni e conflitti a livello di massa hanno accompagnato e seguitoin Ispagna la caduta del franchismo e una crisi socio-politica ancora piùprofonda si è sviluppata in Portogallo dopo la fine della dittatura salaza-riana.

In tutte queste crisi - come in altre di minoreportata - la classeoperaia,intesa in senso lato, non solo è stata la spina dorsale di lotte e mobilitazioni,ma ha rilanciato al tempo stesso il suo ruolo di forza antagonista delsistema ed egemone di un più vasto fronte sociale di contestazione anti-capitalistica. Settori sempre più ampi di proletariato, stimolati dalle espe-rienze di lotta, hanno raggiunto livelli di coscienza senza paragone piùelevati di quelli dei periodi di ristagno o di "normalità", conquistando siuna vera e propria promozione culturale. Nei momenti più alti, si sono datinuovi strumenti democratici di lotta e di organizzazione, al di fuori nonsolo del quadro istituzionale, ma anche del quadro organizzato tradizio-nale (esperienze dei consigli in Italia e, fatte le debite proporzioni, inPortogallo), immettendo sangue fresco nell' organismo del movimentooperaio. In casi-limite e, va da sé, per periodi limitati, operai e tecnicihanno dato prova dell~ loro capacità di gestione delle aziende (occupazionidi fabbriche e altre situazioni analoghe). C'è appena bisogno di ricordareil precedente storico dell' ormai lontano 1920, a proposito del quale restanoattuali le penetranti osservazioni e generalizzazioni del giovane Gramsci.Esperienze significative nello stesso senso sono state fatte nel biennio di

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ascesa della rivoluzione portoghese e prima ancora in Francia (all'iniziodegli anni '70 c'è stato l'episodio della LIP).

Tutto questo non deve essere dimenticato né sottovalutato a posteriori,soprattutto in una situazione come l'attuale in cui gli avversari fanno ilpossibile non solo per annullare le conquiste operaie, ma anche percancellare la memoria storica delle più valide esperienze del passato. Inrealtà, se lo sbocco degli anni '80 e dei primi anni '90 è stata la situazioneattuale di ristagno, di ripiegamento e di smarrimento, ciò non è dipesoaffatto da una fondamentale stabilità a lungo termine del sistema domi-nante né da una intrinseca incapacità del proletariato di assumere il suoruolo, ma dal permanere o dall' emergere di una serie di concreti ostacolipolitici e organizzativi, che hanno impedito la valorizzazione delle poten-zialità esistenti, e dall'incapacità delle organizzazioni operaie di assolverei compiti per cui erano sorte.

Il profitto resta la molla essenziale

Ci si potrebbe rispondere che, anche se quello che abbiamo detto è veroper il passato, oggi siamo in una fase del tutto nuova, in cui i meccanismie la dinamica delle società non possono più essere interpretati sulla basedei criteri usati dal marxismo e dal movimento operaio di ispirazionemarxista.

Anzitutto, una precisazione preliminare. La nostra risposta sarebbe piùfacile, se partissimo dalla realtà dei paesi sottosviluppati, a proposito deiquali è difficile contestare la persistenza dello sfruttamento da parte di classidominanti nazionali e internazionali, di polarizzazioni sociali laceranti e diuna conflittualità esplosiva, che emerge periodicamente alla superficie.Invece, il punto di partenza deve essere l'analisi dei paesi capitalisti piùindustrializzati: non per un riflesso euro o americano-centrico e neppure permettere in dubbio che anche in questa fase situazioni rivoluzionarie possanoverificarsi soprattutto in paesi del cosiddetto Terzo mondo, ma per unaelementare questione di metodo. Più che mai dopo la crisi delle società ditransizione burocratizzate e in un contesto di crescente internazionalizzazio-ne dell' economia, è nei centri imperialisti, "patrie" delle multinazionali epunti nevralgici della accumulazione mondiale, che vanno colti i meccani-smi decisivi, con tutte le loro tensioni e contraddizioni.

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Premesso questo, una .prima domanda: le molle essenziali del capitali-smo sono qualitativamente mutate o restano fondamentalmente le stesse?

A rischio di sembrare ingenui, diciamo che la risposta ci pare ovvia etrasferiamo a coloro che hanno un diverso avviso l'onere della prova.L'elemento motore del capitalismo resta la ricerca del profitto: è l' abc, maè il caso di ricordarlo a quanti. sembrano dimenticarlo. Senza il profitto,indissolubilmente legato alla proprietà privata dei mezzi di produzione,una società capitalistica non può semplicemente funzionare. Ciò non èaffatto negato dai più direttamente interessati, cioè dai capitalisti e dai loroportavoce, che quotidianamente adducono l'esigenza di salvaguardare ilprofitto per giustificare tutte le misure di ristrutturazione, di intensifica-zione dei ritmi di lavoro, i licenziamenti ecc. e per pretendere dai governidecisioni che vadano nello stesso senso.

Gli elementi tipici di questa fase consistono in realtà nella sempremaggiore internazionalizzazione della ricerca del profitto e nelle nuoveforme tecnico-organizzative introdotte per aumentare il tasso dello sfrut-tamento.

Se l'internazionalizzazione della ricerca del profitto comporta un esa-cerbarsi della concorrenza, l'aumento del tasso di sfruttamento stimolal'introduzione di politiche salariali e sociali, che provocano una pauperiz-zazione relativa negli stessi paesi più avanzati e una pa!lperizzazioneassoluta nei paesi sottosviluppati. Coloro che durante il boom prolungatoo in periodi più recenti hanno fatto dell'ironia su certe tesi marxiane aquesto proposito -o su loro interpretazioni abusive -, dovrebbero ormaiessere più cauti. Che in questo contesto, lungi dallo scomparire o dall'at-tenuarsi, si moltiplichino e si aggravino parossisticamente gli squilibri -egli squilibri sempre più laceranti - tra le varie aree del mondo, tra paesidiversi di una stessa area e tra regioni diverse all'interno di uno stessopaese non è una tendenzain prospettiva,ma un dato di fatto da constatare.

Aquestisquilibricontribuiscono,in ultimaanalisi,anchegli spostamentidi areadi attivitàdigrandigruppiindustrialie finanziari,checostituisceunacaratteristicadella fase più recente del capitalismo.Infatti, se esigenze diprofittopossonoessere soddisfatte,più o meno durevolmente,tali trasferi-menti provocano, tuttavia, profonde lacerazionidi settori economicie ditessutisocialinelleregionio nei paesiabbandonati,mentrenei paesio nelleregioni di nuova adozione solo fasce molto ristrette di popolazione sonoeventualmenteavvantaggiatedallacreazionedipostidi lavoroe, comunque,

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al prezzo di una accettazione di alti tassi di sfruttamento oltre che di traumiper l'ambiente e per il quadro sociale preesistente. Per la stessa grandeborghesia, principale beneficiaria di queste operazioni, il prezzo in terminidi eventuali squilibri sul piano dell' esercizio dell' egemonia sociale e politicapotrebbe rivelarsi, a termine, elevato.

Non ritorniamo sulla sempre maggiore concentrazione e centralizza-zione del capitale. Che a questo proposito l'analisi di Marx abbia colto ilsegno non è contestato neppure dai suoi critici più accaniti. Non si trattadi un aspetto secondario, ma di un elemento essenziale dello sviluppocapitalistico, le cui conseguenze sociali e politiche sono dinnanzi ai nostriocchi in tanta parte del mondo e tenderanno a generalizzarsi - nessuno sifaccia illusioni in merito - investendo anche i paesi attualmente consideratiricchi. Quanto alle crisi cic1iche, già vi abbiamo accennato e vi ritorneremotra poco in questo stesso capitolo.

Un elemento, che, pur non essendo nuovo in assoluto, ha assunto unaincidenza qualitativamente diversa e incomparabilmente più grande chein passato, è rappresentato dal fatto che lo sviluppo economico incontrol-lato - o regolato ex post dalle "leggi del mercato" - e la necessità insop-primibile per il capitale di realizzare l'accumulazione allargata con l'usoindiscriminato di ogni sorta di tecnologie e fonti di energia, stannoprovocando un sempre più micidiale deterioramento dell'ambiente conuna erosione dello stesso sostrato naturale.

Sia detto di passata, affrontare questa tematica con le categorie gene-riche dell'industrialismo e del produttivismo, come fanno spesso i Verdi(ma, per la verità, non solo i Verdi) significa correre il rischio di creareconfusione e di eludere il problema vero. La questione se l'umanitàavrebbe conosciuto miglior sorte senza l'industrializzazione, e senza losviluppo tecnologico soprattutto dell'ultimo secolo, è tutto sommato ozio-sa e può tutt' al più ispirare una critica romantica o neoromantica dell' esi-stente con la rievocazione di una società preindustriale e agraria, alla qualein ogni caso è impossibile ritornare. L'analisi critica deve partire dallaconstatazione che la distruzione dell' ambiente avviene nel quadro delcapitalismo e a causa non tanto di particolari aberrazioni di questo o quelgruppo industriale e di questo o quel governo (anche se le aberrazioni nonsono mancate!), quanto dei meccanismi intrinseci del capitalismo stesso,che subordinano e devono subordinare tutto alle esigenze del profitto edella accumulazione allargata3. .

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Una conferma sin troppo evidente di quali siano i meccanismi necessaridel capitalismo viene da quello che sta accadendo nei paesi dell'Europacentro-orientale e nell'ex-Unione Sovietica. Se meccanismi nuovi, nuoveregole, nuovi valori si stessero effettivamente affermando nel capitalismopiù moderno e più "razionale", i paesi in cui sono stati rovesciati regiminon capitalisti e non esistono sedimenti di capitalismo antico, dovrebberocostituire il terreno privilegiato di sperimentazione di queste novità. Ora,quali che siano i risultati sinora raggiunti o ipotizzabili, lo spettacolo cuisi sta assistendo è il tentativo di riportare sul trono il monarca assolutoProfitto, motore supremo e irrinunciabile della tanto auspicata economiadi mercato. Convergono nella ricerca del profitto i nuclei embrionali dinuova borghesia, gli intermediari, per non dire gli speculatori tout court,che proprio nel commercio intravedono la via più agevole di una rapidaaccumulazione, i manager provenienti dalla file della burocrazia tecnocra-tica e gli stessi burocrati degli apparati politici, che, costretti a riciclarsiper non essere spazzati via, diventano agenti, più o meno diretti, dellarestaurazione o soci "nazionali" delle multinazionali. C'è appena bisognodi aggiungere che le suddette multinazionali, come le istituzioni interna-zionali e i governi dei paesi capitalisti, al di là della specificità dei modi edelle forme, fissano i loro impegni e le loro scelte sulla base di un criterioprimordiale: si potranno o no ricavare dei profitti (quali che siano lescadenze?). Altro che novità! Lo spettacolo di cui siamo spettatori è unmiscuglio allucinante di disegni e metodi propri del neocapitalismo edell'imperialismo più "moderno" e di forme ancestrali, barbariche, diaccumulazione primitiva.

Quali mutamenti nella composizione sociale?

È ricorrente il discorso, il più delle volte non suffragato da elementianalitici anche solo approssimativi, sui mutamenti intervenuti nella socie-tà odierna e in particolare sul declino, se non sulla scomparsa della classeoperaia, che solo paleo-marxisti impenitenti si intestardirebbero a negare.

I processi economici degli ultimi decenni - caratterizzati, non perdia-molo mai di vista, da una crescente centralizzazione e concentrazione delcapitale e da straordinarie innovazioni tecnologiche e conseguenti muta-menti nell'organizzazione del lavoro - hanno indubbiamente inciso sulla

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composizione e sulla dinamica di classi e strati sociali. È ovvio cheun'analisi globale approfondita di questi fenomeni, condotta, come ènecessario, su scala mondiale, esigerebbe un enorme lavoro collettivo,corredato da successivi aggiornamenti. Tuttavia, tenendo conto dei datiufficiali o ufficiosi di varia origine, che compaiono regolarmente, e di datidi fatto che dovrebbero essere di comune conoscenza, ci sembra possibiletracciare alcune linee generali.

Per cominciare, è difficilmente contestabile che il peso specifico digran lunga maggiore e, in fin dei conti, decisivo, lo hanno sempre gli straticapitalisti, di grande borghesia, che sono inseriti nei processi di interna-zionalizzazione e agiscono sotto forma di multinazionali o di aziende che,pur restando nazionali, hanno un raggio di azione che va ben oltre i confinidi un singolo paese. Che si tratti di attività propriamente industriali eagro-industriali oppure finanziarie e commerciali, è, dal punto di vistasociale, secondario. A parte il fatto che molto spesso è difficile distingueredata la stretta connessione tra i diversi settori di attività, l'elementodeterminante è che tutti partecipano al rastrellamento dei profitti, comun-que questi profitti vengano suddivisi a secon~a delle situazioni, e fannoparte dello stesso tessuto sociale. Non intendiamo negare l'importanzarelativa della distinzione tra attività più specificamente industriali e atti-vità più specificamente finanziarie e ignorare l'incidenza del fatto che,specie in periodi di difficoltà per il mantenimento dei saggi del profitto, ilpeso di attività finanziarie o speculative tende a crescere a detrimento delleattività più direttamente produttive. Ma questo non giustifica le teorizza-zioni che se ne fanno discendere su una contrapposizione tra settoriborghesi "progressisti" e "moderni" e settori parassitari ed arretrati, eancor meno una strategia di alleanza tra tutti i ceti "produttivi".

Nella misura in cui hanno conosciuto una certa crescita -per esempio,in alcuni paesi asiatici e latino-americani -, gruppi élitari di paesi sotto-sviluppati si inseriscono, con tutti i limiti e con tutte le contraddizioni, nelprocesso di distribuzione internazionale dei profitti, diventando così com-ponenti socialmente e politicamente necessarie della macchina di sfrutta-mento e di dominazione imperiali sta.

Ritornano a volte, presentati come nuovi, discorsi sui cambiamenti chesarebbero costituiti, da un lato, dalla sostituzione dei singoli capitalisti odei singoli gruppi familiari con le società per azioni, dall'altro, dal fattoche i detentori reali del potere sarebbero i manager e non più i proprietari

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in termini giuridici. Lasciando stare le società per azioni, la cui originerisale ormai alla notte dei tempi del capitalismo e che in nessun modopossono essere gabellate come un superamento della proprietà privata, latesi sull'egemonia dei manager risale per lo meno agli anni '30. Le cosesono oggi ancor più chiare che cinquanta o sessanta anni fa. In ultimaanalisi, delle due l'una: o i manager restano semplicemente tali e allora iloro progetti e le loro decisioni operative restano subordinati alle decisionidei proprietari - singoli o riuniti in società per azioni - o partecipano allaproprietà e in questo caso, pur assumendo una duplice figura, fanno parteintegrante del gruppo sociale dominante senza divenire una nuova classein grado di imporre propri specifici interessi, proprie norme e propri valori.Quanto la prima delle due ipotesi corrisponda ancora alla realtà, lo hannoprovato recenti vicende degli Stati Uniti, dove, ritenuti responsabili dellesituazioni di crisi delle aziende che dirigevano, manager famosi sono statimessi alla porta senza troppi complimenti e i consigli di amministrazionenon hanno esitato a prendere misure di riorganizzazione della gestione perdelimitare più nettamente i poteri manageriali4.

C'è appena bisogno di ricordare che, data l'evoluzione dell'economiaagricola e la sua sempre più estesa industrializzazione, hanno perso terre~oi settori di classe dominante rappresentati dagli agrari e dalla borghesiarurale in senso stretto. Questo vale da tempo per i paesi più sviluppati,dove il peso dell' agricoltura ha inciso sempre meno sul prodotto naziona-le, con una drastica riduzione degli addetti a questo settore. Ma vale ancheper la maggior parte dei paesi sottosviluppati, con la differenza che inquesti ultimi l'industrializzazione ha coinciso per lo più con la penetra-zione del capitale straniero e che gli espulsi dal processo di produzioneagricolo non si inseriscono che molto limitatamente nell' economia indu-striale e urbana e sono quindi condannati a vivere ai margini della società.

Un'ultima considerazione sulle classi dominanti, che avanziamo comeipotesi di lavoro da verificare. Dal punto di vista economico, gli strati piùelevati della borghesia si sono ulteriormente rafforzati e dispongono,soprattutto grazie alle multinazionali e alle grandi concentrazioni indu-striali, finanziarie e commerciali, di poteri ben maggiori che in qualsiasialtra epoca. Questo non implica necessariamente un consolidamento ulte-riore sul piano sociale e un rafforzamento dal punto di vista politico. Inrealtà, la sempre più spietata concorrenza e gli inarrestabili processi diconcentrazione accrescono costantemente il numero degli sconfitti e degli

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"emarginati" con conseguente restringimento del tessuto della classesociale egemone in quanto tale. Il fatto che gli "emarginati" lo siano insenso molto relativo non essendo certo ridotti all'indigenza, non cambiala sostanza del fenomeno. E sul piano politico una forza sociale che sicontrae ha più difficoltà a esercitare la propria egemonia su altri stratisociali, indipendentemente dal rafforzamento o riconsolidamento del suopotere economico. È inevitabile che a lungo termine ciò finisca conl'influire anche sul piano economico.

La crescita e l'aumentato peso specifico delle classi medie sono stati,sin dalla fine del secolo scorso, un motivo ricorrente della critica allaproblematica marxiana. Lasciando da parte le dispute più o meno scola-stiche sulle ipotesi che Marx e i suoi discepoli avrebbero avanzato nei loroscritti, è un'ovvia constatazione che le classi medie -o piccola borghesianelle sue molteplici articolazioni -hanno avuto e hanno un ruolo impor-tante nelle società contemporanee e non solo nei paesi capitalisti svilup-pati. Nei periodi di normalità o di ristabilizzazione hanno contribuito innotevole misura al mantenimento dello status quo, esercitando un' influen-za, diretta o indiretta, sullo stesso movimento operaio. Nei periodi di crisihanno, invece, rappresentato un fattore di squilibrio e di radicalizzazioneo di involuzione populistico-reazionaria.

Per venire a periodi più recenti e a proposito di strati che sono sullalinea di demarcazione tra piccola borghesia e borghesia tout-court, vannopresi in considerazione altri due elementi.

Se è vero che hanno continuato a esistere e magari ad accrescersinumericamente le piccole industrie o le imprese di tipo artigianale, nellamaggior parte dei casi questi settori non hanno avuto e non hanno un ruoloautonom05. Vivono all'ombra dei grandi gruppi, delle grandi industrie, dacui ricevono com,messe e subappalti (il tanto elogiato Giappone, all'avan-guardia della "modernità", fa ricorso ai subappalti in misura molto mag-giore dei paesi della CEE e degli Stati Uniti).

In secondo luogo, la retorica sul peso crescente di questi settori,all'insegna del "piccolo è bello", si è basata su fenomeni parziali econgiunturali, su generalizzazioni troppo frettolose, e in ogni caso comin-cia a non essere più di moda. A volte, si esagera addirittura in sensoinverso, per esempio, quando si parla di "scomparsa delle classi medie"negli Stati Uniti, mentre il fenomeno reale che si è delineato in questopaese nell'era reaganiana è stato una differenziazione della cosiddetta

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classe media, in minima parte entrata a far parte dei settori con redditi piùalti, per lo più, invece, precipitata verso il basso.

Fenomeni analoghi si sono verificati nei paesi industrializzati a livellodi classi medie rurali, nonostante le misure protetti ve adottate, per ragionielettoralistiche, soprattutto da certi governi della CEE. Si assiste a un' ine-vitabile, ulteriore differenziazione. Da un lato, l'estendersi dell' agricoltu-ra industrializzata, anche nei paesi sottosviluppati, comporta una crescitadel lavoro salariato (il che non significa necessariamente aumento assolutodegli addetti, dati gli sviluppi tecnologici), dall'altro, gli strati medi piùforti si inseriscono in questo processo raggiungendo una condizionesociale sempre più vicina a quella della borghesia (pur senza una completaidentificazione).

Venendo agli strati della società quantitativamente di gran lunga pre-valenti, l'evoluzione degli ultimi decenni, che non sembra destinata amutare a breve o a medio termine, è stata caratterizzata soprattutto da duefenomeni:

-l'accrescersi del numero dei lavoratori salariati o dipendenti;- l'accrescersi, in gran parte del mondo, del numero di coloro che sono

espulsi del tutto o in larga misura dai processi produttivi, non hanno nessunlavoro o svolgono lavori saltuari e precari, spesso ai margini della legge.

Il primo fenomeno, è bene ribadirlo esplicitamente, riguarda gli stessipaesi capitalisti industrializzati. Con il protrarsi dell' onda lunga di rista-gno e in seguito alle innovazioni tecnologiche, si è registrata una contra-zione del numero degli operai industriali, specialmente della grandeindustria6. Ma non si ripeterà mai abbastanza che i tratti essenziali di unasocietà capitalistica consistono, secondo la concezione marxiana, nellageneralizzazione della produzione di merci e nella predominanza dellavoro salariato, cioè di coloro che devono vendere la loro forza lavoroper procurarsi i mezzi di sussistenza. Ora, della mercificazione universale,non solo della produzione ma di tutti gli aspetti della vita, nelle forme piùrivoltanti, siamo testimoni tutti i giorni, letteralmente da quando ci sve-gliamo sino a quando ci corichiamo. Quanto al lavoro salariato, abbiamogià accennato alla trasformazione, in linea di diritto o di fatto, in lavoratoridipendenti di settori di piccola borghesia rurale e, aggiungiamo ora, dipiccola borghesia urbana (basti pensare, per esempio, alle trasformazionidel commercio in seguito al diffondersi delle grandi reti di distribuzione).Inoltre, anche altri settori del terziario o dei servizi, hanno subito un

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processo di industrializzazione con l'introduzione di metodi di organiz~a-zione e gestione di tipo industriale e persino molti tra i cosiddetti liberiprofessionisti sono diventati, in sostanza, dipendenti di grandi società o dicollettività, pur continuando a realizzare anche redditi autonomi?

Va precisato che in una serie di paesi sottosviluppati, quelli ovviamenteche hanno conosciuto processi sia pur parziali e deformati di industrializ-zazione, sono aumentati gli operai industriali, cioè i salariati più classici.Questa tendenza continuerà a manifestarsi -e a estendersi, in determinaticontesti, a paesi ex-"socialisti" - nella misura in cui le multinazionalicercano di ridurre i costi agendo sempre più sistematicamente su diversiscacchieri mondiali e le moderne tecnologie permettono trasferimenti diattività con una rapidità sconosciuta sino a pochi anni fa.

In conclusione, soprattutto se si valuta su scala mondiale - e1' approcciomondiale è legittimo data l'internazionalizzazione dell' economia - ilfenomeno di fondo è costituito dall' aumento, e non dalla diminuzione, deilavoratori salariati e dall'aumento -o il mantenimentoa livelli comunquepiù elevati di quelli non solo degli anni '20 e '30, ma anche dei primidecenni dopo la seconda guerra mondiale - della stessa classe operaiaindustriale.

Quanto al secondo fenomeno, l'aumento della popolazione cosiddettamarginale, nei paesi sottosviluppati si è verificata una crescita per orainarrestabile di strati sociali compositi, per cui la definizione più adeguataè quella di masse plebee, anche per l' assonanza con fenomeni storicamen-te 'remoti di emarginazione e 'di esistenza parassitaria. Proprio questemasse rappresentano -grande parte di quella popolazione al di sotto deilivelli "ufficiali" di povertà, cioè a una esistenza subumana, che -nessunapersona cosciente dovrebbe dimenticarlo neppure per un minuto - costi-tuisce la grande maggioranza degli abitanti del pianeta (e che, aggiungia-mo, è sin d'ora la vittima designata delle deva stazioni ambientali,imminenti o a lungo termine).

La novità dell'ultimo decennio è che questi strati emarginati sonoaumentati e continuano ad aumentare anche "nella società del benessere"

dei paesi industrializzati. Esiste ormai una massa considerevole di disoc-cupati, che non si è ridotta in misura apprezzabile neppure in fasi di ripresacongiunturale, con il corollario che un numero crescente di persone nonsi è mai inserito in normali processi produttivi (è ovvio che si trattasoprattutto di giovani). La portata di questo fenomeno dal punto di vista

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dei livelli di vita è stata per ora contenuta, grazie all'esistenza di più redditinello stesso nucleo familiare e di riserve, sia pur modeste, accumulatedalle generazioni precedenti. Ma non c'è bisogno di grandi inchiestesociologiche per capire che questi contrappesi tenderanno inevitabilmentead agire sempre meno, se non a scomparire, salvo che si verifichi unaradicale inversione di tendenza (ipotesi che, per il momento, nessuno sisente di avanzare).

Tendenze in Italia

Venendo al caso dell'Italia, alla vigilia della recessione del 1974-75era possibile constatare:

- un ulteriore sviluppo della concentrazione del capitale nelle suediverse forme;

-un aumento del peso specifico sociale e polit.ico della classe operaia(il proletariato, nell'accezione che abbiamo precisato, rappresentando lanetta maggioranza della popolazione attiva);

-un' espansione delle classi medie nuove e di nuovi strati di proletariatoa spese delle classi medie tradizionali.

Via via che la recessione si precisava, si delineavano abbastanzachiaramente le tendenze più probabili (nell'eventualità che non mutasseradicalmente il quadro politico). Si sarebbe ristretto il quadro del processodi accumulazione con un incremento delle forze di lavoro espulse oemarginate, con una contrazione quantitativa della classe operaia, unaprogressiva erosione dei suoi livelli di vita e una sua crescente differen-ziazione interna. Non sarebbe aumentato il peso specifico delle classimedie, nella}:IlÌsura in cui alcuni strati più tradizionali si sarebbero ancoraassottigliati mentre una ulteriore espansione dei nuovi strati sarebbe stataostacolata dal contrarsi della produzione in generale8.

A oltre quindici anni di distanza il bilancio non dà adito a dubbi: inlinea di massima, sono proprio queste le tendenze che si sono concretiz-zate.

Quando saranno noti i dati completi dell'ultimo censimento - di cuimentre scriviamo non conosciamo che qualche sommaria anticipazione -,si potranno fare analisi più sistematiche9. Per il momento, possiamoaffermare, in primo luogo, che, per quanto riguarda le classi dominanti,

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valgono considerazioni analoghe a quelle accennate in generale a propo-sito dei paesi industrializzati. Sono continuati i processi di concentrazione,mentre hanno assunto un ruolo più rilevante gruppi industriali nuovi orelativamente nuovi (il che fa parte, del resto, della normale fisiologia diuna società capitalista). Si sono accresciute, specie in certi momenti, leattività finanziarie e speculative, ma, come è noto, è difficile stabilire nettedistinzioni per la semplice ragione che non di rado le stesse persone e glistessi gruppi sono impegnati contemporaneamente sui vari fronti. Quantoalla tecnocrazia e alta burocrazia statale, se ha perduto prestigio nell'eradi esaltazione del privato e, più concretamente, a causa degli insuccessidel settore che gestisce, non si è, tuttavia, contratta. Staremo a vedere sequesto si verificherà nell'ipotesi che si realizzino i conclamati progetti diprivatizzazione (un sano scetticismo in merito ci sembra del tutto giusti-ficato). Non c'è dubbio, invece, che è ancora diminuito il peso deiproprietari di terre e della borghesia agraria.

Per quanto riguarda le classi medie, è continuata l'erosione degli stratipiù tradizionali, non compensata da un allargamento degli strati nuovi,che in realtà non si è verificato. Il fenomeno più rilevante è stato,comunque, anche in Italia il consolidarsi, se non l'accrescersi, dellaassoluta preponderanza del lavoro salariato o dipendente, che include, tral'altro, non dimentichiamolo, gran parte degli addetti alle attività terzi a-rielO.

Infine, gli elementi di maggiore novità sono consistiti in un ristagno oin un restringimento dei salariati industriali, specialmente della grandeindustria, che tuttavia non corrisponde a una perdita sostanziale di pesospecifico dell'industria e soprattutto dei suoi settori decisivi; in unadiversa distribuzione del lavoro salariato (con un incremento netto, peresempio, nelle grandi reti commerciali); nell'aumento e nella permanenzaa livelli elevati della disoccupazione, in particolare di quella giovanile; inun aumento dell' occupazone precaria e della popolazione "marginale"urbana.

Quanto alle differenziazioni interne della classe operaia, si sono effet-tivamente accresciute e la scelta deliberata del padronato è di accentuarleulteriormente. Ma si tratta di un problema, che ha una portata ancor piùpolitica che sociale e su cui ritorneremo in un capitolo successivo.

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È possibile un rilancio globale del capitalismo?

All'ultima delle domande che ci siamo posti all'inizio, cioè quellasulla possibilità di un rilancio di ampio respiro del capitalismo, nell'am-bito inevitabilmente limitato di questo saggio, cercheremo di risponderearticolandola in tre domande più specifiche:

l) È possibile una ripresa economica non puramente congiunturale deipaesi capitalisti industrializzati (CEE, America del Nord e Giappone)?

2) È possibile una inversione di tendenza nei paesi sottosviluppati?3) È possibile a breve o a medio termine il ricupero dell'Europa

centro-orientale ed ex-URSS, o addirittura della Cina, al mercato mondia-le capitalista o, detto altrimenti, sono realizzabili i progetti di restaurazionecapitalista?

Vada sé che la risposta non è affatto semplice. Ma esistono una seriedi elementi per tentarla.

In primo luogo, nell'analisi delle tendenze economiche, bisogna averepresente una importante distinzione: quella tra l'andamento congiunturalea breve e medio termine e l'andamento ciclico di più ampio respiro. Inquesto senso, la categoria delle onde lunghe, di cui si sono serviti da lungadata economisti marxisti e non marxisti, resta valida.

Per limitarsi agli ultimi settant'anni, un'onda lunga, di cui la grandedepressione del 1929-32 ha costituito il momento più drammatico, si èprodotta tra le due guerre mondiali, con un alternarsi di fasi congiunturali,ma sullo sfondo di un ristagno complessivo. Una seconda fase è iniziataalla fine degli anni '40 o all'inizio degli anni '50 (a seconda dei paesi edelle aree geografiche): è stata un'onda lunga di espansione sintetizzatadal boom prolungato di circa un ventennio, al di là, anche in questo caso,delle variazioni congiunturali. Una terza fase, una nuova onda lunga diristagno, si è aperta con la più grave recessione dopo gli anni '30, quelladel 1974-75. Da questa fase, nonostante riprese congiunturali, alcuneanche di durata relativamente lunga, in questa prima parte degli anni '90l'economia capitalista internazionale non è ancora uscita.

Da un punto di vista più congiunturale, la situazione attuale è, tuttosommato, chiara: l'economia capitalista è stata investita su scala mondialeda una recessione che, stando agli elementi a disposizione, è paragonabilea quella del 1981-82, se non addirittura di maggiore gravità. Meno chiaroè quali saranno le scadenze e la portata della ripresa di cui non esistono,

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mentre scriviamo, çhe alcuni timidi preannunci e non necessariamente intutti i paesi più importanti. Comunque sia, non pochi economisti propen-dono per la tesi secondo cui si tratterà di una ripresa limitata e circoscrittanel tempo, che, quel che è più importante, consentirà solo molto parzial-mente un riassorbimento delle conseguenze negative della recessione. Inparticolare, quasi nessuno si azzarda a prospettare una riduzione dell' or-mai cronico fenomeno di una disoccupazione ufficialmente attorno alI 0%della popolazione attiva e in realtà ancora più elevata.

Al di là delle vicende congiunturali, il battage propagandistico sulfallimento del "comunismo" serve sempre meno a mascherare la situazio-ne delle maggiori potenze imperialistiche. La stessa Germania conoscedifficoltà crescenti, congiunturali e strutturali, incontra ostacoli molto piùseri del previsto nell' operazione di assimilazione capitalistica dell' ex-Re-pubblica democratica ed è entrata in una fase di squilibri e di conflitti qualinon aveva conosciuto da quasi quarant'anni a questa parte. Ma è soprat-tutto sulla situazione degli Stati Uniti e sulle tendenze che si sono venutedelineando in Giappone che vogliamo brevemente soffermarcÌ.

Come ormai devono riconoscere, magari a denti stretti, molti di coloroche avevano ceduto alle sirene dell'apologia (a volte nelle stesse file dellasinistra), l'era reaganiana non ha fatto che aggravare il declino dellasocietà nordamericana già iniziatosi negli anni '70 e forse non ha tutti itorti chi dice che anche gli Stati Uniti hanno pagato a caro prezzo la guerrafreddall. In sintesi, hanno subito un declino della loro economia, partico-larmente accentuato in settori industriali decisivi; hanno perduto terrenorispetto ai maggiori concorrenti nel commercio internazionale; hannoaccumulato un debito estero interno ed estero colossale12; hanno dovutoricorrere su larga scala all'intervento del capitale straniero e all'alienazio-ne di beni nazionali; stanno pagando duramente le gravi conseguenze dellainsolvenza delle casse di risparmio; sono minacciati da una crisi bancariadi dimensioni imprevedibili. Il sistema scolastico e quello sanitario sonoin condizioni letteralmente disastrose per la maggioranza della popolazio-ne, che non può ricorrere alle cliniche private e accedere alle Universitàriservate a ristrette élites (frequentate spesso da rampolli della nostraclasse dominante). E non parliamo delle cosiddette infrastrutture (strade,ponti, canalizzazioni, strutture urbane, ecc.), che sono in larga misuraobsolete, se non decrepite, e che hanno provocato anche di recente vere eproprie catastrofi (per esempio, al centro ~tesso di una città "moderna"

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come Chicago). La stessa guerra del Golfo, la manifestazione più clamo-rosa della supremazia militare dell'imperialismo americ~o, è stata pos-sibile senza un ulteriore aggravarsi dell'indebitamento in quanto è statapagata quasi interamente dagli alleati europei, asiatici e mediorientali.

Sulle conseguenze sociali di tutto questo esistono ormai fonti innume-revoli di documentazione 13.I fenomeni più vistosi sono assolutamenteincontestabili: accentuarsi costante di una polarizzazione sociale per cuigli strati più ricchi sono divenuti più ricchi e i più poveri si sono ulterior-mente impoveriti; aumento della già elevata percentuale della popolazio-ne, tra cui un quinto dei bambini, al di sotto del livello anche ufficiale dipovertà; circa un terzo dei 100 milioni di lavoratori occupati dell' erareaganiana ai limiti della povertà; impoverimento della maggioranza dellefamiglie tra il 1977 e il 1991; declassamento di larghi strati di classeoperaia14; riduzione dei livelli di vita di ampi settori di classe media;contrazione dei già limitati benefici sociali (assicurazioni malattie, pen-sioni, indennità di licenziamento, sovvenzioni sociali varie ecc.). Neppurele fonti più apologetiche osano prevedere una inversione di tendenza ascadenze prevedibili, mentre qualcuno ha immaginato addirittura scenarifuturi di conflitti generalizzati ai limiti della guerra civile15. Che non sitrattasse di pure fantasie, lo hanno confermato in modo clamoroso leesplosioni di fine aprile di quest'anno a Los Angeles e in altre metropolinordamericane. Dopo questi avvenimenti gli stessi apologeti del capitali-smo avranno difficoltà a contestare i dati analitici che abbiamo somma-riamente richiamato.

La situazione del Giappone è indubbiamente diversa da quella degliStati Uniti. Ma è un po' paradossale che proprio quando l'imperativo diimparare dal Giappone era divenuto un luogo comune negli Stati Uniti ein Europa occidentale, il "modello" cominciasse a scricchiolare nellamadrepatria. Sta di fatto che, dopo un'espansione di 59 mesi, anche inGiappone si è delineata una dinamica recessiva e si sono prodotti oaccentuati fenomeni che hanno appesantito un clima politico già teso inseguito a una ondata di scandali che aveva coinvolto ampi settori deigruppi dirigenti e in particolare il partito di maggioranza. Basti pensarealla crisi della borsa, alla minore disponibilità di capitali che ha suggeritodi ridurrre, se non di sopprimere, investimenti e acquisti di proprietàall'estero, alle capacità produttive sottoutilizzate e al deteriorarsi dellasituazione di alcune delle maggiori società, come la Sony, la Matsushita,

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la Toyota e la Nissan, che hanno registrato i bilanci peggiori degli ultimidodici anni e che devono far fronte per di più a un pesante indebitamentol6.

I segni annunciatori di difficoltà e il sopraggiungere della difficoltàhanno suggerito progetti di mutamenti di rotta rispetto agli orientamentidi fondo del passato. Il paradosso cui abbiamo alluso all'inizio è apparsocome rovesciato: tra i giapponesi cominciava a farsi strada l'idea dimisure da Stato sociale proprio mentre in Europa padroni e governifacevano del loro meglio per seppellirlo! Era lo stesso presidente dellaSony, Akio Morita, a dichiarare che "il Giappone dovrebbe svilupparealcune caratteristiche delle economie dell'Europa e degli Stati Uniti e che,invece di accumulare la ricchezza nelle mani delle compagnie, dovrebbetrasferirle nelle mani degli operai e dei consumatori sotto forma di unprolungamento delle ferie, di migliori salari, di un abbreviamento dellavita lavorativa, di un miglior ambiente e di una migliore qualità della vita,in particolare per quanto riguarda le abitazioni" ("Financial Times", 15-16febbraio 1992)17.Quale migliore prova della contraddittorietà delle situa-zioni e della precarietà delle scelte negli stessi paesi capitalisti industria-lizzati? Disgraziatamente per Morita, non sarà così facile tradurre inpratica la svolta che prospetta in un contesto di crescenti difficoltà e di unacutizzarsi della concorrenza internazionale. Lo dimostra la dichiarazione

di un altro manager giapponese, che ha spiegato per parte sua che "moltecompagnie hanno adottato metodi benevolmente paternalisti nei momentifavorevoli, ma ora c'è bisogno di un'impostazione più tirannica" ("Busi-ness Week", 27 aprile 1992).

Questo quadro dei paesi capitalisti più potenti fornisce già elementi dirisposta alla domanda se è possibile che a scadenze prevedi bili si esauriscal'onda lunga di ristagno e si delinei una nuova onda lunga di espansione.Più in generale si può dire che nessuno dei fattori che sono stati all' originedi altre onde lunghe di espansione sembrano delinearsi per il momento.Soprattutto, non si delineano fattori trainanti decisivi che possano averela stessa funzione che hanno avuto i beni di consumo durevoli nel boom

del dopoguerra nell'Europa occidentale, in cui peraltro la dinamica ascen-dente è stata stimolata esostenuta dalle esigenze della ricostruzione dalle

rovine della guerra. Né sembra probabile un ampliamento degli sbocchinel Terzo mondo analogo a quello seguito all'istaurazione dei regimineocoloniali. Settori nuovi e dinamici potranno emergere e svilupparsi,ma, almeno per ora, non se ne intravedono di tali da poter alimentare

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un'accumulazione allargata in un'ascesa di ampio respiro. I casi dell'in-formatica e dell'elettronica sono in proposito eloquenti. Soprattutto all'i-nizio degli anni '80 alcuni avevano pensato che proprio questo settoreavrebbe potuto prendere il posto di quello dei beni di consumo durevolicome fattore propulsivo di una nuova onda di espansione. Non pretendia-mo di fare pronostici, tanto più che non siamo specialisti in materia:possiamo, tuttavia, constatare che questa ipotesi non si è verificata e, datala natura del settore stesso e le difficoltà che incontra già da qualche tempo,non sembra che la situazione possa mutare radicalmente nel futuro.

Passiamo a questo punto al secondo interrogativo, sui paesi sottosvi-luppati. Dal punto di vista del capitale internazionale, la possibilità dinuovi spazi appare alquanto problematica, salvo casi eccezionali chedovrebbero essere peraltro analizzati più da vicino: la posta in giuocorischia di essere soprattutto una spietata lotta tra forze imperialiste eneocolonialiste per strapparsi reciprocamente gli spazi già esistenti. Quan-to alla dinamica interna dei paesi sottosviluppati, dati forniti di recentedalle Nazioni Unite hanno messo in risalto ancora una volta la spaventosaspirale regressiva in cui sono imprigionati senza troppe speranze di cam-biamentolS. In realtà, nel contesto dato, cioè senza mutamenti rivoluzio-nari e su vasta scala, non si vede come ci possa essere una inversione ditendenza. L'ipotesi più fondata resta che sia per il fardello del debito, siaper tutte le altre ragioni note, i paesi sottosviluppati continueranno apagare un duro prezzo all'accresciuta concorrenza tra i paesi industrializ-zati, le multinazionali e le diverse aree di influenza imperialista. I vantaggiche certi paesi potranno eventualmente ottenere, per esempio, grazie aitrasferimenti di attività cui abbiamo già accennato, saranno del tuttoprecari e limitati (c'è appena bisogno di aggiungere che a beneficiarne nonsaranno, comunque, le grandi masse, ma ristrette élites locali). Aggiun-giamo che gli stessi paesi che hanno registrato processi di industrializza-zione e una crescita relativa negli ultimi due decenni, per esempio, laCorea del Sud e Taiwan, raggiungeranno a un determinato momento iltetto dello sviluppo nel quadro socio-economico esistente e comincerannoessi pure a pagare il prezzo dell' accentuarsi della concorrenza e ad entrarea loro volta in una fase di ristagno. Più in generale, questi paesi sarannoinvestiti dal combinarsi di due tipi di contraddizioni: quelle che derivanodalla loro condizione di paesi arretrati o inegualmente sviluppati e quelleche derivano dalla relativa modernizzazione che hanno realizzato.

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In conclusione, non solo ci sembra di poter escludere nei paesi sotto-sviluppati un'inversione di tendenza, ma è anche assai improbabile che inquesta o quella regione ci siano nuovi processi di parziale industrializza-zione e modernizzazione paragonabili a quelli che hanno conosciuto neglianni '30 e negli anni '50 e '60 alcuni paesi latinoamericani e negli anni'70 e '80 alcuni paesi asiatici.

Infine, quali sono le prospettive di restaurazione del capitalismo nel-l'Europa centro-orientale e nell'ex Unione Sovietica?

A questo propo~ito è ancora più arduo azzardare previsioni, perché citroviamo di fronte a una situazione storica senza precedenti e non ci puòessere di aiuto nessuna analogia, sia pure relativa. A parte il fatto che losbocco non sarà necessariamente lo stesso per tutti questi paesi e che, peresempio, il caso della Russia è per molti aspetti ben diverso da quellodell 'Ungheria, da un lato, e di una repubblica asiatica, dall' altro, sipossono avanzare due ipotesi limite.

La prima è quella di un fallimento dell'operazione di restaurazione.Ciò avrebbe naturalmente ripercussioni di incalcolabile gravità per ilcapitalismo internazionale e lo sbocco sarepbe o un riconsolidamento -poco probabile - di un regime burocratico autoritario o -più verosimil-mente - una decomposizione socio-economica generalizzata e prolungatacon conseguenze potenzialmente esplosive per gli equilibri mondiali.

La seconda è quella di un parziale successo da un punto di vistacapitalista. In questo caso si creerebbe una situazione di sviluppo capita-listico in certe aree, sotto l'egemonia delle multinazionali o del capitalestraniero più in generale, con settori più o meno consistenti di capitalenazionale. Emergerebbe un tipo di società e di situazioni molto più similea quello di certi paesi classicamente sottosviluppati che a quello dei paesicapitalisti industrializzati. Nonostante gli inevitabili squilibri e contraddi-zioni, questo potrebbe effettivamente dare un nuovo respiro al capitalismointernazionale, specie se potesse realizzare contemporaneamente una ana-loga penetrazione in Cina19.

Per parte nostra, consideriamo questa seconda ipotesi ben poco proba-bile. n tratto più caratteristico della fase attuale ci sembra un' estremaprecarietà e transitorietà a tutti i livelli, con tendenza alla frammentazione eal moltiplicarsi di forze centrifughe. n cammino verso una restaurazionecapitalistica sarà in ogni caso un processo lungo, conflittuale e contraddit-torio. Tenendo conto della intrinseca debolezza degli attori sociali e politici

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autoctoni e delle difficoltà delle grandi potenze capitalistiche e delle loroesitazioni a impegnarsi in un'impresa dagli sviluppi difficilmente prevedi-bili, non è probabile una "riconquista" globale a breve e a medio terminedella Russia o della cosiddetta Comunità degli Stati indipendenti (ammessoche sopravviva). Propendiamo per una variante storicamente originale, cioèil coesistere di modi di produzione e di meccanismi economici diversi conuna divisione di fatto in zone d'influenza regionali e settoriali. Tensioni,divaricazioni, laceranti diseguaglianze nello sviluppo saranno inevitabilicon non meno inevitabili conseguenze sociali e politiche2o.

La conclusione è che, lungi dal poter rilanciarsi trionfalmente nellaparte del mondo che era sfuggita al suo controllo e acquisire una rinnovatalegittimità storica, il capitalismo si scontrerà ancora una volta con lecontraddizioni intrinseche che ne hanno segnato il cammino e che appa-riranno sempre più insormontabili nell'ora del declino. Si scontrerà con-temporaneamente con la logica di società che non erano più capitaliste econ certe acquisizioni che lo stalinismo e post-stalinismo non avevanocompletamente distrutto o svuotato di contenuto. Il tripudio del "liberomercato" e della "civiltà democratica occidentale" rischierà di trasformar-

si, quali che siano le scadenze, in un boomerang fatale.

Note

I A questo proposito ci permettiamo di rimandare al capitolo "Erano possibilialtre alternative?" del nostro libro Al termine di una lunga marcia: dal PC] al PDS,Erre Emme, Roma, 1990.

2 Cfr., per esempio, l'ultimo capitolo del già citato Al termine di una lungamarcia: dal PC] al PDS.

3 Disastri ambientali non meno gravi sono stati provocati nelle società ditransizione burocratizzate a causa dei meccanismi alienanti specifici di questeultime, che non possiamo analizzare in questa sede. Comunque, l'elemento nega-tivo determinante è stato l'assenza di una qualsiasi forma di gestione democraticadella società.

4 Un caso da manuale è quello della GeneraI Motors, ai cui vertici è scoppiatoun conflitto estremamente acuto, che si è concluso con la vittoria degli azionisti edei "direttori non esecutivi", cioè gli uomini di fiducia degli aZionisti stessi, e lasconfitta dei manager. Per una sintesi efficace della vicenda, cfr. "FinancialTimes", 13 aprile 1992.

5 D'altra parte, le medie e piccole industrie più dinamiche sono spesso ad alta

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intensità di capitale e usano tecnologie di punta. I loro proprietari o i loro azionistisono inseriti assai più nella borghesia che nelle classi medie.

6 I criteri di definizione di una grande industria sono spesso poco rigorosi, senon arbitrari. È ovvio, per esempio, che un'industria non diventa media o piccolaper il fatto di passare da 10.000 a 2-3.000 dipendenti.

7 Si è discusso qualche anno fa sulle riorganizzazioni del lavoro basate sull'usodel computer a domicilio. Nella maggior parte dei casi, si tratta di una forma didipendenza salariale appena camuffata, di una sorta di lavoro a cottimo. D'altraparte, esiste pure una vera e propria organizzazione industriale dello stesso tipo dilavoro. Un esempio sconvolgente è stato illustrato da un ottimo reportage sulleFilippine di un canale televisivo francese. Molte centinaia di giovani donnelavoravano nello stesso salone con un ordine implacabile, battendo la tastiera delloro computer senza interruzione e a ritmi impressionanti. Quelle che non com-mettevanonessunerrore-e il margine di errore ammesso era estremamente esiguo- ricevevano un premio in natura. Ecco come un lavoro ultramoderno si rivela nonmeno alienante e non meno atroce del lavoro in una fabbrica del secolo scorso.

8 Cfr. a questo proposito il nostro libro Dinamica delle classi sociali in Italia,Samonà e Savelli, Roma 1975.

9Secondo la relazione generale sulla situazione economica 1991, si è verificato,rispetto al 1990, un aumento dello 0,4% dei lavoratori dipendenti. D'altra parte, ilsociologo Luciano Gallino ha detto di recente: "La quota di lavoratori manuali inItalia è pressocché analoga a quella del 1951: cinque milioni di persone" ("l'Unità",8 giugno 1992).

lORicordiamo che settori di produzione che vengono classificati correntementenel terziario, sono in realtà settori industriali o comunque direttamente legatiall'industria.

Il Questa tesi è apparsa di frequente sulla stampa americana negli ultimi mesi.Per esempio, uno scrittore che aveva fatto parte dello staff presidenziale di Johnsone di Nixon ha scritto su "International Herald Tribune": "Economicamente la

sconfitta sovietica è completa. Ma la guerra fredda ha divorato la produttività, ilreddito reale e la competitività della stessa America, lasciando un gap maligno traricchi e poveri e condizioni sociali vergognose e pericolose" (6 febbraio 1992).

12Il noto fenomeno italiano di un deficit statale alimentato dal pagamento degliinteressi di buoni del tesoro non è meno grave negli Stati Uniti. Dati recentisull'enorme deficit federale sono comparsi in un articolo del "New York Times"(25 aprile 1992).

13Articoli significativi sulla situazione interna sono comparsi di frequente nelcorso dell'ultimo anno sulla stampa degli Stati Uniti, dal "New York Times" al"Washington Post", oltre che nell'edizione europea di "International Herald Tri-bune", per non parlare di pubblicazioni periodiche liberals o della sinistra marxista(per esempio, "Against the Current"). Tra i libri più significativi comparsi negliultimi cinque anni, ce ne sono di autori degli indirizzi più disparati. Ricordiamo,per esempio, quello di un collaboratore di Nixon, Kevin Phillips, The Politics 01

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Rich and Poor (Harper Perennial, New York, 1991) e per quanto riguarda la sinistraMike Dave, The Prisoners of the American Dream (Verso, London-New York,1986) e Kim Moody, An lnjury to all: the decline of American Unionism (Verso,1988). Per i problemi delle riorganizzazioni del lavoro è di notevole interesse MikeParker e lane Slaughter, Choosing Side: Unions and the Team Concept (LaborNotes Book, Boston, 1988).

14Sulle differenziazioni in seno alla classe operaia a pàrtire dagli anni '70, cfr.il citato libro di Mile Dave, p. 278..

15Cfr. Phillips, op. citop. 154.16PeriI caso della Nissan, cfr. "International Herald Tribune" (21 aprile 1992).17Cfr. anche "Corriere della sera" (19 febbraio 1992). Lo stesso giornale, in

un articolo del 25 marzo, ha fatto allusione a progettati mutamenti per quantoriguarda la definizione dei modelli di vetture che sin qui erano considerati comeuno dei punti di forza dei giapponesi. Per quanto riguarda problemi dell' economiae dell' organizzazione del lavoro in Giappone segnaliamo un interessante libro diBenjamin Coriat, Penser à ['envers: travail et organisation du travail dans['entreprise japonaise, Paris, 1991 e il saggio di Muto Ichiyo, Lutte de classe etinnovation technologique au Japon depuis 1945, pubblicato nel 1990 dall'Istitutointernazionale di ricerche e di formazione di Amsterdam.

18Basti qui ricordare che mentre nel 1960 il 20% più ripco della popolazionemondiale disponeva di un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero,trent'anni dopo il distacco era raddoppiato. Se si confronta il miliardo più poverocon il miliardo più ricco il rapporto è di 1a 150. Quanto al debito estero, il rimborsoè costato ai paesi indebitati, tra il 1983 e il 1989, 242 miliardi di dollari, mentre lebarriere doganali imposte dai paesi industrializzati sono costate ai paesi poveri 40miliardi di dollari all'anno. Complessivamente, sempre secondo i calcoli degliesperti dell'ONU, ogni anno sono stati "negati" ai paesi sottosviluppati 500miliardi di dollari, cioè dieci volte quanto hanno ricevuto sotto forma di "aiuti".

19In Cina assistiamo attualmente, soprattutto in alcune regioni, a un moltipli-carsi di società miste e a una penetrazione di capitale internazionale in varie forme,oltre che a una crescita di imprese private nazionali. n regime politico esistente,nonostante tutte le aperture, costituisce un ostacolo a uno sviluppo qualitativamen-te superiore in questa direzione. A un certo momento, conflitti saranno inevitabili.Nel caso di una crisi del tipo di quella che ha sconvolto l'URSS, tendenzecentrifughe potrebbero operare anche in Cina, se pur non in relazione a questioninazionali, e potrebbe, al limite, prodursi una decomposizione del paese, fenomenogià conosciuto in altre epoche prima della rivoluzione. Una situazione veramentenuova si delineerebbe qualora il passaggio a un' economia di mercato generalizzatae una restaurazione capitalistica avvenissero in forma graduale e politicamentecontrollata. Ma si tratta di una eventualità del tutto astratta, anche se non esclusasul piano puramente teorico.

20Sugli sviluppi e sulle prospettive dell' ex Unione Sovietica, v. il nostro articolo"Dopo la fine dell 'URSS: quale transizione?" in "Marx centouno", n. 8, marzo 1992.

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Capitolo quarto

DIFFICOLTÀ E CONTRADDIZIONI DELL'IMPRESARIFONDATRICE

Le risposte ai tre interrogativi posti all'inizio del capitolo precedenteconsentono di trarre la conclusione che i bisogni, le aspirazioni e lecontraddizioni che erano stati all'origine della formazione del movimentooperaio e avevano' costituito il presupposto oggettivo della sua lotta,sussistono anche dopo l'involuzione degli anni '80 e il terremoto del 1989e del periodo immediatamente successivo. È partendo da qui che ha unsenso prospettare una rifondazione comunista e, ripetiamolo, una rifonda-zione del movimento operaio più in generale. Vada sé che l'impresa dovràassumere dimensioni internazionali ed è sul piano internazionale che, inultima analisi, si deciderà del suo successo o del suo fallimento.

Il nostro saggio si riferisce soprattutto al processo italiano. Non soloper l'ovvia ragione che possiamo basarci su conoscenze maggiori e piùdirette, ma anche perché l'esperienza italiana è per il momento la piùsignificativa. Dicendo questo, non crediamo di cedere a una tentazionesciovinista né a una presunzione di partito. Si tratta di prendere atto diquello che esiste e che è il risultato non tanto dell'iniziativa di coloro chesi sono impegnati nell'impresa, quanto delle vicende, particolarmentericche da tutti i punti di vista, che il movimento operaio ha vissutonell'arco dell'ultimo mezzo secolo (per non risalire più lontano). Progettie tentativi di rifondazione non sono mancati e non mancano in altri paesi,dalla Francia alla Spagna, dalla Grecia al Portogallo e, mutatis mutandis,

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nella stessa Germania riunificata. Ma per ora la tendenza prevalente, anchese non esclusiva, è sembrata un'evoluzione verso partiti socialisti osocialdemocratici, con rotture, per così dire, sulla destra dei partiti comu-nisti, e comunque di portata non paragonabile alla rottura di Rimini delfebbraio 1991.

L'esistenza di condizioni oggettive su cui basare non utopisticamenteo velleitariamente una rifondazione comunista non costituisce di per séuna garanzia di riuscita dell' operazione. È una considerazione che puòapparire banale, ma non è inutile faria perché questa elementare veritàdeve costituire uno stimolo all'azione, all'azione organizzata, conditiosine qua non di un'inversione di tendenza e di un successo a medio e alungo termine.

Un'altra cosa ovvia è che dobbiamo essere coscienti delle enormidifficoltà che ci troveremo di fronte, senza lasciarci abbacinare dai suc-cessi parzialmente conseguiti. Ma non si tratta genericamente di difficoltà.Dobbiamo fare i conti con vere e proprie contraddizioni o antinomie chenon esistono solo nelle nostre teste, ma prima ancora nella realtà.

Queste antinomie hanno al tempo stesso radici antiche e origini piùrecenti e, in generale, si presentano oggi in forme più dirette e, storica-mente parlando, più urgenti che in qualsiasi altro momento della vicendasecolare del movimento operaio. Per cominciare, passiamole rapidamentein rassegna, prima di affrontare la problematica che ne deriva nei capitolisuccessivi.

Esiste innanzi tutto una contraddizione tra la crescente interdipendenzao, più precisamente, internazionalizzazione dell'economia e, in ultimaanalisi, delle dinamiche socio-politiche, da un lato, e, dall'altro, l'esplo-dere di forze centrifughe molteplici e, per quanto riguarda il movimentooperaio, una frammentazione estrema c.on l'assenza di ogni punto diriferimento unificatore o anch~ solo coordinatore sul piano internazionale.

Una seconda contraddizione è quella tra la necessità di superare il"modello" capitalistico di regolazione dell' economia a posteriori, tramiteil mercato, con tutte le sue conseguenze devastatrici, e di istituire unaregolazione ex ante, cioè una programmazione cosciente e attiva, da unaparte, e, dall'altra, le tendenze attualmente prevalenti all'enfatizzazionedel decentramento, delle autonomie locali e aziendali, alla negazione delruolo dello Stato o di istituzioni politiche centrali, con la proclamazionedel valore universale delle "leggi del mercato".

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In terzo luogo, c'è contraddizione tra le conclusioni unilaterali eimpressionistiche che si traggono, nella maggior parte dei casi, dai bilancidi fallimento delle società di transizione burocratizzate e degli stessi partitioperai dei paesi capitalisti e che portano a una accettazione, per convin-zione o per malinteso "realismo", del quadro della società esistente comel'unico possibile, almeno per un periodo di tempo indefinito, e la necessitàdi prospettare un'alternativa globale, di strategia anticapitalista.e di rilan-do delle lotte, per costruire o ricostruire movimenti e organizzazioni.

In quarto luogo, esiste la contraddizione tra la frammentazione escomposizione subite dal proletariato con le conseguenti trasformazioni,già avvenute o potenziali, nel suo tessuto. e con il suo indebolimentostrutturale, per temporaneo che possa essere, e l'esigenza di una ricompo-sizione, riunificazione e ricentralizzazione per far fronte alle offensiveavversarie in corso e a maggior ragione per rilanciare un'offensiva conobiettivi strategicamente alternativi.

Sul piano più strettamente politico, c'è una almeno parziale contraddi-zione tra la necessità di opporsi ai disegni di "democrazia autoritaria"difendendo i diritti democratici acquisiti, siano o no iscritti nella Costitu-zione, e il rischio di arroccarsi su una posizione essenzialmente difensiva,apparendo come dei conservatori dello status quo nel momento in cuicresce negli sirati più larghi della popolazione il rigetto del regime esi-stente.

Sul piano più specificamente culturale esiste poi una contraddizionetra l'esigenza di affermare un rinnovamento culturale, per così dire,rifondativo e l'ondata conservatrice e reazionaria che ha investito la

cultura e gran parte dei suoi protagonisti, provocando rigurgiti dellepeggiori tradizioni e dei più logori "valori" del passato.

Da un punto di vista più soggettivo, la contraddizione più difficile dasuperare è quella tra l'esigenza di ul)a rottura di continuità con la mobili-tazione di forze giovani, che non abbiano subito l'usura delle generazioniprecedenti e siano in grado di porsi sulla stessa lunghezza d'onda dellegenerazioni nuove, e la necessità di utilizzare in questa fase forze "vec-chie", che, al di là delle intenzioni soggettive, sono segnate e condizionateda esperienze, impostazioni e cariche emotive del passato. È una semplicecontastazione che lo iato è ancora più grande a livello di quadri e didirigenti.

Infine, esiste una contraddizione tra il peso inerziale di una tradizione

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di patemalismo burocratico e conservatore, caratteristica comune di tantaparte del movimento operaio dalle sue stesse origini, e 1'esigenza diinaugurare e sviluppare una reale democrazia operaia, tradotta in forme dipartecipazione dirette e permanenti, che è una delle condizioni essenzialiperché la classe operaia riacquisti fiducia nelle proprie forze e ritrovi unapropria identità.

Il superamento di tutte queste antinomie non potrà avvenire, in ultimaanalisi, che nella pratica, sulla base delle esperienze che saranno fattecollettivamente. Ma il primo passo è prendeme coscienza e definime leorigini e la portata.

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Capitolo quinto

CONTRADDIZIONI INTERNAZIONALI

Il tema dell'interdipendenza economica su scala mondiale è stato unodei leit motiv di Gorbaciov che si è tradotto in abbozzi di teorizzazione al

momento culminante della sua parabola!. È noto quale conclusione Gor-baciov stesso ne avesse tratto: si doveva abbandonare ogni idea di "con-trapposizione frontale", adottare "un orientamento volto a un inserimentoorganico nel processo mondiale dello sviluppo economico" e comprendereche non si trattava più di "contrapporsi agli altri", ma di "sforzarsi dirisolvere insieme ad essi i problemi economici (dell'URSS)".

Questa problematica gorbaciovana è stata largamente ripresa nel mo-vimento operaio, non solo dal vecchio PCI e da altri partiti di indirizzoeurocomunista, ma anche da partiti socialdemocratici che ne traevanoconfernia delle loro analisi e dei loro orientamenti.

A ben riflettere, il concetto di interdipendenza appare subito banal-mente descrittivo o, quel che è peggio, mistificatorio. Se usandolo sivuole sottolineare che i rapporti economici si sviluppano sempre di piùcon una interconnessione internazionale, la constatazione è ovvia e noncostituisce un apporto originale alla teoria. Ma, a rigore, non si tratta tantodi una "interdipendenza" quanto di un' egemonia esercitata dai paesi e daigruppi economici più forti, di un rapporto di dominazione-dipendenzaimposto ai paesi sottosviluppati, alla quasi totalità della loro popolazione,oltre che ai salariati degli stessi paesi industrializzati. In altri termini,assistiamo a una "unificazione" del mondo sotto il segno di una sempre

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più affannosa ricerca del profitto, con tutti i mezzi e in ogni angolo delglobo.

Internazionalizzazione, grandi aree economiche e conflittualitàmondiale

Detto questo, bisogna evitare ogni interpretazione semplicistica delprocesso di internazionalizzazione. Si tratta in realtà di un processocontrastato e segnato da molteplici contraddizioni.

In primo luogo, un richiamo forse non superfluo. L' internazionalizzazio-ne dell'economia, intrinsecamente legata alla concentrazione del capitale,non comporta una sorta di sviluppo mondiale regolato più o meno consen-sualmente dalle multinazionali e dalle grandi compagnie con base nazionale,ma si accompagna a una concorrenza sempre più aspra tra gli stessi gruppidominanti, costretti a contendersi sempre di più gli stessi spazi. La battagliain corso tra i grandi gruppi automobilistici è un esempio di per sé eloquente.Duri colpi sono stati subiti anche dai gruppi più poderosi, come la GeneralMotors e la Ford, ed è una previsione diffusa negli ambienti interessati cheil numero dei contendenti si restringerà inevitabilmente nell' arco di undecennio, quali che siano le forme specifiche del processo.

In secondo luogo, esistono tensioni e conflitti costanti fra le tre grandiaree economiche, quella della CEE, dell' America del Nord, che mira aestendersi a tutta l'America Latina, e quella giapponese del Sud-Estasiatico e di una parte dell' area del Pacifico. Le difficoltà esistono ancheall'interno di ciascuna area, per il loro completamento e consolidamento.Basti pensare ai conflitti all'interno della stessa CEE, anche dopo la firmadel trattato di Maastricht. E non si tratta tanto, come pretendono glieuropeisti più radicali o più ingenui, di incomprensioni o di riflessiconservatori, quanto di concreti conflitti di interessi, che riguardanoquestioni tutt' altro che secondarie, come la politica agricola, l' atteggia-mento verso i concorrenti extraeuropei, l'unificazione monetaria e laBanca unica. La riunificazione tedesca ha reso le cose ancora più difficili.Discorsi analoghi si potrebbero fare per l'area dell' America del Nord, pernon parlare delle difficoltà ancora maggiori che deriverebbero da un'e-ventuale inclusione dei paesi sudamericani. Per lo stesso Giappone gliostacoli da superare non sono affatto trascurabili.

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Un' altra, sostanziale difficoltà: la definizione e l'organizzazione dellediverse aree di influenza sono rese più difficili dal fatto che ormai da tempol'internazionalizzazione non solo ha accantonato i confini nazionali, maha contemporaneamente valicato i limiti delle varie aree sovrannazionali.Come è noto, c'è una consistente presenza di multinazionali nordameri-cane in Europa occidentale e di grandi gruppi europei negli Stati Uniti, pernon parlare della tanto temuta penetrazione giapponese sulle oppostesponde dell' Atlantico. Siano o no realizzati i progetti attuali, la prospettivaresta quella di lotte senza quartiere, che potrebbero provocare ritorni difiamma protezionistici e quindi rimesse in discussione almeno parziali delquadro unificato delle diverse aree.

Al di là dei problemi economici, esistono problemi più strettamentepolitici, in particolare per quanto riguarda la Comunità europea. Nelleintenzioni dei suoi promotori e dei suoi ideologhi, questa comunità do-vrebbe trasformarsi a scadenza non remota in una comunità politica, conil superamento dei diversi Stati nazionali. Proprio a questo livello vaindividuata una contraddizione cruciale: da un lato, gli Stati nazionalicostituiscono un ostacolo al completamento del mercato unico e allarealizzazione di una compiuta unità economica, ma dall' altro, anchefacendo astrazione del persistere di specifici interessi dei singoli paesi, loStato nazionale resta uno strumento essenziale di intervento politico esociale - in ultima analisi, anche economico -per assicurare un equilibriorelativo delle distinte società europee e preservare i loro regimi; ed èdifficile immaginare che questa funzione possa essere assolta entro sca-denze ragionevolmente prevedibili da uno strumento nuovo, da un appa-rato statale sovrannazionale. Il problema si complicherebbe ulteriormente-c'è appena bisogno di dirlo - se si realizzassero i progetti di allargamentodella comunità a paesi dell'Europa centro-orientale.

È opinione diffusa che, visto che il nemico comune "comunista" nonesiste più o non costituisce più una minaccia, si acutizzeranno i conflittitra le potenze imperialiste. Alcuni hanno persino affermato -con eccessivosemplicismo analitico -che la guerra del Golfo, nei disegni di Washington,era diretta contro la Germania e il Giappone non meno che contro l'Irakdi Saddam Hussein. Ed è stata egualmente ventilata l'ipotesi che si possagiungere in prospettiva a nuove guerre interimperialistiche.

Lasciamo stare le speculazioni confinanti con la fantapolitica. Resta chela tendenza insopprimibile all' acutizzazione dei conflitti potrebbe effettiva-

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mente assumere dimensioni militari. Questo non significa necessariamentevere e proprie guerre tra i paesi imperialisti: almeno per il periodo per cui sipossono avanzare delle ipotesi, un tale sbocco comporterebbe un rischio cosìgrande per il sistema nel suo complesso e i risultati apparirebbero cosìaleatori che un qualsiasi gruppo dirigente di una grande potenza ben diffi-cilmente imboccherebbe questa strada. Tuttavia - qui non parliamo più diipotesi, ma di dibattiti e progetti attuali - proprio perché la forza militare ela capacità di intervenire in conflitti armati e contro "nemici" di nuovo tipocostituiscono un fattore che pesa sul piano politico e quindi anche su quelloeconomico, paesi che per ora non si erano armati che parzialmente (anchese più di quanto comunemente si creda) potranno essere indotti ad accrescerenotevolmente il loro potenziale militare. Questa è, a quanto pare, la lezioneche hanno tratto dalla guerra del Golfo la Germania e il Giappone. In secondoluogo, è più che giustificata l'ipotesi di un accentuarsi della tendenza aconflitti locali o regionali, di cui sappiamo quale possa essere il prezzo intermini di perdita di vite e di sofferenze umane, di devastazioni materiali edi disarticolazione dell' economia.

La crisi delle società di transizione burocratizzate con tutte le lacera-

zioni e i conflitti anche militari che ne sono derivati, da una parte e,dall' altra, le situazioni esplosive esistenti in tutta una serie di paesisottosviluppati hanno accresciuto nei vari gruppi dirigenti, con funzioninazionali e internazionali, la preoccupazione che si accentuino e si molti-plichino in varie regioni del mondo le forze centrifughe più disparate, conprocessi sempre più incontrollabili di decomposizione e di disgregazione.Non si tratta di un allarmismo infondato o semplicemente della volontà dievocare scenari catastrofici a fini politico-propagandistici.

Per convincersene, basterebbe richiamare le crisi, i conflitti, le vere eproprie guerre che hanno scandito gli ultimi trent' anni e che in molti casinon sono stati ancora superati: dalla guerra di Algeria a quella del Vietname alla spedizione imperialista nel Golfo Persico; dai conflitti libanesi allaguerra Iran-Irak; dalle guerre civili nell' America centrale ai massacricompiuti dalla dittature nel Cile e in Argentina; dalle tragiche vicendedella Cambogia alla guerra dell' Afghanistan; dai conflitti nell' Africa delSud alle guerre civili in una serie di altri paesi africani, dal Biafra al Sudanpassando per l'Angola; dalla lotta armata in Tailandia a quelle nelleFilippine; dalle spedizioni francesi nel Ciad all'occupazione britannicanell'Irlanda del Nord; e si potrebbe continuare, per finire con la guerra

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civile che ha dilaniato l'ex-Jugoslavia e con gli scontri armati nel Caucasoe in altre regioni dell'ex-Unione Sovietica. È un quadro di instabilità e diconflittualità esteso a tutti i continenti.

È in questo contesto che va individuato un fenomeno cui già abbiamoaccennato, cioè l'erosione e l'indebolimento che subiscono, anche dalpunto di vista sociale, le stesse classi dominanti. Che per quanto riguardai paesi sottosviluppati uno dei punti essenziali di debolezza del sistemaneocoloniale sia consistito nell'incapacità -nella grande maggioranza deicasi, se non dappertutto - di creare una borghesia indigena socialmenteconsistente e capace di assolvere un ruolo politico stabilizzante, dovrebbeessere chiaro a tutti. Dovrebbe essere chiaro egualmente che alla radicedell'attuale instabilità dei paesi centro-europei e ancor più nell'ex-URSSè l'inesistenza o l'esiguità estrema di una classe dominante capace diimporre, con le necessarie mediazioni e alleanze, la propria egemonia, unavolta che il vecchio strato dominante, la burocrazia, è letteralmente esplo-so senza essere più in grado di agire come forza dirigente complessiva edato che esistono solo embrioni di nuova borghesia.

Ma la crisi non risparmia la stessa borghesia dei paesi imperialisti, ilcui peso specifico sociale subisce pure un restringimento, con conseguen-ze ancor più trasparenti a livello politico.

Le crescenti difficoltà che conoscono attualmente vari paesi europei,al limite di vere e proprie crisi del sistema politico, sono, in ultima analisi,il riflesso di tutto questo. Che la gestione "socialista" più che decennaledi Mitterrand e quella quasi altrettanto lunga di Gonzalez abbiano garan-tito il funzionamento del sistema secondo la logica capitalistica e nell'in-teresse della borghesia, per di più con l'adozione di misure niente affattodiverse da quelle adottate altrove da governi conservatori, è una constata-zione fatta sempre più esplicitamente anche da portavoce e da ideologhidella classe dominante. Ciò non sminuisce il valore del fatto che la

borghesia francese e la borghesia spagnola non abbiano saputo esprimereun proprio gruppo dirigente, capace di assumersi direttamente un ruoloegemonico, sul piano politico e tuttora abbiano difficoltà a farlo, nono-stante l'usura estrema del mitterrandismo e l'usura crescente del gonzali-smo. Nella stessa Gran Bretagna, la scelta di rinnovare la fiducia al gruppodirigente conservatore non è stata affatto univoca, se è vero che alla vigiliadel voto il "Pinancial Times", portavoce secolare della borghesia britan-nica, ha sottolineato i vantaggi di una soluzione laburista2.

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Le manifestazioni o le anticipazioni di una crisi non mancano neppurenei principali paesi extra-europei. Il sistema politico giapponese, pur cosìa lungo consolidato attorno all'egemonia del Partito liberaldemocratico,è scosso da una serie di conflitti e di scandali clamorosi, che hanno, tral'altro, portato alla luce del sole i legami tra classe dirigente e malavitaorganizzata. Quanto agli Stati Uniti, le stesse elezioni primarie non ancoraconcluse mentre scriviamo, offrono uno spettacolo miserando dei mezzicui devono ricorrere i candidati per carpire il consenso degli elettori e,quel che è ancora più importante, l'incapacità della classe dominante diesprimere gruppi dirigenti rinnovati, o comunque capaci di affrontare gliardui compiti di un paese che è afflitto da un declino prolungato e pretendeancora di esercitare un ruolo egemonico su scala mondiale.

Se questo è il quadro del mondo attuale, per tornare al punto dipartenza, non si può certo condividere la prospettiva strategica di Gorba-ciov. Non si tratta di cercar di risolvere insieme i problemi comuni, ma diconstatare l'impasse storica in cui si trova il capitalismo, le contraddizionia tutti i livelli del suo sistema, e di comprendere che la via d'uscita, se sivogliono evitare nuove e più devastanti catastrofi mondiali, è la lotta peruna globale alternativa anticapitalistica e socialista.

Socialismo: insopprimibile dimensione sovrannazionale

Uno dei dibattiti storici nel movimento operaio su scala internazionaleè stato quello sul socialismo in un paese solo. Non riprendiamo qui i temidella controversia degli anni '20. Il verdetto dell' esperienza è ormaiindiscutibile: dovrebbe essere chiaro agli occhi di tutti che quello che èstato costruito "in un paese solo" o in diversi "paesi soli" ha ben poco ache vedere con il socialismo. Ricordiamo la sintetica definizione del

socialismo da parte di Rosa Luxemburg: il socialismo è "quella formaeconomica, che è insieme forma mondiale per eccellenza e sistema in séarmonico, in quanto rivolto non all'accumulazione, ma al soddisfacimentodei bisogni di vita dell'umanità che lavora, mediante lo spiegamento ditutte le forze produttive della terra" (Accumulazione del capitale, Einaudi,Torino, p. 196). Per l'appunto: da un punto di vista marxista il socialismoin un paese solo è una vera e propria contraddizione in termini. Il titolostesso di legittimità storica del socialismo rispetto al capitalismo consiste,

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in ultima analisi, nella sua capacità di organizzare l'economia entro unquadro unitario su scala mondiale, ponendo fine agli squilibri laceranti ealle spaventose devastazioni che sono il prodotto del "libero mercato",cioè di una concorrenza sempre più sfrenata, entro e, sempre di più, oltrei confini degli Stati nazionali.

Se, poi, si pone il problema in prospettiva, nel contesto attuale, ci sirende subito conto che una costruzione socialista su scala nazionale - e

potremmo ormai aggiungere anche SUscala di aree geografiche separate -è ancora più improponibile che settant' anni or sono.

Nel caso dei paesi sottosviluppati, una tale costruzione, anche a pre-scindere da misure politiche di blocco o da minacce militari del genere diquelle che tanto hanno pesato su Cuba e sul Nicaragua, sarebbe ostacolatainevitabilmente dall' arretratezza delle basi di partenza che, per di più,continuerebbero a essere condizionate in modo soffocante dalla persi-stente egemonia mondiale del capitalismo. C'è oggi, incontestabilmente,una presa di coscienza di tutto questo, cioè degli ostacoli e delle contrad-dizioni con i quali si scontrerebbe un regime rivoluzionario sin dall'indo-mani del rovesciamento dell' ancien régime. Ma, specie dopo l'esperienzanicaraguense e in misura quella cubana, nelle stesse file dei movimentilatino-americani, si è diffusa la tendenza a una radicale revisione strategicae ideologica, se non addirittura a una rinuncia agli obiettivi rivoluzionarisocialisti e a una battaglia antimperialista3. Questo mentre non c'è più chein passato il minimo fondamento oggettivo per supporre che si possamettere fine agli orrori del sottosviluppo nel quadro del sistema esistente.Ecco una contraddizione con la quale si scontrano i rivoluzionari inAmerica Latina come in altri continenti.

Nel caso dei paesi industrializzati, la cui dinamica economica da tempoha varcato i confini na7:ionali, il socialismo in un paese solo comportereb-be una lacerazione traumatica dell' attuale tessuto economico, con unainvoluzione di portata difficilmente ca1colabile ma comunque improponi-bile da un punto di vista socio-politico. Del resto, quanto pesi il contestosovrannazionale, lo hanno sperimentato, a loro modo, governi anche assaimoderatamente riformatori, come il primo governo francese dopo l'ele-zione di Mitterrand, che pure non intendeva rimettere neppure lontana-mente in discussione i meccanismi del sistema.

Specie nei paesi della CEE c'è oggi una diffusa consapevolezza che lestesse battaglie per rivendicazioni economiche e sociali parziali, come

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pure per una estensione dei diritti democratici, non si possono credibil-mente impostare senza tener conto dei condizionamenti sovrannazionali.Ma da questa giusta premessa le direzioni operaie politiche e sindacali nontraggono la conclusione che il problema di una strategia di lotta sovran-nazionale è sempre più urgentemente all' ordine del giorno. Al contrario,accettando la logica della concorrenza capitalistica, pongono al centrodelle loro preoccupazioni la competitività dei diversi settori economici odelle diverse aziende "nazionali": accettano quindi dei limiti alla dinamicasalariale e una erosione delle garanzie sociali acquisite in passato erinunciano a ogni seria battaglia per la riduzione degli orari di lavoro. Nonsi rendono conto o non vogliono rendersi conto che tali comportamentivanno comunque a detrimento di settori o strati di classe operaia di questoo quel paese o di una serie di paesi, cioè di quelli usciti perdenti dallaconcorrenza. Il risultato finale, in ultima analisi~ non potrà essere che unindebolimento della classe operaia nef suo complesso, un logoramento delsuo peso specifico, e quindi un 'ulteriore evoluzione negativa dei rapportidi forza, indipendentemente dal fatto che questo o quel settore e questo oquel un paese possano essere colpiti prima o più gravemente-di altri.

Tutte queste contraddizioni possono essere sintetizzate in quella che èla contraddizione centrale della fase attuale: mentre, come si è visto, gliobiettivi delle lotte economiche e sociali e i progetti politici, per esserecredibili, devono avere sempre di più una dimensione sovrannazionale, ilmovimento operaio è più che mai lacerato da tendenze centrifughe, divisoe frammentato, trascinato in una logica di ripiegamento settori aie o cor-porativo e privo di ogni credibile punto di riferimento internazionale suscala di massa.

Questa contraddizione, di cui sperimentiamo letteralmente ogni giornola portata paralizzante e sterilizzante e al cui superamento, almeno tenden-ziale, è legata la possibilità di una nuova fase di ripresa e di rilancio, nonpotrà essere superata - ribadiamolo ancora una volta - unicamente conenunciazioni teoriche, ma soprattutto nella pratica, con nuove, vivificantiesperienze di massa. Non per questo sono meno indispensabili luciditàanalitica e sforzi di generalizzazione, soprattutto in un momento in cui,ripetiamo lo, si pongono interrogativi di fondo e primordiali questioni diidentità.

È compito in particolare dei militanti impegnati nell'impresa di rifon-dazione comunista agire sin d'ora perché si realizzino iniziative di solida-

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rietà e di unità d'azione tra sindacatie altre organizzazionidi massadi varipaesi, perché siano fissati obiettivi unitari e siano definiti piani di lotteconcrete contro il comune avversario, perché si cominci a delineare unapiù generale strategia anticapitalista. Vada sé che iniziative e azioni inquesto senso dovrebbero tendere a coinvolgere, da una parte, movimentie organizzazionidei paesi sottosviluppati, dall'altro, le forze che fatico-samente cercano di organizzarsi nei paesi scossi dalla crisi delle societàdi transizione burocratizzate. In ultima analisi, se la posta in giuoco hanecessariamente dimensioni mondiali, sarebbe perfettamente illusorio eaddirittura suicida pensare di impegnarsi nelle battaglie di oggi e didomani senza una impostazione sovrannazionale e senza disporre distrumenti organizzativi internazionali della classe operaia e delle altreclassi sfruttate.

Note

1 Ci riferiamo in particolare all'articolo comparso sulla "Pravda" del 26novembre 1989, che abbiamo analizzato in "Gli orizzonti teorici di MichailGorbaciov", "Bandiera Rossa", n. 1, gennaio 1990.

2 L'articolo pubblicato dal "Financial Times" alla vigilia delle elezioni del 9aprile 1992 è un vero e proprio pezzo da antologia, che illustra sobriamente leragioni per cui, da un punto di vista della classe dominante, un governo laburistapoteva essere preferibile a un governo conservatore per la gestione della societàbritannica nel contesto dato.

3 Concezioni e orientamenti del genere sono stati espressi, per esempio, da undirigente nicaraguense come Tirado Lopez e da un dirigente salvadoregno comeJoaquin Villalobos.

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Capitolo sesto

QUALE MODO DI PRODUZIONE?

Specie dopo l'inizio della crisi delle società di transizione burocratiz-zate, imperversano nelle stesse file del movimento operaio ideologieanticollettivistiche, privatistiche e individualistiche. Anche molti di colo-ro che si sforzano di individuare le radici della crisi senza rinunciare a una

critica del capitalismo, lo fanno spesso servendosi di ricorrenti stereotipicon il rischio di accrescere la confusione e di rendere ancora più difficilela definizione di una alternativa.

"Economicismo" e "statalismo"

In realtà, bisognerebbe evitare di aggirare i problemi con l'uso astrattodi concetti di cui non si precisino i contenuti. Così: per riprendere unatematica cui abbiamo già accennato, l'involuzione e la crisi delle societàburocratizzate non sono da attribuire agli errori o ai peccati di un genericoeconomicismo, ma al fatto che sono state imposte priorità economiche checomportavano squilibri tra i vari settori produttivi (per esempio, un privi-legiamento indiscriminato e prolungato dell'industria pesante e dell'indu-stria militare rispetto all'industria dei beni di consumo e della stessaagricoltura), che i piani sono stati elaborati verticisticamente e autorita-riamente e che la difesa e l'estensione dei privilegi consumistici o di altrogenere dello strato sociale dominante sono stati una molla ben più potente

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dell' esigenza di soddisfare i bisogni delle grandi masse. Così la deforma-zione statalistica è consistita non in un generico uso di istituzioni statalicome strumenti regolatori dell' economia, ma dalla progressiva trasforma-zione dello Stato rivoluzionario, basato sui soviet, cioè su organismi diauto-organizzazione di massa (purtroppo di effimera durata), in un appa-rato dittatoriale elefantiaco, funzionale alla difesa del potere politico e deiprivilegi sociali della casta dominante. Anche quando ci sono stati tentatividi attenuare le tensioni con misure di decentramento o di relativa autono-

mia aziendale, mai è stato rimesso in discussione il potere decisionale diultima istanza della burocrazia centrale né il potere sostanziale dei mana-ger ai vertici delle aziende. Nel caso-limite della Jugoslavia il sistemadell'autogestione, destinato sulla carta ad assicurare una effettiva demo-cratizzazione dell'economia, è finito in un vicolo cieco in assenza di unapianificazione democratica su scala federale. È stata un 'ulteriore confermadel fatto che il centralismo burocratico non può, in ultima analisi, esserescongiurato se non con la soppressione dei meccanismi complessivi dellasocietà burocratizzata, con il rovesciamento del suo strato sociale domi-nante. Questo rovesciamento non è di per sé la soluzione del problema,ma ne è la condizione pregiudiziale storicamente necessaria.

Non è forse inutile spendere qualche parola sullo "statalismo" nellesocietà capitaliste contemporanee, ricordando quali interessi e fattorispecifici abbiano stimolato l'intervento dello Stato nell'economia, anchea livello di rapporti di produzione. Un caso classico è stato, per esempio,quello delle misure di statizzazione che negli anni '30 hanno portato inItalia alla formazione dell'IMI e dell'IRI. Come molti hanno già alloraindicato!, si è trattato in realtà di una specie di "socializzazione" delleperdite, a vantaggio di settori capitalistici che più direttamente erano staticolpiti dalla depressione del 1929-32. Altra variante: i capitalisti privatinon vogliono o non possono farsi carico di settori pure indispensabili allosviluppo dell'economia, per esempio i trasporti ferroviari e la ricerca el'utilizzazione di nuove fonti di energia, e preferiscono che se ne occupilo Stato, servandosi magari il diritto di esigere privatizzazioni o ripriva-tizzazioni qualora questi settori assicurassero un profitto. In questi casi ilproblema non è di criticare genericamente le "statizzazioni", ma di chiarirela natura di statizzazioni che non cambiano non solo il modo di produzio-ne, ma neppure i meccanismi di gestione, su cui i lavoratori e i cittadiniin generale non possono esercitare il benché minimo controllo. C'è appena

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bisogno di aggiungere che oggi gran parte delle reazioni antistatalisticheprendono di mira proprio queste forme di gestione e, a maggior ragione egiustamente, la vergognosa utilizzazione clientelare di quello che dovreb-be essere patrimonio collettivo.

Quale alternativa?

Esiste un'alternativa al sistema economico capitalistico? Ecco unadomanda cui troppi, anche nel movimento operaio, danno, più o menoesplicitamente, una risposta negativa.

La nostra risposta, invece, deve essere: nessun movimento di rifonda-zione potrà gettare solide fondamenta ed esercitare una forza di attrazionesociale, se non afferma senza nessuna reticenza la finalità del rovescia-mento della società esistente, delineando un progetto alternativo. Soprat-tutto dopo la crisi della vecchia URSS e dei paesi dell'Europacentro-orientale, sarebbe prova non di miopia, ma di assoluta cecità cercardi eludere questo interrogativo, vivendo alla giornata, limitandosi a pro-clamare genericamente una identità comunista o facendo ricorso alleastratte enunci azioni di antieconomicismo o di antistatalismo che giàabbiamo criticato.

Neppure ci si potrà trarre di impaccio aggrappandosi alla categoria dieconomia mista. Per convincersene, basti pensare all'uso che si è fatto diquesta formula con i riferimenti più disparati: dall'Egitto di Nasser alNicaragua sandinista, per non parlare del nostro stesso paese2. Si tratta,tutt' al più, di una categoria empirica che serv.e a descrivere situazioni incui, accanto ai meccanismi capitalistici più classici, esiste un diretto econsistente intervento dello Stato con la creazione di settori produttivicosiddetti pubblici.

Se non si vuole eludere il problema e contribuire alla sua mistificazio-ne, la domanda cui bisogna rispondere è se si accetta una prospettiva dimantenimento del sistema attuale a scadenza indefinita oppure se ci sipone l'obiettivo, quali che siano le scadenze, della rottura del modo diproduzione esistente e della sua sostituzione con un modo di produzionediverso qualitativamente, collettivistico, cioè non più basato sulla proprie-tà privata dei mezzi di produzione e sull'imperativo del profitto.

In un momento di così diffusa amnesia storica non è superfluo ricordare

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che, indipendentemente dalla diversità di concezioni sui metodi di lotta, ipartiti socialisti delle origini e i partiti comunisti nati da scissioni dallasocialdemocrazia avevano dato, gli uni e gli altri, una risposta non ambi-gua optando per il secondo corno del dilemma. Un elemento essenzialedella parabola involuti va che li ha portati in un vicolo cieco, è stato laprogressiva diluizione di questo obiettivo con l'adozione di una strategiadi passaggio graduale al socialismo dai contorni sempre più sfumati e, inconclusione, con la rinuncia, prima nella pratica, poi anche nelle formu-lazioni programmatiche, a ogni finalità anticapitalista e collettivi sta.

Il punto di partenza sul piano programmatico di un' impresa di rifonda-zione comunista, che non sia un abuso di termini, deve essere la presa dicoscienza e l'affermazione esplicita che l'alternativa implica come conditiosine qua non la scelta di un nuovo modo di produzione. Dopo tante mistifi-cazioni e false polemiche va aggiunto subito che non si tratta solo disostituire meccanismi più propriamente economici con altri meccanismieconomici, bensì di lottare per una nuova egemonia sociale e per un nuovopotere politico in connessione intrinseca con un nuovo modo di produzione.

Ripetiamolo un'ennesima volta per evitare equivoci: il modo di pro-duzione collettivistico che dobbiamo prospettare non ha nulla a che vederecon l'economia burocraticamente statizzata che è prevalsa nell 'URSS apartire dalla metà degli anni '20 e in altri paesi dopo la seconda guerramondiale, che non può, da nessun punto di vista, costituire un "modello"per il movimento operaio e per i comunisti.

Vale la pena, del resto, di ricordare che, per tutto un periodo, neiprogrammi dei partiti e dei sindacati operai il concetto più spesso usato èstato quello di socializzazione e non di statizzazione. Lo stesso vale perprogrammi redatti nei primi anni della Resistenza. Non si tratta solo di unadifferenza termino logica: il termine "socializzazione" esprime meglio che"nazionalizzazione" e, a maggior ragione, che "statizzazione", l'idea diuna proprietà e di una gestione affidata alla società nel suo complesso.

Comunque sia, non deve sussistere alcuna ambiguità su due elementifondanti di un modo di produzione collettivistico in contrapposizione almodo di produzione capitalistico.

Il primo elemento è che i mezzi di produzione non devono più appar-tenere a detentori privati, la cui finalità è percepire profitto, subordinandotutto il resto a questa finalità e al mantenimento del diritto di proprietà. Sipotrà scegliere tra forme giuridiche diverse e diversi tipi di gestione: è

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ipotizzabile tutta una gamma di soluzioni, dalla socializzazione su scalanazionale e sovrannazionale a una gestione collettiva su scala locale osettoriale e, almeno per un certo periodo, cooperativa3. Ma, fondamental-mente, i mezzi di produzione devono essere proprietà sociale e servireprioritariamente al soddisfacimento dei bisogni della società, cioè allaproduzione di valori d'uso, con uno sviluppo equilibrato dell'economianel suo complesso.

Il secondo elemento comporta una vera e propria inversione rispetto aipresupposti teorici e alla prassi del capitalismo. Come ogni sistemasocio-economico, il capitalismo deve cercar di stabilire, in ultima analisi,un proprio equilibrio, rendendo operanti meccanismi regolatori del pro-cesso di accumulazione. Ma ciò si realizza tramite il mercato, regolatoredecisivo. La vitalità di questa o quella azienda, di questo o quel settore èstabilita quindi a posteriori, con il ridimensionamento o l'eliminazione diquesti o quei protagonisti e la prevalenza e il rafforzamento di altri. Tuttigli squilibri laceranti della storia del capitalismo, come quelli del capita-lismo odierno, con la gigantesca dissipazione di risorse e con gli atrocicosti sociali, sono, in ultima analisi, la conseguenza dei meccanismi dimercato, di una verifica operata a posteriori tramite la concorrenza. Se nonsi muta radicalmente questo sistema, non si creano neppure le condizionipreliminari per superare tutte le tensioni, le strozzature e le contraddizioniattuali che neppure i fautori del capitalismo possono far finta di ignorare.

È necessario introdurre meccanismi di regolazione ex ante, cioè sostituirela logica animale del capitalismo con l'introduzione di elementi razionali,coscienti, di funzionamento, di organizzazione e di regolazione dell' econo-mia~Si tratta di rendere possibile una progettazione sistematica che, parten-do da verifiche analitiche e sperimentali, tracci linee di sviluppo che, peressere armoniose, equilibrate, prive di traumatiche fratture, non possono cheessere globali, cioè abbracciare i centri nevralgici della produzione. Nondobbiamo avere esitazioni a usare il termine corrispondente a quella sostan-za, cioè quello di pianificazione, anche se può apparire screditato dalla prassistaliniana e post-staliniana, una volta chiarito da quali esigenze irrinunciabiliquesta pianificazione sia determinata.

Ogni pianificazione, che voglia essere tale, comporta necessariamenteuna centralizzazione. Ma nel mondo del duemila, data l' interconnessione trai vari settori e la crescente internazionalizzazione dell' economia, supporredi poter prescindere da una centralizzazione sarebbe semplicemente assurdo.

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Equivarrebbe a ipotizzare romanticamente un ritorno a un' economia preca-pitalistica, a una somma di microcosmi autosufficienti, legati tra loro conforme più o meno primitive di baratto e di compensazione. Gli incubialimentati dalle pianificazioni burocratiche e dispotiche vanno dissipati: unapianificazione non è inevitabilmente sinonimo di gestione verticistica, mapuò e deve comportare la partecipazione attiva dell'intera società, cioèun'autogestione democratica. Questa autogestione deve attuarsi ai diversilivelli, di azienda e di settore produttivo, nell'ambito locale, nazionale esovrannazionale, nessun livello essendo sufficiente separatamente daglialtri. I progressi straordinari della tecnologia e dei mezzi di comunicazionenegli ultimi vent'anni e l'incontestabile elevamento dei livelli culturali, aldi là di tutte le distorsioni giustamente denunciate, offrono le premesseoggettive della realizzazione di un simile progetto, su cui non hanno potutocontare- ohannopotutocontaresolodeltuttoparzialmente-gli esperimentidi pianificazione tentati nel passat04.

Essenzialità della democrazia socialista

Questa impostazione del problema della pianificazione aiuta a compren-dere l'essenzialità della democrazia socialista. TIproblema non è solo crearecondizioni socio-economiche che diano un reale contenuto ai diritti demo-

cratici, ma egualmente assicurare una gestione democratica dell'insiemedella società, a partire dall' economia, superando la dicotomia tra gestioneeconomica ed esercizio del potere politico. Questo obiettivo non potrà essererealizzato se non con l'estensione e l'articolazione della democrazia a tutti

i livelli, cioè con un attivo protagonismo di tutti i soggetti della nuovasocietà: come produttori e produttrici, cioè lavoratori e lavoratrici, impegnatie impegnate nel processo produttivo, come consumatori e consumatrici, cioèpersone che esigono di poter soddisfare i propri bisogni, e come cittadini ecittadine, capaci di determinare democraticamente tutte le scelte politiche.Solo una simile prassi democratica - reale nel senso più pregnante deltermine per la prima volta nella storia -consentirà una ricomposizione dellasocietà e contemporaneamente una ricostruzione della personalità dei sin-goli componenti di questa società, sinora condannati alla parzializzazione,alla frammentazione e a una sostanziale mutilazione dai meccanismi alie-nanti di una società divisa in classi.

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Tutto quello che abbiamo detto non comporta nessun ultimatismo,teorico o pratico, che ignori la processualità di una edificazione socialista,una volta realizzato il salto qualitativo della rottura con la società capita-lista. Così l'esigenza di mettere in opera un nuovo modo di produzionenon implica che ci dovrà essere subito una socializzazione a tutto campo.Settori privati potranno sussistere nella misura in cui assolveranno fun-zioni non socializzabili in tempi brevi (quando si è voluto ignorarlo, sisono di norma provocate difficoltà e tensioni con la conseguenza ultimadi ritardare o addirittura comprometter~, e non di accelerare, i processiauspicati). In particolare, questo potrà valere per certi settori dell'agricol-tura e dell' artigianato. Analogamente, sarebbe assurdo in una società ditransizione negare ogni funzione al mercato, che, al contrario, unitamentead altre forme di controllo più diretto dei consumatori, costituirà unnecessario strumento di verifica, per esempio della qualità dei beni diconsumo. L'importante sarà che non abbia più la funzione determinanteche gli è attribuita in un' economia capitalistica e che dovrà spettare, nellanuova società, agli organismi ai vari livelli dell'economia socializzata epianificata5.

Note

1Cfr., per esempio, il libro di Pietro Grifone su Il capitale finanziario in Italia,Einaudi, Torino 1945 (scritto dall'autore al confino nell'isola di Ventotene).

2 Ricordiamo che in epoca fascista si è usato il termine "economia mista" perdefinire l'economia corporati va.

31nKautsky dell' epoca classica scriveva a questo proposito: "La proprietà deimezzi di produzione può esistere, in una società socialista, nelle forme più diverse:ci potranno essere, le une accanto alle altre, proprietà nazionali, comunali, private;le cooperative di consumo e le cooperative di produzione potranno egualmenteessere proprietarie" (La Révolution Sociale, Paris, Rivière, 1921 p. 197).

4 Per esempio, i mezzi usati per scegliere seduta stante a livello di milioni dipersone i èantanti vincitori di un festival o i migliori calciatori di un incontro dicartello, potrebbero essere benissimo usati per inchieste e consultazioni a livellodi massa su problemi economici, sociali e politici.

5 Cfr. a questo proposito certi scritti di Lenin dell'epoca successiva al comu-nismo di guerra e di Trockij della fine degli anni '20 e dei primi anni '30, cui cisiamo riferiti anche nell' introduzione all 'ultima edizione de La rivoluzione tradita,Mondadori,1990.

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Capitolo settimo

QUALE STRATEGIA ANTICAPITALIST A?

Le difficoltà e le contraddizionicon le quali si scontra la riflessionenecessaria sulle linee di una strategia anticapitalista, specie per quantoriguarda i paesi industrializzati, non sono certo minori di quelle che sidevono affrontareper porre problemicrociali di una edificazionesociali-sta.

Difficoltà e contraddizioni

Possiamo sintetizzarle, grosso modo, su tre piani:1) Si fa oggi il bilancio di tutto un periodo storico di lotte del movi-

mento operaio. Come abbiamo già accennato, si denunciano drasticamentetutti gli aspetti negativi o giudicati tali, ma non si sottopone a un vagliocritico sistematico quello che pur costituisce un aspetto centrale, cioè lastrategia d'insieme adottata o prospettata sia dai partiti socialdemocraticisia dai partiti comunisti.

2) Anche quando si afferma la necessità di un rinnovamento radicalecome premessa necessaria di ogni possibile rilancio, ci si pone sul pianodei riferimenti ideologici oppure su quello degli orientamenti e degliobiettivi a breve termine o di una fase determinata, ignorando il nesso trai due piani, indispensabile per evitare le secche della pura e semplicegiustapposizione. Si rinuncia, cioè, a prospettare un progetto strategico di

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lotta anticapitalistica, senza il quale, da un lato, l'eventuale raggiungimen-to di obiettivfparziali sarebbe precario e condannato a un'usura più o menorapida, dall' altro, ogni proclamazione di intenti anticapitalistici si ridur-rebbe a un esercizio declamatorio, propagandistico nel senso deteriore deltermine. ,

3) Il prolungarsi dell' onda lunga di ristagno e la crisi socio-politica cheinveste una serie di paesi pongono all'ordine del giorno non solo problemidi orientamento per una battaglia di difesa delle acquisizioni economichee sociali degli scorsi decenni e dei diritti democratici, ma anche e soprat-tutto la problematica di una strategia più complessiva che permetta, adeterminate condizioni, di passare al contrattacco e di far emergere un'al-ternativa che non si riduca a una semplice alternanza nell'assunzione diresponsabilità di governo. Ma i rapporti di forza attuali a livello politicoe il rafforzarsi di partiti o movimenti che prospettano soluzioni conserva-trici e reazionarie, fanno apparire poco credibile, a breve e anche a mediotermine, un' alternativa globale dal punto di vista dei lavoratori e velleitarii tentativi anche solo di delinearla.

Per chiarire meglio il primo punto, le critiche e le autocritiche riguar-dano, per esempio, prese di posizione di governi o partiti socialdemocra-tici, linee di orientamento di partiti comunisti e atteggiamenti di direzionisindacali; impostazioni di politica delle alleanze, in questo o in quelperiodo; problemi di funzionamento delle organizzazioni e dei loro rap-porti con movimenti di massa; .orientamenti e condizionamenti internazio-nali. Ma non si rimettono mai seriamente in discussione scelte strategicheche sono all' origine di errori e deformazioni o, comunque, hanno contri-buito a determinarle. Eppure si tratta di una questione di fondo.

Oggi più che in passato, partendo dalla crisi delle società di transizioneburocratizzate e dal declino dei partiti comunisti in altre aree del mondo,si parla non solo di "fallimento del comunismo", ma anche di fallimentodi ogni concezione e prospettiva rivoluzionaria. La lezione della storia èpresentata come una condanna senza appello.

Chi non si accontenti di sommarie e abusive generalizzazioni, per nonparlare delle mistificazioni quotidiane, deve, tuttavia, porsi una serie didomande. Non ritorniamo qui sul "fallimento del comunismo" nell'Euro-pa orientale e nell'URSS, di cui abbiamo già parlato. Ma, se si ripercorrela parabola storica del movimento operaio nei paesi capitalisti industria-lizzati, ecco gli interrogativi cui bisogna dare risposta: quali sono state le

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strategie del movimento operaio da un secolo a questa parte? quali risultatisono stati conseguiti? quali lezioni si possono trarre dalle esperienze fatte?

Una strategia mai sperimentata

In primo luogo, una strategia di rovesciamento del sistema capitalistacon una rottura rivoluzionaria non è stata avanzata che dai partiti socialistinella loro prima fase (il più delle volte, del resto, in termini generici e nonsenza ambiguità) e dai partiti comunisti nel corso degli anni' 20 e all'iniziodegli anni ' 30 (con la precisazione che durante il cosiddetto terzo periodo,più che dell'elaborazione di una strategia rivoluzionaria, si è trattato diipotesi e progetti velleitari, in contrasto con la realtà e dettati dalle esigenzedello Stato sovietico e dell'incipiente stalinismo)l. Dunque, uno sforzo dielaborazione di una strategia rivoluzionaria non è stato fatto che duranteperiodi limitati e senza la sistematicità e la coerenza che ne consentisserol'assimilazione da parte di quadri e militanti di partito e di larghe avan-guardie di movimenti di massa.

Ancor più chiara è la risposta alla domanda se ci siano stati tentativi ditraduzione in pratica di una simile strategia. Una rottura rivoluzionariacome obiettivo a breve e medio termine non è stata prospettata chenell'arco di qualche anno, sull'onda della rivoluzione d'Ottobre, in parti-colare in Germania e in Italia tra il 1919 e il 1923 (a parte i deliri del "terzoperiodo").

Ma neppure in questi due casi-limite c'è stato un reale tentativo ditradurre in pratica una strategia rivoluzionaria. In Italia, le organizzazionioperaie non hanno certo agito con una tale prospettiva nel momento piùalto della crisi, tra la primavera e l'autunno del 1920 (occupazione dellefabbriche). Quando, poi, è stato fondato il Partito comunista, che non haraccolto che una minoranza, sia pure consistente, i rapporti di forzastavano già evolvendo a ritmo rapido a favore delle classi dominanti edelle forze politiche più reazionarie. Per quanto riguarda la Germania, nonpossiamo riprendere qui le analisi e i giudizi espressi su quel periodo daipunti di vista più diversi2. Ma la valutazione su cui c'è il maggiorconsenso, almeno tra comunisti, è che nel 1919 il partito allora largamentemaggioritario, la socialdemocrazia, lungi dall' impegnarsi in un' azionerivoluzionaria, ha fatto il possibile per bloccare e soffocare ogni iniziativa

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in questo senso, mentre nel 1923 è stato il Partito comunista a giungereimpreparato a scadenze decisive e quindi a non poter tradurre in pratica iprogetti rivoluzionari che pure erano iscritti nelle sue tesi programmati-che. Non ci riferiamo, d'altra parte, alla guerra di Spagna per la sempliceragione che in quel caso sia il Partito socialista sia il Partito comunistasono partiti dal presupposto che il problema all'ordine del giorno fosse ladifesa della repubblica democratica contro il fascismo e non la conquistadel potere da parte del proletariato, agendo in conseguenza (non poniamoqui il problema della giustezza o meno di questo presupposto).

La conclusione da trarre è che coloro che rifiutano ogni discorso distrategia rivoluzionaria non si basano affatto, come pretendono, su effet-tive esperienze storiche, ma impostano il problema in termini di auspica-bilità di un'altra strategia, cioè, in ultima analisi, in termini ideologici.

Una riflessione sistematica su un secolo di storia del movimento

operaio dimostra, in realtà, che la strategia prevalsa quasi sempre nelleelaborazioni teoriche e ancor più nella pratica è stata quella riformistagraduali sta, delineata già dalla fine del secolo scorso, a partire da Ber-nstein, nella socialdemocrazia tedesca, allora partito-faro dell'Internazio-nale socialista. Come, per parte nostra, abbiamo analizzato in altri saggi3,questa strategia è stata in larga misura adottata anche dai partiti comunistidell'Europa occidentale, a partire dal VII congresso dell'Internazionalecomunista nel 1935 e sempre più esplicitamente e sistematicamente dallafine della seconda guerra mondiale. Quanto ai partiti socialdemocratici,hanno sempre più apertamente rinunciato all'obiettivo del superamentodella società capitalista e le riforme di cui ancora parlano, sono concepitenon come "approssimazioni successive" al socialismo, ma come misuredi "democratizzazione" e di razionalizzazione del sistema esistente. Ora,l'esperienza anche degli ultimi decenni in Europa occidentale dimostrache una strategia riformista graduali sta può conseguire conquiste parzialianche significative, quando, per esempio, la situazione economica offramargini per concessioni salariali e le classi dominanti non abbiano bisognodi ricorrere a misure autoritarie, o, al contrario, quando una ristabilizza-zione sia possibile solo con concessioni economiche e politiche, quale chesia il prezzo immediato che padronato e governo devono pagare. Ma nonpuò rimettere in discussione il sistema in quanto tale e, lungi dall'inaugu-rare un passaggio graduale al socialismo, non evita l'usura, il riassorbi-mento o la soppressione delle stesse conquiste realizzate.

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Ribadiamolo: non si tratta di contrapporre alla politica condotta dallaquasi totalità delle organizzazioni operaie per oltre mezzo secolo -per nonrisalire più indietro -presupposti astrattamente dottrinari, ma di prendereatto di quello è stato il corso storico reale. Uno degli elementi più negativie degli ostacoli più gravi per uno sviluppo positivo dell'impresa di rifon-dazione, consiste nel fatto che, almeno sinora, si è preferito eludere questobilancio e, invece di partire dagli insegnamenti dell' esperienza fatta percostruire una nuova ipotesi strategica, si riprendono pigramente vecchi eabusati motivi. Esplicitamente o implicitamente, si continua a puntare suun'ipotesi gradualistica di "superamento" del capitalismo, formulata, nonper caso, in termini generici e poco chiari, che rivelano, al fondo, scarsachiarezza e scarsa consistenza.

Qualche ipotesi di orientamento

Se vogliamo effettivamente rinnovare il movimento operaio, rifiutandouna continuità che ci trasformerebbe nei profeti dell'inferno dantesco,costretti a camminare con la testa girata all'indietro, dobbiamo considerarecompito primario l'elaborazione di una nuova strategia anticapitalistica,che corrisponda alle esigenze e sfrutti le potenzialità della fase attuale edelle fasi che si apriranno in futuro. È un compito che non potrà essereassolto che collettivamente, con il contributo pluralista di tutte le esperien-ze. Per parte nostra, ci limitiamo, come già nei capitoli precedenti, asuggerire alcune riflessioni e a proporre qualche indicazione di orienta-mento su problemi sul tappeto.

Il punto di partenza per l'elaborazione di una strategia anticapitalisticaresta la definizione della natura dello Stato. Un motivo ricorrente anche

nelle file del movimento operaio è quello secondo cui il marxismo nonavrebbe elaborato una vera e propria teoria dello Stato. Si tratta, sfortuna-tamente per i suoi sostenitori, di una tesi che non corrisponde affatto averità.

Certo, né Marx né altri marxisti hanno mai prodotto sull'argomentovolumi ponderosi paragonabili a quelli di più o meno celebrati teoriciborghesi. Ma hanno affrontato il problema almeno su tre piani dandorisposte che ovviamente si possono discutere, ma di cui non si può negare1<1pertinenza e la sostanziale organicità. In primo luogo, hanno ànalizzato

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le origini storiche dello Stato, la sua natura e le sue funzioni. In secondoluogo, hanno fornito indicazioni sulle istituzioni politiche prospettabili inuna società di transizione non capitalistica e sulla loro dinamica. Chi sirilegga il saggio di Marx sulla Comune di Parigi e la sua Critica alprogramma di Gotha o Stato e rivoluzione di Lenin alla luce delleesperienze fallimentari delle società di transizione burocratizzate, puòconstatare la pertinenza delle acute anticipazioni, che vi sono contenute eche sono state ignorate o considerate con troppa disinvoltura come astrat-tamente democraticistiche ed egualitaristiche. Infine, gli stessi Marx edEngels hanno fornito strumenti per interpretare il significato e la specifi-cità di forme di dominazione politica già presenti nel secolo scorso eancora più diffuse successivamente. Ci riferiamo in particolare al concettodi bonapartismo, indispensabile alla comprensione della natura e delladinamica di molti regimi impostisi in paesi sottosviluppati nell' arco degliultimi cinquant' anni.

Detto questo, la domanda che dobbiamo porci è se lo Stato abbia subitoo no cambiamenti qualitativi nelle società capitalistiche contemporanee.Ora, dal punto di vista delle strutture economiche è difficilmente conte-stabile che il capitalismo monopolistico e l'attuale prevalere dei grandigruppi multinazionali non hanno fatto che accentuare al massimo tendenzeche Marx aveva già colto come elementi potenziali e che Lenin avevaanalizzato in una prima fase di maturazione. Che in questo quadro ci siastata una simbiosi sempre più stretta tra economia e politica con l'assun-zione da parte dello Stato di funzioni sempre più vaste e articolate, èun' altra constatazione elementare che nessuna ideologia "privatizzatrice"può annullare. Tutto questo non ha comportato la benché minima attenua-zione della funzione di classe dello Stato. Al contrario, lo Stato, sia pureattraverso molteplici mediazioni, continua ad operare come garante delmantenimento e del funzionamento di un sistema basato sul profitto e sullaproprietà privata dei mezzi di produzione. Lungi dal "democratizzarsi",diventa sempre di più una forza estranea alla società, che si sottrae a ognieffettivo controllo popolare. Del resto, non sono solo dei marxisti aconstatare, più concretamente, che le istituzioni rappresentative, anche neipaesi formalmente più democratici, hanno subito e subiscono una riduzio-ne delle loro funzioni reali, con una concentrazione crescente di poterieffettivi negli apparati esecutivi.

La contraddizione di fondo, dal punto di vista teorico, di ogni conce-

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zione riformi sta graduali sta consiste nell'ipotizzare che un apparato sta-tale così strutturato e articolato come quello delle società moderne, sortoe sviluppatosi in un quadro socio-economico ben definito e con la funzio-ne, ripetiamo lo, di garantire questo quadro nell'interesse di una specificaclasse dominante, possa essere utilizzato per un cambio qualitativo dimodo di produzione e per l' afferma~one dell' egemonia di un' altra classe.Si tratta di un presupposto teoricamente infondato, la cui inconsistenza,come abbiamo visto, è stata comprovata da una esperienza ormai quasisecolare. In altri termini, pensare che una società regolata da una suaineludibile logica interna e da una sua intrinseca dinamica e in cui i poteridecisionali tendono a concentrarsi nelle mani di ristretti gruppi dominantie di élites a vocazione autoritaria possa essere trasformata dal suo interno,gradualmente, senza una rottura rivoluzionaria del quadro preesistente,significa rifiutare di prendere atto della realtà e quindi proporre unaprospettiva assolutamente irrealizzabile.

Questo è il nodo da sciogliere di una strategia anticapitalistica erivoluzionaria, che è mistificante tradurre in termini di violenza più omeno necessaria. La verità è che la violenza è stata sistematicamente usata-e continua essere usata - dalle classi dominanti e che è quindi su di esseche è ricaduta e ricadrà la responsabilità del ricorso, da parte degli sfruttatie degli oppressi, a lotte insurrezionali e dell'esplodere di guerre civili4.

Non affrontiamo qui il problema della definizione di obiettivi imme-diati, perché su questo terreno i compiti di un partito operaio all' opposi-zione appaiono più evidenti e già un lavoro importante è stato svolto. Ledifficoltà cominciano quando si tratta di delineare obiettivi intermedi o ditransizione, cioè di stabilire un nesso intrinseco - non una semplicegiustapposizione letteraria - tra obiettivi immediati o parziali e strategiaanticapitalistadi largo respiro. In ultima istanza, si tratta di un problemacrucialecheil vecchioPCI,nonostanteripetutitentativi,nonè mairiuscitoa risolvere, mantenendo una dicotomia tra lotte parziali, non di radocondotte con successo, e finalità strategiche, rimaste a livello di enuncia-zioni o tradotte in progetti regolarmentecondannati all'insuccesso.

Ci limiteremo qui a qualche considerazione sugli orientamenti daprospettare nella fase in cui siamo entrati, analogamente ad altri paesidell'Europa occidentale,in particolare dopo l'esito delle ultime elezioni.

L'Italia attaversa una crisi sociale e politica -ancor più che strettamen-te economica- che è la secondain ordine di gravitàdalla fine della guerra

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(la prima è stata quella della fine degli anni '60 e dell'inizio degli anni'70). Si tratta ormai di una vera e propria crisi di regime di cui non è facileintravedere sin d'ora i possibili sviluppi, ma che segnerà, comunque, unperiodo di aspra conflittualità e di profondi squilibri. C'è appena bisognodi ricqrdare che, nel contesto dato, non sono la classe operaia e gli altristrati popolari a condurre l'offensiva. L'iniziativa è, almeno per ora, nellemani di forze politiche e sociali insoddisfatte dello stato attuale delle coseper ragioni ben diverse dalle nostre e alla ricerca di soluzioni non certocorrispondenti agli interessi e alle aspirazioni del movimento operaio edei comunisti. L'eventuale successo di questi progetti comporterebbe unarestrizione di elementari diritti democratici e una ulteriore concentrazione

di poteri nell' esecutivo, se non l' istaurazione di una "democrazia" daitratti fortemente autoritari.

Che in un tale contesto sia necessario difendere intransigentementetutte le conquiste democratiche, siano iscritte o no nella Costituzione,opporsi all'introduzione di un sistema elettorale non proporzionale, riget-tare soluzioni presidenzialistiche o comunque miranti a esaltare il ruolodegli esecutivi, è fuori discussione. Ma bisogna evitare di assumereposizioni sostanzialmente difensive che possano farci apparire come di-fensori dello status quo.

Qui si inserisce il discorso sulla Costituzione del 1948. Innanzi tutto,va demistificata l'interpretazione ideologistica secondo cui questa Costi-tuzione potrebbe consentire una evoluzione della società italiana verso ilsocialismo. In realtà, è stata il risultato di un compromesso. Per riprendereun articolo di Togliatti, evocato a più riprese da Enrico Berlinguer, questocompromesso avrebbe dovuto consistere nell'accettazione da parte deiconservatori della "liquidazione politica del fascismo" e del "raggiungi-mento di un normale sviluppo democratico", mentre le "forze più avanzatedel blocco antifascista" avrebbero dovuto garantire che questo non avreb-be comportato "modificazioni profonde o addirittura rivoluzionarie dellastruttura economica italiana" ("Rinascita", agosto 1946). Questo compro-messo non si è realizzato, come Togliatti auspicava, a livello di alleanzadi governo, ma si è tradotto in larga misura nella carta costituzionale, cheè senza dubbio avanzata su diversi piani, ma si basa pur sempre sulriconoscimento prioritario dell'iniziativa privata e della proprietà privatadei mezzi di produzione.

Per di più, a oltre quarant' anni di distanza, appare obsoleta per aspetti

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non secondari. Basti pensare all'articolo 29 che "riconosce i diritti dellafamiglia come società naturale fondata sul matrimonio" o all'articolo 37che parla di "essenziale funzione familiare" della donna. Basti pensare alfatto che, mentre afferma il diritto all'emigrazione, non menziona neppure- né avrebbepotuto farlo allora -il cruciale problema dell'immigrazione,come non affronta, se non sommariamente, il problema delle istituzionisovrannazionali. Ciò che, in ultima analisi, è ancora più importante, lacarta del 1948 ha come fondamento una democrazia delegata, che escludeper principio ogni controllo dal basso e ogni possibilità di revoca procla-mando che "ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione edesercita le sue funzioni senza vincolo di mandato". Quali siano state leconseguenze pratiche non di violazioni della Costituzione, ma dell'appli-cazione di questo suo principio, lo dimostrano le devastazioni del sistemapolitico, che sono davanti agli occhi di tutti e che, se hanno, ovviamente,cause più profonde, sono state, tuttavia, facilitate proprio da una siffattaimpostazione, tipica di una concezione della delega che discende dallanegazione dell'idea stessa di una società divisa in classi.

Lungi dall'arroccarsi su una posizione difensiva, un partito operaiodovrebbe prendere l'iniziativa di radicali battaglie democratiche con l'o-biettivo di sopprimere o sostituire una serie di articoli della Costituzione,ripetiamolo, obsoleti e non accettabili (agli articoli già citati si potrebberoaggiungere quello che proclama la "non responsabilità del presidente dellaRepubblica" o quello sulla designazione di senatori a vita, per non parlaredi quello, utilizzato nel modo che sappiamo, sulla immunità parlamenta-re). Ma soprattutto dovrà sviluppare una critica della democrazia delegatacome elemento fondante dei meccanismi istituzionali e affermare la ne-cessità di un costante controllo democratico, di cui il diritto di revoca

costituisca un aspetto centrale. Più in generale, dovrà avanzare propostemiranti a introdurre organismi di democrazia dal basso, di democraziadiretta, su diversi piani e con funzioni diverse, partendo dalla elezionegeneralizzata di consigli dei lavoratori non concepiti in un' ottica puramen-te sindacale, cioè con funzioni più complessive di controllo politico,economico e sociale. È soprattutto su questo terreno che sarà possibilestabilire un nesso tra questi obiettivi politici e gli obiettivi economiciprioritari di questa fase, in primo luogo una riduzione generalizzata delleore di lavoro - 35 ore con l'ulteriore obiettivo di 30 - senza riduzione disalario, una retribuzione garantita ai disoccupati e ai giovani in cerca di

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prima occupazione, un controllo operaio sulla organizzazione del lavoronelle aziende e un controllo dei lavoratori -e non dei burocrati sindacali

- sull' assistenza sanitaria, sui fondi pensionistici e di previdenza ecc. Inqueste forme concrete si potrà cominciare a innestare una dinamica dicontestazione a tutti livelli, condizione pregiudiziale dell'affermazione diun'alternativa politica globale in termini di classe.

Aggiungiamo che una simile impostazione dovrebbe avere una proie-zione a livello sovrannazionale. Mentre è all'ordine del giorno la costru-zione dell'Europa di Maastricht, i comunisti devono spiegare senzanessuna ambiguità perché questa non sia la loro Europa. E non sono igoverni e gli organismi tecnocratici della CEE che devono decidere suquali basi socio-economiche e su quali istituzioni vada costruita un'Euro-pa unita. È ai popoli dei paesi del continente, che spetta la decisione, conuna costituente eletta a suffragio universale e a sistema proporzionale.

Se non ci sarà la massima chiarezza nella battaglia contro l'attualeoffensiva della destra, c'è il grave rischio che il movimento operaio e icomunisti appaiano schierati su posizioni di retroguardia, come difensoridi un sistema che è rigettato ogni giorno di più da vasti settori popolari.Non dobbiamo dimenticare esperienze negative di altri paesi e di altreepoche, in situazioni non dissimili dall'attuale situazione italiana. All'i-nizio degli anni '30, nel contesto della crisi della Repubblica di Weimar,per le sue profonde divisioni, per i settarismi imperanti e per l'incapacitàdi avanzare un' alternativa al regime esistente, il movimento operaiotedesco ha condotto una battaglia di retroguardia in ordine sparso, per-dendo nei momenti decisivi forza di attrazione in ampi strati popolari,che, brutalmente colpiti dalla crisi, sono caduti nella trappola dellademagogia reazionaria del nazismo. Se questa analogia può sembraretroppo drammatica, riflettiamo sulla crisi della primavera del 1958 inFrancia, dove pure il movimento operaio è apparso arroccato su posizionidifensive e conservatrici e incapace di prospettare un'alternativa, con ilrisultato che ha vinto il gollismo imponendo un regime dai tratti forte-mente autoritari. .

Il pericolo di ripetere oggi in Italia gli stessi errori non è affattoimmaginario. Abbiamo ancora il tempo di scongiurarlo.

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Note

l A questo proposito ci permettiamo di rinviare di nuovo al nostro saggio Altermine di una lunga marcia: dal PCI al PDS, in particolare al primo e secondocapitolo.

2 V. in particolare Trockij, La Terza Internazionale dopo Lenin, Schwarz,Milano 1958, pp. 117-138, Arthur Rosemberg, Storia della repubblica tedesca,Leonardo, 1945, e Pierre Broué, Révolution en Allemagne (1917-1923), LesEditions de Minuit, 1971.

3 V. il nostro Destino di Trockij, Rizzoli, Milano 1981.4V. a questo proposito Dibattito su Stato e rivoluzione, Samonà e Savelli, Roma

1'970,con i contributi di Ludo Colletti, Ludo Libertini, Livio Maitan, Ludo Magrie Lelio Basso.

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Capitolo ottavo

DIFFICOLTÀ E NECESSITÀ DI UNA RICOMPOSIZIONE

Nel terzo capitolo abbiamo indicato quali siano gli elementi nuovi egli elementi permanenti nella composizionedella società italiana. Ritor-niamo ora sui mutamenti che hanno riguardato, a partire, grosso modo,dalla fine degli anni '70 la classe operaia industriale e, più in generale, ilavoratori dipendenti.

Scomposizione e frammentazione

Conosciamo il leit motiv delle schiere variopinte di economisti e disociologhi, cui si sono associati, più o meno esplicitamente, dirigenti equadri sindacali. La classe operaia - si dice - ha subito trasformazioniradicali e tende irreversibilmente a diminuire; la percentuale degli impie-gati si è fortemente accresciuta; le nuove funzioni e mansioni nellefabbriche tecnologicamente più avanzate provocano una frammentazionedel tradizionale tessuto operaio; si producono differenziazioni sempremaggiori per cui è difficile, se non impossibile, stabilire denominatoricomuni e quindi comuni orientamenti di lotta; la composizione generazio-nale operaia è cambiata con un costante invecchiamento e, nella misura incui c'è un afflusso di giovani nelle aziende, esistono diversità di interessie di esigenze tra questi ultimi e le generazioni precedenti: si aggrava ilproblema del distacco tra lavoratori occupati e disoccupati (disoccupati di

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lunga durata), per non parlare dei veri e propri emarginati, espulsi dalmercato del lavoro, giovani in grande percentuale. Infine, esistono ledivisioni tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati, il cui numero èdestinato assai probabilmente a crescere.

Queste annotazioni analitiche corrispondono in gran parte alla realtà.Vanno, tuttavia, precisati la portata e i contenuti reali dei mutamentiintervenuti e delle tendenze in atto. .

Ci sono stati effettivamente, come già abbiamo accennato, mutamentinelle funzioni e qualifiche operaie, che hanno in larga misura annullato ilpatrimonio di esperienze acquisite dai lavoratori e reso più difficile daparte loro il padroneggiamento, sia pure relativo, dei processi in cui sonoinseriti.Se non si ignorache cosa questo significhi- non in termini teorici,ma nella vita di ogni giorno all'interno delle fabbriche, nella lotta per nonessere annullati e per ritagliarsi spazi di sopravvivenza -, è facile imma-ginare le conseguenze negative della perdita di questo patrimonio e losmarrimento e la demoralizzazione che ne conseguono.

Tutto questo è avvenuto e avviene in un contesto in cui sul mercato del.lavoro c' è stata un' evoluzione dei rapporti di forza sfavorevole ai prestatorid'opera, sia a causa della disoccupazione sia per gli accresciuti margini dimanovra del capitale (maggiori possibilità di spostare, anche in tempirelativamente brevi, investimenti e impianti dove più basso è il costo dellavoro, cioè più alto è il tasso dello sfruttamento)l. In concreto, ciò si ètradotto in un aumento dei tempi di lavoro reale e in una accelerazione deiritmi. C'è appena bisogno di dire che l'introduzione delle nuove tecnologie,dei controlli informatizzati ecc. costituisce un forte stimolo addizionale in

questa direzione nella misura in cui permette di fissare un quadro comples-sivo più rigido, e più indipendente dai comportamenti operai, rispetto allecondizioni precedenti. In altri termini, diciamolo agli apologeti più o menoconfessi del capitalismo, l'alienazione del lavoro diventa ancora più infles-sibile. Aggiungiamo - ed è un elemento niente affatto secondario - che, daun lato, la pressione del mercato del lavoro, dall'altro, l'erosione dei salarireali a causa dell' efficacia decrescente della scala mobile, hanno spinto ilavoratori dipendenti ad accettare una generalizzazione degli straordinari,con conseguenti maggiori differenzi azioni nei salari di fatto complessivi.Questa tendenza è stata ed è deliberatamente accentuata con l'introduzionedi ogni sorta di incentivi e di premi, nel quadro del perseguimento della tantoauspicata "individualizzazione" delle retribuzioni:

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Altri due fattori contribuiscono ad accrescere le differenziazioni. Il

primo è che la nuova organizzazione del lavoro, al di là delle pretese dirazionalità e della mitica partecipazione attiva dei salariati a vari livellidecisionali, spinge alla concorrenza tra gli operai di diversi reparti odiversi settori di una stessa azienda, di aziende diverse dello stesso gruppo,per non parlare di quella tra dipendenti di società rivali, con le inevitabiliseparazioni tra "vincitori" e "vinti". Il secondo è che il decantato "model-lo" giapponese comporta un ricorso massiccio ai subappalti, con l'asse-gnazione di settori consistenti del processo produttivo ad aziende piccolee medie dove le garanzie sindacali e giuridiche sono molto minori e quindipiù elevato è il tasso dello sfruttamento (e più precaria la stessa occupa-zione).

La scomposizione e la frammentazione operaia sono dunque un feno-meno reale, determinato da fattori che sono macro e microeconomici,sociali e, in ultima analisi, politici. E sono politici perché in rapporto conl'evoluzione complessiva dei rapporti di forza tra le classi e con gliorientamenti strategici e tattici delle organizzazioni sindacali. Questeultime, invece di opporsi alle tendenze in atto e di contestare gli orienta-menti e le ideologie padronali sulle nuove tecnologie e sulla nuovaorganizzazione del lavoro, come in materia di "politica dei redditi", lihanno fatti propri in modo sempre più sistematico, limitandosi a contra-starne alcune delle conseguenze più negative, quasi sempre con mezzi deltutto inadeguati. Al di là di tutti i discorsi e di concetti e terminologiemistificanti, hanno accettato, maggioranza della CGIL in testa, ci siapermessa l'approssimazione, l'ideologia del "modello" giapponese o dellaburocrazia sindacale tedesca di venti o trent' anni or sono (il fatto che,invece 'che di "cogestione", si preferisca parlare di "codeterminazione"non cambia assolutamente nulla alla sostanza delle cose).

Un problema politico centrale

Uno dei risultati più negatividi questa "evoluzione",il cui inizio risalealla fine degli anni '70, se non più indietro, è stato l'annullamentopressoché totale delle specificità che avevano costituito gli elementi diforza del movimentooperaio e sindacale italiano rispetto a quello di altripaesi. Per limitarci a due aspetti decisivi, si sono progressivamentesvuo-

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tate di contenuto le grandi lotte per il rinnovo dei contratti nazionali dellemaggiori categorie, che, soprattutto tra la metà degli anni '60 e la metàdegli anni '70, erano state non solo scadenze sindacali o categoriali, mamomenti centrali della lotta di classe e dello scontro politico, che segna-vano l'intera vita nazionale2. Parallelamente, si sono sterilizzati queglistrumenti di mobilitazione e di pressione dal basso che erano i consiglisorti a partire dal' 69. Prima svuotati di contenuto e messi ai margini, sonostati alla fine sotterrati per sostituirli, quasi sempre solo sulla carta, construmenti "nuovi", incomparabilmente meno democratici e in larga misuralottizzati tra le varie sigle.

Il pesante ruolo negativo assolto dalle organizzazioni sindacali e, ancordi più, il fatto che in quasi tutte le lotte e le vertenze più importanti ci siastato un distacco sempre più grande tra vertici e apparati, da una parte, e,dall'altra, settori consistenti e non di rado maggioritari di lavoratori,confortano la conclusione che si può ricavare dagli altri elementi analiticisinteticamente richiamati. I fattori strutturali sono reali e non possonoessere ignorati o negati luddisticamente, ma gli sbocchi sociali e politici,di cui tutti possono constatare la portata negativa per la classe operaia, nonerano affatto predeterminati. In altri termini, non esisteva e non esistenessuna fatalità tecnologico-strutturale o socio-economica. L'azione deisindacati e di tutto il movimento operaio avrebbe potuto produrre esitidiversi. Potrebbe ancora conseguire risultati diversi, a condizione chesiano decisamente contrastate le tendenze in atto e si adottino nuovimetodi.

Non pretendiamo di rispondere qui agli ardui problemi che si pongono.Si tratta, in un certo senso, di una prova del fuoco per tutti i militantiimpegnati, all'interno delle confederazioni o al di fuori di esse, neitentativi di rinnovamento sindacale e nell'impresa di rifondazione comu-nista. Limitiamoci a ribadire che il punto di partenza deve essere larifondazione dell'indipendenza e dell'autonomia operaia, partendo dalrifiuto della logica dell' accumulazione capitalistica e delle impostazionieconomiche delle classi dominanti. Bisogna ristabilire, con un'azione altempo stesso paziente e intransigente, tutti gli elementi di unificazioneoggetti vamente possibili rilanciando la tematica democratica dell' auto-or-ganizzazione e la tematica egualitaria, che sono state il sale della terra neimomenti più alti della storia del movimento operaio, anche negli ultimicinquant' anni.

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Questi motivi di rilancio, nel contesto di un prolungarsi dell' onda lungadi ristagno e di persistenti innovazioni tecnologiche, vanno ricercati - loabbiamo già accennato - su un triplice piano:

a) la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro (senza riduzione disalario);

b) la garanzia di un reddito minimo necessario per tutti coloro che sonoespulsi, temporaneamente o indefinitamente, dal processo produttivo onon hanno mai potuto parteciparvi;

c) la costruzione dal basso, sui luoghi di lavoro, di organismi checonsentano nuove forme di controllo operaio e un nuovo condizionamen-to, nell'interesse dei lavoratori, dei processi produttivi e dell'organizza-zione del lavoro - nella misura in cui questo è possibile mentre sussiste ilsistema capitalista.

In conclusione, una ricomposizione del tessuto della classe operaia euna sua riunificazione -che comprende l'integrazione a parità di condi-zioni dei lavoratori immigrati - sono il presupposto necessario di unrilancio e di una rifondazione. Ma, in ultima analisi, il problema va postoin termini assai più politici che socio-economici. In questo senso, la suasoluzione dipende dalla nostra capacità di comprensione, di azione e diiniziativa.

Con quale ''materiale'' rifondare?

L'opera di rifondazione si scontra con difficoltà e contraddizioni anchesul piano più strettamente politico-organizzativo.

Le forze a disposizione, pur minoritarie, sono in Italia più consistentiche in qualsiasi altro paese dell'Europa occidentale; rappresentano unpatrimonio politico da valorizzare; riflettono una presenza in movimentidi massa e un radicamento sociale diffuso, anche se parziale e non ancorastrutturato. Sono, tuttavia, costituite in misura preponderante da militantiimpegnati a partire dalla metà degli anni '40 o dall' inizio degli anni '50 edalle leve del 1968-69 o della prima metà degli anni '70. Questa preva-lenza è ancora maggiore a livello di dirigenti nazionali e di nuclei didirezione locale.

Si tratta, dunque, di forze che hanno subito un'usura inevitabile e chesono state segnate da una serie di insuccessi, soprattutto da un quindicen-

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nioa questa parte. La maggioranza di questi quadri e militanti, provenientidalla rottura di Rimini con la maggioranza dell'ex-PCI, si sono formatisulla base di esperienze che, a prescindere dal giudizio che se ne vogliadare, appartengono al passato. Appartengono a un'epoca in cui la grandemaggioranza del movimento operaio aveva punti di riferimento interna-zionali ora scomparsi; in cui si operava in un contesto interno radicalmentediverso dall' attuale; in cui il peso della lotta antifascista e della Resistenzaera qualitativamente più importante; in cui esistevano strumenti politici eorganizzativi oggi esauriti o straordinariamente deformati3; in cui esiste-vano nel tessuto sociale spezzoni di società operaia con le sue istituzionie i suoi valori. Se vogliamo essere materialisti -non certo fare processialle intenzioni - dobbiamo prendere atto che tutto questo non può nonpesare seriamente, al di là di tutti i buoni propositi. E ciò vale forse ancordi più nel caso di dirigenti che devono assolvere compiti nuovi ed estre-mamente ardui per cui le esperienze precedenti non possono essere di aiutoche molto parzialmente.

Considerazioni analoghe valgono per coloro che sono scesi in camponella seconda metà degli anni '60 e nella prima metà degli anni '70 eprovengono da organizzazioni di estrema sinistra, tramite Democraziaproletaria o per altre vie. Anch' essi si sono formati in un contesto nazio-nale e internazionale ben diverso; per tutto un periodo, hanno maturato infunzione delle esigenze di una fase di ascesa e di grandi mobilitazioni;sono stati influenzati da miti e ideologismi; hanno acquisito e mantenutoa lungo metodi organizzativi che, al di là delle proclamazioni spontanei-stico-basiste, non assicuravano una vita interna democratica e assumeva-no, se non addirittura teorizzavano, concezioni manipolatori e dei rapportitra movimenti di massa e organizzazioni politiche, non di rado feticizzate.Nessuno ha potuto fare le esperienze necessarie per affrontare i problemidi costruzione o ricostruzione di un tessuto complessivo del movimentooperaio, di organizzazioni di massa di centinaia di migliaia di aderenti edelle dimensioni anche dell'attuale Partito della rifondazione comunista.

Quel che, in ultima analisi, è ancora più importante, i militanti provenientida queste esperienze, come quelli che provengono da esperienze critichedi sinistra ancora più lontane, ne siano o no pienamente consapevoli,hanno interiorizzato una serie di insuccessi nella misura in cui non sono

riusciti a costruire quelle organizzazioni rivoluzionarie con base di massadi cui avevano affermato l'esigenza.

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Non si tratta di battersi il petto o di celebrare riti autocritici, ma diprendere coscienza di queste realtà e delle difficoltà che ne derivano.Ancora una volta, questa presa di coscienza è il necessario punto dipartenza.

Esiste, tuttavia, un altro, primordiale presupposro del successo dell'im-presa di rifondazione. La ricomposizione socio-politica necessaria e unanuova ascesa della classe operaia e dei vari movimenti di massa potrannorealizzarsi, in ultima analisi, solo se entreranno in campo come protago-nisti militanti delle nuove generazioni. Questo è vero oggi, come lo è statoin altre fasi crociali, negli ultimi anni di guerra e nell'immediato dopo-guerra e alla fine degli anni '60. Sulla base di quali spinte e di quali stimolispecifici si formerà una nuova generazione militante, quali saranno ipercorsi di nuove prese di coscienza, in quali modi verranno ripresi eriformulati i valori e le finalità del comunismo, sarebbe vano cercar diprevedere. Ma dovremo acuire al massimo la nostra sensibilità, rifiutandomeccaniche analogie con il passato, per cogliere a tempo i segnali cheverranno.

Il problema dell'apporto delle nuove generazioni non è meno acuto perla costruzione del partito in senso più immediato. L'impresa di rifonda-zione ha senza dubbio un'eco in strati giovanili, nelle scuole medie, nelleUniversità e, in minore misura, tra giovani operai. Ma la componentegiovanile organizzata è ancora molto scarsa e non ha il peso che dovrebbeavere nella vita e nell'elaborazione del partito. I risultati elettorali, con leindicazioni fornite, tra l'altro, dal raffronto tra i voti per la Camera e quelliper il Senato, sono un segnale di allarme che sarebbe autolesionisticosottovalutare.

Note

l La dura realtà di questi anni ha fatto dimenticare o rigettare la "teoria" secondocui il salario avrebbe rappresentato una "variabile indipendente" e che era stataaccolta, per opportunismo demagogico, anche da dirigenti sindacali. Questa "teo-ria" partiva dalla constatazione giusta che i rapporti di forza sul mercato del lavoroavevano avuto un'evoluzione favorevole ai prestatori d'opera per trarre la conclu-sione errata che il prezzo della manodopera, in una società capitalistica, possaprescindere dall'andamento del mercato del lavoro.

2 Le scadenze di contratti nazionali esistono ovviamente anche in altri paesi,

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ma di solito vengono affrontate dai sindacati con uno spirito collaborazionistasenza ricorrere a mobilitazioni dal basso. È stato, per esempio, il caso, per lunghianni, della Svezia e del Giappone.

3 Pensiamo, oltre ai sindacati di cui già abbiamo parlato, alle cooperative chehanno sempre di più adottato criteri di gestione capitalistici.

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Capitolo nono

UN NODO CENTRALE: LA DEMOCRAZIA OPERAIA

Gli storici futuri analizzeranno certamente le ragioni del fallimentodelle società di transizione burocratizzate. Forse ancor più si chiederannoperché il movimento operaio - in primo luogo nei paesi in cui ha originipiù lontane, radici più profonde e ha occupato un posto socialmente epoliticamente più rilevante - sia stato condannato al destino di Sisifo, abbiacioè registrato periodicamente l'usura o l'annullamento delle sue conqui-ste e, soprattutto, abbia subito sconfitte decisive in fasi critiche dellesocietà capitalistiche. Potranno sforzarsi di individuare cause sociologi-che, cioè legate alla natura stessa della classe operaia, alla sua collocazionenei processi produttivi, come cause politiche, cioè legate al suo inserimen-to nelle istituzioni con tutte le tensioni e le contraddizioni che ne sono

derivate. Potranno sviluppare analisi differenziate a seconda dei paesi edelle diverse aree geografiche, individuando cause specifiche e fattori piùgenerali. Potranno combinare l'una e l'altra cosa.

Democrazia negata

Senza attendere il verdetto degli storici, ci permettiamo di avanzareuna ipotesi interpretati va, che, senza pretendere di fornire una spiegazionecomplessiva, coglie una contraddizione secondo noi fondamentale. Que-sta contraddizione consiste nel fatto che la classe operaia ha acquistato, in

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particolare nei paesi dell 'Europa occidentale, un peso specifico socio-eco-nomico determinante, ma non è riuscita a tradurre questo suo peso speci-fico in strumenti organizzativi e in istituzioni che le permettessero diesprimere le sue potenzialità e di svolgere in prima persona quel ruoloegemonico di cui esistevano i presupposti materiali. In realtà, i momentialti di una democrazia operaia non sono stati che degli interludi, regolar-mente seguiti dal ritorno a pratiche consuetudinarie di appiattimento, dinormalizzazione burocratica, di delega a corpi cristallizzati di funzionari,a intellettuali ideologicamente manipolatori e a capi cosiddetti carismatici.

Non vanno ignorate le cause oggettive di tutto questo o, detto altrimen-ti, non vanno ignorati i fattori che hanno favorito un simile stato di cose.In sintesi:

- la principale difficoltà oggettiva proviene dallo stesso inserimentonel processo produttivo, cioè dalla condanna a un lavoro logorante "edalienante, con una limitazione rigorosa del tempo libero e la difficoltà diraggiungere un soddisfacente livello culturale. Negli ultimi decenni illivello culturale medio è incontestabilmente aumentato, ma le costrizionidella vita lavorativa quotidiana non sono per questo scomparse. D'altraparte, nel contesto dato, l'acquisizione di un più elevato livello culturalenasconde l'insidia di un adattamento, più o meno consapevole, ai "model-li" e ai valori della classe dominante e forse ancor di più delle classi medieagiate.

- la composizione del movimento operaio organizzato e della sua areaè stata quasi sempre caratterizzata dalla presenza e dal ruolo attivo nontanto di elementi provenienti dalla borghesia, la cui incidenza è stata dinorma quantitativamente limitata, quanto da elementi provenienti daidiversi strati piccolo-borghesi. Non intendiamo qui suggerire un ritorno acerte concezioni rigidamente operaiste delle origini. Ma non possiamo nonconstatare che elementi di provenienza piccolo-borghese e spesso diconfusa matrice culturale hanno avuto tradizionalmente un ruolo di primopiano nelle elaborazioni teoriche e politiche e nella pratica quotidianadelle organizzazioni operaie, per non parlare della loro incontrastataegemonia sul piano culturale. Questo ruolo era in larga misura inevitabilenelle prime fasi di costruzione e di maturazione ed è stato, per vari aspetti,positivo. Lo è stato egualmente in fasi critiche di radicalizzazione e dipresa di coscienza anticapitalista di ampi strati sociali attratti dalle mobi-litazioni operaie e dagli ideali socialisti. Ma non si può dire la stessa cosa

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per i periodi di ristagno e di routine, che sono stati tanta parte di unpercorso secolare. I fenomeni negativi si sono accentuati via via che glielementi di origine piccolo-borghese - unitamente ai funzionari per cui laprovenienza sociale, fosse pure operaia e contadina, ha contato moltomeno della logica di apparato - hanno occupato un posto preponderantenelle rappresentanze istituzionali, prevalendo alla fine negli stessi organi-smi dirigenti di partito. Il discorso è un po' diverso, per ovvie ragioni, perquanto riguarda i sindacati; ma non di rado incarichi di massima respon-sabilità sono spettati a persone di provenienza piccolo-borghese e intellet-tuale, magari espressione di apparati di partito, che mai nella loro vitaavevano svolto un lavoro dipendente (o lo avevano svolto in anni remotidella loro gioventù).

- difficoltà oggettive di funzionamento, specie per organizzazioni dicentinaia di migliaia o addirittura di milioni di aderenti, tendono a creare,al di là delle intenzioni, un divario permanente tra le norme statutarie(peraltro non sempre realmente democratiche) e l'esercizio effettivo deidiritti di partecipazione e di controllo. I dirigenti in generale e gli intellet-tuali più in particolare - per non parlare dei leader carismatici, vero eproprio flagello non ancora debellato, nonostante la lunga sequenza diesperienze disastrose -hanno mille modi di far valere le loro idee e i loroorientamenti, mentre i comuni mortali della "base" non possono esprimerele loro opinioni che in rare circostanze e quasi sempre che con limitazioni,normative o di fatto, molto gravi.

Nel clima creato dal crollo dei regimi dell'Europa orientale, prevaleancor più che in passato la tendenza ad attribuire tutti i mali del movi-mento operaio allo stalinismo e agli Stati e ai partiti sotto la sua egemonia.È una delle tante ricorrenti falsificazioni storiche. La realtà è che la

burocratizzazione del movimento operaio ha largamente preceduto lostalinismo e la stessa conquista del potere in Russia e non occorronoparticolari virtù profetiche per prevedere che continuerà in futuro. Fare-mo più avanti alcuni esempi tra i più significativi. Basti qui ricordare chei primi a subire processi di burocratizzazione sono stati i partiti socialde-mocratici o socialisti, ben prima che i partiti comunisti vedessero la luce.Questi processi hanno costituito sin dal primo decennio del secolo unostacolo sostanziale al progredire di una coscienza autonoma e indipen-dente della classe operaia e all' espressione del suo potenziale socio-po-litico antagonista.

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Significative esperienze storiche

Ci vorrebbero letteralmente dei volumi per affrontare il tema delrestringimento e del soffocamento della democrazia nel corso della storiadel movimento operaio. Qui possiamo solo fare alcuni esempi, su diversipiani, tanto più significativi in quanto si riferiscono a organizz&zioni noncerto tra le più sclerotizzate e le meno sensibili alle esigenze dei militantiche vi appartenevano.

Per cominciare, due esempi che riguardano il movimento operaiotedesco.

Nell'estate 1914 il Partito socialdemocratico prendeva la decisione diassociarsi alla guerra imperialista, provocando una rottura lacerante conil suo patrimonio ideologico e le sue scelte politiche precedenti. Questadecisione cruciale è stata presa ai vertici senza nessuna partecipazione nondiciamo della classe operaia, ma neppure dei militanti del partito e delleorganizzazioni sindacali. Non.si tratta di idealizzare la classe operaia inquanto tale e di contrapporre astrattamente base e dirigenti. Ma è legittimochiedersi se le cose sarebbero andate allo stesso modo, se si fosse svilup-pata, a tutti i livelli, una discussione realmente democratica. Si dirà che,dato il clima che si era creato con lo sciovinismo dilagante, la decisionenon sarebbe stata diversa. Non ne siamo affatto certi. Si sarebbe espressa,comunque, una forte opposizione e questo avrebbe facilitato la ricompo-sizione successiva, fornendo una base di partenza più consistente di quellasu cui hanno potuto contare nel 1918 Rosa Luxemburg e gli spartachisti.

Il secondo esempio si riferisce agli anni che hanno preceduto l'avventodel nazismo. Esiste ormai un largo consenso sul fatto che una delle causeprincipali della vittoria di Hitler è stata la divisione del movimentooperaio, che ha impedito di realizzare un fronte unico contro il nemicocomune. L'atteggiamento del Partito comunista era stato senza dubbioispirato dal Comintern, ormai sotto controllo staliniano, con le famigeratetesi del cosiddetto terzo periodo. Ma non meno pesanti sono state leresponsabilità dei socialdemocratici, che, niente affatto disposti a fareblocco con i comunisti, hanno sperato sino all'ultimo di di poter scongiu-rare l'avvento del nazismo con il rilancio di quelle alleanze con partitiborghesi che avevano stabilito, in varie forme e con fortune alterne, neldecennio precedente. Se le decisioni, invece di essere delegate ai vertici,fossero state prese con la partecipazione diretta dei militanti e delle

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militanti di entrambi i partiti, che erano il bersaglio degli attacchi dellebande hitleriane negli stessi quartieri e sugli stessi luoghi di lavoro, è forseazzardata l'ipotesi che l'idea del fronte unico si sarebbe imposta con seriepossibilità di tradursi in pratica? C'è appena bisogno di ricordare chenell'uno e nell'altro caso le scelte fatte ai vertici hanno avuto effetti

estremamente negativi per la storia dell'intero movimento operaio in unpaese decisivo per le sorti dell'Europa.

Se passiamo alla Russia post-rivoluzionaria, l'interrogativo che si sonoposti da tempo coloro che hanno rigettato lo stalinismo e che si pone conmaggior forza oggi dopo il crollo dell'URSS, è se certe decisioni presenon solo dopo la morte di Lenin, ma anche negli anni immediatamentesuccessivi alla vittoria della rivoluzione non abbiano favorito l' involuzio-ne burocratico-autoritaria. È ovviamente difficile dire se questa involuzio-ne sarebbe stata evitata qualora questa o quella decisione fosse statadiversa. Si possono, tuttavia, indicare tra i fattori che hanno pesatonegativamente, da un lato, la scelta, nei fatti prima ancora che in teoria,del monopartitismo, dall'altro le limitazioni al funzionamento democrati-co del partito introdotte dal X congresso. Soprattutto su quest'ultimamisura un dibattito c'era stato, ma senza una partecipazione democraticadal basso del genere di quelle che avevano caratterizzato in altri momentiil partito bolscevico. Eppure la posta in giuoco, era non solo il funziona-mento interno del partito, ma, in ultima analisi, la dialettica stessa dellasocietà rivoluzionaria, come è apparso chiaramente dagli sviluppi succes-sivi.

Per restare nello stesso periodo, una riflessione sul funzionamento del-l'Internazionale comunista. I discorsi a proposito di questa organizzazionecontinuano il più delle volte a ignorare le sue distinte fasi e i mutamentiradicali intervenuti a partire dalla metà degli anni '20, combinando cosìfalsificazione storica e mistificazione politica. La prassi dei primi quattro ocinque anni dell'Internazionale - con i congressiannuali,in cui si confron-tavano liberamente orientamenti diversi e diverse correnti, se non addiritturafrazioni - ha ben poco a che vedere con i lugubrimeccanismidell'epocasuccessiva con tutta la sequela di imposizioni amministrative, di espulsionie, più tardi, di liquidazioni fisiche. Ma questa distinzione necessaria nondeve impedirci di constatare che anche nell' epoca migliore la partecipazionedemocratica ai dibattiti e, a maggior ragione, alle decisioni non è andata, ilpiù delle volte, al di là dei gruppi dirigenti dei partiti aderenti e non ha

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coinvolto la base e gli stessi quadri intermedi, senza contare che il partitorusso aveva un ruolo egemonico schiacciante. Questo spiega, almeno inparte, perché non sia stato realizzato sistematicamente e tempestivamentenei nuovi partiti in costruzione il lavoro di formazione teorico-politicaassolutamente indispensabile. Di conseguenza i vari partiti comunisti sonostati più esposti al rischio di commettere errori anche molto gravi e, cosaancora più importante, non ci sono state che resistenze piuttosto scarse epoco durature alla involuzione staliniana.

Trasferendoci in un altro settore geo-politico, in un' altra fase storica,riferiamoci al caso del Fronte sandinista del Nicaragua. Non si trattaaffatto di un esempio particolarmente negativo, al contrario, dell' esperien-za per molti aspetti altamente positiva di una organizzazione che è stataalla testa di una rivoluzione vittoriosa. Se il FSLN non avesse stabilito

profondi legami democratici con settori decisivi della classe operaia, deicontadini e delle masse plebee urbane, non avrebbe avuto il loro appoggioal momento dell'insurrezione del 19 luglio. Ma oggi, nel bilancio che ènecessario fare e che, in una certa misura, è stato già fatto dallo stessoFSLN e in particolare da alcuni suoi settori, non si possono sottovalutarei limiti dello Stato sorto dalla rivoluzione, come pure del Fronte, dal puntodi vista dell'esercizio di una democrazia operaia e popolare. Nel vivodell'ascesa rivoluzionaria sono sorti i CDS, organismi genuinamentedemocratici per la loro origine e composizione. Ma successivamente,lungi dal divenire gli organismi democratici costitutivi del nuovo Stato,che avrebbero permesso alle grandi masse di partecipare attivamente edirettamente alla direzione del paese e alla gestione dell' economia, hannoassunto mansioni ben più limitate, svuotandosi abbastanza rapidamentedei loro contenuti più genuini e perdendo i legami di massa che avevanocostituito il loro punto di forza. Quanto al FSLN, nonostante i propositiripetutamente espressi e che erano un riconoscimento di quello che sareb-be stato necessario fare, non si è mai strutturato veramente come un partitodemocraticamente organizzato. Tutte le decisioni sui problemi più impor-tanti sono state regolarmente prese dalla direzione ristretta dei novecomandanti - risultato dell'accordo tra le tendenze in cui a un certomomento il Fronte si era diviso - con l'assegnazione di un ruolo soloconsultivo a un' assemblea più ampia, peraltro convocata piuttosto rara-mente. È significativo che il primo congresso del FSLN sia stato convo-cato solo nel luglio 1991, ben dodici anni dopo il rovesciamento di

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Somoza! Per di più, dopo accese discussioni, è stato deciso di mantenerein tutte le sue responsabilità il gruppo dirigente originario, cui sono statedelegate decisioni di grande portata del periodo successivo (per esempio,l'adesione a pieno titolo alla Internazionale socialista). Le conseguenze diquesta pratica di direzione erano emerse alla luce del sole al momentodella sconfitta elettorale, che aveva colto i sandinisti del tutto di sorpresa(la festa per celebrare la vittoria era praticamente iniziata quando giunge-vano i primi risultati negativi). I dirigeVti avevano in larga misura perdutoil legame vivo con vasti settori di massa, di cui non percepivano piùesigenze e sentimenti.

Brevemente, infine, qualche esempio sul movimento operaio italiano,le cui vicende sono ovviamente più note.

Per quanto riguarda il movimento sindacale, un momento cruciale delperiodo di ristagno e di arretramento iniziatosi alla fine degli anni '70 èstato senza dubbio la svolta dell'EUR nel 1978. Ebbene, l'assemblea cheha avallato questa svolta, aveva una rappresentatività democratica del tuttocontestabile per la sua stessa composizione. Non è affatto infondatal'ipotesi che, se i meccanismi decisionali fossero stati diversi, cioè se inuovi orientamenti prospettati fossero stati sottoposti al giudizio di tutti ilavoratori, organizzati e non organizzati, in un quadro di discussione chepermettesse di valutare tutte le implicazioni, il nuovo corso avrebbe potutoessere respinto. A maggior ragione, si può ritenere che alcune delle lottepiù importanti che hanno avuto luogo dopo di allora -a cominciare dallalotta alla PIAT - avrebbero potuto essere condotte diversamente e condiversi risultati, se la decisione fosse spettata ai lavoratori direttamenteinteressati e se tutti avessero potuto decidere se era possibile e necessario,in determinati momenti, mobilitare la solidarietà attiva di tutte le categoriee prepararsi eventualmente a una prova di forza generale per bloccarel'offensiva del padronato e del governo.

Due soli esempi per quanto riguarda il vecchio Partito comunista. Sela politica di compromesso storico, invece di essere formulata direttamen-te sulle colonne di "Rinascita", e, successivamente, la politica di solida-rietà nazionale fossero state sottoposte a un' ampia discussionedemocratica nelle file del partito, sarebbero egualmente passate? Ancormeno certo è, a nostro avviso, che sarebbe stata approvata la scelta diaccettazione di quel Patto Atlantico contro cui il PCI aveva condotto a suotempo una delle sue battaglie più significative.

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Infine, per riferirsi all'attualità, mentre scriviamo, le pagine dei gior-nali sono piene di notizie sui vari scandali, in cui il più gravementecoinvolto è il Partito socialista. Ci chiediamo: se il PSI avesse mantenuto

anche solo i suoi modi di funzionamento, peraltro tutt'altro che impecca-bili, del periodo prefascista o dei primi decenni del dopoguerra e non sifosse istaurata l'autocrazia craxiana, con la scomparsa di ogni tendenza ocorrente di opinione e con l'elezione plebiscitaria del "capo" direttamentedai congressi, la vorace schiera di arrampicatori, corrotti e corruttori, nonavrebbe incontrato maggiori difficoltà nel portare a termine le sue impre-se?

Si dirà che una vera democrazia operaia è forse un obiettivo utopisticoe che una battaglia in questo senso è perduta in partenza. Il massimo chesi può sperare è introdurre qualche correttivo di buon senso.

Respingiamo una simile argomentazione, obiettivamente infondata e,in fondo, fatalistica e disfattista. Se è vero che l'assenza di una realedemocrazia operaia nel senso che abbiamo indicato, rappresenta unacostante nella storia del movimento operaio, ci sono stati, tuttavia, deimomenti alti, in cui, in forme diverse, questa democrazia si è effettiva-mente concretizzata. In linea generale, proprio in questi momenti sonostati possibili vittorie rivoluzionarie, significative conquiste o passi avantisostanziali nei processi di presa di coscienza.

C'è appena bisogno di rievocare le vicende della rivoluzione russa. Neimomenti culminanti delle rivoluzioni del 1905 e del 1917 sono comparsesulla scena come protagoniste masse enormi di operai e di contadini, cheper la prima volta nella storia hanno potuto far valere i loro interessi,esprimere i loro sentimenti e le loro aspirazioni: non solo con le mobilita-zioni,ma anchee soprattuttocon l'invenzione -in questo caso, è legittimol'uso di questo termine -di organismi democratici per eccellenza, cioè isoviet o consigli. Particolare degno di nota: nel 1905, le formazionioperaie già esistenti e gli stessi bolscevichi sono stati colti di sorpresa daquesta "invenzione", hanno esitato di fronte al nuovo, prodotto dal fer-mento rivoluzionario democratico. Va loro riconosciuto il merito di avere

rettificato abbastanza rapidamente il tiro.Fatte le debite proporzioni, qualche cosa di simile è avvenuto in Italia

alla fine della prima guerra mondiale, quando il punto culminante dell'a-scesa è stato segnato dalla formazione dei consigli torinesi, che è stata unadelle espressioni più feconde di democrazia operaia nel nostro movimento

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operaio e ha contribuito alla formazione di quadri e di dirigenti cheavrebbero dato vita al Partito comunista. Le vicende di cinquant'annidopo, tra il 1968 e il 1975, sono vive nella memoria di almeno duegenerazioni di militanti: nel contesto di una crisi sociale e politica delsistema, si è assistito di nuovo -al di fuori delle organizzazioni e organismiesistenti e in larga misura in contrapposizione ad essi - a un processoimpetuoso di presa di coscienza democratica, dalle potenzialità rivoluzio-narie. Questo processo si è tradotto in un rinnovamento anche organizza-tivo del tessuto operaio, in particolare con la formazione di consigli, che,pur non raggiungendo i livelli del 1920, hanno costituito, nelle esperienzepiù avanzate e nel corso delle lotte più importanti, l'espressione di unagenuina democrazia operaia, con cui anche i dirigenti più anchilosatihanno dovuto fare i conti. C'è bisogno di ricordare che proprio quando piùforti sono state le mobilitazioni operaie e più democratici sono stati glistrumenti di organizzazione, il movimento operaio ha esercitato un mas-simo di forza di attrazione verso altri movimenti, in primo luogo ilmovimento studentesco, e verso strati sociali tradizionalmente diffidentinei suoi confronti e su cui è riuscito a esercitare una sua egemonia senzafar ricorso a pratiche manipolatorie?

Un altro esempio è quello della rivoluzione portoghese alla metà deglianni '70. In un paese che aveva vissuto lunghi decenni di dittatura e in cuiper gran parte della sua storia il movimento operaio era stato costretto allaclandestinità, nel giro di pochi mesi non solo era rovesciata la dittatura,ma emergevano e si sviluppavano organizzazioni e movimenti di massaad alti livelli di politicizzazione. Sorgevano strumenti democratici dalbasso; fabbriche importanti erano occupate e si creavano embrioni digestione operaia; i dibattiti sulle piazze, sui luoghi di lavoro, nelle Uni-versità e nelle caserme affrontavano problemi che si erano accumulati dadecenni, partendo dalle acquisizioni più valide del movimento operaio dialtri paesi. Era un processo di democratizzazione in profondità, chepermetteva alle classi sfruttate di far valere il loro peso e di ottenereconquiste parziali per alcuni aspetti più importanti di quelle ottenute inaltri paesi europei dalla fine della guerra.

Altro esempio, a proposito degli Stati Uniti, cioè di un paese in cui ilmovimento operaio ha incontrato le maggiori difficoltà per costruirsi e,tranne che per brevi periodi e in settori circoscritti, non ha raggiunto lapropria indipendenza politica rispetto alle classi dominanti. Ebbene, anche

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in questo paese, così permeato di ideologia borghese, ci sono stati degliinterludi luminosi, durante i quali forme ed esperienze di democraziaoperaia si sono affermate, stimolando prese di coscienza democratiche eclassiste da parte di centinaia di migliaia e persino di milioni di lavoratori,con un impatto reale sulla situazione generale del paese. Il più significativodi questi momenti risale alla metà degli anni '30, con grandiose lotteoperaie, di cui sono state teatro grandi città e regioni intere, con occupa-zioni di fabbriche e altre forme di lotta anche molto dure. Il punto di arrivoè stato una profonda trasformazione delle strutture sindacali, con l' esplo-sione delle forme anchilosate tradizionali e l'emergere dei grandi sindacatidel CIO. Il fatto che questa nuova centrale sia entrata in una fase di declinogià a partire dagli anni '50, all'epoca oscura del maccarthismo, divenendoa sua volta uno strumento ultraburocratico, e abbia finito col riunificarsi,ai livelli più arretrati, con la vecchia centrale, non deve indurre a sottova-lutare le potenzialità esistenti alla sua formazione e il significato delleesperienze di quel periodo.

Infine, per limitarci all'ambito più ristretto della vita interna di partito,quando un gran numero di quadri e di militanti si sono impegnati attiva-mente in dibattiti di fondo, prendendo coscienza dei problemi che siponevano su scala nazionale e internazionale?

Un primo esempio può essere quello dei dibattiti che hanno attraversatoil Partito socialista dalla vittoria della rivoluzione d'Ottobre alla scissione

di Livorno. Non ignoriamo i limiti di quei dibattiti, le loro ingenuità, i loroultimatismi, le straordinarie cariche emotive che li hanno segnati. Restache per la prima volta centinaia di migliaia di lavoratori hanno discusso iproblemi nodali di una strategia anticapitalista e della costruzione di unpartito rivoluzionario e di una Internazionale comunista.

Su un piano diverso e in un diverso periodo, un valido esempio restaai nostri occhi quello delle discussioni che si sono svolte per alcuni mesinel Partito comunista all'indomani del terremoto provocato dal XX con-gresso del PCUS e dal rapporto Krusciov. Raramente, c'è stato nelmovimento operaio italiano un dibattito così ampio, in cui le bocche sisono aperte e sono emersi alla luce del sole dubbi, critiche e lacerazionisino a quel momento sotterranee. Nonostante i tentativi, parzialmenteriusciti, di normalizzazione, che hanno impedito alla riflessione critica digiungere alle conclusioni già allora possibili sull'URSS e sullo stalinismo,il partito non è ritornato più a quello che era stato prima.

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Linee di un rinnovamento

Dopo le esperienze negative delle società di transizione burocratizzatee del monopartitismo e della pratica secolare di partiti burocratici nellesocietà capitaliste, si deve ribadire con assoluta chiarezza l'idea che labattaglia anticapitalista della classe operaia per una nuova società puòessere condotta efficacemente e ottenere risultati duraturi solo valendosi

di strumenti autonomi e distinti, ciascuno dei quali con specifiche funzio-ni. La convergenza su obiettivi comuni non può realizzarsi con l'imposi-zione unilaterale di una egemonia di partito; deve essere una convergenzanelle scelte e negli orientamenti, di cui è condizione pregiudiziale la piùampia e costante dialettica.democratica.

La classe operaia e gli altri strati sfruttati hanno e continueranno adavere bisogno di organizzazioni sindacali, che tutelino i loro interessicome prestatori d'opera, inseriti nei processi produttivi; di movimenti e diorganismi di massa che abbraccino un ambito più vasto di quello deisindacati ed esprimano complessivamente le forze sociali antagoniste alcapitalismo; di partiti che sappiano elaborare prospettive strategiche e dicondurre battaglie sul terreno delle alternative politiche. Esistono edesisteranno, poi, movimenti non riduci bili alla classe operaia, una gammavasta e differenziata, dai movimenti di liberazione della donna, la cuispecificità e la cui originalità storica devono essere pienamente assimilate,ai movimenti contro la guerra, ai movimenti ecologisti, ai movimentistudenteschi o più genericamente giovanili. Il movimento operaio dovràimpegnarsi a fondo perché tutti questi movimenti siano coinvolti in unadinamica comune di lotta anticapitalista, ma deve rinunciare una volta pertutte a limitare in un qualsiasi modo la loro autonomia e a imporredall' esterno la propria egemonia.

Un secondo richiamo di ordine generale riguarda la vexata quaestiodei rapporti delle organizzazioni operaie e dei movimenti di massa con leistituzioni. Si tratta di un problema che è stato e resta cruciale in paesi aregime democratico parlamentare o presidenziale, specie quando questoquadro non costituisce un semplice interludio (come è stato ed è il caso diun gran numero di paesi sottosviluppati). In proposito, le lezioni dell' e-sperienza storica, almeno per chi non voglia fare la politica dello struzzo,sono assolutamente cristalli ne e vanno tutte nella stessa direzione.

Sarebbe assurdo, irrealistico, non solo negare ogni rapporto con le

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istituzioni, ma anche sottovalutare i vantaggi che si possono trarre da unapresenza nelle istituzioni stesse. Ma sarebbe irresponsabile non rendersiconto delle conseguenze negative di un inserimento indefinitamente pro-lungato, di cui non siano definite le finalità e in assenza di validi contrap-pesi, ideologici, politici e organizzati vi. Che, per quanto riguarda isindacati, l'inserimento istituzionale - siano o no i loro dirigenti formal-mente presenti nei parlamenti - comporti il rischio di una subordinazioneai governi e allo Stato e di una accettazione dei meccanismi socio-econo-mici esistenti, è davanti agli occhi di tutti. Un analogo discorso va fattoanche per altri movimenti di massa, che rischiano di trasformarsi, nellamigliore delle ipotesi, in semplici strumenti di pressione.

Ma il rischio non è affatto meno grave per partiti che intendano essereanticapitalisti e comunisti. Tutta la storia del movimento operaio sta adimostrare che la conseguenza di un indiscriminato inserimento nelleistituzioni ha come conseguenza che l'attività parlamentare (o ammini-strativa locale) diventa preminente ed elemento decisivo dell' elaborazionedella linea di un partito e dei suoi atteggiamenti quotidiani. Quali siano irisultati a medio e a maggior ragione a lungo termine, lo hanno dimostratotutte le esperienze dei partiti socialdemocratici sin dagli inizi del secolo.

I risultati non sono stati qualitativamente diversi nel caso di partiticomunisti inseriti negli stessi meccanismi ed esposti ad analoghi condi-zionamenti. Ci si può chiedere, in particolare, quali siano stati i fattori chepiù hanno influito sulla decisione liquidatori a di Occhetto. I fattori inter-nazionali hanno senza dubbio pesato molto, soprattutto in senso piùimmediato. Ma l'operazione, approvata, non dimentichiamolo, dalla gran-de maggioranza del partito, non sarebbe stata concepibile se il PCI nonavesse progressivamente mutato natura con un inserimento incondiziona-to e assolutamente prioritario in istituzioni che, in ultima analisi, assolvo-no il compito di far funzionare e di difendere la società costituita).

Un'ultima considerazione. Non condividiamo l'idea che un partitocomunista debba essere una sorta di anticipazione di una società futura. Èun'idea errata almeno per due ragioni: perché è idealistico cercar dianticipare in un microcosmo un macrocosmo progettuale, facendo astra-zione dal mondo che ci circonda, e perché si rischia di incoraggiare unaidealizzazione del partito, trasformando lo in un fine in sé, in un feticcio,mentre non può e non deve essere che uno strumento per realizzaredeterminati fini. Tuttavia, è legittimo fissare una serie di indicazioni o, se

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si vuole, di norme, nello sforzo di superare le difficoltà e le contraddizioniche abbiamo evocato. Ecco quello che suggeriamo per parte nostra:

- una distinzione netta tra presenza nelle istituzioni e attività di partitoo di movimento. Più in particolare, si dovrà evitare una identificazione tradirezione del partito e gruppi parlamentari (o diretti vi dei gruppi parla-mentari), con una chiara separazione di funzioni e di responsabilità.

- una rotazione non solo teorica o a scadenze troppo lunghe deirappresentanti nelle istituzioni e la garanzia che coloro che sono impegnatinelle istituzioni, non abbiano, direttamente o indirettamente, retribuzionidi fatto privilegiate rispetto a quelle dei lavoratori che un partito operaiointende rappresentare.

- un ripudio della pratica di personalizzazione del ruolo dei dirigenti,che ha assunto forme parossistiche con i moderni mezzi di comunicazionedi massa. Tali pratiche corrispondono alle esigenze di gestione bonapar-tistica tipiche di regimi in crisi o in decadenza, stimolano la spoliticizza-zione o la passivizzazione, sono in contrasto con l'ispirazionedemocratico-egualitaria che deve essere caratteristica irrinunciabile delmovimento operaio.

- un funzionamento regolare e articolato delle istanze di partito a tuttii livelli in modo da rendere possibile non solo l'espressione di opinioni eidee diverse e anche contrapposte, ma anche e soprattutto la partecipazionecostante all'elaborazione delle decisioni (e non solo alla loro ratifica o alloro rigetto). La realizzazione di un tale fine si scontra con incontestabiliostacoli materiali. Ma si deve tendere a creare le condizioni per superarlie non accettarli come ineluttabili. I moderni mezzi di comunicazione di

massa possono essere validamente usati in questo senso, capovolgendol'uso manipolatorio imposto dai gruppi dominanti.

Per quanto riguarda, infine, le organizzazioni sindacali, è il momentodi porre termine a "tradizioni" negative per cui assumono responsabilitàmassime di direzione, non solo nelle confederazioni, ma anche in sindacatidi categoria, persone che non provengono dalla classe lavoratrice, che nonhanno vissuto o non vivono in fabbrica o in un altro luogo di lavoro comesalariati, produttori di profitto. Non si tratta di denunciare le male fatte,reali o presunte, di questo o quel dirigente, tanto meno di ignorare chemolti dirigenti hanno dato contributi validi indipendentemente dalla loroorigine o dalla loro collocazione sociale. Ma il problema è assicurare unlegame vivo, costante, organico tra organizzati e dirigenti, legame che è

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una condizione necessaria, anche se non automaticamente sufficiente,perché interessi ed aspirazioni di questa o quella categoria, di questo oquel settore, e a maggior ragione dell'insieme dei lavoratori possanotrovare un'espressione non mediatao deformata.Un elementonon secon-dario dell'urgente rifondazione sindacale deve essere l'elaborazione dicriteri e di norme e l'introduzione di una prassi per cui nessuno possadirigere una categoria cui mai ha appartenutoo cui non appartienepiù datempo immemorabile,nessuno possa dirigere una confederazione senzaaver mai appartenuto a una categoria, e per cui esista una effettivarotazione di funzioni e di incarichi e i distacchi dalla produzione nondiventinouno status definitivo e vitalizio.

Nota

I Anche un'organizzazione come Democrazia proletaria, di origine, come sidiceva a suo tempo, extraparlamentare non si è sottratta agli inconvenienti dell'in-serimento nelle istituzioni: basti pensare all'evoluzione che hanno avuto certi suoideputati. Fenomeni analoghi si sono verificati nel caso di organizzazioni di estremasinistra in altri paesi, per esempio del PRT, organizzazione messicana della IVInternazionale.

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Capitolo decimo

IL NUOVO SFONDO: LA MINACCIA ALLA VITA SULPIANETA

Al marxismo e al movimento operaio di ispirazione marxista è stataspesso rivolta la critica di avere una visione troppo unilaterale delladinamicastorica,nel duplice sensodi accettarel'idea di una continuitàdelprogresso umano e di considerare ineluttabile l'avvento di una societàsocialistae comunista.Questacritica è stata ripresa, da un diversoangolovisuale, dal momento in cui si è posto all'ordine del giorno il problemadella distruzione dell'ambiente: al pari degli ideologhidelle classi domi-nanti, Marx e i marxisti avrebbero ignorato questo problema, il checostituirebbeuna riprova dell'obsolescenza delle loro concezioni.

Evoluzionismo positivistico e critica materialista

Non c'è dubbio che, soprattutto all'epoca d'oro della socialdemocraziae prima della catastrofe traumatica della prima guerra mondiale, sonoprevalse tra i teorici e i dirigenti del movimento operaio concezioni eimpostazioni ispirate da un evoluzionismo positivistico e da una fiduciameccanicistica nell'immancabile affermarsi del socialismo. Al di là delle

intenzioni degli interessati, una concezione del genere serpeggia anchenelle varianti più moderne dell' idea di un passaggio graduale al socialismoper approssimazioni successive. È incontestabile, d'altra parte, che il

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movimento operaio e la sua stessa componente marxista hanno tardato aprendere atto della sfida ecologica.

Si impongono, tuttavia, alcune messe a punto. Senza fare concessionialle inclinazioni talmudistiche di chi pensa di trovare nei testi di Marx edEngels risposte valide a tutti i problemi, uno scrupolo filologico ci faricordare che esistono nei due autori indicazioni, sia pure frammentarie,che rivelano un'intuizione dei problemi del rapporto tra specie umana enatura, con un richiamo alle "responsabilità verso la natura e le genera-zioni future", e che, se non fossero state relegate nell'oblio, avrebberoaiutato a porre più tempestivamente interrogativi divenuti ormai dramma-tici. Esistono egualmente indicazioni da cui si può ricavare che Marx nonaveva sposato l'idea di un progresso irreversibile o, per dirla con Leopardi,delle "magnifiche sorti e progressive" I.

Considerazione ancora più importante: il concetto di crisi e di rotturarivoluzionaria - centrale per i marxisti - è di per sé stesso incompoatibilecon una interpretazione positivistica o neopositivistica della storia e conuna concezione lineare del progresso. Tanto è vero che ai marxisti è statatradizionalmente rivolta la critica di avere una visione "catastrofistica".

Questa critica può avere un fondamento nella misura in cui i marxisti,in particolare quelli del nostro secolo, da Lenin e Trockij a Rosa Luxem-burg, hanno messo l'accento sulle contraddizioni esplosive del sistemacapitalista, sul succedersi di guerre e rivoluzioni che ne sarebbe derivatoe sulle conseguenze per la stessa civiltà, se l'azione cosciente e organizzatadelle forze sociali antagoniste al capitalismo non avesse avuto successonella lotta per l'istaurazione del socialismo. Ma è del tutto falsa nellamisura in cui attribuisce ai marxisti l'idea che gli eventi "catastrofici"ipotizzabili avrebbero condotto necessariamente al crollo del capitalismoe all'emergere di una nuova società.

Dopo tutto, la formulazione dell'alternativa "socialismo o barbarie",cioè dell'ipotesi anche di uno sbocco negativo, è di Rosa Luxemburg. Lostesso Lenin, in un momento in cui era convinto che la crisi del dopoguerraavesse creato condizioni propizie per una vittoria della rivoluzione ancheal di fuori dei confini della Russia, si è preoccupato di sottolineare, conl'essenziale semplicità che lo distingueva, che il capitalismo non sarebbescomparso e avrebbe trovato il modo di sopravvivere, se non ci fosse statoun becchino che lo seppellisse. Infine, Trockij - non in un dibattito trastorici, ma in due assemblee di militanti negli anni della rivoluzione - ha

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proclamato la propria fiducia nella capacità della classe operaia di salvareuna civiltà che era "il prodotto secolare di centinaia di generazioni" e diportarla "a livelli di sviluppo molto più elevati", ma ha aggiunto subitodopo:

"Tuttavia, dal punto di vista puramente teorico, non è esclusa lapossibilità che la borghesia, armata del suo apparato statale e di tuttal'esperienza che ha accumulato, possa continuare a combattere la rivolu-zione sino a togliere alla civiltà moderna ogni atomo di vitalità, sino a farprecipitare l'umanità moderna in una condizione di collasso e di decaden-za per un lungo periodo a venire".

E ha precisato la sua idea dicendo:"È accaduto più di una volta nella storia che in una vecchia società

esaurita, per esempio la società schiavistica dell'antica Roma, e primaancora nelle antiche società asiatiche le cui basi schiavistiche non lascia-

vano più spazio per lo sviluppo delle forze produttive, non esistesse unaclasse sufficientemente forte da rovesciare i proprietari di schiavi e daistaurare un nuovo sistema sociale, per esempio un sistema feudale (...)L'umanità non ha sempre proceduto lungo una curva in costante ascesa.No, ci sono stati periodi prolungati di ristagno e ci sono state regressioniverso la barbarie (...) Una società che non è in grado di andare avanti,precipita indietro e se non esiste una classe che possa riportarla in alto,comincia a disgregarsi aprendo la strada alla barbarie"2.

n grido di Walter Benjamin

In un contesto diverso, alla vigilia della seconda guerra mondiale, econ diverse tonalità, questa tematica è riecheggiata nelle parole di WalterBenjamin, un originale marxista tedesco il cui contributo è stato giusta-mente rivalutato negli ultimi anni:

"Se l'eliminazione. della borghesia non si realizza in un momentoapprossimativamente calcolabile dell' evoluzione tecnica e scientifica (in-dicata dall'inflazione e dalla guerra chimica), tutto è perduto".

Una volta compiuti i necessari aggiornamenti di concetti e di termini,messaggi come quelli di Trockij e di Benjamin hanno risonanze di pienaattualità. Se, da un lato, si precisassero certe tendenze a una crisi strutturaledelle stesse classi dominanti e se, dal}'altro, nel movimento operaio

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persistessero e si accentuassero le tendenze negative che hanno portato aun arretramento, da un punto di vista globale, senza precedenti, ipotesicome quelle avanzate da Trockij potrebbero divenire realtà. Nell'epocadell'armamento nucleare e della progressiva distruzione dell'ambiente,potrebbe al tempo stesso divenire realtà l'ipotesi di Walter Benjamin. Epotrebbe apparire profetica la riflessione di un uomo dagli orizzonticulturali radicalmente diversi da quelli di Trockij e di Benjamin comeSigmund Freud:

"Gli uomini di oggi hanno sviluppato a tal punto la padronanza delleforze della natura che, con l'aiuto di queste stesse forze, possono facil-mente distruggersi reciprocamente, sino all'ultimo. Lo sanno bene ed èquesto che spiega in buona parte la loro attuale agitazione, la loro infelicitàe la loro angoscia" (Il disagio della civiltà, 1929).

La differenza epocale rispetto al periodo in cui scrivevano gli autorimenzionati consiste nel fatto che i mezzi "tecnici" di distruzione o auto-distruzione, non una sola volta, ma centinaia di volte, esistono effettiva-mente. Più ancora, a prescindere da11aeventualità di una catastrofe finaleprovocata da un conflitto nucleare, gli squilibri e le devastazioni subitidall'ambiente naturale hanno raggiunto un tale livello che ci si può porrela domanda se non siano ormai irreversibili o non possano diventarlo ascadenza non remota3. Le tre o quattro generazioni presenti attualmentesul pianeta si possono chiedere razionalmente quante generazioni potran-no ancora sopravvivere.

Questi interrogativi appaiono perfettamente legittimi alla luce delleconclusioni cui sono giunti tutti o quasi tutti gli scienziati che hannostudiato sistematicamente questi problemi. Le valutazioni sono ovviamen-te diverse e a volte divergenti. Ma è possibile ormai avere una precisasensazione della portata e dell'imminenza stessa del pericolo. Richiamia-mo un po' alla rinfusa alcune delle informazioni più allarmanti che anchedei profani hanno potuto registrare negli ultimi anni:

- la foresta piovosa primaria delle regioni tropicali ha un tempo dirigenerazione di un mezzo millennio, mentre la sua superfice si contrae alritmo dell'un per cento all'anno;

- lo strato di ozono, che protegge dai raggi ultravioletti, si è formatodurante due miliardi di anni ed oggi, come tutti sanno o dovrebbero sapere,è sempre più seriamente minacciato;

- l'accumulazione dei gas che provocano l'effetto serra, determina

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squilibri e spostamenti termici planetari con conseguenti perturbazioniclimatiche;

- le variazioni di temperatura causate da questi fenomeni potrebberoprovocare, a scadenze non remote, un innalzamento del livello dei maricon conseguente allagamento di intere zone intensamente popolate (unasimile tragedia, secondo alcuni studiosi, potrebbe colpire non solo losventurato Bangladesh, ma anche un paese "progredito" come l'Olanda euna città come Venezia oltre alla Florida);

- i bisogni dell'industrializzazione nel corso di meno di dieci genera-zioni sono stati soddisfatti con il consumo di combustibili fossili prodottiin centinaia di milioni di anni di attività fotosintetica;

- la deforestazione ha assunto dimensioni letteralmente catastrofiche.

Basti pensare che negli Stati Uniti non sussistono ormai che una decina dimilioni di ettari di foresta contro i 170 milioni della foresta primitiva; chenel Canada la foresta è ridotta al terzo di quello che era al momentodell'arrivo degli Europei; che, stando a dati forniti dalla FAO, la distru-zione netta della foresta tropicale progredisce di 15,7 milioni di ettariall'anno, cioè l'equivalente della foresta francese, la maggiore del conti-nente europeo;

- la deforestazione e l'adozione sempre più intensa di pratiche agricolee industriali indiscriminate determinano una crescente distruzione di ri-

sorse con effetti devastanti; le zone desertificate, per esempio in Africa,si sono considerevolmente estese sconvolgendo le condizioni di esistenzadi intere popolazioni. In particolare la distruzione delle zone boschive deibacini fluviali provoca un aumento costante delle inondazioni (per esem-pio, nel continente indiano, la superficie annualmente inondata è passatada 19 milioni di ettari nel 1960 a 23 nel 1970, 49 nel 1980 e 59 nel 1984con un aumento dei danni di quattordici volte);

-l'uso di pesticidi, aumentato di venti volte tra il 1950 e il 1985 e quellodei concimi chimici, aumentato nello stesso periodo di dieci volte, hannocomportato distruzione di suoli, inquinamento delle acque, un colossalesperpero di risorse ecc. A titolo di esempio, a partire dagli anni '60, inpaesi come la Francia e la Gran Bretagna, sono considerevolmente aumen-tati i tassi di nitrato nelle acque. È aumentato egualmente l'inquinamentodelle acque sotterranee;

-il fenomeno delle piogge acide è divenuto sempre più allarmante e siestende ormai a tutto l'emisfero boreale;

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- un anno dopo l'altro, il supersfruttamento dei suoli causa la perditasu scala mondiale dell' equivalente della superficie cerealicola dell' Au-stralia. In Africa, l'erosione dei suoli, se non saranno prese contromisure,farà registrare nel 2000 unii riduzione della produzione agricola del 15%rispetto al 19754.

E non parliamo dei disastri più noti, date le informazioni largamente .

diffuse, come quelli che hanno colpito il lago Baikal e il mare di AraInell'ex-Unione Sovietica e gli scempi provocati nella foresta dell' Amaz-zonia. Non va dimenticato, d'altra parte, che un paese come la Cina haperduto, dal 1949 al 1980, tra un quarto e un quinto della sua superficieboschiva, già insufficientemente estesa, con i conseguenti fenomeni didesertificazione e di erosione dei suoli.

Un fenomeno che si potrebbe produrre su scala incomparabilmentemaggiore di quanto non sia stato sino ad oggi - aggiungendosi a quellidello sfruttamento dei paesi sottosviluppati e all'esplosione demografica- è quello di emigrazioni ecologiche, dovute alle devastazioni ambientalie ai mutamenti climatici. E non tocchiamo un altro tema scottante, giàall'ordine del giorno di convegni internazionali, quello dell'utilizzazionedelle risorse genetiche,. che si vorrebbe affidare ai meccanismi di mercato:con quali conseguenze, con quali nuovi squilibri mondiali, non è difficileimmaginare5.

L'imperativo: invertire la tendenza

Anche per quanto riguarda i problemi ecologici ci troviamo di frontea contraddizioni non facilmente superabili. Per esempio, le conseguenzedevastanti dei mezzi usati per aumentare la produzione agricola sonoevidenti, ma l'aumento di questa produzione è irrinunciabile dato l' accre-scersi della popolazione mondiale. Misure di limitazione adottate e impo-ste nel contesto attuale, con gli attuali rapporti di forza, colpirebberoinevitabilmente i paesi più poveri e solo marginalmente le metropoliimperialiste. Più in generale, del resto, c'è contraddizione tra gli impera-tivi ecologici e l'esigenza di tanta parte del mondo di uscire da unsottosviluppo dai costi sociali e umani spaventosi.

Per riprendere un motivo accennato nell'introduzione, soluzioni orga-niche di questi problemi e di queste contraddizioni non potranno essere

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elaborate e tradotte in pratica se non con un enorme impegno multidisci-plinare collettivo. Le conclusioni che ricaviamo per parte nostra sonofondamentalmente due:

- se si vuoI scongiurare il pericolo della catastrofe incombente, èimperativa una inversione di tendenza e a scadenza non troppo lontana;

- niente potrà essere risolto realmente se non su scala mondiale, cioècon scelte e orientamenti studiati e praticati internazionalmente, in ultimaistanza, con una pianificazione che abbia questa dimensione.

In ultima analisi, si tratta quindi di un problema che va posto in terminisocio-politici. Gli ecologisti più lungimiranti, non legati a interessi costi-tuiti, sono i primi ad affermarlo.

Jean-Paul Deléage ha tratto, per parte sua, la conclusione che "l'eco-nomia ecologica dovrebbe ispirarsi a un principio diverso (da quello invigore nell' economia attuale): accrescere l'efficacia del lavoro preservan-do le risorse".

Non abbiamo la pretesa di aggiungere altro. Scopo del nostro saggioera di indicare le straordinarie difficoltà dell'impresa - dell'impresa dirifondazione comunista -ma al tempo stesso l'esistenza dei presuppostioggettivi per affrontarla con fondate speranze di successo.

Note

1 Segnaliamo a questo proposito un valido contributo di Tiziano Bagarolo,Marxismo ed ecologia, Nuove Edizioni Internazionali, Milano, 1989 e un articolodello stesso autore sulla rivista "Giano", numero lO, maggio 1992. Segnaliamoegualmente interessanti articoli comparsi sul n. 3, ottobre 1990 della rivista"Marx-centouno".

2 V. Problemi della rivoluzione in Europa, Mondadori, 1979. pp. 204-205 e230.

3Lo scienziato russo Vladimir Vernadsky (1863-1945) ha definito con grandeefficacia sintetica il periodo in cui viviamo scrivendo che si tratta di "un periodogeologico straordinario della storia del pianeta, un'era antropogenica in cui l'im-patto umano è equiparabile a quello di una forza geologica che sta cambiando lafaccia della terra" (The Biosphere, Londra, 1986).

4 Tra i più recenti contributi allo studio dei problemi ecologici, cui abbiamoattinto, segnaliamo la magistrale opera di lean-Paul Deléage, Histoire de l'Ecolo-gie, La Découverte, 1991.

5 Una conferenza della FAO del novembre 1983 aveva affermato "il principio

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universalmente accettato secondo cui le risorse fitogenetiche sono patrimoniocomune del 'umanità e dovrebbero di conseguenza essere accessibili senza nessunarestrizione". Eccellente enunciazione di principio, ma è una vecchia storia che nontutti sono in grado di accedere "senza nessuna restrizione" alle risorse teoricamentedisponibili. A questo proposito un dossier interessante è comparso sul numero dimaggio 1992 di "Le Monde diplomatique".

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Appendice 119

Appendice

l) Un po' paradossalmente si potrebbe dire che per rispondere ai quesitiche si pongono sul significato storico della rivoluzione d'Ottobre è ancoratroppo presto. Basti pensare alle risposte che venivano date, per esempio,nel 1920 o nel 1945 e confrontarle con le risposte che prevalgono ora, perrendersi conto, ancora una volta che, nel giudicare avvenimenti storici, èdifficile evitare la tendenza a leggere troppo la storia passata come storiacontemporanea. Una seconda difficoltà, per così dire simmetrica alla prima,consiste nel fatto - anchequi mi si passi l'accenno un po' paradossale- cheuna valutazione esauriente del passato, specie di un passato ancora recentecome la rivoluzione russa, esigerebbe una conoscenza del futuro. Se, ipotesidal nostro punto di vista del tutto plausibile, ci saranno nuove fasi di ascesadel movimento operaio e nuove vittorie di rivoluzioni anticapitaliste, l'Ot-tobre apparirà di nuovo, quali ne siano stati i limiti, come un'anticipazionedel corso successivo della storia. Se invece, ipotesi secondo noi improbabile,il capitalismo, superando le sue contraddizioni, conoscesse un rilancio dilunga durata con conseguenze benefiche su scala mondiale, la rivoluzionedel ' 17 rischierebbe di essere ridimensionata come un episodio del tuttospecifico e congiunturale, i cui sviluppi negativi comporterebbero la piùgenerale conclusione che non esistono alternative al sistema dominante.

Lasciando da parte ipotesi e questioni di metodo, per parte nostracontinuiamo a pensare che la rivoluzione russa ha costituito una svoltanella storia del nostro secolo. Ha dimostrato che i regimi esistenti potevanoessere rovesciati e che si poteva avviare la costruzione di una societànuova, fondata su un nuovo modo di produzione e su meccanismi econo-

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mici qualitativamente diversi da quelli del capitalismo. La crisi sconvol-gente di cui soffrono oggi i paesi dell'ex-URSS non deve far dimenticareche, grazie ai nuovi meccanismi economici e nonostante le distorsioniburocratiche che sin dall'inizio hanno ostacolato il dispiegarsi delle po-tenzialità di questi meccanismi, l'URSS è divenuta, nell' arco di alcunidecenni e nonostante le devastazioni della seconda guerra mondiale, unadelle maggiori potenze economiche, assicurando livelli di vita in nessunmodo paragonabili a quelli esistenti prima della rivoluzione. E un discorsoanalogo può essere fatto per i livelli tecnico-culturali, che sarebbe assurdonegare richiamandosi troppo semplicisticamente alle vicende odierne.

D'altra parte, la rivoluzione d'Ottobre ha infranto la dominazioneplanetaria della borghesia capitalistica, rimettendo in discussione equilibrisecolari. Neppure ora, cioè nel momento del loro trionfo solo in apparenzairreversibile, le vecchie classi dominanti sono sicure di poter ritornare alpre-1917, al contrario, sembrano rendersi conto ogni giorno di più quantosia difficile e problematica l'opera di restaurazione, cioè l'annullamentodei profondi processi storici che avevano avuto luogo in una parte cosìgrande dell'Europa.

C'è appena bisogno di aggiungere che, senza la rivoluzione d'Ottobree i rapporti di forza che ne erano derivati su scala mondiale, non ci sarebbestata la fine degli imperi coloniali e il movimento operaio non avrebbeconosciuto periodi di ascesa, in cui ha potuto strappare, in una serie dipaesi, importanti conquiste parziali. Le trasformazioni che il capitalismostesso ha conosciuto a partire dagli anni '30 e dopo la seconda guerramondiale e che gli hanno consentito un parziale rinnovamento, sono state,in ultima analisi, stimolate dall'esistenza dell'URSS, più concretamente,ripetiamolo, dai rapporti di forza internazionali.

Detto questo, se ci si chiede più in particolare che cosa dell'esperienzarussa meriti di essere recuperato, per parte nostra non abbiamo esitazioni(ci si perdoni la schematica brevità). Un insegnamento fondamentale èquello che viene dalla mobilitazione di masse enormi dei più diversi stratidelle classi oppresse nel quadro di una crisi che aveva sconvolto l'insiemedella società, .dal maturare di un' elevata coscienza politica, senza prece-denti storici, in un breve arco di tempo, dal dinamismo e dalla creativitàespressi irresistibilmente da masse cui le classi dominanti avevano negatoogni forma di autonomia e di iniziativa e che per la prima volta siimponevano come protagoniste.

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Appendice 121

Secondo insegnamento, connesso ovviamente al primo: in un contestocome quello della crisi del 1917 è stato possibile creare organismi demo-cratico-rivoluzionari, storicamente originali, in cui le masse decidevanodirettamente sui fini e sui mezzi della loro lotta, riducendo al minimo imeccanismi alienanti della delega e gettando le basi di istituzioni politichequalitativamente superiori, destinate a gestire una società nata dalla vitto-ria della rivoluzione. Il fatto che, nel caso specifico, questi organismi nonabbiano retto alle vicende della guerra civile non deve indurre a negarnele potenzialità e il grande valore di indicazione per il futuro.

2) Le vicende dell'Unione Sovietica dagli anni '20 in poi sono stateanalizzate sistematicamente prima da Trockij e dall'Opposizione di sini-stra e successivamente dall'organizzazione internazionale che ne ha rac-colto l'eredità, la Quarta Internazionale. Non vanno dimenticati, d'altraparte, tutti gli studiosi che indipendentemente dalle loro scelte politiche,hanno dato in proposito preziosi contributi (è stato il caso, per esempio,di Isaac Deutscher) né i dibattiti che, prima che scendessero le tenebredello stalinismo, si erano svolti nell'URSS e cui avevano partecipatouomini come Preobrajenski e Rakovski e, con tutte le sue ambiguità, econtraddizioni, lo stesso Bucharin. Da queste analisi emergono chiara-mente le cause del distacco tra le masse e lo Stato uscito dalla rivoluzione.

Basti qui ricordare che le vicende dell'immediato dopoguerra e dellaguerra civile avevano largamente intaccato come forza sociale quella classeoperaia che aveva avuto un ruolo decisivo nella rivoluzione e che inparticolare nella battaglia per sconfiggere la controrivoluzione era statasacrificata una percentuale elevata di quadri decisivi. In questo senso, ilpartito che gestiva il potere non era più quello che aveya fatto la rivoluzione.La decimazione aveva colpito egualmente i quadri delle strutture statali conla conseguenza che hanno potuto farsi strada ed emergere gli ultimi venuti,privi della necessaria esperienza e non di rado animati da spirito arrivistico.Non c'è dubbio che gli stessi dirigenti di primo piano non hanno avvertitoa tempo la gravità della situazione e tutti i pericoli di una dinamica involu-tiva. All'origine, si è trattato di un fenomeno politico: l' acquisizione di potericrescenti da parte degli apparati, senza reali possibilità di controllo dal basso,e una progressiva concentrazione di questi poteri. Successivamente, ilfenomeno è divenuto anche sociale nella misura in cui i detentori del poterepolitico si assicuravano progressivamente e in misura crescente condizionidi privilegio, consumando così un distacco sempre più completo da quelle

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masse in nome delle quali, secondo le proclamazioni ideologiche, avrebberodovuto dirigere la società.

Ci sono state, ci sono e ci saranno sicuramente in futuro vivaci discus-sioni circa la periodizzazione di questo processo. Se ci si vuole riferire allacristallizzazione di una casta privilegiata, bisogna parlare della fine deglianni '20 e dell'inizio degli anni '30. Ma il fenomeno di burocratizzazionenel senso più propriamente politico - con l'emergere di primi, sia purrelativi privilegi -risale all'inizio degli anni '20. Non dimentichiamo chela prima battaglia significativa di Trockij, quando già si erano delineatiprocessi involuti vi, è del 1923, data di pubblicazione della raccolta di suoiscritti intitolata Nuovo corso.

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