come può venire realizzato il comunismo
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Come può venir realizzato il comunismo? di David Harvey
Qui di seguito l’introduzione all’edizione del Manifesto del Partito Comunista della Pluto Press del 2008.
Introduzione al Manifesto del Partito Comunista
Il Manifesto del Partito Comunista del 1848 è un documento straordinario, ricco
di intuizioni, di significati e di opportunità politiche. Milioni di persone in tutto
il mondo – contadini, lavoratori, soldati, intellettuali e professionisti di ogni
sorta – vi sono negli anni state toccate ed ispirate. Non solo ha reso il dinamico
mondo politico-economico del capitalismo più facilmente comprensibile, ma ha
spinto milioni di tutti i ceti sociali a partecipare attivamente nella lunga, difficile
e apparentemente interminabile lotta politica per alterare il cammino della
storia, per fare del mondo un posto migliore attraverso il loro sforzo collettivo.
Ma perché ripubblicare oggi il Manifesto? Può la sua retorica creare ancora
l’antica magia che creava un tempo? In quali modi può parlarci oggi questa
voce del passato? Hanno i suoi appelli alla lotta di classe acnora senso?
Mentre possiamo non avere il diritto, come Marx ed Engels scrissero nella loro
Prefazione all’edizione del 1872, di alterare ciò che già da allora era diventato
un documento storico chiave, abbiamo entrambi il diritto e l’obbligo politico di
riflettervi sopra e se necessario reinterpretare i suoi significati, di interrogare le
sue proposte, e soprattutto di agire sugli spunti che vi traiamo. Certamente,
come Marx ed Engels avvertono, “l’applicazione pratica dei principi dipenderà,
come il Manifesto stesso dichiara, ovunque e in ogni momento dalle condizioni
storiche” (e aggiungerei geografiche) “esistenti nel dato momento”. Ci troviamo
certamente, come nel 2008, nel mezzo di uno di quelle periodiche crisi
commerciali “che sottopongono a processo”, come nota il Manifesto, “ogni
volta più minacciosamente l’esistenza dell’intera società borghese”. E le rivolte
del cibo scoppiano dappertutto, in particolare in molte nazioni povere, con
l’innalzamento incontrollato dei prezzi del cibo. Dunque le condizioni sembrano
propizie per una rivalutazione della pertinenza del Manifesto. E’ interessante
come una sua modesta proposta di riforma – la centralizzazione del credito nelle
mani dello stato – sembra essere sulla buona strada per la sua realizzazione,
grazie alle azioni collettive della Riserva Federale statunitense (FED), della
Banca Centrale Europea (BCE), e delle banche centrali delle altre principali
potenze capitaliste, nel salvataggio del sistema finanziario mondiale (i britannici
finirono col nazionalizzare la loro principale banca in difficoltà, la Northern
Rock). Dunque perché non impegnare altre proposte ugualmente modeste ma
del tutto ragionevoli – come l’educazione gratuita (e di qualità) per tutti i
bambini nelle scuole pubbliche, la parità di diritti e doveri per tutti i lavori, e
una pesante e progressiva o graduata imposta sul reddito per sbarazzarci delle
spaventose diseguaglianze sociali ed economiche che oggi ci circondano? E
forse, se seguissimo la proposta di frenare l’eredità della ricchezza personale,
allora potremmo prestare molta più attenzione all’eredità collettiva che
trasmettiamo ai nostri figli in un’esistenza e un ambiente di lavoro decente così
come una natura che mantenga sia la sua fecondità sia il suo fascino.
Dunque consideriamo questo testo, modellato nei tetri giorni del gennaio 1848 a
Bruxelles e concentriamo il suo sguardo più largo sopra la nostra situazione
effettivamente esistente a Londra e Leeds, Los Angeles e New Orleans,
Shanghai e Shenzhen, Buenos Aires e Cordoba, Johannesburg e Durban…
Eccomi in una New York illuminata il 31 gennaio 2008 – quasi 160 anni dal
giorno in cui Marx pose gli ultimi tocchi al Manifesto – seduto per scrivere una
nuova introduzione a questo testo ben rilegato. Lo faccio sapendo che ci sono
molte altre passate e presenti splendide introduzioni in giro. Ma troppe
introduzioni recenti a mio parere vedono il Manifesto solamente come un
documento storico il cui tempo è passato, la cui visione fu difettosa o almeno
profondamente discutibile, da farlo irrilevante rispetto ai nostri tempi più
complicati se non sofisticati. Il meglio che possiamo fare, se non cavillare sulle
ovvie omissioni del testo ed i suoi ugualmente ovvi elementi superati rispetto a
quello che è oggi considerato politicamente corretto, è ammirare la prosa,
annotare i riferimenti, tracciare le influenze incapsulate e progettate, e seppellire
il messaggio politico centrale sotto un lenzuolo di malinconica nostalgia di
sinistra oppure sotto una massa di note accademiche. Il collasso post-1989 dei
comunismi effettivamente esistenti e la conversione dei partiti comunisti che
rimangono al potere, come in Cina e in Begala Occidentale, in agenti di uno
spietato capitalismo sfruttatore, hanno in effetti gettato una cappa pesante sopra
la tradizione politica generata dal Manifesto. Chi ha bisogno di un manifesto
comunista dopo tutta questa storia gravata?
Ma guardatevi intorno, cosa vediamo? Qui a New York i premi di Wall Street
sono appena stati distribuiti – un niente male 33,2 miliardi di dollari (solo poco
meno dell’anno precedente) per i banchieri d’investimento che hanno
pasticciato il sistema finanziario mondiale e accumulato perdite finanziarie
stimate almeno a 200 miliardi di dollari e crescenti di giorno in giorno (alcuni,
come il Fondo Monetario Internazionale, dicono che supererà i mille miliardi di
dollari prima che tutto sarà passato). Quando i banchieri (nomi venerabili come
Merrill Lynch, Citicorp e l’ora defunto Bear Sterns) si confrontarono con le
proprie difficoltà nell’estate del 2007, le banche centrali mondiali (guidate dalla
FED) si affrettarono a distribuire massicci crediti a breve termine e poi tagliato i
tassi d’interesse per salvarle. Nel frattempo all’origine del problema si trova la
crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti nella quale quasi 2 milioni di persone
hanno già perso per pignoramento le loro case (con molti altri in attesa) senza
nessun aiuto imminente (a parte alcuni gesti di supporto tardivi e in gran parte
simbolici da parte del parlamento e alcuni cerotti dalle istituzioni finanziarie e
dai governi locali comprensibilmente interessati). I pignoramenti iniziali furono
pesantemente concentrati tra gli afroamericani a basso reddito e le donne (in
particolare i singoli) nei settori più poveri delle città statunitensi dove lasciano
una scia case sbarrate e vandalizzate in quartieri totalmente devastati. Comincia
ad apparire come se una “Katrina finanziaria” abbia tempestato più città negli
Stati Uniti. La società del “troppo”, della “sovrapproduzione” e della
speculazione eccessiva, è palesemente crollata e regredita, come sempre accade,
a “uno stato di barbarie momentaneo”. Alcuni dirigenti corporativi che ci hanno
innovato in questa confusione hanno perso il lavoro. Ma non hanno dovuto
rimborsare nulla dei molti milioni che hanno guadagnato negli anni felici e
alcuni hanno ricevuto incredibilmente generose strette di mano dorate alle
dimissioni – 161 milioni di dollari per Stan O’Neal di Merrlii Lynch e 40
milioni per Charles Prince di Citicorp (il dirigente della fallita banca britannica
Northern Rock partì con 750 mila sterline). Gli sfrattati ricevono soltanto una
tassa aggiuntiva, perché il perdono del debito è valutato come reddito. E per
aggiungere l’insulto alla ferita di classe, quelle aziende e quegli avvocati
impiegati nel “mulino dei pignoramenti”, come viene oggi chiamato, stanno
raccogliendo i maggiori profitti. Chi ha detto che le differenze di classe (ben
intrecciate, come troppo spesso accade, con l’etnia e il genere) sono irrilevanti
alla socievolezza dei nostri tempi postmoderni?
Questo è ciò che rende una lettura contemporanea del Manifesto così
sorprendente, perché il mondo che il Manifesto descrive non è affatto
scomparso. Non viviamo dopo tutto in un mondo turbo-capitalista in cui
l'avidità, l'egoismo, l'individualismo competitivo e la brama di saccheggiare per
ogni profitto a breve termine indipendentemente di chi o che cosa va a scapito,
ci circonda ad ogni svolta? Il capitalismo, notano Marx ed Engels, "non può
esistere senza rivoluzionare perpetuamente gli strumenti della produzione, e in
tal modo le relazioni di produzione, e con loro le intere relazioni sociali"
(incluse quelle del consumo). Il risultante perpetuo “disturbo ininterrotto delle
condizioni sociali”, accompagnato dalla “costante incertezza e agitazione”,
genera un'incredibile volatilità nelle fortune economiche personali e locali (per
non parlare delle crisi finanziarie endemiche e le oscillazioni vertiginose nei
valori azionari). Con i salari "sempre più fluttuanti" e i mezzi di sostentamento
"sempre più precari", il proliferare delle insicurezze personali (riguardo al
lavoro, prestazione sociale, pensioni) e le ansie collettive (riguardo agli altri che
sembrano minacciarci), la militanza contro il trattamento civilizzato degli
immigrati, dei dissidenti e di tutti coloro che appaiono o si comportano in modo
diverso. Non c’è da stupirsi che il "tutto è solido" sembra perpetuamente
"sciogliersi nell'aria". E non è forse vero che il potere pervasivo e l'influenza del
capitale multinazionale continua a spogliare "del suo alone ogni occupazione"
finora affidabile di dirci la verità - "il fisico, l'avvocato, il prete, il poeta, lo
scienziato" come anche i professori, gli esperti e i guru mediatici senza parlare
di tutti quei politici comprati che eseguono gli ordini degli interessi dei ricchi?
Non è forse triste notare quanto di ciò che chiamiamo cultura è "un mero
addestramento per agire" (o attaccarsi a) "una macchina" (o nei nostri tempi ad
un dispositivo elettronico), e che la famiglia, sostenuta dai sentimentalisti come
la roccia viva della società civilizzata, sia "ridotta a mera relazione monetaria",
anche quando non è impantanata in miriadi di ipocrisie? Non ci sentiamo noi
stessi più che un poco alienati in un mondo in cui "nessun altro nesso tra uomo
e uomo" esiste "tranne il nudo interesse personale, tranne l’insensibile
pagamento in contanti", in cui le persone sono viste meramente come oggetti e
beni nel mercato, e dove la maggior parte di noi lavora per creare la ricchezza di
altri? Cosa possiamo dire di un mondo nel quale la maggior parte del lavoro ha
"perso il suo fascino" e le relazioni di produzione sono diventate meramente
"despotiche", e dove tutti noi, dal bidello al banchiere, sono sempre più
posizionati come mere appendici ad una accumulazione capitalista sempre più
espansiva e costantemente in accelerazione, e che continua ciecamente per la
sua strada senza la minima preoccupazione per le conseguenze sociali ed
ambientali? Non rende forse perplessi che tutto ciò esiste nel mezzo della
maggiore capacità produttiva, meravigliosa potenza di trasporto e
comunicazione, e conoscenze tecniche-scientifiche che potrebbero sicuramente
venir sfruttate per permettere una vita decente ed un futuro più sicuro per tutti?
E non è forse, infine, profondamente preoccupante rendersi contro che la libertà
promessa in continuazione dagli apologeti e politici significhi niente più che la
libertà del mercato e delle sue scelte (dipendenti dalle capacità di pagare)
abbinata con quella "libertà singola, eccessiva - il libero scambio"?
Il comunismo può venir dichiarato morto, ma un capitalismo violento, brutale, e
perpetuamente rivoluzionario prospera ancora. Marx ed Engels nel Manifesto
trovarono un modo brillante per rivelarci quel che il capitalismo era e
fondamentalmente è, e come è apparso. Facendo così trovarono un linguaggio
inspiratorio con il quale non solo resistere alle oppressioni di classe di un
capitalismo inclinato alla distruzione creativa, ma anche illuminare la via per
trasformare il capitalismo, con tutti i suoi risultato notevoli (risultati che Marx
ed Engles riconobbero liberamente al loro tempo e come noi dobbiamo
riconoscere ancora più nel nostro), in qualcosa di radicalmente differente e di
gran lunga più umano. Dato il carattere di classe di questo sistema mostruoso,
hanno anche fatto il passo chiaro, logico e ovvio di insistere che l'unico modo di
impegnarsi in questo progetto trasformativo era di intraprendere una politica di
lotta di classe. Nella misura in cui le circostanze del loro resoconto distopico
sono state migliorate negli anni, e le condizioni che descrivono non riguardano
pienamente, allora è alla grandiosa storia di resistenza popolare e lotta di classe
dal 1848 a cui dobbiamo inginocchiarci.
Immaginiamo, inoltre, gli effetti violenti del riconoscimento con il quale i
lavoratori delle acciaierie licenziati a Pittsburgh, Sheffield ed Essen, o gli un
tempo solidamente impiegati lavoratori tessili nei mulini di Manchester,
Mumbai, Mulhouse e South Carolina, avrebbero letto il seguente passaggio:
Tutte le industrie nazionali consolidate sono state distrutte o vengono distrutte
quotidianamente. Vengono sostituite da nuove industrie, la cui introduzione
diventa una questione di vita o di morte per tutte le nazioni civilizzate, dalle
industrie che non lavorano più le materie prime locali, ma materie prime tratte
dalle le zone più remote; industrie i cui prodotti vengono consumati non solo in
casa ma in ogni parte del globo. Al posto dei vecchi desideri, soddisfatti dalla
produzione del paese, troviamo nuovi desideri, il soddisfacimento dei quali
abbisogna dei prodotti di terre e climi distanti. Al posto del vecchio isolamento
e autosufficienza locale e nazionale, abbiamo rapporti in ogni direzione,
interdipendenza universale delle nazioni...
La borghesia, per mezzo del rapido sviluppo di tutti gli strumenti produttivi,
dell'immensa facilitazione dei mezzi di comunicazione, attira tutte le nazioni,
anche le più barbariche, nella civilizzazione. Il basso costo dei beni sono
l'artiglieria pesante con la quale abbatte tutte le Muraglie Cinesi, con la quale
forza l'ostinato odio dei barbari per gli stranieri a capitolare. Costringe tutte le
nazioni, sotto pena d'estinzione, di adottare il modo di produzione borghese; le
costringe ad introdurre quello che chiama la civilizzazione in mezzo a loro. In
altre parole, di farle diventare loro stesse borghesi. In una parola, crea un mondo
a sua immagine e somiglianza.
Oggigiorno naturalmente sono i beni della Cina che stanno abbattendo i nostri
muri, mentre noi andiamo a fare acquisti nei negozi Wal-Mart (dove il "Made in
China" predomina) per cercare di soddisfare tutti quei nuovi desideri per i
prodotti tratti da terre e climi distanti. La descrizione preveggente del Manifesto
di quel che ora chiamiamo globalizzazione (con i suoi affini di delocalizzazione
e deindustrializzazione e interdipendenza globale) indica una certa continuità
all'interno della geografia storica del capitalismo dal 1848 ad oggi. Nel
frattempo gli stati-nazione, di fronte una crescente centralizzazione del potere
capitalista corporativo e l'espansione delle popolazioni, diventano ancora più
invischiati nelle regole del gioco capitalista attraverso accordi internazionali
come l'Organizzazione Mondiale del Commercio, il NAFTA e l'UE, spalleggiati
da potenti istituzioni internazionali (come il Fondo Monetario Internazionale).
Queste forze tramano tutte ad abbattere le barriere commerciali e
contemporaneamente consolidando una stato di diritto nella quale i diritti della
proprietà privata e il saggio di profitto batte tutte le altre forme di diritti umani
che uno può immaginarsi. La competizione tra stati e regioni industriali
(Baviera, Silicon Valley, il delta del Pearl River, Bangalore) rinforzano la logica
capitalista di sfruttamento e imprime valori capitalisti ed in questo periodo
distintamente neoliberali, sempre più in fondo nelle nostre psiche. Con il
fallimento di tutto ciò, le potenze degli stati imperialisti guida sono schierate a
infliggere violentemente l'agenda corporativa (date un occhio alla costituzione
imposta all'Iraq nelle prime fasi dell'occupazione statunitense) sul mondo. E
affinché pensiamo che questa violenza è nuova o idiosincratica a George W.
Bush ed il suo non-così allegro equipaggio di teorici neoconservatori disonorati,
consideriamo ciò che quel archetipico liberale Presidente degli Stati Uniti
Wilson ebbe da dire nel 1919:
“Siccome il commercio ignora i confini nazionali e il manifatturiere insiste ad
avere il mondo come mercato, la bandiera della sua nazione deve seguirlo, e le
porte delle nazioni che sono chiuse contro di lui devono venir abbattute. Le
concessioni ottenute dai finanzieri devono essere salvaguardate dai ministri
dello stato, anche se la sovranità delle nazioni riluttanti vengono violate nel
processo. Le colonie devono venir ottenute o collocate, per far sì che nessun
utile angolo della terra possa venir trascurato o lasciato inutilizzato.” (1)
Quanto lontano era avanzato il capitalismo lungo la via della globalizzazione e
la costruzione del mercato mondiale al 1848 era naturalmente minuscolo
comparato agli enormi passi avanti fatte da allora. Com'è stato possibile dunque
che Marx ed Engles abbiano potuto produrre un documento tanto profetico?
Essendo fin troppo coscienti delle bufere della crisi capitalista e della
rivoluzione sociale allora raccolta attraverso l'Europa, furono incaricati di
scrivere un manifesto per il movimento pan-europeo e principalmente
clandestino di quelli che si definivano comunisti. Siccome nessuno all'epoca
aveva alcuna idea chiara di ciò che comunismo potesse significare, la porta era
aperta per uno scatto creativo per definire la missione del nascente movimento
comunista. Gli studi critici di Marx dell'economia politica (principalmente
britannica) e gli scritti rivelatori dei socialisti utopici (principalmente francesi
anche se Robert Owen era pure importante) lo avevano allertato sulla natura
delle forze trainanti fondamentali dietro allo sviluppo capitalista, e questo,
sommato alla conoscenza di prima mano dell'industrialismo di Manchester da
parte di Engels (stabilito nel 1844 in The Condition of the Working Classes in
England), permise ad entrambi di intravedere una visione di quel che il mondo
sarebbe apparso se fosse tutto diventato come Manchester, il che sarebbe
certamente accaduto in assenza di resistenza.
Marx (fu lui che, a detta di Engels, ha composto la stesura finale) produsse una
brillante sintesi di intiuzioni, una succinta descrizione, in termini
immediatamente riconoscibili e dei più semplici, di ciò che il capitalismo era e
ancora fondamentalmente è, da dove è venuto, quali le sue potenzialità, e dove
era probabile andasse in assenza di opposizione coerente da parte di quelli che
creavano la ricchezza, le classi lavoratrici. Andate al delta del Pearl River (dove
le fabbriche assumono fino a 40 mila lavoratori), alle maquilladores del
Messico, alle fabbriche tessili nel Bangladesh, ai negozi di cucitura delle
Filippine, ai produttori di scarpe nel Vietnam, alle miniere del Brasile e
dell'Orissa, ed osate di dire che avevano torto!! Due miliardi di proletari sono
stati aggiunti alla forza lavoro salariata globale negli ultimi vent’anni -
l'apertura della Cina, il collasso dell’ex Blocco Comunista e l'incorporazione
delle ex popolazioni contadine indipendenti in India ed Indonesia come anche in
tutta l'America Latina e l'Africa aventi un ruolo cruciale. Un capitalismo
corporativo senza esclusione di colpi è riemerso negli utltimi 30 anni per trarre
vantaggio da questa situazione. In Cina, Bangladesh, Indonesia, Guatemala e
Vietnam, descrizioni delle odierne condizioni catastrofiche del lavoro
potrebbero venir inserite nel capitolo di Marx sulla "Giornata Lavorativa" nel
Capitale senza che nessuno sia in grado di notare la differenza. E la più rabbiosa
forma di sfruttamento posa, com'è così spesso il caso, sulle spalle delle donne e
delle genti di colore. Allo stesso tempo nei paesi capitalisti avanzati, quelli che
un tempo avevano una posizione onorevole da lavoratori sindacalizzati in
potenti fabbriche si trovano a vivere nel mezzo delle macerie dei processi di
deindustrializzazione che hanno distrutto intere comunità e lasciato a città come
Detroit, Baltimore, Sheffield ed Essen, ma come anche una un tempo fiorente
industria tessile a Mumbai, un'eredità di fabbriche vuote e capannoni in attesa di
una sperata conversione in condomini, casinò, o centri commerciali con forse un
museo di storia industriale per alloggiare le memorie, sia brutali che trionfali,
della lotta di classe un tempo intrapresa con quella particolare forma di
capitalismo industriale.
Dunque cosa ce ne facciamo oggi dell'ovvia deduzione che l'unico modo per
resistere queste depredazioni è di intraprendere la lotta di classe e che per far ciò
i lavoratori del mondo debbano unirsi? La "lotta di classe" è, dichiaratemente,
un termine che cela una miriade di variazioni. Pappagallare semplicemente
l'espressione senza fare le analisi necessarie riguardo a ciò che significa nei
diversi spazi e tempi è mancanza di rispetto per la tradizione analitica del
materialismo storico che Marx ed Engles ci hanno lasciato in eredità. Le classi
sono sempre nel processo di formazione e ri-formazione e mentre da un lato
Marx ed Engels pensarono di aver individuato l'emersione di una tendenza
verso una grande polarizzazione tra la borghesia ed il proletariato, hanno anche
riconosciuto forze di frammentazione e lenta dissoluzione delle forme di classe
passate. I marxisti occidentali odierni, naturalmente, sono soliti lamentarsi che
la classe lavoratrice è scomparsa. Ma quel che è semplicemente accaduto è che
le modificazioni tecnologiche, il passaggio verso un'economia dei servizi ed
estesa deindustrializzazione hanno severamente indebolito le istituzioni
tradizionali della classe lavoratrice in quei paesi in cui il marxismo occidentale
risiede, mentre massicci processi di proletarizzazione sono continuati altrove.
Perciò per il nostro tempo diventa necessario prestare attenzione a quei processi
di formazione di classe e ri-formazione che si verificano con forza così
drammatica in Cina, Indonesia, India, Vietnam, l'ex Blocco Sovietico come
anche attraverso l'America Latina, il Medio Oriente e l'Africa. E nemmeno
dovremmo presumere in questi giorni, se mai lo avremmo dovuto, che la
formazione di classe è confinata all'interno degli stati-nazione, siccome le
relazioni transnazionali tra i lavoratori spostantisi all'interno delle flussi
migratori e formanti diaspore sono tanto intricate come quelle all'interno di una
classe capitalista che molti ora considerano essere quasi per definizione
transnazionale. Questi sono i tipi di situazione e processi che dobbiamo
analizzare con la maggior cura se vogliamo accuratamente valutare la situazione
economica e calcolare le possibilità politiche del nostro tempo.
A Marx ed Engles piaceva anche sostenere che le classi lavoratrici potrebbero
(o dovrebbero?) reclamare nessun paese siccome sono stati da lungo tempo
privati dell'accesso e controllo sui mezzi di produzione. Ma pure al loro tempo,
come ammisero verso la fine del Manifesto, le differenze nazionali importavano
chiaramente. Hanno riconosciuto che lo sviluppo geografico sbilanciato sia
della borghesia che della classe lavoratrice stavano creando condizioni differenti
di lotta politica in, ad esempio, Inghilterra, Francia, Polonia, Svizzera e
Germania. E oggi è lo stesso. Nazioni sono contrapposte contro nazioni, regioni
contro regioni, città contro città, anche solo nella lotta competitiva per attrarre
investmenti, e i lavoratori, disperati per avere lavoro, sono recintati in supporto
di alleanze locali per promuovere piani di sviluppo e progetti che offrono dolci
sussidi al capitale multinazionale altamente mobile per farlo arrivare e rimanere
in città. Al grado in cui i capitalisti possono sviare l'attenzione dal proprio
perfido ruolo nello sfruttamento spietato della forza lavoro nelle officine della
produzione, accusando gli immigrati, la competizione estera e le abitudini
"incivili" di altri odiati per tutti i problemi che affrontano i lavoratori locali, e
dunque la prospettata unità delle classi lavoratrici è resa molto più difficile. Le
tattiche del divide et impera di sfruttare non solo le differenze nazionali ma
anche quelle etniche, di genere e religiose all'interno delle classi lavoratrici
pagano un inevitabile dazio e troppo spesso finiscono per fomentare ed
addirittura radicare una politica di esclusione piuttosto che di incorporazione
nella dinamica globale della lotta di classe.
Inoltre, come dimostra l'esempio dei premi di Wall Street e i pignoramenti con
cui ho iniziato, il campo della lotta di classe si estende molto al di là della
fabbrica e negli angoli inferiori della vita quotidiana di tutti. La violenza di
classe (articolata attraverso il razzismo e sessismo) comportata nell'ondata dei
pignoramenti non poteva essere più chiara. Come riconosce il Manifesto, i
lavoratori, avendo auspicabilmente guadagnato uno salario di sussistenza, sono
poi "impostati sulle altre porzioni della borghesia, il proprietario di casa, il
negoziante, l'usuraio e, dovremmo aggiungere, i padroni del credito, per un'altra
serie di sfruttamento. Le attività predatorie di questo tipo hanno giocato,
tuttavia, un ruolo primario nell'emergenza storica del capitalismo. Sono stati i
capitalisti commercianti che hanno saccheggiato la maggior parte del mondo
non solo di argento e minerali preziosi ma anche dei prodotti del lavoro prodotti
sotto tutti i tipi delle altre condizioni sociali in "terre e climi distanti". Sono stati
gli usurai che hanno aiutato a minare il potere feudale e rilasciato così un
enorme esercito di servi nella forza lavoro salariata. Questa "accumulazione
primitiva" non si è fermata, tuttavia, con la crescita del capitalismo industriale. I
predatori dell'imperialismo, colonialismo e neocolonialismo continuano ad oggi
a saccheggiare il grosso della ricchezza del resto del mondo, delle risorse
culturali e naturali per supportare con affluenza sempre più crescente la classe
capitalista, in particolare nei centri del capitalismo globale (anche se nuovi paesi
come il Messico, la Cina, la Russia e l'India hanno le loro quote di miliardari).
Non accontantato del saccheggio nelle regioni inferiori del mondo, i capitalisti
corporativi e i finanzieri, come l'esempio dei pignoramenti dimostra, sono tutti
più che disposti a cannibalizzare la ricchezza dall'interno del loro territorio
(basti guardare a cosa accade quando i lavoratori perdono non solo le loro case
ma anche le loro pensioni faticosamente conquistate e i diritti alla sanità negli
USA ed in Europa). Queste pratiche predatorie in atto che chiamo
"accumulazione per espropriazione" appaiono ovunque e provocano un'enorme
varietà di lotte contro la perdita di beni qui, degrado ambientale e di risorse lì, e
furti diretti, frodi e saccheggio violento da un'altra parte. (2)
Mentre le differenze e la varietà delle lotte sono palpabili, dobbiamo
necessariamente riconoscere, insistono Marx ed Engles, le affinità alla base dei
nostri destini e fortune diversi. E' cruciale diventare politicamente coscienti
riguardo alla natura fondamentale del capitalismo e le possibilità per la
trasformazione latente al suo interno. Questo è il compito politico a cui il
Manifesto si concentra così persuasivamente. E se Marx ed Engels ritornano al
proletariato continuamente come l'agente centrale del cambiamento radicale e
trasformativo è per due ragioni analitiche molto specifiche che rimangono oggi
potenti come lo furono nel 1848. La prima sta nel semplice fatto che il profitto
che i capitalisti cercano perpetuamente in definitiva risiede nella produzione di
un plusprodotto e di un plusvalore (profitto) attraverso lo sfruttamento del
lavoro vivo nell'atto di produzione. Ma in virtù di questa posizione centrale, i
lavoratori hanno anche la forza potenziale di portare il sistema capitalista ad un
blocco e con ciò trasformarlo radicalmente perché è il loro lavoro e il loro
lavoro soltanto che aziona il sistema in avanti.
A dire il vero, ci sono tanti altri tipi di lotta in corso attorno a noi che
distraggono l'attenzione da questo punto centrale della lotta. Ci sono tensioni
persistenti all'interno della classe capitalista rispetto a come l’eccedenza possa
essere distribuita, ad esempio, attraverso i finanzieri, mercanti, industriali,
proprietari di immobili, distributori di servizi, lo stato, e simili. Ogni tanto
importanti riforme devono venir instaurate per frenare gli eccessi di questa o
quella fazione (ad esempio i finanzieri nella congiuntura presente hanno
chiaramente bisogno di venir limitati dalla regolamentazione). E ci sono lotte
simili attraverso fazioni all'interno delle classi lavoratrici, impiegati industriali,
agricoli, dei servizi e statali gli uni contro gli altri, per non parlare delle
differenze nazionaliste ed etniche che contrappongono, ad esempio, i lavoratori
statunitensi contro quelli cinesi alla disperata ricerca per procurare e proteggere
l’occupazione. Conflitti geoeconomici e geopolitici tra diverse regioni
geografiche dell'accumulazione capitalista (tutto dalla competizione interurbana
alle alleanze di classe regionali e raggruppamenti transnazionali come l'Unione
Europea, l'Asia Orientale, il NAFTA ed il Mercosur) anch'esse scoppiano
periodicamente per oscurare le altre dimensioni della lotta. Ma alla fine,
concludono Marx ed Engels, l'unica forma di lotta di classe che può cambiare
radicalmente il sistema è quella guidata da tutti coloro che producono la
ricchezza degli altri in generale e della classe capitalista in particolare, e che è
definito come il proletariato.
Questo poi pone una questione organizzativa difficile: come possono tutti questi
proletari localizzati attorno al mondo e che lavorano sotto le più disparate
circostanze mettersi insieme per cambiare il mondo? Su questo punto il
Manifesto ha qualche idea interessante. La lotta, suggeriscono Marx ed Engels,
inizia con l'individuo alienato che capisce precisamente come, per citare lo
slogan reso famoso dalle femministe odierne, il personale è politico. La
passività di fronte al furto, la dominazione e lo sfruttamento non è un'opzione.
Riuniti nlle fabbriche, nei campi, negli uffici e istituzioni, gli individui si
mettono insieme e sviluppano una comprensione collettiva delle origini comuni
del loro malcontento e frustrazioni. Da ciò iniziano a percepire l'identità di
classe implicita nelle loro varie esperienze, e su questa base comune iniziano ad
articolare argomenti collettivi e richieste. E mentre costruiscono organizzazioni
collettive per agitare per la soddisfazione dei loro desideri, bisogni e richieste
creative, costruiscono raggruppamenti territoriali - nei quartieri, città, regioni
metropolitane distintive - all'interno e dai quali una comunanza politica e
culturale più larga emerge. Questa nuova socialità, quando collegata ad altre
regioni distintive dai sempre più sofisticati mezzi di trasporto e comunicazione
che il capitalismo costruisce per facilitare lo scambio dei beni e la circolazione
del capitale, apre la prospettiva della conquista dello stato-nazione come il
contenitore principale del potere. Ma l'agitazione politica non può fermarsi
nemmeno a quella scala geografica, perché solo quando i lavoratori del mondo
si possono unire attorno una visione comune (anche se ad una che poggia su
differenze enormi) può il capitalismo venir domato e la visione comunista di
un'alternativa viene a fruire. La forma organizzativa della lotta di classe
dev'essere preparata, in breve, a "saltare scale geografiche" e muovere
regolarmente dal locale al globale e viceversa.
La storia dei movimenti comunisti dimostra fin troppo tragicamente cosa accade
quanto il movimento dimentica che questi momenti e piani geografici differenti
della lotta politica sono dialetticamente integrati e mutualmente costitutivi. Se il
modo nel quale il personale è politico fallisce nella costruzione di un'aperta
dinamica formativa di coscienza regionale culturale, allora lo schema
organizzativo proposto nel Manifesto fallisce. Ancora più importante, se le
azioni prese nel nome dello stato-nazione, una volta catturato dalle forze
proletarie, non risolve le alienazioni e frustrazioni degli individui, allora le
forme organizzative locali e regionali accuratamente e amorevolmente costruite
in uno spirito di speranza rivoluzionaria diventano conchiglie burocratiche
incavate, statiche e indifferenti. La necessità sia di rivoluzioni progressiste che
permanenti (del tipo che il capitalismo persegue con tanto successo e vigore
attraverso il suo stesso dinamismo) non può essere trascurata. In mancanza di
questo, il movimento rivoluzionario ricade in stasi (come lo fece nella ex
Unione Sovietica) e diventa un bersaglio troppo facile per la controrivoluzione
capitalista. La dialettica della forma organizzativa outlined nel Manifesto
abbisogna un'attenta elaborazione e applicazione se il movimento rivoluzionario
vuole avere successo.
Ma c'è un'ulteriore lezione da imparare dalla forma di analisi del Manifesto.
Consideriamo, ad esempio, come la borghesia venne al potere. Il capitale
mercantile uscì dai vincoli del potere feudale nelle sue esplorazioni e nello
sfruttamento del mercato mondiale. In effetti questa fu una strategia geografica
che acquisì potere dall'esterno dei bastioni del feudalismo e poi, avendolo
circondato, lo forzò ad arrendersi al potere borghese. Lo stato che protesse gli
interessi feudali fu catturato e trasformato e posto all'uso borghese (non è lo
stato statunitense nella sua odierna costituzione altro che un comitato esecutivo
per la protezione degli interessi corporativi?). La lezione che ogni movimento
rivoluzionario è che la territorializzazione della lotta politica, l'occupazione di
questo o quella regione o stato-nazione come un staging ground per assalti più
ampi al potere politico delle elite capitaliste, è importante. Mentre il socialismo
in un paese (per non parlare di città) può essere impossibile, questo non vuol
dire che la territorializzazione della lotta politica, l'occupazione di questa o
quella città, regione o stato-nazione come un punto di partenza per assalti più
ampi al potere politico delle elite capitaliste sia irrilevante. Ma ci furono molti
altri elementi nella situazione che permise la scalata al potere della borghesia -
l'esistenza di una forza lavoro senza terra, una crescente domanda di mercato,
un influsso di denaro e oro - e fu in questa situazione che quelli armati di un
certo potere economico poterono avanzare e posizionarsi come capitalisti a tutti
gli effetti. Come Marx nota altrove, le trasformazioni sociali radicali come
l'ascesa del capitalismo o la transizione al comunismo, non avviene in spazi
vuoti ma dipende in modo decisivo dalla precedente costruzione delle
condizioni che rendono una tale trasformazione possibile. Mentre Marx ed
Engels non continuano a specificare questo punto, i vantaggi che la Gran
Bretagna possedette in tutti questi aspetti giocò indubbiamente un ruolo cruciale
nello spiegare perché un capitalismo nascente dovunque possa radicarsi con la
maggior facilità in quella particolare parte del mondo dal XVI secolo in avanti.
Inoltre i capitalisti, quando colpiti con le crisi di sovrapproduzione e
sovraccumulazione, come esse inevitabilmente sono, ancora una volta
"diventano geografiche" nell'espandere l’estensione geografica del mercato e le
possibilità d'investimento. La tendenza per cercare ciò che chiamo "un guaio
spaziale" per i problemi della sovrapproduzione ha giocato un ruolo
incredibilmente importante nella perpetuazione dei processi di globalizzazione
che Marx ed Engels hanno descritto così concisamente nel 1848. (3)
L'implicazione è che il comunismo deve emergere dall'interno del nesso delle
possibilità che il capitalismo inevitabilmente crea. Deve essere allertato da
quelle mosse che la borghesia fa per affrontare la crisi che fomenta - come le
correnti mosse di centralizzare il credito negli apparati dello stato per
controllare la crisi finanziaria - e trattare queste mosse come opportunità
politiche di impadronirsi di nuovi poteri e di definire nuove traiettorie di
cambiamento sociale. Inoltre, il comunismo deve radicarsi in quelle regioni
nelle quali le condizioni sono maggiormente favorevoli per il suo sviluppo.
Deve poi perseguire una strategia territoriale e geografica per circondare e
minare i luoghi centrali del potere capitalista. Purtroppo nelle lotte di classe
condotte nel mondo in questi ultimi 200 anni, i capitalisti hanno usato in
continuazione il loro superiore comando sullo spazio in modo da abbattere i
movimenti rivoluzionari in luoghi particolari (Cile, Portogallo e Mozambico
negli anni '70 vengono immediatamente in mente). I lavoratori del mondo
devono non solo unirsi per perseguire le loro richieste rivoluzionarie: devono
anche escogitare strategie politiche e geopolitiche sofisticate per vincere il
diritto a costruire un altro tipo di ordine mondiale.
Ma a cosa esattamente il movimento dei lavoratori dovrebbe posare richiesta?
Guardiamo in modo più ravvicinato quel che fanno i capitalisti. Iniziano la
giornata con una certa quantità di denaro, poi vanno nel mercato e comprano
forza lavoro e i mezzi di produzione, scelgono (comprano) una tecnologia,
mettono tutte queste a lavorare per produrre un nuovo bene e poi vendono quel
bene per il denaro originale più un profitto (un plusvalore). Il giorno dopo si
svegliano e devono decidere che fare con il denaro in eccedenza che hanno
ottenuto il giorno prima. Affrontano un dilemma faustiano: reinvestire per
ricevere ancora più denaro o consumare la loro eccedenza in piaceri. Le leggi
coercitive della competizione li forzano a reinvestire perché se uno non
reinveste allora un altro di sicuro lo farà. Per rimanere un capitalista, una certo
eccedenza deve essere reinvestito per creare ancora più eccedenza. I capitalisti
di successo di solito fanno eccedenze più che sufficienti per reinvestirli in
espansione e soddisfare il loro desiderio di piacere. Ma il risultato del
reinvestimento perpetuo è l'espansione di plusprodotto ad un tasso composto -
dunque di tutte le cruve di crescita logistiche (denaro, capitale, output e
popolazione) allegate alla storia dell'accumulazione capitalista.
Le politiche del capitalismo sono influenzate dal bisogno perpetuo di trovare
terreni profittevoli per la produzione e assorbimento del capitale in eccedenza.
In questo il capitalista affronta un numero di ostacoli alle espansioni continue e
senza inconvenienti. Se c'è una scarsità di lavoro e i salari sono troppo alti allora
o il lavoro esistente deve venir disciplinato (disoccupazione indotta
tecnologicamente oppure un assalto al potere della classe lavoratrice organizzata
- come quello messo in moto dalla Thatcher e da Reagan negli anni '80 - sono
due metodi primari) o forza lavoro fresca dev'essere trovata (attraverso
l'immigrazione, l'esportazione del capitale o la proletarizzazione dei fin qui
elementi indipendenti nella popolazione). Nuovi mezzi di produzione in
generale e nuove risorse naturali in particolare devono venir trovate. Questo
pone pressione crescente sullo sviluppo naturale per produrre le materie prime
ed assorbire gli inevitabili sprechi. Le leggi coercitive della competizione
inoltre forzano a portare continuamente in linea nuove tecnologie e forme
organizzative, siccome i capitalisti con una superiore produttività possono
mettere fuori competizione quelli che utilizzano metodi inferiori. Le rivoluzioni
perpetue nelle tecnologie che il Manifesto descrive sono destabilizznti al punto
in cui possono minacciare la profittabilità. Le innovazioni definiscono anche
nuovi desideri e bisogni, riducono il tempo di rotazione del capitale e la frizione
della distanza. Quest'ultimo effetto estende la gamma geografica sul quale il
capitalista è libero di cercare expanded supplies di lavoro e materie prime. Se
non c'è abbastanza potere d'acquisto nel mercato allora nuovi mercati devono
venir trovati espandendo il commercio estero, promuovendo nuovi prodotti e
stili di vita, creando nuovi strumenti di credito finanziati dal debito statale e
spese personali. Se, infine, il saggio di profitto è troppo basso, allora la
regolazione statale della "competizione rovinosa", monopolizzazione (fusioni e
acquisizioni) e esportazioni di capitale a freschi pascoli forniscono vie d'uscita.
Se ognuna delle suddette barriere alla continua circolazione ed espansione di
capitale diventa impossibile ad eludere, allora l'accumulazione di capitale è
bloccata e i capitalisti affrontano una crisi: il capitale non può venir reinvestito
profittevolmente, l'accumulazione ristagna o cessa e il capitale viene svalutato
(perso) ed in alcuni casi persino fisicamente distrutto. Non essere riusciti a
superare le barriere lavorative produce una crisi di compressione dei profitti
perché gli salari più alti tagliano i profitti; non riuscire a trovare vie per superare
gli ostacoli alle risorse naturali e allo smaltimento dei rifiuti produce crisi
ambientali (a volte definite come "la seconda contraddizione del capitalismo");
cambiamenti tecnologici rapidi producono una caduta del saggio di profitto; la
mancanza di (solitamente alimentate dal credito) richieste effettive genera una
crisi di sottoconsumo. Non c'è una singola teoria della formazione delle crisi
all'interno del capitalismo, solo una serie di barriere che vomitano possibilità
multiple per diversi tipi di crisi. Ad un particolare momento storico le
condizioni possono portare al dominio di un tipo di crisi, ma ad altre occasioni
varie forme possono combinarsi e su altre ancora le tendenze per le crisi
diventano spostate spazialmente (in crisi geopolitiche e geoeconomiche) o
temporalmente (come le crisi finanziarie), L'effetto, tuttavia, è sempre una
svalutazione di capitale. La svalutazione può prendere numerose forme. I beni
in eccesso possono venir svalutate o distrutte, le capacità produttive e i capitali
possono venir svalutati e lasciati inutilizzati, o il denaro stesso può venir
svalutato attraverso l'inflazione. E in una crisi maggiore, naturalmente, il lavoro
viene svalutato attraverso massiccia disoccupazione.
Una volta che le barriere vengono aggirate o dissolte, l'accumulazione
tipicamente rivive al suo saggio composto. Siamo arrivati ad accettare senza
rifllettere che un'economia sana cresce e che la crescita è dunque normale e
buona, indipendentemente dalle le conseguenze sociali, politiche o ambientali.
Ma fa sobbalzare le menti immaginare come sarà il mondo dopo altri cent'anni
di crescita composta, diciamo a 2-3% all'anno. Semplicemente devono venir
trovati altri modi per organizzare l'ordine sociale se l'umanità vuole
sopravvivere.
Cosa deve richiedere dunque un movimento rivoluzionario? La risposta è in
principio abbastanza semplice: maggior controllo collettivo e democratico su
ciò, da chi e come viene prodotto, e un forte controllo sopra l'utilizzo di
qualsiasi eccedenza viene prodotta. Avere un plusprodotto non è una cosa
cattiva: infatti, in molte situazioni un’eccedenza è cruciale per adeguare la
sopravvivenza ed è solo con un’adeguata eccedenza che molte buone cose nella
vita possono venir migliorate (le città, ad esempio, non potrebbero esistere
senza la mobilizzazione e la concentrazione di un plusprodotto). Lungo la storia
del capitalismo, una parte del plusvalore creato è stato tassato dallo stato e in
fasi socialdemocratiche questa proporzione incrementò significativamente
mettendo una grande fetta dell’eccedenza sotto controllo statale. Almeno una
parte di esso andò per fini (come la sanità universale, l'abitazione sociale e
l'educazione) du cui hanno benificiato popolazioni fino ad allora oppresse,
marginalizzate ed escluse. L'intero progetto neoliberale lungo gli ultimi 30 anni
è stato orientato verso l’arretramento di quei benefici ed istituire il controllo
privato sopra l'utilizzo dell’eccedenza. I dati per i paesi OCSE mostrano,
tuttavia, che la parte del prodotto lordo preso dallo stato è stato grosso modo
costante a partire dagli anni '70. Il principale risultato dell'assalto neoliberale è
stato allora di prevenire l'espansione della quota statale nel modo in cui lo fece
negli anni '50 e '60 nei principali paesi capitalisti (addirittura gli Stati Uniti).
Una risposta aggiuntiva da parte delle classi capitaliste è stato creare nuovi
sistemi di dominio che integrino gli interessi statali e corporativi e, attraverso
l'applicazione del potere economico, assicurano che il controllo sopra il
l’esborso dell’eccedenza attraverso l'apparato statale favorisca il capitale
corporativo (come Halliburton e le compagnie farmaceutiche) e le classi
abbienti. Incrementando la quota dell’eccedenza sotto controllo statale
funzionerà solo se l'apparato statale stesso viene riportato sotto controllo
democratico collettivo.
Come viene distribuita ed usata l’eccedenza è solo una delle tante pressanti
questioni politiche del nostro tempo. Liviamo in un pianeta di fiorenti
baraccopoli, siti di brulicanti possibilità umane ed attività innovative nel mezzo
di totale violenza, criminalità e disperazione, accanto ad un crescente ondata di
consumerismo incontrollato ed in alcuni casi criminalmente sregolato che
apparentemente non conosce frontiere. Le sorprendenti diseguaglianze che oggi
esistono hanno chiaramente bisogno di venir corrette. Ma le frammentazioni
incontrate fanno sempre più difficile immaginare politiche collettive di speranza
per non parlare di una lotta di classe ben organizzata. Nel mondo rapidamente
urbanizzante in particolare, la città si sta dividendo in diverse parti separate, con
l'apparente formazione di molti "microstati". I quartieri ricchi provvisti di ogni
servizio, come scuole esclusive, campi da golf e da tennis, e polizia privata
pattugliante l'area attorno, s’intrecciano con gli insediamenti illegali dove
l'acqua è disponibile solo alle fontane pubbliche, dove non esiste alcun sistema
sanitario, l'elettricità è piratata da una minoranza privilegiata, le strade
diventano ruscelli di fango ogni volta che piove, e dove la condivisione della
casa è la norma. Ogni frammento sembra vivere e funzionare autonomamente,
attaccandosi fermamente a quel che è stato capace di afferrare nella lotta
quotidiana per la sopravvivenza. (4)
Ma per quanto le politiche di redistribuzione della ricchezza possano essere
importanti, nel giudizio di Marx ed Engels sono troppo limitanti per un progetto
politico. Ciò che distingue il socialismo ridistributivo dal comunismo è che i
comunisti si concentrano sull'organizzazione e sulle politiche di produzione in
generale per mezzo di una ciritca del modo di produzione capitalista del
plusvalore e del plusprodotto in particolare. Al tempo di Marx ed Engels, la
semplice conoscenza di quella che era la vita nelle fabbriche, campi ed officine
del mondo, come anche negli spazi abitativi di una classe lavoratrice
inadeguamente remunerata, fu abbastanza per provocare il l’indignazione della
fabbrica borghese e degli ispettori della salute pubblica come del pubblico
generale una volta che queste condizioni furono visibili a tutti. E questa è la
condizione fondamentale che i comunisti cercano di cambiare. Quelli che
controllarono e usarono i mezzi di produzione per il loro esclusivo beneficio
furono palesemente colpevoli e fu dunque missione del movimento comunista
di sradicare quel privilegio di classe ed organizzare la produzione attraverso
l'associazione dei lavoratori sostenuta dal controllo democratico dell'apparato
statale (questo è fin dove si spinge il Manifesto). Oggi sappiamo che un tale
piano alternativo generale non fu e non è così facile da escogitare ed
implementare. Ma le condizioni lavorative e di vita nella maggior parte del
mondo si trovano ora in uno stato così periglioso che proporre che l'imperativo
comunista sia di rivoluzionare l'organizzazione della produzione e del consumo
su linee non capitaliste è oggi più cruciale che nel 1848. Ma a ciò c'è oggi
un'urgenza aggiuntiva. I saggi composti della crescita implicano che il requisito
capitalista di produrre plusvalore all'infinito attraverso la produzione di un
plusprodotto, stanno diventando quotidianamente più minacciosi per gli
ecosistemi planetari e per l'approvvigionamento dei requisiti di base per energia,
acqua ed aria pulite. I saggi composti della crescita capitalista non possono
durare in eterno e qualcosa di nuovo - una stabile economia di stato, ad
esempio, totalmente incompatibile con il capitalismo - dev'essere escogitato e
questo richiederà, sia se ci reputiamo o meno comunisti, affrontando la
questione fondamentale di come organizzare sia la produzione che il consumo
su linee più razionali, eque e sane. I segnali d'allarme dei problemi della
costruzione borghese del paradiso sono tutti attorno a noi. Pure una lettura
casuale di questi suggerisce che Marx ed Engels avevano ragione a sottolineare
allora come dovremmo farlo ancora più noi oggi, che è tempo che il capitalismo
se ne vada, per fare posto ad un modo di produzione superiore.
E' imperante quindi riaccendere le passioni politiche che soffuse il Manifesto
del Partito Comunista. I comunisti, affermano Marx ed Engels, non hanno
partito politico. Essi semplicemente costituiscono se stessi in ogni tempo e in
ogni luogo come quelli che comprendono i limiti, i fallimenti e le tendenze
distruttive dell'ordine capitalista come anche delle innuverevoli maschere
ideologiche e false legittimazioni che i capitalisti e i loro apologeti producono
per perpetuare il loro particolare potere di classe. I comunisti sono tutti quelli
che lavorano incessantemente per produrre un futuro diverso da quello che il
capitalismo lascia presagire. Mentre il comunismo istituzionale può essere
morto, ci sono milioni di comunisti tra noi, volenterosi di agire sopra le loro
comprensioni, pronti per perseguire creativamente gli imperativi politici che
definisce il Manifesto e soprattutto pronti ad aprire i propri cuori e le proprie
menti a questo messaggio ispirativo che echeggia fino a noi dai dolenti giorni
del 1848. Noi comunisti siamo l’insistente presenza spettrale, evocata dalla
borghesia fuori dal mondo inferiore, gli stregoni che possono tessere la nostra
stessa magia distintiva, il nostro senso di destino di classe, nella trama e ordito
della nostra geografia storica. "Cambiare il mondo", disse Marx; "Cambiare la
Vita", disse Rimbaud; "per noi", disse André Breton, "questi due progetti sono
lo stesso". La lotta continua.
Note (1) Citato in N. Chomsky, On Power and Ideology, Boston, South End Press, 1990, p. (2) D. Harvey, A Brief History of Neoliberalism, Oxford, Oxford University Press, 2005. (3) D. Harvey, Spaces of Global Capitalism: Towards a Theory of Uneven Geographical Development, London, Verso, 2006. (4) M. Balbo citato in National Research Council, Cities Transformed: Demographic Change and Its Implications in the Developing World, Washington, DC, The National Academies Press, 2003, p. 379; M. Davis, Planet of Slums, London, Verso, 2006.