Il Comunismo Storico Di Costanzo Preve

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1 COSTANZO PREVE II comunismo storico novecentesco (1917-1991) Un bilancio storico e teorico

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Preve, Comunismo, Storia, 1917

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COSTANZO PREVE II comunismo storico novecentesco

(1917-1991) Un bilancio storico e teorico

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Capitolo I .................................................................................................................................................. 7

II comunismo storico novecentesco (1917-1991) alla luce del pensiero originale di Karl Marx .......... 7 L'applicazione diretta delle categorie di Marx al comunismo storico novecentesco ............................. 9 L'applicazione indiretta delle categorie di Marx al comunismo storico novecentesco ........................ 14

Capitolo II ............................................................................................................................................... 18

La questione della natura sociale del comunismo novecentesco (1917-1991) ................................... 18 La rappresentazione apologetica dei regimi del comunismo storico novecentesco ............................ 18 La critica del comunismo storico novecentesco da parte dei comunisti dei consigli .......................... 21 La critica del comunismo storico novecentesco da parte di Trotzky e del trotzkismo ...................... 22 La critica del comunismo storico novecentesco in nome dell'analogia con il modo di produzione asiatico.............................................................................................................................................................. 25 La critica al comunismo storico novecentesco sulla base della teoria del capitalismo di stato e di partito.............................................................................................................................................................. 26 II comunismo storico novecentesco e il modo di produzione capitalistico ......................................... 27

Capitolo III ............................................................................................................................................. 30

La natura del crollo implosivo del comunismo storico nove-centesco (1989-1991) .......................... 30 La volontà di credere ........................................................................................................................... 31 L'illusione Gorbaciov ........................................................................................................................... 34 La logica immanente della perestrojka : 1985-1991 ............................................................................ 35 La forma implosiva della fine del comunismo storico novecentesco .................................................. 39

Capitolo IV ............................................................................................................................................. 41

Un bilancio storico del comunismo storico novecentesco (1917-1991) ............................................ 41 La rivoluzione russa del 1917 .............................................................................................................. 42 La questione dell'imperialismo nel Novecento .................................................................................... 43 La questione del fascismo e del nazismo nel Novecento ..................................................................... 44 La costruzione dello stato sociale nei paesi capitalistici ...................................................................... 46 Alcune brevi note sul Pci dal 1945 al 1991 ......................................................................................... 47 La natura del bilancio storico positivo del comunismo storico novecentesco .................................... 49

Capitolo V ............................................................................................................................................... 52

Un bilancio teorico del comunismo storico novecentesco (1917-1991) ............................................. 52 Il paradosso insuperabile dei nostro presente ...................................................................................... 53 II capitalismo delle attuali oligarchie finanziarie transnazionah ......................................................... 54 Il tramonto della sequenza Capitalismo-Classe-Partito-Comunismo .................................................. 58 Oltre la tradizione del marxismo.......................................................................................................... 61 Una conclusione senza conclusioni ..................................................................................................... 62

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Introduzione

Oggetto di questo breve saggio in cinque capitoli, di contenuto storico-filosofìco, è il bilancio del

comunismo storico novecentesco, inteso come fenomeno storico ormai conchiuso, cioè già terminato. Per questo si

ripeterà tante volte la scrittura della parentesi (1917-1991), così come, a proposito di Giacomo Leopardi, si scrive

(1798-1837), e a proposito della guerra dei trent'anni si scrive (1618-1648). E assolutamente ovvio che un

fenomeno storico conchiuso continua a produrre per decenni e per secoli conseguenze storiche attuali e future, e

non mi sogno neppure di negare una simile owietà. Chi conosce la teoria della longue durée sa perfettamente che

fra trecento anni in Russia (e non solo) si avranno ancora importanti conseguenze storiche del periodo

"comunista" novecentesco. Tutto ciò non toglie nulla al fatto, tuttavia, che un fenomeno storico abbia una sua

specifica compiutezza, e questo a mio avviso è il caso del comunismo storico novecentesco (1917-1991). La scelta

di queste due date non è ovviamente casuale, in quanto il 1917 è la data della rivoluzione d'ottobre in Russia, e il

1991 è la data dello scioglimento politico formale dell'Unione Sovietica.

Si potrebbe obbiettare, ovviamente, che la scelta di queste due date è discutibile, in quanto identifica troppo

la storia del comunismo storico novecentesco come fenomeno mondiale con la storia specifica della Russia

sovietica, che effettivamente dura solo 74 anni, dal 1917 al 1991. In fondo, anche dopo il 1991, dura ancora

Cuba, la Cina, e soprattutto durano ancora i partiti comunisti attivi sia nei paesi capitalistici del "centro" che nei

paesi capitalistici della "periferia". Si tratta di un'obiezione sensata e pertinente, che mi sento egualmente di

respingere. In primo luogo, la Cuba di Fidel Castro (di cui sono un amico e un ammiratore pressoché "senza

condizioni", a causa del blocco criminale cui è fatta oggetto) è a mio avviso soprattutto un paese anti-imperialista

impegnato in un delicata transizione economica guidata verso forme sociali sempre più capitalistiche

(dollarizzazione, industria turistica, ecc), e questo è del resto ben compreso dai cubani stessi, che infatti hanno

sostituito alla vecchia legittimazione ideologica marxista-leninista, di tipo sovietico, una nuova

legittimazione patriottica e latino-americana legata al nome di José Marti. In secondo luogo, mi rifiuto

personalmente di considerare ancora la storia della Cina continentale (la repubblica socialista nata nel

1949) come la storia di un paese inserito in un processo mondiale di costruzione consapevole di una

società alternativa al capitalismo e dunque post-capitalistica. Mi sembra che siamo di fronte a una

grande accumulazione primitiva non tanto di "capitale" (inteso come cosa, o tecnologia) quanto di

rapporti capitalistici di produzione, distribuzione e consumo. È, ovviamente, un capitalismo molto par-

ticolare, inserito in uno stato mercantilistico e dispotico, che ha la sua origine storica non in un modo

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feudale di produzione (come avvenne nella maggior parte dei paesi europei e in Giappone), quanto in un

modo di produzione asiatico.

In terzo luogo, a mio avviso, le vicende dei partiti comunisti posteriori al 1991 (dalla Russia

all'Italia, dalla Francia all'India) mi sembrano vicende del tutto post-comuniste, in quanto (e questo a

mio avviso è il punto teoricamente essenziale) la connotazione sensata di "comunista" non può essere

data per autoproclamazione soggettiva, e neppure perché si funziona in un certo sistema politico come

sindacato politico di rappresentanza dei gruppi sociali più poveri e svantaggiati, ma può essere data

esclusivamente in base a una prospettiva storica, legittimata da una convincente teoria di riferimento.

Chi conosce la storia del marxismo novecentesco sa bene che si tratta della categoria teorica

fondamentale usata da Lukács per giudicare, alla luce del pensiero di Marx, le pretese di essere veramente

"comuniste" avanzate da forze politiche che scelgono di chiamarsi e di essere chiamate "comuniste".

Qualunque osservatore onesto, non accecato dalla malafede o dalla partigianeria politica, dovrà

ammettere che le attuali forze "comuniste" non hanno alcuna prospettiva storica originale, ma oscillano

fra la riproposizione (esplicita o implicita) dei vecchi modelli politico-economici del defunto comunismo

storico novecentesco (1917-1991) e la collocazione all'estrema sinistra in un modello neo-keynesiano di

capitalismo "sociale". Tutto ciò, ovviamente, non fa una prospettiva storica, ed è un segno di igiene

mentale l'ammetterlo apertamente.

L'indicazione del ciclo 1917-1991 come vicenda conchiusa del comunismo storico novecentesco

non intende dunque limitare la vicenda del comunismo internazionale alla sola storia sovietica, ma

vuole indicare l'inizio e la fine di un tentativo di fuoriuscita politica dal capitalismo attraverso la

costruzione di una società e di un'economia alternative al capitalismo stesso. Naturalmente, il termine

"comunismo storico novecentesco" connota esclusivamente l'insieme di partiti e di stati che si sono

pragmaticamente definiti "comunisti" e così hanno visibilmente agito sulla scena mondiale conseguendo

vittorie e sconfitte storielle documentabili, lasciando completamente da parte il problema (che in

questo saggio è discusso nei primi due capitoli, che sono però a mio avviso i meno importanti nell'eco-

nomia complessiva dell'esposizione del saggio stesso) del se e in che misura questo comunismo storico

novecentesco veramente "accaduto" sia stato o meno corrispondente alle intenzioni filosofiche originali

di Marx e degli altri classici del marxismo. Il problema è di grande importanza teorica, ovviamente, e per

questo vi abbiamo consapevolmente dedicato i primi due capitoli. Dirò di più: senza chiarezza

concettuale su questo punto ci si smarrisce facilmente anche sui problemi pratico-storiografici di

valutazione caso per caso di eventi della storia del Novecento. In ogni caso il primo capitolo (dedicato

alla teoria del comunismo presente nel pensiero originale di Marx) e il secondo (dedicato alla questione

della cosiddetta "natura sociale" dei paesi del comunismo storico novecentesco, sempre alla luce del pen-

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siero di Marx) devono essere considerati come semplicemente introduttivi. Per questo ho cercato di non

dilungarmi troppo, e di "stringere" l'essenziale, anche con il rischio della semplificazione eccessiva.

Il terzo capitolo è a mio avviso più importante, e mi azzardo a dire anche più originale. In esso

infatti non mi limito a "constatare" la consumazione del comunismo storico novecentesco nel triennio

1989-1991 (che è in realtà meno di un biennio, se si va dal "crollo" del muro di Berlino allo

scioglimento del Pcus alla fine dell'agosto 1991), ma mi permetto anche di suggerire un'interpretazione

sulla forma storica specifica di questa consumazione, la forma dell'implosione che "libera"

simultaneamente per la restaurazione capitalistica due poli opposti, uno spazio di riciclaggio "in alto" per

le burocrazie e le nomenklature comuniste, e uno spazio di atomizzazione, neutralizzazione politica e

dispersione per i sudditi "in basso". A mio avviso la specifica forma dell'implosione è sempre stata

troppo poco segnalata storiograficamente come decisiva, a danno di una adeguata comprensione della

reale natura politica, culturale e sociale delle burocrazie comuniste dei partiti e degli stati. Questo mio

terzo capitolo, sia pure in estrema concisione, cerca di porre rimedio a questo "buco" storiografico.

Tuttavia, è soltanto negli ultimi due capitoli, il quarto e il quinto, che la tesi di fondo di questo

breve saggio esce allo scoperto. Essa può essere compendiata in poche righe (come avviene del resto per

tutte le tesi teori-che originali, giuste o sbagliate che siano). Si tratta della distinzione di principio fra

bilancio storico, che deve essere fatto collocando un insieme di fenomeni e di eventi nel loro contesto

globale, e bilancio teorico, che invece non si pone per nulla questo obbiettivo e anzi lo ignora

volutamente, ma che interroga un insieme di fenomeni e di eventi sulla base della sola categoria del

modo di produzione, della sua genesi, della sua riproduzione e di una sua eventuale "transizione" a un

altro modo di produzione sociale. Cerchiamo di spiegarci un po' meglio. Da un lato, è chiaro che il ter-

mine "bilancio teorico" allude sempre a un oggetto di "teoria della storia", e dunque con la storia ha pur

sempre molto a che fare. Dall'altro non bisogna però confondere la "storia" come insieme di fatti e di

eventi con la "teoria della storia" la quale, se ci si intende riferire alla teoria marxiana della successione

storica dei modi di produzione, è una teoria strutturale e non "storica", almeno nel senso storicista del

termine. Sono invece gli "storicisti" che fanno sistematicamente confusione fra i due livelli, e che

rendono in questo modo impossibile il chiarimento e la distinzione di principio fra i due livelli stessi. Il

quarto e il quinto capitolo sono consacrati all'accurata distinzione tra i due livelli, il livello storico-

empirico e il livello storico-teorico. Ovviamente, non cerco neppure di convincere lo "storicista", per il

semplice fatto che so bene come lo storicista sia del tutto inconvincibile, in quanto la sua identità

teorica risiede appunto nella sistematica confusione fra i due livelli. L'oggetto del mio saggio, però, non

sta affatto in una sorta di perorazione retorica rivolta allo "storicista". Lo "storicismo" non può essere

"svuotato", cosi come il mare non può essere svuotato con un secchiello. Occorre imparare a nuotarci

sopra per non annegarvi, ma la sua acqua non può essere bevuta. L'oggetto del mio saggio, invece, sta

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proprio nel permettere di pensare simultaneamente come logicamente non contraddirtene due sequenze

di eventi che si presentano invece apparentemente come con-traddittorie alla luce dell'intelletto astratto,

cioè del modo di pensare consolidato e tradizionale.

Si tratta, in breve, di questo semplice fatto. Da un lato, è possibile fare un bilancio storico del

comunismo storico novecentesco in termini tutto sommato non solo giustificativi, ma addirittura

parzialmente positivi. E possibile farlo, ovviamente, se si prende in esame non solo l'aspetto interno,

endogeno, del comunismo storico novecentesco (con il suo barbarico totalitarismo, su cui Hannah Arendt

ha a mio avviso più ragione di molti pensatori "giustificazionisti", come Bloch e Lukács), ma il suo aspetto

esterno, esogeno, che lo colloca in rapporto con il colonialismo capitalistico, l'imperialismo americano,

il fascismo e il nazismo, il razzismo e il classismo, il sionismo e il neocolonialismo. Alla luce di questa

ottica l'intera storia del Novecento appare non come la stona dei "crimini" del comunismo, ma come la

stona di una collocazione epocale tutto sommato positiva, per un insieme di ragioni che verranno

brevemente ricordate nel capitolo quarto.

Dall'altro, se si interroga la vicenda complessiva del comunismo storico novecentesco alla luce di un

modello teorico-strutturale di teoria della storia (che era poi il modello originalmente proposto da Marx,

anche se per lo "storicista" si tratta di una verità impossibile da cogliere) le cose vanno diversamente. Ne

risulta infatti la storia di un fallimento integrale e catastrofico, di un fallimento del proprio progetto di

innescare una transizione intermodale (da un modo di produzione a un altro) che non può essere in alcun

modo nascosto, edulcorato, esorcizzato, attribuito a errori, tradimenti e minacce esterne di vario tipo.

Tutto ciò verrà più ampiamente argomentato nel quinto capitolo, che è anche l'ultimo.

Per non appesantire troppo queste breve saggio, non ho ritenuto di aggiungere un sesto capitolo,

che avrebbe dovuto tirare le conseguenze teoriche e fìlosofiche dell'analisi svolta negli ultimi due

capitoli. Ma il lettore potrà facilmente tirarne molte conseguenze da solo. Ed esse stanno in ciò, che ogni

rilancio del vecchio marxismo, strutturato sulla sequenza dei quattro termini Capitalismo-Classe-Partito-

Comunismo, è inutile, fuorviante e dannoso. Chi propone questo rilancio, indipendentemente dalle sue mo-

tivazioni psicologiche soggettive di "appartenenza" a una comunità politica e/o intellettuale, lo fa generalmente

proprio perché confonde storicisticamente il bilancio storico con il bilancio teorico. E da lui allora mi guardi

Iddio, perché dai pensatori capitalistici normali possiamo guardarci tranquillamente da soli.

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Capitolo I

II comunismo storico novecentesco (1917-1991) alla luce del pensiero originale di Karl Marx

E’ possibile giudicare il comunismo storico novecentesco alla luce delle categorie originali del pensiero di

Karl Marx? A questa domanda cercherò di rispondere in modo chiaro, senza nascondermi dietro distinzioni

sofistiche: sì, è possibile, ma è possibile farlo soltanto in modo indiretto, dal momento che ogni tentativo di farlo

in modo diretto si scontra con una sostanziale inapplicabilità delle categorie originali di un pensiero elaborato fra

il 1839 e il 1883 a un insieme di eventi successivi al 1917.

Che significa che l'applicazione delle categorie originali marxiane al comunismo storico novecentesco può

soltanto essere indiretta, e non può invece essere diretta? Lo vedremo tra poco, in due successivi paragrafi di

questo primo capitolo. Prima, però, occorre preliminarmente chiarire alcuni concetti generalmente ben noti

anche al lettore principiante, ma che è utile egualmente richiamare all'attenzione.

In primo luogo, è ben noto che la rivoluzione russa del 1917, da Granisci genialmente connotata come

"rivoluzione contro il Capitale" (nel senso di rivoluzione imprevista e imprevedibile alla lettura del Capitale di

Marx fatta dalla seconda internazionale e principalmente da Kautsky) avvenne all'interno di una congiuntura

storica particolarissima, vera e propria "finestra di opportunità", la crisi politico-sociale globale della Russia

zarista e semifeudale all'interno delle inaudite sollecitazioni della prima guerra mondiale imperialistica. Mentre

Marx prevedeva la trascendenza rivoluzionaria dal capitalismo al comunismo nei punti alti dello sviluppo

capitalistico, in forza della socializzazione crescente delle forze produttive evocate dalla grande industria

moderna, si ha nel 1917 una rivoluzione anticapitalistica in quello che è l'anello debole della catena mondiale

imperialistica. Questo, bisogna dirlo chiaramente, non è assolutamente lo scenario storico previsto e evocato da

Marx. Nei termini della filosofia della scienza di Kuhn, il paradigma scientifico marxiano originario può essere

"salvato" soltanto con una sorta di aggiunta ad hoc (per usare appunto il termine usato da Kuhn), per cui

gli si "aggiunge" il nuovo scenario mondiale impcrialistico, emerso dopo la morte di Marx e

generalizzatosi soprattutto nei primi quindici anni del Novecento. Ma questa aggiunta ad hoc non è più

il paradigma scientifico marxiano originario, è il pensiero di Lenin, o se si vuole il marxismo-leninismo.

A voler essere precisi, peraltro, non è neppure il marxismo-leninismo, dal momento che questo termine

non fu ovviamente mai proposto da Lenin (che si presentava e probabilmente anche si autopercepiva

come un semplice marxista "ortodosso"), ma fu coniato da Stalin fra il 1924 e il 1926. In ogni caso è bene

non stancarsi mai di ribadire che la rivoluzione del 1917 non è in alcun modo inseribile, se non con

un'operazione di aggiustamento epistemologia), nel paradigma marxiano originario, basato

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sull'incontro fra potenze mentali della produzione (da Marx connotate con termine inglese come

generai intellect) e lavoro collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale.

In secondo luogo, è noto che Marx connota il comunismo come "movimento reale che abolisce lo

stato di cose presenti", e nello stesso tempo rifiutò sempre recisamente di predeterminarne

programmaticamente gli esiti futuri, in nome del fatto che "non si potevano scrivere ricette per le oste-

rie dell'avvenire". Queste due espressioni sono notissime, e le richiamo qui soltanto per sottolineare

ancora una volta il fatto che il punto di partenza metodologico del pensiero di Marx non è mai in

nessun momento il comunismo, comunque definito, ma è sempre e soltanto il modo di produzione

capitalistico, o meglio il rapporto sociale di capitale. Marx si convinse molto presto, a metà degli anni

quaranta dell'Ottocento, che la produzione capitalistica fosse "incinta" del comunismo, e che questo

parto dovesse essere conosciuto non per essere reso possibile (dal momento che esso non era per Marx

solo possibile, ma era necessario, cioè inevitabile), ma per poterne alleviare le doglie. Per tutto il resto

della sua vita Marx lavorò per concretizzare scientificamente la sua intuizione giovanile, ed è dunque a mio

avviso meglio utilizzare l'espressione "concretizzazione progressiva" dell'espressione (proposta da

Althusser sulla scorta dell'epistemologia di Bachelard) di "rottura epistemologica", con l'ideologia

giovanile dell'alienazione. Il concetto di alienazione è infatti a mio avviso un concetto filosofico al

100% (sulla base della definizione di Deleuze dello specifico della filosofia come creazione di concetti),

mentre la nozione di modo di produzione capitalistico non è già più un concetto filosofico, ma è già un

concetto di tipo "scientifico" (ovviamente, all'interno di un canone epistemologico costruttivistico, e

non empiristico). Se questo è vero, come penso, non è corretto parlare (come fa Althusser) di "rottura

epistemologica" fra due concetti incommensurabili l'un l'altro, come sono i concetti filosofici e scientifici,

ma il termine avrebbe senso, ove si ritenesse di doverlo usare, soltanto fra due sequenze concettuali

omogenee, cioè fra due paradigmi scientifici successivi (come sono ad esempio quello tolemaico e quello

copernicano in astronomia, o quello newtoniano e quello einsteniano in fisica). La concretizzazione

scientifica compiuta da Marx non parte dunque dal concetto filosofico di alienazione, che non

scompare ma continua sotto altra forma a fare da fondamento etico implicito al giudizio assiologico

negativo dato da Marx al legame sociale capitalistico come forma di vita globale, ma si sviluppa

approfondendo sempre più la nozione di produzione capitalistica. All'interno di questa strategia teorica

il "comunismo" non è in alcun modo un concetto "scientifico" autonomo, ma è soltanto un derivato

teleologia) del movimento interno della produzione capitalistica, comprendendovi in essa ovviamente

anche la lotta di classe operaia contro la classe borghese. E questo, a mio avviso, l'unico significato

plausibile che si può dare al termine " movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti". È invece

ridicolo, e scientificamente inaccettabile, che questo termine venga usato nel senso di un vago

eraclitismo, di un generico "panta rei" (tutto scorre), per cui tutto ciò che si muove è appunto

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"movimento", e tutto ciò che si lamenta e protesta è in fondo materiale culturale e sociale da utilizzare

per il comunismo. È evidente che Marx non legittima una simile interpretazione "movimentistica". Se il

comunismo non è un concetto scientifico autonomo (mentre a mio avviso è invece un concetto

filosofico autonomo, ed è in questo senso una comunità sociale di libere individualità), ma è soltanto un

derivato teleologico del movimento interno della produzione capitalistica, ne risulta appunto che "non si

possono scrivere ricette per le osterie dell'avvenire", dal momento che è impossibile prevedere in modo

deterministico i movimenti interni della produzione capitalistica stessa. Qui appare con solare

evidenza che per Marx è basilare una concezione dialettica, e non deterministica, dello sviluppo sociale.

Il movimento dialettico è a un tempo e contemporaneamente scientifico e imprevedibile: scientifico

perché è possibile costruirne sistematicamente le determinazioni e le connessioni (nel senso ovviamente

hegeliano e non positivistico di scienza); imprevedibile perché in esso è costitutivo l'agire umano

concreto di uomini e donne non ancora nati, i cui comportamenti specifici non possono essere "previsti"

prolungando deterministicamente 1 comportamenti attuali. In questo senso, dunque, e solo in questo

senso, è possibile comprendere (e per quanto mi concerne anche entusiasticamente approvare) il rifiuto

di Marx di scrivere ricette per le osterie dell'avvenire.

Ci siamo volutamente abbandonati a un intermezzo fìlosofico (ma come il Menico dei Promessi

Sposi che gioca a buttare le pietre sull'acqua ognuno si lascia tentare da ciò che sa fare meglio), e ora

torniamo al nostro problema specifico. Allora, è possibile o no giudicare il comunismo storico

novecentesco alla luce delle categorie originali del pensiero di Marx? Come si è detto, non è possibile

farlo in modo diretto, ma soltanto in modo indiretto: vediamo come.

L'applicazione diretta delle categorie di Marx al comunismo storico novecentesco

L’applicazione diretta delle categorie teoriche di Marx al giudizio sul comunismo storico

novecentesco è impossibile per il fatto che la nota distinzione marxiana (presente nella Critica del

programma di Gotha del 1875) fra fase inferiore e fase superiore del comunismo, che ha il valore del

lavoro come criterio della prima e i bisogni umani sviluppati come criterio della seconda, ha senso

soltanto se inserita nella concezione marxiana di rivoluzione, che non è la leniniana rottura dell'anello

debole della catena mondiale imperialistica, ma è appunto la marxiana trascrescenza del capitalismo

altamente sviluppato in comunismo.

Si tratta di un punto molto importante da capire. I concetti teorici di Marx non sono articoli da

supermercato, che possono essere venduti separatamente a pezzi, ma sono congegni di un unico ed

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inseparabile apparato teorico altamente coerente. Parolette come "lavoro" e "bisogni" non sono infatti

pezzi di ricambio smontabili a piacere, ma sono concetti che assumono un senso esclusivamente in base

al loro contesto. E il loro contesto non può certo essere ricostruito nella leniniana e staliniana

"costruzione di un'economia socialista", dal momento che non esiste in Marx questo spazio teorico da

riempire. Con questo, ovviamente, non intendiamo affatto sostenere l'assurda banalità secondo cui la

costruzione del comunismo storico novecentesco non avrebbe neppure dovuto essere tentata dal

momento che in Marx non esisteva questa ricetta. Diamo anzi completamente per scontato, contro ogni

pedanteria alla Kautsky, che il diritto di un popolo alla rivoluzione è un diritto assoluto (specie nelle

condizioni del 1917). Sostengo semplicemente che il famoso criterio "socialista" del lavoro, unito con il

noto criterio "comunista" dei bisogni, formano una diade che ha senso soltanto nel contesto della teoria

marxiana, mentre al di fuori di questo contesto diventano sofismi vaghi ed evanescenti. Per comprendere

questo è bene discutere separatamente prima del criterio "socialista" della retribuzione secondo il

lavoro, e poi del criterio "comunista" della appropriazione secondo i bisogni.

Incominciamo dal criterio del lavoro come misura giusta e razionale della retribuzione nella prima

fase del comunismo (inesattamente definita come socialismo), sulla base della commisurazione del

contributo individuale e collettivo alla produzione sociale. E noto che Marx ha aderito alla teoria del

valore-lavoro, elaborata dall'economia politica inglese classica, e par-ticolamente da Adam Smith e da

David Ricardo. Secondo questa teoria, il criterio quantitativo per lo scambio delle merci, che si

materializza nel prezzo di esse, risiede nel tempo di lavoro sociale medio necessario per la loro produzione.

Vale la pena di ricordare che sulla base di questa teoria, anche facendo l'ipotesi che Marx non fosse mai

esistito e pertanto il marxismo non si fosse mai sviluppato, è possibile egualmente fondare in modo

coerente un perfetto socialismo egualitario della distribuzione (socialisti ricardiani, ecc). E altresì noto che

Marx, recependo la teoria inglese del valore lavoro, la sottopose ad almeno due modificazioni qualitative

strutturali. In primo luogo, distinguendo fra lavoro e forza-lavoro venduta dal salariato nello scambio con il

capitalista, Marx giunge simultaneamente ai due concetti di valore della forza-lavoro (cioè dei beni

salano con cui essa storicamente si riproduce) e di plusvalore (cioè di eccedenza creata dal differenziale

di valore fra valore d'uso e valore di scambio della forza-lavoro stessa), plusvalore che sta a sua volta alla

base di tutti i redditi di capitale. In secondo luogo, distinguendo fra forma del valore e sostanza del

valore Marx permette di capire non solo l'elemento di "permanenza" del modo di produzione

capitalistico attraverso i suoi movimenti trasformativi epocali (la forma del valore resta infatti anche in

presenza di cambiamenti giganteschi nella composizione sostanziale del tempo di lavoro sociale medio

necessario per produrre beni e servizi), ma anche il suo elemento di "alienazione", cioè di artificialità

disumanizzante correggibile con una rivoluzione comunista (ed in questo senso è corretto sostenere che

i concetti di valore e di alienazione in ultima istanza coincidono, o almeno si sovrappongono). In

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proposito, contro ogni errata inter-pretazione "naturalistica" di Marx, secondo la quale in tutti i modi

di produzione (compresi quelli precapitalistici) la legge del valore-lavoro è stata lo scheletro comune di

ogni tipo di produzione sociale (dalle caverne al calcolatore), è bene ricordare che per Marx la

produzione di valore è specifica del solo modo di produzione capitalistico. È anche bene ricordare che

chi limita il contributo di Marx alla sok distinzione fra lavoro e forza-lavoro (ignorando la seconda

distinzione fra forma e sostanza del valore) non giunge alla vera critica dell'economia politica, ma alla

sola economia politica critica, già in un certo senso raggiunta con la sola "correzione" del sistema di

Ricardo (e oggi Sraffa, ecc). Bisogna altresì ricordare che chi accetta la distinzione fra forma e sostanza del

valore, ma ne da poi un'interpretazione non dialettica ed anzi antidialettica, giunge poi alla conclusione

che con la progressiva "estinzione" di molti elementi sostanziali della teoria del valore stessa (diminuzione

drastica del lavoro umano diretto rispetto alle macchine, ecc.) si entra già di fatto in un'epoca in cui il

"comunismo" è a portata di mano, come se la forma del valore non continuasse a condizionare anche

le vicende alterne (che sono "ricorsive" e non teleologico-finalistiche) della sostanza del valore stessa

(posizione di Antonio Negri, ecc).

Il lettore dovrà scusarmi se mi sono un poco dilungato su alcuni astnisi concetti della nozione di

valore-lavoro in Marx, ma senza questa premessa si rischia di non capire neppure il nesso che lega le

originali concezioni marxiane con il comunismo storico novecentesco. Vi sono infatti almeno due punti

che modificano radicalmente il pensiero di Marx, e che sono invece caratterizzanti del marxismo

novecentesco. In primo luogo, la centralità ideologica data al lavoro manuale, ed in particolare al lavoro

operaio di fabbrica, una centralità che è a tutti gli effetti un prodotto politico-ideologico della

costruzione dei partiti socialdemocratici del periodo della Seconda Internazionale (1889-1914), laddove

in Marx il lavoro è sempre il lavoro cooperativo associato, dal direttore ali ultimo manovale, ed è per di

più un lavoro collettivo alleato con la scienza e la cultura, cioè con le potenze mentali della produzione.

Vale la pena peraltro di ricordare che il termine tedesco di Arbeiter, il termine che Marx usa

continuamente, significa sia operaio sia lavoratore in generale, e cioè anche ingegnere, tecnico, chirurgo,

insegnante, ecc. Coloro che vogliono dunque fondare una forma di classismo operaistico, e lo battezzano

impropriamente "marxismo", sappiano di essere del tutto fuori strada, e facciano dunque quello che

vogliono, ma lascino perdere Marx che non c'entra proprio niente. Il comunismo storico novecentesco è

stato, nell'immensa maggioranza delle sue espressioni ideologiche (sia ortodosse che eretiche) una forma

di classismo operaistico, e occorre dunque ribadire che è impossibile stabilire un rapporto di legitti-

mazione con l'originaria concezione di Marx sul lavoro come criterio retributivo.

In secondo luogo, il comunismo storico novecentesco ha sempre stabilito che un criterio fondante

del "socialismo" risiedeva nella piena occupazione di tutta la popolazione lavorativa, con abolizione

pertanto di ogni forma di disoccupazione e di "esercito industriale di riserva". Si è trattato di un criterio

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politico nobilissimo, opportuno e che io personalmente approvo tuttora senza riserve, ove però si osservi

che questo criterio politico non c'entra proprio nulla con la teoria del valore-lavoro di Marx, che parla di

tempo sociale medio per la produzione (anche e soprattutto "socialista") di un certo bene, nel senso che il

tempo di lavoro sociale medio deve essere calcolato sulla media della tecnologia presente in un certo

momento storico, e che se si mettono per ragioni politiche di piena occupazione cento lavoratori dove ne

basterebbero mediamente cinquanta si ha comunque un abbandono totale di qualsivoglia criterio

economico di produzione sociale. Il criterio marxiano della retribuzione secondo il lavoro si situa dunque

in un contesto teorico del tutto diverso sia dall'ideologia del classismo operaistico sia dall'obbiettivo

politico della piena occupazione.

Passiamo ora al criterio dei bisogni come norma non tanto di retribuzione quanto di

appropriazione individuale e sociale del cosiddetto comunismo sviluppato. In proposito, vi è tutta una

scuola di pensiero che insiste sulla totale insostenibilità utopica di questa nozione marxiana di comuni-

smo, che come è noto connota il comunismo come luogo sociale dell'estinzione integrale sia del

mercato che dello stato. L'estinzione del mercato e soprattutto dello stato appare a molti marxisti

contemporanei (come ad esempio l'italiano Domenico Losurdo) come l'inopportuna forzatura utopica

di Marx, come un'idea romantica che fa a pugni con ogni realtà credibile, e che per di più, svalutando

l'elemento formale della politica statuale, avalla indirettamente ogni dispotismo illegale di partito. Si

tratta di un insieme di obiezioni assolutamente sensate, il cui presupposto teorico, anch'esso

sensatissimo, sta nella tesi della superiorità filosofico-politica di Hegel rispetto a Marx, rovesciando così il

luogo comune secondo cui il giovane Marx avrebbe già brillantemente "superato" una volta per tutte

Hegel e la sua filosofia politica. In proposito mi limiterò a due punti teorici essenziali, di cui il secondo

è ancora più importante del primo.

In primo luogo, ammetto subito apertamente che a mio avviso il modello politico di Hegel è

teoricamente superiore a quello di Marx, e non viceversa. In Marx non c'è infatti uno spazio "positivo"

per la teoria politica, ma soltanto uno spazio "negativo" di critica radicale di ogni forma politica, uno

spazio negativo che è geneticamente il presupposto indispensabile per la sua grande scoperta

concettuale (la critica dell'economia politica), ma che però pur sempre ha effetti disastrosi di

nichilismo politico possibile (evidenti in molti marxisti successivi, fino al parossismo di Stalin). In He-

gel, una volta superato il ridicolo pregiudizio che lo connota scorrettamente come pensatore totalitario,

antiliberale ed apologeta del peggiore prus-sianesimo conservatore, si ha invece una teoria politica

equilibrata e sensata proprio perché nasce da una critica dialettica simultanea alle filosofie politiche

opposte di Locke e di Rousseau. Da un lato, Hegel respinge l'individualismo atomistico del modello

contrattualistico di Locke, in cui vede correttamente come l'apologià della civil society ed il suo primato

sullo stato non è che l'altra faccia del mercato capitalistico e delle sue potenzialità disgrega trìci contro

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ogni forma razionale di convivenza umana. Dall'altro, Hegel respinge, a mio avviso correttamente,

anche la "furia del dileguare" del modello di volontà generale di Rousseau, in cui effettivamente fra l'in-

dividuo e la volontà generale non ci sta niente di mezzo, ed in cui lo spazio vuoto fra i due estremi

dell'individuo e della volontà generale è riempito da concezioni soggettivistiche ed arbitrane di virtù

politica. Per dirla in breve, la critica simultanea di Hegel a Locke ed a Rousseau è superiore, non inferiore,

alle genericità marxiane sulla critica radicale di ogni possibile mediazione politica, che sono storicamente

state occasione di esercitazioni retoriche e di alate stupidaggini da parte di cinque successive generazioni

di marxologi e giovani-marxiani chiacchieroni e soprattutto irresponsabili. Su questo versante la critica

antiutopistica, che si rifiuta di considerare la razionalità della teoria comunista dei bisogni in Marx senza

un correlato momento di mediazione statuale (di una statualità ovviamente democratica, basata

sull'autogoverno politico e sulla autogestione economica), ha dunque fondate ragioni, e mi spingo a

dire a questo punto che ha completamente ragione.

Vi è però un secondo ordine di problemi in cui la critica antiutopistica non coglie nel segno, ed è

anzi fuorviante. Alla luce del senso comune, appare evidente che la concezione marxiana del

comunismo appare letteralmente inapplicabile e ineseguibile, perché anche in una condizione di

estremo sviluppo delle forze produttive vi sarà comunque penuria e scarsità di alcuni beni e servizi, ed il

popolo comunista non potrà comunque "servirsi" senza corsie preferenziali e liste d'attesa (e le corsie

preferenziali e le liste d'attesa implicano una certa forma di statualità, comunque battezzata). Forse che

nel comunismo quando qualcuno "sentirà il bisogno" di fare un viaggio aereo non ci sarà la necessità di

"mediare" questo bisogno con il numero necessariamente limitato di aerei e di aereoporti? È chiaro che

sarà così, e questo deve essere ammesso anche dal più entusiasta "credente" nel comunismo come regno

del soddisfacimento dei bisogni ricchi ed onnila-terali. La "limitazione", però, può essere una

limitazione esterna (che richiede allora una statualità, più o meno repressiva) o una limitazione interna

(che richiede invece una particolare educazione al limite). La limitazione interna dei bisogni coincide

però con la saggezza filosofica, in particolare riferita ai due modelli teorici di Epicuro e di Spinoza.

Sia in Epicu-ro che in Spinoza, infatti, i bisogni umani alla realizzazione e alla felicità vengono

simultaneamente legittimati (contro ogni tipo di ascetismo imposto o autoimposto) e limitati. È

evidente che Marx ha in mente sia Epicuro che Spinoza quando allude al rapporto fra esaudimento

comunista dei bisogni e assenza di una coercizione statuale legata a una penuria mediata dal mercato e

dal valore di scambio. Ma il modello di Epicuro implica l'amicizia, o meglio una società di amici,

mentre il modello di Spinoza implica il rifiuto di ogni stato ideologico (gli argomenti di Spinoza contro

l'uso politico della Bibbia sono applicabili pari pari all'uso politico del marxismo nel comunismo storico

novecentesco). Senza società di amici e senza rifiuto dello stato ideologico non ci può essere nessuna

autolimitazione dei bisogni, e dunque non vi sono i presupposti per il perseguimento del modello

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marxiano di comunismo. Ma il comunismo storico novecentesco non è stato né una società di amici

(anzi, è stato una società di inimicizia generale fra i veri "compagni" ed i "nemici del popolo") né una

società basata sul rifiuto dello stato ideologico (che anzi ha spinto fino ai vertici del parossismo). In

questo quadro, nessuna possibilità vi può essere di applicazione del modello marnano dei bisogni

ricchi.

Riassumiamo qui dunque per comodità del lettore le tre ragioni per cui l'applicazione diretta

delle categorie teoriche del pensiero di Marx al comunismo storico novecentesco è esclusa. In primo

luogo, il principio del lavoro è applicato da Marx all'intero lavoro collettivo associato, senza alcun

classismo operaistico, laddove il principio ideologico di legittimazione del comunismo storico

novecentesco è proprio il classismo operaistico (e si vedano i simboli, le iconografie, ecc). In secondo

luogo, il principio politico della piena occupazione (che pure considero del tutto legittimo) non è

compatibile con una teoria del valore-lavoro basata sulla produzione sociale come frutto di un tempo di

lavoro sociale medio (nella medietà storica delle tecnologie). In terzo luogo, e questo è il punto più

importante di tutti, il principio dello sviluppo ricco ed onnilaterale dei bisogni, che Marx considera

compatibile con l'assenza dello stato e del mercato, è invece incompa-

tibile con lo stato ideologico e con una situazione politica di conflitto amico/nemico. Più in

generale, senza il riferimento a Epicuro, a Spinoza e a Hegel, che sono tutti e tre (sia ben chiaro!) filosofi

più grandi di Marx, ogni fondazione teorica del comunismo risulta impossibile o almeno incoerente.

L'applicazione indiretta delle categorie di Marx al comunismo storico novecentesco

Nel paragrafo precedente abbiamo visto, sia pure in forma estremamente concisa, concentrata e

resa quasi insopportabilmente telegrafica, che la via dell'applicazione diretta delle categorie di Marx al

comunismo storico novecentesco è una via sbarrata. E però possibile seguire anche un'altra via, di tipo

indiretto, e che lo stesso Engels in un certo senso anticipò in molte sue considerazioni politiche e

filosofiche. In breve, si tratta del modello che, sulla base dell'analogia con i due periodi della

sottomissione formale e della sottomissione reale del lavoro al capitale, distingue fra riappropriazione

formale e riappropriazione reale dei lavoratori associati sulle condizioni della produzione. E così non

solo possibile, ma anche plausibile, identificare il cosiddetto "socialismo" (e il comunismo storico

novecentesco è stato a tutti gli effetti un "socialismo") con la riappropriazione formale, e il comunismo

con la riappropriazione reale dei lavoratori sulle condizioni della produzione. Proviamo qui a seguire

brevemente questa via, in fondo alla quale sta esattamente il problema teorico che ci interessa, e che ci

accompagnerà dal secondo al quinto capitolo di questo breve saggio. Come mai, se l'epoca della

riappropriazione formale è stata inaugurata nel 1917, una riappropriazione reale si è rivelata impossibile

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nonostante sia stata tentata su scala mondiale e abbia avuto più di mezzo secolo per essere

sperimentata in tutti i modi e sotto tutti i climi? E questo in particolare l'oggetto del secondo e

particolarmente del quinto capitolo, mentre il terzo e il quarto sono dedicati ad altri problemi. Ma ora

cerchiamo pacatamente di ripercorrere l'argomentazione proposta, definita "indiretta".

Come è noto, la transizione europea dal modo di produzione feudale al modo di produzione

capitalistico non avvenne tutta in un colpo. Per un periodo storico relativamente lungo si svilupparono, ancora

all'interno del modo di produzione feudale, due tipi di precoce sviluppo capitalistico, un capitalismo mercantile

e un capitalismo manifatturiero. In modo molto acuto e intelligente Marx fa notare che il secondo è molto più

"rivoluzionario del primo, perché mentre il primo (il capitalismo mercantile) non sviluppa particolarmente le

forze produttive ed è quindi in fondo compatibile con la riproduzione dei rapporti feudali di produzione, il

secondo (il capitalismo manifatturiero) modifica in profondità i processi produttivi e la tecnologia, e diventa

infine incompatibile con un sistema sociale basato sulla rendita fondiaria signorile come forma fondamentale

di reddito di sfruttamento sociale. Lo sviluppo del sistema manifatturiero, questo anello di congiunzione

essenziale fra la bottega artigiana e la grande industria moderna meccanizzata, vede allora il passaggio dallo stadio

della sottomissione formale del lavoro salariato al capitale (in cui i processi produttivi sono ancora quelli artigiani

precedenti e soltanto l'involucro esterno di scambio dei prodotti è già capitalistico) allo stadio della sottomissione

reale (in cui il processo produttivo non è più di tipo artigianale, ma è già modellato dal macchinismo

capitalistico). L'analisi marxiana sull'estorsione del plusvalore (sia assoluto che relativo) è già tutta interna allo stadio

di sottomissione reale del lavoro salariato al capitale.

Ora, è noto che Marx, non volendo o potendo "scrivere ricette sulle osterie dell'avvenire", non può

concettualizzare in alcun modo in forma "positiva" un processo non ancora storicamente avvenuto, quale è

quello (da Marx non soltanto evocato, auspicato ma previsto come "scientifico", e addirittura come un processo

di "storia naturale") della transizione dal modo di produzione capitalistico al comunismo. Non potendolo

concettualizzare in forma positiva, Marx deve necessariamente ricorrere all'analogia con i processi capitalistici,

prima formali e poi reali. A questo punto, Marx ricorre alla categoria della riappropriazione, una categoria

economico-pro-duttiva che trova però origine, fìlosoficamente, nella categoria di superamento dell'alienazione

(ennesima prova, questa, del fatto che la categoria fì-losofica dell'alienazione non sparisce dopo il 1845, ma

continua in altra forma a esercitare effetti teorici sul pensiero del Marx maturo). Si tratta infatti della

riappropriazione, o se si vuole comunque della "appropriazione", del dominio sui processi produttivi da parte dei

lavoratori associati contro la classe dei capitalisti. Se utilizziamo questo schema basato sul binomio

espropriazione/riappropriazione (e a farci preferire il termine riappropriazione al semplice termine di

appropriazione ci sta proprio il fatto che lo stesso Marx utilizza prima il termine di espropriazione) si avrà allora

una logica differenziazione in due fasi del più generale processo di riappropriazione sociale.

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L'intero comunismo storico novecentesco, dal 1917 al 1991, potrebbe cosi essere marxianamente

interpretato come il primo stadio, ancora puramente formale, della riappropriazione dei lavoratori collettivi

associati sulle condizioni della produzione. In questo primo stadio, formale e non ancora reale, dominano due

caratteristiche tutto sommato "estrinseche" al processo produttivo, la proprietà giuridica statale dei mezzi di

produzione (espropriati preventivamente con atto d'imperio alla classe dei proprietari privati e capitalisti) e la

pianificazione statale della produzione, distribuzione e consumo (con un ruolo del mercato che va dal quasi nullo

al secondario, ma che non è comunque mai dominante). Ora, è assolutamente chiaro e non seriamente negabile che

sia la proprietà giuridica che la pianificazione economica (entrambe "statali" assai più che "sociali") sono ancora

a tutti gli effetti forme estrinseche e dunque formali, di riappropriazione. Questo non sarebbe però un

argomento contro il comunismo storico novecentesco, il quale può ammettere tranquillamente questo fatto

(magari rifacendosi all'analogia con il precedente passato capitalistico), sostenendo che si tratta di uno stadio

ancora acerbo ma necessario, cui seguirà certamente, con il maturare di nuove condizioni, la fase di

riappropriazione reale, in cui finalmente i lavoratori diventeranno i veri "padroni" della produzione (e

trascuriamo qui il fatto, che pure segnaliamo, che il termine di "padronanza" non è filosoficamente neutrale, ma

allude pericolosamente a un approccio strumentalistico e "metafisico" alle cose e ai rapporti umani).

Il fatto è, appunto, che il comunismo storico novecentesco (1917-1991) è durato 74 anni, un periodo di

tutto rispetto incomparabile con i due soli mesi della Comune di Parigi del 1871. In questi 74 anni non si sono viste

tracce del passaggio dalla riappropriazione formale (dato e non concesso che essa comunque possa essere ridotta

al binomio proprietà giuridica/pianificazione economica) alla riappropriazione reale. Ciò che più fa pensare,

inoltre, è che il problema non è neppure stato adeguatamente posto sul piano teorico, con l'eccezione di Mao

Tsetung e più in particolare di alcuni episodi della cosiddetta rivoluzione culturale cinese (1966-1976). Si tratta di

un tema, appunto, che discuteremo in modo più approfondito nei capitoli due e cinque di questo saggio, e che

qui per ora lasciamo in questa forma "grezza" e semilavorata.

Siamo giunti così alla fine di questo primo capitolo, che è forse quello concettualmente più complesso di

questo saggio. Rassicuriamo il lettore: i prossimi quattro capitoli saranno più semplici e lineari. Prima, però, voglio

dire ancora una cosa, che considero assai importante. Vi è chi attribuisce direttamente a Mane la teoria del

cosiddetto passaggio della Classe operaia rivoluzionaria dal momento in cui essa è soltanto ancora In Sé, esi-

stente materialmente ma non ancora autocosciente dei suoi destini storici, al momento in cui essa diventerà Per

Sé, cioè fondamentalmente anticapitalista e comunista. Questo passaggio, già in Marx (e dunque già prima di

Lenin e della sua teoria del partito rivoluzionano), sarebbe reso possibile da un intervento politico. In altre

parole, Marx sarebbe già un teorico del binomio classe-partito, anche se ovviamente non avrebbe ancora

articolato analiticamente questo tema, destinato a concretizzarsi dopo la sua morte, dalla seconda internazionale al

comunismo storico novecentesco.

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Ebbene, non lo credo per nulla. Non penso che sia così. Prima di tutto, non mi pare che vi siano in Marx le

basi filologiche per dimostrare questa tesi, al di fuori di alcune frasi sostanzialmente slegate dal loro contesto. E

bene ricordare che il contesto teorico di Marx è sempre un contesto non solo di critica radicale al primato della

politica, ma di critica radicale alla politica in quanto tale. In secondo luogo, lo spazio teorico che Marx intende

occupare è sempre uno spazio interno al legame sociale complessivo, e non è mai uno spazio del primato della

politica (e basti pensare alla critica di Marx ai giacobini e più in generale alla rivoluzione francese, in cui ap-

punto Marx usa intere catene di argomenti contro l'illusione del primato della politica).

A questo punto, mi sembra di avere già abbastanza esplicitato il mio punto di vista sul rapporto tra il pensiero

di Marx e il comunismo storico novecentesco. Ma oltre a Marx c'è anche il marxismo, o meglio i marxismi del

Novecento, che si sono occupati della natura sociale del comunismo storico novecentesco nel "tempo reale" della

sua esistenza empirica. Per questa ragione mi sembra opportuno dedicare il secondo capitolo a questo problema,

che è oggi per molti aspetti ormai puramente archivistico, ma che merita ancora di essere ricordato ai giovani, ormai

del tutto ignari dell'esistenza di questi dibattiti che hanno appassionato intere generazioni.

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Capitolo II

La questione della natura sociale del comunismo novecentesco (1917-1991)

La memoria storica è un omaggio che i viventi fanno nei confronti soprattutto di coloro che

hanno ben vissuto, e che meritano pertanto un buon ricordo. Si tratta del tema del "riscatto", su cui

ha scritto pagine affascinanti Walter Benjamin (ma non solo). Dopo la fine ingloriosa del comunismo

storico novecentesco, che analizzeremo teoricamente nel prossimo capitolo, si è creato un clima di oblio,

che tende a ricordare soltanto i critici del comunismo non sospettabili di anticapitalisrno, mentre

decreta una odiosa damnatio memoriae nei confronti di chi, pur restando ben fermo su di una

posizione anticapitalistica (e anzi proprio per questa precisa ragione), non ha mai accettato l'immagine

ideologicamente apologetica che il comunismo storico novecentesco ha dato di sé e della propria na-

tura politica, economica, culturale e sociale. In questo capitolo faremo una piccola operazione di

salvataggio della memoria storica, e sia ben chiaro che anche quando criticheremo molte soluzione

teoriche (da Pannekoek a Trot-sky, da Bahro a Bettelheim) lo faremo con uno spirito di vicinanza etica

e di simpatia politica. La mia personale soluzione (peraltro non particolarmente originale) la darò

nell'ultimo paragrafo. In breve, essa si basa sulla distinzione teorica fra le nozioni di capitalismo e di

modo di produzione capitalistico. A mio avviso, le società del comunismo storico novecentesco non

sono state società capitalistiche, anche se sono sempre state formazioni sociali ferreamente interne

alla riproduzione complessiva del modo di produzione capitalistico. Spero che il lettore, seguendo

l'argomentazione, si convinca che non sto proponendo giochi di parole sofistici, ma sto cercando di

aprirmi la strada in una selva terminologica piena di insidie.

La rappresentazione apologetica dei regimi del comunismo storico no-vecentesco

Per cominciare, è bene partire dalle ideologie partitiche di legittimazione con cui i regimi del

comunismo storico novecentesco hanno argomentato la propria pretesa di essere società socialiste nel

senso di Marx. In proposito, bisogna partire da alcuni fatti ben noti, che però, pur essendo noti, non per

questo sono conosciuti (secondo una stupenda espressione di Hegel).

In primo luogo, occorre riflettere spregiudicatamente sul perché per l'intero periodo di svolgimento

del comunismo storico novecentesco (1917-1991) i partiti e gli stati che si legittimavano

ideologicamente con il riferimento all'autorità teorica fondatrice di Marx non l'abbiano mai considerato

come un uomo fallibile, ma come il fondatore di una sorta di "religione del libro" (libro che in questo

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caso era il Capitale, trattato di fatto come se fosse stato la Bibbia o il Corano), che aveva avuto ragione in

tutto quello che aveva detto, salvo beninteso essere stato frainteso o male interpretato. Come dicono

giustamente molti proverbi popolari, soltanto i matti hanno sempre ragione, le persone normali

(comprendendovi in esse anche i grandi filosofi e i grandi scienziati) non possono avere sempre ragione.

Fra l'altro, anche l'epistemologia più sofisticata registra questa intuizione del senso comune, e la

recepisce con le vane teorie sul fallibilismo e la correzione fisiologica dei paradigmi scientifici. Il

comunismo storico novecentesco ha invece trasformato Marx in una sorta di profeta infallibile, fondando

cosi simultaneamente una pseudo-scienza e una quasi-religione: una pseudo-scienza, perché Marx era

trasformato nel riferimento scientifico che legittimava le politiche che via via il partito decideva di

intraprendere, e che venivano cosi sottratte alla discussione di una pericolosa e incontrollabile "opinione

pubblica" (come è noto, i cosiddetti "esperti" si legittimano in modo auto-referenziale, perché

delegittimano preventivamente i cosiddetti non-esper-ti, di cui si postula l'ignoranza e l'incompetenza);

una quasi-religione, perché al popolo dei militanti si offriva un insieme di dogmi di cui si permetteva la

discussione soltanto nella misura in cui questa discussione non giungesse a investire il nucleo essenziale

del dogma stesso (in un modo peraltro analogo a quello già praticato dalla teologia scolastica modievale,

che veniva invitata a giustificare razionalmente i dogmi, ma cui si intimava simultaneamente di

arrestarsi nel caso che giungesse a una loro smentita).

Perché questo è avvenuto? È evidente che le ragioni sono molte. Per sceglierne una fra tante,

direi che la ragione dell'"infallibilità religiosa" di Marx consistesse in una sorta di partecipazione

mimetica e di duplicazione simbolica fra la classe dei burocrati politici comunisti e Marx inteso come

loro padre fondatore. I burocrati erano sempre di volta in volta infallibili perché essi in qualche modo

"partecipavano" dell'infallibilità originaria di Marx. Come in tutte le religioni (e l'ideologia è

fondamentalmente una religione, così come ovviamente una religione è strutturalmente un'ideologia,

laddove la fede ha a mio avviso un altro statuto teorico e pratico, maggiormente filosofìco) l'infallibilità

è un fondamento originario, e l'origina-rietà del fondamento ne è l'elemento legittimante fondamentale.

Così ha funzionato a mio avviso nel comunismo storico novecentesco il dogma dell'infallibilità

originaria di Marx (e chi ne dubita rifletta sull'analoga infallibilità in questioni di fede del papa di

Roma, che deve ovviamente duplicare simbolicamente l'infallibilità originaria di Gesù di Nazareth

inteso non solo come uomo ma come il Cristo).

In secondo luogo, è necessario riflettere (e non assumere come semplice dato di fatto non bisognoso

di spiegazione) sul perché il comunismo storico novecentesco (1917-1991) non ha mai potuto

"permettersi" ciò che invece il capitalismo liberale può permettersi quotidianamente, la normale

libertà di espressione pubblica di opinioni politiche, filosofiche, e artisti-che. Come si è già detto nel

primo capitolo, questa normale libertà è già stata teorizzata fin dal 1670 da Spinoza nel Tractatus

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theologico-politicus, in nome del rifiuto dell'uso ideologico della religione. Le teorie sul totalitarismo

spiegano questo fatto in modo tautologico, che a mio avviso è del tutto insufficiente. Affermando che è

specifica del totalitarismo (fascista o stalinista) la negazione della libertà legale di espressione, ne

consegue che il comunismo storico novecentesco è stato totalitario. In questo modo, però, non si

spiega niente, così come non si spiega nulla dicendo che l'acqua è bagnata e che gli uccelli volano

mentre i pesci vivono nell'acqua dolce o salata. In realtà il problema è aperto, ed è di diffìcile soluzione,

non appena se ne rifiutano le spiegazioni tautologiche, sia di parte critica (il comunismo, essendo una

teoria totalitaria, si è sempre comportato in modo totalitario) sia di parte apologetica (la dittatura del

proletariato, essendo proletaria per definizione, toglie la libertà di espressione ai borghesi comunque

travestiti dal momento che i borghesi non possono che voler restaurare il capitalismo). Devo ammettere

apertamente di non avere una risposta convincente a questa domanda. In prima approssimazione (ma è

chiaro che si tratta di una risposta tautologica) è evidente che una classe sociale non universalistica e

pertanto non "egemonica" (al di là della sublimazione ideologica ineffettualedi Antonio Granisci, che

ovviamente dava per scontato che il proletariato potesse e dovesse diventare "egemonico", e non

limitarsi a forme di coazione e di coercizione inevitabilmente fragili e provvisorie), quale è la classe

operaia, non può permettersi di fondare il suo stato politico sulla libertà, per il semplice fatto che ne

sarebbe stata la prima vittima. Non è infatti possibile "convincere", senza coercizione, della normalità di

una situazione politico-sociale che conferisce il potere politico assoluto a un ceto di specialisti

professionali della manipolazione non caratterizzati da qualità universalistiche, ma soltanto da abilità

specialistiche di gestione della stabilità sociale. In ogni caso, ammetto apertamente di non avere una ri-

sposta seria a questo problema, ma mi è sembrato giusto sollevarlo egualmente, anche se personalmente

non vi so rispondere.

In terzo luogo, in conclusione, è bene ribadire che l'unica legittimazione teorica del carattere

"socialista" del comunismo storico novecentesco è stata data da Stalin, per cui in un certo senso è

storiograficamente giusto sostenere che furto il comunismo storico novecentesco (dal 1924, anno della

morte di Lenin, fino al 1991, anno della implosione dissolutiva) è stato staliniano, anche dopo il 1953,

anno della morte di Stalin, e il 1956, anno del XX congresso del Pcus e della destalinizzazione ufficiale

decretata da Kruscev. Il punto è delicato, e bisogna intendersi molto bene. In primo luogo bisogna

ricordare che Stalin definisce molto bene i tre punti essenziali della legittimazione del socialismo nel potere

politico integrale del partito proletario, nella proprietà giuridica statale (e cooperativa) dei mezzi di pro-

duzione, e infine nella pianificazione economica che si sostituisce all'anarchia del mercato. Questi tre

pilastri ideologici non sono assolutamente scalfiti nel 1953 e neppure nel 1956, e permangono di fatto

immutati fino al 1991. In secondo luogo, vi sono a mio avviso due diverse nozioni di stalinismo: in

senso stretto e specifico, lo stalinismo è un fenomeno temporale conchiuso fra il 1924 e il 1953, che

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dura dunque circa trent'anni e soltanto trent'anni; in un senso più largo ma a mio avviso assolutamente

legittimo, lo stalinismo non è un fenomeno limitato agli eventi del periodo della direzione di Stalin

(non solo in Urss, ovviamente, ma nell'intero movimento comunista internazionale, dal Komintern al

Cominform), ma è la forma politico-sociale fondamentale di esistenza reale dell'intero comunismo sto-

rico novecentesco. Questo almeno è ciò che io penso, e che dettaglierò meglio più avanti.

La critica del comunismo storico novecentesco da parte dei comunisti dei consigli

La rivoluzione russa del 1917 non fu bene accolta né dal movimento anarchico tradizionale né

dalla socialdemocrazia kaut-skiana. Da un lato, gli anarchici plaudirono alle prime misure antizariste,

ma si dissociarono subito ovviamente non appena il bolscevismo si dotò di un esercito regolare, di

un'amministrazione e di un apparato statale (e la dissociazione degli anarchici sarebbe comunque

venuta indipendentemente da eventi come la ribellione di Machno in Ucraina oppure l'insurrezione di

Kronstadt del 1921). Dall'altro lato i marxisti gradualisti della Seconda internazionale (da Martov a

Kautsky) non potevano che opporsi alla rivoluzione russa, non perché non fossero più marxisti o

perché fossero semplicemente "rinnegati", ma paradossalmente proprio perché erano dei marxisti

ortodossi nel senso della Seconda internazionale, fedeli al dogma della "maturità" delle forze produttive e

della trascrescenza socialista a partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico. Il fatto che abbiano in

molti casi "previsto" la degenerazione autoritaria staliniana fin dal 1918 non fa di loro dei profeti, perché

non si tratta di persone che avevano retrospettivamente ragione di fronte a persone che avevano torto (i

bolscevichi di Lenin), ma di persone che avevano già torto fino da allora, perché si basavano su di una

teoria evoluzionistico-deterministica che era già completamente falsa. Chi legge ì verbali delle posizioni

di Turati contro Bordiga si accorge agevolmente che nessuno dei due ha ragione "scientificamente", e

che comunque le cosiddette previsioni profetiche di Turati sulla degenerazione futura del comunismo

erano argomentate con un apparato concettuale penosamente legato al più ridicolo determinismo

economico.

Un discorso diverso, e assai più nobile, deve essere fatto a proposito dei cosiddetti "comunisti dei

consigli", eredi dell'ala sinistra della Seconda internazionale (e dunque anche del luxemburghismo). In

questa sede, mi limiterò soltanto al grande marxista olandese Anton Pannekoek. Pannekoek, che fu fino

alla morte un conseguente comunista antibolscevico, si accorse ben presto che la costruzione sociale del

comunismo storico novecentesco si basava sull'espropriazione dell'attività diretta di autogoverno

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politico e di autogestione economica della classe proletaria. Questo "sostitutismo" non gli poteva

ovviamente piacere, dal momento che sapeva bene che il connotato essenziale della democrazia

proletaria rispetto alla democrazia liberale borghese stava nell'attività diretta dei consigli dei lavoratori.

Ciò bastava e avanzava per negare ogni carattere socialista (nel senso di Marx) al progetto politico reale

del comunismo storico novecentesco. Ciò è tuttora molto plausibile, purché si rilevi che Pannekoek non

può dare nessuna prova sulla capacità storica reale della classe operaia e del proletariato di dirigere

effettivamente la produzione sociale attraverso consigli di autogoverno politico e di autogestione

economica. Egli deve postulare questa capacità, e deve farlo riproponendo le posizioni marnane

ortodosse. A questo punto è costretto di fatto a ripiegare o sulla posizione socialdemocratica classica (non

si sarebbe dovuto fin dall'inizio tentare la strada suicida della rottura rivoluzionaria dell'anello debole

della catena mondiale imperialistica) o sulla posizione trotzkista (è stato giusto fare questa rottura, ma in

assenza di una rivoluzione permanente nei paesi avanzati bisogna scontare il fatto che i burocrati

esproprieranno i lavoratori delle loro conquiste). Pannekoek non fa però né una cosa né l'altra, ed è

allora costretto a ripetere fino alla morte avvenuta nel 1965, che il vero comunismo è un comunismo dei

consigli, e non dello stato-partito. Giustissimo, ma allora perché questo bellissimo comunismo dei consigli

non funziona mai, ma proprio mai?

II contributo migliore di Pannekoek a mio avviso non è politico, ma è filosofìco. Analizzando la

natura profonda della filosofia di Lenin dal punto di vista della logica complessiva che la muoveva,

Pannekoek riesce a fare scoperte, molto interessanti. Secondo Pannekoek (e io condivido nel-

l'essenziale la sua tesi di fondo) il materialismo di Lenin è un materialismo borghese, nel senso che è un

materialismo illuministico (simile a quello settecentesco francese di D'Holbach) rivolto in primo

luogo contro la religione, la chiesa e i rapporti signorili e semifeudali, che erano effettivamente

pressoché spariti nell'Europa del 1914, all'infuori della Russia zarista e dei Balcani. È questa la base

teorica del "sostitutismo" effettuato dal partito proletario staliniano impegnato nella costruzione in

Urss di una grande industria moderna (il proletariato sostituisce la borghesia nell'opera dell'ac-

cumulazione primitiva), un "sostitutismo" che effettivamente la filosofìa di Lenin traduce nel rarefatto e

astratto linguaggio fìlosofico.

La critica del comunismo storico novecentesco da parte di Trotzky e del trotzkismo

La critica di Pannekoek (come per altri aspetti quella di Bordiga, pur tanto diversa nelle

motivazioni) è a mio avviso una critica alla Terza internazionale da parte delle correnti tedesco-

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olandesi della Seconda internazionale. È dunque una critica paradossalmente "reazionaria", nel senso che

reagisce a una novità storica inaspettata in nome della fedeltà e della conservazione di una ortodossia,

che era poi non solo quella "marxista", ma addirittura quella marxiana. Un discorso diverso deve essere

fatto a proposito di Trotzky e del trotzkismo. Il trotzkismo è un fenomeno storico integralmente

novecentesco, ed è anzi a mio avviso la grande eresia internazionale del comunismo storico

novecentesco. Un fenomeno da prendere dunque molto sul serio, nonostante il carattere

strutturalmente minoritario che storicamente ha avuto. È bene in proposito ricordare che le tesi teori-

che principali del trotzkismo, dalla rivoluzione permanente all'analisi del fenomeno burocratico, dalla

spiegazione della degenerazione staliniana sulla base dell'asiatismo e del basso livello delle forze

produttive, all'appropriazione dei movimenti artistici d'avanguardia, ecc, sono state tesi diffuse ben

oltre i ristretti confini delle organizzazioni politiche trotzkiste militanti, e hanno influenzato la stragrande

maggioranza degli intellettuali anticapitalisti del Novecento.

Come è ampiamente noto, i trotzkisti hanno a lungo sostenuto che la natura sociale del

comunismo storico novecentesco non poteva essere definita sulla base di una restaurazione capitalistica,

sia pure nella forma di un capitalismo di stato o di partito, ma doveva essere connotata sulla base di uno

stato operaio degenerato, cioè di una formazione sociale di tipo socialista, anche se burocraticamente

degenerata e pertanto bisognosa di una rivoluzione politica. La rottura del 1917 era così non solo

politicamente rivendicata come un fenomeno positivo, ma era anche vista come l'inizio di un processo di

transizione mondiale dal capitalismo al socialismo. Lo stalinismo era invece condannato senza appello, con

il richiamo storico-analogico del Termidoro del 1794, che abbattè il regime dei giacobini rivoluzionari in

favore di settori corrotti della borghesia (il Direttorio, ecc). La burocrazia comunista, capitanata da

Stalin, era connotata in questa analisi in termini di ceto parassitario, non di classe sociale autonoma, dal

momento che le mancava il requisito stabile e organico della proprietà privata ereditariamente

trasmissibile dei mezzi di produzione. La connotazione della burocrazia politica del comunismo storico

novecentesco in termini di ceto parassitario e non di organica classe sfruttatrice (sia pure di tipo nuovo e

inedito) aveva poi importanti conseguenze politiche, perché comportava il fatto che non si poteva essere

equidistanti fra capitalismo occidentale e comunismo storico novecentesco (sia pur burocraticamente

degenerato), e il capitalismo occidentale imperialistico restava così il nemico principale. Per questa

ragione (che però mi sembra molto importante e anzi decisiva) ritengo di poter definire il trotzkismo come

un fenomeno interno (sia pure in modo ereticale) al comunismo storico novecentesco, di cui ha sempre

accompagnato criticamente le vicende.

Dal punto di vista teorico-filosofìco, il trotzkismo non è invece un fenomeno eretico (come lo è in

politica), ma è un fenomeno di piena ortodossia. Eresia politica e ortodossia teorica, il trotzkismo tiene

fermo sulla tesi della capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e del proletariato moderno, e

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sulla base di questa tesi appunto deve spiegare il fenomeno empirico della degenerazione burocratica del

comunismo storico novecen-tesco. Respingendo virtuosamente la diabolica tentazione teorica del giu-

dizio di incapacità intermodale del moderno proletariato (che è invece appunto la mia tesi, cui è

consacrato il quinto e ultimo capitolo di questo breve saggio), il trotzkismo deve trovare un colpevole,

e lo trova nella burocrazia. A mio avviso, e lo dico qui in forma volutamente provocatoria, la

burocrazia non esiste (così come non esiste il diavolo nella teoria delle passioni e delle tentazioni, che

hanno a mio avviso una causalità interna e non esterna). Certo, non nego il fatto evidente

dell'esistenza empirica di un gruppo sociale "burocratico", inteso come insieme di chi lucra privilegi

materiali e morali sulla base della propria collocazione privilegiata nella divisione sociale e tecnica del

lavoro. Sono lontanassimo dal negarlo, al punto che io stesso in questo saggio uso continuamente il

termine di "burocrazia comunista" per connotare empiricamente il ceto politico professionale del

comunismo storico novecentesco. Sono lontanissimo dal negarlo, anche perché il terzo capitolo di

questo saggio è basato proprio sull'analisi dei comportamenti collettivi di questa "burocrazia" nel

processo di implosione e dissoluzione del comunismo storico novecentesco, consumatosi nel

triennio 1989-91.

La burocrazia che non esiste è allora la burocrazia intesa come un soggetto di teoria della storia,

nel senso che Marx ha dato alla teoria dei modi di produzione. Se il proletariato avesse la capacità che

Marx gli attribuisce, quella di essere una classe intermodale (intermodale come non furono invece a

suo tempo intermodali le classi degli schiavi antichi e dei servi della gleba medioevali) nessuna

burocrazia, europea o asiatica che sia, riuscirebbe mai a espropriarlo e a derubarlo della sua rivoluzione

sociale. La "burocrazia" è allora un nome che si da a un'altra cosa, che è l'incapacità strutturale di

intermodalità storica del proletariato inteso come soggetto di teoria della storia che si costituisce non

solo come insieme di centri di resistenza allo sfruttamento capitalistico (estorsione del plusvalore, ecc),

ma che dovrebbe giocare un ruolo universalistico di transizione dal modo di produzione capitalistico al

comunismo. In altri termini, il proletariato è certamente un soggetto di lotta di classe nel capitalismo (e

lo ha storicamente dimostrato in centinaia di casi, e certo ancora lo dimostrerà in futuro), ma non è in ai

cun modo un soggetto di transizione intermodale al comunismo.

Trotzky non avrebbe mai potuto accettare una simile blasfema conclusione teorica, e il concetto di

"burocrazia" sta così al posto di questa blasfema conclusione. Nel linguaggio dell'epistemologo Kuhn, si

tratta di uri aggiunta ad hoc per salvare un paradigma scientifico da una crisi, la qual cosa impedisce così

una possibile rivoluzione scientifica (il cui auspicio riempie il quinto capitolo). Uno dei più grandi

trotzkisti del Novecento, il belga Ernest Mandel, ha avuto invece il coraggio morale di giungere fino alla

soglia di questa dirompente conclusione. A proposito della classe operaia e della sua eventuale capacità

rivoluzionaria Mandel parla esplicitamente di "scommessa" nel senso di Pascal, sostenendo che è meglio

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scommettere su questa capacità piuttosto che abbandonarsi a un pessimismo paralizzante (cfr.

Quatrième Internationale, nn. 29-30, 1988, p.84). Chi conosce la storia della filosofia sa perfettamente

che la "scommessa" di Pascal è incompatibile con la teoria di Marx sul ruolo della classe operaia nel

processo di transizione al comunismo. Marx non scommette, ma deduce e prevede. In breve, ecco

perché non condivido radicalmente la teoria trotzkista sul comunismo storico novecentesco, e perché

considero un ritardo scientifico e filosofico ogni tentativo di ripresentarla oggi.

La critica del comunismo storico novecentesco in nome dell'analogia con il modo di produzione asiatico

A fianco di Pannekoek e di Trotzky vi è un'altra teoria non priva di un certo interesse. Sulla

scorta degli studi sul dispotismo orientale del tedesco Wittfogel alcuni studiosi, come Rudolph Bahro

(esplicitamente approvato da Herbert Marcuse), hanno proposto di considerare la natura sociale del

comunismo storico novecentesco sulla base dell'analogia con il modo di produzione asiatico. In effetti,

sia il comunismo storico novecentesco sia il modo di produzione asiatico (cui si potrebbe aggiungere per

completezza anche il modo di produzione antico-orientale, da tenere distinto da quello asiatico, come

mostrano con insuperata chiarezza le opere storiche di Massimo Bontempelli) hanno in comune il fatto di

avere la proprietà pubblica e non privata dei mezzi di produzione fondamentali, pur in presenza di una

classe sfruttatrice dispotica e violenta. E probabile che la necessità di occultare ideologicamente

questo fatto (potenzialmente dirompente in senso pedagogico e culturale) sia stata alla base della

"sparizione" dell'esistenza dei modi di produzione asiatico e antico-orientale nella cosiddetta teoria dei

"cinque stadi" (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e comunismo), la

formulazione dogmatica e deterministica della storia universale adottata nel materialismo dialettico (o

meglio, nel comparto del materialismo dialettico denominato materialismo storico), la teologia della

storia che i sistemi scolastici dei paesi a comunismo storico novecentesco hanno insegnato fino al

1991. In ogni caso, anche se questa teoria presenta aspetti di superfìcie plausibili e interessanti, e

spiega ad esempio l'"asiatismo" dei comportamenti del comunismo russo (e anche cinese), in piena e

provocatoria discontinuità con la mentalità di Marx e del marxismo della Seconda internazionale, mi

sembra che essa dica assai poco, e debba pertanto essere respinta. Le analogie storiche sono sempre

interessanti, e permettono sempre illuminanti scoperte. Nello stesso tempo, il modo di produzione

asiatico è caratterizzato da una specifica divisione sociale classista del lavoro, mentre il comunismo

storico novecentesco si riproduce con una divisione tecnica del lavoro, che ovviamente influenza anche

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la divisione sociale, ma che è a tutti gli effetti primaria e dominante, come gli studi di Gianfranco

La Grassa hanno bene dimostrato.

La critica al comunismo storico novecentesco sulla base della teoria del capitalismo di stato e di partito

Per un giovane che oggi intenda riflettere sulla natura sociale e politica del comunismo storico

novecentesco può effettivamente sembrare grottesco che a cavallo del 1968 ci si sia letteralmente

"scannati" fra filosovietici, trotzkisti e maoisti di quel tempo ormai lontano, sulla questione del se e in

quale misura la burocrazia comunista dovesse essere definita come una vera e propria classe oppure

come un semplice ceto professionale parassitario, oppure sull'alternativa fra il considerare le società

socialiste come forme di un "collcttivismo burocratico", oppure come semplici varianti di un

capitalismo di stato e di partito. Tutto questo può sembrare una fastidiosa e inutile disputa

nominalistica sostanzialmente sterile e bizantina. Ma, appunto, sul termine "bizantino" occorre

intendersi. Le dispute bizantine fra iconoclasti e iconoduli (cioè fra distruttori e adoratori delle immagini

religiose) e ancor più fra ariani, nestoriani e monofisiti erano certamente "bizantine" alla luce di uno stile

di razionalità illuministica, positivistica, marxista o post-moderna, ma non si può egualmente prescinde-

re dalla loro dettagliata conoscenza se si vogliono ricostruire mille anni di storia dell'Europa Orientale e

del Medio Oriente. Analogamente, ciò vale anche per le dispute nominalistico-bizantine fra i sostenitori

dello stato operaio degenerato (Mandel), del collettivismo burocratico (Rizzi), del capitalismo di stato

(Bordiga), del capitalismo di partito (Bettelheim), ecc. In proposito, è necessario qui sottolineare

l'importanza storica di coloro che negli ultimi ventanni prima della fine ingloriosa del comunismo

storico novecentesco ne proposero una interpretazione in chiave "capitalistica", come il francese Charles

Bettelheim (in polemica soprattutto con il grande marxista americano Paul Sweezy e con il trotzkista

belga Ernest Mandel) e in Italia soprattutto Gianfranco La Grassa. Si trattò certamente di un "riflesso" eu-

ropeo della polemica dei comunisti cinesi (ispirati allora dal pensiero dell'ultimo MaoTsetung, quello del

ventennio 1956-1976), ma si trattò anche di un fenomeno peculiare e autonomo dal maoismo politico

(che invece si rifaceva generalmente a Stalin in modo ortodosso, e non poteva dunque simpatizzare con

posizioni molto critiche verso Stalin e lo stalinismo).

In quanto parziale riflesso europeo di un fenomeno internazionale, il maoismo critico del

ventennio 1956-1976, questa teoria sulla natura "capitalistica" di quello che a quel tempo aveva assunto

il nome di "socialismo reale" deve essere tenuta metodologicamente ben distinta da una precedente teoria

apparentemente simile, quella che risale ad Amedeo Bordiga, fondatore del comunismo italiano nel

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1921 e marxista indipendente fino alla morte avvenuta nel 1970. In realtà, se vengono sottoposte a un

esame più ravvicinato, le due teorie sono molto diverse, e hanno presupposti assolutamente non

omogenei. La teoria di Bordiga, già fondamentalmente perfezionata fino dagli anni cinquanta,

interpretava lo stalinismo come una sorta di grande accumulazione primitiva di rapporti capitalistici,

ancora "imbozzolati" in una sorta di crisalide di capitalismo di stato. La natura capitalistica dell'Urss e

degli altri paesi "satelliti" era sostenuta da Bordiga soprattutto in base alla permanenza della proprietà

cooperativa e delle connesse categorie economiche mercantili, mentre il processo produttivo diretto di fab-

brica non era particolarmente messo in discussione, dal momento che Bordiga, ingegnere di professione,

aveva una robusta concezione positivistica di scienza e di tecnica.

In totale indipendenza teorica da Bordiga (e da tutti i bordighiani, ortodossi o eretici, da

Dangeville a Camatte) la scuola di Bettelheim non puntava l'obbiettivo sui rapporti economici di

connessione superficiale nello scambio delle "merci socialiste", ma sul dominio reale dei produttori

sulle condizioni della produzione. Era in fondo questa l'indicazione che veniva dalla stessa Cina e dai

teorici della cosiddetta rivoluzione culturale. Non è qui importante il giudizio storico sulla rivoluzione

culturale come evento interno alla storia della Cina e del comunismo cinese, se essa sia stata una vera e

grande "rivoluzione" (come sostennero allora i maoisti) oppure una semplice lotta interburocratica fra

cricche cinesi rivali (come sostennero con argomenti convergenti sia i filosovietici sia i trotzkisti). In

questa sede è sufficiente ribadire che l'impulso esterno dato dagli eventi cinesi (e in minore misura da

quelli cubani e latino-americani) fu l'occasione estrinseca per un rilancio del dibattito marxista europeo

e italiano. In quel contesto furono riscoperte nozioni teoriche rimaste ignote o abbandonate, come la di-

stinzione fra la forma e la sostanza del valore e fra la sottomissione formale e reale del lavoro al

capitale. La discussione sulla natura sociale del comunismo storico novecentesco, allora non considerato

ancora "storico" ma ritenuto in pieno svolgimento, fini con l'avere una positiva "ricaduta" anche sulla

considerazione della società capitalistica come formazione economico-sociale del modo di produzione

capitalistico. Ed è appunto su questa distinzione terminologica che voglio strutturare questo ultimo

paragrafo di questo secondo capitolo.

II comunismo storico novecentesco e il modo di produzione capitalistico

Stringiamo dunque le fila della nostra argomentazione a proposito della natura sociale del

comunismo storico novecentesco. Chiedo al lettore di aver ben presente tre distinzioni concettuali. In

primo luogo, di distinguere fra società capitalistica e modo di produzione capitalistico. Si tratta di due

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concetti che non hanno lo stesso oggetto, e danno luogo a una tragicomica commedia degli equivoci non

appena li si applica alla stessa serie di eventi storici. In secondo luogo, di distinguere fra classe borghese

e classe dei capitalisti intesi come agenti della riproduzione complessiva stutturale del modo di

produzione capitalistico, che è un "processo senza soggetto" (Althusser) nella sua logica impersonale e

immanente. In terzo luogo, di distinguere fra classe operaia intesa come classe sociologica di salariati

della grande industria moderna, classe materiale e "causalità efficiente" di produzione del plusvalore, e

classe operaia intesa come classe filosofica e teleologica cui si attribuisce non solo la missione storica

(che è in realtà sovrastorica) di superare il capitalismo, ma anche la capacità concreta di farlo (cosi come

la borghesia fu "capace" di superare il feudalesimo). Senza queste tre distinzioni la mia argomentazione è

impossibile, e allora tanto vale tornare subito a Sweezy o a Bettelheim, a Pannekoek o a Trotzky, a

Bordiga o a Bahro.

Le società del comunismo storico novecentesco non furono società borghesi e capitalistiche. Esse

emersero storicamente da una durissima lotta di classe contro i borghesi, la loro cultura, le loro forme di

vita, la loro stessa natura di agenti della produzione capitalistica (senza dimenticare ovviamente il fatto

che, dalla Russia alla Cina, le stesse borghesie erano minori-tarie rispetto a classi precapitalistiche).

Certo, esse diedero luogo a una polarità fra dominanti e dominati (utilizzo qui la dicotomia proposta da

Bettelheim in un'opera tradotta in italiano solo parzialmente, e di cui è mancante proprio la parte più

importante), e i dominanti possono essere chiamati "burocrazia" (come fanno i trotzkisti) o "borghesia di

stato" (secondo l'approccio del maoismo occidentale). Si tratta però di analogie categoriali improprie, dal

momento che i dominanti a mio avviso non espropriarono i dominati (il proletariato, i lavoratori, ecc.)

del loro potere, ma rappresentarono semplicemente la strutturale incapacità storica dei dominati storici

di riappropriarsi del potere sulle condizioni della produzione. La classe operaia è a mio avviso una

classe talmente interna ai meccanismi riproduttivi del modo di produzione capitalistico (così

personalmente interpreto la nozione di "sottomissione reale del lavoro al capitale") da non poter in

nessun modo "dominare" un processo di transizione a un modo di produzione po-stcapitalistico, in

questo caso comunista. Essa dunque non è espropriata dai nuovi "dominanti" (come pensano tutte e

quattro le scuole marxiste tradizionali ricordate nei quattro precedenti paragrafi), ma li riproduce fi-

siologicamente come sua rappresentanza politica. Senza di essi, non sarebbe in grado di produrre una

sintesi sociale, cioè un legame sociale (mentre la borghesia capitalistica è perfettamente in grado di farlo,

e utilizza l'apparato politico di rappresentanza in modo puramente sovrastrutturale). Quando i

"dominanti'' la abbandonano (e ci occuperemo di questo "abbandono" nel prossimo capitolo) i

"dominati" non possono che disperdersi senza reagire. Vi sono dunque dominanti e dominati, ed è

dunque giusto dire che il comunismo storico novecentesco ha dato luogo a società classiste. Anche in

assenza di meccanismi giuridici di trasmissibilità ereditaria di privilegi (ma questa assenza caratterizza

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appunto analogicamente anche modi di produzione precapitalistici e classisti), 1 ruoli occupati nella

divisione sociale e tecnica del lavoro erano classisti. Il loro carattere "classista" era però duplice. Da un

lato, si trattava di un classismo qualitativamente diverso dal classismo delle società borghesi e

capitalistiche, un classismo estremamente più fragile e insicuro (ed è appunto questa fragilità che spiega

parzialmente l'assenza di libertà culturali e politiche e la forma religiosa della legittimazione sociale), un

classismo che non deve essere asssimilato al classismo capitalistico "normale". Se lo si fa, si crea una

notte in cui tutte le vacche sono nere, ed è allora inevitabile cadere in una confusa metafisica del potere

onm-pervasivo, dal quale ci si può difendere soltanto con strategie individuali di ripiegamento

nell'interiorità. Dall'altro, si trattava pur sempre di un classismo interno alla riproduzione del modo di

produzione capitalistico (nel senso originale marxiano del termine), nel senso che i "dominanti" non

potevano che impersonare i ruoli di agenti astratti della riproduzione capitalistica, dal momento che

questa riproduzione si caratterizza per la dominanza della componente tecnica su quella sociale (a

differenza di quanto avviene nelle riproduzioni precapitalistiche). A questo punto useremmo l'espressione

di "capitalismo proletario", se non temessimo di ingenerare ulteriori equivoci semantici. Ammetto che ce ne

sono già troppi, e ammetto anche che l'esistenza di questi equivoci semantici è il segnale di una generale

incompletezza e inesattezza della teoria (compreso ovviamente quella che sto qui esponendo).

Compendiamo dunque ancora una volta la nostra formulazione. Il comunismo storico novecentesco

ha dato luogo a società classiste, polarizzate fra dominanti e dominati. Queste società classiste hanno

dato luogo a un classismo inedito nella storia, analogicamente più simile ai classismi asiatici e antico-

orientali che ai classismi borghesi-capitalistici. Tuttavia, non si è trattato di una reviviscenza dei modi di

produzione asiatico e antico-orientale, perché la dominanza della divisione tecnica del lavoro su quella

sociale impone di parlare di modo di produzione capitalistico. In proposito, gli agenti della produzione

capitalistica hanno assunto il ruolo dei dominanti di questa società, pur provenendo sociologicamente e

politicamente dalle classi operaia e contadina (ma ciò che conta non è la provenienza sociologica, ma il

ruolo obbiettivamente assunto nella divisione tecnica e sociale del lavoro). A un certo punto, questi agenti

della produzione capitalistica hanno promosso, dall'alto, una restaurazione capitalistica "normale". Essi

possono essere per brevità denominati "burocrazia" o "borghesia di stato", ma questa denominazione è

inesatta, perché la "borghesia" non è una classe-soggetto identificabile con la pura funzione di agenti della

produzione capitalistica. Questa identificazione è economicistica, e l'economicismo è la tomba della

comprensione della realtà storica.

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Capitolo III

La natura del crollo implosivo del comunismo storico nove-centesco (1989-1991)

Il lettore che ha seguito le argomentazioni dei primi due capitoli è già in possesso di almeno tre

schemi interpretativi da me proposti. In primo luogo, si è detto che le categorie originali di Marx non

possono essere direttamente applicate al comunismo storico novecentesco. Da un lato, la categoria del

lavoro, o meglio del valore lavoro, ha senso soltanto in una ipotesi di fusione fra potenze mentali della

produzione e lavoro collettivo associato (dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale) nei punti alti di

sviluppo del modo di produzione capitalistico. La sua applicazione in un contesto di scarsità, di

distribuzione amministrativa e di accumulazione primitiva del capitale industriale da luogo a una

problematica del tutto legittima, ma che non è più in alcuna misura marxiana. Dall'altro, la categoria dei

bisogni, o meglio dei bisogni ricchi e onnilaterali, non può essere applicata se non in un contesto alla

Epicuro e alla Spinoza, di società degli amici e di fine di ogni stato ideologico. In caso contrario, manca

il contesto per una educazione alla autolimitazione cosciente dei bisogni stessi, dal momento che si creano

personalità eterodirette abituate a "limitare" i propri bisogni soltanto dal vincolo esterno della scarsità, o

addirittura dalla paura del Leviatano statuale di partito.

In secondo luogo, si è detto che è possibile una applicazione indiretta delle categorie di Marx al

comunismo storico novecentesco, ma questa applicazione indiretta sfocia necessariamente in una

impasse teorica, dal momento che bisogna saper spiegare perché i lavoratori associati, una volta

eseguita la rivoluzione politica e iniziata la riappropriazione formale delle condizioni della produzione, non

sono stati assolutamente capaci di andare avanti verso la riappropriazione reale. È questa impasse

storica che deve essere storicamente spiegata senza il ricorso a demonologie sociologiche (i burocrati, 1

borghesi di stato, ecc).

In terzo luogo, e di conseguenza, si è sostenuto che le teorie tradizionali sulla natura sociale del

comunismo storico novecentesco non sono sufficienti. Esse contengono tutte interessanti elementi di

verità che devono essere valorizzati, ma cadono tutte in una forma di economicismo riduzio-nistico

perché confondono la "società capitalistica" (concetto sociologico, economico e culturale) con il "modo di

produzione capitalistico" (concetto strutturale, che ha validità solo in sede di teoria della storia, e non di

descrizione empirica di aggregati sociali concreti), confondono i "borghesi" con gli "agenti della

produzione capitalistica" (i due termini si identificano in moltissimi casi, ma non necessariamente, e

siamo oggi infatti a mio parere in un capitalismo post-borghese), e infine confondono la materialità

della classe operaia e proletaria con l'attribuzione metafisica, scientificamente indimostrabile, di una

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natura anticapitalistica e di una capacità di transizione comunista a questa stessa classe. Le società del

comunismo storico novecentesco sono state società classiste, divise in dominanti e dominati, e sono state

società interne al raggio di riproduzione globale del modo di produzione capitalistico, pur non potendosi

definire società capita-listiche nel senso sociologico e culturale (alla Comte, Durkheim, Weber,

Merton, Parsons, ecc).

A questo punto, sulla base di queste tre premesse (che ho voluto ricordare perché siano tenute

sempre presenti), siamo in grado di affrontare il problema della natura storica del crollo implosivo del

comunismo storico novecentesco nel brevissimo arco di tempo che va dal 1989 al 1991.

Ciò che mi interessa non è la descrizione degli eventi di questo crollo (ci vorrebbero migliaia di

pagine storicamente documentate, e io non sono neppure uno storico, e non fingo presuntuosamente di

essere tale), ma l'interrogazione teorica della forma che questo crollo ha assunto, la forma della

implosione, della dissoluzione, della resa unilaterale, del riciclaggio dei dominanti e dell'esodo e della

dispersione dei dominati. In proposito, ovviamente, formulerò la mia ipotesi. Prima, però, proporrò due

paragrafi metodologici sulla volontà di credere e sulla "illusione Gorbaciov" che sono forse di qualche

interesse. Negli anni ottanta la mia attività teorica (che rivendico integralmente sul piano biografico, ma

che analizzo criticamente sul piano teorico) è stata fortemente caratterizzata sia dalla volontà di credere,

che dalla "illusione Gorbaciov" (almeno fino al 1988). Non annoierei qui il lettore se non sapessi che non

sto parlando soltanto della mia persona, ma sto descrivendo modalità intellettuali e critiche in vario modo

comuni a una intera generazione di studiosi di marxismo. Io questa generazione l'ho conosciuta molto bene, e

voglio che i giovani sappiano che cosa ci girava nella testa.

La volontà di credere

Chi si occupa professionalmente di comunicazione intellettuale, particolarmente nel campo della filosofia

(che non può essere "dimostrata" con formule matematiche cogenti o con esperimenti da laboratorio), sa che si

tratta di una delle attività più frustranti che possono esistere. Nessuno riesce mai veramente a convincere nessuno.

Dopo anni, ci accorgiamo che persone che credevamo vicine e partecipi di una amicizia fi-losofica in realtà non

condividono praticamente nulla di quanto pensiamo. La stessa attività della cosiddetta "convinzione", come è

noto, si attua soltanto in forma indiretta. Non sono mai argomentazioni che "convincono", ma è soltanto la loro

possibile lenta sedimentazione che "improvvisamente" provoca una sorta di "conversione", la quale non è che il

frutto di un'accumulazione progressiva di esperienze. Di passaggio, voglio notare che è anche per questa ragione

che non credo alla teoria della comunicazione di Habermas, che ipotizza un'impossibile situazione comunicativa

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ideale che non corrisponde per nulla alla realtà vissuta (e questo del tutto indipendentemente da altre

considerazioni su Rawls, Adorno, ecc).

La ragione è in realtà molto semplice. Prima di comunicare tesi problematiche, l'individuo vuole credere.

La sua mente comunicativa funziona allora come un selettore che seleziona automaticamente soltanto le ar-

gomentazioni che legittimano la sua volontà di credere, respingendo le altre in un limbo opaco e lattiginoso. Lo

stesso Karl Marx, redivivo, non convincerebbe nessun militante di sezione nostalgico del comunismo storico

novecentesco, per il semplice fatto che questo militante non vuole argomentazioni, ma credenze. A suo tempo

William James ha dimostrato questo in un aureo libretto, che tutti dovrebbero leggere. Ancora più chiaramente

si è espresso il grande epistemologo francese Gaston Bachelard, di cui citerò qui in esteso una illuminante

citazione integrale:

La scienza, per il suo bisogno di compiutezza e per motivi di principio, si oppone assolutamente all'opinione.

Se ha la capacità di legittimare, su un punto particolare, l'opinione, ciò avviene per ragioni diverse da quelle che

fondano l'opinione : di modo che l'opinione ha, di diritto, sempre torto. L'opinione pensa male; essa non pensa;

traduce bisogni in conoscenze. Designando gli oggetti secondo la loro utilità, si impedisce di conoscerli. Non si può

fondare niente sull'opinione: bisogna anzitutto distruggerla. E il primo ostacolo da superare. Non basterebbe, ad

esempio, rettificarla su punti particolari, mantenendo, come una sorta di morale provvisoria, una conoscenza volgare

provvisoria. Lo spirito scientifico ci proibisce di avere opinioni su questioni che non comprendiamo, su questioni che

non sappiamo formulare chiaramente. Prima di tutto, bisogna saper porre problemi. E, checché se ne dica, nella vita

scientifica i problemi non si pongono da se stessi. È per l'appunto questo senso del problema che da il vero tratto di-

stintivo del vero spirito scientifico. Per uno spirito scientifico, ogni conoscenza è una risposta a una domanda. Se non

c'è stata domanda, non può esserci conoscenza scientifica. Niente va da sé. Niente è dato. Tutto è costruito.

La citazione era lunga, ma ne valeva la pena. Applichiamola ora al problema della riformabilità

interna o meno del modello sociale e politico del comunismo storico novecentesco. Si tratta di un

problema che non è né fi-iosofico né ideologico, ma che è soltanto scientifico, se ovviamente si ritiene

(come io ritengo) che la teoria marxiana dei modi di produzione sia una teoria che ha uno statuto

scientifico. Se Bachelard ha ragione, non possiamo tradurre il nostro bisogno psicologico di sperare in

una sua riformabilità in conoscenza scientifica della possibilità di una sua riformabilità. E questa la

ragione per cui io, che a lungo ho caldeggiato e propagandato la teoria della speranza di Ernst Bloch, oggi

sono molto più freddo nei suoi confronti. Sono sempre filosoficamente disposto ad aprire un credito sulla

ontologia della speranza, ma mi sono reso conto che per la maggior parte dei blochiani essa funziona

come una "ideologia della speranza", come una scommessa pascaliana alla Mandel, come una volontà di

credere. E allora siamo di fronte a un blocco della conoscenza, a un ostacolo epistemologico insuperabile,

a una tragedia scientifica e filosofica.

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Questa è stata la situazione per la generazione dei marxisti del periodo 1956-1989. Non sto parlando solo di

me stesso. Sto parlando di Sartre e di Althusser, di Lukàcs e di Bloch, di Adorno e di Marcuse, di tutti coloro che

"scommisero" sulla riformabilità del modello del comunismo storico nove-centesco, come se le cose che dicevano

potessero in qualche modo "passare", sia pure in piccola parte, nel corpo sociale e politico dei militanti, degli

elettori, dei simpatizzanti e soprattutto dei dirigenti del comunismo storico novecentesco. Io sono stato un fedele

allievo di questi grandi pensatori marxisti dell'ultima generazione. Da essi ho assimilato l'idea secondo cui le

grandi idee marxiste possono permeare un corpo politico e sociale, secondo cui la res cogkans può guidare e

dirigere la res excensa (per usare in modo sportivo il linguaggio di Cartesio). Mi rendo oggi conto che si trattava

di una semplice volontà di credere del tutto infondata scientificamente. Dal momento che auspicavo

psicologicamente la riformabilità del comunismo storico novecentesco, e volevo credere in essa sentivo il

bisogno di credere in essa per il mio presupposto morale anticapitalistico. In questo modo, ovviamente, finivo con

il violare le regole elementari poste da Ba-chelard, e che ora finalmente posso comprendere. Ovviamente, non mi

sarei tanto dilungato su questo tema se non sapessi perfettamente che esso JÌ-guarda pressoché l'intera ultima

generazione dei mamsti .acoivi fra il 1956-1989, che ritengo di conoscere molto bene (seguendo Spinoza non

ritengo che l'umiltà sia una virtù, e infatti preferisco non praticarla).

La domanda è dunque questa: perché nulla, ma proprio nulla, ma assolutamente nulla, di quanto fu

proposto dai grandi pensatori marxisti passò nel corpo militante e dirigente (cioè nei dominanti e nei dominati)

del comunismo storico novecentesco ? La risposta ovviamente, che rischia di essere tautologica, ma è

tragicamente reale, è che esso è un sistema assolutamente irriformabile. Il partito politico comunista è

sintonizzato unicamente sul canale della ideologia, e "secerne" soltanto liquido ideologico, così come la seppia

secerne il suo inchiostro. L'ideologia che esso secerne è sempre e soltanto un'ideologia economicistica e

politicistica: economicisti-ca perché essa traduce nel linguaggio della rappresentanza economica gli interessi di

gruppi sociali subalterni e totalmente incapaci di intermodalità; politicistica perché questi interessi devono a loro

volta essere ritradotti nel linguaggio della mediazione e della manipolazione politica. La stessa degradazione

"antropologica" cui tutto questo da luogo (e su cui ho fornito contributi che ritengo assolutamente originali e che

tuttora rivendico come sostanzialmente veri) non è che un fenomeno derivato di questa "secrezione ideologica".

Come l'inchiostro della seppia, la secrezione ideologica cancella e rende invisibile qualunque argomentazione

filosofìca o scientifica che possa incrinare la volontà di credere e il bisogno di sperare non soltanto dei militanti,

ma anche di tutti quegli intellettuali a metà, che mettono la volontà di credere davanti al coraggio del pensare.

Page 34: Il Comunismo Storico Di Costanzo Preve

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L'illusione Gorbaciov

Nel precedente paragrafo ho descritto in modo spero chiaro e comprensibile l'atteggiamento che avevo

nel 1985, quando in Urss "apparve" il fenomeno Gorbaciov, questo mediocre sfasciacarrozze che lìi per alcuni anni

creduto un secondo Lenin. L'ho descritto perché si trattava di un atteggiamento maggioritario presso gli

intellettuali marxisti dell'ultima generazione. Incidentalmente parlo di prima generazione di intellettuali

comunisti per il periodo 1917-1924 (rivoluzione d'ottobre, rottura rivoluzionaria, Terza internazionale, scelta

strategica di campo per l'an-ticapitalismo radicale), di seconda generazione per il periodo 1924-1956 (costruzione

del socialismo in Urss, stalinismo e fronti popolari, antifascismo e resistenza, problema dell'adesione o del rifiuto

allo stalinismo), e infine di terza generazione per il periodo 1956-1989. E evidente che questa periodizzazione

non riguarda le biografie particolari di singoli pensatori, alcuni dei quali, come Lukàcs, vissero tanto a lungo da

esercitare la loro funzione in tutti e tre i periodi presi in esame. Essa riguarda le "problematiche" generali. Dal

1956 la problematica dominante sta nella "volontà di credere" nella riformabilità interna del comunismo storico

novecentesco.

Tutti aspettavano una sorta di messia che ci portasse fuori dalle secche del modello stalinista e post-stalinista

(che, seguendo una seducente proposta terminologica di Franco Fortini, potremmo definire "staliniota").

E venne Gorbaciov. La volontà di credere scattò subito. Il bisogno di sperare anche. Anziché studiare con

spirito scientifico il problema, scattò la "proiezione" analogica con periodi storici passati del movimento

comunista. Dal momento che apparve subito chiaro che Gorbaciov non era né un Trotzky né un Mao

Tsetung (che molti di noi vedevano come l'uscita rivoluzionaria "a sinistra" dallo stalinismo, secondo una

vulgata sostanzialmente inesatta, che si era però sedimentata nella coscienza di molti oppositori mi-

noritari al comunismo ufficiale), io pensai che esso dovesse e potesse essere un Bucharin. Un comunista

di "destra", dunque, ma pur sempre un comunista nel senso di Marx e di Lenin. Un comunista che

riuscisse nell' auspicata "quadratura del cerchio" del mantenimento e dello sviluppo di una società di

transizione al comunismo compatibile con la reintroduzione integrale delle conquiste universalistiche

della liberaldemocrazia (garanzie giu-ridiche alla libera espressione, libera attività di autogoverno

politico e di autogestione economica, ecc). Io volevo credere in questa quadratura del cerchio, e dunque

decisi di guardare Gorbaciov immaginando che egli fosse Bucharin. Un atteggiamento filosofìcamente e

scientificamente inammissibile, che si giustifica soltanto ideologicamente. A mia parziale discolpa, devo

dire che lo mantenni soltanto fino a metà del 1988, mentre altri continuarono ad averlo fino al 1991 e

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oltre. Come già scrisse Einstein, di due cose egli era convinto, dell'infinità dell'universo e della infinità

della stupidità umana, ma dell'infinità dell'universo non era però sicuro.

L'illusione Gorbaciov è dunque un fenomeno intellettuale che deve essere tenuto ben distinto dal

problema storico della perestrojka, di chi la mise in moto, e di quale fosse la sua logica storica immanente.

La domanda storica è dunque questa: si trattò di una scelta storica che fin dall'inizio si riprometteva

coscientemente una dissoluzione capitalistica del comunismo storico novecentesco, oppure non fu cosi,

ma si trattò di una precipitazione imprevista e non voluta, che a un certo punto "prese la mano" del

guidatore ? E questo ovviamente il problema di fondo. È un problema storico, e io che non sono uno

storico non vi posso rispondere seriamente. Posso però suggerire, e lo farò nel prossimo paragrafo, che il

problema posto così è fuorviante, e non dovrebbe essere posto in questo modo, ma in un altro.

La logica immanente della perestrojka : 1985-1991

Interroghiamo quindi teoricamente la perestrojka di Gorbaciov, liberi ormai dalla volontà di

credere e dal bisogno di sapere. Prima di farlo, però, voglio esplicitare al lettore tre mie convinzioni

storiografiche ben precise, che voglio anche sottoporre alla sua eventuale critica.

In primo luogo, ritengo che lo stalinismo sia stato un fenomeno storico globale, che ha costituito

una specifica società di classe, divisa in dominanti e dominati (come chiarito bene da Charles

Bettelheim, e in Italia, fra gli altri, da Aldo Natoli). Questa classe di dominanti, al di là del modo

corretto di "denominarli" (burocrazia, borghesia di stato, ecc), si è storicamente costituita attraverso due

grandi processi storici, il primo piano quinquennale (1929-1934) e i grandi processi staliniani (1936-

1938). I grandi processi e il terrore devono essere dunque visti a mio avviso non come un crudele

"incidente di percorso" dovuto alla sospettosità caucasica di un tiranno ma come un momento (il

secondo momento) di un processo di costituzione di una classe dirigente di dominanti. Milioni di

persone hanno sostituito altri milioni di persone nei ruoli dirigenti del partito e dello stato attraverso il

primo piano quinquennale e attraverso i processi staliniani. Ogni altro modo di considerare questi tragici

eventi di "costituzione" di una società finisce con l'essere economicistico (la valutazione economica e

neutrale del piano quinquennale come risposta pianificata all'anarchia del capitalismo scosso dalla crisi

del 1929) o moralistico (la condanna di una simile ondata ingiusta e sanguinaria di processi). Lo stalinismo

fu prima di ogni altra cosa la costruzione sociale di un'inedita società classista divisa in dominanti e

dominati.

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In secondo luogo, ritengo che il krusciovismo (e in particolare il famoso XX congresso del Pcus del

1956 con successiva destalinizzazione dall'alto) sia stato un fenomeno storico di consolidamento di questa

specifica società classista divisa in dominanti e dominati, nel senso che i dominanti hanno smantellato

un sistema di insicurezza e di terrore che toccava anche loro, e non soltanto i dominati. Il sistema di

Stalin era infatti altamente "informalizzato", e pertanto casuale e arbitrario. Esso conteneva anche ro-

busti elementi operaistici e populistici, proprio per il tipo di legittimazione che si era dato durante la

sua costituzione negli anni trenta (stachanovi-smo, proletarizzazione del costume e dei comportamenti,

ecc). Il 1956 non è dunque a mio avviso una data di rottura, ma una data di consolidamento di un

sistema classista. A riprova di questo c'è il fatto che non si hanno reali mutamenti nell'economia nella

politica e nell'ideologia, ma soltanto la diffusione della ridicola ideologia tautologica del cosiddetto

"culto della personalità". La tirannia di Stalin si spiega con il fatto che il tiranno si faceva omaggiare

come un tiranno. Fantastico!

In terzo luogo, ritengo che il breznevismo, cioè il periodo che prende il nome da Breznev (1964-

1982), non debba essere considerato come una semplice fase di "stagnazione" (come vuole un

consolidato e sciocco luogo comune), ma sia forse il periodo sociologicamente più interessante dell'in-

tera storia del comunismo storico novecentesco. Esso appare poco interessante a tutti i superficiali

perché formalistico, plumbeo e noioso, e perché i burocrati pieni di medaglie e con il viso stolido e

bovino stanno impettiti sulle tribune per ricevere l'omaggio di masse inquadrate, atomizzate e

omaggianti. Ma questa è una valutazione estetica, non storica e politica. Il "breznevismo" è in realtà il

momento della verità dell'intero comunismo storico novecentesco, l'esplicitazione del suo nichilismo

latente, la trasformazione in tecnica della sua metafisica originaria (se posso civettare con le categorie di

Heidegger). È sotto il breznevismo che si realizzano tre elementi storici fondamentali. Primo, la

trasformazione del comunismo storico novecentesco in un vero fenomeno mondiale, assente nelle due

fasi precedenti (dall'Etiopia all'Angola, dall'Afganistan al Nicaragua, ecc). Soltanto il noto

provincialismo italiano può confondere questo fenomeno grandioso con il "kabulismo". Secondo, il

consolidamento di una economia parallela, già potenzialmente privatistico-mafiosa, che in questa fase non

sfida ancora l'economia statale, ma ne integra armonicamente le disfunzioni. Terzo, la formazione di un

immenso ceto medio urbano, in parte gravitante verso i dominanti e in parte versi i dominati, che

comincia a costruire i pro-pri luoghi di riunione e di associazione negli interstizi del partito e dello

stato, e che è ormai del tutto estraneo sia al marxismo dogmatico di legittimazione del partito-stato sia

(ed è questo purtroppo il punto più importante) a tutti i marxismi critici di opposizione e di correzione

del sistema.

Fatte queste tre premesse storiografiche fondamentali, siamo ora in grado di affrontare il

fenomeno Gorbaciov in modo indipendente dalla volontà di credere. In primo luogo, occorre ribadire che

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Gorbaciov non è l'esponente del popolo sovietico, o della immortale causa del socialismo, o della

tradizione di Marx e di Lenin (questa appunto è volontà di credere), ma è invece il rappreseli canee

organico dei dominanti e della loro natura classista di dominio. Il problema dei dominanti è il seguente:

come è possibile continuare a dominare nelle nuove condizioni storiche? Questo è il loro problema, non

ancora il problema, che si porrà soltanto nel delicato biennio 1987-88, se questo dominio avrebbe potuto

essere meglio garantito da una autoriforma del socialismo oppure da una aperta restaurazione privati-

stica. E dunque metodologicamente sbagliato chiedersi se fin dal principio Gorbaciov e la sua cordata

volessero "svendere" il comunismo storico novecentesco oppure volessero soltanto "riformarlo". Chi

pone così il problema non sa neppure che cosa è il nichilismo, e dovrebbe allora fare una piccola cura di

Nietzsche e di Heidegger. L'ideologia della classe dei dominanti delle società tardo novecentesche è il

nichilismo, e il nichilismo è pronto a tutto e al contrario di tutto. Sa che Dio è morto, e in presenza della

morte di Dio sa che l'ultimo uomo può e deve agire senza vincoli di nessun tipo.

Cerchiamo ora di periodizzare sommariamente la perestrojka di Gorbaciov, con l'avvertenza che

non sono uno storico, e spero allora che uno storico serio (ad esempio Andrea Catone) mi corregga.

Distinguerei tre periodi fondamentali, il 1985-1987, il 1987-1989, e infine il 1989-1991. Il secondo

periodo è a mio avviso quello fondamentale.

Nel primo periodo, 1985-1987, Gorbaciov avvia la perestrojka. Egli non è ancora Gorby, l'idolo

degli occidentali e degli intellettuali progressisti, che non gli prestano ancora nessuna attenzione, e

credono ancora che il piccolo mondo del differenzialismo post-moderno sia l'ombelico culturale

dell'universo pensante. Gorbaciov si presenta (e probabilmente si autoin-terpreta soggettivamente) come

un riformatore alla Andropov, che si batte contro l'alcolismo, l'inefficienza e il disordine produttivo. Per

utilizzare la terminologia di Althusser, in questa fase la sua ideologia è ancora lo "storicismo", cioè la

credenza nella linearità del progresso storico e pertanto nella "causa" del socialismo, "l'economicismo",

cioè la credenza nel primato della razionalità produttiva e della soluzione "neutrale dei problemi"

dell'organizzazione sociale, e infine l'"umanesimo", cioè la concezione di un punto di vista umano

superiore alle classi e dai loro interessi particolari e corporativi. In proposito, vale la pena rilevare che il

marxismo sovietico era già dopo il 1956 una ideologia tricefala di tipo storicista, economicista e uma-

nista (su questo il vecchio Althusser aveva visto giusto precocemente), e ancora che ogni classe di

dominanti non vede mai se stessa come classe di dominanti, ma si autointerpreta come rappresentante

degli interessi universalistici dell'Uomo, che nella storia costruisce la sua Economia.

Nel secondo periodo, il cruciale periodo 1987-1989 le forze sociali messe in moto da Gorbaciov,

nel frattempo divenuto Gorby, l'idolo del jet-set culturale internazionale dei confusionari di sinistra,

sfondano i limiti ristretti della razionalizzazione produttiva alla Andropov del primo Gorbaciov. A livello

ideologico si aprono dibattiti sulla proprietà socialista, la nuova società civile socialista e soprattutto la

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critica al cosiddetto "sistema amministrativo di comando" (questi tre dibattiti sono stati studiati in Italia

principalmente da Andrea Catone). Si tratta di un dibattito ideologico fuorviante, perché la sua

terminologia è ancora apparentemente di "sinistra" (e dunque i seguaci di Marx, Granisci, e Trotzky

possono trovarvi brandelli del loro lessico preferito), mentre la sua logica di sviluppo va verso la più piena

e totale apologetica capitalistica. È soprattutto il nuovo ceto medio urbano sovietico che si sposta

decisamente verso la restaurazione capitalistica (l'anno decisivo è in proposito il 1988), mosso sia dalla

speranza di più alti consumi sia dall'odio pregresso verso la volgarità e la violenza degli apparati politici

professionali. Ma sono anche importanti "pezzi" di classe operaia che vanno nella stessa direzione,

come gli sciagurati minatori sostenitori di Eltsin. Lo stesso Eltsin debutta come fustigatore dei privilegi

e delle ruberie dei dominanti, e il fatto che si sposti poi in restauratore di un capitalismo mafioso e

selvaggio non deve essere visto come una conversione improvvisa o come una astuzia , ma (esattamente

come nel caso di Gorbaciov) come la normale reazione di un esponente della classe di dominanti alla ri-

cerca affannosa ed empirica di una forma stabile di prosecuzione e di stabilizzazione del dominio. A

cavallo fra il 1988 e il 1989 appare ormai chiaro che l'ipotesi originaria di perestrojkn, l'autoriforma

alla Andropov, non è più praticabile. Ed è allora l'intera classe dei dominanti che si sposta verso una

nuova forma di mantenimento del loro dominio, in direzione di una integrazione accelerata

nell'economia capitalistica internazionale (ed "esplodono" allora a livello ideologico le più folli e deliranti

apologie del mercato capitalistico, dei costumi borghesi, della vecchia Russia zarista, ecc).

Gorbaciov segue semplicemente questa tendenza, e questo non deve essere semplicemente

interpretato come "immobilismo", ma deve essere visto come prova della sua organicità alla classe dei

dominanti del comunismo storico novecentesco.

Nel terzo periodo, il triennio 1989-1991, dalla "caduta" del muro di Berlino all'autoscioglimento

dell'Urss, si ha la sanzione storica definitiva della dissoluzione del comunismo storico novecentesco.

Questo triennio non è affatto storiograficamente "semplice" come sembra. Da un lato, si è di fronte a un

collasso esteticamente ammirevole per la quantità veramente minima di violenza (in rapporto ovviamente

alla grandezza del fenomeno, e prescindendo ovviamente dai conflitti nazionalistici, dalla Jugoslavia al

Caucaso) e per la stupenda unità di tempo e di luogo nella consumazione della tragedia. Dirò di più, da

un punto di vista teatrale si tratta di una tragedia che si svolge con modalità integralmente comiche, e

questo è veramente il più grande regalo che il comunismo storico novecentesco poteva fare alla storia del

teatro mondiale. Dall'altro, il giungere del "momento della verità" costringe molti attori a rivelare il loro

vero volto, che spesso è il contrario di quello che sembra. Ad esempio il Pci, che per vent'anni si era

presentato come il partito comunista meno filosovietico del mondo, rivela di essere invece il più

dipendente dagli esiti finali del comparto sovietico del socialismo (e infatti mentre i comunismi francese,

greco, indiano, ecc, non si sciolgono automaticamente in "tempo reale" con quello sovietico, il comuni-

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smo italiano lo fa, mostrando ai pochissimi che vogliono rifletterci sopra la propria affinità segreta con la

classe dei dominanti sovietici).

Non intendo descrivere storicamente nei dettagli questo ultimo triennio. In Urss si apre il conflitto

fra due cordate rivali della classe dei dominanti, e vincono infine, come è logico e normale, coloro che

sono maggiormente appoggiati dal grande capitale finanziario transnazionale e dagli imperialismi

americano e tedesco. Si tratta di coloro (ed è la cordata Eltsin contro la cordata Gorbaciov) che sono

disposti cinicamente a tutto, anche alla frammentazione geografica di un insieme geopohtico

costituitosi negli ultimi mille anni. Tutto ciò non è comunque per nulla "assurdo", dal momento che la

classe sovietica dei dominanti ( costituitasi a tappe sotto Sta-iin, Kruscev e Breznev) non ha né le

capacità né le attitudini per riciclarsi velocemente in una nuova efficiente borghesia capitalistica, e deve

dunque consegnarsi quasi senza condizioni alla grande finanza internazionale, e alla mafia che le fa da

avanguardia. Ancora una volta, nessun errore e nessun tradimento, ma una logica ferrea e

comprensibile.

La forma implosiva della fine del comunismo storico novecentesco

Alla luce di questa mia interpretazione "strutturale" (il comunismo storico novecentesco finisce

semplicemente perché la classe sociale e il partito politico che lo sostengono non sono capaci di

transizione intermodale post-capitalistica) non c'è ovviamente spazio per le teorie dell'errore" e del

"tradimento". Intendiamoci, errori e tradimenti abbondano nella storia della dissoluzione del

comunismo storico novecentesco, così come avviene in tutte le dissoluzioni, dall'impero romano

all'impero bizantino. Ma i tradimenti e gli errori sono interessanti eventi di superficie, epife-nomeni

secondari. Non sono in nessun modo la "causa" di grandi eventi storici epocali. E dunque interessante,

e nello stesso tempo desolante, leggere i bilanci teorici contenuti nelle testimonianze biografiche di

protagonisti come Ligaciov, Lukianov o lo stesso Gorbaciov. Vivendo in un ambiente disseminato di

insidie quotidiane e di lotte di cordata spietate, è normale che il burocrate comunista interpreti anche la

grande storia mondiale in chiave di insidie e tradimenti. Abbiamo già ricordato che il burocrate è una

categoria storica e sociologica realmente e corposamente esistente, ma non esiste più se si prende a

pretesto la sua esistenza per "dargli la colpa" delle deformazioni del socialismo o della caduta del

comunismo storico novecentesco. La "colpa" , ammesso che questa ridicola parola possa essere usata in

un contesto tragicamente serio, è sempre soltanto della incapacità intermodale della classe operaia e dei

suoi partiti. Ma questa appunto non è una "colpa", non da luogo a tradimenti o a errori, ma soltanto a

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bilanci seri di tipo scientifico e filosofico, in vista della possibilità di tentare un'altra possibile transizione

post-capitalistica con una differente composizione sociale, politica e culturale.

Bisogna invece interrogare la forma implosiva della dissoluzione del comunismo storico

novecentesco, chiedendoci se per caso essa non possiede un importante significato storico autonomo. A

mio avviso essa lo possiede. Questo ammirevole "autoscioglimento" pacifico, questa resa senza condizioni,

ecc, è un fenomeno problematico, di cui occorre dare l'interpretazione. Certo, essa è innanzitutto la

"rivelazione" del cinico nichilismo dei dominanti e della ridicola incapacità dei dominati. Ma queste

parole suonano mo-ralistiche, e dunque sconsigliabili per un'analisi sena e strutturale. Bisogna cercare

altrove.

La forma dell'implosione storica è in realtà la forma storica adeguata per ottenere due risultati con un

solo atto. Implodendo e autosciogliendosi pacificamente con una resa unilaterale non contrattata, la

società classista del comunismo storico novecentesco libera simultaneamente in alto la classe dei

dominanti nella forma della candidatura e del riciclaggio a ceto professionale di mediazione politica del

nuovo sistema capitalistico (questo è per esempio evidente anche nel passaggio italiano dal Pci al Pds) e

in basso la classe dei dominati come plebe dispersa e disorganizzata, forza lavoro astratta ideale per lo

sfruttamento delle nuove oligarchie finanziarie transnazionali (e si studi su questo la figura emblematica

del finanziere Soros e della sua fondazione rivolta espressamente ai paesi est-europei). Si tratta dell'ul-

timo regalo avvelenato del comunismo storico novecentesco. Mi rendo conto che quanto sto dicendo è

orribile, ed è dell'ordine della descrizione dei campi di sterminio nazisti e delle reti internazionali di

sfruttamento della pedofilia e della prostituzione infantile. Ma in queste cose non bisogna farsi trascinare

troppo dal moralismo, e tenere i nervi a posto. Ad esempio è curioso che due dissidenti sovietici

tradizionali, il laico tradizionalista e positivista Zinoviev e il religioso ortodosso Solzenitsin, siano giunti

indipendentemente a conclusioni relativamente simili: la società classista di Breznev era certamente

orribile, ma la società a capitalismo mafioso, creata congiuntamente dallo sfasciacarrozze Gorbaciov e

dall'ubriacone cronico Elt-sin, lo è mille volte di più. Si tratta di un "mistero dialettico", la cui

comprensione è possibile soltanto a chi pratica il pensiero dialettico. Chi non lo pratica è sordo e cieco di

fronte a eventi tanto significativi e solenni.

A questo punto, sembrerebbe che il bilancio storico del comunismo storico novecentesco sia da

considerarsi catastrofico. Ebbene no. Anche questo è ovviamente un mistero dialettico. La natura "interna"

del comunismo storico novecentesco è stata generalmente ripugnante (ma non lo è stata in tutti i paesi,

ad esempio non lo è stata a Cuba e in Cina), ma la sua natura "esterna", cioè l'influenza globale che ha

avuto nella storia complessiva del Novecento, non lo è stata. A questo bilancio storico complessivamente

positivo è dedicato il prossimo capitolo, che è il quarto di questo breve saggio.

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Capitolo IV

Un bilancio storico del comunismo storico novecentesco (1917-1991)

Il capitolo precedente si conclude con un giudizio molto severo sul comunismo storico

novecentesco. In primo luogo, esso è connotato (seguendo la terminologia di Charles Bettelheim) in

termini di società classista divisa in una classe di dominanti e in una classe di dominati, una società

classista di tipo non capitalistico, ma interna egualmente al raggio di riproduzione del modo di

produzione capitalistico, a causa (e questa non è più l'opinione di Bettelheim, ma la mia personale) della

strutturale incapacità di transizione intermodale della classe operaia, da Mane erroneamente considerata

capace di svolgere questa funzione. In secondo luogo, il suo scioglimento in forma implosiva è giudicato

in maniera particolarmente vile e abbietta, perché dominato dalla necessità di riciclaggio della classe dei

dominanti che "consegnano" ai nuovi padroni (le oligarchie finanziarie transnazionali) i loro precedenti

dominati ridotti in situazione di plebe dispersa e disorganizzata. Sono perfettamente cosciente del fatto

che entrambi questi argomenti possono essere "rovesciati" come un guanto. Da un lato, si può sostenere

che l'esistenza di due classi di dominanti e di dominati nel comunismo storico novecentesco non prova

nulla, se non il carattere irrimediabilmente utopico e irrealizzabile di chi sogna della possibile esistenza

di una società senza classi (in questo caso, lo stesso Marx), ed è più che sufficiente rilevare che le

"distanze sociali" fra dominanti e dominati sono state nel comunismo storico novecentesco minori che in

tutte le altre società classiste (tesi questa molto diffusa fra i nostalgici del comunismo, che evidentemente

non conoscono però le società socialdemocratiche scandinave del Novecento, capitalistiche e nello

stesso tempo molto più egualitarie di quelle del comunismo storico novecentesco). Dall'altro, si può so-

stenere che la forma dell'autoscioglimento pacifico del comunismo storico novecentesco è stata

civilissima e ammirevole, perché ha risparmiato al genere umano un sgradevolissima terza guerra

mondiale. In fondo se il principio filosofìco del capitalismo è stato "meglio morti che rossi" il principio

filosofìco implicito negli ultimi vent'anni del comunismo storico novecen-tesco è stato "meglio sfruttati

dal capitalismo che morti".

Se questo non è umanesimo integrale, mi chiedo cosa sia allora l'umanesimo integrale.

Il comunismo storico novecentesco si presta dunque a un'interpretazione positiva. È esattamente

questa l'interpretazione che daremo in questo capitolo, iniziando dalla rivoluzione russa del 1917.

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La rivoluzione russa del 1917

La borghesia imperialistica europea gettò i suoi popoli nel bagno di sangue del 1914, e li gettò

senza alcuna vera giustificazione morale. Questo è il punto di partenza di tutto. Il movimento socialista

della Seconda internazionale (1889 - 1914) fu in grande misura impotente e complice. La minoranza

rivoluzionaria marxista che levò la bandiera rossa dell'opposizione a questa resa (boiscevichi russi,

spartachisti tedeschi, internazionalisti di tutti i paesi) fu dunque pia ohe giustificata. Se mom si comprende

questo si è "disarmati" di fronte alla tesi storiografica fondamentale dei cosiddetti "revisionisti" (il

tedesco Nolte, ma anche per molti aspetti il francese Furet), secondo la quale furono i bolscevichi di

Lenin a dichiarare per primi unilateralmente la guerra civile internazionale, e fu dunque comprensibile

(anche se deprecabile) che in risposta ci siano stati eccessi (come quelli nazisti, ecc). I revisionisti fingono

che il 1914 non sia mai esistito, o sia stato una data deprecabile ma non epocale, e che il 1917 sia stato

l'origine del male. Questa è una menzogna. Essi presuppongono che la guerra fra stati sia legittima (in

quanto conforme fondamentalmente allo jus puhlicum europaeum), e che perciò i governi possano

dichiarare una guerra evitabilissima con milioni di morti senza perdere la loro legittimità, ma che i

popoli non abbiano diritto alla rivoluzione e alla resistenza. Canaglie! Chi conosce la storia del pensiero

politico borghese classico, e cioè del giusnaturalismo e del contrattualismo, sa che perfino il

moderatissimo Locke giustifica il diritto di resistenza contro ordini ingiusti e illegittimi. Tutto questo

fu dimenticato ad esempio da Hannah Arendt, che contrappone la rivoluzione americana, positiva, alle

rivoluzioni francese e russa, negative. In realtà la rivoluzione americana e quella russa hanno un elemento

materiale in comune, il diritto dei popoli alla resistenza contro ordini illegittimi. O vogliamo seriamente

sostenere che era illegittimo tassare i coloni di Boston mentre era legittimo scagliare milioni di russi alla

conquista di Costanti-nopoli e alla spartizione imperialistica del crollante impero ottomano? Chi ragiona

onestamente sa che questo è insostenibile razionalmente, e può essere sostenuto solo in malafede.

La rivoluzione russa del 1917 è dunque storicamente più che legittima, ed è una rivoluzione di

"difesa" contro lo sterminio imperialista. Si tratta di una vera e propria legittima difesa. Questa legittima

difesa è ovviamente nello stesso tempo un attacco al sistema capitalistico mondiale, ma è un attacco solo

indiretto, potenziale. In realtà furono gli alleati, cioè le potenze del sistema capitalistico mondiale, ad

attaccare per primi fra il 1918 e il 1920 la Russia rivoluzionaria, con il pretesto di sostenere il loro

schieramento preferito nella guerra civile. Abbiamo dunque qui almeno due date di aggressione

unilaterale: il 1914, lo scoppio della sanguinosa guerra mondiale imperialistica; il 1918, l'aggressione

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armata di un paese rivoluzionario, che aveva appena dichiarato la pace unilaterale senza vantaggi e

annessioni. Queste due date, la cui conoscenza è alla portata di qualunque liceale intelligente, sono

evidentemente ignote alla Arendt, a Nolte, a Furet, ecc. Si noti bene che la giusta valutazione di questi

eventi storici è del tutto indipendente da Marx, dal marxismo, dall'utopia rivoluzionaria, e da qualun-

que filosofia della storia. Si tratta di una "mossa iniziale" e storiografica. Se questa mossa è in malafede,

la discussione onesta diventa impossibile. A mio avviso, il comunismo storico novecentesco, qualunque

ne sia stata la natura e l'evoluzione storica, ha avuto un'origine legittima, non solo in senso fattuale ed

empirico (legittimo è ciò che vince e sopravvive, illegittimo è ciò che cade e viene sconfitto), ma nel

senso morale della teoria della comunicazione e dell'argomentazione.

La questione dell'imperialismo nel Novecento

Passiamo a un secondo argomento, che a mio avviso pesa come una montagna. Alla fine

dell'Ottocento si sviluppa il colonialismo imperialistico europeo ed americano, accompagnato

ovviamente da un revival di razzismo. Il razzismo è un fratello gemello del colonialismo, perché il

colonialismo si legittima separando gli uomini in colonizzatoti e in colonizzati. La violenza dei primi è

dichiarata legittima, in nome della civiltà e del progresso, mentre la resistenza dei secondi è considerata

una prova di barbarie illegittima. In Italia sono stati in particolare alcuni ammirevoli studi di Domenico

Losurdo che hanno sottolineato il fatto che il colonialismo imperialistico, razzista in modo quasi

fisiologico, deve negare anche filoso-ficamente l'unità del genere umano. Il Socialismo della seconda

internazionale è su questo punto incerto e reticente, perché è schiavo dell'ideologia positivistica del

progresso e di un evoluzionismo indebitamente applicato allo sviluppo delle civiltà umane. Ebbene, il

comunismo storico novecentesco, sorto con la rivoluzione del 1917, avrà (e ha) i peggiori difetti di que-

sto mondo, ma su questa questione del colonialismo, dell'imperialismo e del razzismo ha veramente le

carte in regola e le mani pulite. Il grande Le-nin su questo punto non ha incertezze. Nella sua

concezione teorica la legittimità della rivoluzione anticoloniale è netta, precisa e senza equivoci. Tutto

ciò non resta nel puro campo della teoria astratta. Fin dall'inizio l'internazionale comunista (al di là degli

errori tattici e strategici e della successiva manipolazione staliniana) promuove attivamente

l'organizzazione rivoluzionaria anticolonialista e antirazzista dei popoli oppressi delle colonie. Per-sino a

proposito del carattere colonialistico del sionismo il comunismo storico novecentesco ha

sostanzialmente le mani pulite, dal momento che auspica attivamente una Palestina democratica

abitata da arabi ed ebrei, in cui le due comunità abbiano la più completa libertà politica, culturale e re-

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ligiosa, senza espulsioni, processi di "pulizia etnica" e ristabilimenti di forme di colonialismo razzista

mascherati con l'integralismo religioso, biblico o coranico che sia. In America Latina, in India e in Cina

il comunismo storico novecentesco scrive pagine gloriose e indimenticabili fino dagli anni venti. I

comunisti sono gli anticolonialisti più radicali e conseguenti, perche conoscono l'ammirevole teoria

leninista dell'imperialismo, e possono dunque distinguere, anche concettualmente, fra il popolo della

nazione colonizzatrice (potenzialmente fratello) e lo stato colonizzatore (da combattere) . Questa

distinzione è il presupposto filosofico di un vero universalismo, perché consente di non rispondere al

razzismo dei colonizzatoti con un razzismo dei colonizzati. È bene notare che questa fondamentale

funzione anticolonialistica e antimperialista il comunismo storico novecentesco la svolge per l'intero

periodo della sua esistenza, persino durante le più mostruose aberrazioni burocratiche interne. La solidarietà

verso il Nicaragua nel 1979 ha la stessa natura della solidarietà verso l'Etiopia nel 1935. L'appoggio ai po-

poli arabi nel 1967 ha la stessa natura positiva dell'appoggio all'Angola attaccata dai mercenari razzisti

sudafricani nel 1975. Non è un caso che la schifosa e razzista guerra del Golfo Persico del 1991, rivolta

fin dall'inizio non contro il solo Saddam Hussein (che avrebbe potuto essere sconfìtto con trattative

bilaterali da posizioni di forza), ma contro tutti i popoli arabi e il popolo iracheno in particolare, sia stata

resa possibile nella sua unilaterale violenza proprio dallo scioglimento virtuale del comunismo storico

novecentesco inteso come insieme di stati, eserciti, diplomazie e sistemi economici.

Chi scrive è pieno di dubbi su mille cose, ma non su questa. Il comunismo storico novecentesco,

questa società classista divisa in dominanti e in dominati, è stato un fattore storico inestimabile di

solidarietà internazionalista e di appoggio e sostegno a sacrosante rivoluzioni democratiche anticoloniali

e antimperialiste. In un bilancio storico serio del Novecento questo non può essere dimenticato.

La questione del fascismo e del nazismo nel Novecento

Abbordiamo ora il terzo problema. È universalmente ammesso che senza la preliminare esistenza

del comunismo forse il fascismo non sarebbe mai nato, perché è evidente che il fascismo è fondamen-

talmente una reazione antibolscevica. L'interpretazione storiografica sul fascismo come fenomeno

internazionale si divide fra chi ritiene che il fascismo sia fondamentalmente una reazione dell'intera

classe dei grandi capitalisti, e in particolare del grande capitale finanziario, e chi ritiene invece che il

fascismo sia fondamentalmente un movimento e un regime delle classi medie, che poi naturalmente si

alleò con il grande capitale finanziario, ma che quest'ultimo dovette in fondo subire, perché avrebbe

preferito un normale "governo forte" parlamentare. Personalmente, ritengo la seconda in-terpretazione

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più plausibile. In ogni caso si tratta di un problema in parte astratto, perché da quando si realizza la

"fusione politica" fra classi medie e grande capitale finanziario non ha più molto senso parlare di una

loro opposizione alternativa. Non entrerò qui nel problema delle differenze qualitative fra le varie

forme del fascismo e di populismo fascista (anche se dico subito di essere contrario alla confusione fra

fascismo vero e proprio e populismo, e dunque fra Hitler e Peròn), e cercherò di andare subito ai

termini essenziali della questione che ci interessa. Trovo assolutamente normale e non sono

particolarmente scandalizzato dal fatto che vi sia stata in particolare dopo il 1991 una rivalutazione

storiografica del fascismo. Da un lato, la Germania ha perso la sua moderna guerra dei trentanni (1914-

1945), ma ha vinto brillantemente la successiva pace dei quarantanni (1950-1990), ed è dunque

normale che un'ondata culturale revisionista sanzioni culturalmente questa sua brillante vittoria.

Dall'altra, il partito di Gianfranco Fini è uno dei fondatori costituzionali della Seconda repubblica, ed

è dunque normale che qualcosa di analogo avvenga anche in Italia. Tutto questo dunque non mi

scandalizza per nulla. Per me l'unico fascismo veramente pericoloso è quello da evitare per il futuro, e

che può anche non presentarsi con la camicia nera tradizionale, laddove il fascismo del passato può

diventare un legittimo oggetto di indagine storiografica, e non un'occasione per simulare una guerra civile

fra giovani fanatizzati. Nello stesso tempo, non mi scandalizza neppure l'uso della categoria di

"totalitarismo" per connotare simmetricamente il comunismo e il fascismo, accomunati da una

identica negazione del liberalismo e della democrazia parlamentare. Anche in questo caso sono d'accordo

nell'essenziale con Domenico Losurdo: parliamo pure di totalitarismo, se vi fa piacere e se il termine

ha un'efficacia conoscitiva e non solo ideologico-propagandistica, purché questa categoria venga

estesa anche a tutti i fenomeni "totalitari" tipici delle liberaldemocrazie capitalistiche "virtuose". Questo

approccio sembra oggi strumentale ed estremistico, laddove esso era già esattamente l'approccio di

Adorno e dei primi francofortesi impegnati a studiare le forme di manipolazione sociale comuni a en-

trambi i sistemi sociali in opposizione. Nello stesso tempo, non ho neppure nulla in contrario a studiare

le modalità dell'universo concentrazionario (dagli Usa alla Germania nazista, dall'Urss alla Francia

coloniale).

Vi è però una cosa, una cosa sola, una cosa grande come una montagna, su cui il paragone fra

fascismi storici e comunismo storico novecentesco è del tutto improponibile e presuntuosa: il razzismo, il

colonialismo, la negazione esplicita dell'unità del genere umano, la legittimazione delle atrocità coloniali.

So bene che Hitler era contemporaneamente un nazionalista tedesco e un nazista razzista. Come

nazionalista tedesco posso anche in un certo senso comprenderlo e scusarlo: in fondo i tedeschi erano

veramente in maggioranza nei Sudeti e anche a Danzica. Ma come nazista razzista Hitler non è scusabile.

Nei confronti degli ebrei e degli zingari egli fu un aperto genocida (e mi chiedo seriamente come

possano i "negazioni-sti" negare un fatto testimoniato e provato con tanta copia di prove). Ma egli ebbe

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un atteggiamento genocida anche verso gli slavi e quelli che considerava popoli "inferiori". Un discorso

simile può essere fatto anche per Mussolini. So perfettamente che egli bonificò le paludi pontine, e che nel

suo regime la corruzione fu probabilmente minore che nel cinquantennio corrottissimo della prima

repubblica italiana (senza dimenticare peraltro che la mancanza di libertà d'espressione politica e

culturale è una forma di corruzione peggiore della "dazione" in denaro). Ma i gas asfissianti gettati sugli

etiopi che difendevano il loro paese in una giusta guerra di difesa contro un'ingiusta guerra di

aggressione colonialista e razzista sono per me il fattore che fa Ia_differenza. E alla luce di queste

decisive considerazioni che il comunismo storico novecentesco è politicamente e moralmente migliore

del fascismo. Ed è per questo che il ruolo determinante giocato dal comunismo storico novecentesco

nella seconda guerra mondiale deve essere rivendicato in un bilancio positivo della sua esistenza

La costruzione dello stato sociale nei paesi capitalistici

Tutti sanno che oggi viviamo in un triste periodo di smantellamento progressivo dello stato sociale.

Nonostante chiacchiere edificanti su di un fantomatico "capitalismo ben temperato", frutto della tradizione

riformistica europea, si sta andando a tappe forzare verso un capitalismo "selvaggio" di tipo americano (nonostante

la città di Maastricht non sia negli Usa ma nella pacifica Olanda). Vi è tutta una tendenza storiografica che lega lo

stato sociale ai nomi di Ford e di Keynes, cioè della produzione di massa e della politica economica di intervento

statale. In questo modo lo stato sociale appare come un prodotto artificiale di politica economica che risponde a

una crisi endogena di sovrapproduzione e di sottoconsumo, una sorta di generoso regalo di borghesi illuminati.

Si tratta a mio avviso di una interpretazione fuorviante. Io credo invece che senza la "brutale" esistenza del

comunismo storico novecentesco, inteso sia come "campo socialista" di stati, sia come insieme di partiti

comunisti attivi nei paesi capitalistici, persino l'esistenza dello stato sociale sarebbe stata problematica nel

Novecento.

Tocca ovviamente allo storico il compito di indagare le complesse interrelazioni fra fattori esterni e fattori

interni nel processo di nascita, sviluppo e tramonto dello stato sociale. È interessante che nella sua sintesi storica

sul "secolo breve" Hobsbawn dia moltissima importanza al carattere "progressista" dello stato sociale, fino al

punto di caratterizzare come veri e propri "anni d'oro" i decenni posteriori alla seconda guerra mondiale. In ogni

caso, sono convinto che gli storici del futuro, una volta passata la ubriacatura dei primi anni novanta (fine

definitiva dell'utopia rivoluzionaria, morte di Marx, ecc), non potranno che rilevare la stretta connessione esi-

stente temporalmente fra le due esistenze parallele dello stato sociale capitalistico e del comunismo storico

novecentesco. Occorre rilevare in proposito un elemento che generalmente sfugge a molti osservatori.

Nonostante la rottura storica del 1917 e gravissimi momenti di tensione (teoria del so-cialfascismo nel 1929,

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guerra fredda dopo il 1947, con conseguente scelta di campo contrapposta, ecc.) i fili che collegavano il

comunismo e la socialdemocrazia non sono stati mai interamente spezzati. In comune non vi era soltanto un

referente sociologico unitario (i lavoratori salariati, la classe operaia, gli strati popolari) e una cultura politica ricca

di punti di contatto, a causa della longue durèe della tradizione della Seconda internazionale, riprodottasi

sotterraneamente ben oltre il 1914, ma ben più corposamente un'analoga centralità del partito e del sindacato, luoghi

deputati del "far politica" per chiunque volesse essere definito e autodefinirsi un "compagno". Lo stesso dualismo

schizofrenico fra un linguaggio rivoluzionario e massimalistico e una pratica politica e sindacale moderata e

ultrariformistica, dualismo che ha storicamente caratterizzato sia la socialdemocrazia (nel senso classico del

termine) sia il comunismo, non deve essere semplicemente "smascherato" in modo moralistico come inganno

ideologico esercitato dai dirigenti verso i militanti ingenui e sprovveduti, ma deve essere visto come fattore

strutturale nell'azione dei partiti e dei sindacati in quanto tali ( e qui Pareto e Michels ci dicono molto di più

di quanto ci possono dire Trotzky o la Luxemburg). Del resto, e lo diciamo senza alcun interesse verso la

polemica spicciola, lo stesso comportamento politico di forze come il Partito della rifondazione comunista in Italia

dopo il 1991 può essere visto come un esempio di applicazione di una politica socialdemocratica classica che non

osa però presentarsi ideologicamente come tale e deve invece mascherarsi con un folklore culturale eclettico, da

Marx al Che Guevara. In realtà il comunismo storico novecentesco nei paesi capitalistici è stato un fattore interno di

appoggio strategico allo stato sociale, cosi come il campo militare socialista ne è stato un fattore esterno di

pressione. Mi sembra una cosa bella da rivendicare, e mi stupisce che non venga sottolineato abbastanza.

Alcune brevi note sul Pci dal 1945 al 1991

Ho fino ad ora ricordato almeno quattro ragioni di rivendicazione storica di un bilancio positivo del

comunismo storico novecentesco (piena legittimazione morale della rivoluzione del 1917, decisiva funzione

storica nella lotta al colonialismo e all'imperialismo, decisivo contributo nella vittoria contro il fascismo e il

nazismo, appoggio interno ed esterno dato allo stato sociale capitalistico). Si tratta di quattro ragioni più che

sufficienti per legittimare integralmente un bilancio storico positivo del comunismo storico novecentesco a livello

mondiale. In Italia, si aggiunge generalmente a questo giudizio globalmente positivo un quinto argomento. Si

tratta della valutazione positiva, in termini di storia nazionale italiana, del ruolo giocato dal Pci dal 1945 al

1991, data del suo scioglimento. L'argomento classico che viene usato per giustificare questa valutazione

positiva è il seguente: ammettendo pure che la teoria di riferimento e l'organizzazione interna del partito

comunista fossero cattive e non de-mocratiche, la pratica culturale, sociale e politica è stata buona, perché ha

avuto un effetto globale di buona amministrazione locale, di svecchiamento della cultura e di modernizzazione

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del costume. Si sarebbe di fronte, per usare la terminologia del filosofo Vico, a un classico esempio di "eterogenesi

dei fini". Il Pci si riprometteva un fine negativo o impossibile (il comunismo, appunto), ma al di là di quello che

si riprometteva ideologicamente, e che funzionava in pratica soltanto come risorsa ideologica di identità, mi-

litanza e appartenenza interna, questo partito funzionava in pratica nella quotidianità come grande partito di

opposizione democratica al capitalismo italiano e a uno stato clericale pieno di residui fascisti e autoritari. Il Pci

sarebbe in fondo stato un partito democratico (in senso politico e culturale) e un partito socialdemocratico (in

senso sociale), in un paese in cui, per peculiari ragioni di tradizione storica, né l'uno né l'altro avevano potuto

formarsi o consolidarsi.

Io non sono assolutamente d'accordo con questa valutazione, che è in Italia estremamente diffusa "a

sinistra" (e ancora di più lo sarà in futuro, con la probabile egemonia degli apparati culturali del Pds

nell'università e nell'editoria). In base alle motivazioni addotte nei paragrafi precedenti, so- ' no disposto ad

ammettere apertamente che il Pci (anzi, il Pcd'I, per essere storicamente più esatti) ha giocato un ruolo positivo

sia nel periodo 1921-1926 (difesa della rivoluzione bolscevica, sfida globale al capitalismo im-perialistico in

nome di una società nuova e alternativa), sia nel periodo 1926-1943 (clandestinità antifascista, appoggio

militante alla lotta armata difensiva dei popoli dell'Etiopia e della Spagna), sia ovviamente nel cruciale periodo

1943-1945 (partecipazione alla guerra civile italiana in quella che era la parte migliore delle due, la parte

antifascista e antinazista, e quindi antirazzista e di restaurazione liberaldemocratica). Dopo il 1945 la mia

valutazione storica cambia, per la ragione che ora cercherò di argomentare. A mio avviso, dopo il 1945, ovviamente

in sede di storia nazionale italiana, l'Italia si trovava soprattutto ad aver bisogno di un partito democratico di

massa, un partito democratico all'interno e quindi anche all'esterno (dal momento che mi si vorrà benevolmente

concedere che è difficile essere democratici all'esterno se non lo si è anche all'interno). Partiti democratici ce

n'erano, ovviamente (dal Partito socialista a settori della stessa Democrazia cristiana, fino alle formazioni politiche

nate dall'antifascismo liberaldemo-cratico), ma non erano e non volevano essere partiti di massa. Il comunismo

storico novecentesco, essendo un fenomeno politico radicalmente non democratico, in particolare nella sua

struttura e nella mentalità dei suoi aderenti, non poteva adempiere a questo ruolo. Il termine "democratico" non

può infatti connotare semplicemente una democrazia di "mobilitazione" (organizzare le manifestazioni

pubbliche di gruppi numerosi di persone), e neppure avere come parametro di esistenza un ampio consenso

elettorale. Una democrazia è sempre e soltanto anche una liberaldemocrazia, un costume di libertà intcriore ed

esteriore, senza interiorizzazioni psicologiche di discipline sovrastoriche usate come alibi per il compattamento

religioso e militare del gruppo. Chi legge i verbali dei congressi e dei comitati centrali del Pci (due soli esempi

emblematici fra centinaia possibili: l'ottavo congresso del 1956 dopo i fatti di Ungheria e l'espulsione del gruppo

"frazionistico" del Manifesto nel 1969) si trova gettato in un mondo parallelo a quello reale, un mondo onirico e

paranoico in cui è impossibile ragionare pacatamente su qualcosa perché l'onnipresente nemico borghese ci

ascolta e perché il bene supremo del partito è sopra ogni altra cosa. A proposito dello spettro onnipresente del partito

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e della sua unità, spettro usato per decenni contro ogni istanza di verità, bisognerebbe leggere le critiche filosofiche

del giovane Marx alle ipostasi hegeliane (e sostituire ovviamente al termine ipostatizzato di Stato prussiano il

termine ipostatizzato di Partito comunista). Ma questo non è stato fatto per decenni dai cosiddetti intellettuali

comunisti, per il semplice fatto, ben noto a Gesù di Nazareth, che è più facile vedere il fuscello nell'occhio del

vicino che la trave nel proprio.

Io non credo che un partito non democratico possa esercitare veramente una funzione nazionale

democratica, se non ovviamente (e non voglio negarlo per amore della tesi) in casi limitati,

particolari e comunque non globali. Nella mia valutazione globalmente positiva del comunismo

storico novecentesco a livello mondiale non ci sta dunque anche una valutazione positiva in termini di

storia nazionale. Devo dire però che non sono uno storico. Non lo sono, ma conosco abbastanza la

storia, anche se da dilettante, per essere nauseato dalle due scuole storiche nazionali rivali. Da un lato,

la scuola che definirei giobertiana, per cui abbiamo una sorta di primato morale e civile nel mondo,

abbiamo avuto il fascismo e il colonialismo più buoni e bonaccioni del mondo, abbiamo avuto un

comunismo meraviglioso unico al mondo, siamo amati da tutti perché siamo italiani e brava gente,

spaghetti e mandolini, ecc. Dall'altra, la scuola che definirei go-bettiana, per cui siamo il popolo delle

scimmie e del conformismo, a causa della riforma protestante mancata e del risorgimento senza eroi,

dei ministri della malavita, della mafia e della camorra, del clericalismo e della corruzione (cfr. Craxi

e Andreotti, eccetera). A mio avviso, gobettiani e gio-bertiani sono due facce dello stesso

provincialismo, per cui effettivamente un buon corso di lingue straniere può sempre assolvere una

sua limitata funzione positiva (purché ovviamente non sia limitato alla lingua inglese, come chiede il

pensiero unico oggi dominante).

La natura del bilancio storico positivo del comunismo storico novecentesco

A questo punto, un lettore curioso potrebbe chiedere: che senso ha oggi tirare un bilancio storico

positivo del comunismo storico novecentesco, dal momento che esso comunque è finito e appartiene al

passato? Non vi sarà così il pericolo di legittimarlo a. posteriori, proprio quando si ammette apertamente

che esso non ha avuto pressoché nulla a che fare con Marx, che era una società classista divisa in

dominanti e dominati, che si è sciolto dall'alto in modo inglorioso proprio per compiacere i suoi nuovi

padroni capitalisti, eccetera? Non è forse meglio un semplice congedo silenzioso, come fanno le coppie

quando non hanno più nulla da dirsi? Non c'è pericolo di avallare tutti i tentativi di ricostruire e di

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ricostituire inutilmente una variante aggiornata del comunismo storico novecentesco e del marxismo

che gli fa da grillo parlante perennemente inascoltato? Non è meglio congedarsi e basta dalla coppia

formata dal Gatto e dalla Volpe (cioè dal marxismo e dal comunismo), anche perché tutti e due insieme

hanno fatto poi una specie di Pinocchio, che a furia di raccontare bugie gli è venuto il naso lungo?

Buone domande. Proviamo a rispondere, e proviamo a rispondere in quattro punti successivi. In

primo luogo, è necessario distinguere tra un bilancio storico positivo e un bilancio teorico negativo (su

questo punto non mi dilungo, perché vi dedicherò l'intero prossimo capitolo). Questa distinzione è un

fatto di semplice igiene mentale, non si è belli fuori se non si è puliti dentro (come dice l'indovinata

pubblicità di un'acqua minerale), nel senso che bisogna pulire la nostra mente dai pregiudizi per poterci

presentare decentemente a una discussione pubblica. Non si tratta soltanto di una questione di memoria

storica e di salvataggio delle innumerevoli testimonianze di persone dignitose e generose che si sono

battute per il comunismo storico novecentesco e che non meritano che le si confonda post mortem con

i loro boia e aguzzini, non importa se fascisti, liberaldemocratici o stalinisti. Si tratta del fatto che a

opporsi alla distinzione tra bilancio storico positivo e bilancio teorico negativo ci sono due categorie di

confusionari che rendono impossibile ogni razionale discussione culturale. Da un lato, i confusionari

postmoderni, che danno in modo motivato un giudizio teorico negativo sul comunismo storico

novecentesco (pensiamo soltanto alla legittima critica alle grandi narrazioni di Lyotard), ed estendono

questo giudizio teorico negativo all'intero bilancio storico, secondo un approccio molto diffuso tipico ad

esempio di Furet, che dalla critica al giacobinismo inferisce la condanna a tutte le rivoluzioni

anticapitalistiche passate, presenti e future. Dall'altro, i confusionari dogmatici, fondamentalisti e

vetero marxisti, che da un giusto e corretto bilancio storico positivo del comunismo storico

novecentesco inferiscono scorrettamente che anche la sua teoria e la sua pratica non erano poi tanto

male, ha commesso errori e crimini, è vero, ma essi sono spiegabili per la situazione storica d'emergenza in

cui furono commessi, ecc. Personalmente, non frequento più né confusionari di tipo postmoderno, né

confusionari di tipo veteromarxista. Essi sono inconvincibili, spesso cortesi all'inizio, ma inevitabilmente

aggressivi alla fine del "rapporto". La vita è breve, e lo stress deve essere a mio avviso limitato al

massimo. Soltanto il medico può a questo punto ordinarmi di confrontarmi con confusionari

postmoderni o con confusionari veteromarxisti. Dio si occuperà di loro, e siccome Dio è buono, alla

fine saranno certamente tutti salvati, e io con loro, almeno lo spero.

In secondo luogo, bisogna rilevare che un bilancio storico è il migliore rimedio contro l'abolizione

della memoria storica. L'abolizione della memoria storica è oggi attivamente perseguita da molte parti.

Da un lato, la persegue la cultura e il pensiero unico delle oligarchie finanziarie transnazionali, che non

legittimano più il loro dominio con la conoscenza storica (legata ai sistemi scolastici degli stati

nazionali, privi ormai di sovranità monetaria e quindi anche culturale), ma con il binomio

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economia/comunicazione, Fondo monetario internazionale e Internet. Dall'altro, la persegue il ceto

degli ex-dirigenti comunisti riciclati in uomini senza passato e senza memoria, puri portatori astratti

di competenza politica e amministrativa. Saggi come questo sono ovviamente sassolini nell'oceano, se

pensiamo che le due potenti forze sopraricordate controllano i <ae foiidaimenrfi apparati gioumalistico, edi-

toriale e universitario. Ma nessuno può impedire alla farfalla di sbattere le ali.

In terzo luogo, un bilancio storico del comunismo storico novecente-sco ha una grande

importanza sul piano "retorico", e la retorica è oggi, come al tempo degli antichi Greci, l'arte di chi si

vuoi mettere in politica e vuole imparare a zittire i suoi contraddittori nei dibattiti, anzi nei "dibbattiti",

come si dice nel dialetto politichese italiano. Tutto questo personalmente non mi riguarda, ma ritengo

egualmente legittimo che i falsificatori della storia del Novecento e dei suoi eventi più fondamentali

trovino qualcuno che li inchiodi alla loro supponenza e alla loro ignoranza. È dunque giusto che l'arte

retorica venga coltivata con una giusta conoscenza della storia del Novecento, storia in cui il comunismo

storico novecentesco vi fa appunto, come si è detto in precendenza, una certa "figura".

Vi è però una quarta ragione, che è in realtà per me l'unica, necessaria e sufficiente, per

legittimare un bilancio storico positivo del comunismo storico novecentesco. Si tratta di una ragione

fìlosofica. Il comunismo storico novecentesco, questa società di classe divisa in dominanti e dominati che

non c'entra praticamente nulla con il pensiero originale di Marx, è stato un tentativo di "assalto al cielo"

da parte della classe degli oppressi, che hanno voluto colorare di rosso il loro pianeta. Certo, il loro

tentativo è fallito, forse perché il cielo non si può assalire, e bisogna trovare un altro modo per andarci. Il

loro tentativo è fallito anche perché la classe operaia e proletaria è a mio avviso una delle classi

globalmente più incapaci di egemonia reale che la storia umana abbia mai prodotto, e nessuna retorica

operaistica potrà mai nascondere questa evidenza sotto parole roboanti e squillanti. Ma questo non cambia i

dati essenziali, filosofici della questione. Esiste un diritto assoluto alla ribellione da parte di chi è vittima

dello sfruttamento. Nessuno ha il diritto di sottoporre preliminarmente il ribelle a un esame di am-

missione, in cui il ribelle deve dimostrarte che riuscirà a essere più "universalista" e più "efficiente" del

suo sfruttatore. Chi pensa questo, magari in forma implicita, non è mai arrivato a distinguere fra la storia

reale e un concorso universitario. La classe operaia e il proletariato non sono a mio avviso classi

intermodali, ma sono classi sfruttate, e allora nessuno può togliere loro il diritto assoluto a resistere e a

ribellarsi contro lo sfruttamento. Io non chiedo altro per legittimare filosoficamente le ragioni morali di

esistenza del comunismo storico novecentesco. Ma questa valutazione è morale, non teorica. La

valutazione teorica verrà fatta nel prossimo capitolo.

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Capitolo V

Un bilancio teorico del comunismo storico novecentesco (1917-1991)

Nel capitolo precedente ho tirato un bilancio storico complessivamente positivo del comunismo storico

novecentesco. Si è trattato appunto di un bilancio "storico", nel senso che ho inserito il fenomeno globale del

comunismo storico novecentesco nel contesto degli avvenimenti del Novecento (la prima e la seconda guerra

mondiale, l'imperialismo, il colonialismo e la decolonizzazione, il fordismo e il keynesismo, le vicende del

movimento operaio e socialista, ecc.) Inserito nel contesto globale della storia del Novecento, il comunismo

storico novecentesco non vi fa poi una troppa "cattiva figura". È possibile anzi "giustificare" molto di quanto ha

fatto con l'argomento cogente dello stato d'eccezione e dei comportamenti scorretti dell'avversario. In fondo la

s.uoria aon si svolge come una competizione sportiva, in cui ci sono delle regole e si suppone che vi sia anche un

arbitro imparziale per farle rispettare. La storia concreta è purtroppo un conflitto senza regole, in cui ha

perfettamente ragione Cari Schmitt contro l'ipocrisia legalistica liberaldemocratica: sovrano è sempre e soltanto

colui che è sovrano nello stato di eccezione.

Un bilancio teorico è però ben diverso da un bilancio storico. Uso il termine "teoria" nel senso della "teoria

della storia" dei marxiani modi di produzione, che vuole essere scientifica (e a mio avviso fondamentalmente lo

è) in un'accezione epistemologica non empiristica e non positivistica. Una teoria della storia non consiste in una

discussione sugli eventi storici concreti (come si è fatto nel precedente paragrafo), discussione che deve essere

presupposta, ma che non ha assolutamente come oggetto una teoria scientifica della storia. Una teoria della storia

ha come oggetto la genesi, lo sviluppo, la crisi, la transizione da un modo di produzione a un altro. Un bilancio

storico del comunismo storico novecentesco si pone la seguente domanda: nel contesto concreto degli

avvenimenti del Novecento, tenendo conto di tutti i fattori in gioco, il comunismo storico novecentesco ha

giocato un ruolo prevalentemente positivo o prevalentemente negativo, con il presupposto di una preventiva scelta

assiologica di valore consistente in una motivata e argomentata critica al capitalismo? Questa è la domanda, e nel

precedente capitolo vi abbiamo dato una sincera ed esplicita risposta: tenendo conto di tutti fattori in gioco la

risposta può essere moderatamente positiva. Non c'è dunque nulla da "vergognarsi" di essere stati o di essere ancora

presentemente "comunisti".

Un bilancio teorico del comunismo storico novecentesco si pone invece una domanda di tutt'altro genere:

sulla base della teoria dei modi di produzione, indagata alla luce delle attuali novità storiche presenti, è possibile e

opportuno riproporre il modello di transizione attuato dal comunismo storico novecentesco, oppure questo

modello di transizione deve essere integralmente abbandonato e "archiviato" in un passato definitivamente con-

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chiuso? Questa è la domanda, e a questa domanda diamo un risposta esplicita: il modello di transizione deve essere

integralmente abbandonato, e chi ne tenta in qualche modo il "salvataggio" con argomenti giustificazionisti-ci del

passato è un fattore di impedimento attivo al sorgere di una possibile nuova teoria anticapitalistica. In questo

capitolo esporrò tre argomenti e tre conclusioni esplicite a questo proposito. Prima, però, segnalerò un paradosso,

il paradosso in cui ci troviamo.

Il paradosso insuperabile dei nostro presente

Gli epistemologi sanno bene che cosa significa ostacolo episte -mologico. Significa il mantenimento di

convinzioni che rendono impossibile qualunque rottura e superamento di una sintesi teorica invecchiata. Nel

mondo della politica le cose vanno mille volte peggio che nel mondo della scienza. Qui i pregiudizi e le resistenze

sono una forza materiale a volte invincibile. Il comunismo è oggi di fronte a un paradosso irrisolvibile, che non

consente nessuna illusione ottimistica, almeno a breve e medio termine (sul lungo termine sono

ragionevolmente ottimista, ma saremo anche tutti già morti). In breve, enuncerò il paradosso così. Dopo la

caduta del comunismo storico novecentesco i politici comunisti residuali desiderano tenere insieme in forma

organizzata il "popolo comunista",

l'insieme empirico cioè di chi si considera e si professa comunista. Ebbene, la premessa materiale

per conservare l'organizzazione di questo materiale "popolo comunista" (giovane, di mezza età o vecchio

poco importa, dal momento che non ha età il fatto che la via delle illusioni è più facile della via delle

verità) sta proprio nel mantenimento dei suoi pregiudizi. In caso contrario il pericolo dello scioglimento

e della dispersione sarebbe reale. In altre parole, la comunità non può essere tenuta insieme sulla base

della verità. La comunità può soltanto essere tenuta insieme sulla base della menzogna. Ma la menzogna

ritarda inevitabilmente la resa dei conti e il congedo con una teoria e con una prassi oggi assolutamente

ineffettuali. Gli interessi "tattici" del mantenimento presente di un "popolo comunista" organizzato

sono in conflitto insanabile con l'interesse "strategico" di produrre una nuova teoria e una nuova prassi

anticapitalistiche all'altezza delle contraddizioni storiche di oggi.

Mi rifiuto, per dignità e rispetto della verità, di annacquare questa terribile constatazione con generi

che e ipocrite frasi sulla "speranza". Il paradosso che ho enunciato è oggi una malattia assolutamente

incurabile. Considero l'ottimismo una forma di irresponsabilità nel caso migliore (la buona fede) e una

forma di cialtroneria nel caso peggiore (la mala fede). L'aspetto più doloroso di questo paradosso sta nel

fatto che soltanto chi è animato da interessi teorici e pratici anticapitalistici può essere interessato a un

programma di rottura teorica con il vecchio modello del comunismo storico novecentesco. Chi invece

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sceglie una linea di piccolo cabotaggio interna all'attuale capitalismo può tranquillamente rivendicare

storicisticamente gli innumerevoli "lati positivi" della storia passata del comunismo storico

novecentesco, secondo lo stile di pensiero che abbiamo proposto nel quarto capitolo. Da un simile

paradosso oggi non se ne può uscire, e diamo subito l'appuntamento nel prossimo millennio (che in

fondo non è lontano). Nel frattempo, proporrò tre successivi paragrafi consacrati a una "rottura

integrale" con il modello teorico del comunismo storico novecentesco. È proprio questo che intendo con

il termine di bilancio teorico "negativo".

II capitalismo delle attuali oligarchie finanziarie transnazionah

Ciò che viene oggi definito sommariamente capitalismo internazionale, caratterizzato

dall'egemonia militare e culturale degli Usa e dalla crescente polarità concorrenziale fra Europa, Usa e

Giappone, è in realtà una transizione capitalistica caratterizzata da tratti specifici. Il mondo della terza

rivoluzione industriale non è più quello della seconda rivoluzione industriale, che generò a suo tempo il

movimento operaio e socialista e indirettamente il comunismo storico novecentesco. A mio avviso questo

non è più un capitalismo caratterizzato dalla polarità fra borghesia e proletariato. Si tratta di un

capitalismo post-borghese e post-proletario, in un senso che occorrerà chiarire, per non dar luogo a

provocatori equivoci. Se si decide di definire "borghesia" l'insieme degli individui e delle famiglie

titolari di diritti di proprietà sui mezzi di produzione è evidente che la borghesia c'è ancora, e non è mai

stata forse tanto fiorente. Nello stesso modo, se si decide di definire "proletariato" l'insieme sociologico

di coloro che devono vendere la loro forza-lavoro per vivere, la classe operaia occupata insieme con quella

disoccupata (il marxiano esercito industriale di riserva), oppure l'insieme allargato di tutti i lavoratori

salariati del mondo, includendovi gli occupati nei servizi (il cosiddetto "terziario avanzato"), i tecnici, gli

impiegati, gli ingegneri, i medici ospedalieri, ecc, è evidente che il proletariato c'è ancora, e non è mai

stato forse tanto numeroso. A mio avviso si tratta però di una sorta di "trucco contabile" che può riuscire

forse in sociologia, ma non ha alcun valore se viene utilizzato per la comprensione storica degli eventi

attuali. La borghesia e il proletariato non sono infatti semplici aggregati numerici quantitativi definibili

mediante successive operazioni numeriche di addizione e sottrazione, sulla base di una preventiva de-

finizione fondata sulla proprietà o meno dei mezzi di produzione (trascurando qui il problema, che pure

è assai rilevante, di una corretta definizione della nozione di mezzi di produzione). È curioso che questo

approccio sociologico, cieco di fronte alla storia reale, si legittimi spesso teoricamente con l'uso non

sorvegliato di una terminologia filosofica ultradialettica e ultrahegeliana, definendo come Classe in Sé

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l'insieme aggregato di coloro che hanno o meno titoli di proprietà giuridica sui mezzi di produzione, e

suggerendo in questo modo che la Classe per Sé non è che la piena presa di coscienza di questo

aggregato quantitativo. Suggerisco di definire questo approccio "sociologia mistica", con l'avvertenza che

il 90% dei residui marxisti empiricamente esistenti sono tuttora entusiasti cultori di questa sociologia

mistica, e definiscono borghesia e proletariato il fatto che grandi aggregati numerici di ruoli sociali si

guardino allo specchio, rendendosi finalmente conto di esistere. L'abbandono esplicito di questa sociologia

mistica è a mio avviso il presupposto teorico per iniziare a "pensare" la struttura reale delle classi del

capitalismo contemporaneo e dei loro attuali conflitti produttivi e distributivi.

La borghesia e il proletariato non sono infatti semplici aggregati statisticamente calcolabili sulla

base dell'assenza o della presenza di titoli di proprietà giuridica dei mezzi di produzione, ma sono

soggetti collettivi di carattere storico, soggetti sociali globali definibili soltanto con l'insieme delle loro

caratteristiche, economiche, politiche e culturali. In proposito, suggerisco di definire negativamente

economicismo, politicismo «e culturalismo la tendenza a isolare uno solo di questi aspetti dall'insieme

dinamico della loro interrelazione, per poi passare alla definizione diretta di borghesia o di proletariato.

Si usa dire che in fondo anche Marx consentirebbe un'operazione di definizione economicistica, dal

momento che egli considerava "il fattore economico" strutturale, e dunque più importante dei "fattori"

politico e culturale, definibili come sovrastrutturali. Non è vero. Non avendo qui lo spazio per

soffermarmi adeguatamente su questo punto cruciale, ricordo soltanto la giusta polemica dii Antonio

Labriola contro la teoria del "fattore economico". La teoria dei modi di produzione non è una teoria del

fattore economico. In ogni caso, la borghesia e il proletariato sono soggetti storici, che non permangono

affatto sempre esistenti per tutto il corso storico del modo di produzione capitalistico, che è un

"processo senza soggetto', nel senso che è un processo strutturale e non è un progetto intenzionale,

teleologico, di un Soggetto variamente antropomorfizzato. È questa appunto la "grande" narrazione

fondata sull'illusione della permanenza di un soggetto pieno, che garantisce con la sua identità la

realizzazione finale del progetto originario. Questo modo di pensare antropomorfico è appunto il modo

di pensare di chi immagina il capitalismo come una grande arena di combattimento fra due squadre di

gladiatori, la Borghesia e il Proletariato, la prima che ha i suoi tifosi sulle gradinate di "destra", e la secon-

da invece sulle gradinate di "sinistra". Questo modo di pensare è in realtà una sorta di religione popolare

subalterna, una secolarizzazione imperfetta di categorie religiose basate sulla lotta fra il Bene e il Male.

La borghesia è peraltro veramente esistita, e ha giocato un ruolo cruciale nel decollo capitalistico.

La produzione di valore promossa dalla borghesia ha contribuito a creare il proletariato, che a partire

dall'Ottocento ha cominciato ad agire come un soggetto collettivo economico e politico. Lo scontro fra

proletariato e borghesia ha caratterizzato soprattutto il periodo della seconda rivoluzione industriale, che

è essa stessa una specifica transizione capitalistica. La transizione capitalistica in cui oggi ci troviamo è

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a mio avviso caratterizzata da un inaudito sviluppo di ciò che a suo tempo Marx definì "potenze mentali

della produzione" (caratterizzandole con il termine inglese, impersonale e non antropomorfico, di

generai intellect). Queste potenze mentali della produzione si manifestano senza la necessità di ricorrere

a supporti storici soggettivi di tipo sostanzialistico, ed è per questo che in un certo senso sono "al di là" sia

della borghesia che del proletariato. Sembrerebbe dunque che la previsione di Marx si sia dopo più di un

secolo brillantemente realizzata, e che pertanto si possa tranquillamente ritornare a Marx e rilanciare un

nuovo ciclo di marxismo ortodosso, dopo la parentesi del fallimento della costruzione del sistema di stati

del comunismo storico novecentesco. Ma non è così, e non è così per almeno due ragioni. In primo

luogo, Marx presupponeva la capacità politica del proletariato di esercitare un controllo storico sulle sue

rappresentanze economiche e politiche, un controllo che avrebbe dovuto essere tanto più efficace quanto

più le potenze mentali della produzione si fossero sviluppate. Non è così, non è stato così in passato, e

non sarà certamente così in futuro. In secondo luogo, Marx prevedeva l'incontro, virtuoso e cooperativo,

fra l'elemento impersonale delle potenze mentali della produzione e l'elemento soggettivo del lavoro

cooperativo associato (dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale). Non è stato così, e non poteva forse

essere altrimenti, dal momento che Marx si è basato su di un modello di divisione del lavoro di fabbrica,

e non su di un modello di divisione del lavoro d'impresa (come è stato brillantemente dimostrato da

Gianfranco La Grassa, che in questo modo si è a mio avviso meritato "sul campo" il titolo di miglior

studioso marxista italiano del secondo dopoguerra). In questo modo le potenze mentali della

produzione non hanno comportato l'apertura della via al comunismo, ma al contrario un inaudito

rafforzamento del capitalismo. In un certo senso i Grundrisse di Marx si sono veramente realizzati, ma si

sono realizzati nel moderno capitalismo, e in particolare nella sua attuale configurazione, dominata da

grandi oligarchie finanziarie transnazionali. A mio avviso queste grandi oligarchie finanziarie

transnazionali non sono più in alcun modo la vecchia borghesia, anche se ovviamente sono necessarie

alcune specificazioni per non cadere subito in altri incresciosi equivoci terminologici.

In primo luogo, con l'enfatizzazione della dominanza delle oligarchie finanziarie transnazionali

non intendo affatto sostenere che lo stato nazionale non esiste più per nulla e che il cosiddetto capitale

industriale "produttivo" è stato fagocitato dal parassitismo delle rendite. Non sono un economista, e

ovviamente in questo campo non pretendo con arroganza di poter descrivere adeguatamente quanto sta

avvenendo. Da un lato, esiste addirittura uno stato nazionale che è oggi uno stato imperiale, gli Usa,

usciti sciaguratamente vincitori dalla guerra fredda, rimasti oggi la sola superpotenza militare e

culturale globale (portaerei, missili intercontinentali, ricatto nucleare permanente, dominio sui media e

sul sistema delle notizie e delle interpretazioni pubbliche consentite, monopolio della lingua inglese in una

forma espressiva "operazionale" e pragmatica, dittatura di fatto sull'abbigliamento, la musica e il

"riempimento" del tempo libero ecc). Gli stati nazionali stanno perdendo la sovranità monetaria, ma

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mantengono la sovranità sul mercato del lavoro, sui flussi migratori, sui principali parametri della

distribuzione interna del prodotto sociale. Dall'altro lato, la dominanza delle oligarchie finanziarie

transnazionali non può a mio avviso essere descritta in termini di "parassitismo", secondo la tradizione

economica del marxismo della Terza internazionale, che per avallare ideologicamente la politica dei

fronti popolari si inventò un capitale finanziario cattivo e un capitale industriale buono, gestito da

borghesi ricardiani e progressisti interessati ad abolire le rendite e a sostenere i salari. La dominanza

delle oligarchie finanziarie transnazionali è oggi a tutti gli effetti "produttiva", in quanto si basa sulla

fluidificazione dei flussi di investimento e sulla flessi-bilizzazione della produzione, secondo modalità che

ad esempio David Har-vey ha descritto molto bene. Per questa ragione è fondamentalmente corretto

parlare di globalizzazione e di mondializzazione della produzione. Si tratta di una sorta di nuova

accumulazione primitiva del capitale su scala mondiale, che deve necessariamente basarsi su di un primato

della liquidità finanziaria. Naturalmente, essendo lo sviluppo del modo di produzione capitalistico

caratterizzato dalla "ricorsività" (e non dalla precipitazione teleologica in un punto magico chiamato

"crollo"), vi sono interessanti analogie con momenti passati della storia del capitalismo europeo e

mondiale.

In secondo luogo, voglio invece sostenere che il dominio delle attuali oligarchie finanziarie

transnazionali dissolve le possibilità di costituzione politica e culturale della borghesia e del proletariato.

Si ammetterà, spero, che una classe per esistere debba costituirsi storicamente, e non esca bella e fatta dal

cervello di Giove. Dal punto di vista della politica, le oligarchie finanziarie transnazionali erodono

inarrestabilmente lo spazio dell'agire politico, riducendo sempre di più la politica ad amministrazione

plebiscitariamente legittimata da leggi elettorali e da sistemi politici chiusi. Il ceto politico professionale

che deve gestire questo sottosistema amministrativo definito "politica" (che in realtà non ha più nulla a

che fare né con la politica degli antichi Greci né con la politica degli ultimi duecento anni) non è più

un ceto politico di rappresentanza, ma è un ceto politico di tipo si-stemico-performativo, che deve

garantire l'esecuzione di vincoli extrapolitici (e pensiamo soltanto agli attuali governi europei di fronte ai

vincoli di Maastricht). Dal punto di vista culturale, le oligarchie finanziarie transnazionali ereditano una

situazione in cui non c'è già più la divisione fra cultura borghese e culture popolari. Le culture popolari

si sono già dissolte nei decenni precedenti trasformandosi in culture di massa eterodirette dagli apparati

dei media, prima giornalistici e ora prevalentemente televisivi. Le culture di massa eterodirette hanno

soltanto "destinatali", che non sono più ovviamente né borghesi né proletari, ma si distribuiscono in

fasce di utenza determinate esclusivamente dal mercato. Incidentalmente, questo processo svuota di

significato la distinzione fra intellettuali borghesi e intellettuali "organici" al proletariato (a mio avviso,

lo stesso concetto gramsciano di "organicità" è oggi completamente obsoleto), dal momento che il

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vecchio ceto degli intellettuali è completamente sussunto negli apparati giornalistico e mediatico,

editoriale e universitario.

Questa non è in alcun modo la fine della storia. Ma è la fine di una storia, la storia della società

capitalistica descritta dal marxismo classico (non importa se ortodosso o eretico) e combattuta dal

comunismo storico novecentesco. La nuova società capitalistica non può essere combattuta da una

prosecuzione o da una rifondazione aggiornata del comunismo storico novecentesco, e per questa

ragione diciamo che il suo bilancio teorico è negativo.

Il tramonto della sequenza Capitalismo-Classe-Partito-Comunismo

Abbiamo sostenuto che l'attuale società capitalistica, globaiizzata e mondializzata, non può essere

più descritta in nome della polarità sociale borghesia/proletariato, e neppure più in nome della polarità po-

litica e culturale destra/sinistra. Si tratta di un capitalismo diretto da oligarchie finanziarie

transnazionali, che perseguono un'unificazione culturale del pianeta su base post-borghese, con un

pensiero unico che è ad esempio di "destra" sul piano economico, di "centro" sul piano politico e di "si-

nistra" sul piano culturale, o meglio della modernizzazione del costume. I proletariati esistono

certamente ancora come aggregati statistici e sociologici, ma sono frantumati su tutti gli altri piani,

distribuendosi in una gamma di situazioni eterogenee che assomigliano più alla varietà del Terzo stato

francese prima del 1789 che alla soggettività unificabile politicamente delle società europee prima del

1917.

Se questo è vero, anche solo parzialmente, è allora improponibile il rilancio di una prospettiva

rivoluzionaria classica, ereditata dalla tradizione intellettuale del comunismo storico novecentesco, e

basata sulla sequenza dei quattro termini capitalismo-classe-partito-comunismo. Si tratta di una se-

quenza notissima, ma la ripeterò egualmente per comodità del lettore, in quanto voglio evitare ogni

equivoco, e l'esperienza della comunicazione intellettuale insegna che gli equivoci sono più facili sulle

ovvietà apparenti che sulle questioni complesse. Questa sequenza è stata del resto il "codice genetico" del

marxismo popolare, il presupposto implicito di ogni concezione del mondo e del senso della storia.

Secondo questa sequenza, il Capitalismo è il punto di partenza concettuale da cui prendere le

mosse. Siamo nel capitalismo, dove la forza-lavoro è una merce, e dove lo sfruttamento economico,

basato sulla estorsione del plusvalore assoluto e relativo, metropolitano e coloniale, ecc, produce un

"mondo alienato", dove l'avere domina sull'essere, la merce sull'uomo, il superfluo sul necessario, ecc.

Come uscire da questo capitalismo? Non certo con incitamenti morali, programmi utopistici, esortazioni

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religiose alla conversione dei malvagi. La storia ha dimostrato che chi si è messo su questa strada ha finito per

lasciare sempre le cose come le ha trovate. Bisogna ricorrere a un demiurgo sociale capace e potente, che

porti il superamento del capitalismo, come avrebbe detto il vecchio Aristotele, dalla potenza all'atto. Questo

demiurgo è stato scoperto da Marx, è la Classe, la classe operaia, il proletariato, allargato a tutti i

lavoratori creativi manuali e intellettuali, direttivi ed esecutivi, operai e ingegneri, infermieri e medici,

ecc. La produzione armonica e pianificata del prodotto sociale necessario non ha bisogno dell'estorsione

parassitarla attuata dalla classe dei capitalisti. La Classe salverà l'Umanità. Ma la Classe ha bisogno di

costituirsi anche sul terreno politico, ed ecco perché ha bisogno del suo Partito. La borghesia potè in fon-

do farne parzialmente a meno (anche se però fece le sue brave rivoluzioni borghesi), perché si costituì

attraverso la produzione economica e tecnologica. Invece il proletariato in fabbrica vive anche la sua

espropriazione delle conoscenze produttive, la famosa sottomissione reale del lavoro al capitale, e ha

allora bisogno di un punto di vita unitario e complessivo su tutti i rapporti sociali. È il famoso Partito1,

già implicito nell'opera di Marx, e brillantemente esplicitato da Lenin ai primi del Novecento. L'unione

fra Classe e Partito, un'unione ovviamente da articolare su scala internazionale con il rispetto delle varie

specificità nazionali e culturali, porterà "scientificamente" l'umanità dal Capitalismo al Comunismo. Il

termine "scientificamente" può essere usato, perché la scienza è previsione, ed è possibile prevedere in

modo infallibile che le potenze mentali della produzione, spinte dalla socializzazione crescente delle

forze produttive, faranno saltare la contraddizione fra carattere sempre più sociale della produzione e

carattere sempre più privato dell'appropriazione.

È questa la sequenza teorica che ereditiamo dal comunismo storico novecentesco. Il lettore

sofisticato e conoscitore dei testi marxisti dirà forse che abbiamo semplificato troppo, e che le cose

sono in realtà più "complesse". Non è vero. I grandi paradigmi scientifici sono sempre caratterizzati da

una relativa semplicità nei loro fondamenti essenziali. Certo, la complessità interviene in un secondo

momento quando si scende nei particolari e nelle applicazioni pratiche al caso concreto. Ma il paradigma

classico del marxismo e del comunismo storico novecentesco è genialmente semplice, ed è quello che

abbiamo riassunto con parole semplici. È questo il paradigma da abbandonare radicalmente, per le

ragioni che ora brevemente ricorderemo.

In primo luogo, la teoria di riferimento ideologico del comunismo storico novecentesco (il

"marxismo" di derivazione engelsiana e kautskiana, cui fu successivamente sovrapposta la componente

"politica" leniniana) si basa sul presupposto della capacità storica di transizione intermodale del pro-

letariato e della Classe. Questo presupposto è completamente infondato, anche se per chiarezza occorre

distinguere tre diversi livelli del discorso, fi-losofico, scientifico e ideologico. Dal punto di vista

fìiosofico, la classe operaia e proletaria è effettivamente più universalistica delle precedenti classi sfruttate

precapitalistiche degli schiavi e dei servi della gleba, per il fatto che la forza-lavoro venduta al capitale è

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astrattamente libera, e può essere per questa ragione il supporto ideale di una dialettica conclusiva fra

servo e signore, dal momento che essa è già giuridicamente e politicamente "egualizzata" con i borghesi.

Da un punto di vista scientifico, invece, la classe operaia è paradossalmente ancora meno dotata di

capacità intermodali di quanto lo fossero astrattamente le classi degli schiavi e dei servi della gleba, per il

fatto che schiavi e servi della gleba erano subordinati soltanto nella divisione sociale del lavoro dei

modi di produzione schiavistico e feudale, mentre nel modo di produzione capitalistico la classe operaia

è subordinata sia nella divisione sociale che in quella tecnica del lavoro, ed è dunque ancora più "interna"

alla riproduzione capitalistica. Mi rendo conto che questa espressione può sembrare provocatoria, ma la

classe operaia è ancora più "capitalistica" della borghesia. Da un punto di vista ideologico, questa doppia

subalternità, sociale e tecnica, provoca il fenomeno della inevitabile recezione del marxismo nella doppia

forma della quasi-religione e della pseudo-scienza: la subalternità nella divisione sociale del lavoro,

comune alle precedenti classi sfruttate degli schiavi e dei servi della gleba, fa sì che il marxismo diventi una

quasi-religione di salvezza, in quanto chi è subalterno nella divisione sociale del lavoro non può che

rappresentarsi la salvezza nella forma messianica dell'onnipotenza (di Dio nei modi di produzione

precapitalistici, della Storia divinizzata nel modo di produzione capitalistico); la subalternità nella di-

visione tecnica del lavoro, specifica della sola classe operaia del capitalismo, fa sì che il marxismo diventi

una pseudo-scienza deterministica di previsione infallibile del crollo del sistema, in quanto chi è

subalterno nella divisione tecnica del lavoro deve anche adottare la forma teorica dominante del suo

sfruttatore, in questo caso il positivismo scientifico borghese e le sue modalità di legittimazione. In

conclusione, il fatto che il comunismo storico novecentesco sia stato una società classista divisa in

dominanti e dominati non è in alcun modo dovuto a un inganno perpetrato contro i pro-letari da

burocrati o da borghesi di stato e di partito, ma è dovuto strutturalmente a una incapacità intermodale

essenziale della Classe di fondare una società senza classi.

In secondo luogo, e di conseguenza, è del tutto illusorio pensare che il Partito possa "sostituire" la

Classe nel compito storico di fondare una società senza classi. Non ritorno qui su argomentazioni già

svolte nei capitoli precedenti. E sufficiente ricordare che il partito, indipendentemente dall'onestà e dalla

capacità di chi lo dirige (vorrei sottolineare bene questo fatto - il problema non è nini "personale") agisce

sempre e soltanto su di un piano politico, e il piano politico non è mai determinante per una transizione

intermodale. Paradossalmente, l'autore di questa tesi è lo stesso Marx, che è forse stato il critico della

politica più radicale della storia del pensiero politico. Il piano politico non incide nella produzione e

nella riproduzione dei rapporti sociali di produzione, ma semplicemente sancisce giuridicamente un

dominio (o una subalternità) già storicamente esistente. Per civettare con il linguaggio di Kant, il fatto

che il partito diventi il luogo sociale di formazione di una classe di dominanti non è per me un giudizio

sintetico, ma un semplice giudizio analitico. Nel concetto marxiano di Classe è contenuta la sua

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subalternità, e nella nozione di subalternità è contenuto lo sviluppo di un ceto sostitutivo di rappresentanti-

sfruttatori.

Occorre dunque abbandonare la sequenza Capitalismo-Classe-Partito-Comunismo. Tolti i due termini

intermedi, resta però sempre, almeno sulla carta, la sequenza Capitalismo-Comunismo. Bisogna semplicemente

riempirla diversamente, con altri termini intermedi di mediazione. Mi rendo conto che non è assolutamente

facile, e che si tratta di una possibile filosofia del futuro. Ma coloro che ci tengono legati alla vecchia impotente

sequenza non fanno che rimandare la resa dei conti con la verità. E non vi è alternativa fra verità e nichilismo.

Oltre la tradizione del marxismo

Vi è ancora una terza "lezione" da trarre dal bilancio teorico del comunismo storico novecentesco. Si tratta

della necessità di un congedo dal marxismo, inteso come processo plurale e pluralistico di teorie parzialmente

rivali, accomunate però da riferimenti essenziali e fondamenti comuni indiscutibili. Da un punto di vista

storiografico, è innegabile che il marxismo non è mai stato unitario, e che la storia del marxismo si risolve nella

storia dei differenti marxismi. Ma questa constatazione non è più vera se si scende su di un terreno epistemologico

e filosofico più profondo. Come la teologia cristiana, profondamente unitaria nonostante le differenze

incredibilmente grandi fra cattolici, protestanti e ortodossi (raddoppiate dalle differenze interne ad ogni

rispettiva tradizione), analogamente il marxismo è profondamente unitario nonostante le differenze in-

credibilmente grandi fra Kautzky e Lenin, Granisci e Bordiga, Stalin e Trotzky, le filosofie dialettiche e quelle

deterministiche, ecc. Si tratta di una unitarietà mirabile per la coerenza della sua problematica, e dunque sìa per

l'oggetto che per il metodo.

Per usare un'espressione utilizzata da Jean-Marie Vincent nel 1995, è necessario "sbarazzarsi del

marxismo", ed è necessario farlo proprio perché non si accetta la fine capitalistica della storia e perché si vuole

tenere aperta una porta concettuale per pensare il possibile superamento sia della società capitalistica sia del

modo di produzione capitalistico (ribadisco qui l'eterogeneità epistemologica fra le due nozioni). Si dirà che non

siamo però di fatto "oltre il marxismo", perché non esiste ancora una teoria coerente che lo abbia superato. È vero.

Infatti, è proprio così. Chi oggi afferma di essere saltato già oltre il marxismo, e di disporre di un quadro di

riferimento teorico globalmente soddisfacente per una teoria della società, è in generale regredito a prima del

marxismo, e a schemi concettuali ancora meno soddisfacenti (e faccio l'esempio della teoria della comunicazione di

Habermas e della teoria della giustizia di Rawls, entrambe penosamente inferiori non solo a Marx, ma persino allo

stesso marxismo di Kautzky). Non si tratta allora di porre l'alternativa "secca" fra i due termini dentro/fuori.

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Posto in questi termini, il problema diventa nominalistico, e può interessare soltanto a coloro che vivono di

etichette di appartenenza a una comunità.

Occorre essere coscienti del fatto che bisogna andare oltre il marxismo, e che nello stesso tempo vi sono

per ora soltanto delle derive di uscita "produttiva", e che non vi è ancora nessuna teoria globale che possa ambire a

un paragone. Coloro che confondono il bilancio storico con il bilancio teorico non possono in alcun modo

contribuire a questa uscita produttiva (che si consumerà probabilmente nell'arco di alcune generazioni, e non di

una soltanto). Da un lato, vi è una comunità di "marxisti militanti", legati a organizzazioni politiche, che

vogliono in tutti i modi essere gramscianamente "organici" a esse, e che pertanto sono costretti a commisurare

quanto pensano e dicono con i vincoli sistemici cui sono sottoposte queste stesse organizzazioni politiche

(elezioni, rappresentanza, ruolo nel sistema dei partiti, edificazione ideologica dei militanti ed elettori, ecc).

Costoro sono paragonabili a cavalli legati con una corda lunga, che può dare l'illusione di muoversi e di fare

qualche passo al trotto o al galoppo, ma che inevitabilmente si stringe al collo quando ci si allontana troppo dal re-

cinto. Dall'altro, vi è una comunità di "marxisti indipendenti", legati ad apparati universitari, che non si

pongono il problema dell' "organicità" politica, ma che devono porsi, per poter pubblicare ed essere riconosciuti

nella comunità accademica, il problema della traduzione dei contenuti "marxisti" di quanto dicono nei linguaggi

specialistici consentiti da questa comunità accademica stessa. Costoro sono paragonabili a cavalli lasciati liberi di

pascolare liberamente senza alcuna restrizione, e che possono pertanto andare di qua o di là senza nessuna corda

che li stringe al collo quando si allontanano troppo. Anch'essi però non vanno da nessuna parte, e girano in

tondo negli stessi luoghi.

Una conclusione senza conclusioni

Per poter dar conto di un problema tanto complesso come quello del comunismo storico novecentesco,

questo saggio è probabilmente troppo breve e telegrafico. Ma chi scrive è seguace del detto di Callimaco, che

disse a suo tempo di un libro troppo grande che era anche un grande male {mega biblion, mega kakòn). I libri

devono essere corti, perché tocca al lettore il compito di completarli. Faccio in proposito una sola eccezione. Il

libro ha il diritto di essere grande e lungo, se chi lo scrive ha la tranquilla consapevolezza di stare dicendo

qualcosa di solidamente fondato e di realmente decisivo. E non è evidentemente questo il mio caso.

Se il termine di "comunismo" ha un senso, esso deve essere quello di messa in comune della verità. La prima

cosa che deve essere messa in comune in una comunità è appunto la verità. Si dirà che la verità non esiste, e per-

tanto non si può mettere in comune la verità, dal momento che ognuno ha la sua verità, ed è allora meglio

prendere atto come gli antichi sofisti Protagora e Gorgia di questa "verità relativistica". Non sono d'accordo. Chi

Page 63: Il Comunismo Storico Di Costanzo Preve

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ragiona così ha già preventivamente deciso che non vale in fondo la pena di prendere la discussione sul serio.

Naturalmente, altra cosa è ovviamente l'ammettere che la verità certamente esiste, ma io personalmente non ne

dispongo come di una mia personale proprietà privata, ed è dunque necessario mettere in comune quella parte

che può diventare il mio contributo. Questo è a mio avviso l'approccio giusto. Chi pensa che il comunismo con-

sista nel mettere in comune dei beni materiali, ma non la verità, perderà sia il comunismo sia la messa in

comune dei beni materiali. I sostenitori contemporanei del cosiddetto "pensiero debole", che temono che

l'affermazione dell'esistenza della verità sia politicamente pericolosa, perché può legittimare l'intolleranza verso

chi decide di non credervi e di non aderirvi, laddove il relativismo teorico è solidale con il pluralismo politico,

riflettano sul fatto che uno dei massimi sostenitori dell'esistenza della verità, il filosofo ebreo olandese Spinoza,

sostenne che per perseguirla, ricercarla e mantenerla bisognava prima di ogni altra cosa rifiutare lo stato

ideologico, la verità di stato, l'intolleranza, i provvedimenti amministrativi contro la libera discussione, il

fanatismo, la violenza, ecc. Ed è questo il "mistero dialettico" più importante della filosofia, l'unione

indissolubile fra verità e libertà.

Questo mistero dialettico si applica ovviamente anche al problema del bilancio del comunismo storico

novecentesco. Non c'è una sola affermazione fatta in questo saggio che non possa essere citata e rovesciata. Ma, ap-

punto, bisogna che chi critichi porti argomenti liberi, e non si rifugi nell'autorità suprema di qualche pensatore

divinizzato. Il comunismo è la messa in comune della verità, e la verità, esattamente come l'amore, non può essere

imposta con la forza o con l'inganno.