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L’Italiano Contemporaneo Capitolo I – La Lingua Italiana Oggi La diffusione dell’italiano nel mondo è in costante crescita, ma non è comunque paragonabile all’inglese, al francese e allo spagnolo. Anche in Italia non tutti usano l’italiano (italofoni): esso convive da sempre con i dialetti locali. Tutti i dialetti derivano dal latino volgare e hanno la stessa dignità della lingua italiana. Eccezione per il friulano e il sardo che vanno considerati sistemi linguistici autonomi. Tra le caratteristiche principali dell’italiano, che nel loro complesso costituiscono il tipo linguistico italiano, vi sono: la frequenza delle parole accentate sulla penultima sillaba; la possibilità di esprimere concetti di grandezza e piccolezza aggiungendo ai nomi suffissi vezzeggiativi, accrescitivi, ecc; la relativa libertà dell’ordine delle parole all’interno di una frase. Rispetto alle altre lingue romanze (che derivano dal latino) l’italiano, morfologicamente e fonologicamente deriva dal fiorentino del Trecento (Le Tre Corone). Prima dell’Unità, infatti, l’italiano, al di fuori della toscana, era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto. Successivamente, grazie alla scolarizzazione, l’italiano ha progressivamente ampliato i propri ambiti d’uso. Nel corso del novecento, inoltre, l’italiano ha rinunciato, anche in poesia, agli arcaismi e ha fortemente ridotto la polimorfia, che creava grossi problemi alle persone poco colte. La lingua standard è l’uso linguistico che l’intera comunità riconosce come corretto: il modelli di lingua proposto dalle grammatiche. Le varietà dell’italiano contemporaneo Ogni lingua presenta una serie di variabili, dette assi di variazione. La variabile diamèsica è quella legata al mezzo materiale in cui avviene la comunicazione, che distingue la lingua dei testi parlati. (es. Nel parlato non abbiamo problemi a dire a me non mi piace la panna.) La variabile diacronica è quella legata al tempo: il passare del tempo determina inevitabilmente un mutamento nell’uso linguistico, che di solito avviene prima nel parlato e poi nello scritto. (es. nel parlato sono in declino i pronomi, egli, esso, ella, essi, che cedono sempre più il posto a lui, lei, loro.) La variabile diatòpica è quella legata allo spazio: una stessa lingua assume caratteristiche diverse a seconda delle singole zone in cui è usata. (es. melone e cocomero sono usati al sud, anguria al nord.) La variabile diastràtica è quelle legata alla posizione sociale del parlante e quindi dipende dal genere, dall’età, dalla classe sociale, dal livello di istruzione. La variabile diafàsica è quella legata alla situazione comunicativa, all’argomento trattato, al grado di confidenza che si ha con l’interlocutore. Capitolo III – Lessico Si definisce lessico il complesso delle parole di una lingua. Tale definizione è però poco precisa perché l’unità fondamentale del lessico non è la parola bensì il lessema, che può essere formato da più parole tra loro combinate, come problema base, effetto serra. La linguistica ha elaborato il concetto di arbitrarietà del segno: anzitutto il nome delle cose è generalmente immotivato e proprio l’individuazione delle cose varia da lingua a lingua. Lo studio del lessico è la lessicologia, mentre la semantica studia specificamente i significati delle parole. Il lessico si arricchisce continuamente di nuove entrate (i neologismi) e al tempo stesso subisce delle perdite (gli arcaismi). Naturalmente nessun italiano conosce e usa l’intero lessico della propria lingua. Tullio De Mauro ha individuato circa 7000 lessemi che costituiscono il vocabolario di base della nostra lingua. Altri 45000 lessemi appartengono al vocabolario comune e compaiono in testi più complessi. Insieme, i due vocabolari, costituiscono il vocabolario corrente. Altri due settori del lessico da ricordare sono le voci gergali (le parole proprie di linguaggi usati da gruppi ben definiti) e i regionalismi

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L’Italiano Contemporaneo Capitolo I – La Lingua Italiana Oggi

La diffusione dell’italiano nel mondo è in costante crescita, ma non è comunque paragonabile all’inglese, al francese e allo spagnolo. Anche in Italia non tutti usano l’italiano (italofoni): esso convive da sempre con i dialetti locali. Tutti i dialetti derivano dal latino volgare e hanno la stessa dignità della lingua italiana. Eccezione per il friulano e il sardo che vanno considerati sistemi linguistici autonomi. Tra le caratteristiche principali dell’italiano, che nel loro complesso costituiscono il tipo linguistico italiano, vi sono: la frequenza delle parole accentate sulla penultima sillaba; la possibilità di esprimere concetti di grandezza e piccolezza aggiungendo ai nomi suffissi vezzeggiativi, accrescitivi, ecc; la relativa libertà dell’ordine delle parole all’interno di una frase. Rispetto alle altre lingue romanze (che derivano dal latino) l’italiano, morfologicamente e fonologicamente deriva dal fiorentino del Trecento (Le Tre Corone). Prima dell’Unità, infatti, l’italiano, al di fuori della toscana, era una lingua nota a un numero di persone alquanto ridotto. Successivamente, grazie alla scolarizzazione, l’italiano ha progressivamente ampliato i propri ambiti d’uso. Nel corso del novecento, inoltre, l’italiano ha rinunciato, anche in poesia, agli arcaismi e ha fortemente ridotto la polimorfia, che creava grossi problemi alle persone poco colte. La lingua standard è l’uso linguistico che l’intera comunità riconosce come corretto: il modelli di lingua proposto dalle grammatiche.

Le varietà dell’italiano contemporaneo

Ogni lingua presenta una serie di variabili, dette assi di variazione.

La variabile diamèsica è quella legata al mezzo materiale in cui avviene la comunicazione, che distingue la lingua dei testi parlati. (es. Nel parlato non abbiamo problemi a dire a me non mi piace la panna.)

La variabile diacronica è quella legata al tempo: il passare del tempo determina inevitabilmente un mutamento nell’uso linguistico, che di solito avviene prima nel parlato e poi nello scritto. (es. nel parlato sono in declino i pronomi, egli, esso, ella, essi, che cedono sempre più il posto a lui, lei, loro.)

La variabile diatòpica è quella legata allo spazio: una stessa lingua assume caratteristiche diverse a seconda delle singole zone in cui è usata. (es. melone e cocomero sono usati al sud, anguria al nord.)

La variabile diastràtica è quelle legata alla posizione sociale del parlante e quindi dipende dal genere, dall’età, dalla classe sociale, dal livello di istruzione.

La variabile diafàsica è quella legata alla situazione comunicativa, all’argomento trattato, al grado di confidenza che si ha con l’interlocutore.

Capitolo III – Lessico

Si definisce lessico il complesso delle parole di una lingua. Tale definizione è però poco precisa perché l’unità fondamentale del lessico non è la parola bensì il lessema, che può essere formato da più parole tra loro combinate, come problema base, effetto serra. La linguistica ha elaborato il concetto di arbitrarietà del segno: anzitutto il nome delle cose è generalmente immotivato e proprio l’individuazione delle cose varia da lingua a lingua. Lo studio del lessico è la lessicologia, mentre la semantica studia specificamente i significati delle parole. Il lessico si arricchisce continuamente di nuove entrate (i neologismi) e al tempo stesso subisce delle perdite (gli arcaismi). Naturalmente nessun italiano conosce e usa l’intero lessico della propria lingua. Tullio De Mauro ha individuato circa 7000 lessemi che costituiscono il vocabolario di base della nostra lingua. Altri 45000 lessemi appartengono al vocabolario comune e compaiono in testi più complessi. Insieme, i due vocabolari, costituiscono il vocabolario corrente. Altri due settori del lessico da ricordare sono le voci gergali (le parole proprie di linguaggi usati da gruppi ben definiti) e i regionalismi

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(parole che non sono estese sull’intero territorio nazionale ma solo in alcune regioni o subregioni). Dal punto di vista etimologico i lessemi posso essere divisi in tre componenti:

1 – Le parole di origine latina

2 – I prestiti o forestierismi, i dialettismi (‘ndrangheta)

3 – le neoformazioni

Per coniare nuove parole si utilizzano prevalentemente i meccanismi di formazione delle parole, e in questo caso si parla di neologismi combinatori. Abbiamo però anche i neologismi semantici, quando nuovi significati si aggiungono a voci già esistenti, come nel caso dei nuovi valori assunti da sito, icona, navigare e scaricare.

CAPITOLO IV – FONETICA E FONOLOGIA

Il ramo della linguistica che studia i foni (suoni) è la fonetica. Le vocali in italiano sono gli unici foni su cui può cadere l’accento. Un’altra branca della linguistica è la fonologia, lo studio dei fonemi, cioè le più piccole unità distintive di una lingua. Lo studio delle lettere dell’alfabeto e delle altre annotazioni usate (punto, virgola, apostrofo) è chiamato grafematica. Il sistema fonologico dell’italiano è costituito da 7 vocali, 2 semiconsonanti e 21 consonanti.

Le vocali sono a - ε - e - i - כ - o – u. La ε si legge come è (aperta), la e come è (chiusa). La כ si legge come ò (aperta), la o come ó (chiusa).

Le semiconsonanti sono la j (si pronuncia come i) e la w (si pronuncia come u).

Le consonanti sono 21: p – b- t – d – k (si pronuncia c) – g – m – n – л (si pronuncia gn) – ts (si pronuncia z dura) – dz (si pronuncia z morbida) – tf (si pronuncia c) – dз (si pronuncia g) – f – v – s – z- ƒ (si pronuncia sc) – l – λ (si pronuncia gl) – r.+

In italiano i foni non vengono pronunciati isolati, ma in gruppi tra loro legati detti sillabe, il cui elemento fondamentale è il nucleo, che può essere preceduto da un attacco e seguito da una coda; questa insieme al nucleo forma la rima. (es. attacco mancante a-mo; attacco con una consonante mo-do; attacco con tre consonanti stra-no; attacco con semiconsonanti uo-vo, ie-ri). Nell’italiano quasi tutte le parole finiscono con vocali e più categoricamente finisce in vocale la parola che si trova alla fine di una frase.

L’accento italiano può cadere sull’ultima sillaba (parole ossitone (es. lunedì)), sulla penultima (parole parossìtone (es. matìta)) e sulla terzultima (parole proparossitone (es. tàvolo, lìbero)). Le parole formate da più di tre sillabe spesso portano anche un accento secondario.

CAPITOLO V -MORFOLOGIA FLESSIVA

La morfologia analizza le forme delle parole e le modificazioni che possono presentare per assumere funzioni e valori diversi. Lo studio delle varie forme individuate, dette forme flesse, costituisce appunto la morfologia flessiva. L’elemento minimo dell’analisi morfologica è il morfema (o, a, no, avo). Sulla base morfologica le lingue del mondo sono state suddivise in Lingue Analitiche e Lingue Sintetiche che tendono ad unire in una sola parola più morfemi. Alle lingue sintetiche appartengono le lingue flessive, in cui la parola e costituita da un elemento chiamato desinenza. Un importante funzione della flessione è che l’espressione di alcuni significati attraverso i morfemi desinenziali consente un notevole risparmio di altre parole, e quindi una più facile memorizzazione. Nei nomi italiani la flessione marca la categoria del numero (singolare/plurale) e del genere (maschile/femminile).

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Gli aggettivi

Gli aggettivi sono divisi in due classi, la prima con più forme flesse (es. buono/buona/buone/buoni) e la seconda con due (grande/grandi). Ci sono anche gli aggettivi invariabili, come pari o come viola, rosa, blu. Sugli aggettivi è marcato morfologicamente anche il grado: si realizza con l’avverbio più, il superlativo assoluto con l’aggiunta di avverbi come molto e assai e con il suffisso -issimo o vari prefissi come -arci, -stra, -ultra.

I pronomi

L’italiano è una lingua che consente la caduta del pronome (lingua PRO-drop), a parte il presente e l’imperfetto congiuntivo (voglio che tu vada; non sapevo che cosa tu facessi). Nel parlato sono in declino i pronomi, egli, esso, ella, essi, che cedono sempre più il posto a lui, lei, loro. I pronomi atoni, o clitici, sono mi, ti, ci, vi ecc.

Il sistema verbale

Delle tre coniugazioni la prima comprende i verbi che terminano all’infinito in -are, la seconda in -ere, la terza, in ire. Il presente, il passato e, all’indicativo, il futuro, sono detti tempi deittici. Nel tempo passato si distinguono tre forme: l’imperfetto (negli anni sessanta si ballava il twist), il passato prossimo (ho bevuto del vino) e il passato remoto (Dante nacque nel 1265). Glia altri tempi (futuro anteriore e trapassato, prossimo e remoto) sono detti tempi anaforici.

CAPITOLO VI -MORFOLOGIA LESSICALE

La morfologia lessicale studia i meccanismi attraverso i quali da parole già esistenti si formano parole nuove. È possibile formare parole derivate da altre già esistenti con l’aggiunta di determinati prefissi e suffissi, oppure parole composte con altre già in uso o con confissi di origine latina o greca.

La derivazione

È il meccanismo più usato in italiano per formare nuove parole. La derivazione può realizzarsi in vari modi:

- con la conversione: un verbo può diventare un nome (sapere → il sapere), un aggettivo un nome ecc.

- con la suffissazione: si aggiunge un suffisso a destra della base (lavora-re → lavora-tore, libr-o → libr-aio).

- con la prefissazione: con l’aggiunta di un elemento, detto prefisso, a sinistra della base (capace → in-capace, avventura → dis-avventura).

È possibile inoltre la conversione dei verbi (i fari abbaglianti, i cantanti, l’andante, l’abitato, veduta panoramica, il crescendo rossiniano).

La composizione

La composizione si realizza accostando due o più lessemi che vengono poi univerbati, cioè trattati come una sola parola anche nello scritto. In italiano i più frequenti sono

- nome + nome: cassapanca e caffellatte formati da elementi coordinati e cane poliziotto in cui il secondo determina il significato del primo.

- aggettivo + nome: gentiluomo, che sembra però poco produttivo al contrario del tipo

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- nome + aggettivo: cassaforte, pettirosso, caschi blu)

- aggettivo + aggettivo: è tuttora molto produttivo (giallorosso, pianoforte, marxista leninista, italoamericano).

- verbo + nome: è molto presente anche questo tipo di composizione (lavapiatti, accendisigari, portacenere).

- verbo + verbo: si formano per lo più con la ripetizione del medesimo verbo (fuggifuggi) o con l’accostamento di verbi dal significato contrario (saliscendi, tiremmolla).

- preposizione + nome: senzatetto, dopocena.

La composizione neoclassica

La composizione neoclassica utilizza elementi propri del latino e soprattutto del greco, combinati tra loro (glottologia “studio della lingua, cardiopatia “sofferenza del cuore”). In questi composti possono rientrare anche più di due elementi (si pensi a otorinolaringoiatra, formato da ben quattro confissi). Questa composizione è nata soprattutto nel linguaggio delle scienze: il lessico latino e greco ha fornito così un serbatoio inesauribile a cui attingere.

Abbreviazioni, sigle, acronimi e parole macedonia, accorciamenti e retroformazioni

L’italiano contemporaneo ha sviluppato una serie di meccanismi che non servono a formare nuove parole, ma a ridurre parole già esistenti.

- le abbreviazioni si trovano prevalentemente nello scritto (s. “santo”, pag. “pagina”, prof “professore”).

- le sigle riducono sintagmi formate da più parole alle sole lettere iniziali di queste (ct “commissario tecnico”, doc denominazione di origine controllata”).

- le sigle vengono chiamate anche acronimi quando esse sono formate anche con pezzi delle parole del sintagma (Polfer “polizia ferroviaria”).

- le parole macedonia, simile alle precedenti, sono formate da pezzi di varie parole (cantautore, cartolibreria).

- gli accorciamenti si hanno quando parole complesse di una certa lunghezza vengono troncate dalla parte finale (bicicletta → bici, frigorifero → frigo).

- le retroformazioni, usate spesso nel gergo giovanile, sono simili agli accorciamenti (benzina → benza, spinello → spino).

Le politematiche

Si definiscono politematiche sintagmi formati da più unità tra loro separate ma che semanticamente costituiscono un unico lessema (sala da pranzo, camera da letto, avviso di garanzia, fare appello, per via di, tra l’altro).

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CAPITOLO VII - SINTASSI

La sintassi studia la frase e le diverse unità più piccole da cui essa è costituita; definisce funzioni come quelle di soggetto, di predicato, di complemento. Il nucleo della frase è costituita dal verbo. Possiamo avere verbi monovalenti, che richiedono solo un argomento, cioè il soggetto (verbi intransitivi assoluti come dormire, tossire); verbi bivalenti, a cui si lega anche un secondo argomento (verbi transitivi come vedere, amare o intransitivi come credere); verbi trivalenti che richiedono tre argomenti (transitivi come dire, dare o intransitivi come andare); verbi tetravalenti che ne ammettono quattro (tutti transitivi come tradurre). In italiano esistono anche verbi zerovalenti che non richiedono neanche l’espressione del soggetto e sono i verbi atmosferici come piovere, nevicare. Nella frase si individuano anche altri elementi, come i circostanti - legati a un singolo elemento del nucleo, come gli avverbi modali, che modificano il verbo (piove forte) – e le espansioni - collocate al di fuori del nucleo, come il complemento di nucleo (tutte le mattine mi alzo alle sette) -. Altre prospettive di studio partono dal sintagma, l’unità più piccola dal punto di vista sintattico, che si distingue in sintagma verbale, sintagma nominale, sintagma preposizionale, sintagma aggettivale. L’italiano conserva una certa libertà nell’ordine delle parole. Le frasi che presentano una sequenza diversa da quella SVO sono dette frasi marcate. Nel parlato si tende a staccare il complemento iniziale dal resto della frase con una pausa: si parla di dislocazione a sinistra (A Parigi, ci vado spesso per lavoro). La dislocazione a destra si ha quando i complementi assumono un valore tematico a dispetto della loro posizione postverbale (Non ci vado da mesi, al cinema). Bisogna distinguere nelle frasi le interrogative totali o polari, così dette perché richiedono la risposta si o no (hai finito?), dalle interrogative disgiuntive, che offrono un’alternativa (Ti piace il mare o la montagna?), e dalle interrogative parziali, eventualmente precedute da avverbi come quando, dove, come, ecc. Quando all’interno della frase troviamo almeno due nuclei parliamo di frase multipla. Si parla di frase composta se il rapporto tra queste frasi è di coordinazione (è venuta zia Anna e mamma è uscita con lei). Si parla di frase complessa se il rapporto tra le frasi è di subordinazione, cioè una sola è autonoma e le altre dipendono dalla principale (Francesco, che in questo periodo mi sembra distratto, non ha capito il problema).

LE VARIETÀ PARLATE

Il parlato, soprattutto nell’italiano, è spesso accompagnato dal linguaggio dei gesti, tradizione ricca e vitale del nostro paese. Inoltra il parlato può servirsi di elementi non articolati, come risate, colpi di tosse, ecc. Inoltre, l’utilizzazione della voce, grazie al volume, al tono, al ritmo, può veicolare il significato del messaggio. Non mancano riduzioni della parola, come ‘giorno per buongiorno, e variazione come na! che indica un no enfatico. Lui e lei sostituiscono a egli e ella e agli inanimati, invece di esso ed essa; i plurali essi ed esse cedono il posto a loro. Per quel che riguarda i verbi la caratteristica principale del parlato è la riduzione nell’uso dei modi e dei tempi. Il presente indicativo sostituisce non solo il passato ma anche il futuro (vengo domani). L’imperfetto è forse il tempo più in espansione (volevo chiederti) e spesso sostituisce il congiuntivo (se venivi, vedevi). Un importante funzione testuale è quella dei segnali demarcativi, che indicano l’inizio e la fine di un discorso (allora, chiaro?), e dei segnali fàtici, che assicurano il contatto con l’interlocutore, sollecitandone la partecipazione (sai, dai, ho reso l’idea?). Entrambi sono segnali discorsivi. Come i connettivi, che indicano il tipo di relazione tra le varie parti del testo (fatto sta, perché poi, a proposito). Una funzione importante dei segnali discorsivi è anche quella di riempire le pause, dando così a chi parla il tempo di pianificare almeno una parte del suo discorso. Bisogna ricordare inoltre i segnali di sfumatura, che hanno la funzione di attenuare le affermazioni (praticamente, per dire). Si definisce come italiano regionale quella varietà parlata in una determinata area geografica che denota caratteristiche in grado di differenziarla dall’italiano standard. Esso è nato dall’incontro della lingua nazionale con il dialetto e rappresenta per molti aspetti la nuova realtà dialettale del nostro paese. Un primo elemento di differenziazione regionale è l’intonazione, che in alcune regioni assume caratteri interrogativi anche se in realtà gli enunciati sono affermativi. Molto nette sono anche le peculiarità sul piano fonetico: particolarmente soggetti a variazioni regionali sono l’apertura o la chiusura delle vocali e e o e la sonorità delle consonanti s e z. Il lessico costituisce un altro settore di forte differenziazione regionale.

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Il parlato giovanile

Il linguaggio dei giovani è stato classificato come una varietà diafàsica (quella legata alla situazione comunicativa, all’argomento trattato, al grado di confidenza che si ha con l’interlocutore). Un uso linguistico proprio delle generazioni più giovani si può individuare già nei primi anni sessanta e poi soprattutto dopo il sessantotto. I fenomeni più caratteristici sono gli accorciamenti e le retroformazioni (matusa (vecchio) per Matusalemme), l’uso di sigle, il gioco di parole. Se molti elementi tipici del gergo giovanile hanno una vita effimera, altri possono entrare addirittura nella lingua comune (è il caso di stai in campana).

TERMINOLOGIA:

Metafonesi: variazione della vocale tonica dovuta alla presenza di –o/-u/-i finali.

Alloglotte: che parlano altre lingue.

Variazione Diamèsica: variabile sociolinguistica relativa al mezzo (scritto o orale).

Variazione Diacrònica: variabile sociolinguistica relativa al tempo.

Variazione Diatòpica: variabile sociolinguistica relativa allo spazio. ITA REGIONALE

Variazione Diastràtica: variabile sociolinguistica relativa alla posizione sociale. ITA POPOLARE

Variazione Diafàsica: variabile sociolinguistica legata alla situazione comunicativa. PARLATO FORM.

Vocabolario corrente: vocabolario di base (lessico fondamentale, lessico d’alto uso e lessico di alta

disponibilità) + vocabolario comune.

Lessico: complesso delle parole di una lingua.

Lessema: unità minima che costituisce il lessico di una lingua.

Lessicologia: studio del lessico.

Semantica: studio dei significati delle parole.

Geosinonimi: regionalismi che nelle varie parti del territorio designano lo stesso oggetto.

Geomonimi: termini formalmente identici ma di significato diverso.

Antonimi: lessemi che hanno significati opposti.

Iperonimi: parole che indicano l’insieme più ampio di cui fanno parte altre parole.

Iponimi: parole comprese dagli iperonimi.

Neologismi: parole di nuova formazione presenti in una lingua.

Osmosi: passaggio reciproco di elementi linguistici.

Forestierismi: parole attinte da altre lingue.

Allòtropi: parole che, pur essendo diverse sul piano formale e semantico, hanno il medesimo

etimo.

Anantosemia: parole che hanno significato opposto a ciò che dovrebbero avere. (stancati per dire

“riposati”).

Morfologia: analizza le forme e modificazioni che presentano le parole.

Morfologia flessiva: studia le varie forme flesse dei morfemi classificate in paradigmi.

Morfologia lessicale: studia la formazione delle parole per derivazione e composizione.

Lingue analitiche: lingue composte da morfemi unici.

Lingue sintetiche: tendono ad unire più morfemi fra loro.

Morfema lessicale: morfema portatore di significato.

Morfema grammaticale: morfema portatore di informazione morfologica.

Tempi deittici: presente, passato e futuro.

Tempi anaforici: gli altri tempi che esprimono anteriorità o posteriorità.

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Confissi: elementi latini e greci.

Morfologia derivativa: studio della creazione di parole per derivazione.

Alterazione: un tipo particolare di derivazione di nomi, aggettivi e verbi realizzata tramite l’uso di

suffissi. Fra le alterazioni troviamo accrescitivi, attenuativi, diminuitivi, spregiativi e vezzeggiativi.

Falsi alterati: parole che presentano suffissi tipici dell’alterazione ma che hanno un significato

proprio.

Conversione: passaggio da categorie grammaticali diverse.

Suffissazione: assegnazione si un suffisso alla base di una parola.

Prefissazione: assegnazione di un prefisso alla base di una parola.

Affissi: prefissi e suffissi.

Affissazione: processi di suffissazione e affissazione.

Acronimi: sigle usate per abbreviare.

Parole macedonia: parole formate da pezzi di più parole.

Valenza: numero di argomenti che possono far parte del nucleo di una frase e possono essere

monovalenti, bivalenti, trivalenti, tetravalenti e zerovalenti.

Sintassi: studia la frase e le diverse unità da cui essa è composta.

Sintagma: unità più piccola dal punto di vista sintattico.

Frasi marcate: frasi che presentano una frequenza diversa da SVO.

Frasi segmentate: frasi che presentano dislocazioni.

Dislocazione a sinistra: complemento anteposto al verbo, richiede la ripresa del pronome con un

clitico.

Dislocazione a destra: complemento postposto al verbo.

Tema: ciò di cui la frase parla.

Rema: informazioni legate al rema.

Frasi scisse: frasi marcate che serve a isolare mettendolo in rilievo, un costituente frasale (spesso il

soggetto).

Frase interrogativa: totale, disgiuntiva e parziale.

Frase multipla: quando si trovano più nuclei nella stessa frase.

Frase composta: se il rapporto fra le frasi è di coordinazione. (paratassi)

Frase complessa: se il rapporto fra le frasi è di subordinazione. (ipotassi)

Frase relativa: frase subordinata alla principale introdotta da un pronome relativo e può avere

valore di attributo o apposizione.

Che polivalente: nell’italiano standard si è soliti usare il “che” al posto di altri pronomi subordinanti

che sarebbero semanticamente più appropriati.

Diglossia: compresenza di due lingue, differenziate funzionalmente, spesso storicamente contigue.

La lingua A viene utilizzata in ambito formale, la lingua B in ambito informale.

Dilalia: situazione in cui la varietà alta della lingua può essere utilizzata in contesti formali e

informali, mentre la varietà bassa può essere utilizzata in contesti orali e familiari.

Mozarabico siciliano: lingua neolatina parlata prima dell’invasione dei normanni. E’ stata chiamata

così da Varvaro, in analogia con quella della penisola iberica, in cui il mozarabico era un continuum

dialettale parlato dai Cristiani prima della reconquista.

Verbi pronominali: sono verbi nella cui forma troviamo uno o più pronomi clitici. Fanno parte di tali

verbi i riflessivi, ma non i passivi o gli impersonali.

Verbi sintagmatici: sono verbi polirematici formati da un verbo di movimento e una particella che

solitamente è un avverbio locativo (andare giù, venir fuori).

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Lenizione: trasformazione fonetica di una consonante che diviene tenue acquistando sonorità.

(amicum, amigo).

Albicocca: latino: preacocuum (precoce) -> siciliano: pircocu (trapanese, oriente) -> arabo: barquq

(nel senso di prugna) -> siciliano: varcocu (palermitato, caltanissetta).

Planca: parola che originariamente indicava il ceppo di un grosso albero, nel siciliano, CHIANCA,

che nel Palermitano, Messinese e Catanese indica anche la bottega del macellaio (dal francese

boucherie), quindi il macellaio verrà chiamato CHIANCHERI e poi VUCCERI. Nella prima fase

normanna, veniva chiamata VUCCIRIA, nella seconda fase da Napoli, CHIANCA, nella terza fase vi è

una coesistenza fra VUCCIRIA e CHIANCA. Nella quarta fase si impone CHIANCA e VUCCIRIA diventa

un toponimo. Nella quinta fase, dagli spagnoli, CARNIZZARIA, nella sesta fase vi è una coesistenza

fra CHIANCA e CARNIZZERIA, settima fase, italiano regionale si impone CARNIZZERIA/CARNEZZIERE.

Giovan Battista Pellegrini: ha analizzato le varietà dell’italiano contemporaneo all’iterno del

repertorio linguistico nazionale proponendo un modello di classificazione che comprendeva,

dialetto, koinè dialettale, italiano regionale e italiano standard.

Francesco Sabatini: fu il primo a individuare il registro dell’italiano dell’uso medio.

Gerhard Rohlfs: ha elaborato la teoria della neoromanizzazione della Sicilia nel corso del novecento

che diceva che il siciliano in realtà era il dialetto meno meridionale.

Italiano dell’uso medio: varietà parlata e scritta, primariamente diastratica impiegata dalla

generalità di persone almeno mediamente colte, dai giornali, dai media.

Italiano popolare: proprietà diastratica degli incolti e di chi parla prevalentemente dialetto.

Parole dialettali italianizzate: mappina, anguria o balata.

Parole italiane con significati dialettali: giardino (agrumeto), mollica (pangrattato) o collera

(dispiacere).

Parole dialettali senza significato italiano: stranizzarsi, comodista o carpetta.

IL DIALETTO NELLA CANZONE ITALIANA NEGLI ULTIMI VENTI ANNI

CAPITOLO I

Negli anni novanta all’interno di una realtà sociolinguistica profondamente mutata, la neodialettalità

assume dei nuovi valori nelle varietà giovanili, assumendo una funzione antagonistica e quindi

un’alternativa alla lingua nazionale considerata la lingua del potere, per rompere alcuni tabù linguistici

imposti dalla scuola e per ritrarre ambienti culturalmente e socialmente degradati. Nuovi valori vengono

assunti anche nella comunicazione ordinaria, diventando una effettiva lingua d’uso nella quotidianità, una

risorsa espressiva con funzione ludica, assume un valore di rappresentanza simbolica e ideologica e un

raccolta di tradizioni folkloristiche. Il dialetto quindi assume da una parte un importante valore in quanto

permette di arricchire la propria espressività di linguaggio, dall’altra viene utilizzato dal mondo giovanile

non solo in situazioni colloquiali ma anche in nuove esperienze linguistico-comunicative, spesso motivate

da esigenze di anticonformismo.

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CAPITOLO II

La lingua usata nella canzone viene anzitutto analizzata rapportando l’italiano contemporaneo e la lingua

dei media. A partire dagli anni settanta, l’italiano protende verso il parlato, mentre negli anni ottanta –

periodo storico corrispondente allo sviluppo dell’italiano medio – alcuni artisti come Fabrizio De André

vengono spinti verso nuove sperimentazioni, come per l’appunto, l’utilizzo del dialetto. Negli anni più

recenti invece, troviamo una esperienza musicale nel solco della tradizione e quindi maggiormente

esportabile all’estero; vediamo la presenza di artisti come Al Bano, Cutugno, Ramazzotti, Pausini, Bocelli,

Silvestri, Consoli, Nannini, BlueVertigo, Negramaro e tanti altri. In questi anni si sviluppa anche il rap, nato

negli slums di popolazione afroamericana, che restituendo alla parola la propria autonomia dalla musica, ne

rafforza la crudezza e il vigore polemico; fra gli artisti di spicco troviamo Fabri Fibra e Caparezza. Nella

canzone italiana possiamo individuare tre tipologie di “lingue” rapportabili ad altrettanti generi musicali: il

sanremese/canzonettese, cantautorese e rappese. L’individuazione di queste categorie è connessa con il

diverso rapporto fra musica e testo riscontrabile rispettivamente nella canzonetta, nella canzone d’autore

e nel testo rap. La canzonetta è tipicamente rappresentata dalla canzone commerciale del festival di

sanremo e convoglia l’attenzione sulla melodia piuttosto che sul testo in un profilo linguistico colloquiale.

La canzone d’autore pone come fulcro il testo e non la melodia; in questo caso, la musica si rivela a servizio

del testo paragonabile ad una vera e propria poesia. Nel rap troviamo un parlato spontaneo, non curante,

gergale e giovanile; qui musica e parola si distanziano, trovando un rapporto essenzialmente ritmico. La

lettura della lingua della canzone italiana si risolve in una questione diafasica e subordinatamente

diamesica. Per molti artisti, la scelta del dialetto è una precisa volontà di voler parlare la propria lingua

quotidiana in quanto per esprimere a meglio le proprie sensazioni ed emozioni hanno bisogno di raccontare

la storia nella lingua in cui essa viene vissuta. A partire dagli anni ottanta la scelta musicale del dialetto

segue due linee principali: quella endolinguistica, in quanto codice che evoca in chi ascolta la canzone una

realtà più familiare e meno istituzionalizzata, ed extralinguistica, per dare un approccio ideologico al

dialetto. Al dialetto utilizzato in una canzone possono essere attribuiti diversi significati: potrebbe avere un

valore lirico-espressivo, quindi un valore di risorsa espressiva con funzione principalmente ludica e un

valore simbolico-ideologico, utilizzato per denunciare una realtà politica-sociale all’interno di un universo

socio-culturalmente ben definito. La canzone neodialettale è caratterizzata da una volontà di ritorno alle

radici; in questo senso, il dialetto viene utilizzato non solo come forma poetica o denuncia politica ma

anche per lanciare dei messaggi, per comunicare e per raccontare, grazie all’uso di immagini ed elementi

caratteristici di un particolare universo purtroppo in declino. (cultura tradizionale-dialettale).

CAPITOLO III

Nel panoramica della canzone dialettale siciliana gli autori assumono il dialetto come proprio codice

espressivo, e fanno sì che questo trascini con sé i contenuti socioculturali che mediante questo tipo di

codice vengono predicati. Alcune caratteristiche ricorrenti nella canzone siciliana di oggi sono l'uso

metaforico e simbolico dell'universo tradizionale, quindi la rappresentazione di paesaggi rurali, l'accennare

a toponimi popolari, parlare di mestieri tradizionali o scomparsi, parlare di leggende popolari e utilizzare

modi di dire locali. La volontà dei differenti autori è di assumere il mondo della cultura tradizionale (che è

cultura dialettale) come metafora e bagaglio di immagini e valori socioculturali mediante i quali parlare

nella e della contemporaneità.

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CAPITOLO IV

La scrittura di un testo è un atto creativo volto a soddisfare un’attesa di poesia; la lingua di una canzone

appare quindi molto spesso rifatta alla tradizione letteraria, ricca perciò di costrutti e forme particolari. In

base alle finalità comunicative, potremmo trovare quindi all’interno di un testo clisches letterari, arcaismi e

innovazioni o persino ritrovarli tutti e tre nello stesso testo. All’interno di un testo il dialetto può essere

usato nella sua manifestazione più spontanea in situazioni comunicative informali e colloquiali o può essere

ricco di forme letterarie in disuso per rinforzarne la funzione poetica. Ogni uso del dialetto dipende

comunque dalla competenza e dall’idea dell’artista su cosa significhi cantare in dialetto in relazione al tema

per cui si canta.

Fonetica: la Sicilia dialettale è caratterizzata dal fenomeno della metafonesi ed è divisa in due grandi aree

caratterizzate per la diversa pronuncia delle vocali accentate ‘e’ e ‘o’. Queste vocali si trasformano in un

dittongo (e: ie, o: uo), o in un monottongo nel nisseno e nell’ennese (e: i, o: u) nelle parole maschili e

plurali, restano invariate nei femminili. Ai due lati dell’isola, il dittongo è assente (beddu, beddi, bedda,

bonu, boni, bona), nel palermitano v’è il dittongo incondizionato, cioè sempre presente, anche nel

femminile. Quando nei testi delle canzoni non è presente tale dittongamento, occorre comprendere se

l’artista non lo realizza in quanto lo percepiscono come un tratto troppo marcato che allontana il proprio

dialetto dalla tradizione letteraria, dalla fonetica italiana o dal modo tradizionale di scrivere il dialetto.

Rotacismo: si tratta della trasformazione in ‘r’ delle ‘d’ a inizio di parola; la ‘d’ si conserva nella

parte interna della Sicilia, mentre tende a trasformarsi nelle aree costiere. E’ un carattere fonetico

tipico del palermitano che però non è mai trascritto.

Deaffricazione: si tratta di un fenomeno fonetico per cui il suono ‘c’ di ‘cena’ diventa fricativo.

Esiti di r+consonante: la ‘r’ postposta ad una consonante, tende a venire assimilata alla vocale

successiva (porta, potta). Nella aree interne mantiene la sua pronuncia, mentre nel palermitano e

nel trapanese di trasforma in ‘i’ (poitta).

Retroflessione: è la pronuncia “siciliana” dei nessi TR e STR, che investe sostanzialmente tutti gli

interpreti. Nella Sicilia centrale tuttavia, i nessi possono perdere la pronuncia “siciliana”.

Esiti dei nessi latini LJ, GL, BL: sono dei suoni sviluppati in maniera diversa a seconda delle aree

siciliane. L’esito più diffuso è GGHI (famigghia – familja).

Esiti di RL: nella maggior parte della Sicilia avviene una assimilazione per cui ‘parlare’ diventa

‘parrari’. Nel nisseno e agrigentino non avviene tale assimilazione.

Apocopi verbali: nella maggior parte dei dialetti meridionali, è presente il fenomeno dell’apocope,

per cui un verbo all’infinito perde l’ultima sillaba. Nel siciliano questo non avviene, tuttavia alcuni

artisti ricorrono intenzionalmente all’apocope verbale nella ricerca di una rima e quindi di una

particolare metrica, facendo assumere però al testo un aspetto più estraneo al contesto siciliano.

Morfologia e Sintassi: nella canzone dialettale la morfologia risente molto della pressione sociolinguistica

dell’italiano, per la quale molte parole assumono una veste “italianeggiante”. E’ il caso delle parole che

hanno un plurale in –a e –i, dei singolari femminili in –i quando la parola corrispondente italiana termina in

–e. L’articolo determinativo in Sicilia propone due diverse serie distribuite in due diverse aree; una più

arcaica che conserva la consonante (lu, la, li) che corrisponde a quella impiegata nel dialetto letterario,

usate in occidente e l’altra usata nel centro-oriente, in cui non v’è la consonante (u, a, i). La presenza di

queste due diverse serie di articoli determinativi, porta conseguenza anche nelle preposizioni articolare;

nelle zone in cui l’articolo è presente nella forma preceduta da consonante, la preposizione articolata si

presenta come due elementi ben distinti fra loro (cu lu, con il, a lu, al, pi la, per la) mentre nelle aree in cui

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l’articolo si presenza privo di consonante, troviamo la coalescenza delle proposizioni articolate ( per cui “cu

lu diventa cù e pi la diventa pà). Nelle canzoni è spesso presente l’anastrofe, l’inversione poetica dell’ordine

sintattico, sono anche presenti però le dislocazioni, spesso scelte volutamente dagli autori per avvicinarsi di

più alle strutture del parlato, soprattutto nei testi rap. Nei testi delle canzoni è anche possibile trovare

particolari strutture appartenenti al “tipo sintattico siciliano”, come per esempio la formazione dell’azione

progressiva espressa con “andare + gerundio” (chi ghiti facennu?).

Lessico: le parole delle canzoni si presentano in un rapporto dinamico fra arcaismi e innovazioni che

costituiscono la riproposizione fedele del patrimonio lessicale proprio della Sicilia dialettale

contemporanea, accade quindi spesso che una parola più recente venga affiancata da un’altra di origine più

antica. Un artista può però scegliere una determinata parola più vicina all’italiano per pura scelta stilistica,

quindi ‘grapiri’ viene spesso sostituita da ‘apriri’. Può anche capitare che l’adattamento di parole italiane al

dialetto comporti un caso di “cortocircuito omofonico”, è il caso per esempio della parola “viviri” che nel

codice del dialetto sta per bere “bere” ma che viene adattato col significato di “vivere”. All’interno di un

testo è facile trovare una serie di parole “antiche”, appartenenti ad un registro più arcaico ed è difficile

capire se l’autore decide volutamente di riesumare tali parole o fanno parte del proprio registro

quotidiano. L’ambito che presenta più forme arcaiche è quello dei proverbi e dei modi di dire, di cui i testi

sono pieni, vi sono però modi di dire calcati sull’italiano, come “semu na stessa vaicca” utilizzati molto nei

testi rap. Sempre nei testi rap, è molto presente l’uso di forestierismi e l’uso di parole inglesi che rientrano

nel bagaglio lessicale caratteristico della cultura hip hop; quindi il dialetto viene mescolato volutamente ad

espressioni inglesi per incrementarne l’espressività. Altra caratteristica dei testi rap è la presenza di

sostantivi riferiti ai nomi di parentela, come “fratello” o “sorella” o “compare” spesso utilizzati con apocopi

nell’intento di stimolare la comunicazione. Tra gli elementi lessicali caratterizzanti, i testi rap esibiscono una

grande quantità di giovanilesimi e colloquialismi italiani e dialettali, come “spaccare” per indicare il

concetto di “fare successo” o “arricriarisi” per dire di star bene. Sono anche presenti molti gergalismi, come

“bbaiana” che indica il rametto di marijuana o nel gergo della malavita “u fiarru” per indicare la pistola.

All’interno dei testi rap assumono grande importanza i disfemismi, che consistono nell’usare termini più

crudi per indicare dei concetti al fine di enfatizzare il messaggio, che può essere un disagio sociale o satira

politica, fra queste troviamo alcune forme esclamative come minghia, cazzu ecc, essi sono usati non solo

come forma di espressione di rabbia o turbamento ma assumono anche funzione comica, come l’uso che

ne fa Sperandeo.

CAPITOLO V

L’uso del dialetto nella canzone è strettamente legato alla struttura regionale del linguaggio quotidiano

dell’artista. Egli infatti, attribuisce al dialetto funzioni diverse del tutto personali e soggettive, a seconda

dell’idea che essi hanno circa il ruolo che il dialetto dovrebbe avere. I pittura Fresca ad esempio, usano la

koinè veneta per esprimere un registro informale e scherzoso, mentre stando alle sensazioni che il pubblico

trae, Battiato fa del dialetto un veicolo per la nostalgia e il ritorno all’infanzia. Molto spesso il dialetto non è

usato con la stessa struttura del parlato, quindi la struttura impiegata nella canzone risulta del tutto

diversa, in quanto necessita di avere un tipo di scrittura più poetica e una metrica particolare. E’ il caso

dell’uso del dittongo incondizionato, che in alcuni testi di artisti palermitani (come Ma’arìa, Parrinu)

presentano un essenza di esso nello scritto mentre nel cantato si sente, oppure nel nisseno il monottongo è

presente sia nello scritto che nel cantato. Gli artisti attribuiscono al dialetto un forte valore

espressivo/comunicativo, anche se a volte limitato all’ambiente locale, in quanto non tutti riescono bene a

comprendere un dialetto al di fuori della propria situazione diatopica, tuttavia per molti ne vale la pena

perché ciò offre la possibilità di usare una lingua più musicale dell’italiano.

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ANTOLOGIA:

Marruggiati e pani duru, Biggaspano. (G.Mirasolo), 2011

La canzone denuncia il Paese vittima di abusi potere ma dotato di un forte senso civico. V’è una forte

invettiva verso il potere istituzionale rappresentato dalla polizia e dai politici corrotti, i quali vengono

apostrofati con epiteti come “porci”, “sciacalli”, “strozzini” o “handicappati”. L’andare contro la corruzione

delle istituzioni è amplificato dalla presenza di disfemismi. Il testo presenta rime baciate e interne, che

servono a dare ulteriore coesione al testo che viene cantato “tutto d’un fiato”. Troviamo figure retoriche

come assonanze (puru;’nculu), consonanze (sunnu; annu; sunnu; funnu), similitudini (tirchi comu Mazzarò),

apocopi (me fra) e iperboli (aviri puru l’occhi ‘nculu, centu ncapu a unu). Dal punto di vista lessicale

troviamo un unico disfemismo diatopicamente marcato, “pulli”, che è un francesismo, troviamo locuzioni

come “maniata i scafazzati” e “cani i bancata”.

Masino, Carmen Consoli. (Carmen Consoli), 2002

E’ il brano che costituisce il miglior esponente circa la capacità della cantante di scrivere in dialetto, che

appartiene all’album “l’eccezionale” e presenza la stessa accuratezza lessicale e l’andamento antipoetico

dei suoi testi italiani. Il brano parla di Masino intendo a raccogliere una ciliegia arrampicato su un albero e

della suocera che apprensiva e un po’ iettatrice, gli dice di far attenzione a cadere, profezia che si avvererà

solo in parte. Sono presenti figure retoriche come “enjamblement” (iddu pinzava; picchi ma ittau) e una

ripetizione anaforica. Il testo conversato contribuisce a dare al brano una carica dinamica che caratterizza

lo stile della cantante. A livello lessicale troviamo un interesse da parte della cantante nella variante

conservatrice piuttosto che per quella innovativa, trovando termini come “vanniava”, “sciddichi”, “teni

accurra” o “alleggiu”.

Sintiti, Daniele Treves Band. (E.Noto), 2011

Come si capisce già dal titolo, la canzone fa riferimento alla figura “ ru vanniaturi”, che era colui che era

solito “vanniari” - dopo essersi annunciato con una tromba – comunicazioni che riguardava oggetti o

animali smarriti oppure ordinanze del sindaco. La canzone dunque prende spunto dalla canzone prende

quindi spunto dalla cultura tradizionale facendo ru vannìu una moderna forma di denuncia sociale che

tratta temi legati all’ecologia e al rispetto dell’ambiente. Il brano è costituito da nove strofe in cui possiamo

rintracciare della fraseologia locale, anafore, asindeti e sindesi. Quanto al lessico usato, possiamo

rintracciare una terminologia comune, tuttavia spiccano italianismi come fratellu al posto di frati, offesi al

posto di affinnuti e brutti al posto di ladi.

Fumu di castagni caliati, Francesco Giunta. (F. Giunta), 2012

Il testo fa riferimento alla festa dei tre giorni dedicata ai santi Cosma e Damiano, festeggiata a Sferracavallo.

L’autore spiega come il tempo abbia fatto diventare tale festa più un evento di routine, un evento più

commerciale che un festeggiamento spinto da motivi fraterni o religiosi, citando la musica inglese delle

giostre, la gente che si saluta non per affetto ma perché la festa lo richiede e ai mercatini costituiti dalle

bancarelle. Nella quarta strofa si notano gli unici elementi ludici della canzone. Il testo della canzone è

scritta prevalentemente in rima baciata, ma sono anche presenti consonanze e assonanze. V’è anche un

esempio di posizionamento dell’aggettivo prima del sostantivo, che risponde all’esigenza di assumere un

registro linguistico più poetico. Dal punto di vista retorico troviamo una metonimia, climax e un’antitesi.

Nel testo troviamo l’uso del regionalismo “alborata” che indica sia l’alba, che gli spari a salve che indicano

l’inizio della festa e alcuni arcaismi come grascia, caliati e vaneddi.

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Quannu è guerra, Francesco Giunta. (F. Giunta), 2012

Questa canzone è stata scritta la notte del 25 Novembre dell’85, giorno in cui Biagio Siciliano perse la vita in

seguito ad un incidente d’auto a piazza Croci, Maria Giuditta qualche giorno dopo. Il brano descrive il

tempo di una Palermo fatta di violenza e morte per le strade, dove a pagare il prezzo sono sempre i bravi

cittadini. Il testo esprime stupore e indignazione circa l’indifferenza e la mancanza di una qualsiasi

“reazione civica”, probabilmente dovuta alla paura. Questo senso di indignazione è esplicitato nella frase

“Ma com’è con ghiccati vuçi?” nell’ultima quartina, come a dire “Cos’altro deve succedere prima di

reagire?”, una espressione tradizionale che conferisce al messaggio una maggiore enfasi espressiva. La

seconda parte del testo evidenzia come in realtà tale ribellione sarebbe già dovuta accadere tempo prima,

prima che la Sicilia e i siciliani venissero stereotipati come mafiosi e violenti. A incrementare ancora di più

l’espressività del messaggio, aiutano le metafore e i modi di dire tradizionali presenti nel testo. Dal punto di

vista lessicale invece troviamo sia italianismi come “bbraci” e “tutti quanti” e arcaismi come “chiancheri” e

“iccari vuçi”.

Sicily, Ipercussonici. (Condarelli, Ferrara, Recupero), 2008

Il tema fondamentale è quello dell’autodefinizione dell’identità, in particolare di quella siciliana, tema che

parte dalla domanda “chi sei?” nella forma “comu ti sanu sentiri?” che significa “ come gli altri solo soliti

percepirti”? Nella canzone la propria identità appare strettamente legata alla propria terra, in cui emerge

un legame fisico. E’ un legame di reciprocità in quanto da una parte sono gli uomini che determinano il

futuro della propria terra, ma dall’altra è la terra che da la vita, e per questo agli uomini non dovrebbe

essere permesso disprezzarla. La terra quindi viene definita come ruci “picchi runa u sangu” e amara “picchi

spacca l’ossa”. Nello stile del brano possiamo notare una costante voglia di stabilire col pubblico un

contatto, stimolandone la partecipazione. Alla fine del testo, viene introdotto anche il tema del rifiuto al

ponte sullo stretto, tema caratteristico del movimento “no ponte” a cui appartengono diversi artisti isolani.

All’interno del testo possiamo trovare un uso dell’anafora e un uso di un lessico specifico, come “inna” e il

verbo “dire”.

Ahi ahi, Malanova. (P. Mendolia), 2008

Nel testo il protagonista narra di una notte insonne a causa delle zanzare e del caldo che lo tormentano,

colpa sua per non aver chiuso la finestra. Una possibile interpretazione che si potrebbe dare alla zanzara,

potrebbe essere quella di incarnare una metafora, facendo riferimento al racket dell’estorsione. La prima

parte della canzone è costruito attorno ad una similitudine che riprende la pratica tradizionale del

preparare la salsa fatta in casa. La similitudine sta nel movimento che la bottiglia fa mentre l’acqua bolle,

allo stesso modo il protagonista si dimenava nel letto. Il “pomodoro” costituisce una metonimia. Troviamo

un chiasmo nei primi due versi, e dal punto di vista lessicale troviamo “zanzara”, un italianismo in quanto in

dialetto si direbbe “muschitta”, arcaismi come “faianchia” e anche la parola “minchia” intesa come

esclamazione carica di valore espressivo.

Suttaterra, Pupi di Surfaro.

Il brano trae le radici dalle vicende dei lavoratori delle miniere di zolfo, situazione lavorativa in un ambiente

di degrado. L’intero brano gira attorno ad una grande antitesi implicita, che è la differenza fra il mondo che

sta sopra e quello che sta sotto. Da questo ambiente molti autori e artisti hanno attinto, come Pirandello,

Verga o Modugno. Il testo presenta molte figure retoriche come anadiplosi, rime interne ed esterne,

assonanze ed epanalessi.

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U munnu è fora, Qbeta.

Il brano è stato creato in seguito alle ribellioni da parte del popolo in seguito alle carneficine mafiose del

’92, in cui la gente riversava per strada la propria rabbia per quello che la loro terra era diventata. U munnu

è fora parla quindi della speranza e della voglia del popolo di creare un nuovo futuro. L’autore del testo

però, non parla del mondo mafioso e del mondo civile in antitesi, bensì usa un parallelismo, in quanto se

pur diversi coesistono nella stessa terra. Troviamo figure retoriche come anafore, epanalessi, climax e una

preferenza di assonanze e consonanze al posto della rima, strutture sintattiche semplici simili al parlato e

un lessico ordinario senza arcaismi o italianismi.

Rosa, Daniele Treves Band.

Nella canzone viene immaginato o ricordato una conversazione fra il protagonista e Rosa Balistreri; una

conversazione confidenziale come dimostrano le forme allocutive dirette, in cui l’autore consola Rosa

offrendole una spalla su cui piangere. Sul piano formale ha una struttura tipica della canzone popolare, che

si percepisce dall’uso dell’integrazione sillabica eufonica. All’assenza di rime sopperiscono la persenza di

fonemi consonantici labiali e alveolari. Nel testo possiamo notare dall’assenza della metafonesi e dall’uso

dell’articolo determinativo preceduto da consonante che l’autore aderisce alla propria parlata, inoltre

l’enclisi del pronome “tu” crea nel testo una ellitterazione. Sul piano lessicale troviamo parole di uso

comune, anche se troviamo degli arcaismi.

Lu giru di li vili, Dimora del Padrino.

La canzone è costruita in tre blocchi, tutti seguiti da un ritornello, cioè una filastrocca che denuncia

l’immobilismo dell’uomo che dipende dalla sua indolenza, la canzone però denuncia anche l’indolenza e

quindi l’immobilismo della politica. Questi uomini, sono gli uomini vili. I tre blocchi della canzone

corrispondono ad altrettante voci, la priam e la terza rappresentano un personaggio, i siciliani nella prima e

l’operaio e il datore di lavoro nella terza, la seconda invece, caratterizza l’uomo vile. Nel primo blocco v’è

l’invito ai siciliani e ai politici in modo implicito a fare di più per la propria terra, evidenziandone le bellezze

e il fatto che se continuano con l’immobilismo resterà così per sempre. Nel secondo blocco viene

rappresentato l’uomo vile; una persona che ha bisogno di qualcuno dietro che lo protegga e che rimanda

sempre tutto finchè qualcuno non fa il lavoro al posto suo. Nel terzo blocco viene contrapposta la figura

dell’operaio e del datore di lavoro, in cui l’operaio è sfruttato, sottopagato e pagato in ritardo. Sul piano

formale troviamo una forma simile al parlato, caratteristica dell’hip hop. Altre caratteristiche sono le rime

interne, le consonanze, chiasmo e l’uso di fraseologia tradizionale. Dal punto di vista lessicale, troviamo

parole dialettali ordinarie, qualche forma gergale come “venti carti” o arcaismi come “cariri malatu” o

“assiggiri”.

L’amuri di lu munnu, Luciano Maio.

E’ un brano contenuto nell’album “26 canzoni per Peppino Impastato”. Il brano prova ad immaginare cosa

potesse vedere il poeta nei fondali marini alla ricerc dell’”amuri di lu munnu”. Si tratta di un amore

universale che abbraccia ogni tipo di esperienza, che sia forte o più banale. Questo amore è cosi particolare

e raro che stare in un posto come l’abisso marino in attesa di qualcuno che lo prenda. Formalmente la

canzone si presenta con una struttura ricca di figure retoriche come anafore, anadiplosi e poliptoti. Da

notare la reduplicazione aggettivale usata per il superlativo (ranni ranni).

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Cola scaliava la calia, Francesco Giunta.

Il brano è formato da distici basati sull’ellitterazione, sono variamente rimati, rime interne, rime esterne e

rime finte oppure giocano sull’omonimia e sulla consonanza. Ogni verso si apre con un ipocoristico di

persona nel quale in uno scioglilingua si descrive un’azione abituale della stessa mediante l’uso di parole

caratterizzate dagli stessi fonemi rintracciabili nel nome.

Comu è sula a strada, Fratelli Mancuso & Antonio Mirangelo.

Il testo ha come tema principale quello del disagio di sentirsi stranieri all’estero e ancora di più nel tornare

nella propria terra. Il bravo prova a comunicare un senso di solitudine, di alienazione e di desolazione. Il

brano è una fotografia del senso di tristezza a causa dello spopolamento dei piccoli paesi siciliani dopo il

secondo dopoguerra, paesini abitati da persone anziane che piangono i giovani che partono. Troviamo

figure retoriche come perifrasi verbali, poliptoto, anafora ed ellitterazione.

Bolero, Carlo Muratori.

Il brano ripropone una scena dell’infanzia dell’autore. L’autore decide quindi di conferire al testo dei

connotati diacronicamente ricercati, appaiono dunque arcaismi come “sciruccata” o “arricogghiri”, il lessico

è diatopicamente marcato, in quanto l’autore decide di utilizzare alcune parole tipiche di Siracusa come

“schigghi”. Troviamo rime baciate, assonanze e consonanze. L’autore sembra voler far concentrare chi lo

ascolta sul focalizzare l’immagine che esso ha nella mente, utilizzando molto sostantivi e verbi che

completano la descrizione di un soggetto.

Cori Niuru, Alessandra Ristuccia.

E’ la colonna sonora del film Cuore Nero di Aldo Rapè. Racconta di un pescatore che si ritrova a pescare in

alto mare una decina di uomini africani sopravvissuti ad un naufragio. Nel brano v’è la scena in cui il cielo si

apre illuminando un mare pieno di corpi galleggianti, corpi di persone che hanno rischiato la propria vita

per trovare fortuna, fortuna che il signore non sempre da. Sul piano formale la forza comunicativa è

affidata alla prosopopea che investe gli elementi naturali del testo, il cielo e il mare. Il tema dello sconforto

è rafforzato da una scelta ricercata di un lessico che trasmette tale sensazione.

Com’è profondo il mare, Sudd MM ft. Lucio Dalla.

Si tratta di un brano di Dalla riarrangiato dai Sudd MM in una parziale trascrizione in dialetto. Nella terza

strofa appare una riscrittura del testo in italiano che viene recitato, fanno quindi capolino deittici (qua) e

segnali discorsivi (secondo me). La seconda strofa è anch’essa recitata e viene quasi urlata da una voce

maschile. V’è una sostituzione del termine “chirurgia sperimentale” con “fridduliati a ghiccari”. Nella parte

dialettale vengono eliminati tratti come la retroflessione o il raddoppiamento della “d” a inizio di parola e

spicca la forma sostitutiva di “su” al posto di “so” come possessivo.

Occhi a pampina, Tinturia.

Il brano affronta in chiave parodica il tema del consumo di stupefacenti fra i giovani. Il pezzo non è

concepito per fare una morale sull’uso della droga, più che altro allude agli effetti del consumo di droghe

leggere. Gli occhi a pampina indicato proprio lo sguardo perso e assonnato di chi ha appena fumato uno

spinello. In una chiave più leggera e meno critica, il brano riesce quindi a comunicare il disagio di vivere vite

vuote, passate senza una occupazione che non siano quelle rappresentate dal fumo, anche grazie al

parallelismo fra la vita di un bravo ragazzo studioso e il cattivo ragazzo che non ha voglia di studiare o di

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lavorare, accompagnato di solito da un comportamento da vittimista. Troviamo la presenza di rime baciate,

rime interne e assonanze, ripetizioni anaforiche, e un effetto copia.