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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 68 L’italiano contemporaneo INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE

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L’italiano contemporaneo

Inserto della rIvIsta ComunItàItalIana - realIzzato In CollaborazIone Con I dIpartImentI dI ItalIano delle unIversItà pubblIChe brasIlIane

agosto / 2009

Editora ComunitàRio de Janeiro - Brasil

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Direttore responsabilePietro Petraglia

EditoriAndrea Santurbano

Patricia Peterle

Co-EditoreSergio Romanelli

RevisoreAnna Palma

GraficoAlberto Carvalho

Segretaria di RedazioneLuana Dangelo (UERJ)

ComItato sCIentIfICoAlexandre Montaury (PUC-Rio); Alvaro Santos Simões Junior (UNESP); Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andréia Guerini (UFSC); Anna Palma (UFSC);

Cecilia Casini (USP); Cosetta Veronese (Univ. Birminghan); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. Wisconsin-Madison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Lucia Wataghin (USP); Luiz Roberto Velloso Cairo (UNESP); Maria Eunice Moreira

(PUC-RS); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Rafael Zamperetti Copetti (UFSC); Renato

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Mosena (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Roberto Mulinacci (Univ. di Bologna); Sandra Bagno (Univ. di Padova); Sergio

Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (Univ. “G. d’Annunzio”); Walter Carlos Costa (UFSC); Wander Melo Miranda (UFMG).

ComItato edItorIaleAffonso Romano de Sant’Anna; Alberto

Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni;

Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo;

Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio

Michele; Victor Mateus

esemplarI anterIorI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31

Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti

brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima

libertà, opinioni personali che non riflettono necessariamente il pensiero

della direzione.

sI rInGrazIano

“Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero”

stampatore

Editora Comunità Ltda.

ISSN 1676-3220

L’italiano contemporaneo

Dopo alcuni numeri dedicati a questioni più prettamen-te letterarie, Mosaico propone in questo numero una riflessione su un dibattito che non smette di appassio-

nare: quello sulla lingua italiana. La “Questione della lingua” ha diviso linguisti ante litteram

e intellettuali italiani sin dal suo sorgimento. Se prima la que-stione era triplice, scegliere fra latino, volgare fiorentino o to-scano e fiorentino colto o popolare, dalla costituzione ufficiale di una lingua italiana, avvenuta con la presunta unione politica di un territorio così disomogeneo in vari aspetti come l’ Ita-lia, la questione è diventata non meno complessa e polemica. Quale italiano? Esiste un italiano? Gramsci afferma nei Qua-derni dal Carcere che “la lingua è un [...] prodotto sociale, in quanto espressione culturale di un dato popolo [...]. Nelle lin-gue [...] c’è innovazione per interferenze di culture diverse (Q 26, 1930-32); e Pier Paolo Pasolini in Nuove questioni linguisti-che (1964) sottolinea la nascita di una lingua per la prima volta unitaria, generata dalla società tecnologica con centro a Mila-no e Torino: “[...] la lingua tecnico-scientifica, non si allinea secondo la tradizione con tutte le stratificazioni precedenti, ma si presenta come omologatrice delle stratificazioni linguistiche e addirittura come modificatrice all’interno dei linguaggi”.

Questi due intellettuali, così come tanti altri, sono interve-nuti caratterizzando un dibattito che era, ed è ancora, per l’ap-punto, non solo linguistico, ma culturale, letterario e politico. Oggi si continua ancora a discutere su che cosa sia l’italiano contemporaneo: quello di Firenze, ormai non più centro cultu-rale di riferimento dell’Italia “separata” dai leghisti, quello della burocratica e politicizzata Roma, sempre più agonizzante, o quello di Milano non più capitale degli yuppie, ma riferimento della stampa e della comunicazione, della moda e soprattutto rappresentante e rappresentata dalla classe politica al potere nella figura controversa del suo presidente del Consiglio dei ministri, un milanese doc, Silvio Berlusconi?

La questione rimane aperta, l’italiano è tutto questo e bene lo illustrano gli articoli che qui presentiamo nel tentativo di arrivare forse a un minimo comune denominatore: l’italiano neo-standard, che unisce le varietà linguistiche e non solo (ge-ografiche, sociali, ecc.) intorno ad una base comune. Lasciamo ai lettori il difficile, ma affascinante, compito di risolvere il di-lemma: qual è l’italiano contemporaneo?

Gli editori

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Saggi

Maria Cecilia CasiniFirenze capitale della lingua italiana? pag. 04

Elvira FedericiL’italiano contemporaneo: una foto in movimento pag. 09

Anna Palma e Paula Garcia de FreitasBella! Ci 6? Allora parliamo in ‘giovanilese’ pag. 14

Elisabetta SantoroQuale lingua insegnare? Riflessioni sull’insegnamento dell’italiano oggi pag. 17

Massimo FanfaniParole della «Costituzione italiana»: opinioni politiche pag. 22

Cecilia SantanchèLa pubblicità politica in classe pag. 27

Patricia Peterle e Girogio de MarchisL’esperienza del Teletandem in un seminario di traduzione letteraria pag. 31

Rubrica

Francesco AlberoniChi innova e ha successo suscita sempre feroci invidie pag. 34

Passatempo pag. 35

“Scrittori viaggiatori fra Italia e Brasile”: pubblica il tuo testo! Mosaico promuove un concorso per studenti universitari

La Redazione di Mosaico Italiano bandisce un concorso riservato agli studenti di università brasilia-ne sul tema: “Scrittori viaggiatori fra Italia e Brasile”.

Gli interessati devono inviare un articolo inedito, redatto in lingua italiana, di max. 12.000 caratteri (spazi inclusi), in Word – Times New Roman 12, con titolo, nome dell’autore, istituzione di appar-tenenza, e-mail ed eventuali note a piè di pagina, entro il 1º dicembre 2009, al seguente indirizzo: [email protected] .

Gli articoli devono vertere sul tema del viaggio di scrittori italiani o stranieri che abbiano avuto espe-rienze umane, artistiche o professionali in Brasile; o, viceversa, di scrittori brasiliani o stranieri in Italia.

Il miglior articolo, scelto dal comitato scientifico della rivista, sarà pubblicato su un numero di Mosaico del prossimo anno, che avrà, appunto, come oggetto il viaggio.

Non saranno presi in considerazione articoli che non rispondano alle esigenze richieste e che pre-sentino errori ortografici, grammaticali o sintattici.

Aspettiamo dunque i vostri testi e ...in bocca al lupo!La Redazione

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Firenze capitale della lingua italiana?

Maria Cecilia Casini

(Universidade de São Paulo)

La lingua italiana, come è noto, è figlia del fiorenti-no, cioè della lingua della

città di Firenze. Va a Manzoni il merito di aver riconosciuto “[...] nel fiorentino il fonda-mento genetico dell’italiano [...]” (DE MAURO, 1993, p. 329); e Ascoli scrive che “[...] il tipo fonetico, il tipo morfo-logico e lo stampo sintattico del linguaggio di Firenze si erano indissolubilmente di-sposati al pensiero italiano, per la virtù sovrana di Dan-te Alighieri [...]” (ASCOLI, 2008, p. 19); infine, Vitale afferma che “[...] la lingua co-mune nazionale italiana è il fiorentino, quale è venuto af-fermandosi e imponendosi at-traverso una serie complessa di vicende culturali e sociali in Italia come lingua di tutta la nazione nel corso della no-

stra storia civile [...]” ( VITA-LE, 1960, pp. 221-2).

Ma è ancora il fiorenti-no, nei fatti, a rappresentare il modello di lingua unitaria per gli italiani? E, nel caso, a quale fiorentino è neces-sario fare riferimento, quan-do si tratta di identificare la filiazione dell’italiano? La domanda è pertinente, e la risposta non è scontata. Non a caso in Italia si è dibattuto per secoli di “questione della lingua”, restando adombrato sotto questa espressione un problema, oltre che linguisti-co, di “egemonia culturale” (GRAMSCI, 1975, p. 2346), cioè anche di potere politico. Potere che da parte fiorentina tentò di imporre per ultimo, attraverso la pretesa superio-rità linguistica, il magnifico Lorenzo de’ Medici, a ratifi-

care il predominio della sua città (e della sua famiglia) in tutt’Italia; tentativo destinato a fallire, e che segna l’inizio dell’involuzione, politica ma anche culturale, dell’Italia in Europa. A metà ‘500 vanno definendosi quelle che saran-no per i secoli a seguire le linee normative della lingua italiana; come è noto, saran-no le tesi fiorentino-arcaiche del Bembo, che prevedono come modelli canonici la lingua poetica petrarchesca e quella della prosa boccac-ciana, a prevalere, ancora in gran parte contro i voti dei fiorentini del tempo: con il passare del tempo, infatti, la lingua di Firenze era natu-ralmente mutata, e per larga parte non corrispondeva più al fiorentino scritto dai grandi trecenteschi. Ma la norma-

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lizzazione politica promossa dall’avvento del granducato (1569) investirà anche il cam-po della lingua; il parziale recupero della centralità del fiorentino dell’uso contempo-raneo ad opera del Varchi non riuscirà di fatto a ribaltare una situazione che è già uno stato di fatto; nel 1612 sarà pubbli-cato, con la benedizione me-dicea, il primo Vocabolario degli Accademici della Cru-sca, in massima parte fedele agli orientamenti bembiani.

Secondo i quali orienta-menti la lingua modello d’Italia è dunque il fiorentino di Pe-trarca e di Boccaccio (mentre Dante rimane escluso dal ca-none), vissuti in quell’“aureo” ‘300 in cui la lingua di Firen-ze avrebbe toccato il più alto grado di perfezione della sua storia. A tale lingua dovrà fare riferimento nei secoli seguenti chiunque si cimenti in opere di scrittura; per quanto riguarda la lingua parlata, la questione è più complessa, perché solo gli appartenenti alle élite cul-turali potevano di fatto parlare in toscano, e in un toscano co-munque fortemente ‘inquinato’ dalle parlate locali; il resto del-la popolazione d’Italia si espri-meva nei vari dialetti nativi.

La maggior parte dei tratti della lingua di Firenze passati all’italiano moderno risalgono dunque ad una fase assai lonta-na dello sviluppo della lingua, quella del fiorentino trecente-sco, denominato “aureo” per l’estrema perfezione raggiunta. Fra questi tratti abbiamo:

● l’anafonesi delle due vocali /e/ e /o/ si chiudono in /i/ e /u/ davanti a consonante laterale palatale (famiglia, consiglio) o a gruppo nasale + occlusiva velare (lingua, lungo, ecc.);● la chiusura di –e atona in –i (pronomi atoni mi, ti, si; ME-LIOREM > migliore; DE > di, dichiarare e RE > ri, rinuncia-re; oggi esiste oscillazione: deplorare, regnare);● la vocalizzazione della vi-brante dentale latina nel nes-so /arjo/, con formazione del suffisso –aio, cui corrisponde –aro in altre parti d’Italia (ma-cellaio/macellaro);● l’indebolimento di /a/ pre-tonico nelle terminazioni verbali;● il dittongo spontaneo di nuovo, piede;● la sostituzione analogica della terminazione della pri-ma persona plurale del con-giuntivo –iamo a quella delle

desinenze –amo, -emo, -imo del presente indicativo;● il passaggio da –ar a –er, come nel futuro e nel con-dizionale (amarò > amerò; amarei > amerei); parole che presentano –ar come moz-zarella denunciano l’origine non toscana.

È possibile però riscontra-re nell’italiano attuale anche alcuni tratti del fiorentino più tardo, chiamato “argenteo” da Arrigo Castellani in con-trapposizione alla ‘perfezio-ne’ del precedente. Fra tali tratti ricordiamo:

● il tipo breve, prova (senza dittongo), in sostituzione del tipo trecentesco brieve, pruo-va (con dittongo di è e di ò in sillaba libera);● le forme ragliare, teglia, ri-sultato della palatizzazione di ragghiare, tegghia;● le forme verbali dia(no), stia(no) da dea(no), stea(no);● i numerali dieci, dicias-sette, diciannove, mille, da diece, dicessette, dicennove, milia;● domani e stamani al posto di domane e stamane (ma si usa ancora, anche se rara-mente, stamane);

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● il tipo me lo (dativo/accusati-vo), da lo mi (accusativo/dativo); ● la serie glielo, gliela ecc., dall’invariabile gliele;● ciliegia da ciriegia; piccione da pippione;● l’assenza di dittongo dopo palatale: fagiolo, gioco, figlio-lo (anticamente fagiuolo, giu-oco, figliuolo);● la prima persona dell’im-perfetto indicativo in –o inve-ce che in –a (io ero e non io era ecc.);● le forme dell’indicativo dei verbi irregolari dare, fare, sta-re, andare in sostituzione di quelle dell’imperativo: dai, fai, stai, vai (invece di da’, fa’, sta’, va’); ma in presenza di enclisi si raddoppia la conso-nante e si usa la vecchia for-ma: dammi, vacci ecc.;● la pronuncia a, bi, ci, di... delle lettere equivalenti, inve-ce dell’antica a, be, ce, de...; ● la diffusione del costrutto noi si va, invece di noi andiamo.

Ma, dando per acquisita storicamente l’origine dell’ita-liano dal fiorentino (trecente-sco o no), è ancora giusto, oggi, parlare di ‘predominio’ fiorentino della lingua comu-ne a tutti gli italiani? Esiste ancora - se è mai esistita - una omologazione linguistica al fiorentino da parte dell’italia-no del resto d’Italia?

Durante la sua esistenza l’italiano, come è noto, è pas-sato per molte crisi di crescita, e il rapporto con il fiorenti-no è cambiato. Soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo XVIII si comincia a sentire l’inadeguatezza della lingua italiana - sia nel regi-stro orale, sia (meno) a livel-lo letterario - come moderna lingua di comunicazione; e il fiorentino, come modello di lingua unitaria d’Italia, entra in crisi. Molti sono i fattori

determinanti questa situazio-ne, nella maggior parte legati alle sfavorevoli condizioni po-litiche e culturali d’Italia nel contesto europeo dell’epoca; ci limiteremo qui a richiamare la lucida testimonianza di Le-opardi, che comincia con una riflessione relativa alla man-canza di una capitale in Italia:

L’Italia non ha capitale. Quindi il centro della lingua ita-liana si considera Firenze [...]. In tutte le monarchie la buona e vera lingua nazionale risiede nella capitale. [...] Quando il centro della lingua non è la ca-pitale, il che non può essere se non quando capitale non v’è, esso non può né pretendere né esercitare di fatto una più che tanta influenza [...]. Di più tale influenza, qualunque sia o sia stata, non può essere che tem-poranea, dipendente dalle cir-costanze, e soggetta a scemare, crescere, svanire, mutar di poco insieme con esse. Tale influen-za non derivando dall’essere di capitale, né dall’influenza politica, non può derivare se non da quella influenza sociale che è data da una maggioranza

di coltura e letteratura, e che si esercita mediante queste. Fi-renze e la Toscana ebbero infat-ti questa maggioranza dal 300 al 500 [...]. Oggi tanto è lungi che l’abbiano, che, lasciando la lingua dove i toscani sono più ignoranti che qualunque altro italiano [...], Firenze in lettera-tura sottostà a tutte le altre me-tropoli e città colte d’Italia [...}. Il dire che Firenze o la Toscana debba oggi considerarsi per centro ed arbitro della lingua italiana perciocché più secoli addietro fu preminente in let-teratura, e che la sua letteratura antica, le debba dare influen-za sulla lingua nazionale mo-derna, è lo stesso che dire che gl’italiani debbono scrivere in lingua antica e morta, (giacché la letteratura toscana è morta) e quelli che seguono a considerar Firenze per arbitra della lingua italiana, e questa chiamano ancora ostinatamente toscana, sono, e non possono essere che quegli stessi i quali considerano e vogliono che la lingua italiana si consideri e s’adoperi come morta (Zibaldone, 2122-26, 19 novembre 1821). (LEOPARDI, 1998, pp. 238-40)

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È noto che nel corso dell’‘800, il secolo delle bat-taglie risorgimentali e della tanto desiderata unificazio-ne politica (1861), vennero avanzate due possibili grandi soluzioni al problema della lingua in Italia: una, mono-linguistica, da parte di Ales-sandro Manzoni, che pro-poneva come modello l’uso del fiorentino parlato colto; l’altra, da parte di Grazia-dio Ascoli, che caldeggiava la formazione di una lingua comune sovrarregionale gra-zie ad apporti dalle varie parlate d’Italia (una sorta di “teoria cortigiana” rivisitata). La soluzione adottata, anche a livello politico, fu, come si sa, quella di Manzoni, che si prestava più di quella ascoliana ad una immediata attuazione; il fiorentino oc-cupa una posizione di rilie-vo, come lingua identitaria e unitaria d’Italia, soprattutto nel periodo immediatamente successivo all’unità politica (in particolare nei pochi anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia, dal 1865 al 1871), e ancora nei due ulti-mi decenni del secolo XIX (e

in fiorentino, o toscano, sono scritti alcuni dei primi capo-lavori letterari dell’Italia uni-ta, come Pinocchio, Cuore, La scienza in cucina o l’arte di mangiar bene). Ma già alla fine del secolo il fiorentino comincia a perdere progressi-vamente la spinta espansiva a farsi idioma unitario della na-zione italiana, e si accentua il suo distacco dalle altre lin-gue d’Italia; come a dire che le cose per il fiorentino anda-vano meglio in Italia quando questa era divisa.

Dunque, se “[...] è indub-bio che l’italiano ha incor-porato stabilmente i caratteri fondamentali della varietà linguistica di Firenze [...]” (BRUNI, 2007, p. 41), è an-che vero che soprattutto nel corso del Novecento questa varietà ha perso gran parte del suo prestigio; nella prima metà del secolo a causa, fra l’altro, della forte opera di promozione di Roma come centro assoluto, anche lingui-stico, della nazione, portata avanti dal regime fascista; nella seconda metà a causa del progressivo svincolarsi della lingua “[...] dalla tradi-

zione umanistico-letteraria per diventare un’emanazione della tecnologia, strumen-to di pura comunicazione elaborato non più a Firenze o a Roma, ma nei centri in-dustriali del Nord” (ROSSI-MARONGIU, 2000, p. 108), del sempre maggiore spazio occupato da quello che il linguista Tullio De Mauro ha definito “italiano popolare unitario” e della ripresa di vigore dei dialetti, soprattutto a partire dagli anni ’60. Ri-cordiamo la categorica affer-mazione della non esistenza di una vera e propria lingua italiana nazionale da parte di Pier Paolo Pasolini, e alla polemica linguistica da lui innescata nel 1964 con la pubblicazione della confe-renza Nuove questioni lin-guistiche su “Rinascita”; testo che rilanciò in termini nuovi la vecchia questione della lingua, riaccendendo l’atten-zione di studiosi e letterati sulle condizioni linguistiche d’Italia e sulle modalità del loro funzionamento.

Come conseguenza di tanti cambiamenti molti dei tratti del fiorentino, che in teoria dovrebbero essere passati all’italiano, hanno perduto la loro condizione di canone e sono retroces-si alla dimensione locale. Oggi si ritrovano solo a Fi-renze o, dipendendo dal caso, in Toscana; fuori dalla Toscana sono spesso perce-piti come letterari o arcaici, e non vengono identificati come appartenenti alla lin-gua standard. Per esempio, per quanto riguarda la pro-nuncia, quella che dovrebbe servire da modello a tutti gli italiani è la cosiddetta “pro-nuncia fiorentina emenda-ta”, cioè “[...] una pronun-cia che rispetta le regole

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fondamentali del fiorentino ma è privata dei tratti speci-ficamente ed esclusivamente toscani, come la gorgia [...] o le pronunce spiranti delle affricate palatali [...]” (SO-BRERO-MIGLIETTA, 2006, p. 62); ma essa, nei fatti, non viene assolutamente rispet-tata fuori dalla Toscana (e poco, sempre meno, anche in Toscana). Tra i tratti del fiorentino “emendato” che non riscontriamo nella prati-ca dell’italiano standard pos-siamo ricordare:

● la distinzione fra le e e le o aperte e chiuse, da cui le coppie pèsca/pésca e bòtte/bótte;● la distinzione fra la fricati-va intervocalica dentale sorda [s] e la fricativa dentale sono-ra [z], come nelle terminazio-ni del passato remoto e in cer-te parole (difesi; casa; chiuzi; cazo);● il raddoppiamento fonosin-tattico (maddai; sopraffare; cheddici).

Nel 1999, avvicinando-si la fine del millennio, la rivista “Italiano & oltre” si propose di fare un bilancio dello stato dell’italiano con-temporaneo; in particolare, nel testo d’apertura intitolato Commenti Raffaele Simone si poneva due domande preci-se: “[...] che cosa è stato del fiorentino, cioè del grande modello che Manzoni aveva preconizzato adatto a tutti gli italiani, e, in secondo luogo, quale modello (se ce n’è uno) gli italiani hanno, nel frat-tempo, adottato? [...]” (“ITA-

LIANO & OLTRE”, 1999, p. 196). La risposta, a entrambe le domande, è “sconsolan-te” (“ITALIANO & OLTRE”, 1999, p. 197): secondo Simo-ne, “Firenze non rappresenta linguisticamente nulla per gli italiani”, che hanno “rifiutato compattamente” il fiorentino “malgrado gli sforzi durati per decenni”1 (“ITALIANO & OLTRE”, 1999, p. 196). Que-sto rifiuto non avrebbe per contro implicato l’adozione da parte degli italiani di un qualsivoglia altro modello di lingua unitaria, restando elu-so ancora una volta “il pro-blema civico di una lingua per tutti” (“ITALIANO & OL-TRE”, 1999, p. 197). Il rifiu-to di un “idioma federativo” avrebbe avuto conseguenze negative, che stanno sotto gli occhi di tutti: “[...] una co-scienza linguistica debole e malcerta, un istinto unitario assolutamente insufficiente, una totale incertezza cultu-rale e linguistica da parte dei mass media (specialmente la televisione), l’insensibilità di questo problema da parte di ministri e specialisti, una perdurante disaffezione verso la lettura e in genere verso la cultura, l’inesistenza di una letteratura nazionale capa-ce di inventarsi e propagare una lingua media per tut-ti, una pervicace resistenza all’apprendimento universale di una lingua straniera [...]”; tutti questi problemi e, inol-tre, la trionfante globalizza-zione, che destrutturerebbe le competenze linguistiche “disarticolandole qualitati-vamente”, hanno contribuito

a fare dell’Italia “un paese linguisticamente mediocre e culturalmente sconfortan-te” (“ITALIANO & OLTRE”, 1999, p. 197) e ad aprire il fianco agli usi e agli abusi di una lingua selvaggia, re-frattaria a regole e a norme d’uso. Insomma, la lezione di Ascoli, che indicava nella “scarsa densità della cultura” (ASCOLI, 2008, p. 29) uno dei principali motivi dell’im-possibilità di avere anche in Italia una lingua veramente unitaria (e della decadenza italiana in generale), con-tinua ad essere quanto mai attuale, “con o senza fioren-tino” (“ITALIANO & OLTRE”, 1999, p. 197).

Riferimenti bibliograficiAA.VV. “Italiano & oltre”. Anno XIV , n. 4, 1999.Ascoli, Graziadio Isaia. Scritti sulla questione della lingua (a c. di C. Grassi). Torino: Einaudi, 2008.Bruni, Francesco. L’italiano letterario nella storia. Bo-logna: Il Mulino, 2007.Castellani, Arrigo. Saggi di linguistica e filologia italia-na e romanza. Roma: Sa-lerno Editrice, 1980.De Mauro, Tullio. Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1993.Gramsci, Antonio. Qua-derni del carcere (a c. di V. Gerratana), vol. III. Torino: Einaudi, 1975.Leopardi, Giacomo. La va-rietà delle lingue (a c. di S. Gensini). Firenze: la Nuo-va Italia, 1998.

1 Nella stessa rivista, il questionario di Neri Binazzi sembra confermare il ‘decadimento’ del fiorentino da lingua nazionale a una varietà di lingua locale, che riconosce i “tratti forti” della sua identità in “[...] un lessico che ha stretto un patto di ferro con l’informalità e tradizioni discorsive radicate nel profondo [...]”; La fiorentinità tipica è vitale e popolare, ivi, p. 207. Del resto già nel 1956 Italo Calvino, nel suo lavoro di trascrizione delle principali fiabe della tradizione italiana, Fiabe italiane, aveva ammesso di essere intervenuto per abbassare il tono linguistico di fronte alla marcatezza e al carattere eccessivamente dialettale della lingua delle fiabe toscane.

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L’italiano contemporaneo: una foto in movimento

Elvira Federici

(Consolato Generale d’Italia in Curitiba)

Quella che parliamo, infatti, è una lingua che continuamente scorre e si rinnova, che aderisce come una seconda pelle alla società che la usa e che di questa società segnala […]

tanto gli impercettibili mutamenti di una deriva quanto l’onda improvvisa della catastrofe.(A. Sobrero, 1993)

Nonostante i suo tratti uni-versali - la lingua è una facoltà innata e innate

sono alcune procedure ge-nerative della lingua, come ci ricorda Chomsky - sono innumerevoli i modi di re-alizzare il pensiero e la co-municazione nelle diverse

lingue e, anche, all’interno della stessa lingua. Una lin-gua si muove, muta, respira esattamente come accade ai parlanti. Possiamo ricostruir-ne la sua storia e la sua evo-luzione nel tempo attraverso la dimensione diacronica e possiamo tentare di osservar-

ne una gamma di fenomeni in un dato momento, attraver-so la dimensione sincronica. Con la descrizione sincronica di una lingua, scattiamo una foto di chi la parla, fermiamo per un istante il suo fluire per osservare più attentamente, con il fenomeno linguistico,

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quello dei mutamenti storici e sociologici. La descrizione sincronica - cosa accade si-multaneamente in una lingua, quanto alla dimensione se-mantica, morfologico-sintatti-ca e pragmatica - è alla base altresì di una storia, che si percepisce nella dimensione diacronica, ricostruita attra-verso la sequenza dei muta-menti della lingua nel tempo. Una lingua è un sistema inte-grato di sistemi, in dipenden-za della storia di quella lingua e della storia dei suoi parlanti.

L’ italiano in questo sen-so è una lingua emblematica perché lingua “plurale” all’ interno degli stessi confini italiani, per effetto della va-rietà di repertori linguistici a disposizione dei parlanti. Le ragioni sono sia di natura sto-rica che sociolinguistica.

Come è noto l’ Italia, per quanto da sempre “nazione” sul piano storico, culturale e antropologico, è stata sogget-ta per secoli ad una grande frammentazione politica. Le città, le signorie e i principa-ti, hanno favorito, pur all’in-terno di una storia comune, una differenziazione linguisti-ca e culturale, oltre a quella ricchezza artistico-architetto-nica, che è il tratto peculiare del Paese.

Questo fatto e altre ragioni di natura politica hanno ritar-dato il formarsi di uno stato unitario che, per paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Spagna si può far risalire invece ai primi secoli dopo il Mille. Come Stato unitario l’Italia si costituisce invece tar-divamente, nel 1861, circa 40 anni dopo un paese del Mon-do Nuovo come il Brasile.

Ciò significa che l’italiano, per quanto già assestato nelle fisionomie morfosintattica e lessicale, dotato di prestigio

come lingua di cultura an-che oltre i confini territoriali, utilizzato nella forma scritta su tutto il territorio, tarda a diventare ufficialmente la lin-gua nazionale.

I dialetti si affiancano all’italiano non esistendo, sul piano linguistico-strutturale nessuna differenza di “valo-re” tra lingua e dialetti e van-no a comporre il “ repertorio di repertori” a disposizione del parlante italiano.

Possiamo quindi dire che il sistema linguistico italiano è un sistema di sistemi che hanno “[...] da tempo come lingua guida […] l’ italiano” (Pellegrini, 1977).

La distanza strutturale tra i diversi dialetti riferibili all’ita-liano non è di molto inferiore a quella tra le varie lingue ro-manze: un parlante siciliano e un parlante bergamasco non si capiscono più di quanto uno italiano capisca uno spagnolo.

I dialetti dunque non sono semplici varianti regionali dell’italiano. Fanno, tuttavia, parte del repertorio linguisti-co italiano, come l’italiano regionale, una variante dello standard fortemente influen-zata dal dialetto.

Il repertorio linguistico de-gli italiani è così costituito di una pluralità di repertori, che includono una diglossia (uso contemporaneo di due lin-gue, lo standard e il dialetto ) ma anche un’ampia gamma di varianti dello standard.

Così, più precisamente, de-finisce il sistema linguistico ita-liano Gaetano Berruto (1987):

bilinguismo endogeno (de-terminatosi per fattori interni, non dovuto a decisioni politi-che o a migrazioni);

a bassa distanza struttura-le (varietà dello stesso ceppo romanzo, esposte al contagio della lingua standard);

con dilalia (entrambi i re-pertori sono impiegabili in sovrapposizione).

Cosa possiamo osservare alla luce di questa definizione di Berruto?

L’italiano standard, come già ricordato, viene a costi-tuirsi sul toscano-fiorentino emendato, grazie al prestigio dei tre grandi scrittori toscani, Dante, Petrarca, Boccaccio, che ne compiono di fatto una sistematizzazione.

Questo modello – che nel tardivo processo di uni-ficazione nazionale diventa occasione di un grande dibat-tito sintetizzabile ne “la que-stione della lingua” (si pensi ad Alessandro Manzoni, e al dibattito con il grande filo-logo Graziadio Ascoli, che profeticamente ipotizzava un italiano sovraregionale) - la-scia tuttavia per secoli quasi inalterata la prospettiva dei parlanti. Il toscano-fiorentino, che già aveva guadagnato la sua diffusione non con l’im-porsi come lingua del re, con la spada o gli editti, ma per il prestigio sommo dei poeti che l’avevano di fatto siste-mata morfosintatticamente e nel lessico, era già modello delle classi colte delle altre regioni, al momento dell’uni-tà nazionale. Lingua scritta, lingua letteraria. Non ancora la lingua parlata dagli italiani.

Una scolarizzazione an-cora carente o legata al cen-so, la scarsa dimestichezza con la lettura e la scrittura di gran parte della popolazione post-unitaria fa sì che i dia-letti rimangano, localmente e per lungo tempo la lingua in uso, cui corrisponde l’ita-liano per tutte le forme scritte e istituzionali.

Nel dialetto si realizza lo scambio all’interno di una so-cietà che più che di cittadini

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è fatta di comunità. Il dialetto è infatti spesso l’unica lingua degli emigranti (cosa che spie-ga lo strano destino della dif-fusione dell’italiano in paesi come il Brasile, per esempio, dove piuttosto trova sistema-zione il Taliàn – dialetto vene-to con innesti portoghesi).

Il quadro muta, e vertigi-nosamente, in tempi che pos-siamo considerare recenti. Il boom economico della fine degli anni Cinquanta, l’ur-banizzazione, la migrazione interna, la scolarizzazione di massa e, non ultima, la te-levisione (De Mauro, 1976) producono in pochi anni mu-tamenti in un contesto lingui-stico secolarmente immobile. E la vera misura del mutamen-to sta nel fatto che l’italiano diventa lingua parlata di tutti e da tutti, non più solo quel-la codificata nella letteratura, nella scienza, nell’amministra-zione, imposta dallo Stato uni-tario a popolazioni sostanzial-mente dialettofone, ma lingua della comunicazione, con la gamma di varianti che tentere-mo di prendere in esame.

Se prima si parlava un massimo di dialetti e un mini-mo di italiano, ora il rapporto si inverte ovunque. Un’am-plissima maggioranza italofo-na che sa e usa la lingua rife-rita allo standard in relazione ai contesti comunicativi, si contrappone ad una esigua minoranza che parla solo il dialetto (vedere in proposito il fenomeno della convergenza linguistica dei dialetti verso lo standard, Sabatini, 1990).

I dialetti, sottratti alla fun-zione totalizzante di unica lingua di comunicazione cominciano a recuperare, una imprevista funzione di arricchimento connotativo di alcuni tratti culturali ( talvol-ta, con implicazioni etniche)

nei diversi strati sociali, come lingua accanto all’italiano; in questo senso: una varietà a tutti gli effetti.

La persistenza del dialetto si può pertanto ascrivere ad una scelta del parlante che, nella maggior parte dei casi, dispone oggi di un ampio re-pertorio. Questo tuttavia non può farci dimenticare che le poche unità percentuali di coloro che risultano parlan-ti solo il dialetto riguardano: più vecchi che giovani, più uomini che donne, più bassa che alta scolarizzazione, più realtà rurali e delle periferie delle grandi città del sud.

Questa premessa, per dare conto dell’estrema comples-sità del sistema linguistico italiano: sistema di sistemi, dicevamo, che include quat-tro dimensioni di variazione sincronica, all’interno della lingua italiana, secondo il modello sociolinguistico di Gaetano Berruto (1987) e una varietà di repertori dipenden-te dai dialetti, di cui esistono diversi modelli di descrizione.

Senza entrare nel merito dell’efficacia ed esaustività scientifica dei modelli, pos-siamo tuttavia prenderli a rife-rimento per “leggere” il siste-ma dell’italiano.

Se per standard intendia-mo quella che per ragioni storico-politiche e di prestigio culturale, non certo per intrin-seche qualità strutturali, diven-ta la lingua franca, questa sarà:

neutra, cioè non marcata rispetto al dialetto;

normata, attraverso la codi-ficazione in manuali e canoni;

normale, cioè statisticamen-te più diffusa tra i parlanti colti.

Lo standard è, alla lettera, un punto di riferimento rispet-to al quale descrivere le varia-zioni. Variazioni che rappre-

sentano la lingua viva, la lin-gua vera (senza contare che lo stesso standard sembra essere un bersaglio mobile, tanto è soggetto a modificazioni)

Il fiorentino del 300 emen-dato e contaminato si iden-tifica come standard, in cui troviamo una varietà alta: a base letteraria, italiano colto formale, scritto e una varietà bassa: l´italiano di uso me-dio o neo-standard, che, non riguardando solo l’oralità, rappresenta sempre più una varietà panitaliana, usata da parlanti di estrazione regiona-le, sociale o culturale diversa.

Nel modello sociolingui-stico di Berruto, che tuttavia mette in guardia dai limiti del-la schematizzazione, la varie-tà del repertorio, in dimensio-ne sincronica, è data dalle se-guenti, rispettive condizioni :

il mezzo fisico o il canale della comunicazione, diamesia;

la situazione comunicati-va, diafasia;

lo strato o il gruppo socia-le dei parlanti, diastratia;

l’area geografica, diatopia.

Il modello da conto, della varietà che si determinano se il parlante è di questa o quel-la regione (diatopia); se parla in un contesto comunicativo formale o istituzionale o in quello privato, colloquiale informale (diafasia); se appar-tiene ad un ceto sociale più o meno colto (diastratia); se usa il canale verbale o comunica attraverso altri mezzi di co-municazione, inclusa la scrit-tura (diamesia). Queste varie-tà, peraltro possono disporsi su un continuum e solo rara-mente: nel caso di una lingua scritta, scientifica, altamente formalizzata, non mescolarsi.

La gamma dei repertori in-vece, se ci atteniamo alla pro-

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posta capostipite (Pellegrini 1960) è data da:

italiano standard: non marcato

italiano regionale: stan-dard alto, con marche foneti-che e/o lessicali della regione;

koinè dialettale: dialetto depurato dei tratti locali più vistosi, che accoglie suoni e forme dei grandi centri regio-nali ed è fortemente italianiz-zato (vedi la koinè romana, veneta o napoletana);

dialetto locale.Francesco Sabatini (1985),

peraltro, indica l’italiano stan-dard e l’italiano di uso medio o neo-standard, come le uniche due “varietà” nazionali dell’ita-liano contemporaneo. Questa affermazione quasi provocato-ria, tende a rimarcare un tratto fondamentale: che l’italiano è la lingua universalmente parla-ta in Italia, a differenza di quan-to accadeva fino a 50 anni fa.

Soffermiamoci sull’italia-no neo-standard, che è non solo la varietà bassa dello standard, ma anche il reper-torio che incontriamo sempre più spesso, ad esempio, nella comunicazione televisiva dei talk show come delle soap.

Segno della caratteristica “unificante” del neo-stan-dard,, che non riduce la gam-ma delle realizzazioni dei parlanti ma diventa, appunto, un riferimento. Come tale uti-le per apprendenti l’ italiano come seconda lingua.

Sabatini (1990) individua 14 tratti, dell’italiano di uso medio o neo-standard. Ne ri-cordiamo alcuni:

lui lei loro in posizione di soggetto (invece di egli, ella, essi): loro stanno in albergo;

te usato con funzione di soggetto, in luogo di “ tu”: vieni anche te;

gli dativo unificato, al po-sto di le, loro: quando han-

no chiamato, gli ho detto di passare;

l’uso pleonastico o affet-tivo delle particelle pronomi-nali: a me mi piace; mi sono fumato un sigaro;

che relativo, adottato an-che per i casi obliqui (che prevedono la preposizione + il/la quale ecc.):

l’ anno che ti ho conosciuto;che polivalente, connetti-

vo generico che non consente di precisare il valore tempo-rale, causale o consecutivo: vieni che ti aspettiamo;

l’indicativo in luogo del condizionale e del congiunti-vo: era meglio se studiavi (sa-rebbe stato meglio che avessi studiato);

la dislocazione a sinistra: quel vestito l’ho già messo.

Più in generale si osser-va: una semplificazione del sistema verbale dovuto a co-struzioni prevalentemente paratattiche; la sostituzione del congiuntivo con l’indica-tivo e della forma passiva con quella attiva; l’estendersi del-le concordanze a senso, es. il padre con tutta la famiglia erano emigrati.

Non è peraltro possibile soffermarci sugli esiti lessicali di questa neo-standardizza-zione, data anche l’alta de-peribilità di questi ultimi; ad esempio, troppo al posto di

molto: troppo bello; assoluta-mente con valore affermativo: assolutamente si!

Questi tratti danno con-to di una lingua veramente comune, soprattutto parlata ma non solo, che si costitu-isce con la risalita da livelli sub-standard, di forme prima relegate nelle aree colloquia-li o triviali ed ora accettate nella lingua nazionale, i cui confini sono evidentemente aperti verso il basso (Sobre-ro, 1993).

In questo senso è interes-sante la definizione di italiano tendenziale (Mioni, 1983) che esplicita la tendenza dell’ita-liano popolare alla norma di maggior prestigio. L’italiano di uso medio o neo standard sembra individuabile alla confluenza di questo duplice movimento: dello standard verso il basso e del popolare verso lo standard.

ConclusioniAl termine di questo breve excursus, sintetizziamo in pochi punti la descrizione effettuata secondo una pro-spettiva sociolinguistica.

Il repertorio linguistico de-gli italiani è costituito da:

- l’italiano standard, che trova ovviamente spazio maggiore nella forma scritta, e comunque nella comunica-zione più formale dell’istitu-zione, della scienza, dell’in-formazione (non possiamo dire della letteratura, tout court, dato l’alto tasso di contaminazione linguistica presente nella produzione letteraria contemporanea);

- il neo standard o ita-liano dell’uso medio che, oltre a semplificare la mor-fosintassi dello standard, ingloba forme colloquiali e triviali, che nella dimensio-ne diatopica, (differenti aree

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geografiche) rappresentano le varianti dell’italiano re-gionale, determinatosi per effetto dell’italianizzazione del dialetto;

- i dialetti, tanto nella dimensione regionale che locale, utilizzati sempre più spesso in sovrapposizione- continuità con il neo-stan-dard (dilalia).

Restano fuori da questa sommaria trattazione - che non dà conto, ad esempio dell’italiano giovanile, del gergo, delle lingue speciali, peraltro virtualmente rap-presentabili nel modello di Berruto - l’italiano fuori d’Italia, importante sia nella prospettiva della diffusione contemporanea sia in quella del retaggio dell’emigrazione e l’italiano degli attuali immi-grati, interessante per registra-re il mutamento della fisiono-mia demografica e culturale dell’Italia stessa.

Se per l’italiano degli im-migrati sono ancora in atto studi i cui risultati non sono consolidati, dato che il fe-nomeno è linguisticamente e sociologicamente recente, per l’italiano degli emigran-ti e dei discendenti esisto-no certamente molti studi. Di fatto, si può dire che un italiano degli emigranti non esiste in quanto tale, trat-tandosi, come sappiamo di fossilizzazioni del dialetto, contaminato con la lingua del paese di nuova residen-za. Sappiamo peraltro che, per ragioni di natura sociolo-gica e storica – il patimento di un generale pregiudizio nei loro confronti- gli italia-ni emigrati non hanno tenuto a conservare la lingua per i

discendenti, cercando anzi, il massimo grado di integra-zione con l´apprendimento della nuova lingua.

Quello che rimane, nei dialetti e dei dialetti, appa-re piuttosto un lessico fa-migliare, parlato dai nonni, solo capito dai padri, so-stanzialmente ignorato dai nipoti (lo scrittore Osvaldo Soriano racconta che, nella sua esperienza di bambino, si era fatto questa idea, sen-tendo i nonni parlare una lingua solo capita e non parlata dai genitori: più si diventava vecchi, più si di-ventava italiani!). In questo senso lo studio e la diffusio-ne dell’italiano contempora-neo a partire dai discenden-ti, nonostante il forte legame linguistico e culturale con l´Italia, non è cosa acquisita né dagli esiti certi.

Benché sotto la spinta di enormi cambiamenti storico-sociali, l’italiano mostra tut-tavia di godere ottima salu-te: nella diffusione- vedere i prestiti verso le altre lingue e il numero di studenti, che la pongono tra le prime quattro o cinque nel mondo; nella tenuta strutturale e sintatti-ca; nella “demodiversità”1, rappresentata dai dialetti. Infine, nella sua base lessi-cale, praticamente invariata rispetto alla sua storia seco-lare: il vocabolario di base della lingua italiana (De Mauro, 1980) è costituito da circa:

2000 parole Fondamentali3000 parole ad Alto Uso2000 parole ad Alta Di-

sponibilità.Sono ancora quelle della

lingua di Dante.

Riferimenti bibliograficiBerruto, G. Sociolinguisti-ca dell’italiano contempo-raneo, Firenze 1987.De Mauro,T. Storia lingui-stica dell’Italia unita, Bari, 1963 e 1976De Mauro, T. Guida all’ uso delle parole, Roma, 1980Id. Come parlano gli italia-ni, Firenze 1994.De Mauro, Mancini F. Vedovelli M. Voghera M. LIP., Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Mila-no 1993.De Mauro, T. La fabbrica delle parole. Il lessico e problemi di lessicografia, Torino 2005.Lo Duca M.G. Lingua ita-liana ed educazione lingui-stica, Roma, 2004.Mioni, A. Italiano tenden-ziale: osservazioni su al-cuni aspetti della standar-dizzazione in AAVV Scritti linguistici in onore di G.B. Pellegrini, Pisa 1983Pellegrini, G.B. Tra linguae dialetto in Italia ,(1960) ora in Saggi di lingua italiana: storia, struttura, società, To-rino 1975Pellegrini, G.B. Carta dei dialetti d’ Italia, Pisa 1977Sabatini, F. L’ italiano dell’uso medio: una re-altà tra le varietà lingui-stiche italiane in Holtus, Radtke, 1985.Id. Una lingua ritrovata: l´italiano parlato, in V. Lo Cascio (a cura di) Lingua e cultura italiana in Europa, Firenze, 1990Sobrero A., Introduzione all’italiano contempora-neo, Roma-Bari, 1993.

1 La parola demodiversità è cominciata ad apparire come calco del neologismo “biodiversità” e sta a significare il complesso di differenze linguistico-culturali-antropologiche all’interno di un Paese o comunque di un contesto socio-politico definito.

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Bella! Ci 6? Allora parliamo in ‘giovanilese’

Anna Palma e Paula Garcia de Freitas

Il “giovanilese”, probabil-mente sempre esistito, se visto come creazione di

nuove parole ed espressioni a partire dalla lingua standard e di variazioni già esistenti, sta assumendo uno spazio sem-pre più ampio in cui manife-starsi dentro, soprattutto, alla comunicazione elettronica.

Dai linguisti è definito Linguaggio Giovanile (LG), e può essere inteso strictu senso, come la lingua par-lata dai giovani in determi-nate situazioni, una specie di gergo. Coveri (1988, p. 231) lo definisce come una varietà utilizzata quasi esclu-sivamente nelle relazioni di peer group, da adolescenti e postadolescenti (teenagers). Si tratta, spiega Coveri, di quella fascia di età (11-19 anni) che, dal punto di vista linguistico, è caratterizzata dal passaggio dal linguaggio infantile alla competenza lin-guistica ‘adulta’ mentre, dal punto di vista psicologico, è il momento della costruzio-ne dell’identità di sé, quan-do i modelli di riferimento e di comportamento passano dalla famiglia al gruppo di coetanei. Ma è definito an-

che “[...] un italiano zeppo di parole e locuzioni filtrate dalle varietà di lingua parlate originariamente soltanto dai giovani [...]” (NOVELLI, [s. d.]), utilizzato, pertanto, an-che da altre generazioni.

Ce lo immaginiamo e ri-cordiamo come espressione della lingua orale, fenomeno locale e a volte ristretto a un unico quartiere o a un gruppo di amici, la verbalizzazione dello spirito degli adolescen-ti, anticonformisti e deside-rosi di parole o espressioni che potessero rappresentare, in modo efficiente ed effica-ce, il loro desiderio di essere e di agire. Non possiamo di-menticarci dell’importanza del ruolo delle radio FM in questo senso, dove program-mi musicali dedicati esclusi-vamente ai giovani possono essere considerati un veicolo delle espressioni del mondo giovanile sia a livello locale che nazionale. Con l’avvento dei cellulari e dell’Internet, prende piede anche una dif-fusione in larga scala della sua variante scritta.

Il LG è stato classificato, quindi, come una varietà dia-fasica, cioè, un registro utiliz-

zato dai ragazzi in situazioni comunicative informali e pre-valentemente orali (D’ACHIL-LE, 2006) ma, anche nello scritto, per lo più di carattere breve, si possono rintracciare usi propri dei giovani, come nei graffiti, nei messaggi sms, blog, ecc. Si tratta di una va-rietà diafasica della lingua, così come diatonica, perché dipende da fattori geografici e diastratica, giacché coin-cide fino a un certo punto con l’italiano comune, e che viene impiegato dai giovani esclusivamente nelle relazio-ni di gruppo.

Possiamo dire che ogni generazione tende a differen-ziarsi da quella precedente e questo spiega la dinamicità e la straordinaria capacità di rinnovarsi del LG, che produ-ce anche un grande ‘spreco’ linguistico: molti dei lemmi prodotti e ‘in voga’ per qual-che tempo vengono abban-donati nel giro di breve tem-po – durano al massimo una decina d’anni e poi scompa-iono. Ma è ormai sempre più una convinzione che la lingua dei gio-vani è una varietà che influisce più che mai sull’ita-

(Universidade Federal de Santa Catarina)

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liano contemporaneo e “[...] che urge una descrizione linguistica di questa varietà tralasciata dai linguisti [...]” (RADTKE, 1993).

In Italia, pur essendo data una maggior attenzione al LG della fine degli anni Ottanta e inizio degli anni Novanta, un uso linguistico delle gene-razioni più giovani si può in-dividuare già negli anni Cin-quanta e Sessanta, soprattutto dopo il Sessantotto, in con-seguenza anche del progres-sivo abbandono del dialetto (D’ACHILLE, 2006).

Secondo Radtke (1993), a cui si devono le più dettaglia-te ed esaurienti esposizioni critiche del linguaggio gio-vanile italiano, questa nuova lingua si è andata affinando come realizzazione linguisti-ca che sostituisce il dialetto a livello di parlare emotivo, affettivo e informale. Questo perché fino agli anni 50-60

si usava l’italiano per le situa-zioni formali e il dialetto per quelle colloquial-familiari. Da quando nel nord-ovest e nel centro Italia il dialetto è quasi scomparso, il bisogno di comunicare con emotività ha contribuito a creare il lin-guaggio giovanile che nel Sud si è sviluppato con dieci anni di ritardo e di cui ora si vedo-no i primi accenni.

Una caratteristica note-vole del LG è l’inventività e varietà espressiva nell’uso ludico del linguaggio, forse per un bisogno di espansione linguistica, forse per il deside-rio di distinguersi da tutti e da altri gruppi coetanei. Il carat-tere di ludico nasce dal gioco con gli elementi della lingua standard da cui deriva. Da qui anche la classificazione di substandard che è attribuita a questa varietà linguistica (AL-BRECHT, 1993). L’intervento linguistico avviene a tutti i livelli linguistici. A livello fo-netico, un fenomeno molto frequente è la distorsione del-la catena fonica a fine tabu-istico, come trullo vs. grullo, cioè, tonto (BANFI, 1992). Ci sono esempi di deforma-zioni giocose, come iao vs. ciao, abbreviazioni di parole, come prof per professore e un fenomeno che va molto forte che è il raddoppiamento, che consiste nella reiterazione di un vocabolo con funzione intensiva, come ciao ciao, op-pure molto molto.

A livello lessicale, il li-vello di analisi che più offre elementi caratteristici e si-gnificativi, sono frequenti le cosiddette parole macedo-nia, che mischiano due o tre parole come handicapace, da handicappato + capace), i forestierismi, soprattutto anglicismi come okay, love, oops!; i termini propri di lin-

guaggi settoriali, della lingua della pubblicità, il dialetto, che si nutre di elementi trat-ti sia dal dialetto parlato in famiglia, sia da altri, come il milanese, il napoletano e soprattutto il romanesco, da cui proviene, per esempio, fico con valore apprezzativo (D’ACHILLE, 2006).

L’aspetto ludico si riflette anche a livello frasale (DINALE, 2001) nei giochi di parole, nel-le rime e filastrocche ed espres-sioni per mettere un evento in rilievo, come non ci posso cre-dere!, non puoi capire!, non esiste proprio!, ti prego!, più o meno marcate a seconda del luogo in cui si danno.

A livello semantico si ri-scontrano (SOBRERO, 1993) estensioni semantiche come godo per ‘sono contento’, usato quasi sempre con un pizzico di ironia, o enor-me, bestiale o pazzesco, per ‘bello, fantastico’. Ci sono pure risemantizzazioni come nell’uso della parola bella! nel senso di ciao! diffusa da Mila-no e da Roma; spostamenti di significato, come gasarsi per ‘darsi delle arie’ o nonno per ‘noioso, obsoleto’ e esagera-zioni: spacco tutto, mi diverto una follia, ecc. Oltre agli ele-menti linguistici, il linguaggio giovanile gioca anche sugli elementi extra-linguistici, spe-cialmente sull’intonazione di voce e sui gesti.

Secondo Albrecht (1993) è possibile descrivere “[...] buo-na parte del linguaggio giova-nile ricorrendo alla retorica, più precisamente all’elocutio, di cui la parte più conosciuta è l’ornatus [...]” (p. 30). Infat-ti, secondo questo autore, il linguaggio giovanile utilizza metafore o altri tropi della re-torica tradizionale.

Le tracce giovanili posso-no essere incontrate anche

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nello scritto, dove si presen-tano come forma di comuni-cazione veloce e informale, per certi versi simile al parla-to. Sono la chat, il blog e gli sms che si caratterizzano a seconda del mezzo utilizza-to, il computer o il cellulare. La velocità di composizione dei messaggi vincolati a que-sti mezzi porta a deviazioni e a un decadimento, per così dire, ‘autorizzati’ e poi, a seconda del mezzo utilizza-to, avremo delle peculiarità specifiche. Di solito la grafia utilizzata in questi mezzi è poco curata e assolutamente informale, tanto che ricorro-no frequenti errori di demar-cazione, frutto del cattivo uso della tastiera per la fretta di ri-spondere on line. Compaiono soluzioni grafemiche come il diffusissimo K al posto del ch dell’italiano standard – ke, qualke, anke per che, qualche e anche (PISTOLESI, 2004) o l’utilizzazione di abbrevia-zioni inventate, molte delle quali diventate canoniche, come “6” per la seconda per-sona del verbo essere o “xke” al posto di perché.

Il ludico giovanile si vede nello scritto attraverso gli Emoticon, le famose faccette che accompagnano i messag-gi, attraverso i monogrammi, cioè, quella unica lettera (o più lettere) che abbreviano una parola o un’intera frase come cmq per comunque e nn per non o TVB per ‘Ti vo-glio bene’.

Se molti elementi propri del LG hanno una vita effi-mera, altri hanno una durata più lunga e possono perfino passare alla lingua comu-ne. È il caso, per esempio, dell’uso della parola cioè come segnale di apertura di-scorsiva, molto in uso nella generazione post-sessantot-

tina che piano piano cede il campo a niente; oppure il caso di molte voci ed espres-sioni di origine dialettale o gergale (come stare in cam-pana = tenersi pronto, stare all’erta) che grazie all’impor-tante mediazione dell’uso dei giovani sono entrate o stanno entrando nel neostan-dard, perdendo così la loro connotazione ‘giovanile’.

Per quanto brevemente esposto in questo articolo, possiamo concludere che il Linguaggio Giovanile è, pro-babilmente, l’esempio più “vivo” di un idioma, la fonte più ricca e costante di rinno-vamento espressivo e lessicale di una lingua, rappresentante dell’anticonformismo salutare proprio dell’età giovanile. Se negli ultimi decenni l’impor-tanza linguistica di questo substandard è cresciuta tanto da richiamare l’attenzione di specialisti, è perché l’espres-sività giovanile ha trovato più spazi, rispetto alle vecchie ge-nerazioni, in cui manifestarsi ed assumere il carattere di una variazione linguistica di largo uso, non più a livello lo-cale come nei dialetti, da cui, comunque, continuano ad attingere. Da qui le influenze sulle variazioni dell’italiano standard di cui si è accenna-to. Tutti segnali, a nostro pa-rere, di una più significante attenzione, dentro la società, del ruolo svolto dai giovani anche, e questo non sempre può essere visto come un elemento positivo, dal pun-to di vista economico, come consumatori a cui dirigere un particolare interesse.

Riferimenti bibliograficiALBRECHT, Jörn. Esistono delle caratteristiche generali del linguaggio giovanile? In

La lingua dei giovani, a cura di Edgar Radtke. Tübingen: Narr, 1993, pp. 26-34.BANFI, Emanuele. Cono-scenza e uso di lessico gio-vanile a Milano e a Trento, in Il linguaggio giovanile degli anni Novanta. Regole, invenzioni, gioco. A cura di Emanuele Banfi e Alberto A. Sombrero. Bari: Laterza, 1992, pp. 99-148.COVERI, Lorenzo. Prospet-tive per una definizione del linguaggio giovanile in Ita-lia, in Varietätenlinguistik des Italienischen, a cura di Günter Holtus ed Edgar Radtke, Tübingen, Narr, 1983, pp. 134-141.D’ACHILLE, Paolo. L’italia-no contemporaneo.2 ed. Bologna: il Mulino, 2006.DINALE, Claudia. I giovani allo scrittoio. Padova: Ese-dra, 2001.NOVELLI, Silverio. V. La parola ai giovani. Il linguag-gio giovanile in Italia. Di-sponibile in:http://www.treccani.it/Por-tale/sito/lingua_italiana/scritto_e_parlato/lingua_giovani05.html. Accesso in: 17/06/09. PISTOLESI. Elena. Il parlare spedito. L’italiano di chat, e-mail e SMS. Padova: Ese-dra, 2004RADTKE, Edgar. Il linguag-gio giovanile in Italia: sta-te of art, le fonti, la docu-mentazione, la descrizione linguistica. In La lingua dei giovani, a cura di Edgar Radtke. Tübingen: Narr, 1993, pp. 1-23.SOBRERO, Alberto A. Co-stanza e innovazione nelle varietà linguistiche giova-nili, in La lingua dei giova-ni, a cura di Edgar Radtke. Tübingen: Narr, 1993, pp. 95-108.

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Quale lingua insegnare? Riflessioni sull’insegnamento dell’italiano oggi

Elisabetta Santoro(Universidade de São Paulo)

Non di rado chi insegna una lingua non mater-na si trova in difficoltà

nel momento in cui deve definire qual è la lingua da portare in classe e decidere cosa deve essere considera-to “giusto” o “sbagliato” in quella determinata lingua. La questione si fa ancora più difficile quando la lingua da insegnare è l’italiano e la situazione linguistica si pre-senta complessa come in Ita-lia dove, oltre alle variazio-ni determinate da normali fattori extralinguistici, esiste un repertorio diverso da re-gione a regione, influenzato soprattutto dai diversi dia-letti e dalla stratificazione sociolinguistica dell’italiano contemporaneo che rende difficile l’individuazione di una norma e di modelli a cui fare riferimento.

“Tra i due poli “giusto”/”sbagliato” si si-tua una zona grigia, in cui il parlante nativo può avere dubbi e incertezze” afferma Luca Serianni (Prima lezione di grammatica, Roma-Bari, Laterza, 2006), constatando che per definire cos’è l’ita-

liano si parte spesso dalla norma grammaticale, mentre sarebbe, invece, indispen-sabile considerare anche le diverse possibilità d’uso che subentrano in seguito a mo-difiche delineatesi nel corso del tempo e risultanti dalle influenze reciproche di fatto-ri come, ad esempio, l’oralità e la scrittura o i diversi gradi di formalità. Sempre secondo

Serianni, nel caso dell’italia-no, le incertezze riguardano una quantità di fenomeni molto più estesa in relazio-ne ad altre lingue per alme-no due motivi: 1. la tardiva affermazione di una lingua comune e la conseguente convivenza di più forme che non sono state filtrate, né sot-toposte al naturale processo di stabilizzazione delle lin-gue parlate da molti seco-li; 2. il valore attribuito alla codificazione grammaticale da una tradizione letteraria molto distante dall’effettivo uso della lingua.

Per decidere come com-portarsi in questa intricata situazione di partenza, i do-centi potrebbero decidere di ricorrere al Quadro Comu-ne Europeo di Riferimento per le lingue (QCER)1, che si propone di indicare percorsi di riflessione tanto a chi in-segna, quanto a chi impara una seconda lingua. E’ nella sezione in cui tratta dei de-scrittori di appropriatezza sociolinguistica (p. 149) che il QCER affronta la questio-ne dei registri e delle varietà della lingua. Il QCER pro-

1 Il titolo completo del documento è Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue: apprendimento, insegna-mento, valutazione. E’ uscito in inglese nel 2001 ed è stato pubblicato in italiano nel 2002 (La Nuova Italia, traduzione di F. Quartapelle e D. Bertocchi).

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2 Il saggio di Serianni si intitola “La lingua italiana tra norma e uso” ed è apparso in MARELLO, C. & MONDELLI, G. (a cura di) (1991). Riflettere sulla lingua, La Nuova Italia, Firenze.

pone comportamenti diversi a seconda dei diversi gradi di competenza e suggerisce che solo a partire dal livel-lo B2 si inizi a considerare l’appropriazione dei registri da parte dell’apprendente, visto che ancora al livello B1 sottolinea che chi impara “è in grado di realizzare un’am-pia gamma di atti linguistici e di rispondervi usando le espressioni più comuni in registro ‘neutro’”. In altre pa-role, l’indicazione del QCER è che fino al raggiungimento del cosiddetto livello soglia gli input testuali rappresen-tino una varietà di lingua neutra e non marcata e che le produzioni orali e scritte richieste agli studenti rispet-tino le stesse caratteristiche.

La lingua così com’è nel-la realtà potrebbe essere uti-lizzata in classe solo a par-tire dal livello B2, quando l’apprendente “è in grado di esprimersi in modo sicuro, chiaro e cortese in registro formale o informale a secon-da della situazione o della persona implicata”. Giungen-do al livello C1, lo studente “coglie i cambiamenti di re-gistro” e avrà imparato “a ri-conoscere un’ampia gamma di espressioni idiomatiche e colloquiali”, anche se solo al livello C2, quello più alto secondo il QCER, “coglie pienamente le implicazioni sociolinguistiche e sociocul-turali del linguaggio di un parlante nativo e reagisce in modo adeguato”. La pienezza e la complessità della lingua che sta imparando potrebbe-ro, insomma, essere “rivelate” solo quando lo studente arri-va a livelli di conoscenza del-la lingua molto elevati.

Tutto questo discorso ci pone di fronte a una prima questione: esiste la “lingua neutra” di cui parla il QCER? E se esiste, quale sarebbe? Si potrebbe forse trattare di quel-la lingua che alcuni docenti si rammaricano di non riuscire più a trovare neanche nei film doppiati, nella voce dei pre-sentatori radiofonici o televi-sivi o nelle rappresentazioni teatrali, visto che persino in questi ambienti l’italiano co-siddetto standard ha lasciato il posto a quello che è stato definito semistandard o sub-standard e che ammette va-riazioni regionali soprattutto a livello fonetico. Di fatto, il “mito” dell’italiano standard o italiano della norma che non lascia spazio a varietà di alcun tipo e che si “impara” dalle grammatiche e nei cor-si di dizione è stato da tempo superato ed è stato sostituito da un italiano che vede la norma in modo più flessibile e che, come nella comunica-zione “reale”, ammette varia-zioni di diverso tipo.

Il riferimento linguistico non è più la letteratura, che contiene, tra l’altro, essa stes-sa diversi registri e consente sempre più la penetrazione di elementi regionali o derivati da situazioni comunicative di vario tipo, ma la lingua ef-fettivamente utilizzata dalla massa dei parlanti che usano l’italiano e lo adeguano alle loro necessità linguistiche, dando origine nell’uso a va-riazioni che, nel corso del tempo, vengono incorporate o respinte e alterano quello che, citando ancora una volta Serianni, potremmo chiama-re “comune sentimento della lingua”, espressione coniata

sulla base di quello che nel diritto viene definito “comune sentimento del pudore”2. Do-vrebbero essere, insomma, gli stessi parlanti a definire cosa si può o no ammettere nella loro lingua e a determinare, attraverso il loro uso della lin-gua, l’accettazione o il rifiuto dei cambiamenti, superando l’incertezza e assumendo il ruolo di “arbitri linguistici”.

Succede, dunque, che a voler usare in classe una lin-gua “neutra”, si correrebbe il rischio di utilizzarne una eccessivamente distante da quella effettivamente presen-te nelle situazioni in cui si co-munica in italiano oralmen-te o per iscritto. Una lingua non marcata non potrebbe infatti corrispondere né alla comunicazione quotidiana e informale, né a quella col-ta, burocratica o formale, ma neanche a tutta una serie di situazioni intermedie in cui sono praticamente sempre presenti elementi che difficil-mente potranno essere con-siderati “neutri”, visto che manifesteranno sempre le caratteristiche di una determi-nata situazione comunicativa e di una specifica comunità di parlanti.

Va aggiunto che, se è vero quello che abbiamo af-fermato finora, è anche vero che portare in classe un testo scritto o parlato in una lingua “neutra” porrebbe al docente un ulteriore problema: diffi-cilmente potrebbe non essere un testo creato a soli fini di-dattici e sarebbe, pertanto, un testo senza lo spessore enun-ciativo e la dimensione cul-turale della comunicazione vera. Diversamente da quella presente nel materiale auten-

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tico, la lingua creata apposta per l’insegnamento sopprime, infatti, il contesto e le possibi-lità interpretative che ne deri-vano, impoverendo la comu-nicazione ed affidandosi ad un’artificialità che si distanzia dalla vita reale e non prepara gli studenti ad affrontarla.

A quest’ultima riflessione si collega ancora una doman-da: si può “nascondere” allo studente la lingua della real-tà finché non arriva ad un li-vello avanzato? In che modo reagirà un apprendente a un contatto extrascolastico con la lingua che studia, se non gli si presentano già in clas-se le variazioni che questa lingua contiene? Anche se si hanno in mente studenti che imparano l’italiano fuori d’Italia e che probabilmente vedranno nell’insegnante il loro principale punto di riferi-mento linguistico, non si può non considerare che questi apprendenti possono facil-mente ascoltare altre voci in internet, in televisione o al ci-nema e che hanno numerose possibilità di accesso a testi di vario tipo. Sarà pertanto

necessario considerarli anche in classe, analizzarli, capire e far capire agli studenti a qua-li ambienti e a quali varietà appartengono per permettere loro di orientarsi e di impara-re ad individuare le forme e i registri che vanno utilizzati nelle diverse situazioni comu-nicative in cui ci si può trova-re. Se l’obiettivo è insegnare una lingua da utilizzare nella realtà, devono dunque essere presi in considerazione anche in classe i numerosi modelli che si hanno a disposizione e non si possono escludere le infinite trasformazioni che derivano dai diversi tipi di va-riazione.

Se pensiamo, per comin-ciare, alla variazione diatopi-ca, ovvero, quella dipendente dalle diverse influenze regio-nali e determinata, pertanto, da fattori collegati alle aree geografiche, abbiamo già al-cune classificazioni che, par-tendo dall’italiano standard, ci fanno arrivare fino ai diver-si dialetti che contraddistin-guono linguisticamente l’Ita-lia. Come abbiamo già visto, l’italiano standard, ovvero

quello che si ispira ai modelli dell’italiano scritto, colto e let-terario e che a livello fonetico e fonologico segue le norme stipulate, si può considerare praticamente inesistente nella vita reale. Di fatto, la varietà di italiano di gran lunga più frequente anche tra gli italofo-ni di elevato livello culturale è quella dell’italiano semi-standard o sub-standard che, sebbene non sia facile da de-limitare, può essere definito come quella varietà di italia-no che include diversi aspetti dell’italiano standard comuni a tutto il territorio nazionale, ma non ignora le diversità regionali e non è quindi una varietà compatta ed unitaria. Si parla poi di italiano regio-nale quando si pensa alla va-sta gamma di fenomeni tipici delle varie regioni d’Italia che saranno ovviamente diversi da regione a regione e che, pur di provenienza dialettale, si innesteranno sull’italiano standard, senza alterarne la comprensibilità e la capacità di penetrazione nazionale. Solo un gradino al di sopra rispetto ai dialetti, si trovano poi le diverse manifestazioni di italiano popolare, proprio degli strati sociali con un bas-so livello di scolarizzazione e caratterizzato da tratti di chiara derivazione dialettale e fenomeni di ipercorrettismo a tutti i livelli. Oltre alle cita-te varietà, è noto che fanno ancora parte del repertorio linguistico degli italiani, in-dipendentemente dal livello di istruzione, i diversi dialetti che, soprattutto in alcune re-gioni, in situazioni familiari e informali, vengono ancora spesso utilizzati e con cui, quindi, sarebbe auspicabi-le che lo studente straniero venisse a contatto, almeno in alcuni momenti del suo

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percorso di apprendimento dell’italiano, in modo da po-ter conoscere appieno la real-tà linguistica italiana e prepa-rarsi alle diverse situazioni.

La distinzione che abbia-mo appena visto è essenzial-mente basata su caratteristi-che geografiche e considera soprattutto i possibili influssi dei dialetti e dei regionali-smi sull’italiano. Si è visto, comunque, che in alcuni momenti è già stato neces-sario ricorrere anche a fattori come la provenienza sociale e il grado di scolarizzazione per poter spiegare certi feno-meni. Di fatto, la riflessione su quella che si è soliti chia-mare variazione linguistica non si limita alle questioni geografiche, ma considera vari altri elementi che, sem-plificando, possono essere inseriti nella variazione dia-stratica, diafasica, diamesica e diacronica.

Come si è già visto, la lingua cambia a seconda dei gruppi sociali che la utilizza-no. Si parla per questo tipo di fenomeni di variazione diastratica che dipende, tra le altre cose, dall’età, dal-la professione, dal sesso e dal livello d’istruzione dei parlanti. Visto che i parlanti appartenenti a livelli sociali più elevati sono quelli con un più generalizzato accesso all’italiano standard e di con-seguenza quelli che meno producono “forme devianti” rispetto alla norma, si consi-derano in questo tipo di va-riazione soprattutto le varietà “basse” come il già citato ita-liano popolare o, a seconda dei casi, la lingua colloquia-le di uso comune. Un altro aspetto rilevante è, tra gli al-tri, quello dell’italiano giova-nile che introduce trasforma-zioni, il cui uso viene talvolta

ampliato fino a diventare par-te dell’italiano comune.

Esiste poi la variazione diafasica in cui la dimensione del cambiamento è data dalla situazione comunicativa, così che si configurano i cosiddet-ti registri e le lingue speciali o settoriali. E’ essenziale in questo tipo di variazione con-siderare i cambiamenti dovuti alle caratteristiche dei diversi interlocutori e al conseguente grado di (in)formalità che ne deriva e che influenza le scel-te linguistiche di chi partecipa all’evento comunicativo.

Un ruolo importante ha anche la cosiddetta variazio-ne diamesica, ovvero quella che dipende dal mezzo in cui la lingua viene veicolata. Una fondamentale differenza è quella tra la lingua parlata e quella scritta che è un’op-posizione che attraversa tut-te quelle che abbiamo citato finora e, al tempo stesso, ne è attraversata. Di fatto, la di-versa natura del mezzo uti-lizzato per la comunicazione induce a scelte obbligate che per molto tempo non sono state prese in considerazio-ne, visto che le descrizioni dell’italiano sono state ba-sate solo su testi scritti, per di più di registro formale, e che queste descrizioni hanno rappresentato il punto di ri-ferimento per decidere sulla correttezza di un enuncia-to, indipendentemente dalla situazione in cui era stato prodotto. Negli ultimi decen-ni questo atteggiamento è profondamente cambiato e i numerosi studi con-dotti sulla lingua parla-ta hanno evidenziato una serie di notevoli differenze tra lo scritto e il parlato. Solo per fare qualche esempio, nel parlato si verifica

la frammentazione sintattica e si osserva la presenza di enunciati più brevi, spesso anche non conclusi; ci sono evidenti pause di esitazione per la riformulazione, riorga-nizzazione e autocorrezione; viene utilizzato con una fre-quenza sempre maggiore il cosiddetto “che polivalente”; si semplifica il sistema verba-le di alcuni tempi (aumenta soprattutto l’uso del passato prossimo a scapito del passa-to remoto) e modi (maggiore uso dell’indicativo rispetto al congiuntivo).

Menzioniamo per ulti-ma la variazione diacronica, ovvero quella che considera i cambiamenti che avven-gono nel corso del tempo. I fenomeni più interessanti sono spesso quelli che stan-no avvenendo nel momento stesso in cui la lingua viene osservata e che verranno in-terpretati in modo diverso a seconda del concetto di nor-ma a cui si fa riferimento. La lingua che cambia, dunque, e che lo mostra in manie-ra particolarmente evidente nel lessico che deve via via incorporare e riflettere ciò che si trasforma nel mondo. Molto meno appariscenti sono le alterazioni a livello fonologico e morfosintatti-co che avvengono in modo decisamente più lento e che

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3 Il testo di Francesco Sabatini a cui facciamo riferimento si intitola “L’italiano dell’uso medio: una realtà tra le va-rietà linguistiche italiane” ed è stato pubblicato in G. Holtus e E. Radtke, Gesprochenes Italienisch in Geschichte und Gegenwart (Tuebingen, Narr, 1985). Il libro di Gaetano Berruto è, invece, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo. Dopo la prima pubblicazione del 1987 (Roma, La Nuova Italia Scientifica), è stato ripubblicato nel 1998 dalla Carocci Editore (Roma).

necessitano di un periodo maggiore di assorbimento. Sappiamo, infatti, che un cambiamento all’interno di un sistema linguistico non avviene praticamente mai in modo repentino, ma prevede tempi anche piuttosto lunghi di convivenza tra la forma già consolidata e quella nuo-va che tende a soppiantare la prima, occupando parzial-mente o totalmente la sua area funzionale.

La lingua è dunque sem-pre in movimento e viene co-stantemente trasformata a vari livelli. E’ per questo illusorio credere in una norma fissa e immutabile che dovrebbe ser-vire come costante punto di riferimento per aiutarci a indi-viduare ciò che si può o non si può dire, nel nostro caso, in italiano. Questa consape-volezza porta inevitabilmente ad uno spostamento del con-

cetto di norma che si avvicina all’uso e che riconosce e ac-cetta il modo in cui gli italiani effettivamente parlano e scri-vono, considerando che di-verse forme linguistiche pos-sono anche convivere e che la descrizione dell’uso deve tenerne conto.

E’ stato a partire da con-siderazioni di questo genere che a partire dagli anni ’80 diversi linguisti hanno cerca-to di dare un nome al “nuo-vo” e sempre meno rifiutato italiano. Da una parte, Fran-cesco Sabatini in un testo del 1985 ha proposto il concetto di italiano dell’uso medio che esemplificava indicando una serie di tratti fonologici, mor-fosintattici e lessicali e che, a suo parere, si candidava “ad occupare, dopo secoli di ostracismo, il baricentro dell’intero sistema linguistico italiano”. Poco più tardi, nel 1987, è stata la volta di Ga-etano Berruto che, definendo l’italiano che chiamava neo-standard, sottolineava l’im-portanza delle varietà lingui-

stiche presenti in Italia e la necessità che si stabilis-

se fra loro un rapporto dialettico per poter definire un nuo-vo standard non escludente che non ignorasse il reale uso dell’italiano.3

Possiamo ora tor-nare alla domanda che ci siamo posti fin

dal titolo. Consideran-do tutte le variazioni e

i possibili fattori che le influenzano, qual è l’ita-

liano che si deve insegnare?

Che cosa si deve conside-rare “giusto”? Come spesso accade, è difficile dare una risposta univoca e valida in tutte le situazioni. Abbia-mo visto che molto dipende dalle situazioni in cui si usa la lingua che spesso, pro-prio grazie ai cambiamenti in corso, si arricchisce e ci mette a disposizione diverse possibilità. Si dice spesso che l’italiano tende ad un impo-verimento che molti vedono, per esempio, nell’apparente perdita del passato remoto o del congiuntivo. Non mi pare che sia così. Non anco-ra, quanto meno. L’italiano di oggi vive quella fase di convivenza di diverse for-me che offrono a chi parla e a chi scrive maggiori pos-sibilità di scelta e quindi di variazioni anche espressive. Ciò che importa, pertanto, è che si conoscano a fondo le possibilità della lingua e che si impari a distinguere quali sono le situazioni in cui possono essere utilizzate, i diversi contesti in cui una forma deve essere preferita a un’altra e gli svariati effetti di senso che l’uso di una possi-bilità invece di un’altra può creare nel testo orale o scritto che si sta producendo. Impa-rare l’italiano oggi significa insomma non solo conoscere e saper riconoscere le varie-tà che possiede, ma anche la loro posizione all’interno del sistema linguistico. Solo così la lingua potrà essere usata in modo consapevole e permet-tere agli apprendenti di gesti-re la comunicazione con la necessaria competenza.

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1 Segnalo anche il volumetto uscito per la stessa circostanza celebrativa, Io parlo da cittadino. Viaggio tra le parole della Costituzione italiana, a cura di Maurizio Bossi e Nicoletta Maraschio, Firenze, Regione Toscana, 2008.

2 Per la verità il termine opinioni – senza ulteriore specificazione e quindi in un senso più generale ma che com-prende, com’è ovvio, anche quello delle ‘convinzioni politiche’ – è impiegato altresì negli articoli 68 e 122, nei quali si afferma, rispettivamente, che i membri del Parlamento e i consiglieri regionali «non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni».

Parole della «Costituzione italiana»: opinioni politiche

Massimo Fanfani(Università degli Studi di Firenze)

Il testo della Costituzione italiana, promulgato il 27 dicembre 1947, non solo

costituisce il documento fon-dativo dell’Italia repubblicana e la pietra d’angolo della sua legislazione, ma è una pagi-na esemplare anche dal pun-to di vista linguistico e, se si vuole, letterario: semplice e chiara ma insieme profonda di memorie e di auspici, ric-ca di parole comprensibili a tutti ma dette con voce seria e quasi accorata, affinché tutti si sentano spronati a guardare avanti, a volgersi al bene co-mune. Tanto che proprio per il suo intrinseco spessore lin-guistico, tale testo ha interes-sato anche gli specialisti: fra l’altro, già nel 1971, l’Istituto per la Documentazione Giu-dica di Firenze ne pubblicò le concordanze a cura di Anna Maria Bartoletti Colombo e di recente, per la ricorrenza del sessantesimo anniversario,

Tullio De Mauro è tornato ad analizzare il suo lessico con un penetrante saggio che ac-compagna l’edizione stampa-ta dalla Utet di Torino1.

Se in particolare ci si sof-ferma sul lessico, che assom-ma a soli 1357 lemmi – e per tre quarti appartenenti al vo-cabolario di base dell’italia-no – ci si rende subito conto di trovarci di fronte a parole “importanti”, decisive sia per il valore che esse assumono all’interno del contesto costi-tuzionale, sia per gli echi che provengono dalla loro storia, talvolta di secoli. Se, ad esem-pio, consideriamo un’espres-sione che pur compare una sola volta nella Costituzione, “opinioni politiche”, non si può negare che essa acqui-sti un riflesso particolare dal fatto che è collocata in un ar-ticolo cardine fra quelli che compongono la tavola dei principî fondamentali, il ter-

zo, che recita nel suo primo comma: «Tutti i cittadini han-no pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, sen-za distinzione di sesso, di raz-za, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di con-dizioni personali e sociali»2.

Il dettato è chiaro: s’inten-de proclamare in modo espli-cito e solenne l’uguaglianza di ogni cittadino, e insieme la sua piena libertà di essere quello che è, sia per ciò che riguarda la sua natura (sesso e razza), la sua cultura e le sue idee (lingua, religione, politi-ca), le sue condizioni (profes-sione, classe sociale, censo). Come l’uguaglianza non va intesa grossolanamente, così la libertà non è assoluta, ma viene circoscritta dalla stessa carta costituzionale in modo opportuno e ragionevole, specie quando si tenga conto del momento storico in cui essa fu redatta. Ad esempio, le “opinioni politiche” che essa ammette sono quelle che si fondano sul metodo democratico e non si appella-no invece ad associazioni di tipo segreto o militare (artico-lo 18); che sono fermamente ancorate alla forma repubbli-cana (articoli 54 e 139); che rinunciano a razzismo, sepa-ratismo, fascismo, ricorso alla guerra (articoli 3, 5, 11; XIIª disposizione transitoria), e così via.

Il principio di uguaglianza dell’articolo 3 è inoltre ben scolpito non solo nella “co-stituzione formale”, il testo promulgato allo scorcio del 1947, ma anche nella costitu-zione “materiale”, il comples-

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so delle norme con cui essa è venuta concretamente attuan-dosi in questo sessantennio. Ma ancor prima è scolpito in quella più profonda “costitu-zione” immateriale – se ne al-lude quando si parla di “pari dignità sociale” – che ciascun italiano si porta nell’animo e che forma il comune sentire di cui si alimenta la vita della società e quella dello Stato.

La parità fra i cittadini – pur coi loro diversi senti-menti, caratteri intellettuali e fisici, aspirazioni morali e materiali – è un valore gene-ralmente diffuso e ormai così abbarbicato nelle coscienze, che quando vien meno ce ne accorgiamo subito e la cosa ci ferisce. Del resto si tratta di un principio talmente ovvio che vale, o dovrebbe valere, per gli esseri umani di tutte le nazioni; un principio che è stato insegnato dal cristiane-simo, fatto proprio dal pen-siero liberale e democratico, ma che in fondo è probabil-mente compreso da qualsiasi uomo onesto, anche se non conosca san Paolo né abbia mai letto una costituzione. E il nostro caso particolare – l’uguaglianza e la libertà delle “opinioni” di ciascun individuo – è sempre apparso così banalmente scontato che perfino nel buio del ventre del Pesce-cane, la saggezza parlante del “Tonno filoso-fo” non può fare a meno di ricordare a Pinocchio che «le opinioni, come dicono i Ton-ni politici, vanno rispettate».

Tuttavia, a rifletterci bene, son proprio le “opinioni po-litiche”, a differenza delle altre caratteristiche indivi-duali che per l’articolo 3 non debbono trasformarsi in fattori di discriminazione – sesso, razza, lingua, religio-ne, condizioni personali e

sociali –, l’elemento attorno a cui si addensano i problemi maggiori; quello che, nono-stante ogni dichiarazione di principio, alla fine si rispetta di meno e che talvolta può addirittura dar luogo a dispa-rità più o meno gravi anche davanti alla legge oltre che nei comportamenti quotidia-ni. Insomma, mentre quasi più nessuno se la sente di affermare la superiorità, ad esempio, di una razza o di una classe sociale, troppi si credono autorizzati a sminu-ire, disprezzare o emarginare le idee politiche altrui; e non solo le idee, ma talvolta an-che le persone che le profes-sano, arrivando in certi casi a manifestare atteggiamen-ti intolleranti e punitivi nei confronti di avversari politi-ci che, in cuor loro, alla fin fine riterrebbero di agire per lo stesso bene comune a cui anche gli altri aspirano.

Di conseguenza, gli ita-liani – a parte i professionisti della politica o quei pochi che non hanno nulla da per-dere o magari hanno solo da avvantaggiarsene –, mentre non ci pensan due volte a di-chiarare le loro inclinazioni più varie, restano abbottona-tissimi sulle convinzioni poli-tiche personali. Solo di rado,

in ambienti favorevoli e in circostanze che lo consento-no, possono lasciarsi andare a rivelare qualche scampolo del loro pensiero. Ma restan-do volentieri sul vago, acco-dandosi di solito all’opinione generale, o ripetendo auto-maticamente le idee di quella parte ritenuta più nobile e de-gna, ciò che si crede politica-mente “più” corretto.

Non è un caso che le so-lite conversazioni quotidia-ne sulla politica siano quasi sempre deludenti, proprio perché tutti – a meno che non si trovino fra amici fidati o con perfetti sconosciuti – preferiscono giocare a carte coperte, senza quel confron-to schietto e spassionato che potrebbe condurre a una co-scienza più chiara della re-altà e a idee migliori. Non è un caso che anche gli esperti, nelle più asettiche condizioni di anonimato, stentino molto a stanare le preferenze poli-tiche degli italiani, come si vede dalle tante lucciole per lanterne dei sondaggi politici e degli exit poll.

Per dirla tutta, riguardo alle opinioni politiche, più che i principî di libertà e di uguaglianza dell’articolo 3, gli italiani sembra che ap-prezzino il principio della ri-

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servatezza ricavabile dall’ar-ticolo 48 della Costituzione, dove appunto si dice che il voto è “segreto”. E così, or più or meno a seconda del-le circostanze, delle fasi sto-riche, dei potenti di turno, molti di essi nascondono i loro più intimi convincimen-ti politici, trasformandosi in nicodemi o farisei, in torqua-tiaccetti o tartufi, pur di con-tinuare a sopravvivere come sosia di se stessi.

Le cause di questa partico-lare forma di riserbo, che così accentuata è raro ritrovare in altre nazioni, vanno ricondot-te alla nostra storia e alla spe-cificità stessa del concetto di “opinione politica”; concetto che si volle inserire nella Co-stituzione, fra gli elementi da non discriminare, per marca-re con forza la piena legitti-mità di ogni posizione ideale e il ripudio del conformismo proprio dell’ideologia totali-taria, dopo che nel ventennio fascista la libertà d’opinione

era stata conculcata e, confi-scando i beni dei fuorusciti, si era intervenuti anche sul piano legislativo contro gli avversari del regime.

Si tratta dunque, proprio per ciò, di un tassello impor-tante della carta costituzio-nale, una sorta di professione di fede nell’Italia che allora s’incamminava sulla strada della democrazia e della li-bertà. Ma un tassello che ha un carattere e un peso diver-so dalle altre condizioni po-tenzialmente discriminanti, che indicano peculiarità che non dipendono dalla volontà del singolo, ma dalla natura (sesso e razza) o solitamente dall’ambiente d’origine (lin-gua, religione, classe socia-le, professione); peculiarità che tutti ci portiamo addos-so in modo indelebile senza poterle – se non in via ecce-zionale – mutare o nascon-dere. Invece le “opinioni politiche” costituiscono quel complesso di giudizi valori

aspirazioni che è il singolo a rielaborare e costruire da sé; derivano dalle sue espe-rienze e vicende personali, e sono continuamente modifi-cate per riadattarle alla realtà che cambia, anche quando sembrano restar inchiodate ai medesimi ideali. È anche perché sono un mutevole sistema di idee sempre in movimento, che si parla di “opinioni”, e le si indicano solitamente al plurale.

Va anche notato che le opinioni politiche – insieme alla fede religiosa – rientra-no nella sfera più intima del nostro essere, costituiscono la nostra personale raffigu-razione della “città terrena” e lo strumento concettuale con cui interpretiamo gli av-venimenti, ci mettiamo in relazione con la comunità, partecipando alla sua vita da membri attivi e consapevoli. Per questo siamo così profon-damente affezionati alle no-stre idee, le custodiamo gelo-samente, e non le scambiamo con quelle degli avversari se non attraverso conversioni lunghe e laboriose come le conversioni religiose.

D’altra parte le opinioni politiche sono una tessera estremamente fragile della libertà dei singoli cittadini, dato che possono esser fa-cilmente condizionate dal potere o possono servire al potere per condizionarli, ricattarli, perseguitarli. Di esempi di soprusi, discrimi-nazioni, sofferenze a causa delle idee politiche è piena la nostra storia, a comincia-re da Dante, che per le sue posizioni venne condannato a morte dai suoi concittadini e fu costretto all’esilio. Ma anche senza andar lontano, casi di prevaricazione per ragioni politiche accadono

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3 Vedi in particolare Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivolu-zionario 1796-1799, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1991, dove sono riportati e illustrati numerosi esempi delle prime attestazioni di opinione politica e di altre espressioni a questa correlate (creare le opinioni, impero delle opinioni, fanatismo delle opinioni, fermento delle opinioni, contrasto delle opinioni, guerre delle opinioni, rivoluzio-ne delle opinioni, urto delle opinioni, detenuti per opinioni politiche, libertà delle opinioni, ecc.).

4 Sulla storia dell’espressione opinione pubblica, oltre a Leso, op. cit., pp. 116-118, vedi il saggio in dieci puntate di Giuseppe Aliprandi, La opinione pubblica: documentazione linguistica, in «Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti», LXXVII (1965-65)-LXXXVII (1974-75). Numerosi gli studi sugli aspetti teorici e storici del concet-to di “opinione pubblica”: qui mi limito a segnalare Jürgen Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, Bari, Laterza, 1971 e la limpida sintesi di Nicola Matteucci, Lo stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 169-188.

quasi quotidianamente sotto i nostri occhi, anche oggi che pure viviamo in un regime tutt’altro che dispotico e vio-lento. Per questo gli italiani continuano ad esser sempre prudenti nel manifestare i loro orientamenti, preferendo tacere o dissimulare pur di non correre i rischi che una troppo scoperta sincerità po-trebbe comportare.

E allora come si giustifi-cano le “opinioni politiche” dell’articolo 3 della Costitu-zione? Vista la loro specifi-cità, si potrebbe esser tenta-ti di metterle fra parentesi, come uno di quegli aspetti della carta che non sono stati ancora realizzati, un lontano e quasi inarrivabile traguardo utile per misura-re quanta strada resti anco-ra da compiere per poterci dire una nazione veramente libera. Tuttavia la presenza di quell’espressione è assai di più di una vaga e utopica indicazione, perché ci co-stringe a guardare a fondo in noi stessi e nella nostra sto-ria e, per quanto possiamo, a cercare di realizzare con co-raggio, giorno per giorno, la verità di quel principio di tol-leranza politica che ci siamo dati. Certi che è sempre pos-sibile raggiungere momenti e situazioni di autentica con-cordia civile, i «tempi aurei dove ciascuno può tenere e difendere quella opinione che vuole» che Machiavelli ravvisava in alcune epoche

dell’antica Roma; “tempi au-rei” che sono anche davanti a noi, a portata di mano ogni volta che rinunciamo ai no-stri pregiudizi, alle falsità delle ideologie, agli istinti peggiori che covano in noi: «Se veramente volete felice la patria – scriveva un esule del secolo XIX –, rispettate gli affetti e le opinioni del vostro fratello; amatelo come amico della comune felicità: che se tale e’ non fosse, se nella di-scordia ponesse l’utilità pro-pria e ’l vanto, non gli date il tristo piacere di vedervi congiurati con lui alla vergo-gna comune; punitelo delle sue trame col proteggerlo, dell’odio suo coll’amarlo».

* * *

Qualche ammaestramen-to lo possiamo ricavare dalla stessa storia linguistica della nostra espressione. Se infatti opinione è un latinismo an-tico, anche in senso politico (se ne è visto poco sopra un esempio di Machiavelli), la locuzione opinione politi-ca emerge solo nell’ultimo decennio del secolo XVIII, diffondendosi in Italia nel triennio giacobino, soprattut-to sull’eco dei dibattiti che infiammarono la Francia ri-voluzionaria: in francese opi-nion politique è documentato dal 1793, in italiano i primi esempi sono del 17963.

È il nuovo modo di inten-dere e di vivere la politica

che si sperimenta da par-te della classe intellettuale e borghese in quegli anni di grandi rivolgimenti; è la consapevolezza dell’impor-tanza delle idee e del ruolo decisivo che assume la co-siddetta opinione pubblica (anch’esso un concetto che proprio adesso prende con-sistenza, con un valore in certo senso contrapposto a quello delle “private” e indi-viduali opinioni politiche)4; è il moltiplicarsi di nuovi mez-zi per dibattere, diffondere, manipolare gli orientamenti delle assemblee e delle mas-se; è, in una parola, il nuo-vo clima rivoluzionario che conferisce al termine, oltre a una frequenza che prima non possedeva, un rilievo eccezionale e una conno-tazione prevalentemente positiva. Tanto che, proprio per caratterizzare meglio tali “nuove” opinioni di stampo democratico e di argomento prettamente politico, si sen-te l’esigenza di creare una espressione specifica: opi-nioni politiche appunto.

Sono numerosi gli intel-lettuali che in quegli anni ne discutono per rivendicar-ne i pregi e la libertà (anche l’espressione libertà d’opi-nione, con libertà di stampa, di pensiero e simili, nasce adesso), e insieme per de-precare i regimi autoritari e dispotici che avversano le nuove idee creando i rei di opinioni politiche. Scriveva

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Cesarotti nel Patriottismo il-luminato (1797): «Tutte le opinioni sono libere: punir alcuno per semplici opinio-ni politiche è atto tirannico e attentatorio ai diritti dell’uo-mo». E in modo analogo Melchiorre Gioia nella Dis-sertazione … Quale dei go-verni liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia (1797): «Un altro principio incon-trastabile si è, che quando si tratta d’opinione ciascuno ha diritto alla sua, e l’errore il più palpabile deve essere egualmente rispettato che la verità più evidente; al-trimenti si viene ad erigere in massima la guerra delle opinioni, guerra che avendo tinto di sangue tutti i pun-ti del globo, con ragione è condannata dalla giustizia e proscritta dall’umanità».

Tuttavia, al di là di queste enunciazioni di principio, la realtà rivoluzionaria era ben diversa, sia in Francia che in Italia. Accecati dal fanati-smo ideologico, coloro che si proclamavano “sacerdoti della libertà” erano spesso i primi a combattere l’opi-nione contraria o appena di-versa, ritenuta naturalmente falsa e dannosa, e a condan-nare a morte o alla prigione non solo chi aveva avuto il coraggio di manifestarla, ma anche chi ne era solo lonta-namente sospettato: bastava aver fischiettato un motivo che a qualcuno era parso controrivoluzionario per fi-nire alla ghigliottina! Abba-stanza esplicito nel rilevare tali gravi contraddizioni in cui cadono anche i regimi liberi, l’Alfieri nel trattato Della tirannide: «le opinioni politiche (come le religiose) non si potendo mai total-mente cangiare senza che molte violenze si adoprino,

ogni nuovo governo è da principio pur troppo sforzato ad essere spesso crudelmen-te severo, e alcune volte an-che ingiusto, per convincere o contenere con la forza chi non desidera, o non capisce, o non ama, o non vuole in-novazioni ancorché giovevo-li. Aggiungerò, che, per mag-giore sventura delle umane cose, è altresì più spesso ne-cessaria la violenza, e qual-che apparente ingiustizia nel posar le basi di un libero governo su le rovine d’uno ingiusto e tirannico, che non per innalzar la tirannide su le rovine della libertà».

Del forte contrasto fra la semantica usuale del termi-ne e il nuovo ambito a cui esso venne piegato dalla violenza della realtà rivolu-zionaria fu ben consapevole il gesuita Lorenzo Ignazio Thjulen, che nell’adespota Nuovo vocabolario filosofi-co-democratico indispensa-bile per ognuno che brama intendere la nuova lingua ri-voluzionaria (1799), notava a proposito del lemma opinio-ne: «Era, ed è, nella lingua antica vocabolo generale. Nella lingua Repubblicana è stato ridotto a senso ristret-tissimo. Per esempio: Libertà d’opinione, che nella lingua comune sinora significava di poter opinare, come ognuno vuole, in Lingua Repubbli-cana significa che solo, ed unicamente si può e si deve opinar per Ateismo, Incredu-lità, Democrazia, e Liberti-naggio. L’opinare altrimente, si permette soltanto dai Re-pubblicani dove non posso-no arrivare con spoglj, esiglj e fucilature».

Nonostante alla sua origi-ne l’espressione fosse circon-data, come si vede, da ombre e mistificazioni, essa si venne

affermando largamente nel dibattito politico risorgimen-tale come indice di libertà di pensiero e di vera demo-crazia. Proprio per questo suo innegabile carattere nel Dizionario politico popolare, pubblicato a Torino nel 1851 da un’associazione di patriot-ti liberali, si riservò ampio spazio alla voce opinione, con considerazioni interes-santi e auspici che travalica-no quel particolare momen-to storico: «Nei paesi retti dall’assolutismo, dov’è inca-tenata la libertà del pensare, supremo diritto dell’uomo, l’uomo si disusa siffattamente dal pensare ai proprii dirit-ti civili e alle cose poltiche, ch’egli neppure nel sacrario della sua coscienza sa porta-re opinioni od idee chiare e definite sulla politica; sicché là non havvi né opinione in-dividuale né pubblica. Ma dove è bandito [proclamato] il principio della libertà del pensiero, l’una e l’altra ne-cessariamente si forma. Qui-vi, siccome la base sociale è la sovranità popolare e il potere non è di diritto divino […], il popolo non solamente col suffragio universale costi-tuisce questo potere, ma eser-cita sopra esso una continua-ta pressione manifestando la sua opinione sopra la con-dotta di lui. Perciò nei paesi liberi si dice che l’opinione è l’arbitra del potere, è il tri-bunale della coscienza pub-blica. […] Ma tu, o popolo, avvezzati a pensare col [tuo] proprio capo e a vedere cogli occhi tuoi. Non fidarti delle lenti e dei telescopii che ti mettono dinanzi agli occhi i dottori della politica […]. O popolo! Sia veramente tua la tua opinione, ed allora sarà vero che la voce del popolo è voce di Dio».

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La pubblicità politica in classe

Cecilia Santanchè(Università degli Studi “G. d’Annunzio”)

IntroduzioneAd una settimana dalle ele-zioni europee del giugno

2009, davanti a un muro nel centro di Roma, due gruppi di partiti diversi si sfidava-no per riempire il maggior spazio possibile con i propri manifesti. Ciascun gruppo non poteva coprire il mani-festo dell’altro, ma entrambi finivano per occultare quelli già esistenti. Il gran numero di cartelloni, uno sull’altro, non si deve soltanto ai tanti candidati e partiti, ma anche alla continua campagna elet-torale, diretta o indiretta, che diventa un tema obbligato anche per quelli che se ne in-teressano poco. L’argomento può essere stimolante anche per chi segue l’Italia dal Bra-sile o, come dice il titolo, per discutere con gli studenti in classe, obiettivo che muove la stesura di queste note.

La discussione politica coinvolge in Italia argomenti di diverso peso e interesse: il rapporto tra Chiesa e Stato, l’inserimento o meno degli stranieri in Italia, le possibi-lità lavorative per i giovani, la manutenzione della città e soprattutto la corruzione, attraverso i diversi scandali che hanno portato in carcere molti uomini politici. Inoltre, la politica ha ormai rapporti stretti e stabili con lo spet-tacolo, e non solo perché persone di spettacolo, come

ormai lo storico esempio di Reagan ha dimostrato, fan-no parte del mondo politico. Gli uomini politici parteci-pano sempre di più a varietà televisivi, mentre la loro vita privata diventa argomento di discussione nazionale.

Dall’altra parte, i candi-dati si rivolgono da tempo a grandi pubblicitari, e non soltanto nelle elezioni pre-sidenziali come nel caso di Lula in Brasile o dello stesso Obama negli Stati Uniti, ma anche singoli politici e ammi-nistratori di vario livello si ri-volgono ogni volta di più alle agenzie per impostare una vera campagna pubblicitaria, tanto che la lotta politica di-venta mediatica.

Va a questo punto osser-vato che mentre la pubblicità usa sempre più forestierismi, la politica è costretta ad usare sopratutto la lingua italiana,

cioè l’italiano contempora-neo e a volte anche le varianti gergali, per essere sempre più vicina all’interlocutore.

Naturalmente, non cre-diamo che i docenti dovreb-bero manifestare le proprie opinioni in classe, ma poiché questo argomento è di gran-de interesse nelle lezioni, i professori di lingua e cultu-ra italiana potrebbero usare i vantaggi offerti dal mondo della pubblicità, anche senza avere una grande conoscen-za dell’argomento, per uno studio tanto linguistico come antropologico.

Una continua campagna politica Nel 2006 Romano Prodi ven-ne eletto come primo mini-stro, con un mandato che durò meno dei quattro anni stabiliti dalla legge. Con la successiva campagna eletto-rale, nel 2008, è stato eletto Silvio Berlusconi, ancora oggi in carica. Nello stesso tem-po si sono tenute le elezioni in diverse città e regioni per le varie cariche di ammini-stratori locali (Sindaco, con-siglieri regionali, Presidenti della Regione, ecc.): a queste vanno aggiunte le elezioni per il parlamento europeo con sede a Bruxelles. Questo scritto prende spunto, in par-ticolare, dalla compagna elet-torale svolta a Roma, per le elezioni europee, e a Pescara,

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in Abruzzo. In questa ultima Regione, il Presidente e il Sin-daco di Pescara, sono stati ar-restati in momenti diversi tra il 2007 e il 2008; per questo, nel mese di giugno 2009 sono state indette nuove elezioni per le due cariche.

In queste ultime occasio-ni, si è verificato spesso l’uso di quella che potremmo chia-mare “pubblicità indiretta”, cioè messaggi di critica al governo a nome dell’opposi-zione, come in un manifesto, diffuso molto prima dell’ini-zio ufficiale della campagna, che citava ogni singolo co-mandamento (fig.1) accom-pagnandolo con un esempio negativo attuato dal governo.

Ad una scala diversa, in un quartiere di Roma, la co-struzione di una pista ciclabi-le nel 2009, voluta dall’am-ministrazione della circoscri-zione retta dai progressisti, è stata immediatamente criti-cata dalla destra, invitando implicitamente – neanche tanto - all’adesione a questo schieramento a causa della incapacità di governo della parte avversa.

Il modello americanoNelle elezioni del candidato americano alla presidenza degli Stati Uniti Barak Oba-ma, si era diffusa la formula, efficace e incisiva, Yes we can, a significare la possibilità di realizzare il cambiamento. Nello stesso periodo, in Italia, il Partito Democratico, fonda-to come alternativa di centro-sinistra, ha diffuso manifesti molto simili a quelli del De-mocratic Party statunitense, a volte addirittura usando traduzioni quasi letterali de-gli slogan americani, come Si può fare. Un manifesto cele-

brava la vittoria di Obama, si-glandola con un significativo Il mondo cambia: ciò ha fatto sì che il candidadato del PD Valter Veltroni fosse associato al presidente Obama. A volte anche in negativo, come nel caso del manifesto con la foto di Obama e la frase Yes he can * Sì, lui può e vicino alla foto di Veltroni No you can’t *No, tu non puoi.

Ma la trasposizione da un contesto elettorale e sociale ad un altro si è verificata an-che in altri aspetti: per esem-pio, alcuni manifesti italia-ni presentavano la foto del candidato circondato dalla famiglia, secondo un cliché frequente nella pubblicità americana. Il rappresentante dell’UDC Casini, ad esem-pio, ha usato questo modello nella sua campagna (fig. 2), anche perché veicolava con maggiore forza i valori della famiglia, fortemente sostenuti dall’UDC, partito di salde tra-dizioni cristiane.

La professione di fedeSi tratta di un aspetto che influi-sce molto nelle scelte di propa-ganda di un candidato. Come si è detto, il manifesto che ri-proponeva ciascuno dei Dieci Comandamenti giocava anche sul richiamo esplicito alla re-ligione, cercando di attirare i voti dei cattolici, anche andan-do contro un governo sostenu-to da larga parte di questi.

Così come l’attestazione di una fede è importante per il candidato, manifestarsi ateo può avere un effetto negativo e provocare un calo di voti. La dichiarazione di fede ha assun-to quindi un forte significato aggregante. Daniela Santan-chè, nel 2008 diffuse manifesti (fig. 3) con la sua foto accom-

pagnata dall’affermazione Io credo, molto discussa nei blog per l’uso disinvolto della fede a scopi pubblicitari. Tuttavia, questo esempio è servito come riferimento per il candidato a sindaco di Pescara Luigi Albo-re Mascia che si è presentato, in una fase iniziale della cam-pagna, in un atteggiamento assertivo, accompagnato dalla mano sul petto e dall’espressio-ne, che abbiamo già visto, Io credo. In una fase successiva, è stato diffuso un altro manifesto che specificava, più concreta-mente e forse più laicamente Io credo in te rivolto ad un cit-tadino colto in compagnia del candidato ed estensibile, quin-di, a tutto l’elettorato.

Altre strategie per convincere La pubblicità usa non soltan-to la funzione conativa per convincere il destinatario ma anche quella emotiva1, come nel caso dello stesso candi-dato Luigi Albore Mascia. Albore ha infatti un comitato elettorale ben organizzato e interessante, piuttosto diverso dalla media visibile presso gli altri candidati. La sede del co-mitato elettorale, ad esempio, ha sede in un ufficio lumino-so, con arredi raffinati, pareti di vetro, dettagli eleganti. A chiunque entri è prestata la massima attenzione e vengo-no offerti gadget e opuscoli. Compaiono foto con il candi-dato in compagnia di giovani ottimisti e ben vestiti; i vari slogan sono accompagnati da frasi che si rivolgono ai gio-vani, come: “[…] L’energia di ogni giorno e i traguardi che ci prefiggiamo sono stretta-mente legati all’entusiasmo che ci mettiamo per realiz-zarli. Agite con entusiasmo e sarete entusiasti!”.

1 Si fa riferimento a Giacomelli (2006)

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Nel primo brano ci sono parole poco usate (prefiggia-mo, traguardi) ma si riesce a trasmettere il consiglio con-clusivo, che viene rivolto da un uomo maturo ai più giova-ni. Il discorso in seconda per-sona non appare come nelle pubblicità in forma impera-tiva, ma come suggerimen-to di un uomo esperto della vita, concluso dalla retorica dell’entusiasmo, in carattere più grandi e senza maiusco-la. E’ quello che ci vuole per i giovani italiani, demotivati e con grandi difficoltà ad affer-marsi, ma che appaiono nei manifesti eleganti e sorriden-ti, secondo l’immagine delle persone di successo. Nella sede del comitato di Albore, viene distribuito anche un opuscolo di quattordici pa-gine con il programma elet-torale del candidato sindaco, che scandisce ad ogni passo la formula: Io credo in te. Il fascicolo si conclude con la frase di Martin Luther King: “La grandezza nella vita sta nella grandezza del Sogno in cui si è deciso di credere”. Va osservato che la parola “sogno” viene scritta con la maiuscola.

Anche altri candidati, nelle stesse elezioni pesca-resi, hanno privilegiato un

approccio amichevole, come nel caso di Gabriella Arcieri, candidata a consigliere, Par-liamone prendendo un caffè; analogo è il caso della candi-data a consigliere comunale Paola Marchegiani Per cre-scere insieme nella conoscen-za; Ivan Iacobucci, anche lui candidato a consigliere, invita nel manifesto ad un aperitivo con prenotazione nel quale si discuterà sulla vita notturna di Pescara.

Ci sono anche quelli che hanno considerato vantaggio-so non schierarsi né a destra né a sinistra, ma stare al cen-tro, usando diversi artifici lin-guistici per trasmettere il mes-saggio. Già nelle precedenti elezioni nazionali, la formula Io c’entro usava la particella ci per indicare appartenenza e partecipazione ma richia-mando esplicitamente la pa-rola centro e quindi inequivo-

cabilmente la posizione del partito. Molto efficace l’uso di ossimori, come nella formula l’estremo centro (fig. 2), dove l’uso di un aggettivo contrasta con il sostantivo ed enfatizza con grande immediatezza la posizione tutt’altro che estre-mista del partito politico pub-blicizzato.

Il gioco di parole conti-nua: ad esempio con gli acro-nimi: dalla sigla del partito UDC, deriva la formula Uno Di Casa del candidato a con-sigliere Carlino o Un Disegno Comune (fig. 2). L’ambiguità della parola “comune”, che richiama immediatamente l’amministrazione municipa-le, viene sfruttata varie volte come in questo caso o nella frase Un amico in Comune, frequente in alcune campa-gne per sindaco anche in blog o homepage, dove si fa riferi-mento al carattere amichevo-

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le dell’uomo politico, ma an-che all’incarico nel Comune a cui il candidato aspira.

All’interno di questi giochi linguistici, anche i cognomi vengono sfruttati in modo creativo. Nelle elezioni a sin-daco di Pescara del 2004, un candidato, il cui cognome era Acerbo, aveva sostenuto la propria campagna con lo slo-gan Acerbo è maturato.

In queste ultime elezio-ni, ancora a Pescara, Claudio Cornacchia, detto “Corna”, ha giocato sullo scherzo con il proprio cognome, suscitando inoltre intimità nell’elettorato: “mi potete chiamare corna come lo fanno i miei amici”, richiamando inoltre la popola-re espressione “fare le corna”.

C’è anche chi ha preferito usare una tonalità scherzosa, come per esempio Giovanni Di Iacovo che illustra i suoi vo-lantini vestito da medico che ausculta il cuore del Comune, o propone la somministrazio-ne di medicinale in gocce o in pastiglie, o addirittura l’uso di specifici profilattici.

Come i testimonial delle pubblicità, i candidati poli-tici si preoccupano sempre della propria immagine, en-fatizzando le loro doti fisiche come nel caso della giovane candidata a consigliere di Pe-

scara Lea Del Greco. Il suo volantino, per il resto alquan-to tradizionale, presenta una foto che ne mette in luce i lineamenti e i capelli biondi e ricci, e suggerisce “IMMA-GINA…” agendo così sulla fantasia dell’elettore per con-cludere “di cambiare DAVVE-RO”, anche grazie alla giova-ne età della candidata, di per sé garanzia di rinnovamento. Un’altra candidata a Pesca-ra, Santroni, avendo un tipo fisico diverso dai modelli di bellezza, usa scherzosamente le sue forme abbondanti per richiamare la simpatia dell’in-terlocutore (fig. 4); il messag-gio iconografico viene inoltre abbinato alla taglia SX, che sta ovviamente per sinistra, ma evoca anche la taglia XL.

“Loro hanno subito l’immi-grazione, ora vivono nelle riser-ve” (fig. 5): ci sono infatti anche manifesti che rivelano la rea-zione profonda di alcuni italia-ni, soprattutto appartenenti alla Lega Nord, contro l’immigra-zione. Si tratta di un altro aspet-to molto influente, di fronte al grande flusso immigratorio in Europa, e stante la posizione di molti italiani che associano agli stranieri i partiti di opposizione.

ConclusioniLa lingua italiana è stata usa-ta nei manifesti analizzati con una grande flessibilità e con diverse espressioni tratte dall’uso corrente. E’ significa-tivo anche notare che molti manifesti usano il presente dell’indicativo anziché l’im-perativo, storicamente più fre-quente. Il volantino di Stefano Cardelli è un buon esempio: Io ho delle idee per un nuovo Stile Pescara. E il seguito rin-calza con il futuro indicativo, tempo meno frequente nel-la lingua parlata: Sosterrò il commercio cittadino, favorirò

lo sviluppo del centro com-merciale naturale.

È anche interessante consi-derare i facsimile delle schede che vengono distribuiti per guidare della scelta finale. In questo caso, non c’è biso-gno di slogan: l’elettore deve soltanto copiare quello che viene mostrato, poiché può essere difficile tra tanti partiti distinguerne uno, e si ricorre all’iconografia perché le paro-le possono essere eccessive.

La diversità dei testi ana-lizzati offre molti spunti alla discussione: naturalmente le considerazioni svolte sono solo introduttive e ci sarebbe-ro diversi temi da sviluppare, con risvolti tanto linguistici quanto culturali.

Riferimenti bibliografici Berruto Gaetano, Sociolin-guistica dell’italiano con-temporaneo, Roma, Caroc-ci, 2002.Borgarelli Bacoccoli Anna Lo spot pubblicitario: meta-fore e argomentazione, Pe-rugia, Guerra, 1995.Desideri Paola, Teoria e prassi del discorso politico: strategie persuasive e per-corsi comunicativi, Roma, Bulzoni Editore, 1984. Giacomelli Roberto, La lingua della pubblicità, In: Bonomi Ilaria, Masini An-drea, Morgana Silvia, La lingua italiana e i mass me-dia, Roma, Carocci, 2003, p. 223- 248.Rodendo Graça, Durão atira miúdos contra Ferro, In: “Revista Expresso” n. 1530, 23 febbraio 2002, pp. 65-68. Stringa Paola, Lo spin doc-toring: strategie di comu-nicazione politica, Roma, Carocci, 2009.

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Lavorare con la traduzione e gli strumenti di questa pratica può essere un’in-

teressante e stimolante stra-tegia per i corsi di laurea in Lingue e letterature straniere. La pratica della traduzione è un’attività che richiede e motiva, spesso inconsapevol-mente, due tipi di riflessione: una sulla lingua straniera e un’altra sulla lingua madre del traduttore. Processi, que-sti, fondamentali a livello ac-cademico, che possono perfi-no aprire porte ancor chiuse agli studenti universitari che intendono imparare e cono-scere una nuova lingua e una nuova cultura. In effetti, come si accennerà qui in seguito, l’esperienza della traduzio-ne trasmette non solo delle competenze linguistiche, ma anche, e soprattutto, culturali.

Alla luce di queste pre-messe, la cattedra di por-toghese dell’Università di Salerno e la cattedra di ita-liano dell’Universidade Esta-dual Paulista di Assis hanno organizzato un seminario

italo-brasiliano di traduzio-ne letteraria via Teletandem che ha permesso ai parte-cipanti di sperimentare un approccio cooperativo e parzialmente autonomo alla pratica traduttiva. I due grup-pi – coordinati dai docenti Giorgio de Marchis, per Sa-lerno, e Patricia Peterle, per Assis, e assistiti dalle rispet-tive collaboratrici ed esperte linguistiche: Filipa Matos e Alessandra Rondini – erano formati rispettivamente da

quattro studenti. Il gruppo salernitano era composto da due studenti iscritti alla lau-rea specialistica (Eleonora Cuomo e Giuseppe Napoli) e da due laureandi del corso di laurea in Lingue e Culture Straniere (Sergio Standoli e Salvatore Cerino)1; il gruppo di Assis era, invece, formato da quattro studentesse, due dell’ultimo anno (Aline Fo-gaça e Graziele Frangiotti) e due del penultimo anno (Maria Amélia Dionisio e

L’esperienza del Teletandem in un seminario di traduzione letteraria

(Universidade Federal de Santa Catarina – Università degli studi di Salerno/Università degli Studi di Roma III)

* O Professor João A. Telles da Universidade Estadual Paulista é o responsável pelo projeto TeleTandem Brasil. Para maiores informações acesse o site: http://www.teletandembrasil.org

Patricia Peterle* e Giorgio de Marchis

* Patricia Peterle, durante l’esperienza del Teletandem relazionata nell’articolo, era docente di letteratura italiana presso l’Universidade Estadual Paulista, campus di Assis.

1 Da segnalare, inoltre, la partecipazione al seminario in forma di Tandem presenziale degli studenti Alberto Santoro e Gisella Sacco.

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Renata Marcon). Tutti i parte-cipanti sono stati selezionati sulla base delle competenze linguistiche (alcuni studenti avevano, ad esempio, avuto modo di svolgere in prece-denza significativi soggiorni in Italia, in Brasile o in Por-togallo grazie ad accordi di cooperazione internazionale o a borse Erasmus) e al loro rendimento nei corsi di Lin-gua e letteratura italiana in Brasile e Lingua portoghese in Italia. L’intero progetto si è svolto nelle settimane comprese tra il mese di ot-tobre del 2008 (scelta della bibliografia teorica e lezio-ni introduttive) e quello di febbraio del 2009 (revisione delle traduzioni).

Come testi da tradurre sono stati selezionati due racconti: Dritto dritto negli occhi di Valeria Parrella2, per gli studenti brasiliani, e AA di Rubem Fonseca3, per gli italiani. Testi di autori con-temporanei che, in modo diverso, presentavano note-voli difficoltà da un punto di vista traduttivo. Per quanto riguarda il racconto italiano, due sono state le difficol-tà più evidenti: la prima di natura culturale (a causa di una serie di riferimenti alla realtà sociale napoletana non sempre immediatamente comprensibili per degli stu-denti stranieri) e la seconda prettamente linguistica, vi-sta la presenza del dialetto napoletano che ha sollevato il problema di come render-lo nella lingua portoghese - visto che il fenomeno dei

dialetti è una caratteristica della realtà della penisola. Il testo di Fonseca, invece, ha posto, in alcuni casi per la prima volta, gli studenti sa-lernitani in contatto con la variante brasiliana della lin-gua portoghese e i numerosi riferimenti alla cultura rurale del Pantanal hanno costretto gli studenti italiani a ricorre-re frequentemente all’ausilio dei collaboratori linguistico-culturali brasiliani.

Tutti i partecipanti, pri-ma di cominciare a tradurre, hanno lavorato su dei testi te-orici, precedentemente con-cordati dai docenti, al fine di discutere, riflettere e pro-blematizzare alcuni aspetti e scelte del traduttore e, di conseguenza, della traduzio-ne.4 Conclusa la prima fase, introduttiva e teorica, gli stu-denti sono stati organizzati in coppie italo-brasiliane e han-no gestito le proprie sessioni di Teletandem in maniera del tutto autonoma. In que-sta fase, tutti i partecipanti

si sono scambiati i ruoli, in modo che ognuno potesse essere alternativamente tra-duttore o esperto linguistico-culturale a seconda del testo su cui la coppia si trovava a lavorare. Nel campus di As-sis, gli studenti hanno avuto a disposizione il laborato-rio multimedia del proget-to Teletandem Brasil, dove, prenotando la postazione, potevano usufruire dei vari programmi esistenti (Skype, Ovoo, Messanger) per entra-re rapidamente in contatto con il proprio partner. Gli studenti dell’Università di Salerno hanno avuto la pos-sibilità di realizzare il semi-nario presso il Laboratorio di Teletandem allestito nel Cen-tro Linguistico d’Ateneo.

Alcuni degli studenti han-no registrato dei video delle proprie sessioni e, in alcuni casi, dei file audio. Tutto questo materiale, una volta analizzato, potrà fornire del-le importanti indicazioni sul-le dinamiche di cooperazio-

2 V. Parrella, Dritto dritto negli occhi, in Mosca più balena, Minimum Fax, Roma 2003, pp. 18-32.3 R. Fonseca, AA, in A cofraria dos espadas, Companhia das Letras, Rio de Janeiro 1998, pp. 55-69.4 R. Jakobson, Aspetti linguistici della traduzione, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1994 (1963), pp.

56-64 (ed. or. Essais de linguistique générale, Editions de Minuit, Paris 1963); A. Berman, La traduzione e la lettera o l’al-bergo nella lontananza, Quodlibet, Macerata 2003, pp. 13-64 (ed. or. La Traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, Seuil, Paris 1999) ; L. Venuti, L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Armando, Roma 1999, pp. 21-72 (ed. or. The Translator’s Invisibility: a history of translation, Routledge, London 1995).

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ne in una traduzione a quat-tro mani via Teletandem. Il risultato dell’interazione tra gli studenti è stato più che positivo; in effetti, mentre discutevano delle rispettive traduzioni, riflettevano sulla propria lingua, esercitandosi al tempo stesso nella lingua straniera.

Dal mese di novembre in poi, entrambi i gruppi si sono riuniti con periodicità settimanale con i rispettivi docenti e collaboratori lin-guistici, in modo da arrivare a una versione unica e con-divisa delle varie traduzioni. I testi che ora si pubblicano sono proprio il risultato di questi incontri5. Alessandra Rondini e Filipa Matos hanno avuto un ruolo fondamentale per quanto riguarda il buon esito dell’intero seminario. I tutor linguistici, infatti, hanno risolto più di un dubbio, sti-molando gli studenti a riflet-tere su nozioni culturali e su

determinate espressioni della lingua italiana e portoghese presenti nei due racconti.

Tradurre significa anche lavorare con delle tradizioni letterarie (quella di partenza e quella d’arrivo). Questo atto, il tradurre, fa sì che un testo circoli fuori dalla propria tra-dizione. Abbiamo così una ri-lettura e una disseminazione dello stesso testo, ma anche di abitudini e principi che sono lì quasi “occulti”. Come affer-ma Susan Bassnett, è questo uno spazio caratterizzato dai segni dell’interdisciplinarietà e della dinamicità:

Non c’è, infatti, un ca-none universale con cui giudicare i testi, c’è solo una serie di canoni, che si muovono e cambiano, con i quali ogni testo intrattie-ne una continua relazione dialettica. Non può esserci una traduzione definitiva,

come non possono esiste-re una poesia o un roman-zo definitivi; e ogni giudi-zio può essere dato solo dopo aver considerato sia il processo di creazione di una traduzione sia la sua funzione in un contesto specifico.6

In tale prospettiva, questo progetto di traduzione coope-rativa a distanza ha arricchito e stimolato il lavoro di quanti vi hanno partecipato: docenti, lettori e studenti. Non è stata solo l’occasione per affinare uno strumento utile, dal pun-to di vista linguistico, per pra-ticare e migliorare la lingua straniera studiata (e riflettere su di essa), ma è stato anche un punto di partenza per studi futuri di alcuni aspetti di am-bito letterario, in particolare, quello della letteratura com-parata che, come ha giusta-mente colto Armando Gnisci, offre la possibilità di lavorare con temi e discorsi che avvi-cinano due o più culture:

La letteratura compa-rata si propone come lo studio e il discorso che cercano di corrispondere a questo potere della lettera-tura/letterature, come loro compagna e pari, come il sapere che traduce i valori della letteratura in discorso aperto alla pluralità, il di-scorso che possiamo fare tutti insieme e alla pari del mondo traducendoci gli uni presso gli atri, nono-stante e pure per grazia della rete infinita delle reci-procità e delle differenze.7

5 In modo da permettere la pubblicazione di entrambe le traduzioni, esito naturale di un progetto altamente collabo-rativo, si è preferito rinunciare alla pubblicazione del testo a fronte in originale.

6 S. Bassnett, La traduzione. Teorie e pratica, Bompiani, Milano 1993, p. 24 (ed. or. Translation studies, Routledge, London 1991)

7 A. Gnisci, La letteratura comparata, in Introduzione alla letteratura comparata, a cura di Armando Gnisci, Paravia-Bruno Mondadori, Milano 2000, p. XII.

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Chi innova e ha successo suscita

sempre feroci invidieSta meglio chi non fa nulla, perché così non disturba

Nell’immaginario popolare

nessuno è tranquillo come

un califfo. Invece tutti co-

loro che occupano una posizione

di potere vengono continuamente

minac ciati, attaccati e si devono

difendere. Il califfo è insidiato dai

parenti, dai figli che mirano alla

successione. La maggio ranza de-

gli imperatori romani sono morti

assassinati. Le tragedie di Shake-

speare sui re d’Inghilterra ci dan-

no un lucido quadro della lotta

spietata e san guinosa che si svol-

ge attorno al trono. I dittatori,

pensiamo a Stalin, Hitler, han no

conservato il potere sterminando

i potenziali oppositori. Ma ancora

negli ultimi anni Stalin temeva di

essere avve lenato dai suoi medici.

La democrazia rende solo la

lotta me no sanguinosa. Ma non

appena uno è di ventato ministro

o presidente del Consi glio o ha

raggiunto qualche altra carica uf-

ficiale, incominciano gli intrighi

per farlo fallire e prenderne il po-

sto. Ogni volta che deve affrontare

un problema i nemici lo attaccano

e alcuni suoi collabo ratori com-

plottano nell’ipotesi che falli sca e

arrivi qualcun altro. Chi si propo-

ne una grande meta sa che le vere

diffi coltà non sono mai oggettive,

ma il pro dotto di manovre che de-

ve rintuzzare colpo su colpo, sen-

za distrarsi un istan te. Va meglio a

Francesco Alberoni

chi non fa nulla, perché non distur-

ba i gruppi di potere che vo gliono

conservare i loro privilegi. Ma chi

vuol innovare, costruire, cambiare

disturba sempre qualcuno e, se ha

suc cesso, suscita feroci invidie.

È stato Ales sandro Magno a con-

sentire all’arte, alla filosofia, alla

lingua greca di dominare il mondo

antico dal Mediterraneo all’In dia e

alla Cina. Eppure la Grecia ha fe-

steggiato la sua morte dicendo che

era finalmente morto il tiranno. Ep-

pure non l’aveva mai visto perché

era sempre rimasto a combattere

lontano e l’aveva inondata di ric-

chezze e di gloria. Per questo mol-

ti politici, molti imprendito ri, col

passare degli anni, diventano cini-

ci. Perdono quella fiducia nell’es-

sere umano che avevano agli inizi

della car riera e che li portava ad in-

contrare nuo ve persone, a cercare

nuovi partner, nuovi collaboratori,

ad aprirsi a nuove idee, a esplorare

strade nuove, a rischia re, ad inven-

tare. E si inaridiscono, smar riscono

la loro forza creativa. Perché la

creatività è spalancarsi, guardare

il mondo con occhi sempre nuovi

e sempre stupiti, non sospettosi. La

persona crea tiva, lo vediamo nei

grandissimi artisti, a qualunque età

conserva qualcosa del la ingenuità

del bambino, dell’entusia smo e dei

sogni dell’adolescente. Quan do la

perde si spegne.

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Curiosità: Il primo documento in volgare della letteratura italiana è il considdetto Indovinello veronese: databile tra la fine del’VIII e l’inizio del IX secolo, apparentemente parla dell’aratu-ra dei campi, ma in realtà allude alla scrittura.

CruCiverba

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erba

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