L’ITALIA E LA NATO DAL 1949 al 1989 - core.ac.uk · La tesi è divisa in tre capitoli, di cui il...

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Università degli Studi di Pisa Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere Corso di Laurea Magistrale in Storia e civiltà L’Italia e la NATO dal 1949 al 1989 Relatore: Candidato: Prof. Alessandro Polsi Dott. Roberto Pistoia Anno Accademico 2012-2013

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Università degli Studi di Pisa

Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere

Corso di Laurea Magistrale in Storia e civiltà

L’Italia e la NATO dal 1949 al 1989

Relatore: Candidato:

Prof. Alessandro Polsi Dott. Roberto Pistoia

Anno Accademico 2012-2013

INDICE

INTRODUZIONE 1

CAPITOLO 1: La scelta atlantica

1.1. I primi anni del dopoguerra e la scelta occidentale 4

dell’Italia

1.2. Il Patto Atlantico e l’adesione italiana 13

1.3. Atlantismo e anti-atlantismo in Italia 16

1.4. Atlantismo e/o europeismo ? Opzioni convergenti 18

o divergenti ?

CAPITOLO 2: L’Italia nella NATO: politica estera

2.1. le politiche di allineamento alle direttive atlantiche 22

dal 1949 al 1989

2.2 La ricerca di un ruolo italiano autonomo 37

2.3. La difficile integrazione tra sicurezza atlantica 43

e sicurezza nazionale

2.4. Il problema del condizionamento politico: 51

atlantici per amore o per forza ?

2.5. Il ruolo dei servizi segreti e delle “strutture parallele” 58

CAPITOLO 3: L’Italia nella NATO: politica militare

3.1. L’integrazione delle strutture militari italiane 64

in quelle atlantiche

3.2. Le Forze Armate italiane nella NATO, 79

dottrine e compiti

3.3. Le basi americane in Italia e il loro status 91

3.4. Le armi nucleari americane in Italia: 103

funzione e polemiche

3.5. Il complesso militar-industriale italiano e la NATO 111

CONCLUSIONE 118

BIBLIOGRAFIA 127

SITOGRAFIA 130

1

INTRODUZIONE

Il presente lavoro è dedicato al complesso rapporto esistente tra

l’Italia e la NATO nel periodo che va dall’adesione del governo di

Roma all’alleanza (1949) al 1989, vale a dire alla fine della “Guerra

Fredda” in Europa, al collasso dell’Unione Sovietica e al crollo del

blocco comunista. Un periodo temporale della durata di un

quarantennio, nel corso del quale ha avuto luogo una trasformazione

epocale, dal momento che, quando l’Alleanza Atlantica venne

costituita, alla fine degli anni Quaranta, la minaccia sovietica che

gravava sull’Europa occidentale era incombente e si manifestava sia

con la presenza di un dispositivo militare convenzionale che sembrava

poter consentire a Mosca di conquistare in un batter d’occhio i pochi

Paesi che si frapponevano al suo affacciarsi nell’area mediterranea e

verso l’Atlantico, sia con la presenza, sul piano interno, di un forte

Partito comunista, in grado di condizionarne pesantemente le vicende

politiche, mentre, nel 1989, tutto questo si era invece risolto nel crollo

dell’URSS e del comunismo, dunque nel completo collasso

dell’avversario storico della NATO stessa.

La tesi è divisa in tre capitoli, di cui il primo è dedicato alla

scelta atlantica, vale a dire alla decisione del governo di Roma di

aderire alla NATO, una decisione che oggi appare scontata ma che,

all’epoca, non si dimostrò del tutto tale e provocò un vivace dibattito

interno, nonché profondi e significativi contrasti politici tra favorevoli

e contrari a quella scelta.

2

Il capitolo 2 procede invece oltre la fase iniziale e analizza, per

quanto sinteticamente, quello che è stato l’orientamento della politica

estera italiana durante i primi quarant’anni dell’appartenenza italiana

all’Alleanza Atlantica, con le difficili scelte tra l’allineamento alle

direttive NATO, la ricerca di un ruolo nazionale autonomo, la difficile

integrazione tra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale, il problema

del condizionamento politico e infine il ruolo dei servizi segreti e delle

“strutture parallele”, un aspetto che per molto tempo è rimasto

sconosciuto e ignorato, e che, quando infine è venuto alla luce, ha

conferito un’immagine diversa alla nostra partecipazione all’Alleanza

Atlantica.

Il capitolo 3 è quello più quantitativamente rilevante, in quanto

non è possibile condurre uno studio sulla partecipazione italiana alla

NATO senza soffermarsi sugli aspetti militari della medesima, che

sono i più importanti e, al tempo stesso, i meno conosciuti.

L’integrazione delle strutture militari italiane in quelle atlantiche,

infatti, non fu un processo rapidissimo, ma richiese tempo e impegno,

così come lo richiese l’inserimento delle nostre Forze Armate nella

NATO, con la definizione delle loro dottrine operative e dei compiti

da assolvere. Poi c’è la questione, a lungo oggetto di vivaci dibattiti e

forti controversie, delle basi americane in Italia e del loro status

giuridico. Poi ancora la vexata quaestio delle armi nucleari americane

presenti sul territorio italiano, del loro ruolo, del processo decisionale

inerente un loro eventuale impiego, e così via; tutte questioni che

hanno suscitato, nel corso del tempo, un diluvio di polemiche. In

ultimo, il problema dei rapporti, alquanto stretti e consolidati, tra il

3

complesso militar-industriale nazionale, che con il tempo si riprese

dalle distruzioni della guerra e divenne una realtà di non trascurabile

consistenza anche in ambito internazionale, e la NATO e le sue

esigenze.

La ricerca è completata da una conclusione, nella quale si tirano

le somme del lavoro svolto e si abbozzano delle valutazioni finali di

carattere personale, ed è corredato da una bibliografia, nella quale

sono elencate tutte le fonti, a stampa o elettroniche, alle quali mi sono

attinto per la stesura della tesi.

4

CAPITOLO 1

LA SCELTA ATLANTICA

1.1. I primi anni del dopoguerra e la scelta occidentale dell’Italia

Dopo la messa in minoranza di Mussolini al Gran Consiglio del

Fascismo del 25 luglio del 1943, il suo arresto avvenuto la sera stessa

e l’immediata nomina di un nuovo governo, con a capo il Maresciallo

d’Italia Pietro Badoglio, era chiaro che per l’Italia si apriva una fase di

transizione che nemmeno il proclama del nuovo capo del governo,

teso a sottolineare che “la guerra continua(va)”, poteva cercare di

negare. Era l’evidenza dei fatti a dire che Mussolini era stato messo in

minoranza dagli stessi gerarchi fascisti per cercare di trovare un modo

per fare sì che l’Italia uscisse dal conflitto prima che fosse troppo

tardi. Ed era già tardi, dal momento che gli Alleati anglo-americani

erano sbarcati il 10 luglio 1943 in Sicilia e stavano procedendo a una

rapida conquista di tutta l’isola, evidente anticipazione del loro

successivo attacco alla penisola ed al continente stesso.

In quelle condizioni di imminente disastro, l’uscita dell’Italia dal

conflitto, prima che fosse troppo tardi, era una priorità assoluta e la

sostituzione di Mussolini con Badoglio fu la classica “foglia di fico”

utilizzata per coprire uno sganciamento dall’alleanza con la Germania

che aveva bisogno di tempo per poter essere preparato. Purtroppo per

l’Italia nel suo complesso, tale sganciamento venne preparato male ed

eseguito peggio, e il tocco in più in senso negativo fu rappresentato

5

dalla vergognosa fuga, la notte tra l’8 e il 9 settembre 1943, dapprima

a Pescara e poi a Brindisi, del re e del capo del governo; decisione vile

e improvvida che lasciò le Forze Armate italiane prive di qualsiasi

ordine chiaro e le votò al collasso e allo sfascio1, provocando un

carico di perdite umane che si sarebbe potuto facilmente evitare e

determinando quella che Ernesto Galli Della Loggia ha

opportunamente definito come “la morte della Patria”2, vale a dire il

definitivo collasso della già sempre fragile struttura dell’edificio

nazionale unitario, con la relativa perdita di identità e di sentimento

nazionale.

Il periodo 1943-1949, in effetti, è stato un momento decisivo per

la società italiana, per le sue istituzioni e per i fondamenti stessi del

suo sistema politico. A parte la sconfitta militare, grave in sé e ancor

più grave per le modalità con cui maturò, la successiva guerra civile

tra partigiani e fascisti e la costituzione di due governi, uno al Nord (la

Repubblica Sociale Italiana – RSI) sotto la guida formale di

Mussolini, ma in realtà sotto stretto controllo dell’alleato/padrone

tedesco, e l’altro al Sud (quel che rimaneva del Regno d’Italia, con

sede a Brindisi, autonomo ma sotto stretto controllo Alleato), l’Italia

intera venne scossa da una tempesta che era frutto della disastrosa

sconfitta militare cui era andato incontro il fascismo, tempesta che

provocò conseguenze di varia natura, da quelle centrifughe,

indipendentistiche e scissionistiche (che si manifestarono, ad esempio,

in Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta), ai problemi di politica

1 Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, il Mulino,

Bologna, 1998. 2 Ernesto Galli Della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1999.

6

internazionale (come la questione di Trieste, occupata dalle forze

partigiane di Tito nella fase finale della guerra e destinata a diventare

oggetto di una lunga ed estenuante trattativa tra Italia e Jugoslavia,

prima di essere risolta con un compromesso, cioè il Trattato di

Osimo3).

Anche le culture politiche presenti nel Paese, sebbene molte di

esse avessero solide radici nella storia nazionale e non potessero

quindi essere in alcun modo considerate come anti-nazionali,

portarono avanti, forse per naturale reazione a oltre un ventennio di

esasperato nazionalismo, forme di de-identificazione nazionale che

ebbero conseguenze non positive sullo spirito collettivo del Paese. Si

concretizzò infatti, sul piano interno, una tendenza incline alla ricerca

di una nuova identità, non più nazionale ma sovra-nazionale, inserita

all’interno di contenitori sempre più vasti (l’Europa, le Nazioni

Unite), quasi che questi ultimi, con il loro diverso patrimonio di

valori, potessero supplire alla crescente fragilità dell’identità nazionale

o alla sua vera e propria inesistenza4. Si determinò in tal modo una

situazione abbastanza paradossale, per cui da un eccesso di

3 Il Trattato di Osimo, firmato il 10 novembre 1975, sancì lo stato di fatto di separazione

territoriale venutosi a creare nel Territorio Libero di Trieste (TLT) a seguito del Memorandum di

Londra (1954), rendendo definitive le frontiere fra l'Italia e l'allora Jugoslavia. Esso concluse la

fase storica iniziata nel 1947 con il trattato di pace, quando si decise la cessione alla Jugoslavia di

gran parte della Venezia Giulia (Fiume e le isole del Quarnaro, la quasi totalità dell'Istria e gli

altopiani carsici a est e nord-est di Gorizia) e la creazione del TLT comprendente l'attuale

provincia di Trieste e i territori costieri istriani da Ancarano (oggi in Slovenia) fino a Cittanova

(oggi in Croazia). La mancata attivazione delle procedure per la costituzione degli organi

costituzionali del TLT impedì di fatto a quest'ultimo di nascere. La successiva cessione del potere

di amministrazione civile del TLT rispettivamente all'Italia (zona A) e Jugoslavia (zona B) creò le

condizioni per gli sviluppi successivi che portarono al Trattato di Osimo. Fonte:

http://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Osimo 4 Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza, il Mulino, Bologna, 1991, p. 186

sg.

7

nazionalismo, retorico e vuoto, si passò ad un eccesso di de-

nazionalizzazione, a sua volta non meno retorica e vuota, senza

riflettere sugli effetti negativi che, nel lungo periodo, ciò avrebbe

potuto produrre, a cominciare ad esempio dalla sottovalutazione di

questioni di importanza cruciale come quelle dell’interesse nazionale.

Quest’ultimo, infatti, nel nostro Paese è sempre stato una “cenerentola

ideologica”, mentre la logica avrebbe voluto che se ne tenesse sempre

conto in ogni valutazione di politica estera, alla stessa stregua di

quanto facevano, legittimamente, i nostri alleati.

Quantunque, nei primi anni di governo dell’Italia postbellica, le

forze politiche inserite nello schieramento antifascista fossero tutte

coinvolte nell’esecutivo, dunque anche i socialisti e i comunisti, la

scelta di campo occidentale apparve chiara fin da quando, nel 1946,

l’Italia aderì al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alla Banca

Internazionale per la Ricostruzione (BIR) e gli Stati Uniti

rinunciarono a chiedere alle autorità di Roma la riparazione dei danni

di guerra.

A ben guardare, tuttavia, era l’andamento stesso della guerra che

aveva deciso le scelte politiche dell’Italia postbellica. Gli Alleati

anglo-americani, infatti, erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio 1943 con

l’evidente intento di accelerare al massimo il crollo del fascismo e

l’uscita dall’Italia dal conflitto. Di conseguenza, ad onta di

sommovimenti interni di enorme portata, le truppe alleate, nella loro

traversata del territorio italiano dall’estremo Sud all’estremo Nord,

avevano di fatto inserito il nostro Paese nello schieramento

geostrategico occidentale postbellico. In linea puramente teorica, era

8

una situazione che si sarebbe potuto cambiare, ad esempio se al

governo fosse andato il “Fronte Popolare” formato da socialisti e

comunisti, ma gli assetti strategici del post-1945 erano troppo rigidi

perché un’ipotesi del genere potesse essere considerata realmente

verosimile e praticabile.

Così, a seguito degli sviluppi politici che si registrarono sul piano

interno nella prima metà del 1947 (con il viaggio del presidente del

Consiglio Alcide De Gasperi a Washington; la scissione socialista di

Palazzo Barberini, con la nascita del partito socialdemocratico (PSDI),

di orientamento filo-occidentale, e la sostituzione, nella carica di

ministro degli Esteri, del socialista Pietro Nenni con Carlo Sforza (un

diplomatico di carriera di cui erano note le simpatie filo-occidentali),

l’Italia venne inserita nella “Dottrina Truman5” sul containment

(contenimento) del comunismo e soprattutto nel Piano Marshall, un

fondamentale strumento varato dagli USA per la ricostruzione

economica dell’Europa postbellica (5 giugno 1947)6.

Queste scelte furono frutto di una serie di decisioni assai precise,

prese essenzialmente a Washington e successivamente confermate da

Roma, le quali non potevano in alcun modo ammettere che, negli

assetti geopolitici e geostrategici che si stavano creando in Europa

dopo il 1945, il governo italiano potesse in qualche modo rimanere

condizionato dalla presenza al suo interno di esponenti socialisti e

5 Per “Dottrina Truman” si intende la strategia di politica estera ideata dall'allora presidente degli

Stati Uniti d'America Harry S. Truman (1945-1953) il 12 marzo 1947, in un discorso tenuto alle

camere in seduta comune, prendendo spunto dai casi di Grecia e Turchia, che avevano lasciato

intravedere la possibilità di una resa di fronte all'espansionismo sovietico. La dottrina si proponeva

di contrastare le mire espansioniste dell'avversario comunista nel mondo. Fonte:

http://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_Truman 6 Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica 1943-1993, Casa Editrice Nuove Ricerche,

Ancona, 1994, p. 22.

9

comunisti. L’Italia, per volontà di Washington, doveva fare parte del

blocco politico-strategico occidentale e alle autorità di Roma non restò

che adeguarsi a tale volontà, che peraltro condividevano.

Tra il 1943 e il 1947 l’Italia basò la propria politica estera su

presupposti certamente discutibili, da un lato illudendosi che la guerra

fosse stata perduta dal regime fascista e non dalla nazione italiana nel

suo complesso; dall’altro pensando che il mondo, al termine del

conflitto, sarebbe stato retto da quelle stesse norme che,

nell’anteguerra, avevano regolato i rapporti tra gli Stati, dunque un

complesso di alleanze e vincoli di vario genere, ma comunque di tipo

tradizionale. Naturalmente non era così, in quanto tutto era cambiato

dopo il 1945 e la crescita esponenziale di forza di due superpotenze

come USA e URSS e, in particolare, la massiccia avanzata sovietica

verso il cuore dell’Europa e il controllo esercitato da Mosca, tramite i

partiti comunisti locali, su tutti i Paesi caduti sotto la sua sfera

d’influenza, avevano mutato radicalmente il quadro politico europeo,

dal momento che il Vecchio Continente si avviava a diventare il

terreno di scontro tra due blocchi contrapposti, di cui uno

egemonizzato dall’URSS e l’altro dagli USA. Su questo sfondo,

margini di manovra e di autonomia, per un Paese come l’Italia, di fatto

non esistevano.

Al fine di consolidare il blocco politico di cui erano egemoni, gli

Stati Uniti, temendo che i Paesi dell’Europa occidentale potessero

cadere sotto il peso della pressione comunista, decisero di intervenire

massicciamente, in primo luogo per favorire la ricostruzione e lo

sviluppo economico dell’Europa occidentale. Questo fu il presupposto

10

di base su cui venne edificato il Piano Marshall, varato per l’appunto

dagli USA7. La ratio che gli stava dietro era che, da una parte, la

ricostruzione e il sostegno delle economie dei Paesi dell’Europa

occidentale avrebbero accelerato la loro ripresa e, al tempo stesso,

avrebbero creato le condizioni politiche e sociali per togliere il terreno

sotto i piedi alle forze di Sinistra esistenti sul piano interno8.

Queste misure, tuttavia, avrebbero richiesto un po’ di tempo

prima di poter diventare effettive, mentre la situazione richiedeva

invece interventi urgenti in quanto la minaccia politico-strategica

posta dal blocco comunista risultava più pressante e immediata, in

quegli anni, delle misure di carattere economico adottate per

prevenirla.

La prima risposta di natura politico-strategica fu la formulazione

della cosiddetta “Dottrina Truman” (marzo 1947), con cui venne

annunciato il varo di un vasto programma di aiuti alla Grecia,

sconvolta dalla guerra civile e alla Turchia, soggetta a forti pressioni

sovietiche sulle sue frontiere settentrionali.

La seconda risposta fu il Trattato di Bruxelles, firmato appunto

nella capitale belga il 17 marzo 1948, con cui Gran Bretagna, Francia,

Belgio, Olanda e Lussemburgo si impegnarono a un periodo di

cinquant’anni di cooperazione economica, sociale e militare. Esso

venne successivamente modificato dagli Atti Internazionali firmati a

Parigi il 23 ottobre 1954, che diedero vita all’Unione Europea

Occidentale (UEO).

7 Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai

giorni nostri, Laterza, Roma Bari, 2010, nuova edizione ampliata, p. 165. 8 Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi, BUR Saggi,

Milano, 2004., p. 51 sg.

11

La terza risposta, di gran lunga più efficace, in quanto

coinvolgeva anche la potenza egemone del blocco occidentale, fu il

Trattato per l’Organizzazione dell’Atlantico del Nord (North Atlantic

Treaty Organization - NATO), firmato a Washington il 4 aprile 1949.

Grazie a questo nutrito sistema di rapporti di natura diversa,

l’Italia postbellica poté provvedere alla propria sicurezza politica,

militare ed economica. Su questo sfondo, la continuità della politica

estera italiana e delle sue scelte venne garantita essenzialmente dalla

diplomazia e dal sistema burocratico-amministrativo. E fu certamente

questa una ragione per cui, una volta compiuta la scelta atlantica per

evidenti ragioni di forza maggiore, in quanto le opzioni politiche

esistenti non ne consentivano altre, di fatto si continuò a privilegiare

un’interpretazione di tale scelta che lasciava parecchio spazio alla

discrezionalità italiana, quasi che dell’adesione alla NATO si

volessero solo acquisire gli onori, ma non pagare gli oneri (ma su

questo aspetto torneremo più ampiamente nel capitolo 2).

Nei fatti, il processo di maturazione che condusse alla decisione

di aderire all’Alleanza Atlantica fu piuttosto lento e complicato, non

solo e non tanto per l’ostilità che ancora permaneva tra coloro che,

solo fino a poco tempo prima, erano stati per gli italiani dei nemici,

ma per il fatto che neppure gli italiani, in ultima analisi, erano

realmente e totalmente convinti della bontà di tale scelta9.

A proposito di questa fase storica, Giuseppe Mammarella e Paolo

Cacace hanno fatto notare come un’attenzione non secondaria debba

essere rivolta alla Costituzione repubblicana, sia per la forte

9 Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza... cit., pp. 194-196.

12

ispirazione internazionalista che la animava, sia per il fatto che essa

sanciva, al famoso art. 11, il ripudio della guerra «come strumento di

offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle

controversie internazionali». Un approccio così netto, dunque, di fatto

escludeva la guerra dalle opzioni di politica internazionale dell’Italia e

ne limitava la legittimità alla sola guerra per la difesa della libertà,

dell’indipendenza e dell’integrità nazionale. Un aspetto di cui al

momento venne rilevato solo il valore simbolico, mentre, a partire

dagli anni Ottanta e nel contesto di uno scenario internazionale

profondamente mutato, esso assumerà una valenza meno chiara e più

controversa, in quanto consentirà letture e interpretazioni diverse da

quelle del governo sul tema dell’opposizione, ad esempio,

all’effettuazione di missioni militari all’estero, pur se svolte sotto

l’egida di grandi e prestigiose organizzazioni internazionali10

. A ben

guardare, un orientamento del genere era tale da creare complicazioni

anche nel caso di operazioni militari della NATO, in quanto esse

erano certamente da svolgersi sotto l’egida di una grande

organizzazione internazionale, ma ci sarebbero potute essere

divergenti interpretazioni sulla loro reale natura, ad esempio se si

fosse deciso di apprestare una “difesa attiva” in territorio austriaco e

jugoslavo, di fatto penetrando all’interno di quei due Paesi, dove certo

le truppe della NATO avrebbero potuto essere chiamate a svolgere

attività di sostegno, ma anche no…

10

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 159.

13

1.2 Il Patto Atlantico e l’adesione italiana

Il trattato di pace firmato dall’Italia a Parigi il 10 febbraio 1947

fu un diktat imposto dagli Alleati a un Paese che aveva perso la

guerra, non certo l’esito di un negoziato diplomatico11

. Le speranze

che i governanti italiani avevano nutrito, fino a quella data, erano

decisamente superiori agli esiti realmente raggiunti sotto il profilo

fattuale e puntavano sulla possibilità di scindere le responsabilità della

Nazione da quelle del regime fascista. Una soluzione del genere,

tuttavia, era troppo comoda per poter essere accettata dai nemici di

ieri, per cui il governo De Gasperi fu costretto a trangugiare l’amaro

calice di una pace alquanto severa, nelle sue clausole12

. Tuttavia, la

posizione geostrategica dell’Italia nel Mediterraneo era tale per cui gli

Alleati anglo-americani non potevano privarsi a cuor leggero della sua

presenza, quindi, anche se il trattato di pace rappresentò una botta

difficile da assorbire, l’adesione alla NATO rappresentò, per il

governo di Roma, un’opportunità formidabile per cominciare a

sentirsi un vero alleato e non semplicemente un ex-nemico.

L’Italia aderì al Patto Atlantico fin dalla sua fondazione e dovette

questo innegabile successo al fatto che poté trarre vantaggio dai

contrasti che si palesarono fra Stati Uniti e Gran Bretagna per

l’organizzazione politica dell’Europa postbellica e in particolare

dell’area mediterranea. Aver scelto, in tali circostanze, di schierarsi

risolutamente dalla parte degli USA non rappresentò soltanto una

scelta di necessità, visto che Washington pareva molto più benevola,

11

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit. p. 181. 12

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., pp. 150-156.

14

nei riguardi dell’Italia, di quanto non fosse Londra, ma anche una

scelta lungimirante13

, dal momento che gli Stati Uniti, sempre più

palesemente, erano l’asse portante dello schieramento Alleato14

, la

potenza ormai sempre più scopertamente egemone all’interno del

medesimo. Cercare di soddisfare i desiderata di Washington, in una

parola, si dimostrò di gran lunga preferibile che cercare di allinearsi

con quelli di Londra e fece entrare l’Italia nello schieramento

occidentale15

dalla porta principale.

Al momento della sua adesione alla NATO, il principale

problema che il governo italiano dovette affrontare non fu

rappresentato, sul piano interno, da socialisti e comunisti, che erano

forti ma relegati comunque all’opposizione, bensì soprattutto dalle

correnti del neutralismo cattolico. La sinistra democristiana – i cui

maggiori esponenti erano Giovanni Gronchi, Giuseppe Dossetti e

Giorgio La Pira – rifiutava la prospettiva di un’adesione a un’alleanza

militare come la NATO per ragioni in parte politiche e in parte

ideologiche. Essi ritenevano infatti che l’Italia dovesse sottrarsi alla

logica dei blocchi e proclamare la propria vocazione pacifica, il che

poteva anche rappresentare una nobile illusione, ma certo era

improponibile come soluzione nel clima politico internazionale di

quegli anni. Inoltre, essi erano più che convinti che l’adesione alla

NATO non avrebbe avuto soltanto conseguenze politiche e militari,

ma avrebbe dettato all’Italia le linee di fondo del suo regime politico e

13

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 178. 14

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 28 sg. 15

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 182.

15

sociale e tale prospettiva li spaventava dal profondo, in quanto erano

ostili ai valori del capitalismo16

.

L’Italia entrò nel secondo dopoguerra con versioni strumentali o

ideologiche oppure ancora fortemente censurate del proprio passato di

nazione. Per i socialisti e i comunisti, ad esempio, la guerra appena

conclusa doveva essere considerata il necessario punto di arrivo di un

Risorgimento che era stato eccessivamente nazionalista fin dalle sue

prime manifestazioni e quindi aveva condizionato tutta la storia

nazionale, dalla quale la Resistenza antitedesca si stagliava e al tempo

stesso si staccava come prima, autentica “guerra di popolo”, non solo

in senso politico-militare, ma anche sociale17

. Per i cattolici, per

contro, la guerra era frutto di un peccato originale e dunque era da loro

vista come la pena che un Paese come l’Italia aveva dovuto scontare

per i peccati commessi contro la Chiesa. Per i partiti di tradizione

risorgimentale, infine, la Resistenza era una nuova guerra

d’indipendenza, nello spirito del Risorgimento migliore, quello inteso

ad affermare la libertà e l’autonomia della nazione italiana. Se l’Italia,

in quel periodo, avesse condotto un approfondito esame di coscienza,

forse avrebbe potuto acquisire una migliore percezione del proprio

passato e una più chiara idea del proprio futuro. Per contro,

nell’impossibilità di mettere insieme interpretazioni così divergenti, si

preferì glissare un po’ su tutto, con esiti tutt’altro che felici18

.

16

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 62 sg. 17

Salvatore Battaglia, Storia della Resistenza italiana 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945,

Einaudi, Torino, 1964. 18

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 45.

16

1.3. Atlantismo e anti-atlantismo in Italia

Affrontare il tema dell’atlantismo e dell’anti-atlantismo in Italia

significa addentrarsi in un terreno minato, nel quale è possibile

incorrere in numerose insidie. Non bisogna infatti in alcun modo

dimenticare che, tra la fine della guerra e la firma del Patto Atlantico

vi fu, in Italia, un vasto partito favorevole a una scelta neutralista, nel

quale convergevano esponenti cattolici come i già citati Gronchi,

Dossetti e La Pira; socialisti come Pietro Nenni e liberali come Manlio

Brosio.

Per ragioni diverse, i neutralisti italiani ritenevano che l’Italia

dovesse sottrarsi ai conflitti di potere in atto nell’Europa del

dopoguerra. I cattolici di Sinistra, ad esempio, consideravano la scelta

neutralista come una terza via fra il capitalismo americano e il

comunismo sovietico, soluzione alla quale credevano molto sotto il

profilo ideologico, mentre taluni esponenti della vecchia classe

dirigente liberale ritenevano che l’Italia avrebbe meglio valorizzato il

proprio ruolo nelle vicende della politica europea se si fosse

proclamata neutrale, cioè se avesse aderito a una visione geopolitica

intesa a cercare di capitalizzare attivamente sul proprio ruolo di

crocevia e punto di gravitazione tra i due blocchi.

In realtà, le scelte di politica internazionale dell’Italia nel

secondo dopoguerra erano già state chiaramente definite dal settembre

1943. Quando, nell’agosto 1943, il governo del generale Pietro

Badoglio cominciò a trattare con gli Alleati dopo la defenestrazione di

Benito Mussolini e del fascismo, le possibili scelte che aveva a

disposizione erano due: o uscire dal conflitto e difendere l’autonomia

17

e l’integrità del territorio nazionale da qualsiasi interferenza esterna,

oppure collaborare con gli anglo-americani nella fase successiva del

conflitto. La scelta cadde sulla seconda opzione, anche perché la

prima – che avrebbe comportato di battersi contro i tedeschi – venne

ritenuta troppo rischiosa e difficile da realizzarsi. Così vennero

intavolate trattative e presi impegni con gli Alleati, ma poi, l’8

settembre 1943, tali impegni non vennero mantenuti e la fuga del re e

del governo a Pescara e da lì a Brindisi ebbe come unica conseguenza

il totale sbandamento delle Forze Armate italiane, dimostrando una

verità che sarebbe rimasta evidente anche nei decenni successivi, vale

a dire che l’Italia, senza il decisivo appoggio degli Alleati e degli

americani in particolare, non era assolutamente in grado di difendersi

da sola e di provvedere autonomamente alla propria sicurezza19

.

Per quanto concerne l’atteggiamento dei socialisti e soprattutto

dei comunisti, è chiaro che i secondi ispirarono i loro comportamenti

al seguire alla lettera le direttive che provenivano da Mosca, direttive

che erano ispirate al più totale realismo politico, in quanto il Cremlino

era convinto che le sfere di influenza in Europa, tra URSS e Alleati

occidentali, fossero di fatto determinate dalle rispettive occupazioni

militari e l’Italia, da questo punto di vista, rientrava indiscutibilmente

nella sfera di influenza anglo-americana. È chiaro che nessuno, a

Mosca, era disposto a riconoscere questo dato di fatto, se non in

privato, ma era altresì chiara l’intenzione dell’Unione Sovietica di non

mettere in discussione i delicatissimi equilibri post-bellici dell’Europa

per aiutare i comunisti italiani. A questi ultimi, semmai, poteva essere

19

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p.13 sg.

18

riconosciuto il diritto di provare a prendere il potere dall’interno, ma

nulla di più20

.

La scelta atlantica suscitò quindi notevoli contrasti sul piano

politico interno e ciò è imputabile al fatto che, in larga misura, si trattò

di una scelta necessitata, non condivisa fino in fondo; una scelta che

venne compiuta dal governo di Roma, prima ancora che per mettersi

al riparo dalla minaccia sovietica, pur molto forte a livello

convenzionale, all’epoca, per stabilizzare il quadro politico interno e

mettere il sistema politico al sicuro da potenziali sommovimenti21

.

Questa duplicità di valutazioni si mantenne a lungo, così come si

manterrà a lungo la contrapposizione frontale tra filo-atlantici (fossero

essi fautori convinti o semplicemente sostenitori di uno stato di

necessità) e anti-atlantici, talvolta con degli automatismi francamente

penosi su entrambi i versanti, come se entrambi reagissero per riflesso

pavloviano, per l’accettazione acritica di un ruolo, più che per scelte

condivise.

1.4. Atlantismo e/o europeismo ? Opzioni convergenti o

divergenti ?

Nell’immediato dopoguerra, la scelta del governo italiano fu

molto più atlantica e filoamericana che europeista e filo-occidentale.

Questo perché, probabilmente anche nel clima di contrapposizione

frontale, sul versante della politica interna, tra filo-americani e filo-

sovietici, le autorità di Roma avevano tutto interesse a garantirsi

preventivamente l’appoggio degli Stati Uniti, da cui erano sicure, in

20

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 27 sg. 21

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit. p. 196 sg.

19

caso di problemi interni, di ricevere un supporto anche militare

immediato22

.

La costruzione di un sistema europeo di difesa integrata, per

contro, era certamente una soluzione possibile, che non a caso si

concretizzò fuggevolmente nell’abortito tentativo di creare una

Comunità Europea di Difesa (CED). Sforzo lodevole, in parte

condiviso anche dal governo italiano, ma che si esaurì nel giro di un

biennio (1952-54), formalmente per il rifiuto del Parlamento francese

di ratificarne la creazione, ma in realtà per il fatto che, nelle

circostanze dei primi anni del dopoguerra, l’Europa era troppo debole

per poter pensare alla costruzione di un proprio autonomo sistema di

difesa, stretta com’era tra esigenze più pressanti, a cominciare da

quella della ricostruzione economica per continuare con quella della

liquidazione dei propri domini coloniali, mentre gli Stati Uniti non

guardavano certo con favore all’edificazione di una struttura che, se si

fosse consolidata, con il tempo avrebbe conferito all’Europa

occidentale un’autonomia strategica che era invece l’opzione che a

Washington preoccupava di più, in quanto sottraeva l’Europa stessa

alla sua dipendenza politica e militare, dipendenza che, nelle

circostanze politiche del momento, era pressoché totale.

La questione del rapporto tra atlantismo ed europeismo, che con

il passare del tempo diventerà sempre più importante, al momento

della firma del Patto Atlantico e almeno fino all’inizio degli anni

Ottanta rimarrà sempre una questione subalterna, in quanto per

22

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 22 sg.

20

decenni la “Guerra Fredda”23

impose un rigido allineamento dei Paesi

membri dei due blocchi (la NATO e il Patto di Varsavia) su una

contrapposizione frontale, che non consentiva troppe esibizioni di

autonomismo, se non quella gollista francese, su un versante, e quella

rumena, sull’altro, entrambe peraltro molto più formali e “di

principio” che sostanziali.

Fino a quando i due blocchi si fronteggiarono minacciosamente

in Europa, ogni alternativa appariva impossibile o quanto meno

impraticabile o comunque dispersiva, ma naturalmente, a lungo andare

e man mano che la minaccia sovietica diventava meno incombente, la

questione si pose in tutta la sua importanza in quanto l’interrogativo

accennato nel titolo stesso di questo paragrafo, vale a dire se

atlantismo ed europeismo fossero opzioni convergenti o divergenti,

non era un interrogativo da poco.

23

Fu definita “Guerra Fredda” la contrapposizione che venne a crearsi alla fine della seconda

guerra mondiale (1945) tra due blocchi internazionali, generalmente categorizzati come Occidente

(gli Stati Uniti d'America, gli alleati della NATO e i Paesi amici) ed Oriente, o più spesso "blocco

comunista" (l'Unione Sovietica, gli alleati del Patto di Varsavia e i Paesi amici). Tale tensione,

durata circa mezzo secolo, pur non concretizzandosi mai in un conflitto militare diretto (la

disponibilità di armi nucleari per entrambe le parti avrebbe potuto inesorabilmente distruggere

l'intero pianeta), si sviluppò nel corso degli anni incentrandosi sulla competizione in vari campi

(militare, spaziale, ideologico, psicologico, tecnologico, sportivo) contribuendo almeno in parte

allo sviluppo ed evoluzione della società stessa con l'avvento della terza rivoluzione industriale. Il

termine era stato usato già nel 1945 dal celebre scrittore e giornalista britannico George Orwell

che, riflettendo sulla bomba atomica, preconizzava uno scenario in cui le due grandi potenze, non

potendo affrontarsi direttamente, avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri. La fase

più critica e potenzialmente pericolosa della guerra fredda fu quella compresa fra gli anni

cinquanta e settanta. Già dai primi anni ottanta i due blocchi avviarono un graduale processo di

distensione e disarmo; tuttavia la fine di questo periodo storico viene convenzionalmente fatta

coincidere con la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989). Fonte:

http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_fredda

21

La questione è complessa e non è certo facile dare una risposta.

Di fatto, l’europeismo non può essere considerato una forma di

atlantismo, ma una soluzione politica autonoma, per di più integrabile

a fatica nella precedente, in quanto l’atlantismo è sempre stato inteso

dai suoi principali promotori, cioè dagli Stati Uniti, come un modo per

vincolare a sé l’Europa e mantenerla sotto il proprio diretto controllo.

L’europeismo avrebbe dovuto essere sempre qualcosa di diverso da

questo, ma l’Europa non ha mai avuto la forza politica e tanto meno

quella militare per imboccare percorsi alternativi. Ne consegue che,

anche se in linea teorica è possibile considerare le due opzioni testé

citate come antitetiche, nei fatti, almeno fino al periodo oggetto della

presente narrazione, vale a dire fino al 1989, la soluzione atlantica è

stata l’unica ipotesi percorribile, l’unica soluzione praticabile, l’unica

possibilità che gli europei occidentali hanno avuto di fronte a sé al fine

di evitare di cadere sotto il controllo del blocco sovietico.

Nel prossimo capitolo, per contro, ci occuperemo di quale ruolo

abbia svolto l’Italia all’interno della NATO, di quale sia stata, nel

corso del quarantennio 1949-1989, la politica estera che essa ha

sviluppato all’interno e anche al di fuori dell’alleanza.

22

CAPITOLO 2

L’ITALIA NELLA NATO: POLITICA ESTERA

2.1. Le politiche di allineamento alle direttive atlantiche dal 1949

al 1989

Per almeno tre decenni dopo la sua adesione, anche senza

arrivare a paragonare il ruolo svolto dall’Italia nella NATO a quello di

un comportamento da subalterni definibili spregiativamente come

“ascari” oppure ad abbinarlo alla altrettanto poco esaltante definizione

di “Bulgaria della NATO”24

, appare comunque difficile negare che il

nostro Paese, durante la “Guerra Fredda”, abbia costruito la propria

partecipazione alla difesa collettiva atlantica essenzialmente sulla

rendita geopolitica derivante dalla sua posizione geografica e sulla

concessione in uso, agli Stati Uniti, di basi e infrastrutture militari

situate in territorio italiano25

.

Nel 1949, al momento della costituzione dell’Alleanza Atlantica,

sull’Italia gravavano diffidenze di varia natura, la prima e più

importante delle quali era che, durante il secondo conflitto mondiale,

il nostro Paese aveva combattuto dalla parte dell’Asse, cioè dei vinti e

non degli Alleati, cioè dei vincitori. A ciò si aggiungeva il fatto che il

modo deprecabile con cui l’Italia era uscita dal conflitto, con il

24

La Bulgaria era considerata il più fedele e subalternamente passivo alleato dell’Unione

Sovietica all’interno del Patto di Varsavia, l’alleanza politico-militare che legava i Paesi del blocco

comunista e che fu attiva tra il 1955 e il 1991. Dunque la definizione dell’Italia come “Bulgaria

della NATO” intendeva bollare negativamente una condizione di analoga passività. 25

Valter Coralluzzo, “Le missioni italiane all’estero: problemi e prospettive”, in ISPI (Istituto per

gli Studi di Politica Internazionale) Analysis, No. 136 – September 2012, p. 2.

23

collasso dell’8 settembre 1943, la fuga del Re Vittorio Emanuele III

da Roma a Brindisi, l’abbandono delle Forze Armate italiane alla

rappresaglia dell’ex-alleato germanico e il loro conseguente

sfaldamento, prive di ordini e direttive precise, faceva considerare ai

nostri nuovi alleati angloamericani l’Italia come un Paese non

particolarmente affidabile, ricco di una tradizione storica in cui i

cambiamenti di campo costituivano purtroppo un frequente e negativo

precedente26

.

Tuttavia, a vantaggio dell’Italia si ponevano alcuni dati

inoppugnabili, come la sua posizione nel bel mezzo del Mediterraneo,

analoga a quella di una “portaerei naturale”, dalla quale delle potenze

come quelle occidentali, dotate di un dispositivo aeronavale

imponente, erano in grado di controllare completamente quello che

all’epoca era uno dei più importanti mari del mondo. Era dunque

estremamente utile, per gli Stati Uniti, poter avere l’Italia come alleata

e poter disporre di basi militari in territorio italiano, in quanto da

quelle basi sarebbe stato possibile esercitare un controllo militare in

varie direzioni, in particolare verso Sud, verso Est e verso Nord-Est. Il

tutto mentre sulla parte occidentale dell’Europa gravava una crescente

minaccia militare sovietica e mentre nel Mediterraneo la situazione

geostrategica restava confusa e aperta alle opzioni operative più

diverse.

26

A parte la tragica vicenda dell’8 settembre 1943, non si deve dimenticare che, anche al

momento dello scoppio della Prima guerra mondiale l’Italia non entrò in guerra dalla parte degli

Imperi Centrali, con cui era stata alleata – mediante il vincolo della Triplice Alleanza – fin dal

lontano 1888, ma da quella dell’Intesa, cioè dalla parte di coloro che, fino a qualche mese prima,

erano stati considerati i possibili nemici. A ciò si devono aggiungere i numerosi “cambiamenti di

schieramento” di cui si rese responsabile, nel corso della sua lunga storia, la dinastia dei Savoia.

24

Forse più inoppugnabile del precedente, peraltro, rimaneva il

dato della situazione politica interna italiana, dove la presenza di un

blocco socialcomunista di forza pari a oltre il 40% del totale

dell’elettorato, rendeva chiaro che, senza la garanzia di sicurezza

offerta dalla NATO, il quadro politico interno avrebbe potuto essere

anche rovesciato, modificando altresì la collocazione geostrategica del

nostro Paese. In una situazione internazionale confusa e in cui

spiravano forti “venti di guerra” tra i due blocchi, gli Alleati

angloamericani non potevano correre il rischio di veder nascere

un’Italia socialcomunista, ciò che avrebbe profondamente alterato i

rapporti di forza nel Mediterraneo e anche in Europa in favore

dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.

Non appare dunque una forzatura affermare che, in definitiva,

l’adesione italiana all’Alleanza Atlantica, avvenuta già al momento

della fondazione della medesima, fu in primo luogo una scelta dovuta

alla necessità e, di fatto, una scelta forse prima ancora di politica

interna che di politica internazionale o comunque all’interno della

quale le esigenze di politica internazionale erano solidamente

frammiste a quelle di politica interna, in un complesso insieme in cui

emergeva con forza l’esigenza prioritaria – per lo schieramento

occidentale – che un Paese geograficamente importante come l’Italia

non cadesse in mano comunista. Un esito del genere, infatti, avrebbe

potuto avere pesantissime ripercussioni sulla solidità e la stessa

credibilità dello schieramento atlantico nel continente europeo.

In realtà, comunque, non è facile fornire una risposta convincente

al titolo del presente paragrafo, che si riferisce alle politiche di

25

allineamento alle direttive atlantiche, poiché la questione del rapporto

del nostro Paese con tali direttive è alquanto complessa e articolata.

Tale allineamento certamente ci fu, ma, a ben guardare, investì molto

di più la politica di difesa che non la politica estera, in quanto, a

livello di politica estera, l’Italia – e lo vedremo meglio nei prossimi

paragrafi – cercò sempre di definire una propria linea che potremmo

definire, con una certa benevolenza, di “interpretazione della reale

natura dell’Alleanza” e intorno ad essa si manifestarono parecchi

contrasti, sia all’interno del mondo politico nazionale sia nell’ambito

della NATO stessa.

Un primo esempio in tal senso può essere rappresentato dai vari

tentativi che fiorirono, nel corso degli anni Cinquanta, per dare vita ad

iniziative autonome di difesa europea. Non è un mistero che l’idea di

un’Europa che tendesse a federarsi, anche solo sul versante

occidentale della medesima, non era particolarmente gradita agli Stati

Uniti, che vedevano in qualsiasi tentativo di unificazione europea una

minaccia alla loro posizione dominante e ai loro interessi strategici

permanenti nel Vecchio Continente. Tuttavia, nell’Europa degli anni

Cinquanta, ancora in fase di lenta ricostruzione, qualsiasi sforzo di

convergenza poteva anche essere legittimamente considerato poco più

che un comprensibile auspicio, cui guardare – da parte americana –

con legittimo scetticismo, quasi che fosse nulla più che un atto

velleitario. Non a caso le varie iniziative di convergenza militare

europea fallirono, mentre ad esempio quelle economiche ebbero esito

ben diverso e culminarono nel 1957 nella creazione della Comunità

Economica Europea (CEE).

26

Per quanto concerne la condizione dell’Italia, tutti gli anni

Cinquanta e i primi anni Sessanta evidenziarono con forza la stretta

interazione esistente tra quadro politico internazionale e quadro

politico interno. Basti pensare alle preoccupazioni che si

manifestarono a Washington sul finire degli anni Cinquanta, quando

divenne chiaro che la Democrazia cristiana (DC), il partito italiano di

maggioranza relativa, appariva deciso a portare al governo il Partito

socialista italiano (PSI), approfittando in primo luogo della rottura che

si era prodotta all’interno del blocco socialcomunista italiano sulla

valutazione della dura repressione sovietica della rivolta ungherese

(1956). I socialisti, infatti, avevano deplorato che Mosca avesse

schiacciato nel sangue la legittima aspirazione del popolo ungherese

all’autodeterminazione, mentre i comunisti si erano passivamente

adeguati alle direttive del Cremlino. Ne era risultata una spaccatura, di

cui una parte della DC intendeva approfittare per portare i socialisti al

governo del Paese, rompendo l’unità del blocco socialcomunista,

privando il Partito comunista italiano (PCI) di un consistente serbatoio

di voti, riducendolo in una condizione di più marcata minoranza

nell’ambito del quadro politico nazionale.

Nel momento in cui tali orientamenti si manifestarono, la

reazione dell’amministrazione repubblicana del presidente Dwight

Eisenhower (1953-1961) non fu positiva, ma di chiusura, anche

perché il blocco occidentale stava attraversando un periodo di grave

incertezza, ossessionato dalla crescita della minaccia militare

sovietica, testimoniata in forma inequivocabile dal lancio, avvenuto

nell’agosto 1957, del primo missile balistico intercontinentale della

27

storia (ICBM27

), un ordigno in grado di operare su lunghissime

distanze e quindi di colpire, dall’Unione Sovietica, il territorio

americano, ponendo fine alla condizione di “santuario” intoccabile di

cui esso aveva potuto godere nel corso di due guerre mondiali.

Fu necessario attendere l’insediamento alla Casa Bianca, nel

gennaio 1961, del nuovo presidente John Fitzgerald Kennedy (1961-

1963) perché da Washington arrivasse un assenso alla svolta politica

che si intendeva produrre in Italia. L’avvento del primo governo di

Centrosinistra, nel dicembre 1963, avvenne esclusivamente a seguito

della preventiva approvazione di tale mossa da parte del governo

americano. Una volta di più, dunque, divenne evidente che le esigenze

di politica estera contribuivano a “fare” l’Italia (nel senso di conferirle

precisi assetti interni) molto più di quanto l’Italia stessa non fosse in

grado di fare un’autonoma politica estera28

. La dimostrazione della

validità di questa teoria risiede nel fatto che, poco più di una dozzina

di anni dopo, l’ingresso del Partito comunista italiano nella

maggioranza di governo e l’avvio del cosiddetto “compromesso

storico” – eventualità per nulla gradita dagli USA e da essi sempre

duramente contrastata – vennero sempre bloccati dal governo

americano con prese di posizione assai decise29

.

Non c’è vicenda più eloquente di quella di inserire il PCI nella

maggioranza che governava il Paese a dimostrare che la scelta

occidentale dell’Italia venne decisa al di fuori e al di sopra delle

capacità decisionali del governo di Roma e che tutta la politica italiana

27

La sigla ICBM è l’acronimo inglese di Inter-Continental Ballistic Missile (missile balistico

intercontinentale) 28

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana..., cit., p. 133. 29

Ibidem, p. 193.

28

del dopoguerra fu sempre, spesso pesantemente, condizionata da

Washington. L’Italia era una semplice pedina occidentale sullo

scacchiere strategico europeo e veniva manovrata dalla Casa Bianca.

Non c’è dubbio, comunque, che l’apertura ai socialisti dei primi

anni Sessanta e quella ai comunisti della seconda metà degli anni

Settanta, “ingessarono” la politica estera italiana. Specie nel secondo

caso, infatti, l’Italia poteva continuare a legittimare il proprio

posizionamento filoatlantico solo a condizione che gli obiettivi

dell’Alleanza potessero essere chiaramente identificati con la

“distensione”30

e la pace. Essa poteva altresì continuare a fare parte

della NATO, a condizione che gli Stati Uniti non pretendessero un

incremento degli impegni militari che Roma, per ragioni di politica

interna, non era in grado di fornire. Si creò quindi una situazione di

stallo, frutto di veti reciproci.

L’abortito tentativo di realizzare il “compromesso storico”,

tuttavia, chiarì senza ombra di dubbio chi effettivamente governava

l’Italia. Naturalmente, nel fare un’affermazione del genere, non si

intende sostenere che la NATO fosse un’alleanza non democratica o

che gli Stati Uniti non fossero disponibili ad accettare, nel caso,

soluzioni politiche diverse. Più correttamente, è possibile sostenere

che la maggioranza stessa che governava l’Italia era fragile e instabile

(basti pensare alla durata media dei governi della Prima Repubblica,

in genere non superiore ad un anno), e quindi aveva problemi di

30

Con il termine “distensione” si è soliti designare la fase storica che si aprì qualche anno dopo la

grave crisi di Cuba dell’ottobre-novembre 1962 e che venne sviluppata e portata a compimento

durante la presidenza Nixon, con l’apertura dell’amministrazione repubblicana alla Cina e la

reazione dell’URSS, preoccupata che Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese potessero mettersi

d’accordo alle sue spalle e dunque stringerla in un pericoloso accerchiamento. Per tale ragione, la

dirigenza sovietica preferì imboccare una strada di miglioramento dei rapporti con gli USA.

29

legittimità, di affidabilità e credibilità. È sufficiente, a questo

proposito, mettere a confronto la situazione italiana con quella

francese dell’epoca. Anche la Francia aveva avuto a lungo, al proprio

interno, uno schieramento di sinistra molto forte, il cosiddetto Fronte

Popolare, composto da socialisti e comunisti, ma la capacità di

condizionamento politico di questo fronte era stata infinitamente

minore di quella che esercitava in Italia uno schieramento omologo e

questo perché la maggioranza di governo francese, lo Stato francese e

la politica francese in generale, specie nel periodo in cui fu al potere il

generale Charles De Gaulle31

, si dimostrarono infinitamente superiori

alla consistenza politica dello schieramento filo-atlantico italiano,

debole, poco coeso e spesso anche assai poco convinto delle proprie

scelte32

.

Quanto fosse friabile, da questo punto di vista, la posizione

italiana, è dimostrato anche e forse in modo ancora più evidente da

un’altra vicenda, quella relativa al Trattato di Non Proliferazione

nucleare (TNP). Tale trattato venne concluso il 1° luglio 1968 e

l’Italia decise di rinviarne la firma, avanzando cinque precise richieste

di garanzia:

La compatibilità tra il trattato stesso e Euratom; in una parola, la

compatibilità tra la sottoscrizione di un impegno così oneroso, in

termini di autonomia energetica nazionale e continentale e le

politiche che la Comunità Europea stava portando avanti in tal

senso.

31

Presidente del governo provvisorio della Repubblica francese (1944-1946); Presidente del

Consiglio della Quarta Repubblica (1958-1959); Presidente della Quinta Repubblica (1959-1969).

Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_de_Gaulle 32

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 194 sg.

30

La garanzia che il TNP non ostacolasse l’integrazione europea,

soprattutto sotto il profilo energetico.

La garanzia che il TNP non limitasse la ricerca scientifica e

tecnologica, visto che non era difficile ipotizzare che un

congelamento della situazione, oltre ad impedire la proliferazione

nucleare, avrebbe anche impedito qualsiasi tipo di evoluzione

tecnologica da parte di tutti quei Paesi che non avevano ancora

varcato la “soglia nucleare” e che, di conseguenza, di fatto

lasciavano il loro futuro nelle mani di quelle poche potenze che

tale soglia l’avevano varcata.

La constatazione che la proibizione delle esplosioni nucleari a

scopo pacifico si intendesse determinata dall’impossibilità di

distinguerle dalle esplosioni a scopo militare.

La richiesta che l’Italia potesse applicare il medesimo tipo di

controllo alle esportazioni di materiali nucleari, senza

discriminazioni tra gli Stati acquirenti.

Si trattava di una presa di posizione assolutamente legittima, ma

che incontrò una dura ostilità da parte americana. Tutte le fonti che in

Italia sostenevano gli USA, a cominciare dalla grande stampa di

opinione, si mobilitarono contro questa presa di posizione del governo

di Roma, che per di più venne difesa debolmente e con scarsa

convinzione dal Partito socialista italiano. Di conseguenza, il 21

gennaio 1969 l’Italia venne costretta a sottoscrivere il TNP senza

avere ricevuto alcuna delle garanzie che aveva richiesto33

.

33

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere 1943-1976, Vallecchi, Firenze, 1978, p. 131

sg.

31

Questa vicenda, spesso sottorappresentata o rappresentata in

forma deliberatamente distorta, sta a dimostrare che, tra il 1949 e il

1989, le politiche di allineamento alle direttive atlantiche vennero

soprattutto imposte al governo italiano, nel senso che quest’ultimo non

ebbe mai la possibilità di farsi del tutto le proprie ragioni. Le scelte

autonomistiche erano tollerate quando erano velleitarie o quando

potevano servire come valvola di sfogo, ma diventavano

assolutamente inaccettabili quando velleitarie non erano e mettevano

l’Italia in rotta di collisione con gli interessi statunitensi permanenti.

In casi del genere, gli USA erano soliti provvedere a una massiccia

mobilitazione del loro apparato di sostegno, particolarmente forte a

livello di interessi economici (era normale, del resto, che il

capitalismo italiano fosse più vicino agli USA che all’URSS) e di

strutture mediatiche, al fine di garantirsi il sostegno dell’opinione

pubblica.

La stessa decisione delle autorità di Roma – presa alla fine degli

anni Settanta - di accettare lo schieramento, sul territorio nazionale, di

112 missili CRUISE deve essere valutata nel contesto di una

sostanziale subordinazione dei governi italiani alle direttive atlantiche.

Su questo aspetto specifico, la crisi stava maturando già dal 1976,

quando l’Unione Sovietica aveva cominciato ad installare nelle zone

occidentali del suo territorio nuovi missili intermedi dotati di testate

multiple, maggiore gittata e una più elevata precisione nel

raggiungimento dell’obiettivo. Questi missili, la cui sigla NATO era

SS-2034

, non modificavano nel loro insieme i rapporti di forza tra i due

34

La sigla SS sta per Surface to Surface, indica cioè un missile superficie-superficie.

32

blocchi, ma costituivano una notevole “spada di Damocle” posta

sull’Europa occidentale, contro la quale erano puntati, a cominciare

dal fatto che, dovendo compiere un percorso molto breve per arrivare

sui loro obiettivi, avrebbero costituito una grave minaccia di carattere

strategico. Nella loro stessa installazione in territorio sovietico erano

quindi presenti vari rischi di carattere militare e anche politico, il più

significativo dei quali era il cosiddetto decoupling (sganciamento),

vale a dire la possibilità che la gravità della minaccia sovietica

inducesse gli alleati europei a prendere le distanze dagli USA,

minando la coesione interna della NATO.

Il primo a lanciare l’allarme al riguardo fu il cancelliere tedesco

Helmut Schmidt, nell’autunno del 1977, il quale sostenne che l’unico

modo per neutralizzare l’effetto delle nuove armi offensive sovietiche

consisteva nello stanziare, nei Paesi europei membri della NATO,

missili a medio raggio di pari potenza e gittata. Gli euromissili, per

quanto integrati nella struttura militare dell’Alleanza, erano in

dotazione alle sole forze statunitensi, dal cui arsenale (nel quale erano

compresi i missili CRUISE e PERSHING) in effetti provenivano. Gli

alleati europei, dal canto loro, avevano preferito non accollarsi gli

onerosi costi dei vettori, in conformità alla tradizionale linea politica

europea in ambito atlantico, in base alla quale si cercano di ottenere i

vantaggi derivanti dall’appartenenza all’alleanza, ma si cerca altresì di

evitarne gli oneri. Tale condizione unilaterale, per quanto anche

conseguenza della miopia politica e strategica di molti governi

europei, suscitò un notevole dibattito all’interno dell’Alleanza, in un

primo momento per decidere in quali Paesi dislocarli e in un secondo

33

momento relativamente al ruolo che i governi di tali Paesi avrebbero

avuto in merito ad un’eventuale decisione di lanciare armi nucleari dal

loro territorio.

Il governo della Germania, che avrebbe dovuto ospitare sul

proprio territorio nazionale il maggior numero di missili, esitava ad

attuare la doppia decisione da solo35

. In tale circostanza si rivelò

determinante il ruolo dell’Italia, che per prima si offrì di affiancare la

Germania, ospitando un cospicuo numero di missili nella base

siciliana di Comiso36

. È probabile che, nel compiere una scelta del

genere, il governo socialista guidato da Bettino Craxi intendesse da un

lato dare prova della distanza che lo separava dal PCI e, dall’altro

acquisire a livello NATO (e soprattutto a livello USA) delle

benemerenze che avrebbero potuto venirgli utili in altre circostanze.

Un altro aspetto controverso era quello concernente il processo

decisionale per un eventuale impiego degli euromissili stessi: sotto il

profilo strettamente teorico, le forze statunitensi addette al loro

controllo operativo avrebbero sempre dovuto attendere un ordine di

impiego emanato dal Consiglio Atlantico, cioè da tutti i Paesi membri

dell’Alleanza; specifici accordi prevedevano inoltre consultazioni

bilaterali con i Paesi che ospitavano i missili. In pratica, però, era del

tutto evidente che le forze USA avrebbero avuto la possibilità di agire

in maniera unilaterale, visto che, fin dalla nascita, la NATO non è mai

stata un’alleanza di tipo paritetico, ma un patto di difesa dominato da

una potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, affiancata da una

nutrita serie di Stati satelliti. Per non parlare del fatto che,

35

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit. p. 241 sgg. 36

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit. pp. 206-209.

34

nell’eventualità di un attacco missilistico sovietico su obiettivi posti in

territorio europeo, i tempi di reazione sarebbero stati necessariamente

molto rapidi, pena conseguenze devastanti e questo avrebbe ancora

più limitato lo spazio riservato all’assunzione di decisioni comuni e

non unilateralmente statunitensi.

I nuovi missili acquisirono quindi una valenza essenzialmente

politica, nel quadro dell’acuirsi delle tensioni Est-Ovest provocate

dalla “Guerra Fredda”, come l’invasione sovietica dell’Afghanistan

del dicembre 1979 e la proclamazione dello stato d’assedio in Polonia

nel dicembre 1981. In effetti, più che un nuovo strumento militare, gli

euromissili rappresentavano simbolicamente soprattutto una

riaffermazione della presenza militare americana in Europa. Tuttavia,

per ridurne l’impatto complessivo, la NATO decise una riduzione

generalizzata dell’arsenale nucleare presente in territorio europeo, da

ottenersi mediante lo smantellamento delle armi più obsolete.

L’ascesa di Mikhail Gorbacev alla carica di segretario generale

del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), avvenuta nel

1985, segnò un netto miglioramento nei rapporti Est-Ovest e tale

miglioramento ebbe ovvie implicazioni positive sulla NATO. Ebbe

infatti inizio un progressivo processo di disarmo che trovò alcuni

momenti significativi nel trattato che nel 1987 stabilì il ritiro

simultaneo e lo smantellamento degli euromissili.

Si è già parlato della “rendita di posizione” di cui l’Italia ha

potuto godere, nei suoi rapporti con gli Stati Uniti e con la NATO.

Come si è accennato, la presenza italiana in ambito atlantico è sempre

stata vista dagli americani come equivalente a quella di una grande

35

portaerei posta nel cuore del Mediterraneo, una portaerei naturale da

sfruttare in tutti i modi possibili a proprio vantaggio. Tuttavia, sarebbe

una forzatura affermare che la tesi che gli Stati Uniti capiscano poco o

nulla dell’Italia sia realmente fondata. È sufficiente pensare a quanto

scritto sul tema da Stanley Hoffman37

, in una favoletta assolutamente

trasparente, per significati: «…c’era una volpe mangiata dalle pulci,

tutta bagnata e sofferente di diarrea, che si mise anche lei sotto la

protezione dell’aquila, prese a prestito la polvere antiparassitaria e si

mise a cercare qualche pillola per farsi passare il mal di stomaco.

Passarono venticinque anni… La volpe aveva ormai rimesso su un

bellissimo pelo, non aveva più disturbi di stomaco e aveva un

gagliardo appetito. Un tributo nominale all’aquila le permetteva di

andarsene tranquillamente intorno a cercare del cibo adatto… la

volpe, che non si era mai fatta illusioni, era quella che in fondo stava

meno peggio»38

.

Dunque agli americani – come dimostra l’apologo sopracitato -

non è mai sfuggito il fatto che l’Italia, nei riguardi dell’Alleanza

Atlantica in generale e del rapporto con gli USA in particolare, abbia

tenuto un atteggiamento di puro sfruttamento, tutto inteso a cumulare

vantaggi (ad esempio, spendere relativamente poco per la difesa

nazionale) da far valere su altri versanti (ad esempio, per potenziare la

propria economia e le esportazioni).

Semmai occorre riconoscere che, dopo le varie iniziative

autonome intraprese dalle autorità di governo italiane, di cui

37

Politologo austriaco con cittadinanza francese, docente di Scienze politiche all’Università di

Harvard. 38

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica 1943-1993, Casa Editrice Nuove

Ricerche, Ancona, 1994, p. 41.

36

parleremo nei due prossimi paragrafi, è stato soltanto all’inizio degli

anni Ottanta che l’Italia ha cominciato a manifestare una certa

propensione in favore di una linea di politica estera più dinamica,

assertiva e di elevato profilo, di cui costituiscono prova eloquente le

numerose iniziative politico-militari assunte dal nostro Paese nello

scacchiere mediterraneo, a cominciare dagli impegni nel Sinai e in

Libano. La valutazione di tale atteggiamento è stata oggetto di giudizi

divergenti, in quanto taluni hanno sostenuto che un orientamento del

genere sarebbe stato frutto essenzialmente di una partecipazione poco

convinta ad operazioni decise in altre sedi39

, ma è possibile anche

condividere la tesi di quanti affermano che non si trattò affatto di un

coinvolgimento fortuito, bensì di una precisa volontà del governo

italiano, intesa a fare sì che il nostro Paese non restasse escluso da

operazioni di stabilizzazione dell’area mediterranea e dei territori ad

essa adiacenti, che spesso vedevano la partecipazione dei più

importanti alleati atlantici. Dunque, si sarebbe trattato non tanto di una

scelta frutto di volontà politica autonomistica, quanto del desiderio di

migliorare la posizione dell’Italia nel più ristretto ambito

euroatlantico40

.

Naturalmente, qualsiasi tesi può risultare più o meno fondata e

credibile, ma è possibile affermare che, nel quarantennio 1949-1989,

l’Italia abbia seguito una politica sostanzialmente di doppio binario:

da un lato, una passiva accettazione delle direttive atlantiche, messa in

atto là dove l’adeguamento a tali direttive dava la possibilità al

39

Alessandro Massai, “Le responsabilità di una media potenza nell’azione politica e nel dibattito

in Italia”, in ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), XVII, nn. 1-2, 1989, p. 6 40

Valter Coralluzzo, “Le missioni italiane all’estero...., cit., p. 2.

37

governo di Roma di trarne parecchi benefici diretti e indiretti;

dall’altro, la ricerca di un ruolo italiano autonomo, perseguita in varie

forme e su cui ci soffermeremo nei due prossimi paragrafi.

2.2. La ricerca di un ruolo italiano autonomo

Quando Alcide De Gasperi e Carlo Sforza decisero di

sottoscrivere, nel 1949, il Trattato per la creazione dell’Alleanza

Atlantica, il maggiore ostacolo da superare non fu l’opposizione di

socialisti e comunisti, che era da considerarsi largamente scontata, ma

quella di una parte della Democrazia cristiana (la componente di

sinistra, ispirata da Giuseppe Dossetti) e di alcuni esponenti dei

piccoli partiti democratici, molti dei quali erano sinceramente convinti

che l’Italia avrebbe dovuto rifiutare la logica dei blocchi e seguire una

politica estera neutrale.

De Gasperi riuscì a superare queste resistenze spiegando ai suoi

compagni di partito che l’Italia sarebbe entrata nella NATO insieme

alle maggiori democrazie europee e che il Patto Atlantico sarebbe

stato un passaggio necessario, per non dire indispensabile, sulla strada

dell’integrazione economica e politica del continente europeo.

Ne consegue che, per alcuni anni, l’Italia poté essere al tempo

stesso e senza troppe difficoltà, atlantica ed europeista. La NATO,

grazie allo scudo militare statunitense, garantiva la sua sicurezza,

mentre il faticoso processo di integrazione europea dava soddisfazione

alle sue ambizioni federaliste e le garantiva una sorta di parità, a

livello continentale, con gli altri Paesi europei, nonostante la

disastrosa sconfitta subita nel secondo conflitto mondiale.

38

Era evidente che, con l’adesione alla NATO, la dirigenza politica

italiana intendeva garantirsi tanto la sicurezza economica, basata su

una formula che si potrebbe definire di “interdipendenza dipendente”

dagli Stati Uniti, quanto la sicurezza politico-militare fondata sulla

copertura/protezione assicurata dalla extended deterrence

(dissuasione estesa) garantita dagli USA, che era quella che garantiva

la copertura nucleare dell’Europa occidentale da parte dell’arsenale

atomico statunitense41

, in base alla dottrina della “rappresaglia

massiccia”.42

L’analisi dell’attività diplomatica italiana negli anni

immediatamente successivi alla stipulazione del Trattato di pace

mostra come Alcide De Gasperi e con lui il governo italiano, abbiano

scelto la via della liquidazione dell’eredità coloniale italiana per

concentrare le energie sull’obiettivo di un reinserimento dell’Italia nel

contesto europeo e atlantico43

.

Questo doppio binario della politica estera nazionale divenne

ancora più facilmente percorribile dopo la morte di Joseph Stalin (5

marzo 1953), l’avvento di Nikita Kruscev al vertice del PCUS (1953-

1964) e il clima di coesistenza pacifica che si instaurò nei rapporti tra i

due blocchi. Con una politica non troppo dissimile da quella praticata

dalla Francia gollista, l’Italia poté ad esempio instaurare ottime

41

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 182. 42

nonostante i sovietici avessero già costruito nel 1949 la loro prima bomba atomica, essi non

disponevano ancora di adeguati mezzi per poter dirigere le armi nucleari sul territorio americano,

cosa che al contrario erano perfettamente in grado di fare i bombardieri americani sugli obiettivi

sovietici. La strategia della “rappresaglia massiccia” si basava proprio sulla maggiore capacità

nucleare degli USA e doveva bloccare ogni tentativo di aggressione nei confronti degli Stati

dell’Europa occidentale attraverso la minaccia di rappresaglie nucleari sul territorio sovietico. La

stessa NATO avrebbe adottato ufficialmente questa teoria nel 1956. 43

Sara Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, il Mulino, Bologna, 2007.

39

relazioni commerciali con l’Unione Sovietica, pur continuando ad

essere la maggiore portaerei americana nel Mediterraneo. Tale politica

divenne però meno agevole quando, nel 1966, il generale De Gaulle

ritirò la Francia dalla struttura militare integrata del Patto Atlantico e

dimostrò in tal modo che NATO e integrazione europea non

rappresentavano due volti della stessa medaglia. A quel punto, infatti,

il livello di tolleranza statunitense nei riguardi di politiche nazionali

autonome si abbassò notevolmente.

La ricerca di un ruolo italiano autonomo venne facilitata dal fatto

che la “Guerra Fredda” aveva due teatri diversi, quello dell’Europa

continentale, dove la minaccia sovietica era più forte, incombente e

diretta, e dove ovviamente non c’era spazio per poter fare sentire la

propria voce, non solo per l’Italia ma anche per potenze europee più

forti di essa e il fronte mediterraneo, che era un fronte molto più

sfuggente, impalpabile, dove spesso il confronto tra i blocchi aveva

luogo per interposta persona44

e dove gli interessi in gioco erano

svariati e non riguardavano i soli rapporti Est-Ovest.

Sul fronte dell’Europa continentale, la posizione italiana è

sempre risultata relativamente marginale, in quanto il fronte centrale

era rimasto, per decenni, quello tedesco, dove la minaccia sovietica

era forte, incombente e diretta. Per l’Italia, per contro, c’era soltanto la

minaccia del fronte meridionale e quello terrestre, dove peraltro

rimasero schierate, per decenni, le più importanti forze di difesa

italiane. Era in realtà un fronte dove una minaccia diretta delle truppe

del Patto di Varsavia non esisteva, in quanto queste ultime, per

44

Ludovico Incisa di Camerana, “L’Italia come avamposto occidentale”, Limes – Rivista italiana

di geopolitica, n. 2/1994, p. 182.

40

affacciarsi sul territorio italiano, avrebbero dovuto prima traversare

l’Austria e la Jugoslavia45

e si poteva pure ipotizzare che, salvo

circostanze particolari, l’attraversamento della Jugoslavia non sarebbe

stato, per le truppe del blocco comunista, nemmeno un’impresa da

poco, visto l’orientamento di difesa territoriale a oltranza esistente in

quel Paese, in base alla politica del suo presidente Josip Broz Tito.

Invece, la principale linea di minaccia contro l’Italia è sempre

provenuta dall’area mediterranea e non solo e non certo dalla

relativamente modesta squadra navale sovietica operante nelle acque

di quel mare, ma da tutte le tensioni che da sempre si accumulano

sulle rive del Mediterraneo, autentico crocevia tra mondi diversi. Su

questo sfondo, la ricerca di un ruolo italiano autonomo avvenne per

strade diverse, che non è facile sintetizzare e che risentono

ovviamente delle influenze della storia recente del nostro Paese, delle

culture dominanti all’interno del medesimo ed altri fattori.

Non si può dimenticare, ad esempio, che nei primi anni di vita

della NATO oltre il 40% degli italiani, vale a dire coloro che facevano

riferimento allo schieramento socialcomunista, era ostile alla semplice

partecipazione del nostro Paese all’Alleanza. Questa constatazione,

per quanto importante, era tuttavia poca cosa di fronte alle divisioni

esistenti all’interno dello schieramento atlantico italiano, dove una

parte del medesimo lo interpretava come passiva adesione alle

direttive di Washington e non meno passiva acquiescenza alle scelte

politiche e strategiche che venivano fatte altrove, spesso e volentieri al

di sopra della nostra testa, mentre un’altra parte – di certo

45

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 38.

41

politicamente più attiva – lo considerava come una semplice garanzia,

una sorta di assicurazione, uno scudo dietro il quale nascondersi per

poter poi agire con indipendenza e spregiudicatezza, conseguendo

risultati positivi anche a livello di soddisfacimento dell’interesse

nazionale.

In questo atteggiamento convergevano anche aspetti metapolitici,

cioè al di là della politica, più o meno recenti. Il ventennio fascista

aveva infatti sedimentato, nel profondo della cultura nazionale, un

orientamento nazionalista che non poté certo essere cancellato con la

stessa rapidità con cui era stato abbattuto il regime. Quella cultura,

infatti, alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta era

ancora ben viva e abbinata al disagio per il modo con cui era maturata

e si era determinata la sconfitta italiana nel secondo conflitto

mondiale, ora cercava un modo per riemergere. In una parola, la classe

politica italiana accettava con difficoltà il declassamento che il nostro

Paese aveva subito, nel contesto internazionale, a causa della sconfitta,

e cercava delle modalità per riuscire in qualche modo a sopperirvi.

Sotto questo profilo, l’adesione alla NATO forniva una garanzia

passiva, ma, al tempo stesso, lasciava all’Italia le mani libere per

assumere altre iniziative, da prendersi ovviamente sotto la copertura

dello scudo atlantico.

Delle due culture politiche maggioritarie sul piano interno, quella

comunista era radicalmente ostile – per evidenti motivi – alla scelta

atlantica dell’Italia. Quella cattolica, dal canto suo, era divisa tra

coloro che erano favorevoli all’Alleanza e coloro che, sulla base di

una visione ecumenica e pacifista, pensavano che la nuova missione

42

storica dell’Italia fosse quella di “gettare ponti” tra mondi ostili, tra il

blocco occidentale e quello orientale, tra il mondo occidentale e quello

arabo e così via. Questi ultimi, quindi, da un lato prestavano ossequio

formale alla NATO, ma, dall’altro, erano in continua agitazione

nell’intento di disegnare un ruolo nuovo, a livello politico, per l’Italia.

Questo determinò in breve il sorgere di una politica del “doppio

binario” e di palesi contraddizioni, di cui ritorneremo con maggiore

ampiezza nel paragrafo successivo.

Tuttavia, anche in una prospettiva meno ideologica, ci fu chi,

all’interno del nostro Paese, cercò di interpretare la NATO come un

patto tra eguali e non un “patto leonino”, dando peraltro prova, in

questa logica, di essere molto ottimista o di non aver ben compreso la

reale natura del vincolo atlantico.

Sono altamente eloquenti, a questo proposito, le iniziative avviate

da ambienti diversi per garantire all’Italia l’accesso al nucleare. Si

pensi, ad esempio, alla questione del patto segreto tra Italia e Francia

per la costruzione di una nave italiana a propulsione nucleare, un

progetto avviato nel corso degli anni Sessanta e poi continuato

successivamente, attraverso alti e bassi e fatto oggetto dell’ostilità

soprattutto degli americani, un’ostilità che può essere rettamente

intesa solo se si tiene conto del fatto che l’Alleanza Atlantica non è

mai stata un patto tra eguali, ma un sistema formato da una potenza in

posizione centrale – gli Stati Uniti d’America – e da una coalizione di

Paesi satelliti46

, ai quali è sempre stata quasi del tutto preclusa la

possibilità di svolgere un ruolo autonomo.

46

Achille Albonetti, “Storia segreta della bomba italiana ed europea”, Limes – Rivista italiana di

geopolitica, n. 2/1998, pp. 155-171.

43

2.3. La difficile integrazione tra sicurezza atlantica e sicurezza

nazionale

La questione della difficile integrazione che si è sempre

manifestata tra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale è

essenzialmente frutto del fatto che, per le ragioni già accennate, esse

non hanno mai proceduto di pari passo, nel senso che la sicurezza

atlantica ha inglobato al proprio interno tutte le esigenze di sicurezza

passiva dell’Italia, ma non ha fatto altrettanto con quelle di tutela

attiva. La sicurezza atlantica, in effetti, ha funzionato sul versante

della tutela dai maggiori rischi che incombevano sulla sicurezza

nazionale italiana, ma non ha certo mai contribuito a soddisfare

l’ambizione di quanti, a livello di vertici politici ed economici,

miravano a sviluppare un ruolo di maggiore portata per il nostro

Paese.

Il primo banco di prova dell’atlantismo italiano fu la questione di

Trieste, dal momento che, con un singolare rovesciamento di

posizioni, l’Unione Sovietica sosteneva le tesi italiane (quasi

certamente per fare uno sgarbo alla Jugoslavia titina, di cui Mosca

deplorava l’inaffidabilità e la crescente autonomia), mentre gli alleati

occidentali parevano preferire quelle jugoslave. Nel caso di specie,

l’integrazione fra le esigenze di sicurezza nazionale e quelle atlantiche

poté essere contemperata grazie al fatto che la riunificazione di Trieste

all’Italia serviva a soddisfare il nazionalismo italiano e, al tempo

stesso, poteva giovare al rafforzamento complessivo dell’Alleanza,

44

che certamente risultava più solida se al proprio interno poteva vantare

un alleato contento del trattamento che gli era stato riservato.

La questione di Trieste, tuttavia, era poca cosa nel contesto della

già citata integrazione fra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale. A

proposito di quest’ultima, infatti, il problema che si poneva era

decisamente più vasto. Per radicata tradizione, infatti, la politica estera

italiana si è sempre trovata nella necessità di integrare le sue esigenze

di politica europea con quelle di politica mediterranea ed occorre

riconoscere che, su questo sfondo, nel secondo dopoguerra tale

esigenza di sintesi è stata resa più difficile dalla “Guerra Fredda”,

dalla situazione politica interna del Paese (con la già citata

contrapposizione frontale tra uno schieramento politico filoamericano

e uno filosovietico) e dal fatto che l’Italia usciva pesantemente

ridimensionata, a livello politico globale, dalla grave sconfitta subita

nel corso del secondo conflitto mondiale, che l’aveva relegata al ruolo

subalterno di media potenza europea.

Proprio a seguito di tali considerazioni, la partecipazione italiana

al progetto di organizzazione atlantica, per quanto convinta, fu sempre

messa a paragone con altre opzioni di politica estera, come lo sviluppo

di una politica di sicurezza collettiva europea, la ricerca di un rapporto

più bilaterale che multilaterale con gli Stati Uniti e infine la ricerca di

un ruolo autonomo nel Mediterraneo, ponendosi come “ponte” fra gli

interessi del mondo occidentale e quelli del nascente nazionalismo

arabo, atteggiamento facilitato altresì dal fatto che, non essendo più

l’Italia una potenza coloniale (dato che tutte le sue colonie erano state

perse nel corso del secondo conflitto mondiale), il suo orientamento di

45

apertura era più credibile di quello di altre potenze europee, che erano

restie ad abbandonare i loro possedimenti coloniali.

Sullo sfondo cominciava a stagliarsi, in tutta la sua importanza, la

questione dell’interesse nazionale italiano e del fatto che esso era

contrapposto tra l’obbligo di osservanza degli impegni atlantici e il

fatto che qualunque iniziativa che prescindesse da questi ultimi recava

in sé la possibilità di nuocere loro in misura alquanto significativa.

Naturalmente non mancava chi, nella diplomazia italiana, era attento a

sottolineare che, con i suoi comportamenti autonomi, l’Italia stava

facendo l’interesse del blocco occidentale latamente inteso e non solo

quello più strettamente nazionale, ma è chiaro che una tesi del genere

non era facilissima da difendere47

, specialmente quando l’interesse

nazionale pareva prendere decisamente la meglio su quello atlantico.

Per fare un esempio concreto, dopo la crisi di Suez del 1956 e

l’appoggio agli Stati Uniti dato dal governo di Roma, in sostanziale

polemica con quelli di Londra e Parigi, si aprirono nuovi spazi di

penetrazione economica e di collaborazione energetica dell’Italia in

direzione dell’Egitto e di altri Paesi del Medio Oriente.

L’atteggiamento di apertura verso tali Paesi, sostenuto con forza dal

presidente dell’ENI Enrico Mattei48

, ma anche dal presidente della

Repubblica Giovanni Gronchi e dal leader democristiano Amintore

Fanfani, implicava necessariamente l’ottenimento di una maggiore

libertà d’azione per la politica estera italiana, di modo che a

quest’ultima fosse offerta l’opportunità di presentarsi come la 47

Alberto Tonini, “L’Italia fra Europa e Mediterraneo nella seconda metà del Novecento, in Ilona

Fried e Elena Barotono (a cura di), Il Novecento, un secolo di cultura: Italia e Ungheria,

Budapest, 2002, pp. 57-74. 48

Nico Perrone, Mattei, il nemico italiano, Leonardo, Milano, 1989;

Leonardo Maugeri, L’arma del petrolio, Loggia dei Lanzi, Firenze, 1994.

46

costruttrice di direttrici di cooperazione tra l’Occidente e il mondo

arabo.

Questo nuovo orientamento, che successivamente sarà definito di

“neo-atlantismo” e che, almeno nelle intenzioni di Mattei, mirava a

scardinare il sistema di controllo dei mercati energetici elaborato dalle

multinazionali del petrolio (le cosidette “sette sorelle”49

), finì ben

presto per scontrarsi con le posizioni di più tradizionale allineamento

atlantico50

, nelle quali tendeva in genere a riconoscersi buona parte del

corpo diplomatico e della classe militare nazionale. Senza ombra di

dubbio, l’obiettivo del neo-atlantismo era quello di «tentare di marcare

una maggiore autonomia della nostra politica estera»51

e di utilizzarla

altresì come mezzo per «tentare di recuperare, in qualche modo, quel

ruolo di “media potenza” smarrito con la sconfitta nella seconda

guerra mondiale»52

, mentre i fautori della più passiva fedeltà atlantica

non nutrivano obiettivi così ambiziosi, la cui intrinseca natura

probabilmente non comprendevano nemmeno appieno.

Tale confronto interno si fece particolarmente acceso nel corso

del 1957, per cui, mentre da una parte Mattei dava prova di grande

attivismo, stringendo accordi energetici con Paesi poco amati dagli

Stati Uniti come l’Iran, nel frattempo, all’inizio del 1958, il governo

italiano strinse un accordo con le autorità di Washington per

49 Le principali compagnie petrolifere multinazionali: le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco,

Standard oil of California (Socal), Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica

British Petroleum, che fino alla crisi petrolifera hanno svolto un ruolo dominante nel mercato del

petrolio. Il gruppo di compagnie si è modificato in seguito alla fusione tra la Socal e la Gulf oil,

che ha dato vita nel 1984 alla Chevron Corporation, a sua volta fusa nel 2001 con la Texaco, e alla

fusione (1999) della Exxon con la Mobil. Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/sette-sorelle/ 50

Valter Coralluzzo, “La politica mediterranea dell’Italia”, in Carlo Maria Santoro, Il mosaico

mediterraneo, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 43-45. 51

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia... , cit., p. 206. 52

Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia... , cit., p. 206

47

l’installazione, sul territorio nazionale, di rampe di lancio per missili

USA dotati di testata nucleare. Naturalmente una scelta del genere

rafforzava l’immagine dell’Italia come elemento cardine del sistema

di difesa NATO del Mediterraneo e, al tempo stesso, ne contraddiceva

l’immagine di “ponte” fra mondo occidentale e mondo arabo. Ne

nacque una contraddizione insanabile, che non poteva essere

mantenuta a lungo. E fu infatti questo l’orientamento che prevalse ai

primi del 1959, quando le dimissioni di Fanfani da ogni incarico

governativo e politico dimostrarono che la linea filoatlantica era

preferita, dalle classi dirigenti italiane, a qualsiasi altra, giudicata più

avventurista.

È tuttavia opportuno notare che il versante di coloro che non

accettavano un’impostazione di passiva subordinazione a un

approccio meramente atlantico ed europeista non era un versante

omogeneo, ma vedeva confluire soggetti diversi, che potevano essere

tanto gli epigoni di una tardiva forma di nazionalismo quanto tutti

coloro che, da vari punti di vista, accarezzavano progetti terzaforzisti.

Un insieme alquanto eterogeneo, quindi, dove non era sempre facile

discernere tra quanti si facevano fautori di un approccio realmente

nuovo e quanti si limitavano ad agitare tematiche già note. Il limite

evidente di questa politica, tuttavia, era che, ogni volta che si arrivava

a scelte importanti, erano sempre quelle atlantiche a dover prevalere,

perché l’Italia non aveva alcuna possibilità, a livello di politica estera,

di fare diversamente, per cui non parve sorprendente che qualsiasi

scelta di tipo terzaforzista finisse per essere bollata di velleitarismo e

finisse per perdere qualsiasi connotazione di credibile opzione di

48

politica estera53

. Non che fosse davvero così, in molti casi, ma come

tale finiva per essere considerata e messa all’indice.

Alla stessa stregua, una nuova fase della politica filoaraba,

apertasi nel 1967, subì una dura battuta d’arresto nel 1973, con lo

scoppio della guerra arabo-israeliana del Kippur, ma questo non

impedì alla politica estera italiana di accentuare la propria linea filo-

araba. Tuttavia, qualsiasi reale rottura italiana con Israele ci era

preclusa dal legame con USA e NATO, per cui anche in questo caso la

politica italiana continuò a risultare velleitaria, contraddittoria e

involuta. Ne risultarono pure evidenti danni di immagine, in quanto

agli occhi dello schieramento atlantico la politica estera italiana era

totalmente inaffidabile, ma lo era altresì agli occhi dei potenziali

interlocutori arabi, i quali erano probabilmente disposti ad ammettere

la sincerità degli intendimenti italiani, ma dovevano al tempo stesso

prendere atto che quella italiana era una sovranità limitata, per cui il

governo di Roma, oltre certi limiti, non aveva proprio la possibilità di

spingersi.

La questione degli euromissili e la decisione del governo italiano

di ospitarli sul proprio territorio (una decisione che suscitò notevoli

polemiche e malumori), rappresentarono un approccio esattamente

inverso al precedente, ma comunque speculare, in quanto si cercò di

utilizzare l’obbedienza atlantica al fine di crearsi maggiori spazi

operativi su altri versanti di politica estera54

. Fino a quel momento, in

effetti, era avvenuto esattamente l’inverso. Tuttavia, tale diverso

53

Francesco Perfetti, “Mediterraneo e Medio Oriente nella politica estera italiana”, in La

Comunità internazionale, fasc. 2/2011, p. 193. 54

Sergio Romano, “Rinegoziamo le basi americane”, Limes – Rivista italiana di geopolitica, n. 4,

1996, p. 249 sg.

49

approccio non si dimostrò in grado di conferire all’Italia spazi politici

più ampi di quelli che già possedeva, notoriamente alquanto limitati.

Come sempre, non era facile contemperare interesse nazionale e

interesse atlantico e, in caso di conflitto tra i due, era sempre il

secondo non solo a prevalere, ma a dover prevalere (il che ovviamente

la dice lunga sull’intrinseca natura del vincolo atlantico).

Una nuova fase della politica estera italiana si aprì nel 1979,

quando il nostro Paese venne chiamato a concorrere alla formazione di

una forza militare multinazionale che doveva vigilare il confine tra

Israele e Libano. Da allora, numerose sono state le missioni militari

internazionali cui l’Italia è stata chiamata a partecipare, di norma sotto

l’egida dell’ONU: è sufficiente ricordare la partecipazione della

Marina Militare al pattugliamento degli Stretti di Tiran nel Mar Rosso;

l’invio di truppe italiane a Beirut nel 1982, come parte del contingente

multinazionale di pace; l’opera di sminamento del Canale di Suez nel

1984 per mezzo di unità sempre della Marina Militare; la

partecipazione alla missione per garantire la libertà di navigazione nel

Golfo Persico nel 1987.

Questo nuovo attivismo militare venne accompagnato da

crescenti legami politici ed economici con i Paesi del Mediterraneo e

del Medio Oriente, sulla base dell’esigenza, fortemente sostenuta da

Bettino Craxi per il lungo periodo in cui fu capo del governo (1983-

1987), di conferire maggiore prestigio internazionale all’Italia, come

pure della tradizionale politica filo-araba cara al ministro degli Esteri

Giulio Andreotti.

50

Tale maggiore visibilità italiana sul piano internazionale

determinò altresì alcuni contraccolpi negativi, come quello di

diventare terreno di scontro tra interessi diversi (ad esempio il

terrorismo palestinese e il suo tradizionale nemico israeliano). Fu in

tali circostanze che i rapporti tra Italia e Stati Uniti raggiunsero uno

dei punti più bassi a partire dal 1945, in particolare al momento del

celebre incidente avvenuto nel 1985 nella base NATO di Sigonella in

Sicilia, quando il tentativo americano di arrestare i terroristi

palestinesi responsabili del sequestro della nave da crociera “Achille

Lauro”, culminato nell’assassinio di un cittadino statunitense, venne

bloccato con le armi dalle forze di sicurezza italiane55

.

L’amministrazione del presidente Ronald Reagan (1981-1989),

duramente colpita dal comportamento del governo di Roma, criticò

aspramente la decisione di non procedere all’arresto di colui che era

considerato il mandante dell’azione terroristica e di non consegnare i

responsabili alla giustizia americana. Questa netta presa di posizione

si rivelò decisiva per costringere Craxi alle dimissioni e fu così che,

per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, una crisi di

governo venne provocata da un contrasto sulla politica estera del

Paese tra le fazioni filo-atlantiche e quelle che si potrebbero definire

più autonomiste56

.

Si può concludere questo paragrafo con la pessimistica

constatazione che la difficile integrazione fra sicurezza atlantica e

sicurezza nazionale non c’è mai stata, fra il 1949 e il 1989. Obiettivi

55

Matteo Gerlini, “I rapporti con gli Stati Uniti: la crisi di Sigonella e la formazione del G7”, in

Ennio Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Venezia, 2007, pp. 99-

114. 56

Alberto Tonini, “L’Italia fra Europa e Mediterraneo...., cit. pp. 57-74.

51

di sicurezza nazionale sono stati ammessi, ed acquisiti, tutte le volte in

cui si sono perfettamente identificati con quelli atlantici. Per contro,

non c’è stato alcuno spazio per loro quando l’interesse nazionale è

entrato in rotta di collisione, anche blanda, con l’interesse atlantico,

che è sempre stato quello che ha avuto la prevalenza su tutto il resto.

In sede di valutazione, si potrebbe dire che è normale, quando si

partecipa a un sistema di sicurezza collettivo come la NATO, che gli

interessi dell’Alleanza siano superiori, nel loro complesso, all’insieme

degli interessi dei singoli Paesi che ne fanno parte, ma

un’affermazione del genere, per quanto legittima e fondata, sarebbe

almeno in parte assolutoria, in quanto l’interesse atlantico si è spesso

imposto, piuttosto duramente, all’interesse nazionale. È chiaro che una

riflessione di tale natura potrebbe portare molto lontano e che è di

fatto preferibile limitarsi a prendere atto di ciò che è stato, ma non c’è

dubbio che non solo l’interesse nazionale italiano e il quadro di

sicurezza che ne deriva, non si è mai identificato in toto con quello

atlantico, ma talvolta ha dovuto anche pagarne lo scotto.

L’interpretazione più benevola che è possibile darne è che l’interesse

atlantico abbia tutelato, nel lungo periodo, le macro-esigenze di

sicurezza del nostro Paese, senza per contro riuscire a contemperare

queste ultime con le micro-esigenze di sicurezza nazionale.

2.4. Il problema del condizionamento politico: atlantici per amore

o per forza ?

Sulla politica estera italiana sono presenti, fin dall’Unità, alcuni

fattori di debolezza che sarebbe assurdo non ricordare. Il primo di essi

52

è rappresentato dalla difficile posizione geopolitica che esso ha nel

Mediterraneo, dove la sua centralità è innegabile, ma, al tempo stesso,

è pure fonte di infiniti problemi, in quanto un Paese che occupi una

posizione cruciale in un’area strategica altrettanto cruciale è, per sua

stessa natura, un Paese a rischio.

Il secondo è rappresentato dalla nostra fragile, per non dire

fragilissima, identità nazionale, messa più volte alla prova dai

particolarismi, dai localismi e ovviamente anche dalle appartenenze

ideologiche. Non è certo una forzatura affermare che, almeno fino al

crollo del comunismo e del blocco sovietico, l’appartenenza

ideologica ha rappresentato, per milioni di italiani, un vincolo di

riferimento assai più forte dell’identità nazionale. In una parola, per

decenni molti, nell’Estrema Sinistra italiana, si sono sentiti prima

comunisti che italiani e, in quanto tali, ostili alle scelte di politica

internazionale del governo di Roma, specie quando tali scelte si

identificavano con le scelte atlantiche.

Il terzo fattore è l’incerto rango che l’Italia occupa sul piano

internazionale, dato che non si è mai risolto il cruciale interrogativo se

essa sia “l’ultimo dei grandi” o “il primo dei piccoli”. Anche dando

per scontato il fatto che lo scivolamento all’indietro è sempre più

evidente e accelerato, resta comunque una cruciale questione di

posizionamento, mai veramente risolta57

. Molte persone, nel nostro

Paese, ritengono che non vi sia una sostanziale differenza ad essere

l’ultimo dei grandi rispetto al primo dei piccoli, ma così non è.

57

Istituto Affari Internazionali, La politica estera italiana a 150 anni dall’Unità: continuità,

riforme e nuove sfide. Rapporto introduttivo dell’Edizione 2011 dell’annuario “La politica estera

dell’Italia”, Documenti IAI 11/06 – Marzo 2011, p. 2.

53

Il quarto fattore è che l’Italia è sempre stata costretta, dalla sua

intrinseca debolezza, a prendere parte ad alleanze asimmetriche,

alleanze all’interno delle quali non ha certo svolto un ruolo di primo

piano, ma semmai quello di comprimario obbligato ad adeguarvisi

proprio a causa delle sue stesse debolezze strutturali. Questa

condizione poco felice è risultata ulteriormente accentuata da un

significativo deficit di strumenti, poiché il nostro Paese non ha quasi

mai posseduto le risorse diplomatiche e soprattutto militari per far

sentire credibilmente la propria voce nell’agone internazionale. Si è

speso non poco, dal 1949 al 1989, per la difesa nazionale, ma tale

spesa è sempre stata una spesa concentrata soprattutto sul personale,

piuttosto che sui materiali e le dotazioni, per cui questo non è servito a

rafforzare nel corso del tempo lo strumento militare italiano, che di

fatto è rimasto debole.

L’adesione italiana alla NATO, nel 1949, ebbe luogo con

modalità assolutamente peculiari per il nostro Paese, vale a dire

«l’ansia di partecipare e il desiderio di eludere le regole della

partecipazione»58

, che si concretizzavano in «pubblici entusiasmi e

private prudenze»59

.

Del resto, nessun serio ragionamento su un tema del genere può

essere fatto prescindendo da una constatazione fondamentale, vale a

dire quella relativa al fatto che il quadro politico interno italiano era

nettamente diviso in due blocchi contrapposti, con orientamenti

politici radicalmente diversi.

58

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 54. 59

Ibidem, p. 84.

54

Il problema fondamentale che si poneva alla classe dirigente

democristiana era quello di conciliare la stabilizzazione del quadro

politico (possibile solo con l’allargamento del governo ai socialisti)

con il sostanziale mantenimento delle alleanze internazionali e della

struttura socioeconomica liberistica60

.

Non appare dunque molto difficile rispondere all’interrogativo

che dà il titolo al presente paragrafo: in realtà gli italiani furono

atlantici più per forza che per amore, e in una forma del tutto

peculiare, per di più. Da un lato, infatti, non c’è dubbio che una parte

maggioritaria del Paese guardava con maggior favore agli Stati Uniti e

al modello di vita americano più di quanto non guardasse in termini

positivi all’URSS e a quello sovietico. Tuttavia – e qui sta il punto – si

voleva il più possibile fare parte del club atlantico senza doverne

pagare tassa di iscrizione e oneri, secondo un modello che non

rappresenta peraltro una novità nella storia della politica estera

italiana. Basta pensare alla modestia dello strumento militare italiano,

non tanto in termini quantitativi ma qualitativi, per comprendere come

l’adesione italiana alla NATO sia paragonabile all’acquisto di

un’assicurazione sulla vita (politica) da parte di una classe dirigente

che voleva però pagare il minimo possibile di polizza. E fu quello che,

per decenni, in sostanza venne fatto, basandosi sulla constatazione che

la rendita di posizione geopolitica che il nostro Paese era in grado di

riscuotere era tale da poter giustificare molti comportamenti, a

cominciare da certi velleitarismi terzaforzisti o indipendentisti o da

60

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere 1943-1976...., cit., p. 51.

55

rendere ammissibili certe omissioni sul versante della spesa militare e

di un impegno atlantico realmente convinto.

Il periodo 1959-1962 vide venir meno l’appoggio degli USA (e

anche del Vaticano) alla linea democristiana più intransigente, ma non

si trattò di un evento casuale, bensì di una scelta politica molto

precisa. L’amministrazione repubblicana, guidata dal presidente

Dwight Eisenhower, aveva dato prova di nutrire un forte orientamento

antisovietico, ma non lo aveva fatto con la necessaria flessibilità,

com’è dimostrato dal fatto che la sua dottrina strategica prevalente era

quella della “rappresaglia massiccia”, per cui, a ogni eventuale attacco

sovietico contro un Paese della NATO, quest’ultima avrebbe

immediatamente reagito con un’apocalisse nucleare.

La rigidezza di tale impostazione non era sfuggita alla nuova

amministrazione democratica subentrata a quella repubblicana

all’inizio del 1961 e guidata dal giovane presidente John Fitzgerald

Kennedy. Costui aveva dovuto affrontare crisi molto gravi nei rapporti

Est-Ovest, come quella di Berlino dell’agosto 1961 o quella di Cuba

dell’ottobre-novembre 1962, quando USA e URSS arrivarono

veramente a un passo dallo scontro nucleare, ma aveva saputo imporre

la propria volontà politica e i propri orientamenti strategici più grazie

alla flessibilità che alla rigidità di comportamenti. In tale flessibilità

rientrava sicuramente anche una visione meno ispirata alla logica del

“muro contro muro” e intesa ad indebolire il blocco comunista e i suoi

accoliti dovunque e comunque ciò fosse possibile. In questa logica,

anche “l’apertura a sinistra” in un Paese come l’Italia, con la

cooptazione del Partito socialista nell’area di governo, non era una

56

scelta disastrosamente aperturista, come affermava la destra

democristiana, ma piuttosto un’abile operazione per indebolire lo

schieramento socialcomunista, separando i socialisti dai comunisti in

base al principio del divide et impera, emarginando i secondi e

costringendo i primi a prendere le distanze dai loro alleati di un

tempo.

Per tutto il tempo in cui la contrapposizione tra i due blocchi fu

molto viva, il Partito comunista italiano mantenne una posizione di

radicale ostilità alla NATO. Tale ostilità, tuttavia, con il tempo venne

meno, specialmente quando il progressivo indebolirsi dell’Unione

Sovietica divenne un fatto evidente ed obbligò ovviamente il PCI a

ricercare una nuova posizione, nella quale un ruolo importante era

naturalmente da ascrivere alla sua accettazione della partecipazione

dell’Italia all’Alleanza Atlantica. Tuttavia, tale posizione risultò

almeno in parte ondivaga, poiché una cosa era – per la dirigenza

comunista – l’accettazione di tipo generalistico della partecipazione

italiana all’alleanza, un’altra era, ad esempio, la passiva accettazione

dell’installazione degli euromissili in territorio italiano61

. All’inverso,

non c’è dubbio che i governi a guida socialista che governarono

l’Italia negli anni Ottanta operarono la scelta di ospitare gli euromissili

sul territorio nazionale anche, se non soprattutto, per mettere il PCI in

una condizione di difficoltà e relegarlo in una posizione di marginalità

dalla quale gli sarebbe stato molto difficile uscire62

. Non a caso, una

scelta del genere mise effettivamente il PCI in difficoltà e lo costrinse

61

Leopoldo Nuti, “Dagli euromissili alla fine della guerra fredda. La politica estera italiana degli

anni Ottanta”, in Italianieuropei, 5/2004, p. 3. 62

Ibidem.

57

a giocare la carta dell’ “opposizione leale”, cioè di un’opposizione che

rivendicava il proprio diritto a contestare la decisione di installare i

missili in territorio nazionale, senza per questo mettere in discussione

un dato ormai acquisito come quello della fedeltà alla NATO63

.

L’aspetto più manifesto del fatto che l’Italia non era atlantica “per

amore”, ma “per forza” è quindi riscontrabile nel momento in cui, alla

fine degli anni Settanta, venne pronunciato il veto USA contro

l’ingresso dei comunisti nel governo, veto che diventò un vero e

proprio obbligo politico. Tale obbligo cercò di essere scavalcato dagli

stessi comunisti quando essi dichiararono la loro disponibilità ad

accettare la partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica64

. Tuttavia,

era chiaro l’obiettivo del PCI di cogliere, in questo modo, un duplice

successo: da un lato dare prova della propria disponibilità ad aderire

alla NATO, ma, dall’altro, anche svuotarne, di fatto, dal di dentro i

contenuti65

.

In ultima analisi, non appare una forzatura affermare che gli

italiani sono stati atlantici molto più “per forza” che “per amore”, in

quanto, a parte una minoranza di convinti sostenitori dell’Alleanza, la

maggior parte del Paese, in particolare delle sue classi dirigenti, si è

sempre resa perfettamente conto che il vincolo atlantico, molto utile

sul versante passivo, lo è sempre stato molto meno su quello attivo, là

dove c’erano da tutelare interessi nazionali concreti.

63

Leopoldo Nuti, “Dagli euromissili alla fine della guerra fredda...., cit., p. 4. 64

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 206. 65

Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., pp. 195-197.

58

2.5. Il ruolo dei servizi segreti e delle strutture parallele

Fin dai primi anni di esistenza dell’Alleanza, era avvertito negli

ambienti NATO il pericolo dello scoppio di un nuovo conflitto in

territorio europeo e le previsioni sull’andamento iniziale delle

operazioni erano tutt’altro che ottimistiche. Il dispositivo militare

sovietico era, a livello convenzionale, talmente poderoso da rendere

più che plausibile l’ipotesi che, in caso di attacco, esso avrebbe potuto

sfondare le ben più deboli difese alleate e far penetrare le sue forze

corazzate in profondità. Uno sviluppo del genere sul piano militare

avrebbe comportato, per la NATO, la perdita di buona parte della

Germania, della Danimarca e probabilmente anche di una parte

consistente dell’Italia settentrionale.

Nel corso del secondo conflitto mondiale, le forze alleate

avevano coordinato l’attività dei movimenti di resistenza operanti nei

Paesi occupati dalle truppe dell’Asse tramite il SOE (Special

Operations Executive). Alla fine del conflitto, tale organismo era stato

sciolto, ma venne riattivato all’inizio degli anni Cinquanta, come

nucleo di una nuova organizzazione che aveva il compito di porre in

essere una rete di resistenza operante nei vari Paesi europei, nel caso

questi ultimi fossero stati occupati dall’Armata Rossa o nel caso in cui

i partiti comunisti avessero preso il potere mediante un colpo di Stato.

Un primo gruppo di Paesi (USA, Gran Bretagna, Francia) diede

quindi vita al Clandestine Planning Committee (CPC), il cui compito

era quello di pianificare le attività che avrebbero dovuto essere svolte

in comune in caso di invasione sovietica, in supporto alle operazioni

militari delle forze NATO. La relativa struttura di coordinamento era

59

sottoposta alla direzione del comando supremo delle forze alleate in

Europa, lo SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe).

Lo scopo principale di tale struttura consisteva nel contrastare

una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte delle forze

del Patto di Varsavia, essenzialmente mediante la conduzione di atti di

sabotaggio e guerriglia dietro le linee nemiche. Si sperava di poter

rallentare, in tal modo, la penetrazione in profondità sovietica, dando

tempo agli Stati Uniti di organizzare una reazione più articolata.

Questa struttura, denominata non a caso Stay behind, avrebbe dovuto

appunto “stare dietro” le linee nemiche, colpendo i rifornimenti e i

collegamenti delle truppe nemiche avanzanti. Per meglio tutelarne la

natura clandestina, la rete Stay behind venne tenuta rigorosamente al

di fuori della struttura militare della NATO66

.

Il dato da cui occorre partire è che, nel momento in cui si

manifestò l’adesione italiana all’Alleanza, cominciarono altresì ad

essere stipulati accordi segreti che impegnavano i governi aderenti e la

struttura militare atlantica a muoversi di comune accordo contro il

nemico esterno ed interno, percepito come avversario mortale. Il

servizio segreto militare italiano (SIFAR – Servizio Informazioni

Forze ARmate) nacque in stretto contatto con il servizio segreto

statunitense (CIA – Central Intelligence Agency) con il fine ultimo di

garantire alla NATO e soprattutto agli Stati Uniti, che sarebbe stato

compiuto ogni sforzo per impedire ai comunisti di prendere il potere

in Italia67

.

66

Francesco Cossiga, La versione di K, Rizzoli, Milano, 2009, p. 152. 67

Giuseppe De Lutiis, Storia dei Servizi Segreti in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 128 sgg.

60

Tale sforzo venne notoriamente orchestrato con la gestione dei

vari tentativi di golpe che vennero organizzati tra la metà degli anni

Sessanta e l’inizio degli anni Settanta (il golpe bianco o Piano Solo del

generale Giovanni De Lorenzo del 1964, il golpe Junio Valerio

Borghese del 1970) e con quella, ancora più complessa, degli opposti

estremismi e del terrorismo nero e rosso. A proposito del terrorismo,

Giuseppe De Lutiis ha scritto che «molti indizi lasciano ritenere che vi

sia stata quanto meno una tutela esterna del terrorismo, la cui attività

era perfettamente funzionale ai disegni di chi intendeva opporsi con

ogni mezzo allo spostamento a sinistra dell’asse politico italiano»68

.

Per non parlare ovviamente di strutture più o meno segrete come

l’organizzazione “Gladio”, di cui si occupò per primo Francesco

Cossiga, quando era sottosegretario alla Difesa.

Già nel 1952, in base all’articolo 3 del Patto Atlantico, la CIA e il

SIFAR avevano stipulato un accordo per la creazione di una base

statunitense a Capo Marrargiu, in Sardegna, denominata Centro

addestramento guastatori (Cag) e riservata alla rete Stay Behind,

costituita al fine di operare in territori eventualmente occupati dal

nemico.

La direttiva USA NSC 5412 del 14 marzo 1954, denominata

Covert operations (operazioni nascoste), dispose tuttavia

un’integrazione fra la rete Stay Behind americana in Europa e quelle

nazionali di alcuni Paesi, compresi alcuni neutrali (come la Svizzera),

allo scopo di coordinare le azioni clandestine da condurre, in caso di

68

Giuseppe De Lutiis, Il golpe di via Fani, Sperling & Kupfer, Milano, 2007, p. 14.

61

invasione, in alcuni specifici settori, come informazione, sabotaggio,

evasione e fuga, guerriglia, propaganda.

Nel 1956, a seguito della firma di un protocollo d’intesa stipulato

fra il SIFAR e la CIA, la Stay Behind venne estesa a tutto il Triveneto,

vale a dire alla principale zona che sarebbe stata interessata da un

eventuale attacco sovietico proveniente da Est. Da quell’anno al 1980,

questa rete sarebbe stata alle dipendenze del servizio segreto militare

italiano, denominato da SIFAR a SID (Servizio Italiano Difesa) e poi

SISMI (Servizio Informazioni Sicurezza MIlitare). L’organico sarebbe

variato da un minimo di 622 unità (tutti civili), facenti parte

dell’elenco a suo tempo divulgato, a un massimo di 3.650 uomini69

.

Nel 1964, il servizio segreto italiano entrò a far parte dell’ Allied

Clandestine Committee (ACC), emanazione del Comitato di

pianificazione e coordinamento dello SHAPE, tra i cui compiti

rientrava esplicitamente anche l’eventualità di contrastare possibili

sovvertimenti interni.

Sull’esistenza di tale organizzazione venne a lungo mantenuto il

segreto, che cominciò ad essere parzialmente rotto a partire dalla metà

degli anni Ottanta. La sua esistenza venne ufficialmente riconosciuta

dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990. Fino

a quella data, dell’esistenza di tale organizzazione erano informati i

massimi vertici politici e militari del Paese, ma non il Parlamento.

Dopo che venne rivelato il fatto che la rete Stay behind era

operante in quasi tutti i Paesi membri dell’Alleanza, ci furono

69

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 535 sg. (L’incertezza delle cifre

sulla reale consistenza della rete fa parte dell’attività di disinformazione che è sempre stata

condotta in merito ad essa).

62

numerose proteste relative al fatto che si era trattato di

un’organizzazione cresciuta e prosperata assolutamente al di fuori

della legalità.

Chiave di tutte le polemiche, in particolare di quelle successive,

molto virulente, era il fatto se questa rete fosse stata creata solo per

fronteggiare un’ipotetica invasione sovietica o anche per contrastare

alcune legittime modificazioni politiche interne, come ad esempio la

crescita di consenso del partito comunista. Se così fosse stato, infatti,

la rete Stay Behind avrebbe svolto, a livello di politica interna

nazionale, un ruolo assolutamente indebito.

Non appare certamente una forzatura sostenere che la rete Stay

Behind rappresenti una sorta di cartina di tornasole della natura

alquanto controversa della NATO, come pure una conferma del fatto

che essa svolse un ruolo anche politico. Tuttavia, occorre cercare di

andare al di là del dato meramente polemico e leggere la situazione

alla luce di quello che era il clima Est-Ovest per parecchi decenni,

quali le rivalità fra il blocco occidentale e quello sovietico, e quale

infine la posta in gioco.

In termini generali, è da ritenere che la linea di distinzione più

netta passi tra la legittimità militare di una rete clandestina come la

Stay Behind e la sua legittimità politica. Poiché la NATO è sempre

stata un’alleanza politico-militare in funzione anticomunista, non è

sorprendente o singolare che essa si sia costantemente preoccupata di

impedire il successo del blocco sovietico e che, per farlo, abbia preso

le sue precauzioni, compresa l’organizzazione di una rete clandestina

di resistenza, da attivare in caso di attacco sovietico.

63

Ben diverso, per contro, è il discorso relativo al fatto che tale rete

clandestina abbia potuto in qualche modo svolgere compiti non

istituzionali e si sia in qualche modo resa responsabile di interventi

diretti o indiretti, nella politica interna nazionale. Se questo fosse

accaduto, allora ci troveremmo di fronte ad un indubbio aspetto

negativo, relativamente al quale non sarebbe possibile in alcun modo

rivendicare una qualche forma di legittimità di comportamento.

Non è facile, tra le tante tesi sul tappeto, sposarne una in

particolare che non abbia a propria volta delle valenze scopertamente

politiche. Cercando di mantenerci in un ambito il più possibile

scientifico, si può dire che la struttura Stay Behind non fu certamente

concepita, in Italia come in altri Paesi, per impedire manu militari,

l’avvento al governo di partiti comunisti nazionali, ma non c’è dubbio

che impedire tale avvento, anche semplicemente per via politica, fu

per decenni la priorità strategica dell’Alleanza, il che conferisce come

minimo una natura e un ruolo ambigui a strutture come la rete Stay

Behind, ruolo che aumenta ulteriormente se poi si pensa al

coinvolgimento che queste organizzazioni o singoli membri delle

medesime, riteniamo abbiano avuto in certe vicende misteriose e

tutt’altro che esaltanti della nostra storia recente.

64

CAPITOLO 3

L’ITALIA NELLA NATO: POLITICA MILITARE

3.1. L’integrazione delle strutture militari italiane in quelle

atlantiche

L’Italia che veniva chiamata a fare parte della NATO fin dalla

sua fondazione era una nazione che usciva a pezzi da una grave

sconfitta militare e che doveva scontare, per di più, l’onta dell’8

settembre 1943, quando le sue Forze Armate, lasciate

drammaticamente prive di ordini e di direttive chiare dai massimi

vertici dello Stato, erano andate incontro al più totale collasso, oltre

che ad episodi francamente deplorevoli come l’autoconsegna della

flotta al nemico, nelle acque di Malta, frutto di una pessima gestione

della fuoriuscita dal conflitto. A ciò si aggiungeva il fatto che, nel

corso dei lunghi anni di partecipazione alla guerra a fianco dell’allora

alleato tedesco, non è che le forze militari italiane avessero dato una

grande prova di sé, a parte alcune rare eccezioni (come le incursioni

della X Flottiglia MAS nei porti del Mediterraneo sotto controllo

inglese o l’eroico comportamento della Divisione paracadutisti

“Folgore” ad El Alamein e poco altro) e tutto questo aveva contribuito

a dare alimento a un mito che da sempre aleggia sulla storia nazionale,

quello per cui “gli italiani non saprebbero battersi”. Mito che non

risponde a verità, ma che accompagna lo Stato unitario fin da quando

era ancora il Regno di Sardegna, con pagine poco brillanti come le

65

due battaglie di Custoza (1848 e 1866), la sconfitta di Lissa (1866), il

massacro di Dogali (1887), il disastro di Adua (1896) e la rotta di

Caporetto (1917). Tutti eventi che non hanno certo giovato, nel loro

insieme, al prestigio delle armi italiane.

La rovinosa sconfitta, inoltre, non era stata riscattata dalla

successiva decisione di schierare l’Italia a fianco degli Alleati anglo-

americani, anche perché la partecipazione del nuovo esercito regio alla

parte finale del conflitto era stata relativamente modesta (anche per le

diffidenze che i comandi alleati nutrivano comprensibilmente nei

nostri riguardi) e perché – come si è accennato nei due precedenti

capitoli – si era diffuso nella cultura nazionale il mito per cui l’Italia,

con il suo cambiamento di campo, dovesse alla fine essere annoverata

sul versante dei vincitori del conflitto, non su quello degli sconfitti.

Mito che i nostri nuovi amici, gli Alleati anglo-americani, non

parevano per nulla disposti a condividere e, comunque, non a costo

zero per il nostro Paese.

Si trattava di una ben strana disposizione di animo, che non

aveva alcun motivo di sussistere, ma che, dal momento che

legittimava la posizione italiana e, in particolar modo, la “giravolta”

dell’8 settembre 1943, si era rapidamente diffusa a livello di cultura

collettiva e le nuove classi dirigenti non avevano compiuto alcuno

sforzo per contenerla, ma anzi la alimentavano quotidianamente, di

fatto creando una illusione che non aveva alcuna ragione di esistere.

Si può comprendere quindi la delusione degli italiani quando gli

Alleati anglo-americani diedero prova di non avere alcuna intenzione

di “praticare sconti” all’Italia e imposero al governo di Roma la firma

66

di un trattato di pace dalle clausole alquanto dure. Sul piano militare,

che è quello che ci interessa in questo capitolo, venne imposto

all’Italia di smilitarizzare le sue frontiere, sia occidentali che orientali,

per una larghezza di 20 km; venne vietata la costruzione di nuove basi

aeree e navali e l’espansione di quelle già esistenti; gli effettivi

dell’Esercito vennero limitati a 185.000 uomini, più 65.000

carabinieri, per un saldo totale di 250.000 unità. La Francia ci fece

imporre inoltre il limite di un possesso massimo di 200 carri armati

“medi”.

All’Aeronautica furono consentiti 25.000 uomini, 200 aerei da

caccia e ricognizione armati, 150 da trasporto, addestramento e

collegamento. Venne invece vietato il possesso di aerei da

bombardamento e missili.

La Marina si vide ridotta a 25.000 effettivi e a 67.000 tonnellate

di naviglio operativo70

.

Di fatto, alla stessa stregua di quelle politiche, le clausole militari

del trattato di pace erano alquanto punitive nei riguardi dell’Italia.

Tuttavia, l’inserimento del nostro Paese tra le nazioni fondatrici della

NATO diede un poderoso contributo al superamento di questa

situazione. Già nel 1952, infatti, l’Italia poté cominciare a sottrarsi ai

vincoli militari del trattato di pace71

e ad avviare una significativa

politica di rafforzamento del proprio strumento militare.

Ciò che consentì di distogliere dall’Italia tutta l’ostilità di cui era

oggetto da parte degli ex-nemici nei primi anni del dopoguerra fu la

70

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975. Struttura e dottrine, Feltrinelli,

Milano, 1975, pp. 29-31. 71

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 20 sg.

67

sua capacità di stringere un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti,

rapporto che garantì al governo di Roma l’appoggio iniziale

statunitense e, anche se non la partecipazione alla trattativa

diplomatica che portò alla creazione dell’Alleanza Atlantica, certo

l’invito a procedere alla firma della medesima.

In effetti, i fattori che potevano favorire l’ingresso del nostro

Paese nella NATO e i relativi compiti da attribuirgli erano

palesemente dettati dalla stessa posizione geografica dell’Italia, che la

rendeva oggettivamente – e la rende tuttora - un perno fondamentale

della mappa strategica del Mediterraneo e del sistema di tutela

dell’Europa occidentale. Situata al centro di tale mare, e

profondamente immersa in esso, l’Italia è perfettamente in grado di

controllarne le rotte, assumendo un ruolo di “portaerei naturale” che

non è una definizione esclusivamente tipica di forzatura nazionalistica

del periodo fascista, ma una condizione autentica, specie se si dispone

di un poderoso dispositivo aeronavale in grado di trasformare tale

condizione da una situazione potenziale a una reale.

La conseguenza di tale approccio è stata che il blocco occidentale

– e la potenza in esso egemone, vale a dire gli Stati Uniti – hanno

inglobato l’Italia al proprio interno adottando di fatto un automatismo

che per essi era indiscutibile, stanti gli equilibri e gli assetti strategici

del momento, ma in realtà senza specificarne dettagliatamente il ruolo,

tanto più dal punto di vista militare, che invece, in una logica di quel

tipo, appariva fondamentale.

Fin dal momento dell’adesione italiana all’Alleanza Atlantica,

non venne dunque specificato un aspetto fondamentale, se non molto

68

implicitamente: vale a dire quale avrebbero dovuto essere i confini,

anche in termini geografici, in cui l’Italia avrebbe dovuto soddisfare le

esigenze della NATO e quali invece quelli in cui il nostro Paese, in

quanto attore operante in un contesto regionale specifico, avrebbe

potuto muoversi quanto meno con una certa autonomia72

. Si può

persino ipotizzare che si sia trattato di un’omissione non casuale, in

quanto lasciare l’Italia in una posizione di indeterminatezza strategica

offriva il vantaggio di precluderle l’esercizio di qualsiasi linea politica

autonoma.

La conseguenza di tale atteggiamento si è tradotta, a livello di

politica militare, in una costante duplicità tra la priorità assoluta

conferita alla difesa a Nord-Est, di fatto in linea con gli orientamenti

più tradizionali della politica di difesa italiana dopo l’Unità e una linea

strategica subalterna legata ad un limitato ruolo aeronavale sul fianco

Sud e nell’area mediterranea. Tale linea avrebbe potuto procedere di

pari passo con le ambizioni di quanti, a livello politico, cercavano

soluzioni alternative a una semplice e passiva subordinazione alle

direttive atlantiche, ma gli orientamenti nazionali di politica estera

rimasero sempre privi di una corretta integrazione con le componenti

teoriche e tecnico-militari, essenzialmente a causa del fatto che nel

nostro Paese ha faticato ad affermarsi, nel secondo dopoguerra, un

pensiero militare nazionale autonomo e, quando infine è riuscito a

farlo, è risultato sempre molto legato alle visioni atlantiste. La cosa

non è sorprendente, in quanto è normale che, in condizioni come

quelle, la quasi totalità degli appartenenti all’universo militare fosse

72

Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa: strategia, direzione politica, comando

operativo, il Mulino, Bologna, 1986, p. 20 sg.

69

favorevole alla NATO e alle sue direttive, sia per ragioni politiche sia

altresì per motivi di carriera.

Di fatto, tutto questo ha compresso il nostro ruolo militare non

meno di quello politico, mantenendoci ai margini dell’Alleanza

Atlantica, nonostante la crescente importanza, con il passare del

tempo, del Fianco Sud73

. Questo ha fatto sì che, in concreto, l’Italia si

sia “autointrappolata” – come ha scritto Carlo Maria Santoro –

all’interno della NATO74

. L’affermazione è comprensibile, ma non del

tutto condivisibile, se non si tiene conto del modo in cui era maturata

la nostra sconfitta nel secondo conflitto mondiale, dei complessi di

colpa che (quanto meno a livello subliminale) ne erano scaturiti, del

fatto che, nel dopoguerra, la cultura militare era stata letteralmente

“eliminata” dalla cultura nazionale, che un ventennio fascista di

ubriacatura nazionalistica-militarista ci aveva lasciato come pessima

eredità una certa idea di “pacifismo” internazionalistico, come se,

dopo il 1945, il mondo fosse diventato diverso da quello che era

prima, una specie di “paradiso terrestre” non tormentato da contrasti,

rivalità, competizioni, conflitti.

Su questo sfondo, è facile comprendere come sia stata complicata

e difficile l’elaborazione di un pensiero militare nazionale e come, al

tempo stesso, non sia stata facile l’integrazione delle Forze Armate

italiane all’interno del dispositivo militare atlantico. Al di là delle

varie “serie dottrinali” relative alla dottrina operativa del nostro

strumento militare, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, di fatto è

stato necessario attendere fino alla metà degli anni Ottanta per avere, a

73

Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa ...., cit., p. 46 sg. 74

Ibidem, p. 47.

70

livello di politica militare, un’elaborazione teorica completa e

compiuta.

Così, nel “Libro Bianco” della Difesa del 1985, pubblicato quasi

alla fine del periodo oggetto di questo studio, le Forze Armate italiane

stabilirono un quadro di missioni operative che di fatto chiarivano

quale fosse, all’epoca ma anche in precedenza, il loro ordine di

priorità. Tali missioni erano cinque, così articolate:

La frontiera Nord-Est e Nord. Lo scacchiere di quella che, non

solo nel “Libro Bianco”, ma anche dal 1949 in avanti, era

riconosciuta come la prima missione operativa interforze

(Missione 1) formava un arco che andava da Treviso allo Stelvio

ed era uno scacchiere geograficamente importante e ben

consolidato, ma strutturalmente fragile, in quanto aggirabile da

varie parti, in particolare dall’Austria. A tale fragilità si era

sempre tentato di sopperire ricordando che le forze attaccanti

sovietiche avrebbero dovuto, nel caso di un’offensiva in

profondità, violare la neutralità austriaca e quella jugoslava.

Ipotesi tutt’altro che peregrina, ma che, ad esempio nel caso

jugoslavo, le avrebbe messe a contatto con un nemico

specializzato nel condurre una “guerra di popolo”, mentre in

quello austriaco avrebbe comunque complicato e rallentato

l’avanzata a causa delle difficoltà di un terreno prevalentemente

montuoso. Il problema di tale postura è che si era sempre trattato

di un atteggiamento difensivo, diventato talvolta

difensivo/controffensivo, ma mai particolarmente convincente e

soprattutto alquanto carente sul versante della dissuasione, in

71

particolare della dissuasione non basata sul ricorso alle armi

nucleari75

. Per non parlare del fatto che la difesa ad oltranza della

cosiddetta “Soglia di Gorizia”, anche se ha rappresentato il perno

di tutti gli orientamenti dottrinali del dopoguerra, di fatto si

basava su una staticità concettuale e dottrinale che faceva

assomigliare il tutto al “Deserto dei Tartari” di buzzatiana

memoria, senza lasciare spazio ad alternative credibili76

, a

cominciare da un mancato rispetto – da parte sovietica – della

neutralità austriaca e dunque del possibile concretizzarsi di una

minaccia da Nord. Nell’insieme, una visione molto più statica che

dinamica, tale da conferire un ruolo complessivamente subalterno

al nostro Paese, ben inferiore alla sua reale importanza in campo

geostrategico77

. In una parola, l’assolvimento di tale missione era

ineludibile, nella logica dell’appartenenza italiana all’Alleanza

Atlantica, ma il problema vero era relativo a come interpretare

tale compito, vale a dire nella sola forma statica di cui si diceva, o

anche in altri modi ?

La difesa a Sud, nell’area mediterranea, era invece la seconda

missione operativa interforze (Missione 2) individuata nel “Libro

Bianco” del 1985. Qui il quadro strategico appariva diverso,

rispetto alla Missione 1, nel momento in cui essa venne definita, a

causa della presenza della VI Flotta USA. In effetti, mentre il

compito della Difesa a Nord-Est spettava quasi integralmente alle

Forze Armate italiane, quello della presenza, nell’area

75

Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa...., cit., pp. 56-59. 76

Ibidem, p. 60 sg, 77

Ibidem, p. 78.

72

mediterranea, di un dispositivo aeronavale statunitense tanto

poderoso quanto flessibile ridimensionava notevolmente i

compiti che l’Italia era chiamata ad assolvere su questo versante,

in particolare per quanto concerne la cooperazione con le forze

NATO. Il dispositivo e il potenziale di quest’ultima, infatti,

rendevano il ruolo italiano marginale e subalterno, senza contare

che, con il passare del tempo e il riorientamento del dispositivo

aeronavale NATO verso altre direzioni, non ci si è forse resi

conto, a livello atlantico, che si stavano manifestando altri tipi di

minacce, alle quali occorreva fare fronte con altri strumenti e

altresì con diverse logiche operative.

La difesa aerea e la relativa deterrenza, dal canto suo,

rappresentavano la Missione 3, la quale ovviamente investiva

l’intero territorio nazionale, con funzione difensiva e dissuasiva

da eventuali minacce aeree di ogni tipo.

La difesa operativa del territorio costituiva invece la Missione 4,

una missione che ha sempre dato adito a una serie di potenziali

equivoci, non essendo mai stato chiaro come articolarla

realmente, se in forma statica, oppure dinamica, se orientata al

nemico esterno o anche a quello interno78

. Si tratta di un tema che

ha sempre innescato e alimentato vivaci polemiche, in quanto ha

sempre toccato il nervo maggiormente scoperto della

partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica, vale a dire la

presenza, all’interno del Paese, di una percentuale molto elevata

di cittadini che era ideologicamente ostile alla NATO e

78

Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa...., cit., p. 94 sg.

73

favorevole, per contro, al blocco sovietico. Le scelte strategiche e

anche tecnico-militari di un Paese così diviso non potevano che

essere oggetto di controversie, come in effetti sono state, per

decenni e fino al collasso del comunismo e del blocco sovietico.

Gli interventi di sicurezza. In ultimo (Missione 5), il “Libro

Bianco” della Difesa del 1985 faceva riferimento a interventi di

sicurezza, deterrenza e pacificazione e soccorso nell’ambito delle

situazioni di crisi o di conflitti a bassa intensità, sia sul territorio

nazionale, sia in altre aree dell’Alleanza, sia in aree esterne. Di

fatto, questa missione rappresentava un qualcosa frutto

dell’evoluzione dei tempi e del mutamento degli scenari

strategici, in quanto, almeno fino alla seconda metà degli anni

Settanta, un’esigenza del genere non ebbe alcun modo di

manifestarsi, mentre divenne decisamente più marcata e pressante

a partire da quella data in avanti. Con il mutare dello scenario

strategico, infatti, da un lato cresceva la “minaccia da Sud”,

lasciando meno esposto il fronte nordorientale (la celebre “Soglia

di Gorizia”), ma, nel crescere, essa richiedeva altresì di essere

gestita in forma nuova e con strumenti altrettanto nuovi, come ad

esempio, per quanto concerne proprio il ruolo italiano,

l’incremento del dispositivo aeronavale nazionale, che

necessitava di essere messo in grado di poter operare da solo,

oltre che in concorso con gli alleati, al fine di assolvere alcune

esigenze operative specifiche. Questo problema, tuttavia, rimase

sempre irrisolto, in perfetto parallelismo con gli equivoci che

74

gravavano sul ruolo politico-militare italiano all’interno

dell’Alleanza.

Una volta entrata nella NATO, l’Italia venne chiamata ad

integrare le proprie strutture militari in quelle atlantiche e ciò, quanto

meno inizialmente, venne fatto in modo che eventuali comandi posti

sotto “cappello” italiano non godessero di particolare autonomia

operativa.

Tra il 1955 e il 1962, la vita interna dell’Alleanza Atlantica

venne caratterizzata da tre periodi diversi.

Il primo periodo, tra il 1955 e il 1957, durò fino al momento del

lancio del primo Sputnik sovietico e vide la dotazione, ai comandi

NATO, di armi nucleari tattiche (che in Italia ebbe luogo con la

creazione di una grande unità come la SETAF (Southern European

Task Force). Dopo la prima rottura del monopolio nucleare

statunitense avvenuta tra il 1949 e il 1954, tali misure organizzative

avrebbero dovuto prevenire la proliferazione delle nuove armi e

replicare, per mezzo di una strategia di “rappresaglia massiccia”, alla

situazione di squilibrio esistente, in campo alleato, a livello di forze

terrestri rispetto al nemico sovietico, non più compensato

dall’armamento atomico. Era poi molto diffusa la riluttanza a non

spingere oltre un certo livello i programmi di riarmo di tipo

convenzionale, in quanto non c’erano risorse da destinare ai bilanci

militari in un periodo di ricostruzione postbellica. Si giunse così a

teorizzare una strategia basata su “spada e scudo”, dove peraltro lo

scudo convenzionale risultava declassato a livello di semplice miccia,

destinata a far esplodere quanto prima l’esplosivo nucleare (“la spada”

75

della metafora sopracitata)79

. In apparenza, si trattava di scelte

necessitate e praticamente inevitabili, ma c’è da chiedersi quanto

potessero essere credibili, dal momento che in pratica l’unica difesa

possibile dell’Europa occidentale sarebbe stato l’olocausto nucleare.

Il secondo periodo, successivo al lancio del primo Sputnik, fu

quello in cui, onde prevenire la disseminazione delle armi nucleari e

per rendere credibile il rischio che gli americani avrebbero dovuto

correre per gli alleati in caso di crisi, venne proposta la creazione di

una forza multilaterale, in teoria posta sotto controllo congiunto dei

Paesi alleati, ma di fatto dotata di armamento statunitense.

Infine, il terzo periodo fu quello in cui negli USA, la presidenza

Eisenhower venne sostituita da quella Kennedy e si diede avvio

all’elaborazione della strategia della “risposta flessibile”80

.

Quest’ultima aveva l’enorme pregio di non impostare la difesa lungo

direttrici rigide, ma di graduare ogni forma di risposta militare

all’entità dell’offesa subita. Di conseguenza, un’offensiva militare

sovietica condotta, ad esempio, solo a livello convenzionale, non

avrebbe mai scatenato una reazione NATO a livello nucleare, almeno

fino al momento in cui risultasse chiaro che essa era contenibile dal

punto di vista convenzionale. Solo se tale capacità di resistenza fosse

stata superata, allora le forze alleate avrebbero potuto ricorrere al

fuoco nucleare. Alla stessa stregua, un’offensiva nucleare sovietica di

dimensioni contenute non avrebbe provocato un immediato ricorso

alla “rappresaglia massiccia”, ma a una assai più corretta reazione di

79

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 185. 80

Ibidem.

76

tipo analogo e contrario, dunque a una risposta per l’appunto graduata

e flessibile.

Per quanto concerne gli aspetti più strettamente organizzativi,

alla fine del 1945, cioè poco dopo la conclusione della Seconda guerra

mondiale, l’Italia disponeva di 5 piccole divisioni, 3 di sicurezza

interna di stanza nelle isole e di 11 reggimenti.

L’aviazione, praticamente inesistente, contava nel giugno 1948

153 caccia (di cui solo 50 realmente operativi) e 185 aerei di supporto

di tipo antiquato. La Marina, infine, era obsoleta, anche se

sovradimensionata.

Grazie agli aiuti forniti dagli USA, nel dicembre 1953 l’Esercito

raggiunse gli obiettivi di forza fissati dalla NATO, vale a dire 3

piccole divisioni corazzate, ciascuna composta da circa 8.000 uomini,

200 carri medi e 50 leggeri; 10 divisioni di fanteria, di cui 3

motorizzate, 5 appiedate e 2 ad organico ridotto. A ciò si dovevano

aggiungere 5 brigate alpine, 4 raggruppamenti di fanteria, 3

battaglioni carri di supporto, 1 settore forze lagunari e 7 reggimenti di

cavalleria blindata. Nel complesso, un insieme di forze equivalenti a

12 divisioni, in base ai criteri NATO, con 800 carri medi, dotate di

grande potenza di fuoco, ma scarsamente mobili e prive di un

adeguato supporto logistico.

Marina e Aeronautica rimasero invece al di sotto della

consistenza prevista: la Marina contava circa 86.000 tonnellate di

naviglio moderno, mentre l’Aeronautica poteva contare su 1.570 aerei,

77

di cui solo 470 dotati di efficienza bellica e solo 328 da

combattimento81

.

Tra il 1956 e il 1959 ci fu un riordinamento delle forze terrestri,

con una diminuzione delle unità di fanteria e un incremento di quelle

mobili.

La Marina, a sua volta, fu oggetto di significativi programmi di

sviluppo, mentre l’Aeronautica, in particolar modo negli anni

Sessanta, fu oggetto di un poderoso programma di potenziamento,

grazie ai programmi NATO (in particolare quello relativo all’acquisto

del caccia F-104 STARFIGHTER) e nazionali.

Nel 1975, per contro, le forze operative terrestri vennero ridotte

di circa un quarto e tali riduzioni continuarono anche negli anni

Ottanta, a causa delle sempre maggiori difficoltà in cui versava il

bilancio dello Stato.

Molto interessante è un tema relativo a una valutazione

comparata tra le Forze Armate italiane e quelle di altri Paesi facenti

parte dell’Alleanza Atlantica. I dati disponibili al riguardo sono

interessanti e istruttivi. Nel 1983, ad esempio, il 62% dei generali e

ufficiali superiori dell’Esercito giudicava il suo livello qualitativo

“inadeguato” allo standard NATO o “adeguato solo in pochi settori”.

Anche tra coloro che avevano espresso una valutazione ottimistica,

peraltro, non mancavano quanti esprimevano le loro riserve, dal

momento che il 30% di costoro lo reputava “adeguato salvo in alcuni

settori”, e solo l’8,3% lo considerava “pienamente adeguato”82

.

81

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 142 sg. 82

Ibidem, p. 146.

78

Nel 1986, un documento elaborato in ambito NATO e relativo

alla comparazione tra gli eserciti di 18 Paesi, recava giudizi alquanto

altalenanti su quello italiano. Il “patriottismo” di soldati e sottufficiali,

ad esempio, era valutato da 1 a 100 a 15 (dunque un livello

bassissimo), mentre quello degli ufficiali saliva a 25, a fronte – e

questo era certamente il dato meno confortante – dell’80-90 rilevato

per eserciti come quelli di Paesi quali Stati Uniti, Germania, Francia e

Gran Bretagna. La differenza, dunque, da questo punto di vista era

incredibilmente elevata, segno che il morale delle nostre Forze Armate

era lungi dal poter risultare di livello accettabile.

Tale risultato, assolutamente sconfortante, era invece contrastato,

anche piuttosto significativamente, dalla valutazione sull’”animosità

combattiva”, che vedeva addirittura al primo posto nell’Alleanza i

soldati italiani (con il punteggio di 75), seguiti da americani (70),

inglesi (60), francesi (45), tedeschi (40).

Inferiore a quella dei colleghi stranieri, per contro, risultava

l’”animosità combattiva” di sottufficiali (70) e ufficiali (50).

Sono dati contraddittori e difficilmente interpretabili, anche

perché la prima e più legittima domanda che è lecito porsi è relativa

alla marcata differenza tra patriottismo e volontà combattiva, in

quanto i due indicatori appaiono assolutamente contraddittori.

Tuttavia, non è una forzatura pensare che, dopo l’8 settembre 1943 e

la “morte della Patria”, il valore del patriottismo risultasse per

l’appunto in crisi, in parallelo con la crisi di identità dell’Italia post-

fascista. La volontà combattiva dei reparti italiani, per contro,

79

rimaneva forte, anche se essa scemava man mano che si saliva nella

scala gerarchica.

Su versanti più tecnici, poi, venivano fuori le note più dolenti,

con l’Italia che risultava all’ultimo posto per capacità strategiche e

operative degli Stati Maggiori (15), armamento nazionale (15),

equipaggiamento individuale (25-35) e addestramento (20-30). Ne

scaturiva una capacità di impiego complessiva pari a 35, tutt’altro che

esaltante e superiore solo a quella della Spagna, che era a 1083

.

Anche se questi indici non possono e non devono essere

sopravvalutati, essi ci consentono comunque di capire che, in ambito

NATO, la nostra posizione complessiva, a livello di strumento

militare, non era delle più elevate e certamente assai inferiore a quella

degli alleati più potenti e prestigiosi.

3.2. Le Forze Armate italiane nella NATO: dottrine e compiti

Prima ancora che la NATO adottasse ufficialmente la dottrina

della “difesa avanzata”, le caratteristiche geostrategiche del fronte

italiano resero obbligata la scelta di condurre la difesa aeroterrestre al

Brennero e tra i fiumi Isonzo e Tagliamento, a ridosso del confine

nordorientale, che appariva come il meglio difendibile: la sua

estensione non superava i 70 km, dunque era ridotta, poggiava per

gran parte sull’arco alpino o su terreno collinare adatto alla difesa,

salvo che nella piana di Gorizia, la quale peraltro avrebbe potuto

essere fortificata. Inoltre, i pochi assi di penetrazione percorribili

dall’Ungheria, vale a dire dalla linea di attacco più prevedibile delle

83

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 147

80

forze sovietiche e dei loro alleati, erano particolarmente vulnerabili

all’offesa aerea e all’impiego di armi nucleari.

La scelta di soluzioni alternative, per contro, avrebbe comportato

lo sbocco dell’aggressore nella pianura padana, dove la resistenza

delle forze di difesa italiane si sarebbe rivelata ben più difficile.

Infatti, nell’eventualità in cui fosse riuscito a stabilizzare una linea di

difesa sull’Appennino e le Alpi occidentali, l’aggressore avrebbe

rescisso il collegamento tra il fronte centrale e quello meridionale

della NATO, si sarebbe impadronito di tre quarti del potenziale bellico

nazionale (concentrato nel triangolo Milano-Torino-Genova) e

avrebbe potuto creare un governo collaborazionista; ipotesi

quest’ultima che, considerata la forza e il seguito del Partito

comunista italiano, era tutt’altro che peregrina.

I perni della struttura difensiva italiana erano dunque il Brennero,

il sistema Cadore-Carnia, la zona prealpina di Udine, la zona collinare

e di pianura tra l’Isonzo e il Tagliamento, il Carso e Trieste, la Laguna

veneta84

.

Per quanto concerne invece i compiti assegnati alle varie forze,

essi erano i seguenti:

Per l’Esercito, difendere soltanto con le proprie forze la frontiera

orientale in attesa delle forze aeree statunitensi che avrebbero

potuto raggiungere lo scacchiere orientale italiano, ad esempio

decollando da portaerei in navigazione nel Mediterraneo. Questa

capacità di resistenza avrebbe dovuto esercitarsi per tutto il tempo

necessario a consentire la mobilitazione delle forze americane e

84

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 79 sg.

81

di quelle NATO, una parte delle quali sarebbe stata destinata a

supportare direttamente le truppe italiane sul fronte orientale

della penisola. Oltre a questo compito prioritario, all’Esercito

italiano era richiesto, come compito secondario, di tenere il

controllo di tutto il Paese dal punto di vista dell’ordine pubblico.

Per quanto concerne invece la Marina, ad essa era affidato

l’incarico di operare come scorta dei convogli alleati nel

Mediterraneo e di garantire la difesa costiera della penisola, oltre

a supportare, in funzione comprensibilmente subalterna, il

mantenimento del dominio navale alleato nell’area mediterranea

e a consentire l’esplicazione del potere aeronavale alleato.

L’Aeronautica, infine, dal momento che all’epoca era la Forza

Armata più debole e antiquata di tutte, non avrebbe avuto altri

compiti se non quello di concorrere, con mezzi limitati, all’azione

delle altre forze85

.

Fu in questo periodo iniziale di partecipazione italiana

all’Alleanza che si dimostrarono determinanti gli aiuti economici e

militari statunitensi intesi ad accelerare la ricostruzione delle

strumento militare italiano e, al tempo stesso, il suo

ammodernamento86

.

Tutto questo sostegno non era ovviamente casuale, ma intendeva

significare, in concreto, l’attenzione che gli Stati Uniti e, in subordine,

la NATO attribuivano all’Italia quale caposaldo dello schieramento

atlantico in Europa, un caposaldo che non intendevano assolutamente

perdere e che anzi erano decisi a difendere dalle posizioni più

85

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 97. 86

Ibidem, p. 99 sg.

82

avanzate possibili, in quanto perfettamente consapevoli del fatto che,

se un’eventuale offensiva sovietica fosse riuscita a sfondare e a

dilagare nella pianura padana, l’intero fianco Sud della NATO

avrebbe rischiato di essere aggirato e la difesa occidentale sarebbe

stata spinta all’indietro, fino alla penisola iberica, con conseguenza

gravissime87

.

Su questo sfondo, resta ovviamente irrisolta la diatriba tra chi

riteneva che l’allineamento atlantico del nostro Paese fosse una scelta

determinata dalla volontà o imposta dalla necessità e chi riteneva

invece che, pur partecipando allo schieramento atlantico, sarebbe stato

preferibile, per l’Italia, adottare un atteggiamento meno passivamente

prono agli interessi degli alleati e in particolar modo degli americani e

più attento, per contro, alla tutela dell’interesse nazionale, senza

peraltro dimenticare il fatto che, in quel periodo, non pareva chiaro né

alla dirigenza politica né a quella militare quale fosse realmente il

nostro interesse nazionale88

.

A livello dottrinale, vale a dire di elaborazione della dottrina

operativa delle Forze Armate italiane89

, le prime pianificazioni

postbelliche riguardarono l’organizzazione difensiva (1948), le

operazioni combinate avioterrestri (1949), la difesa su ampi fronti

(1950) e la cooperazione avioterrestre (1951).

87

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 118. 88

Ibidem, p. 150 sg. 89

La dottrina militare è una delle due diverse e fondamentali fonti della tattica militare (l’altra

fonte sono gli ordini di operazione), fornisce gli orientamenti per l'impiego delle forze nei casi

medi. È contenuta in circolari e pubblicazioni delle serie dottrinali, il cui aggiornamento consegue

o ad una mutata visione strategica ovvero a profondi cambiamenti nell'organizzazione delle Forze

Armate. Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Tattica_militare

83

La prima serie dottrinale dell’Esercito fu la 3000, elaborata a

cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, che fu

anche l’ultima delle concezioni dottrinali ispirate a una visione del

conflitto di tipo esclusivamente convenzionale90

.

La regolamentazione successiva, che risale al 1958-60 (circolari

della serie dottrinale 600), rifletteva invece i principi della dottrina

NATO della “rappresaglia massiccia”, adottata dall’Alleanza nel

1954. Si prevedeva infatti la costituzione di due posizioni difensive,

poste a distanza di 50-90 km l’una dall’altra, il cui compito era quello

di attirare le forze attaccanti nei punti più vulnerabili al fuoco

nucleare. Non era prevista, peraltro, una manovra controffensiva su

larga scala, il che la dice lunga su quello che era considerato il ruolo

delle forze italiane, relegato di fatto a compiti di mera resistenza

passiva, da esercitare fino a che non si sarebbe manifestato, sul

terreno, il supporto militare alleato, soprattutto americano.

La serie dottrinale 600, approvata nell’aprile del 1958, fu

comunque molto apprezzata, soprattutto negli USA, dove fu

addirittura oggetto di studio e di insegnamento. Si trattava, infatti,

della prima normativa di impiego elaborata da un esercito occidentale

che prevedeva l’uso di armi atomiche e cercava di valutarne

concretamente gli effetti tanto per chi difendeva quanto per chi

attaccava91

. Come tale, era certamente ricca di spunti dottrinali di

interesse non trascurabile, anche perché enormi erano gli interrogativi

che gravavano sulla reale possibilità di condurre operazioni efficaci in

ambiente pesantemente contaminato. Ogni contributo dottrinale in tal

90

Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 107. 91

Ibidem, p. 186 sgg.

84

senso, quindi, era il benvenuto, anche se tutti parevano

complessivamente alquanto ottimistici sul tema dell’operatività dei

reparti dopo uno scambio di fuoco nucleare, in quanto era

difficilissimo individuare l’entità delle distruzioni che avrebbero avuto

luogo.

La normativa del 1963 (serie dottrinale 700), per contro, riduceva

l’enfasi posta sull’impiego delle armi nucleari e distingueva tra una

difesa “ancorata”, da condurre con il sistema dei capisaldi di fanteria,

e una vera e propria difesa “mobile”, da condurre con consistenti forze

corazzate tenute di riserva.

La combinazione in profondità dei due procedimenti difensivi

realizzava una manovra di logoramento, intesa a rovesciare il rapporto

di forze fino a consentire la controffensiva dei reparti italiani, il che

costituiva una novità dottrinale non da poco.

Già a partire dal 1962, del resto, si stava operando una netta

ripresa delle capacità di combattimento convenzionale, intesa fra

l’altro ad accrescere le capacità di combattimento individuale dei

soldati. Va specificato, a questo proposito, che un’impostazione del

genere attirò molte critiche da parte delle Sinistre, convinte che in tal

modo il governo italiano stesse predisponendo uno strumento militare

che, oltre a prepararsi a combattere una guerra nucleare, si preparasse

a svolgere un ruolo essenzialmente di polizia, addestrata e predisposta

a svolgere soprattutto un ruolo di mantenimento dell’ordine e di

stabilizzazione del quadro politico interno92

. In un clima politico come

quello italiano di quegli anni, è chiaro che tali sviluppi apparivano

92

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 240.

85

inquietanti, non solo e non tanto in funzione anticomunista, poiché

quello poteva essere ritenuto uno sviluppo normale, alla luce della

situazione internazionale dell’epoca, quanto in presenza del famoso

avvento del “centrosinistra” e delle preoccupazioni che, a tale

proposito, erano state espresse da molti ambienti politici, non solo

nazionali ma anche internazionali, facendo lievitare le tensioni

politiche interne fino a rendere credibile addirittura l’ipotesi di un

colpo di Stato93

.

Dal canto suo, la normativa del 1971 (serie dottrinale 800)

rifletteva il cambiamento di riferimenti teorici frutto dell’adozione, da

parte della NATO, della strategia della “risposta flessibile”, avvenuta

nel 1967, basata sull’impiego selettivo e limitato delle armi nucleari,

di fatto tarato su quella che era la reale natura dell’offesa nemica,

come pure l’influenza della dottrina statunitense della “difesa mobile”

del 1968. Essa segnò una più decisa configurazione reattiva e

controffensiva della difesa avanzata e un potenziamento della difesa

mobile, che ora si intendeva combinare con la difesa ancorata in

prevalenza al fronte e non in profondità94

.

L’abbandono della manovra operativa in profondità venne

accentuata dalla nuova dottrina statunitense elaborata nel 1976 e

basata sulla “difesa attiva”, i cui principi vennero recepiti anche in

ambito NATO. L’Italia fece propri tali criteri con la normativa del

1976-77 (serie dottrinale 900), che eliminava la distinzione tra i

procedimenti difensivi della fanteria e delle forze mobili, prevedendo

al suo posto una manovra condotta da forze meccanizzate e corazzate,

93

Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 241. 94

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 80 sg.

86

mediante uno spostamento progressivo all’indietro della difesa stessa.

A sua volta, nella fase offensiva, il compito riservato alle forze mobili

non era più quello dello sfondamento, ma il “fissaggio” delle forze

nemiche lanciate all’offensiva e l’infiltrazione.

Naturalmente, la scelta obbligata della difesa a Nord-Est

condizionò il modello organizzativo dello strumento militare italiano,

a cominciare dal fatto che, per poter garantire la disponibilità di un

discreto quantitativo di forze terrestri, era necessario poter contare

sulla coscrizione obbligatoria e su una ferma non inferiore a 12 mesi

di durata per assicurare, anche in tempo di pace, la struttura di una

forza in grado di fronteggiare il rischio di un attacco di sorpresa95

.

Contro questo tipo di organizzazione non si manifestarono,

all’interno dell’ambiente militare italiano, significative forme di

dissenso. Come si è già avuto modo di sottolineare, la cosa non è

sorprendente, in quanto, in quegli anni, l’ideologia atlantica era di

fatto l’unica impostazione che avesse legittimità tra i nostri militari.

Non si può negare che, a livello meramente teorico, esistessero anche

altre opzioni, ma esse erano considerate velleitarie e/o irrealistiche,

per non parlare del fatto che il quadro dottrinale atlantico era

considerato lo scenario dottrinale naturale di riferimento.

Appare del tutto evidente che, con l’adesione dell’Italia al Patto

Atlantico, il nostro confine militare venne ridotto di fatto al solo

scacchiere orientale e la sicurezza di quest’ultimo, dopo il ritiro delle

truppe sovietiche di occupazione dell’Austria, la rottura fra Stalin e

Tito e successivamente il riavvicinamento politico fra Italia e

95

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 87.

87

Jugoslavia sfociato nel trattato di Osimo del 1975, si è ulteriormente

accentuata.

A seguito di ciò, l’orientamento della dottrina di impiego delle

forze terrestri a difesa dello scacchiere nord-orientale ha risentito

dell’evoluzione della situazione politica dal 1945 in avanti, del

processo di ammodernamento dei mezzi e soprattutto della

meccanizzazione della fanteria, oltre, ovviamente, del mutamento

degli orientamenti atlantici in materia di armi nucleari tattiche. La

tendenza prevalente è sempre stata quella di difendere il confine il più

avanti possibile, in relazione alle forze a disposizione e alla

prevedibile minaccia avversaria e naturalmente di coinvolgere nella

battaglia di arresto la minore percentuale possibile di territorio

nazionale.

Negli anni Cinquanta era orientamento diffuso quello di

utilizzare il più possibile lo spazio “in avanti”, occupando, come già

accennato, posizioni difensive poste anche in territorio austriaco (che

all’epoca era ancora sottoposto all’occupazione militare alleata) e

jugoslavo e di fare ricorso al bombardamento atomico in profondità

sul dispositivo di attacco avversario96

.

Successivamente, con il venir meno della dottrina della

“rappresaglia massiccia” (che aveva ispirato la serie dottrinale n. 600)

e l’adozione di quella della “risposta flessibile” (che ispirò la 800) e

con l’abbandono dei piani relativi all’occupazione di postazioni

difensive in Austria e Jugoslavia, si stabilì che fossero venuti meno i

96

Virgilio Ilari, “Il problema politico della difesa nazionale e la dottrina d’impiego dell’esercito”,

in ISTRID (Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa), Gli indirizzi della difesa italiana, Atti del

Convegno tenutosi a Roma il 15 aprile 1982, Roma, 1982, p. 180.

88

presupposti per una difesa ad oltranza della frontiera e che fosse

indispensabile prevedere la possibilità di reiterare una seconda

battaglia d’arresto nell’area dei monti Lessini o dei Colli Euganei o

addirittura, nel caso si fosse dovuta cedere l’intera pianura Padana al

nemico avanzante, ad una sorta di “Linea Gotica” rovesciata. Tuttavia,

una soluzione del genere era piena di controindicazioni, in quanto

metteva duramente alla prova la reale tenuta del fronte interno, dal

momento che nessuno se la sentiva di prevedere che cosa sarebbe

accaduto in Italia nel caso di un’avanzata sovietica di tale entità e

confortata da così elevati livelli di successo. Molti esperti

prevedevano che il Partito comunista ne avrebbe tratto notevolissimi

vantaggi, quindi si preferì abbandonare tale impostazione, valutata

come troppo gravida di pericoli e si tornò a sviluppare il concetto di

una difesa il più avanzata possibile, che teneva anche conto del fatto

che pure l’Austria e la Jugoslavia, in caso di attacco delle forze del

Patto di Varsavia, avrebbero cercato di opporsi al medesimo, di fatto

aiutando l’Italia97

.

Per quanto concerne i compiti affidati alle Forze Armate italiane

nell’ambito della NATO, una lunga e mai sopita (almeno fino a

quando è esistito il blocco sovietico) contestazione proveniente dalle

forze di Estrema Sinistra è stata quella per cui il ruolo militare italiano

sarebbe stato, all’interno dell’Alleanza, assai modesto e circoscritto a

compiti di controllo del territorio e non di difesa, come asserito a

livello ufficiale, in funzione palesemente politica e, di fatto, di

97

Virgilio Ilari, “Il problema politico della difesa nazionale e la dottrina d’impiego dell’esercito”,

in ISTRID (Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa)...., cit., p. 183.

89

controllo del territorio contro eventuali sommovimenti interni98

.

Nell’ambito di questa visione, un’impostazione del genere non

avrebbe fatto che confermare la totale subordinazione dello Stato

italiano e del suo strumento militare alla volontà degli USA, sia pure

mediata attraverso il tramite NATO.

Altre affermazioni sono state addotte in questa direzione, a

cominciare dalla volontà delle nostre classi dirigenti di fare dell’Italia

la “Bulgaria della NATO”, vale a dire un alleato capace di distinguersi

negativamente per servilismo e passivo allineamento alle direttive che

gli provenivano dal potente alleato; oppure il fatto che, per aspirare ai

massimi gradi dell’apparato militare, era ritenuto indispensabile dare

costante attestazione della propria assoluta fedeltà atlantica99

.

Per questo insieme di ragioni, anche il Ministero della Difesa

sarebbe stato sempre fatto tenere, a livello politico, sotto stretto

controllo della Democrazia cristiana, vale a dire il partito di

maggioranza relativa e dei suoi esponenti considerati più affidabili (o

meno inaffidabili) dagli americani, al fine di garantire un controllo

assoluto su una struttura che, peraltro, presentava da sempre una

caratteristica tipica della storia italiana, non solo repubblicana. In

effetti, dal momento che le Forze Armate, lungo tutto il periodo della

monarchia, erano sempre state un campo d’azione riservato al sovrano

e da lui gelosamente controllato, una volta nata la Repubblica si

dovette trovare un assetto che, di fatto, continuasse a garantire alle alte

gerarchie militari di poter fare il bello e il cattivo tempo all’interno

98

Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia, Feltrinelli, Milano, 1973, p.

32 sg. 99

Ibidem, pp. 33-35.

90

dell’apparato militare, lasciando al ministro della Difesa

essenzialmente una funzione di garanzia, ma non propriamente di

controllo diretto del suo dicastero. Tuttavia, è evidente che ministri

della Difesa come Giulio Andreotti, rimasti per di più in carica per

lunghi periodi, fecero in modo di non accontentarsi soltanto del

controllo politico ma di allargarlo il più possibile anche sulla

macchina militare, cosa che puntualmente avvenne.

Fu solo nel 1966 che si ebbe l’approdo al Ministero della Difesa

di un esponente non della Democrazia cristiana, il socialdemocratico

Roberto Tremelloni. Tuttavia, anche in questo caso la scelta del

responsabile di un dicastero tanto delicato ricadde inevitabilmente su

un personaggio che dava le massime garanzie di orientamento filo-

atlantico100

.

In realtà, un problema di posizionamento politico le Forze

Armate italiane, dal 1949 in avanti, ce l’hanno avuto. Era infatti

evidente che, in un Paese dove le Sinistre socialiste e comuniste

avevano un peso politico e culturale elevato, disporre di un apparato

militare basato su un esercito di leva rappresentava una realtà tutt’altro

che facile da gestire, in quanto non era possibile avere un “esercito di

popolo” che di quel popolo non rispecchiasse peculiarità e divisioni

interne, nonché difformità di orientamenti ideologici.

Dal momento che la scelta atlantica aveva rappresentato una

decisione assai controversa e che, nei momenti più politicamente

favorevoli alla NATO, la quota di italiani ad essa ostile era sempre

rimasta al di sopra del 30% del totale della popolazione adulta e che,

100

Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia…., cit., p. 70 sg.

91

all’inverso, nei momenti più sfavorevoli la stessa aveva largamente

superato il 40%, era chiaro che un esercito di leva avrebbe potuto

essere tenuto insieme solo facendo riferimento a una presunta

apoliticità.

Sempre in questa logica, suonano inquietanti i continui

riferimenti fatti da altissimi ufficiali delle Forze Armate italiane al

fatto che l’ingresso del PCI nell’area di governo avrebbe potuto

causare, all’interno dello strumento militare, numerosi “casi di

coscienza”. Queste parole vennero pronunciate, nel marzo 1971,

dall’ammiraglio Gino Birindelli, che occupava incarichi di livello

elevatissimo tanto in ambito militare nazionale quanto NATO101

e

rappresentano una limpida testimonianza di come, in Italia, questioni

politiche e questioni militari si sono sempre intrecciate per quanto

concerne l’Alleanza Atlantica, in quanto il nostro è sempre stato, non

solo geograficamente ma anche politicamente, un Paese di confine.

3.3. Le basi americane in Italia e il loro status

Fin dall’inizio dell’appartenenza italiana alla NATO, dunque fin

dall’inizio dell’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti si dimostrarono

molto interessati a sviluppare una serie di accordi bilaterali con l’Italia

e a garantirsi la disponibilità, sul territorio italiano, di un certo numero

di basi, logistiche o militari. Esse possono essere distinte in quattro

tipologie diverse:

101

Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia…., cit., p. 80 sg.

92

Le basi navali

Il comando della VI Flotta della Marina USA venne insediato a

Gaeta, mentre nell’area napoletana vennero stanziati l’8° Gruppo di

sottomarini d’attacco e l’aviazione navale. Vari depositi della VI

Flotta vennero dislocati in Sicilia (Sigonella, Augusta), mentre in

Sardegna, a La Maddalena, venne stanziato una squadra di sottomarini

nucleari lanciamissili.

I centri di comunicazione

Il sistema di comunicazioni strategiche americane, distinto da

quello dell’Alleanza, era ed è tuttora diffuso su tutta la penisola.

Le basi aeree

Le principali basi aeree vennero insediate ad Aviano e a

Capodichino (Roma), cui si aggiunsero delle Air Stations a Comiso,

Sigonella, San Vito dei Normanni.

Le basi logistiche e addestrative

Le principali basi logistiche vennero insediate vicino a Livorno

(Camp Darby) e Vicenza (Camp Ederle).

Quelle addestrative, per contro, vennero installate in Sardegna, a

Decimomannu e nell’area di Capo Marrargiu, anche se formalmente

rimasero sotto il controllo NATO102

.

Non si deve mai dimenticare che proprio sulla concessione di tali

basi agli americani e, in secundis, alla NATO, l’Italia ha costruito la

sua partecipazione alla difesa collettiva atlantica, consentendosi

102

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 57-59.

93

bilanci della difesa alquanto scarni e prendendosi anche alcune libertà

in politica estera103

.

In effetti, le basi militari alleate in Italia sono sempre state

oggetto di polemiche, soprattutto sul versante interno, senza peraltro

che si riuscisse mai a pervenire a un dibattito serio sulle medesime,

vale a dire non condizionato da valutazioni ideologiche preconcette.

103

Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di

Geopolitica, n. 4, 1999, p. 27.

94

TABELLA 1: Le basi e i comandi NATO e USA in Italia 104

Come ha notato Alfonso Desiderio, la contrapposizione politica e

ideologica tra i fautori del blocco occidentale e i loro avversari ha

provocato uno scontro fondato su considerazioni che poco avevano a

che fare con altri aspetti, molti dei quali sono rimasti colpevolmente

104

Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di

Geopolitica, n. 4, 1999, p. 31.

95

sottorappresentati, a cominciare dagli accordi che regolano l’impiego

delle basi stesse.

TABELLA 2: I comandi e le infrastrutture NATO in Italia 105

Per poter fare un minimo di chiarezza su tale questione, occorre

ricordare che, nei primi anni del dopoguerra, i rapporti di alleanza

politica e militare vennero sviluppati su due piani strettamente

105

Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di

Geopolitica, n. 4, 1999, p. 33.

96

correlati, vale a dire quelli tra Italia e Stati Uniti e quelli tra Italia e

NATO.

Se si guarda agli aspetti puramente formali, è lo stesso Trattato

del Nord Atlantico a costituire lo sfondo su cui si inserisce tutta questa

tematica. Tuttavia, non si deve dimenticare che il 27 gennaio 1950

venne firmato l’accordo bilaterale Stati Uniti – Italia sull’assistenza

difensiva reciproca (Accordo di Washington), mentre il 7 gennaio

1952 venne stipulata l’intesa bilaterale sulla sicurezza reciproca

(Accordo di Roma). Nel fare queste scelte, la presidenza degli Stati

Uniti agì nel quadro del Mutual Defense Assistance Act del 1949 e dei

Mutual Security Acts del 1951, i quali autorizzavano il capo

dell’esecutivo a stipulare accordi bilaterali specifici con ciascuna delle

nazioni facenti parte di patti militari regionali, sia in forma singola sia

in forma associata. Naturalmente, per poter aspirare a tale condizione,

le nazioni firmatarie dovevano essere considerate dagli USA

”meritevoli” di assistenza militare, nel loro interesse oppure in quello

di Washington106

. L’accordo di Roma, in particolare, impegna la

Repubblica italiana a «dare, compatibilmente con la sua stabilità

politica ed economica, il pieno contributo consentito dalla sua

manodopera, dalle sue risorse, dai suoi mezzi e condizioni generali

economiche, allo sviluppo e al mantenimento della propria forza

difensiva e alla forza difensiva del mondo libero»107

106

Giovanni Motzo, “Regime giuridico delle basi militari Nato e degli altri Stati nel territorio

nazionale”, in AA.VV., Le basi militari della Nato e di Paesi esteri in Italia, Camera dei Deputati,

Roma, 1990, p. 30. 107

Ibidem. Da notare come, nel testo originale inglese dell’accordo, vengano utilizzati i termini

facilities e infrastructures, che starebbero a indicare basi e installazioni, cioè qualcosa di

profondamente diverso dall’espressione “mezzi economici” che viene impiegata nel testo italiano.

A tale proposito, Alfonso Desiderio sottolinea che, più che di un’imprecisione, la quale, sotto il

profilo strettamente linguistico, sarebbe risultata sorprendentemente grave, si sia preferito, in

97

Sulla base dei trattati sopracitati, il 20 ottobre 1954 Italia e Stati Uniti

conclusero un accordo quadro della massima segretezza, che

disciplinava, a livello bilaterale, le basi e le infrastrutture concesse in

uso agli americani sul territorio italiano. La rivendicata peculiarità

della segretezza di questa intesa fece sì che esso non venisse

sottoposto a ratifica parlamentare, dato che lo si considerava un

accordo di semplice natura tecnica, come tale legittimato dai

precedenti accordi ratificati dal Parlamento italiano.

Tale accordo rappresenta la chiave di volta della presenza

militare statunitense in Italia e può essere considerato la principale

intesa di questo tipo che sia mai stata stipulata tra i due Paesi.

Nel 1999, la rivista “Limes” ha rivelato l’elenco completo delle

installazioni citate in tale intesa, così articolato:

Basi aeree: zona di Udine, Montichiari, Aviano, San Vito dei

Normanni, Amendola, Decimomannu, più il complesso di

installazioni di Napoli (compreso l’uso degli aeroporti di

Capodichino e Pozzuoli).

Basi navali: La Maddalena (sommergibili), Augusta, Sigonella

(base aeronavale), con appoggio a Catania.

Caserme e strutture tecnico-logistiche: Camp Darby (vicino

Livorno), Treviso, Ciampino, Verona e Venezia.

In particolare, in riferimento allo status delle basi concesse in uso

agli americani, l’accordo segreto del 1954 regola l’impiego delle

installazioni e i rapporti tra i militari dei due eserciti.

Italia, minimizzare il significato dell’accordo, in vista della sua ratifica ed esecuzione, per le più

volte citate ragioni di ordine politico interno.

98

In effetti, all’art. 2 esso obbliga gli USA ad avvalersi delle basi

«nello spirito e nel quadro della collaborazione atlantica, di

utilizzarle per assolvere gli impegni NATO e, in ogni caso, a non

servirsi delle dette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni

NATO o accordi con il governo italiano».108

Per quanto concerne invece il comando, l’art. 4 precisa che «le

installazioni sono poste sotto comando italiano e i comandi USA

detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni»109

.

Analogamente ad altri accordi concernenti le installazioni militari

presenti in altri Paesi europei, le basi sono italiane e sottoposte a

sovranità e controllo italiani e i militari alleati devono rendere conto,

almeno formalmente, del loro operato.

Gli accordi in questione, inoltre, non prevedono una scadenza,

ma naturalmente sono suscettibili di modifiche su richiesta di una

delle due parti coinvolte.

108

Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”…., cit., p. 32. 109

Ibidem, p. 32.

99

TABELLA 3: Installazioni concesse in uso agli Stati Uniti 110

Per quanto concerne le installazioni più prettamente definibili

come atlantiche, esse sono regolate dagli accordi dell’Alleanza. Non si

può tuttavia dimenticare il fatto che spesso la medesima località ospita

al tempo stesso strutture USA e NATO.

110 Sergio Romano, “Rinegoziamo le basi americane”, in Limes – Rivista italiana di Geopolitica,

n. 4, 1999, p. 251.

100

Tutte queste sovrapposizioni hanno fatto sì che sia frequente la

confusione tra basi NATO e USA, ma in realtà si tratta di una

differenza per lo più formale, poiché anche l’attività delle basi

americane e delle forze in esse stanziate, rientra nel dispositivo di

difesa integrato atlantico.

Tutto ciò non crea problemi di status, nel caso di operazioni

dell’Alleanza, ma ne crea nel caso in cui si tratti di operazioni militari

portate avanti dai soli Stati Uniti, senza l’avallo della NATO. In tale

eventualità, peraltro, gli accordi esistenti prevedono che il governo

americano chieda l’assenso di quello italiano. Non sono stati pochi,

nel periodo oggetto del presente studio (1949-1989), i momenti in cui

le autorità di Roma hanno negato tale assenso, ad esempio durante la

guerra arabo-israeliana del Kippur del 1973 (quando gli americani

chiesero di poter utilizzare le loro basi in territorio italiano per poter

rifornire Israele), nel caso dell’incidente di Sigonella (ottobre 1985) e

in quello del raid americano contro la Libia del marzo-aprile 1986.

Com’è ovvio, il ruolo strategico delle basi italiane – USA o

NATO che possano essere – è cambiato nel corso del tempo e sono

conseguentemente mutati anche numero e caratteristiche delle

installazioni alleate.

Nella prima fase della “Guerra Fredda”, ad esempio, l’Italia

aveva per l’Alleanza una grande importanza geopolitica, in quanto il

suo ruolo era quello di un Paese di frontiera. Sul piano più

strettamente militare, per contro, l’importanza delle installazioni

militari presenti in territorio italiano era più limitata, in quanto,

essendo particolarmente esposte, tali basi erano considerate alquanto a

101

rischio e quindi non ospitavano contingenti significativi e in genere

non permanenti. Più importanti, per contro, erano le installazioni

navali e aeronavali situate nel Meridione e nel mar Tirreno111

.

In una fase successiva, in particolare nel corso degli anni Ottanta,

l’Italia ha continuato ad essere un Paese di frontiera, ma ha potuto

avvantaggiarsi del mutamento della situazione generale e di alcune

scelte politico-strategiche fondamentali, come la decisione di ospitare

i missili PERSHING e CRUISE sul territorio nazionale, presa più o

meno in contemporanea con decisioni in senso avverso assunte invece

dal governo greco e da quello spagnolo. In tal modo, l’Italia è

diventata il principale caposaldo degli USA e della NATO nel

Mediterraneo112

.

Una volta che sia stata affermata, almeno dal punto di vista

formale, la sovranità e il controllo dello Stato italiano sulle basi alleate

poste all’interno del suo territorio, due casi importanti e noti possono

aiutarci a comprendere come sia regolato, in concreto, il rapporto tra

Italia e Stati Uniti su tale delicata materia:

- L’incidente di Sigonella

Nel 1985, il sequestro della nave da crociera Achille Lauro in acque

egiziane da parte di terroristi palestinesi, si concluse con un accordo

che prevedeva la liberazione degli ostaggi e la concessione di un

salvacondotto ai sequestratori. Dopo poco, tuttavia, si venne ad

apprendere che un passeggero americano di origine ebraica era stato

ucciso dai terroristi nel corso dell’azione. A seguito di tale scoperta,

alcuni caccia americani costrinsero l’aereo egiziano su cui stavano

111

Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”…., cit., p.34 sg. 112

Ibidem, p. 36

102

fuggendo i terroristi ad atterrare nella base di Sigonella, in Sicilia, con

l’intenzione di trasferirli negli USA. L’Italia, che aveva la

giurisdizione sulla Achille Lauro, in quanto la nave era considerata

territorio italiano in base al diritto internazionale, arrestò i dirottatori,

ma lasciò andare via Abu Abbas, considerato dagli americani

l’ideatore del sequestro, pur essendo egli rimasto estraneo

all’operazione vera e propria. Nella base di Sigonella, inoltre, si arrivò

quasi a sfiorare lo scontro tra gli uomini della Delta Force statunitense

e i soldati italiani.

Stupisce, in questo contesto, la meraviglia provata dagli

americani di fronte a un comportamento italiano non arrendevole a cui

non erano in alcun modo abituati. Questa considerazione è ad un

tempo singolare e inquietante: singolare in quanto conferma ciò che è

da sempre fin troppo noto, vale a dire che gli Stati Uniti hanno sempre

considerato la NATO un’alleanza tra una potenza dominante e una

serie di Stati satelliti, alcuni dei quali, peraltro, hanno saputo

interpretare, almeno per certi periodi come nel caso della Francia, un

ruolo relativamente autonomo, mentre altri come appunto l’Italia, si

sono spesso dimostrati supinamente proni alle direttive di

Washington. Inquietante perché un’alleanza, concepita in questi

termini, non può essere definita come tale, ma può e diremmo deve

essere intesa come un “patto leonino”, totalmente squilibrato in favore

della potenza egemone, la quale, molto spesso, non si è nemmeno

troppo preoccupata di far vedere, almeno formalmente, che teneva

conto delle opinioni dei propri alleati/sudditi; in una parola, non si è

nemmeno preoccupata di soddisfare elementari esigenze di immagine.

103

- La base dei sottomarini nucleari a La Maddalena

Nell’aprile del 1972, alla vigilia della firma del trattato USA-URSS

sulla limitazione delle armi strategiche (SALT – Strategic Arms

Limitation Treaty), il governo italiano concesse infine agli Stati Uniti,

con accordo segreto, una base di appoggio nell’isola di Santo Stefano

(arcipelago de La Maddalena), riservata ai sommergibili nucleari

d’attacco della VI Flotta USA. Dopo anni di polemiche pacifiste e

ambientaliste sul ruolo di tale base, nell’aprile 1990 gli Stati Uniti

decisero di rinunciare alla medesima113

, probabilmente consapevoli

del fatto che, conclusa la “Guerra Fredda” con il loro incondizionato

successo, mantenere una base come quella faceva, sul piano

comunicativo, più danno di quanto non potesse invece apportare dei

vantaggi politici e strategici.

3.4. Le armi nucleari americane in Italia: funzioni e polemiche

Nei primi anni di vita della NATO, gli europei non erano in

grado di raggiungere gli obiettivi di forza fissati dai vertici

dell’Alleanza, in quanto ciò avrebbe comportato, da un lato, di

rinunciare alla ricostruzione economica e materiale postbellica e,

dall’altro, di doversi accollare costi sociali ed economici di entità tale

da non poter essere sopportati, in quel periodo. Si decise quindi di

compensare l’insufficienza delle forze convenzionali utilizzando le

armi nucleari non più solo come strumento politico di dissuasione, ma

anche come potenza di fuoco tattica. Ciò avvenne a partire

dall’ottobre 1953 e i vertici della NATO ne autorizzarono il “first use”

113

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 65.

104

(vale a dire l’impiego prima che le utilizzassero i sovietici) nel

dicembre 1955, prendendo come pretesto la costituzione, da parte

sovietica, del Patto di Varsavia, vale a dire l’alleanza politico-militare

dei Paesi europei facenti parte del blocco comunista, nata proprio per

fare il verso e al tempo stesso contrastare la NATO.

Tra le disposizioni stabilite all’interno dell’Alleanza per quanto

concerne la questione nucleare, ricordiamo l’istituzione di una serie di

misure di consultazione specifiche e la creazione del “Gruppo di

pianificazione nucleare”, accompagnato dalla ripartizione della

collocazione di armi nucleari americane in sette Paesi diversi della

NATO (Gran Bretagna, Germania, Italia, Turchia, Paesi Bassi, Belgio

e Grecia). Così, nella riunione del Consiglio Atlantico del 16-19

dicembre 1957, in risposta al lancio dello Sputnik, che dimostrava la

capacità sovietica di disporre di vettori nucleari, fu decisa

l’installazione in territorio italiano, nella base pugliese di Gioia del

Colle, di un sistema di 30 missili balistici a medio raggio

JUPITER114

. Tali missili saranno poi ritirati nel 1963, nel clima di

distensione apertosi tra le due superpotenze dopo la gravissima crisi di

Cuba dell’anno precedente, che aveva davvero portato il mondo

sull’orlo di una guerra nucleare.

Tali armi, inoltre, sono state divise in due categorie,

impropriamente dette “a doppia chiave” e “a chiave singola”.

Per armi “a doppia chiave” si intendono tutte le armi nucleari

americane che siano, in linea di principio, destinate a sistemi di lancio

del Paese alleato e gestite da uomini del Paese alleato stesso, mentre

114

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 39.

105

per armi “a chiave singola” si intendono armi nucleari americane

destinate sempre e soltanto a sistemi di lancio USA115

.

Fin dall’inizio, tuttavia, queste disposizioni non hanno potuto

eliminare le perplessità in merito alla credibilità della difesa nucleare

americana nei Paesi europei e tanto meno i dubbi su una possibile

decisione unilaterale americana di scatenare un conflitto in Europa. In

effetti, non poteva essere certo che gli americani avrebbero attivato

automaticamente il fuoco nucleare in risposta ad un attacco sovietico,

in quanto diverse avrebbero potuto essere le considerazioni che

avrebbero ispirato la condotta della loro dirigenza politica. In linea di

massima, era del tutto evidente che Washington aveva tutto l’interesse

a mantenere una solida testa di ponte in Europa, in quanto una

soluzione del genere avrebbe tenuto le forze sovietiche il più lontano

possibile dal territorio statunitense, ma, al tempo stesso, avrebbe

privato gli alleati europei di qualsiasi potere decisionale reale in tema

di impiego di armi nucleari, per le quali la decisione ultima rimaneva

strettamente riservata al Pentagono e alla Casa Bianca.

I primi sistemi di lancio nucleari americani vennero installati in

Europa nel 1953 (si trattava di cannoni da 280 mm). Da allora, si è

proceduto ad introdurre in servizio un gran numero di armi nucleari

statunitensi, che hanno raggiunto il loro massimo storico a metà degli

anni Sessanta, con un totale di oltre 7.000 ordigni. Nel 1983, poco

prima dell’installazione dei cosiddetti euromissili (cioè dei missili a

medio raggio PERSHING II e CRUISE), le armi nucleari tattiche

115

Paolo Cotta Ramusino – Maurizio Martellini, “L’atomica in casa: a che ci servono le bombe”,

in Limes – Rivista italiana di Geopolitica, n. 4, 1999, p. 45.

106

ammontavano a un totale di 5.845, di cui solo 1.950 “a doppia

chiave”.

Negli anni Sessanta e Settanta erano presenti in Italia circa 1.000

delle circa 7.500 testate nucleari americane esistenti in Europa. Nel

dicembre 1979 la NATO decise il ritiro unilaterale di 1.000 testate,

mentre nel 1983 decise un successivo ritiro di altre 1.400 testate di

tipo obsoleto, che avrebbe avuto luogo nei 5-6 anni successivi.

Nel 1985 restavano in Italia oltre 500 testate, così ripartite:

250 bombe a caduta libera B-61 (di cui 50 destinate ad essere

installate a bordo di velivoli TORNADO italiani);

70 testate per i missili superficie-aria SAM (Surface Air Missile)

NIKE HERCULES;

50 testate W-70 per i missili LANCE;

40 granate da 203 mm e 15 da 155 mm;

22 ADM (Atomic Demolition Munitions);

63 bombe B-57 per i SUBROC (di cui 20 per vettori italiani).

Non bisogna poi dimenticare che nel 1986-88 furono stoccati a

Santo Stefano (La Maddalena) 90 missili da crociera TOMAHAWK

lanciabili da sottomarino SLCM (Submarine Launched Cruise

Missile) e a Comiso 112 di questi missili in versione terrestre GLCM

(Ground Launched Cruise Missile), con relative testate atomiche116

.

Nel corso della seconda metà degli anni Ottanta, cioè alla fine del

periodo oggetto della presente trattazione, a seguito del progressivo

modificarsi del clima politico tra i due blocchi, il numero di armi e

forze nucleari americane presenti in Europa si ridusse rapidamente e

116

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 68.

107

l’accordo INF (Intermediate Nuclear Forces) del 1987 fece uscire di

scena gli euromissili appena installati in alcuni Paesi del Vecchio

Continente117

.

La struttura che regola la presenza delle armi nucleari americane

nei Paesi NATO è complessa. In primo luogo esistono accordi per la

cooperazione nell’impiego dell’energia atomica a scopo di reciproca

difesa, firmati dagli USA e da ciascun Stato membro dell’Alleanza. Si

tratta di accordi-quadro bilaterali di pubblico dominio (stipulati negli

anni 1955 e 1962), che stabiliscono il contesto per gli accordi

bilaterali segreti. Questi comprendono un “Programma di

cooperazione”, il quale definisce le regole relative all’addestramento

delle forze militari e all’installazione delle armi nucleari sul territorio

dei Paesi ospitanti e un accordo che riguarda la collocazione, la

responsabilità e la divisione dei costi dei depositi nucleari. Questa

articolazione risale ai primi anni Sessanta e non è noto se e come sia

stata modificata, ma è del tutto evidente che qualsiasi modifica

richiede un consenso multilaterale o quanto meno bilaterale, nel caso

in cui sia coinvolto un solo Paese, oltre agli Stati Uniti, il che rende il

tutto assai poco flessibile118

.

A sua volta, l’accordo bilaterale di Roma del 3 dicembre 1960

(contenente due annessi segreti) disciplinò la cooperazione con gli

USA nel campo dell’impiego dell’energia atomica a scopo di

reciproca difesa. Esso prevedeva una comunicazione congiunta

contenente le relative norme di sicurezza nazionali, nonché la

comunicazione e/o lo scambio delle informazioni ritenute necessarie

117

Paolo Cotta Ramusino – Maurizio Martellini, L’atomica in casa…., cit., p. 45. 118

Ibidem, p. 46.

108

per lo sviluppo dei piani di difesa, l’addestramento del personale

all’impiego delle armi e alla difesa NBC (Nucleare Batteriologica

Chimica) e la valutazione della minaccia atomica potenziale. Si

parlava informalmente anche di “doppia chiave”, in quanto,

nell’eventualità di un impiego, occorreva montare le testate nucleari

americane sui missili a medio raggio italiani IRBM (Intermediate

Range Ballistic Missile) o depositare le ADM (Atomic Demolition

Munitions) in siti vigilati da forze italiane. Tuttavia, gli americani

avevano in ogni caso in territorio italiano anche propri vettori aerei,

terrestri e subacquei a corto raggio ed erano quindi in grado di

utilizzare gli altri tipi di munizioni nucleari presenti in territorio

nazionale anche senza il consenso del governo di Roma119

.

Nel novembre 1983, dopo l’installazione degli euromissili a

Comiso, vennero introdotti in servizio i primi missili CRUISE, che

peraltro, a seguito del mutato clima politico internazionale, vennero

mantenuti in loco solo per un quinquennio.

Com’è noto, la presenza di armi nucleari statunitensi in territorio

italiano è sempre stato un tema oggetto di vivacissime controversie.

Per comprendere appieno l’atteggiamento degli italiani nei riguardi di

tale tema, occorre fare necessariamente riferimento alla più generale

questione dell’opinione degli italiani sulle armi nucleari.

Un atteggiamento molto diffuso nell’opinione pubblica italiana,

infatti, è sempre stata l’avversione nei riguardi di tale tipologia di

ordigni. Nell’ottobre del 1954, dunque agli albori della “Guerra

Fredda”, addirittura una schiacciante maggioranza dell’84% riteneva

119

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 69.

109

che non bisognasse mai usare le armi nucleari, mentre appena il 9%

ammetteva il second use (vale a dire il loro impiego come

rappresaglia, a seguito di un first use da parte del nemico) e infine solo

un modestissimo 7% ammetteva il first use, ma, anche in quel caso,

solo nell’eventualità di una sconfitta a livello di forze convenzionali.

Più significativo, semmai, può essere notare che l’opposizione

assoluta all’impiego delle armi nucleari scese con il passare del

tempo, tanto che si era ridotta al 55% circa nel 1962-63, mentre negli

anni Ottanta oscillava fra il 39 e il 45%120

.

Gli italiani erano convinti che la NATO avesse adottato il

principio del no first use e della dissuasione selettiva (cioè del ricorso

al nucleare solo nel caso dell’impiego del medesimo da parte del

nemico). In effetti, il ricorso al second use raccoglieva il consenso di

una quota variabile tra il 28 e il 44%, mentre solo una ristretta

minoranza (variabile fra il 2 e il 7%) ammetteva il first use. Tale quota

arrivò a raddoppiare, fino a toccare il 14%, nel 1981-82, per effetto

del dibattito sugli Euromissili, mentre gli oppositori si divisero a metà

fra il no firt use e opposizione assoluta (entrambi al 38-42%).

Molto importante è anche sottolineare che, sul tema, era diffusa,

nel Paese, la più completa disinformazione. Nel 1981-82, ad esempio,

solo una quota compresa fra il 25 e il 37% degli italiani sapeva che

l’Unione Sovietica era in grado di schierare in territorio europeo armi

nucleari a medio raggio INF (Intermediate Nuclear Forces), mentre la

NATO non lo era. Il 45-48%, dal canto suo, pensava che ne

disponessero entrambi i blocchi. Il 6-7% pensava che tali forze non

120

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 70 sg.

110

fossero disponibili né per la NATO né per il Patto di Varsavia e una

quota compresa fra il 14 e il 20% era addirittura dell’idea che solo la

NATO potesse contare su tali ordigni121

.

Quando, in occasione dell’installazione da parte della NATO

degli euromissili in territorio europeo, ci fu una notevole

mobilitazione pacifista contro i medesimi, l’opposizione

incondizionata al loro schieramento oscillò fra il 40 e il 54%.

Nel 1983, quando venne raggiunto il culmine della mobilitazione

pacifista, l’opposizione incondizionata allo schieramento degli

euromissili arrivò a coinvolgere il 76% di quanti si dichiaravano

comunisti e il 54% dei socialisti.

Non bisogna infine dimenticare che l’adesione italiana alla

NATO bloccò di fatto qualsiasi ambizione del nostro Paese a dotarsi

di armi nucleari. Sotto questo profilo, la politica italiana risultò molto

allineata – pressoché costantemente – a quella americana e ciò non

giovò granché alla nostra autosufficienza, ma rappresentò una costante

degli orientamenti italiani.

Al tempo stesso, occorre ricordare che venne comunque fatto

qualche tentativo di stringere la collaborazione con gli Stati Uniti e la

NATO anche in campo nucleare, dal momento che nel 1963

l’incrociatore GARIBALDI venne trasformato in unità lanciamissili e

posto in grado di lanciare missili americani POLARIS. Un’unità del

genere avrebbe dovuto essere inserita all’interno di una forza

multilaterale atlantica, dotata di capacità nucleari122

, ma alla fine il

progetto venne lasciato cadere.

121

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 71. 122

Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane…., cit., p. 217.

111

3.5. Il complesso militar-industriale italiano e la NATO

Una volta che l’Italia ebbe aderito all’Alleanza Atlantica, la

principale preoccupazione degli Stati Uniti fu quella di fornire aiuti

militari al nostro Paese, aiuti che erano indispensabili se si voleva

garantire la ricostruzione delle Forze Armate in un momento in cui la

ricostruzione postbellica poneva priorità decisamente più urgenti.

Tuttavia, accettare tali aiuti rendeva ovviamente l’Italia più esposta

alle pressioni statunitensi, in particolare a quelle che chiedevano un

incremento del bilancio della Difesa, un’esigenza ritenuta prioritaria a

Washington e che l’Italia soddisfece nel 1951, impegnandosi al varo

di un “piano quadriennale di riarmo”.

L’industria militare nazionale, dal canto suo, uscì dal secondo

conflitto mondiale di fatto azzerata, non solo per le distruzioni

materiali e la stasi delle commesse, ma soprattutto per l’enorme gap

tecnologico ormai accumulato nei riguardi dei principali Paesi

occidentali.

Essa venne gradualmente ricostituita nel corso degli anni

Cinquanta, esclusivamente grazie alle commesse imputabili al riarmo

delle Forze Armate italiane voluto dall’Alleanza Atlantica e, in

particolare, a quelle provenienti dall’estero (stimate in 500 milioni di

dollari), che consentirono di acquisire tecnologia e ripristinare

strutture produttive moderne. Già nel 1949, ad esempio, la De

Havilland concesse alla Fiat e alla Macchi la licenza per la costruzione

di 150 aerei da caccia VAMPIRE123

.

123

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 30.

112

Negli anni Sessanta, il comparto Difesa italiano poté consolidarsi

grazie alla cooperazione internazionale, più con gli Stati Uniti e con la

NATO, che con i Paesi e i consorzi europei.

L’acquisizione di tecnologia ebbe anche ricadute dirette o

indirette sulla capacità dell’industria italiana di sviluppare prodotti

completamente o prevalentemente nazionali. Tuttavia, se nel corso

degli anni Ottanta l’Italia poteva soddisfare in forma autonoma nove

decimi delle proprie esigenze militari, essa restava comunque

dipendente dalla cooperazione internazionale in tutti i settori a

tecnologia critica. Le stesse esportazioni furono complessivamente

limitate a tecnologie relativamente mature, competitive per la maggior

parte solo al di fuori dell’area NATO124

.

Occorre sottolineare che la cooperazione interalleata nel campo

degli armamenti si è svolta principalmente nel quadro della NATO,

anche se periodicamente si è cercato di sviluppare una cooperazione

esclusivamente europea al fine di controbilanciare la prevalenza

americana. Già nello stesso 1949, del resto, l’Alleanza Atlantica creò

un “Consiglio di rifornimenti e produzione militare”.

Significativa fu anche la collaborazione diretta fra l’industria per

la difesa italiana e quella statunitense, articolata in genere intorno alla

produzione su licenza di sistemi d’arma americani.

Le prime licenze di produzione postbelliche riguardarono i caccia

F-86K SABRE e F-84 THUNDERSTREAK (nel 1956, con il

coinvolgimento della Fiat), e l’elicottero BELL 47 (nel 1953, con il

coinvolgimento dell’Agusta).

124

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 267 sg.

113

Un consorzio di sei aziende (Fiat, Piaggio, Alfa Romeo, Macchi,

Siai Marchetti e Siai Ambrosini) partecipò anche al programma

NATO per il caccia notturno VENOM NF 2.

Nel giugno 1959 la Finmeccanica entrò nel programma NATO

per i missili HAWK e SIDEWINDER. L’anno successivo, una volta

ottenuto, non senza contrasti, un impegno di massima da parte

dell’Aeronautica, la Fiat aderì, quale capocommessa per l’Italia, al

consorzio europeo per la produzione di 977 caccia intercettori F-104

STARFIGHTER, da realizzare su licenza della compagnia americana

Lockheed, programma cui parteciparono anche Aermacchi, Aerfer,

Siai Marchetti, Alfa Romeo, Saca, Officine Aeronavali e Piaggio.

Nel giugno 1961 l’Italia si allineò alla posizione degli Stati Uniti,

i quali, temendo che intorno al progetto potesse formarsi un’industria

aeronautica europea che avrebbe potuto rivelarsi un temibile

concorrente, se fosse riuscita a sviluppare progressivamente un

elevato livello tecnologico, fecero dichiarare quello relativo all’F-104

STARFIGHTER un programma NATO, passandolo alle dipendenze

di un’apposita agenzia, la NASMO125

(NAto Starfighter Management

Organization). In cambio di tale atteggiamento, il governo italiano

ottenne uno sconto sui costi dei caccia che l’Italia si era impegnata a

produrre su licenza (in numero di 165)126

.

La partecipazione italiana alla costruzione degli F-104 garantì

non soltanto occupazione e profitti al settore, ma anche il fatto che

l’industria aerospaziale nazionale potesse cercare di colmare il divario

tecnologico che la divideva dalle maggiori industrie occidentali del

125

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 88. 126

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 280 sg.

114

settore, dato che si trattava di velivoli di concezione estremamente

avanzata127

.

Negli anni Sessanta, l’esigenza di ammodernare e potenziare le

forze convenzionali incentivò il processo di standardizzazione degli

armamenti in ambito atlantico. Tuttavia, man mano che il tempo

passava, si vide con sempre maggiore chiarezza che, all’interno della

NATO, le esigenze dell’industria per la difesa statunitense erano

sempre più in conflitto con quelle della sua omologa europea, che non

a caso stava cercando di sviluppare una propria autonomia.

Di conseguenza, all’interno dell’Alleanza permaneva una

situazione sbilanciata, che di fatto tutelava gli interessi USA, ma non

quelli degli altri Paesi. Da un lato, Washington premeva al fine di

imporre agli alleati una crescente standardizzazione degli armamenti

e, certo non casualmente, dall’altro intendeva incentrare tale

standardizzazione sui sistemi d’arma di produzione statunitense, non

sicuramente su quelli di produzione europea.

In tale atteggiamento c’era indiscutibilmente molto di vero, ma

c’era altresì il fatto che le spese del Pentagono per

l’approvvigionamento di nuovi sistemi d’arma erano due volte e

mezzo rispetto a quelle dei loro alleati europei, mentre le spese per

attività di Ricerca & Sviluppo, fondamentali nel campo dell’industria

per la difesa, in quanto gli armamenti devono essere rinnovati di

continuo e sottoposti a un costante processo di rinnovamento, erano

ben sei volte e mezzo superiori a quelle europee. Appare dunque

abbastanza normale che chi spendeva così tanto per lo sviluppo

127

Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit. p. 88.

115

tecnologico e industriale dei propri sistemi d’arma cercasse altresì di

venderli, quando non di imporli ai propri alleati, dal momento che

quello era uno dei modi più semplici per ripagarsi delle spese

sostenute.

Fu su questo sfondo che, a metà degli anni Settanta, il dibattito

interno all’Alleanza su un tema di così cruciale importanza portò alla

formulazione della proposta della cosiddetta “two-way street”, vale a

dire su un più equilibrato rapporto tra Europa e USA, all’interno della

NATO, di modo che non fosse soltanto l’industria per la difesa

statunitense a vendere sistemi d’arma agli alleati europei, ma anche

viceversa. Nel complesso, tuttavia, lo squilibrio nei rapporti USA-

Europa rimase, in questo campo, molto grave, intorno a 8 a 1 alla fine

degli anni Settanta128

.

Per quanto concerne più specificamente il nostro Paese, nel

settembre 1978 venne sottoscritto un Memorandum d’intesa

(Memorandum Of Understanding – MOU) con gli USA, per il

miglioramento degli scambi reciproci, ma quella che continuava a

rimanere significativa era la modestia del ruolo che l’Italia svolgeva

nel contesto della cooperazione militare transatlantica. Il nostro Paese,

infatti, a metà degli anni Ottanta risultava coinvolto solo a 9 dei 26

programmi statunitensi che rispondevano ai requisiti NATO e a 12 dei

36 equipaggiamenti americani in corso di acquisto o sviluppo da parte

degli alleati, il che sta a significare che, nell’insieme, la sua

partecipazione non era superiore a un terzo del totale. Inoltre essa

partecipava solo a 8 delle 21 coproduzioni o cosviluppi, mentre ad

128

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 282-286.

116

esempio la Germania era presente in 16 e la Gran Bretagna in 14.

Altra nota dolente era rappresentata dal fatto che l’Italia era presente

in solo 1 dei 23 programmi europei acquisiti dal Dipartimento della

Difesa USA, quello relativo all’acquisto di 316.000 pistole Beretta,

per cui l’industria militare nazionale non riusciva a vendere alcun

sistema d’arma, a parte uno, al proprio più potente alleato.

Anche negli anni Ottanta gli Stati Uniti vararono diverse

iniziative per migliorare la collaborazione interatlantica nel campo

dell’industria per la difesa. A parte vari programmi sviluppatisi in

ambito convenzionale, l’iniziativa più rilevante fu quella del marzo

1985, quando Washington offrì agli alleati europei di partecipare alla

Iniziativa di Difesa Strategica (Strategic Defense Initiative - SDI)

voluta dalla presidenza Reagan, con la quale si intendeva rendere

inutile e obsoleto l’arsenale nucleare sovietico, allestendo un sistema

di difesa missilistico nello spazio che avrebbe impedito all’URSS di

colpire gli USA, sia con un attacco nucleare diretto (dunque un first

strike), sia con una rappresaglia (second strike). L’adesione italiana al

progetto, per quanto sofferta e contrastata per ragioni essenzialmente

politiche (la SDI non era infatti un’iniziativa difensiva e di fatto

violava il trattato ABM129

), non mancò di arrivare, ma alla fine

l’intendimento degli americani di far partecipare gli europei a un

programma di tale natura si rivelò più formale che effettivo130

.Troppo

di punta e segrete, infatti, erano le tecnologie coinvolte nel

129

ABM è l’acronimo di Anti-Ballistic Missile treaty, vale a dire il trattato, firmato nel 1972, che

si proponeva di limitare lo sviluppo di sistemi antimissile. 130

Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 290-292.

117

programma, per cui le aziende europee, nel complesso, non andarono

al di là di vedersi affidare un ruolo principalmente di facciata.

Negli anni Ottanta, l’Italia era interessata a 9 dei 29 Progetti

tecnologici di cooperazione sviluppati in ambito atlantico e a 80

programmi di Ricerca & Sviluppo o di produzione su scala bi o

multilaterale. I principali programmi multilaterali riguardavano i

caccia TORNADO ed EFA (European Fighter Aircraft), l’obice

semovente SP-70, l’elicottero NH-90 e la fregata NFR-90131

.

In questo campo, in definitiva, il quadro complessivo è ricco di

luci e ombre, in quanto non c’è dubbio che, da un lato, gli aiuti

militari statunitensi e le produzioni su licenza contribuirono alla

rinascita dell’industria per la difesa italiana, dopo i disastri del

secondo conflitto mondiale, ma, dall’altro, frapposero non pochi

ostacoli allo sviluppo di produzioni tecnologiche realmente nazionali

e, ancor più, ad una cooperazione europea che potesse fare in qualche

modo ombra alla loro industria militare.

131

Ibidem, p. 288 sg.

118

CONCLUSIONE

La storia della partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica, nel

quarantennio che va dal 1949 al 1989, è una storia controversa,

difficile, aperta alle interpretazioni più diverse.

Se cominciamo ad occuparci della scelta atlantica, possiamo dire

che, nelle condizioni che si erano determinate nel continente europeo

nell’ultimo biennio della seconda guerra mondiale, l’Italia, occupata

militarmente dagli alleati anglo-americani, dalla Sicilia a Bolzano e

Trieste, era inevitabilmente destinata a fare parte dello schieramento

occidentale. In effetti, la spartizione territoriale tra gli Alleati in

Europa era avvenuta in base al principio uti possidetis, per cui le forze

sovietiche avevano fatto entrare nella sfera di pertinenza di Mosca

tutti i Paesi che l’Armata Rossa era riuscita ad occupare nella sua

spinta da est verso il cuore della Germania, mentre, partendo da

occidente, gli alleati anglo-americani avevano fatto altrettanto.

Prima ancora che politicamente, quindi, l’Italia venne orientata

verso la scelta atlantica dagli assetti strategici scaturiti dalla Seconda

guerra mondiale.

Questa fu la scelta di fondo, ma appare difficile poter dire che fu

una scelta autonoma. Pare più corretto poter dire che fu eterodiretta e

al tempo stesso necessitata e necessaria. Eterodiretta in quanto si trattò

di una scelta avvenuta per cooptazione, dunque in larga misura

imposta dagli USA; necessitata e necessaria in quanto, stanti le

situazioni esistenti sul versante politico interno, con un blocco di

Sinistra appena poco più debole, numericamente, di quello moderato,

119

la classe politica democristiana non aveva soluzioni politiche

praticabili eccetto quella, anche se almeno una parte di essa avrebbe

preferito una scelta neutralista.

Una volta avvenuta l’adesione italiana alla NATO, si aprì una

diatriba destinata a durare in certe forme fino al 1989 e poi a

proseguire, con qualche mutamento, fino ad oggi. Il nostro Paese,

infatti, si è sempre diviso nettamente tra atlantisti e anti-atlantisti, ma,

mentre lo schieramento dei secondi è sempre risultato decisamente più

monolitico, in questo facilitato da una precisa scelta di campo, quello

dei primi si è sempre contraddistinto per numerose sfumature, da cui

emergono gli atlantisti convinti, quelli tiepidi, quelli per necessità, per

non parlare della nutrita schiera dei neutralisti, anch’essa divisa al

proprio interno tra i fautori di un neutralismo di stampo pacifista e

sostenitori di una forma di terzaforzismo molto attenta a cercare di

tutelare e promuovere soprattutto l’interesse nazionale.

Gli atlantisti convinti, per la verità, in Italia non paiono mai

essere stati troppi, in genere confinati allo schieramento

liberaldemocratico di più marcato orientamento filoamericano.

Gli atlantisti tiepidi sono sempre stati la maggioranza degli

atlantisti in Italia: gente che era favorevole alla NATO un po’ per

convinzione e un po’ per necessità, ma che in genere avrebbe sempre

preferito soluzioni politiche più blande, meno nette, tali non solo da

non costringerli a un confronto/scontro diretto con le Sinistre, ma

anche da consentire loro di “smarcarsi” dall’ossequio atlantico,

quando possibile e necessario, per andare alla ricerca di politiche più

120

autonome, non necessariamente neutraliste, ma spesso e volentieri

terzaforziste.

Per quanto concerne infine gli atlantisti per necessità, era

evidente che costoro non erano granché favorevoli, nel loro intimo,

all’Alleanza, ma non si ritenevano in grado di prospettare soluzioni

alternative credibili e dunque si attenevano alle direttive che venivano

da Washington e da Bruxelles.

A livello politico-strategico, appare difficile ipotizzare che sia

mai esistita, una reale contrapposizione tra scelta atlantica e scelta

europeista, in quanto la seconda, a parte alcune fiammate momentanee

e quanto meno fino al 1989, non si palesò mai come un’alternativa

credibile, ma rimase come un’opzione velleitaria che tutti gli europei

dicevano di apprezzare, ma che in realtà facevano ben poco per

concretizzare. Del resto, l’Europa occidentale del secondo dopoguerra

non aveva i mezzi economici e nemmeno la volontà politica per

costituirsi come potere autonomo e dunque la sua condizione di

subalternità rispetto agli Stati Uniti era palesemente totale. Né

migliorò particolarmente nei decenni seguenti.

Passando poi ad occuparmi del ruolo svolto dall’Italia nella

NATO a livello di politica estera, non si può fare a meno di notare

che, da un lato, tale ruolo venne generalmente ispirato al principio di

assecondare le direttive che provenivano dall’Alleanza e di farlo in

forma che potesse non solo non creare alcun tipo di attrito con gli

alleati, ma anche convincerli del fatto che l’Italia era un alleato serio

ed affidabile, un aspetto che essi erano in genere inclini a guardare

con un certo sospetto, sia perché l’Italia, durante il secondo conflitto

121

mondiale era stato un loro nemico, sia perché la tradizione italiana nel

campo della politica estera non era tale da suscitare particolari

entusiasmi, dal momento che era noto che il nostro Paese, nel corso di

tutta la sua storia e non solo di quella unitaria, raramente aveva

concluso guerre o alleanze dalla stessa parte in cui le aveva

cominciate.

L’Italia vedeva dunque appuntare su di sé una radicata diffidenza

e, per togliersela di dosso, non trovò di meglio che attenersi a una

passiva accettazione delle direttive atlantiche, passiva accettazione che

tuttavia, con il tempo, cominciò a tramutarsi nella ricerca di un ruolo

nazionale autonomo.

Si trattava di un’esigenza assolutamente legittima, ma si cercò di

soddisfarla nel peggiore dei modi possibili, vale a dire alternando fasi

di passività con fasi di velleitarismo indipendentista, che ebbero come

unica conseguenza quella di innervosire gli alleati. In entrambi i casi,

le autorità italiane esagerarono, sia nella passiva subordinazione alle

direttive alleate, sia nello sviluppare tentativi di politiche autonome

che si rivelarono sempre esempi di velleitarismo, in quanto non si

teneva conto che un Paese come l’Italia non disponeva né della

credibilità politica, né della forza economica, né degli strumenti

militari per potersi permettere, tanto all’interno del quadro atlantico

quanto soprattutto al di fuori del medesimo, linee politiche e

strategiche diverse da quelle volute dagli Alleati Atlantici.

Esisteva certamente una questione relativa all’integrazione tra

sicurezza atlantica e sicurezza nazionale, ma essa avrebbe potuto

cominciare ad essere migliorata, se non proprio risolta, attivandosi per

122

sviluppare nel Paese il concetto di interesse nazionale, l’unico che

avrebbe potuto raccogliere intorno a sé un significativo consenso,

invece nulla di tutto questo venne fatto e il tema dell’interesse

nazionale continuò a rimanere uno dei più secondari della politica

nazionale, in particolare di quella estera.

Nel contesto di un quadro politico e culturale così confuso, non

sorprende che si sia sviluppato sempre più il problema del

condizionamento politico, vale a dire una zona d’ombra in cui, mentre

era chiaro quale fosse lo schieramento anti-atlantico sul piano interno,

su quali forze potesse contare e a quali risorse potesse attingere, non

fu mai chiaro, per contro, quanto lo schieramento atlantico era

realmente tale per convinzione e quanto invece per convenienza e/o

necessità. Ciò che contribuì notevolmente a indebolirne la consistenza

e la credibilità politica.

Se questo era il fragile quadro di fondo, si comprende come

possa essere progressivamente cresciuto il ruolo dei servizi segreti e

delle strutture parallele; in effetti, se un Paese non riusciva a rimanere

all’interno dello schieramento atlantico per reale convinzione e per via

di una solida maggioranza politica, allora era comprensibile che,

stante la “Guerra Fredda” e le scelte di campo cui essa aveva costretto,

tale adesione fosse garantita anche per vie “indirette”, alcune delle

quali potevano essere reputate come francamente discutibili.

Non è questa la sede per soffermarci sui cosiddetti “misteri

d’Italia”, ma non c’è dubbio alcuno che una quota non indifferente di

essi possa e debba essere imputata a tali scelte controverse e a una

situazione politica e culturale interna divisa tra adesioni a blocchi

123

contrapposti. Se si accetta questa impostazione, non c’è dubbio che la

“Guerra Fredda” si manifestò non solo all’esterno, ma anche

all’interno dei confini nazionali italiani e non fu per nulla incruenta.

Su tutto si impone, come una questione tuttora aperta, quanto

talune strutture legate alla NATO abbiano influito sul mantenimento

di determinati equilibri politici interni, equilibri che dovevano essere

mantenuti così, in quanto alterarli avrebbe significato modificare la

posizione italiana all’interno dello schieramento atlantico. La

questione è di enorme portata e non può essere certo risolta all’interno

di questa tesi, ma sappiamo tutti che è esistita ed occorreva almeno

farvi cenno.

Per quanto concerne infine il ruolo atlantico dell’Italia in termini

di politica militare, ritengo si possa affermare che il versante militare

sia stato quello in cui sono stati compiuti i maggiori progressi, vale a

dire quello in cui più in profondità si è spinta la partecipazione italiana

all’Alleanza.

Difficile pensare che potesse essere diverso da così, in quanto, a

differenza dell’ambito politico, fosse esso di politica interna o di

politica estera poco importa, il versante militare fu quello dove meno

si manifestò una contrapposizione frontale tra atlantisti e anti-atlantisti

e dove invece si determinò un perfetto e maggioritario schieramento di

atlantisti.

I militari italiani, infatti, furono sempre atlantisti e lo furono

quasi costantemente nella loro totalità, dando conferma alla posizione

della Sinistra comunista, la quale, in base alla logica delle proprie

scelte di campo, aveva tutto interesse a presentare quella atlantica

124

come un’alleanza essenzialmente militare, poco politica e subalterna,

proprio in quanto militare, alle scelte strategiche degli Stati Uniti e del

Pentagono.

Questo aspetto non può essere sottovalutato, in quanto si

comprendono molte cose, a cominciare dalla totale integrazione delle

strutture militari nazionali in quelle atlantiche e naturalmente il non

meno totale inserimento delle Forze Armate italiane nelle strutture

NATO, tanto a livello di dottrine quanto di compiti.

Questo lavoro ha cercato di evidenziare come l’intero assetto

dell’apparato militare italiano dal 1949 in avanti sia stato concepito,

organizzato, strutturato e reso operativo al fine di fare delle Forze

Armate italiane il baluardo militare nella regione dell’Europa

meridionale, dove la “soglia di Gorizia” avrebbe dovuto essere difesa

allo stremo contro ogni minaccia di offensiva sovietica, lasciando

colpevolmente da parte, per contro, altre possibili opzioni, come

quella di una maggiore presenza italiana nel Mediterraneo, a difesa del

Fianco Sud della NATO, ma anche a tutela del proprio interesse

nazionale in un’area che stava diventando, anno dopo anno, di sempre

più cruciale importanza strategica.

Con queste premesse, la lunghissima polemica sulla natura delle

basi americane in Italia e del loro status, le controversie sulla difficoltà

a distinguere tra basi americane e basi NATO, gli accordi segreti

stipulati in tal senso tra i governi di Roma e di Washington, spesso al

di fuori e al di sopra delle intese atlantiche, costituiscono tutti fattori

soggetti ad interpretazioni meramente politiche, più che

auspicabilmente scientifiche.

125

Analoga affermazione è possibile in riferimento alle armi

nucleari presenti in territorio italiano, che in certi periodi raggiunsero

un numero assolutamente ragguardevole.

Anche in questo caso, non è facile discernere tra armi puramente

americane e armi NATO, dal momento che, per di più, le armi

americane avevano talvolta il “cappello” della NATO, ma sempre

americane e sotto diretto controllo statunitense restavano. Tale

situazione ha ovviamente dato origine a veementi polemiche e ha

ulteriormente complicato un quadro politico già di per sé assai

complesso, ulteriormente condizionato, tra l’altro, dalla radicalità

dell’ostilità al nucleare che il popolo italiano ha sempre dato prova di

nutrire, anche se non sempre parlandone con reale cognizione di causa

e adeguati supporti informativi.

In ultimo, mi sono soffermato sui rapporti tra il complesso

militar-industriale nazionale e la NATO, ben sapendo che tale

complesso ha svolto un ruolo di primo piano anche nel condizionare

certe scelte e nell’orientarle in una direzione piuttosto che in un’altra.

Non c’è dubbio, a questo riguardo, che il complesso militar-

industriale italiano strinse rapporti piuttosto stretti con i suoi omologhi

di altri Paesi e in particolar modo con quello americano, ma occorre al

tempo stesso rilevare che tali rapporti furono sempre rapporti di

oggettiva dipendenza industriale e tecnologica. Gli Stati Uniti, infatti,

si preoccuparono sempre di vendere agli alleati europei – Italia

compresa – le loro produzioni, ma non fecero mai alcuno sforzo serio

per coinvolgerla nello sviluppo di nuove tecnologie o di programmi

innovativi congiunti e neppure si dimostrarono molto favorevoli ad

126

aprire il mercato nazionale alle produzioni nazionali, se non in quella

ristretta misura indispensabile per metterli al riparo da spiacevoli

accuse di protezionismo.

Per concludere, quello che è possibile affermare è che l’Italia è

sempre stata un Paese la cui presenza all’interno della NATO è

risultata controversa, anche se molto più a livello politico che a livello

militare.

Il nostro Paese venne infatti cooptato nell’Alleanza Atlantica per

scelte strategiche solo in parte ascrivibili ad esso, ma che fu costretto

ad accettare obtorto collo per il successivo quarantennio oggetto di

questo studio, determinando delle contrapposizioni politiche sul piano

interno. Essendo la NATO stessa un’alleanza molto più militare che

politica, la nostra integrazione nel sistema risultò ancora più forte

della nostra integrazione politica generale, con squilibri che hanno

fatto sì che la storia della partecipazione italiana all’Alleanza

Atlantica sia stata, tra il 1949 e il 1989, particolarmente controversa.

Scopo di questa tesi è stato quello di mettere in evidenza

problemi e criticità, senza prendere particolari posizioni politiche, ma

cercando di mettere a confronto le tesi contrapposte. L’augurio è di

esserci riuscito.

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