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Università degli Studi di Pisa
Dipartimento di Civiltà e Forme del sapere
Corso di Laurea Magistrale in Storia e civiltà
L’Italia e la NATO dal 1949 al 1989
Relatore: Candidato:
Prof. Alessandro Polsi Dott. Roberto Pistoia
Anno Accademico 2012-2013
INDICE
INTRODUZIONE 1
CAPITOLO 1: La scelta atlantica
1.1. I primi anni del dopoguerra e la scelta occidentale 4
dell’Italia
1.2. Il Patto Atlantico e l’adesione italiana 13
1.3. Atlantismo e anti-atlantismo in Italia 16
1.4. Atlantismo e/o europeismo ? Opzioni convergenti 18
o divergenti ?
CAPITOLO 2: L’Italia nella NATO: politica estera
2.1. le politiche di allineamento alle direttive atlantiche 22
dal 1949 al 1989
2.2 La ricerca di un ruolo italiano autonomo 37
2.3. La difficile integrazione tra sicurezza atlantica 43
e sicurezza nazionale
2.4. Il problema del condizionamento politico: 51
atlantici per amore o per forza ?
2.5. Il ruolo dei servizi segreti e delle “strutture parallele” 58
CAPITOLO 3: L’Italia nella NATO: politica militare
3.1. L’integrazione delle strutture militari italiane 64
in quelle atlantiche
3.2. Le Forze Armate italiane nella NATO, 79
dottrine e compiti
3.3. Le basi americane in Italia e il loro status 91
3.4. Le armi nucleari americane in Italia: 103
funzione e polemiche
3.5. Il complesso militar-industriale italiano e la NATO 111
CONCLUSIONE 118
BIBLIOGRAFIA 127
SITOGRAFIA 130
1
INTRODUZIONE
Il presente lavoro è dedicato al complesso rapporto esistente tra
l’Italia e la NATO nel periodo che va dall’adesione del governo di
Roma all’alleanza (1949) al 1989, vale a dire alla fine della “Guerra
Fredda” in Europa, al collasso dell’Unione Sovietica e al crollo del
blocco comunista. Un periodo temporale della durata di un
quarantennio, nel corso del quale ha avuto luogo una trasformazione
epocale, dal momento che, quando l’Alleanza Atlantica venne
costituita, alla fine degli anni Quaranta, la minaccia sovietica che
gravava sull’Europa occidentale era incombente e si manifestava sia
con la presenza di un dispositivo militare convenzionale che sembrava
poter consentire a Mosca di conquistare in un batter d’occhio i pochi
Paesi che si frapponevano al suo affacciarsi nell’area mediterranea e
verso l’Atlantico, sia con la presenza, sul piano interno, di un forte
Partito comunista, in grado di condizionarne pesantemente le vicende
politiche, mentre, nel 1989, tutto questo si era invece risolto nel crollo
dell’URSS e del comunismo, dunque nel completo collasso
dell’avversario storico della NATO stessa.
La tesi è divisa in tre capitoli, di cui il primo è dedicato alla
scelta atlantica, vale a dire alla decisione del governo di Roma di
aderire alla NATO, una decisione che oggi appare scontata ma che,
all’epoca, non si dimostrò del tutto tale e provocò un vivace dibattito
interno, nonché profondi e significativi contrasti politici tra favorevoli
e contrari a quella scelta.
2
Il capitolo 2 procede invece oltre la fase iniziale e analizza, per
quanto sinteticamente, quello che è stato l’orientamento della politica
estera italiana durante i primi quarant’anni dell’appartenenza italiana
all’Alleanza Atlantica, con le difficili scelte tra l’allineamento alle
direttive NATO, la ricerca di un ruolo nazionale autonomo, la difficile
integrazione tra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale, il problema
del condizionamento politico e infine il ruolo dei servizi segreti e delle
“strutture parallele”, un aspetto che per molto tempo è rimasto
sconosciuto e ignorato, e che, quando infine è venuto alla luce, ha
conferito un’immagine diversa alla nostra partecipazione all’Alleanza
Atlantica.
Il capitolo 3 è quello più quantitativamente rilevante, in quanto
non è possibile condurre uno studio sulla partecipazione italiana alla
NATO senza soffermarsi sugli aspetti militari della medesima, che
sono i più importanti e, al tempo stesso, i meno conosciuti.
L’integrazione delle strutture militari italiane in quelle atlantiche,
infatti, non fu un processo rapidissimo, ma richiese tempo e impegno,
così come lo richiese l’inserimento delle nostre Forze Armate nella
NATO, con la definizione delle loro dottrine operative e dei compiti
da assolvere. Poi c’è la questione, a lungo oggetto di vivaci dibattiti e
forti controversie, delle basi americane in Italia e del loro status
giuridico. Poi ancora la vexata quaestio delle armi nucleari americane
presenti sul territorio italiano, del loro ruolo, del processo decisionale
inerente un loro eventuale impiego, e così via; tutte questioni che
hanno suscitato, nel corso del tempo, un diluvio di polemiche. In
ultimo, il problema dei rapporti, alquanto stretti e consolidati, tra il
3
complesso militar-industriale nazionale, che con il tempo si riprese
dalle distruzioni della guerra e divenne una realtà di non trascurabile
consistenza anche in ambito internazionale, e la NATO e le sue
esigenze.
La ricerca è completata da una conclusione, nella quale si tirano
le somme del lavoro svolto e si abbozzano delle valutazioni finali di
carattere personale, ed è corredato da una bibliografia, nella quale
sono elencate tutte le fonti, a stampa o elettroniche, alle quali mi sono
attinto per la stesura della tesi.
4
CAPITOLO 1
LA SCELTA ATLANTICA
1.1. I primi anni del dopoguerra e la scelta occidentale dell’Italia
Dopo la messa in minoranza di Mussolini al Gran Consiglio del
Fascismo del 25 luglio del 1943, il suo arresto avvenuto la sera stessa
e l’immediata nomina di un nuovo governo, con a capo il Maresciallo
d’Italia Pietro Badoglio, era chiaro che per l’Italia si apriva una fase di
transizione che nemmeno il proclama del nuovo capo del governo,
teso a sottolineare che “la guerra continua(va)”, poteva cercare di
negare. Era l’evidenza dei fatti a dire che Mussolini era stato messo in
minoranza dagli stessi gerarchi fascisti per cercare di trovare un modo
per fare sì che l’Italia uscisse dal conflitto prima che fosse troppo
tardi. Ed era già tardi, dal momento che gli Alleati anglo-americani
erano sbarcati il 10 luglio 1943 in Sicilia e stavano procedendo a una
rapida conquista di tutta l’isola, evidente anticipazione del loro
successivo attacco alla penisola ed al continente stesso.
In quelle condizioni di imminente disastro, l’uscita dell’Italia dal
conflitto, prima che fosse troppo tardi, era una priorità assoluta e la
sostituzione di Mussolini con Badoglio fu la classica “foglia di fico”
utilizzata per coprire uno sganciamento dall’alleanza con la Germania
che aveva bisogno di tempo per poter essere preparato. Purtroppo per
l’Italia nel suo complesso, tale sganciamento venne preparato male ed
eseguito peggio, e il tocco in più in senso negativo fu rappresentato
5
dalla vergognosa fuga, la notte tra l’8 e il 9 settembre 1943, dapprima
a Pescara e poi a Brindisi, del re e del capo del governo; decisione vile
e improvvida che lasciò le Forze Armate italiane prive di qualsiasi
ordine chiaro e le votò al collasso e allo sfascio1, provocando un
carico di perdite umane che si sarebbe potuto facilmente evitare e
determinando quella che Ernesto Galli Della Loggia ha
opportunamente definito come “la morte della Patria”2, vale a dire il
definitivo collasso della già sempre fragile struttura dell’edificio
nazionale unitario, con la relativa perdita di identità e di sentimento
nazionale.
Il periodo 1943-1949, in effetti, è stato un momento decisivo per
la società italiana, per le sue istituzioni e per i fondamenti stessi del
suo sistema politico. A parte la sconfitta militare, grave in sé e ancor
più grave per le modalità con cui maturò, la successiva guerra civile
tra partigiani e fascisti e la costituzione di due governi, uno al Nord (la
Repubblica Sociale Italiana – RSI) sotto la guida formale di
Mussolini, ma in realtà sotto stretto controllo dell’alleato/padrone
tedesco, e l’altro al Sud (quel che rimaneva del Regno d’Italia, con
sede a Brindisi, autonomo ma sotto stretto controllo Alleato), l’Italia
intera venne scossa da una tempesta che era frutto della disastrosa
sconfitta militare cui era andato incontro il fascismo, tempesta che
provocò conseguenze di varia natura, da quelle centrifughe,
indipendentistiche e scissionistiche (che si manifestarono, ad esempio,
in Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta), ai problemi di politica
1 Elena Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, il Mulino,
Bologna, 1998. 2 Ernesto Galli Della Loggia, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari, 1999.
6
internazionale (come la questione di Trieste, occupata dalle forze
partigiane di Tito nella fase finale della guerra e destinata a diventare
oggetto di una lunga ed estenuante trattativa tra Italia e Jugoslavia,
prima di essere risolta con un compromesso, cioè il Trattato di
Osimo3).
Anche le culture politiche presenti nel Paese, sebbene molte di
esse avessero solide radici nella storia nazionale e non potessero
quindi essere in alcun modo considerate come anti-nazionali,
portarono avanti, forse per naturale reazione a oltre un ventennio di
esasperato nazionalismo, forme di de-identificazione nazionale che
ebbero conseguenze non positive sullo spirito collettivo del Paese. Si
concretizzò infatti, sul piano interno, una tendenza incline alla ricerca
di una nuova identità, non più nazionale ma sovra-nazionale, inserita
all’interno di contenitori sempre più vasti (l’Europa, le Nazioni
Unite), quasi che questi ultimi, con il loro diverso patrimonio di
valori, potessero supplire alla crescente fragilità dell’identità nazionale
o alla sua vera e propria inesistenza4. Si determinò in tal modo una
situazione abbastanza paradossale, per cui da un eccesso di
3 Il Trattato di Osimo, firmato il 10 novembre 1975, sancì lo stato di fatto di separazione
territoriale venutosi a creare nel Territorio Libero di Trieste (TLT) a seguito del Memorandum di
Londra (1954), rendendo definitive le frontiere fra l'Italia e l'allora Jugoslavia. Esso concluse la
fase storica iniziata nel 1947 con il trattato di pace, quando si decise la cessione alla Jugoslavia di
gran parte della Venezia Giulia (Fiume e le isole del Quarnaro, la quasi totalità dell'Istria e gli
altopiani carsici a est e nord-est di Gorizia) e la creazione del TLT comprendente l'attuale
provincia di Trieste e i territori costieri istriani da Ancarano (oggi in Slovenia) fino a Cittanova
(oggi in Croazia). La mancata attivazione delle procedure per la costituzione degli organi
costituzionali del TLT impedì di fatto a quest'ultimo di nascere. La successiva cessione del potere
di amministrazione civile del TLT rispettivamente all'Italia (zona A) e Jugoslavia (zona B) creò le
condizioni per gli sviluppi successivi che portarono al Trattato di Osimo. Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Trattato_di_Osimo 4 Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza, il Mulino, Bologna, 1991, p. 186
sg.
7
nazionalismo, retorico e vuoto, si passò ad un eccesso di de-
nazionalizzazione, a sua volta non meno retorica e vuota, senza
riflettere sugli effetti negativi che, nel lungo periodo, ciò avrebbe
potuto produrre, a cominciare ad esempio dalla sottovalutazione di
questioni di importanza cruciale come quelle dell’interesse nazionale.
Quest’ultimo, infatti, nel nostro Paese è sempre stato una “cenerentola
ideologica”, mentre la logica avrebbe voluto che se ne tenesse sempre
conto in ogni valutazione di politica estera, alla stessa stregua di
quanto facevano, legittimamente, i nostri alleati.
Quantunque, nei primi anni di governo dell’Italia postbellica, le
forze politiche inserite nello schieramento antifascista fossero tutte
coinvolte nell’esecutivo, dunque anche i socialisti e i comunisti, la
scelta di campo occidentale apparve chiara fin da quando, nel 1946,
l’Italia aderì al Fondo Monetario Internazionale (FMI) e alla Banca
Internazionale per la Ricostruzione (BIR) e gli Stati Uniti
rinunciarono a chiedere alle autorità di Roma la riparazione dei danni
di guerra.
A ben guardare, tuttavia, era l’andamento stesso della guerra che
aveva deciso le scelte politiche dell’Italia postbellica. Gli Alleati
anglo-americani, infatti, erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio 1943 con
l’evidente intento di accelerare al massimo il crollo del fascismo e
l’uscita dall’Italia dal conflitto. Di conseguenza, ad onta di
sommovimenti interni di enorme portata, le truppe alleate, nella loro
traversata del territorio italiano dall’estremo Sud all’estremo Nord,
avevano di fatto inserito il nostro Paese nello schieramento
geostrategico occidentale postbellico. In linea puramente teorica, era
8
una situazione che si sarebbe potuto cambiare, ad esempio se al
governo fosse andato il “Fronte Popolare” formato da socialisti e
comunisti, ma gli assetti strategici del post-1945 erano troppo rigidi
perché un’ipotesi del genere potesse essere considerata realmente
verosimile e praticabile.
Così, a seguito degli sviluppi politici che si registrarono sul piano
interno nella prima metà del 1947 (con il viaggio del presidente del
Consiglio Alcide De Gasperi a Washington; la scissione socialista di
Palazzo Barberini, con la nascita del partito socialdemocratico (PSDI),
di orientamento filo-occidentale, e la sostituzione, nella carica di
ministro degli Esteri, del socialista Pietro Nenni con Carlo Sforza (un
diplomatico di carriera di cui erano note le simpatie filo-occidentali),
l’Italia venne inserita nella “Dottrina Truman5” sul containment
(contenimento) del comunismo e soprattutto nel Piano Marshall, un
fondamentale strumento varato dagli USA per la ricostruzione
economica dell’Europa postbellica (5 giugno 1947)6.
Queste scelte furono frutto di una serie di decisioni assai precise,
prese essenzialmente a Washington e successivamente confermate da
Roma, le quali non potevano in alcun modo ammettere che, negli
assetti geopolitici e geostrategici che si stavano creando in Europa
dopo il 1945, il governo italiano potesse in qualche modo rimanere
condizionato dalla presenza al suo interno di esponenti socialisti e
5 Per “Dottrina Truman” si intende la strategia di politica estera ideata dall'allora presidente degli
Stati Uniti d'America Harry S. Truman (1945-1953) il 12 marzo 1947, in un discorso tenuto alle
camere in seduta comune, prendendo spunto dai casi di Grecia e Turchia, che avevano lasciato
intravedere la possibilità di una resa di fronte all'espansionismo sovietico. La dottrina si proponeva
di contrastare le mire espansioniste dell'avversario comunista nel mondo. Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_Truman 6 Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica 1943-1993, Casa Editrice Nuove Ricerche,
Ancona, 1994, p. 22.
9
comunisti. L’Italia, per volontà di Washington, doveva fare parte del
blocco politico-strategico occidentale e alle autorità di Roma non restò
che adeguarsi a tale volontà, che peraltro condividevano.
Tra il 1943 e il 1947 l’Italia basò la propria politica estera su
presupposti certamente discutibili, da un lato illudendosi che la guerra
fosse stata perduta dal regime fascista e non dalla nazione italiana nel
suo complesso; dall’altro pensando che il mondo, al termine del
conflitto, sarebbe stato retto da quelle stesse norme che,
nell’anteguerra, avevano regolato i rapporti tra gli Stati, dunque un
complesso di alleanze e vincoli di vario genere, ma comunque di tipo
tradizionale. Naturalmente non era così, in quanto tutto era cambiato
dopo il 1945 e la crescita esponenziale di forza di due superpotenze
come USA e URSS e, in particolare, la massiccia avanzata sovietica
verso il cuore dell’Europa e il controllo esercitato da Mosca, tramite i
partiti comunisti locali, su tutti i Paesi caduti sotto la sua sfera
d’influenza, avevano mutato radicalmente il quadro politico europeo,
dal momento che il Vecchio Continente si avviava a diventare il
terreno di scontro tra due blocchi contrapposti, di cui uno
egemonizzato dall’URSS e l’altro dagli USA. Su questo sfondo,
margini di manovra e di autonomia, per un Paese come l’Italia, di fatto
non esistevano.
Al fine di consolidare il blocco politico di cui erano egemoni, gli
Stati Uniti, temendo che i Paesi dell’Europa occidentale potessero
cadere sotto il peso della pressione comunista, decisero di intervenire
massicciamente, in primo luogo per favorire la ricostruzione e lo
sviluppo economico dell’Europa occidentale. Questo fu il presupposto
10
di base su cui venne edificato il Piano Marshall, varato per l’appunto
dagli USA7. La ratio che gli stava dietro era che, da una parte, la
ricostruzione e il sostegno delle economie dei Paesi dell’Europa
occidentale avrebbero accelerato la loro ripresa e, al tempo stesso,
avrebbero creato le condizioni politiche e sociali per togliere il terreno
sotto i piedi alle forze di Sinistra esistenti sul piano interno8.
Queste misure, tuttavia, avrebbero richiesto un po’ di tempo
prima di poter diventare effettive, mentre la situazione richiedeva
invece interventi urgenti in quanto la minaccia politico-strategica
posta dal blocco comunista risultava più pressante e immediata, in
quegli anni, delle misure di carattere economico adottate per
prevenirla.
La prima risposta di natura politico-strategica fu la formulazione
della cosiddetta “Dottrina Truman” (marzo 1947), con cui venne
annunciato il varo di un vasto programma di aiuti alla Grecia,
sconvolta dalla guerra civile e alla Turchia, soggetta a forti pressioni
sovietiche sulle sue frontiere settentrionali.
La seconda risposta fu il Trattato di Bruxelles, firmato appunto
nella capitale belga il 17 marzo 1948, con cui Gran Bretagna, Francia,
Belgio, Olanda e Lussemburgo si impegnarono a un periodo di
cinquant’anni di cooperazione economica, sociale e militare. Esso
venne successivamente modificato dagli Atti Internazionali firmati a
Parigi il 23 ottobre 1954, che diedero vita all’Unione Europea
Occidentale (UEO).
7 Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo Stato unitario ai
giorni nostri, Laterza, Roma Bari, 2010, nuova edizione ampliata, p. 165. 8 Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana. Da Badoglio a Berlusconi, BUR Saggi,
Milano, 2004., p. 51 sg.
11
La terza risposta, di gran lunga più efficace, in quanto
coinvolgeva anche la potenza egemone del blocco occidentale, fu il
Trattato per l’Organizzazione dell’Atlantico del Nord (North Atlantic
Treaty Organization - NATO), firmato a Washington il 4 aprile 1949.
Grazie a questo nutrito sistema di rapporti di natura diversa,
l’Italia postbellica poté provvedere alla propria sicurezza politica,
militare ed economica. Su questo sfondo, la continuità della politica
estera italiana e delle sue scelte venne garantita essenzialmente dalla
diplomazia e dal sistema burocratico-amministrativo. E fu certamente
questa una ragione per cui, una volta compiuta la scelta atlantica per
evidenti ragioni di forza maggiore, in quanto le opzioni politiche
esistenti non ne consentivano altre, di fatto si continuò a privilegiare
un’interpretazione di tale scelta che lasciava parecchio spazio alla
discrezionalità italiana, quasi che dell’adesione alla NATO si
volessero solo acquisire gli onori, ma non pagare gli oneri (ma su
questo aspetto torneremo più ampiamente nel capitolo 2).
Nei fatti, il processo di maturazione che condusse alla decisione
di aderire all’Alleanza Atlantica fu piuttosto lento e complicato, non
solo e non tanto per l’ostilità che ancora permaneva tra coloro che,
solo fino a poco tempo prima, erano stati per gli italiani dei nemici,
ma per il fatto che neppure gli italiani, in ultima analisi, erano
realmente e totalmente convinti della bontà di tale scelta9.
A proposito di questa fase storica, Giuseppe Mammarella e Paolo
Cacace hanno fatto notare come un’attenzione non secondaria debba
essere rivolta alla Costituzione repubblicana, sia per la forte
9 Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza... cit., pp. 194-196.
12
ispirazione internazionalista che la animava, sia per il fatto che essa
sanciva, al famoso art. 11, il ripudio della guerra «come strumento di
offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle
controversie internazionali». Un approccio così netto, dunque, di fatto
escludeva la guerra dalle opzioni di politica internazionale dell’Italia e
ne limitava la legittimità alla sola guerra per la difesa della libertà,
dell’indipendenza e dell’integrità nazionale. Un aspetto di cui al
momento venne rilevato solo il valore simbolico, mentre, a partire
dagli anni Ottanta e nel contesto di uno scenario internazionale
profondamente mutato, esso assumerà una valenza meno chiara e più
controversa, in quanto consentirà letture e interpretazioni diverse da
quelle del governo sul tema dell’opposizione, ad esempio,
all’effettuazione di missioni militari all’estero, pur se svolte sotto
l’egida di grandi e prestigiose organizzazioni internazionali10
. A ben
guardare, un orientamento del genere era tale da creare complicazioni
anche nel caso di operazioni militari della NATO, in quanto esse
erano certamente da svolgersi sotto l’egida di una grande
organizzazione internazionale, ma ci sarebbero potute essere
divergenti interpretazioni sulla loro reale natura, ad esempio se si
fosse deciso di apprestare una “difesa attiva” in territorio austriaco e
jugoslavo, di fatto penetrando all’interno di quei due Paesi, dove certo
le truppe della NATO avrebbero potuto essere chiamate a svolgere
attività di sostegno, ma anche no…
10
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 159.
13
1.2 Il Patto Atlantico e l’adesione italiana
Il trattato di pace firmato dall’Italia a Parigi il 10 febbraio 1947
fu un diktat imposto dagli Alleati a un Paese che aveva perso la
guerra, non certo l’esito di un negoziato diplomatico11
. Le speranze
che i governanti italiani avevano nutrito, fino a quella data, erano
decisamente superiori agli esiti realmente raggiunti sotto il profilo
fattuale e puntavano sulla possibilità di scindere le responsabilità della
Nazione da quelle del regime fascista. Una soluzione del genere,
tuttavia, era troppo comoda per poter essere accettata dai nemici di
ieri, per cui il governo De Gasperi fu costretto a trangugiare l’amaro
calice di una pace alquanto severa, nelle sue clausole12
. Tuttavia, la
posizione geostrategica dell’Italia nel Mediterraneo era tale per cui gli
Alleati anglo-americani non potevano privarsi a cuor leggero della sua
presenza, quindi, anche se il trattato di pace rappresentò una botta
difficile da assorbire, l’adesione alla NATO rappresentò, per il
governo di Roma, un’opportunità formidabile per cominciare a
sentirsi un vero alleato e non semplicemente un ex-nemico.
L’Italia aderì al Patto Atlantico fin dalla sua fondazione e dovette
questo innegabile successo al fatto che poté trarre vantaggio dai
contrasti che si palesarono fra Stati Uniti e Gran Bretagna per
l’organizzazione politica dell’Europa postbellica e in particolare
dell’area mediterranea. Aver scelto, in tali circostanze, di schierarsi
risolutamente dalla parte degli USA non rappresentò soltanto una
scelta di necessità, visto che Washington pareva molto più benevola,
11
Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit. p. 181. 12
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., pp. 150-156.
14
nei riguardi dell’Italia, di quanto non fosse Londra, ma anche una
scelta lungimirante13
, dal momento che gli Stati Uniti, sempre più
palesemente, erano l’asse portante dello schieramento Alleato14
, la
potenza ormai sempre più scopertamente egemone all’interno del
medesimo. Cercare di soddisfare i desiderata di Washington, in una
parola, si dimostrò di gran lunga preferibile che cercare di allinearsi
con quelli di Londra e fece entrare l’Italia nello schieramento
occidentale15
dalla porta principale.
Al momento della sua adesione alla NATO, il principale
problema che il governo italiano dovette affrontare non fu
rappresentato, sul piano interno, da socialisti e comunisti, che erano
forti ma relegati comunque all’opposizione, bensì soprattutto dalle
correnti del neutralismo cattolico. La sinistra democristiana – i cui
maggiori esponenti erano Giovanni Gronchi, Giuseppe Dossetti e
Giorgio La Pira – rifiutava la prospettiva di un’adesione a un’alleanza
militare come la NATO per ragioni in parte politiche e in parte
ideologiche. Essi ritenevano infatti che l’Italia dovesse sottrarsi alla
logica dei blocchi e proclamare la propria vocazione pacifica, il che
poteva anche rappresentare una nobile illusione, ma certo era
improponibile come soluzione nel clima politico internazionale di
quegli anni. Inoltre, essi erano più che convinti che l’adesione alla
NATO non avrebbe avuto soltanto conseguenze politiche e militari,
ma avrebbe dettato all’Italia le linee di fondo del suo regime politico e
13
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 178. 14
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 28 sg. 15
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit., p. 182.
15
sociale e tale prospettiva li spaventava dal profondo, in quanto erano
ostili ai valori del capitalismo16
.
L’Italia entrò nel secondo dopoguerra con versioni strumentali o
ideologiche oppure ancora fortemente censurate del proprio passato di
nazione. Per i socialisti e i comunisti, ad esempio, la guerra appena
conclusa doveva essere considerata il necessario punto di arrivo di un
Risorgimento che era stato eccessivamente nazionalista fin dalle sue
prime manifestazioni e quindi aveva condizionato tutta la storia
nazionale, dalla quale la Resistenza antitedesca si stagliava e al tempo
stesso si staccava come prima, autentica “guerra di popolo”, non solo
in senso politico-militare, ma anche sociale17
. Per i cattolici, per
contro, la guerra era frutto di un peccato originale e dunque era da loro
vista come la pena che un Paese come l’Italia aveva dovuto scontare
per i peccati commessi contro la Chiesa. Per i partiti di tradizione
risorgimentale, infine, la Resistenza era una nuova guerra
d’indipendenza, nello spirito del Risorgimento migliore, quello inteso
ad affermare la libertà e l’autonomia della nazione italiana. Se l’Italia,
in quel periodo, avesse condotto un approfondito esame di coscienza,
forse avrebbe potuto acquisire una migliore percezione del proprio
passato e una più chiara idea del proprio futuro. Per contro,
nell’impossibilità di mettere insieme interpretazioni così divergenti, si
preferì glissare un po’ su tutto, con esiti tutt’altro che felici18
.
16
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 62 sg. 17
Salvatore Battaglia, Storia della Resistenza italiana 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945,
Einaudi, Torino, 1964. 18
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 45.
16
1.3. Atlantismo e anti-atlantismo in Italia
Affrontare il tema dell’atlantismo e dell’anti-atlantismo in Italia
significa addentrarsi in un terreno minato, nel quale è possibile
incorrere in numerose insidie. Non bisogna infatti in alcun modo
dimenticare che, tra la fine della guerra e la firma del Patto Atlantico
vi fu, in Italia, un vasto partito favorevole a una scelta neutralista, nel
quale convergevano esponenti cattolici come i già citati Gronchi,
Dossetti e La Pira; socialisti come Pietro Nenni e liberali come Manlio
Brosio.
Per ragioni diverse, i neutralisti italiani ritenevano che l’Italia
dovesse sottrarsi ai conflitti di potere in atto nell’Europa del
dopoguerra. I cattolici di Sinistra, ad esempio, consideravano la scelta
neutralista come una terza via fra il capitalismo americano e il
comunismo sovietico, soluzione alla quale credevano molto sotto il
profilo ideologico, mentre taluni esponenti della vecchia classe
dirigente liberale ritenevano che l’Italia avrebbe meglio valorizzato il
proprio ruolo nelle vicende della politica europea se si fosse
proclamata neutrale, cioè se avesse aderito a una visione geopolitica
intesa a cercare di capitalizzare attivamente sul proprio ruolo di
crocevia e punto di gravitazione tra i due blocchi.
In realtà, le scelte di politica internazionale dell’Italia nel
secondo dopoguerra erano già state chiaramente definite dal settembre
1943. Quando, nell’agosto 1943, il governo del generale Pietro
Badoglio cominciò a trattare con gli Alleati dopo la defenestrazione di
Benito Mussolini e del fascismo, le possibili scelte che aveva a
disposizione erano due: o uscire dal conflitto e difendere l’autonomia
17
e l’integrità del territorio nazionale da qualsiasi interferenza esterna,
oppure collaborare con gli anglo-americani nella fase successiva del
conflitto. La scelta cadde sulla seconda opzione, anche perché la
prima – che avrebbe comportato di battersi contro i tedeschi – venne
ritenuta troppo rischiosa e difficile da realizzarsi. Così vennero
intavolate trattative e presi impegni con gli Alleati, ma poi, l’8
settembre 1943, tali impegni non vennero mantenuti e la fuga del re e
del governo a Pescara e da lì a Brindisi ebbe come unica conseguenza
il totale sbandamento delle Forze Armate italiane, dimostrando una
verità che sarebbe rimasta evidente anche nei decenni successivi, vale
a dire che l’Italia, senza il decisivo appoggio degli Alleati e degli
americani in particolare, non era assolutamente in grado di difendersi
da sola e di provvedere autonomamente alla propria sicurezza19
.
Per quanto concerne l’atteggiamento dei socialisti e soprattutto
dei comunisti, è chiaro che i secondi ispirarono i loro comportamenti
al seguire alla lettera le direttive che provenivano da Mosca, direttive
che erano ispirate al più totale realismo politico, in quanto il Cremlino
era convinto che le sfere di influenza in Europa, tra URSS e Alleati
occidentali, fossero di fatto determinate dalle rispettive occupazioni
militari e l’Italia, da questo punto di vista, rientrava indiscutibilmente
nella sfera di influenza anglo-americana. È chiaro che nessuno, a
Mosca, era disposto a riconoscere questo dato di fatto, se non in
privato, ma era altresì chiara l’intenzione dell’Unione Sovietica di non
mettere in discussione i delicatissimi equilibri post-bellici dell’Europa
per aiutare i comunisti italiani. A questi ultimi, semmai, poteva essere
19
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p.13 sg.
18
riconosciuto il diritto di provare a prendere il potere dall’interno, ma
nulla di più20
.
La scelta atlantica suscitò quindi notevoli contrasti sul piano
politico interno e ciò è imputabile al fatto che, in larga misura, si trattò
di una scelta necessitata, non condivisa fino in fondo; una scelta che
venne compiuta dal governo di Roma, prima ancora che per mettersi
al riparo dalla minaccia sovietica, pur molto forte a livello
convenzionale, all’epoca, per stabilizzare il quadro politico interno e
mettere il sistema politico al sicuro da potenziali sommovimenti21
.
Questa duplicità di valutazioni si mantenne a lungo, così come si
manterrà a lungo la contrapposizione frontale tra filo-atlantici (fossero
essi fautori convinti o semplicemente sostenitori di uno stato di
necessità) e anti-atlantici, talvolta con degli automatismi francamente
penosi su entrambi i versanti, come se entrambi reagissero per riflesso
pavloviano, per l’accettazione acritica di un ruolo, più che per scelte
condivise.
1.4. Atlantismo e/o europeismo ? Opzioni convergenti o
divergenti ?
Nell’immediato dopoguerra, la scelta del governo italiano fu
molto più atlantica e filoamericana che europeista e filo-occidentale.
Questo perché, probabilmente anche nel clima di contrapposizione
frontale, sul versante della politica interna, tra filo-americani e filo-
sovietici, le autorità di Roma avevano tutto interesse a garantirsi
preventivamente l’appoggio degli Stati Uniti, da cui erano sicure, in
20
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 27 sg. 21
Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit. p. 196 sg.
19
caso di problemi interni, di ricevere un supporto anche militare
immediato22
.
La costruzione di un sistema europeo di difesa integrata, per
contro, era certamente una soluzione possibile, che non a caso si
concretizzò fuggevolmente nell’abortito tentativo di creare una
Comunità Europea di Difesa (CED). Sforzo lodevole, in parte
condiviso anche dal governo italiano, ma che si esaurì nel giro di un
biennio (1952-54), formalmente per il rifiuto del Parlamento francese
di ratificarne la creazione, ma in realtà per il fatto che, nelle
circostanze dei primi anni del dopoguerra, l’Europa era troppo debole
per poter pensare alla costruzione di un proprio autonomo sistema di
difesa, stretta com’era tra esigenze più pressanti, a cominciare da
quella della ricostruzione economica per continuare con quella della
liquidazione dei propri domini coloniali, mentre gli Stati Uniti non
guardavano certo con favore all’edificazione di una struttura che, se si
fosse consolidata, con il tempo avrebbe conferito all’Europa
occidentale un’autonomia strategica che era invece l’opzione che a
Washington preoccupava di più, in quanto sottraeva l’Europa stessa
alla sua dipendenza politica e militare, dipendenza che, nelle
circostanze politiche del momento, era pressoché totale.
La questione del rapporto tra atlantismo ed europeismo, che con
il passare del tempo diventerà sempre più importante, al momento
della firma del Patto Atlantico e almeno fino all’inizio degli anni
Ottanta rimarrà sempre una questione subalterna, in quanto per
22
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 22 sg.
20
decenni la “Guerra Fredda”23
impose un rigido allineamento dei Paesi
membri dei due blocchi (la NATO e il Patto di Varsavia) su una
contrapposizione frontale, che non consentiva troppe esibizioni di
autonomismo, se non quella gollista francese, su un versante, e quella
rumena, sull’altro, entrambe peraltro molto più formali e “di
principio” che sostanziali.
Fino a quando i due blocchi si fronteggiarono minacciosamente
in Europa, ogni alternativa appariva impossibile o quanto meno
impraticabile o comunque dispersiva, ma naturalmente, a lungo andare
e man mano che la minaccia sovietica diventava meno incombente, la
questione si pose in tutta la sua importanza in quanto l’interrogativo
accennato nel titolo stesso di questo paragrafo, vale a dire se
atlantismo ed europeismo fossero opzioni convergenti o divergenti,
non era un interrogativo da poco.
23
Fu definita “Guerra Fredda” la contrapposizione che venne a crearsi alla fine della seconda
guerra mondiale (1945) tra due blocchi internazionali, generalmente categorizzati come Occidente
(gli Stati Uniti d'America, gli alleati della NATO e i Paesi amici) ed Oriente, o più spesso "blocco
comunista" (l'Unione Sovietica, gli alleati del Patto di Varsavia e i Paesi amici). Tale tensione,
durata circa mezzo secolo, pur non concretizzandosi mai in un conflitto militare diretto (la
disponibilità di armi nucleari per entrambe le parti avrebbe potuto inesorabilmente distruggere
l'intero pianeta), si sviluppò nel corso degli anni incentrandosi sulla competizione in vari campi
(militare, spaziale, ideologico, psicologico, tecnologico, sportivo) contribuendo almeno in parte
allo sviluppo ed evoluzione della società stessa con l'avvento della terza rivoluzione industriale. Il
termine era stato usato già nel 1945 dal celebre scrittore e giornalista britannico George Orwell
che, riflettendo sulla bomba atomica, preconizzava uno scenario in cui le due grandi potenze, non
potendo affrontarsi direttamente, avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri. La fase
più critica e potenzialmente pericolosa della guerra fredda fu quella compresa fra gli anni
cinquanta e settanta. Già dai primi anni ottanta i due blocchi avviarono un graduale processo di
distensione e disarmo; tuttavia la fine di questo periodo storico viene convenzionalmente fatta
coincidere con la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989). Fonte:
http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_fredda
21
La questione è complessa e non è certo facile dare una risposta.
Di fatto, l’europeismo non può essere considerato una forma di
atlantismo, ma una soluzione politica autonoma, per di più integrabile
a fatica nella precedente, in quanto l’atlantismo è sempre stato inteso
dai suoi principali promotori, cioè dagli Stati Uniti, come un modo per
vincolare a sé l’Europa e mantenerla sotto il proprio diretto controllo.
L’europeismo avrebbe dovuto essere sempre qualcosa di diverso da
questo, ma l’Europa non ha mai avuto la forza politica e tanto meno
quella militare per imboccare percorsi alternativi. Ne consegue che,
anche se in linea teorica è possibile considerare le due opzioni testé
citate come antitetiche, nei fatti, almeno fino al periodo oggetto della
presente narrazione, vale a dire fino al 1989, la soluzione atlantica è
stata l’unica ipotesi percorribile, l’unica soluzione praticabile, l’unica
possibilità che gli europei occidentali hanno avuto di fronte a sé al fine
di evitare di cadere sotto il controllo del blocco sovietico.
Nel prossimo capitolo, per contro, ci occuperemo di quale ruolo
abbia svolto l’Italia all’interno della NATO, di quale sia stata, nel
corso del quarantennio 1949-1989, la politica estera che essa ha
sviluppato all’interno e anche al di fuori dell’alleanza.
22
CAPITOLO 2
L’ITALIA NELLA NATO: POLITICA ESTERA
2.1. Le politiche di allineamento alle direttive atlantiche dal 1949
al 1989
Per almeno tre decenni dopo la sua adesione, anche senza
arrivare a paragonare il ruolo svolto dall’Italia nella NATO a quello di
un comportamento da subalterni definibili spregiativamente come
“ascari” oppure ad abbinarlo alla altrettanto poco esaltante definizione
di “Bulgaria della NATO”24
, appare comunque difficile negare che il
nostro Paese, durante la “Guerra Fredda”, abbia costruito la propria
partecipazione alla difesa collettiva atlantica essenzialmente sulla
rendita geopolitica derivante dalla sua posizione geografica e sulla
concessione in uso, agli Stati Uniti, di basi e infrastrutture militari
situate in territorio italiano25
.
Nel 1949, al momento della costituzione dell’Alleanza Atlantica,
sull’Italia gravavano diffidenze di varia natura, la prima e più
importante delle quali era che, durante il secondo conflitto mondiale,
il nostro Paese aveva combattuto dalla parte dell’Asse, cioè dei vinti e
non degli Alleati, cioè dei vincitori. A ciò si aggiungeva il fatto che il
modo deprecabile con cui l’Italia era uscita dal conflitto, con il
24
La Bulgaria era considerata il più fedele e subalternamente passivo alleato dell’Unione
Sovietica all’interno del Patto di Varsavia, l’alleanza politico-militare che legava i Paesi del blocco
comunista e che fu attiva tra il 1955 e il 1991. Dunque la definizione dell’Italia come “Bulgaria
della NATO” intendeva bollare negativamente una condizione di analoga passività. 25
Valter Coralluzzo, “Le missioni italiane all’estero: problemi e prospettive”, in ISPI (Istituto per
gli Studi di Politica Internazionale) Analysis, No. 136 – September 2012, p. 2.
23
collasso dell’8 settembre 1943, la fuga del Re Vittorio Emanuele III
da Roma a Brindisi, l’abbandono delle Forze Armate italiane alla
rappresaglia dell’ex-alleato germanico e il loro conseguente
sfaldamento, prive di ordini e direttive precise, faceva considerare ai
nostri nuovi alleati angloamericani l’Italia come un Paese non
particolarmente affidabile, ricco di una tradizione storica in cui i
cambiamenti di campo costituivano purtroppo un frequente e negativo
precedente26
.
Tuttavia, a vantaggio dell’Italia si ponevano alcuni dati
inoppugnabili, come la sua posizione nel bel mezzo del Mediterraneo,
analoga a quella di una “portaerei naturale”, dalla quale delle potenze
come quelle occidentali, dotate di un dispositivo aeronavale
imponente, erano in grado di controllare completamente quello che
all’epoca era uno dei più importanti mari del mondo. Era dunque
estremamente utile, per gli Stati Uniti, poter avere l’Italia come alleata
e poter disporre di basi militari in territorio italiano, in quanto da
quelle basi sarebbe stato possibile esercitare un controllo militare in
varie direzioni, in particolare verso Sud, verso Est e verso Nord-Est. Il
tutto mentre sulla parte occidentale dell’Europa gravava una crescente
minaccia militare sovietica e mentre nel Mediterraneo la situazione
geostrategica restava confusa e aperta alle opzioni operative più
diverse.
26
A parte la tragica vicenda dell’8 settembre 1943, non si deve dimenticare che, anche al
momento dello scoppio della Prima guerra mondiale l’Italia non entrò in guerra dalla parte degli
Imperi Centrali, con cui era stata alleata – mediante il vincolo della Triplice Alleanza – fin dal
lontano 1888, ma da quella dell’Intesa, cioè dalla parte di coloro che, fino a qualche mese prima,
erano stati considerati i possibili nemici. A ciò si devono aggiungere i numerosi “cambiamenti di
schieramento” di cui si rese responsabile, nel corso della sua lunga storia, la dinastia dei Savoia.
24
Forse più inoppugnabile del precedente, peraltro, rimaneva il
dato della situazione politica interna italiana, dove la presenza di un
blocco socialcomunista di forza pari a oltre il 40% del totale
dell’elettorato, rendeva chiaro che, senza la garanzia di sicurezza
offerta dalla NATO, il quadro politico interno avrebbe potuto essere
anche rovesciato, modificando altresì la collocazione geostrategica del
nostro Paese. In una situazione internazionale confusa e in cui
spiravano forti “venti di guerra” tra i due blocchi, gli Alleati
angloamericani non potevano correre il rischio di veder nascere
un’Italia socialcomunista, ciò che avrebbe profondamente alterato i
rapporti di forza nel Mediterraneo e anche in Europa in favore
dell’Unione Sovietica e dei suoi alleati.
Non appare dunque una forzatura affermare che, in definitiva,
l’adesione italiana all’Alleanza Atlantica, avvenuta già al momento
della fondazione della medesima, fu in primo luogo una scelta dovuta
alla necessità e, di fatto, una scelta forse prima ancora di politica
interna che di politica internazionale o comunque all’interno della
quale le esigenze di politica internazionale erano solidamente
frammiste a quelle di politica interna, in un complesso insieme in cui
emergeva con forza l’esigenza prioritaria – per lo schieramento
occidentale – che un Paese geograficamente importante come l’Italia
non cadesse in mano comunista. Un esito del genere, infatti, avrebbe
potuto avere pesantissime ripercussioni sulla solidità e la stessa
credibilità dello schieramento atlantico nel continente europeo.
In realtà, comunque, non è facile fornire una risposta convincente
al titolo del presente paragrafo, che si riferisce alle politiche di
25
allineamento alle direttive atlantiche, poiché la questione del rapporto
del nostro Paese con tali direttive è alquanto complessa e articolata.
Tale allineamento certamente ci fu, ma, a ben guardare, investì molto
di più la politica di difesa che non la politica estera, in quanto, a
livello di politica estera, l’Italia – e lo vedremo meglio nei prossimi
paragrafi – cercò sempre di definire una propria linea che potremmo
definire, con una certa benevolenza, di “interpretazione della reale
natura dell’Alleanza” e intorno ad essa si manifestarono parecchi
contrasti, sia all’interno del mondo politico nazionale sia nell’ambito
della NATO stessa.
Un primo esempio in tal senso può essere rappresentato dai vari
tentativi che fiorirono, nel corso degli anni Cinquanta, per dare vita ad
iniziative autonome di difesa europea. Non è un mistero che l’idea di
un’Europa che tendesse a federarsi, anche solo sul versante
occidentale della medesima, non era particolarmente gradita agli Stati
Uniti, che vedevano in qualsiasi tentativo di unificazione europea una
minaccia alla loro posizione dominante e ai loro interessi strategici
permanenti nel Vecchio Continente. Tuttavia, nell’Europa degli anni
Cinquanta, ancora in fase di lenta ricostruzione, qualsiasi sforzo di
convergenza poteva anche essere legittimamente considerato poco più
che un comprensibile auspicio, cui guardare – da parte americana –
con legittimo scetticismo, quasi che fosse nulla più che un atto
velleitario. Non a caso le varie iniziative di convergenza militare
europea fallirono, mentre ad esempio quelle economiche ebbero esito
ben diverso e culminarono nel 1957 nella creazione della Comunità
Economica Europea (CEE).
26
Per quanto concerne la condizione dell’Italia, tutti gli anni
Cinquanta e i primi anni Sessanta evidenziarono con forza la stretta
interazione esistente tra quadro politico internazionale e quadro
politico interno. Basti pensare alle preoccupazioni che si
manifestarono a Washington sul finire degli anni Cinquanta, quando
divenne chiaro che la Democrazia cristiana (DC), il partito italiano di
maggioranza relativa, appariva deciso a portare al governo il Partito
socialista italiano (PSI), approfittando in primo luogo della rottura che
si era prodotta all’interno del blocco socialcomunista italiano sulla
valutazione della dura repressione sovietica della rivolta ungherese
(1956). I socialisti, infatti, avevano deplorato che Mosca avesse
schiacciato nel sangue la legittima aspirazione del popolo ungherese
all’autodeterminazione, mentre i comunisti si erano passivamente
adeguati alle direttive del Cremlino. Ne era risultata una spaccatura, di
cui una parte della DC intendeva approfittare per portare i socialisti al
governo del Paese, rompendo l’unità del blocco socialcomunista,
privando il Partito comunista italiano (PCI) di un consistente serbatoio
di voti, riducendolo in una condizione di più marcata minoranza
nell’ambito del quadro politico nazionale.
Nel momento in cui tali orientamenti si manifestarono, la
reazione dell’amministrazione repubblicana del presidente Dwight
Eisenhower (1953-1961) non fu positiva, ma di chiusura, anche
perché il blocco occidentale stava attraversando un periodo di grave
incertezza, ossessionato dalla crescita della minaccia militare
sovietica, testimoniata in forma inequivocabile dal lancio, avvenuto
nell’agosto 1957, del primo missile balistico intercontinentale della
27
storia (ICBM27
), un ordigno in grado di operare su lunghissime
distanze e quindi di colpire, dall’Unione Sovietica, il territorio
americano, ponendo fine alla condizione di “santuario” intoccabile di
cui esso aveva potuto godere nel corso di due guerre mondiali.
Fu necessario attendere l’insediamento alla Casa Bianca, nel
gennaio 1961, del nuovo presidente John Fitzgerald Kennedy (1961-
1963) perché da Washington arrivasse un assenso alla svolta politica
che si intendeva produrre in Italia. L’avvento del primo governo di
Centrosinistra, nel dicembre 1963, avvenne esclusivamente a seguito
della preventiva approvazione di tale mossa da parte del governo
americano. Una volta di più, dunque, divenne evidente che le esigenze
di politica estera contribuivano a “fare” l’Italia (nel senso di conferirle
precisi assetti interni) molto più di quanto l’Italia stessa non fosse in
grado di fare un’autonoma politica estera28
. La dimostrazione della
validità di questa teoria risiede nel fatto che, poco più di una dozzina
di anni dopo, l’ingresso del Partito comunista italiano nella
maggioranza di governo e l’avvio del cosiddetto “compromesso
storico” – eventualità per nulla gradita dagli USA e da essi sempre
duramente contrastata – vennero sempre bloccati dal governo
americano con prese di posizione assai decise29
.
Non c’è vicenda più eloquente di quella di inserire il PCI nella
maggioranza che governava il Paese a dimostrare che la scelta
occidentale dell’Italia venne decisa al di fuori e al di sopra delle
capacità decisionali del governo di Roma e che tutta la politica italiana
27
La sigla ICBM è l’acronimo inglese di Inter-Continental Ballistic Missile (missile balistico
intercontinentale) 28
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana..., cit., p. 133. 29
Ibidem, p. 193.
28
del dopoguerra fu sempre, spesso pesantemente, condizionata da
Washington. L’Italia era una semplice pedina occidentale sullo
scacchiere strategico europeo e veniva manovrata dalla Casa Bianca.
Non c’è dubbio, comunque, che l’apertura ai socialisti dei primi
anni Sessanta e quella ai comunisti della seconda metà degli anni
Settanta, “ingessarono” la politica estera italiana. Specie nel secondo
caso, infatti, l’Italia poteva continuare a legittimare il proprio
posizionamento filoatlantico solo a condizione che gli obiettivi
dell’Alleanza potessero essere chiaramente identificati con la
“distensione”30
e la pace. Essa poteva altresì continuare a fare parte
della NATO, a condizione che gli Stati Uniti non pretendessero un
incremento degli impegni militari che Roma, per ragioni di politica
interna, non era in grado di fornire. Si creò quindi una situazione di
stallo, frutto di veti reciproci.
L’abortito tentativo di realizzare il “compromesso storico”,
tuttavia, chiarì senza ombra di dubbio chi effettivamente governava
l’Italia. Naturalmente, nel fare un’affermazione del genere, non si
intende sostenere che la NATO fosse un’alleanza non democratica o
che gli Stati Uniti non fossero disponibili ad accettare, nel caso,
soluzioni politiche diverse. Più correttamente, è possibile sostenere
che la maggioranza stessa che governava l’Italia era fragile e instabile
(basti pensare alla durata media dei governi della Prima Repubblica,
in genere non superiore ad un anno), e quindi aveva problemi di
30
Con il termine “distensione” si è soliti designare la fase storica che si aprì qualche anno dopo la
grave crisi di Cuba dell’ottobre-novembre 1962 e che venne sviluppata e portata a compimento
durante la presidenza Nixon, con l’apertura dell’amministrazione repubblicana alla Cina e la
reazione dell’URSS, preoccupata che Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese potessero mettersi
d’accordo alle sue spalle e dunque stringerla in un pericoloso accerchiamento. Per tale ragione, la
dirigenza sovietica preferì imboccare una strada di miglioramento dei rapporti con gli USA.
29
legittimità, di affidabilità e credibilità. È sufficiente, a questo
proposito, mettere a confronto la situazione italiana con quella
francese dell’epoca. Anche la Francia aveva avuto a lungo, al proprio
interno, uno schieramento di sinistra molto forte, il cosiddetto Fronte
Popolare, composto da socialisti e comunisti, ma la capacità di
condizionamento politico di questo fronte era stata infinitamente
minore di quella che esercitava in Italia uno schieramento omologo e
questo perché la maggioranza di governo francese, lo Stato francese e
la politica francese in generale, specie nel periodo in cui fu al potere il
generale Charles De Gaulle31
, si dimostrarono infinitamente superiori
alla consistenza politica dello schieramento filo-atlantico italiano,
debole, poco coeso e spesso anche assai poco convinto delle proprie
scelte32
.
Quanto fosse friabile, da questo punto di vista, la posizione
italiana, è dimostrato anche e forse in modo ancora più evidente da
un’altra vicenda, quella relativa al Trattato di Non Proliferazione
nucleare (TNP). Tale trattato venne concluso il 1° luglio 1968 e
l’Italia decise di rinviarne la firma, avanzando cinque precise richieste
di garanzia:
La compatibilità tra il trattato stesso e Euratom; in una parola, la
compatibilità tra la sottoscrizione di un impegno così oneroso, in
termini di autonomia energetica nazionale e continentale e le
politiche che la Comunità Europea stava portando avanti in tal
senso.
31
Presidente del governo provvisorio della Repubblica francese (1944-1946); Presidente del
Consiglio della Quarta Repubblica (1958-1959); Presidente della Quinta Repubblica (1959-1969).
Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Charles_de_Gaulle 32
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 194 sg.
30
La garanzia che il TNP non ostacolasse l’integrazione europea,
soprattutto sotto il profilo energetico.
La garanzia che il TNP non limitasse la ricerca scientifica e
tecnologica, visto che non era difficile ipotizzare che un
congelamento della situazione, oltre ad impedire la proliferazione
nucleare, avrebbe anche impedito qualsiasi tipo di evoluzione
tecnologica da parte di tutti quei Paesi che non avevano ancora
varcato la “soglia nucleare” e che, di conseguenza, di fatto
lasciavano il loro futuro nelle mani di quelle poche potenze che
tale soglia l’avevano varcata.
La constatazione che la proibizione delle esplosioni nucleari a
scopo pacifico si intendesse determinata dall’impossibilità di
distinguerle dalle esplosioni a scopo militare.
La richiesta che l’Italia potesse applicare il medesimo tipo di
controllo alle esportazioni di materiali nucleari, senza
discriminazioni tra gli Stati acquirenti.
Si trattava di una presa di posizione assolutamente legittima, ma
che incontrò una dura ostilità da parte americana. Tutte le fonti che in
Italia sostenevano gli USA, a cominciare dalla grande stampa di
opinione, si mobilitarono contro questa presa di posizione del governo
di Roma, che per di più venne difesa debolmente e con scarsa
convinzione dal Partito socialista italiano. Di conseguenza, il 21
gennaio 1969 l’Italia venne costretta a sottoscrivere il TNP senza
avere ricevuto alcuna delle garanzie che aveva richiesto33
.
33
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere 1943-1976, Vallecchi, Firenze, 1978, p. 131
sg.
31
Questa vicenda, spesso sottorappresentata o rappresentata in
forma deliberatamente distorta, sta a dimostrare che, tra il 1949 e il
1989, le politiche di allineamento alle direttive atlantiche vennero
soprattutto imposte al governo italiano, nel senso che quest’ultimo non
ebbe mai la possibilità di farsi del tutto le proprie ragioni. Le scelte
autonomistiche erano tollerate quando erano velleitarie o quando
potevano servire come valvola di sfogo, ma diventavano
assolutamente inaccettabili quando velleitarie non erano e mettevano
l’Italia in rotta di collisione con gli interessi statunitensi permanenti.
In casi del genere, gli USA erano soliti provvedere a una massiccia
mobilitazione del loro apparato di sostegno, particolarmente forte a
livello di interessi economici (era normale, del resto, che il
capitalismo italiano fosse più vicino agli USA che all’URSS) e di
strutture mediatiche, al fine di garantirsi il sostegno dell’opinione
pubblica.
La stessa decisione delle autorità di Roma – presa alla fine degli
anni Settanta - di accettare lo schieramento, sul territorio nazionale, di
112 missili CRUISE deve essere valutata nel contesto di una
sostanziale subordinazione dei governi italiani alle direttive atlantiche.
Su questo aspetto specifico, la crisi stava maturando già dal 1976,
quando l’Unione Sovietica aveva cominciato ad installare nelle zone
occidentali del suo territorio nuovi missili intermedi dotati di testate
multiple, maggiore gittata e una più elevata precisione nel
raggiungimento dell’obiettivo. Questi missili, la cui sigla NATO era
SS-2034
, non modificavano nel loro insieme i rapporti di forza tra i due
34
La sigla SS sta per Surface to Surface, indica cioè un missile superficie-superficie.
32
blocchi, ma costituivano una notevole “spada di Damocle” posta
sull’Europa occidentale, contro la quale erano puntati, a cominciare
dal fatto che, dovendo compiere un percorso molto breve per arrivare
sui loro obiettivi, avrebbero costituito una grave minaccia di carattere
strategico. Nella loro stessa installazione in territorio sovietico erano
quindi presenti vari rischi di carattere militare e anche politico, il più
significativo dei quali era il cosiddetto decoupling (sganciamento),
vale a dire la possibilità che la gravità della minaccia sovietica
inducesse gli alleati europei a prendere le distanze dagli USA,
minando la coesione interna della NATO.
Il primo a lanciare l’allarme al riguardo fu il cancelliere tedesco
Helmut Schmidt, nell’autunno del 1977, il quale sostenne che l’unico
modo per neutralizzare l’effetto delle nuove armi offensive sovietiche
consisteva nello stanziare, nei Paesi europei membri della NATO,
missili a medio raggio di pari potenza e gittata. Gli euromissili, per
quanto integrati nella struttura militare dell’Alleanza, erano in
dotazione alle sole forze statunitensi, dal cui arsenale (nel quale erano
compresi i missili CRUISE e PERSHING) in effetti provenivano. Gli
alleati europei, dal canto loro, avevano preferito non accollarsi gli
onerosi costi dei vettori, in conformità alla tradizionale linea politica
europea in ambito atlantico, in base alla quale si cercano di ottenere i
vantaggi derivanti dall’appartenenza all’alleanza, ma si cerca altresì di
evitarne gli oneri. Tale condizione unilaterale, per quanto anche
conseguenza della miopia politica e strategica di molti governi
europei, suscitò un notevole dibattito all’interno dell’Alleanza, in un
primo momento per decidere in quali Paesi dislocarli e in un secondo
33
momento relativamente al ruolo che i governi di tali Paesi avrebbero
avuto in merito ad un’eventuale decisione di lanciare armi nucleari dal
loro territorio.
Il governo della Germania, che avrebbe dovuto ospitare sul
proprio territorio nazionale il maggior numero di missili, esitava ad
attuare la doppia decisione da solo35
. In tale circostanza si rivelò
determinante il ruolo dell’Italia, che per prima si offrì di affiancare la
Germania, ospitando un cospicuo numero di missili nella base
siciliana di Comiso36
. È probabile che, nel compiere una scelta del
genere, il governo socialista guidato da Bettino Craxi intendesse da un
lato dare prova della distanza che lo separava dal PCI e, dall’altro
acquisire a livello NATO (e soprattutto a livello USA) delle
benemerenze che avrebbero potuto venirgli utili in altre circostanze.
Un altro aspetto controverso era quello concernente il processo
decisionale per un eventuale impiego degli euromissili stessi: sotto il
profilo strettamente teorico, le forze statunitensi addette al loro
controllo operativo avrebbero sempre dovuto attendere un ordine di
impiego emanato dal Consiglio Atlantico, cioè da tutti i Paesi membri
dell’Alleanza; specifici accordi prevedevano inoltre consultazioni
bilaterali con i Paesi che ospitavano i missili. In pratica, però, era del
tutto evidente che le forze USA avrebbero avuto la possibilità di agire
in maniera unilaterale, visto che, fin dalla nascita, la NATO non è mai
stata un’alleanza di tipo paritetico, ma un patto di difesa dominato da
una potenza egemone, gli Stati Uniti d’America, affiancata da una
nutrita serie di Stati satelliti. Per non parlare del fatto che,
35
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia...., cit. p. 241 sgg. 36
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit. pp. 206-209.
34
nell’eventualità di un attacco missilistico sovietico su obiettivi posti in
territorio europeo, i tempi di reazione sarebbero stati necessariamente
molto rapidi, pena conseguenze devastanti e questo avrebbe ancora
più limitato lo spazio riservato all’assunzione di decisioni comuni e
non unilateralmente statunitensi.
I nuovi missili acquisirono quindi una valenza essenzialmente
politica, nel quadro dell’acuirsi delle tensioni Est-Ovest provocate
dalla “Guerra Fredda”, come l’invasione sovietica dell’Afghanistan
del dicembre 1979 e la proclamazione dello stato d’assedio in Polonia
nel dicembre 1981. In effetti, più che un nuovo strumento militare, gli
euromissili rappresentavano simbolicamente soprattutto una
riaffermazione della presenza militare americana in Europa. Tuttavia,
per ridurne l’impatto complessivo, la NATO decise una riduzione
generalizzata dell’arsenale nucleare presente in territorio europeo, da
ottenersi mediante lo smantellamento delle armi più obsolete.
L’ascesa di Mikhail Gorbacev alla carica di segretario generale
del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), avvenuta nel
1985, segnò un netto miglioramento nei rapporti Est-Ovest e tale
miglioramento ebbe ovvie implicazioni positive sulla NATO. Ebbe
infatti inizio un progressivo processo di disarmo che trovò alcuni
momenti significativi nel trattato che nel 1987 stabilì il ritiro
simultaneo e lo smantellamento degli euromissili.
Si è già parlato della “rendita di posizione” di cui l’Italia ha
potuto godere, nei suoi rapporti con gli Stati Uniti e con la NATO.
Come si è accennato, la presenza italiana in ambito atlantico è sempre
stata vista dagli americani come equivalente a quella di una grande
35
portaerei posta nel cuore del Mediterraneo, una portaerei naturale da
sfruttare in tutti i modi possibili a proprio vantaggio. Tuttavia, sarebbe
una forzatura affermare che la tesi che gli Stati Uniti capiscano poco o
nulla dell’Italia sia realmente fondata. È sufficiente pensare a quanto
scritto sul tema da Stanley Hoffman37
, in una favoletta assolutamente
trasparente, per significati: «…c’era una volpe mangiata dalle pulci,
tutta bagnata e sofferente di diarrea, che si mise anche lei sotto la
protezione dell’aquila, prese a prestito la polvere antiparassitaria e si
mise a cercare qualche pillola per farsi passare il mal di stomaco.
Passarono venticinque anni… La volpe aveva ormai rimesso su un
bellissimo pelo, non aveva più disturbi di stomaco e aveva un
gagliardo appetito. Un tributo nominale all’aquila le permetteva di
andarsene tranquillamente intorno a cercare del cibo adatto… la
volpe, che non si era mai fatta illusioni, era quella che in fondo stava
meno peggio»38
.
Dunque agli americani – come dimostra l’apologo sopracitato -
non è mai sfuggito il fatto che l’Italia, nei riguardi dell’Alleanza
Atlantica in generale e del rapporto con gli USA in particolare, abbia
tenuto un atteggiamento di puro sfruttamento, tutto inteso a cumulare
vantaggi (ad esempio, spendere relativamente poco per la difesa
nazionale) da far valere su altri versanti (ad esempio, per potenziare la
propria economia e le esportazioni).
Semmai occorre riconoscere che, dopo le varie iniziative
autonome intraprese dalle autorità di governo italiane, di cui
37
Politologo austriaco con cittadinanza francese, docente di Scienze politiche all’Università di
Harvard. 38
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica 1943-1993, Casa Editrice Nuove
Ricerche, Ancona, 1994, p. 41.
36
parleremo nei due prossimi paragrafi, è stato soltanto all’inizio degli
anni Ottanta che l’Italia ha cominciato a manifestare una certa
propensione in favore di una linea di politica estera più dinamica,
assertiva e di elevato profilo, di cui costituiscono prova eloquente le
numerose iniziative politico-militari assunte dal nostro Paese nello
scacchiere mediterraneo, a cominciare dagli impegni nel Sinai e in
Libano. La valutazione di tale atteggiamento è stata oggetto di giudizi
divergenti, in quanto taluni hanno sostenuto che un orientamento del
genere sarebbe stato frutto essenzialmente di una partecipazione poco
convinta ad operazioni decise in altre sedi39
, ma è possibile anche
condividere la tesi di quanti affermano che non si trattò affatto di un
coinvolgimento fortuito, bensì di una precisa volontà del governo
italiano, intesa a fare sì che il nostro Paese non restasse escluso da
operazioni di stabilizzazione dell’area mediterranea e dei territori ad
essa adiacenti, che spesso vedevano la partecipazione dei più
importanti alleati atlantici. Dunque, si sarebbe trattato non tanto di una
scelta frutto di volontà politica autonomistica, quanto del desiderio di
migliorare la posizione dell’Italia nel più ristretto ambito
euroatlantico40
.
Naturalmente, qualsiasi tesi può risultare più o meno fondata e
credibile, ma è possibile affermare che, nel quarantennio 1949-1989,
l’Italia abbia seguito una politica sostanzialmente di doppio binario:
da un lato, una passiva accettazione delle direttive atlantiche, messa in
atto là dove l’adeguamento a tali direttive dava la possibilità al
39
Alessandro Massai, “Le responsabilità di una media potenza nell’azione politica e nel dibattito
in Italia”, in ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), XVII, nn. 1-2, 1989, p. 6 40
Valter Coralluzzo, “Le missioni italiane all’estero...., cit., p. 2.
37
governo di Roma di trarne parecchi benefici diretti e indiretti;
dall’altro, la ricerca di un ruolo italiano autonomo, perseguita in varie
forme e su cui ci soffermeremo nei due prossimi paragrafi.
2.2. La ricerca di un ruolo italiano autonomo
Quando Alcide De Gasperi e Carlo Sforza decisero di
sottoscrivere, nel 1949, il Trattato per la creazione dell’Alleanza
Atlantica, il maggiore ostacolo da superare non fu l’opposizione di
socialisti e comunisti, che era da considerarsi largamente scontata, ma
quella di una parte della Democrazia cristiana (la componente di
sinistra, ispirata da Giuseppe Dossetti) e di alcuni esponenti dei
piccoli partiti democratici, molti dei quali erano sinceramente convinti
che l’Italia avrebbe dovuto rifiutare la logica dei blocchi e seguire una
politica estera neutrale.
De Gasperi riuscì a superare queste resistenze spiegando ai suoi
compagni di partito che l’Italia sarebbe entrata nella NATO insieme
alle maggiori democrazie europee e che il Patto Atlantico sarebbe
stato un passaggio necessario, per non dire indispensabile, sulla strada
dell’integrazione economica e politica del continente europeo.
Ne consegue che, per alcuni anni, l’Italia poté essere al tempo
stesso e senza troppe difficoltà, atlantica ed europeista. La NATO,
grazie allo scudo militare statunitense, garantiva la sua sicurezza,
mentre il faticoso processo di integrazione europea dava soddisfazione
alle sue ambizioni federaliste e le garantiva una sorta di parità, a
livello continentale, con gli altri Paesi europei, nonostante la
disastrosa sconfitta subita nel secondo conflitto mondiale.
38
Era evidente che, con l’adesione alla NATO, la dirigenza politica
italiana intendeva garantirsi tanto la sicurezza economica, basata su
una formula che si potrebbe definire di “interdipendenza dipendente”
dagli Stati Uniti, quanto la sicurezza politico-militare fondata sulla
copertura/protezione assicurata dalla extended deterrence
(dissuasione estesa) garantita dagli USA, che era quella che garantiva
la copertura nucleare dell’Europa occidentale da parte dell’arsenale
atomico statunitense41
, in base alla dottrina della “rappresaglia
massiccia”.42
L’analisi dell’attività diplomatica italiana negli anni
immediatamente successivi alla stipulazione del Trattato di pace
mostra come Alcide De Gasperi e con lui il governo italiano, abbiano
scelto la via della liquidazione dell’eredità coloniale italiana per
concentrare le energie sull’obiettivo di un reinserimento dell’Italia nel
contesto europeo e atlantico43
.
Questo doppio binario della politica estera nazionale divenne
ancora più facilmente percorribile dopo la morte di Joseph Stalin (5
marzo 1953), l’avvento di Nikita Kruscev al vertice del PCUS (1953-
1964) e il clima di coesistenza pacifica che si instaurò nei rapporti tra i
due blocchi. Con una politica non troppo dissimile da quella praticata
dalla Francia gollista, l’Italia poté ad esempio instaurare ottime
41
Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 182. 42
nonostante i sovietici avessero già costruito nel 1949 la loro prima bomba atomica, essi non
disponevano ancora di adeguati mezzi per poter dirigere le armi nucleari sul territorio americano,
cosa che al contrario erano perfettamente in grado di fare i bombardieri americani sugli obiettivi
sovietici. La strategia della “rappresaglia massiccia” si basava proprio sulla maggiore capacità
nucleare degli USA e doveva bloccare ogni tentativo di aggressione nei confronti degli Stati
dell’Europa occidentale attraverso la minaccia di rappresaglie nucleari sul territorio sovietico. La
stessa NATO avrebbe adottato ufficialmente questa teoria nel 1956. 43
Sara Lorenzini, L’Italia e il trattato di pace del 1947, il Mulino, Bologna, 2007.
39
relazioni commerciali con l’Unione Sovietica, pur continuando ad
essere la maggiore portaerei americana nel Mediterraneo. Tale politica
divenne però meno agevole quando, nel 1966, il generale De Gaulle
ritirò la Francia dalla struttura militare integrata del Patto Atlantico e
dimostrò in tal modo che NATO e integrazione europea non
rappresentavano due volti della stessa medaglia. A quel punto, infatti,
il livello di tolleranza statunitense nei riguardi di politiche nazionali
autonome si abbassò notevolmente.
La ricerca di un ruolo italiano autonomo venne facilitata dal fatto
che la “Guerra Fredda” aveva due teatri diversi, quello dell’Europa
continentale, dove la minaccia sovietica era più forte, incombente e
diretta, e dove ovviamente non c’era spazio per poter fare sentire la
propria voce, non solo per l’Italia ma anche per potenze europee più
forti di essa e il fronte mediterraneo, che era un fronte molto più
sfuggente, impalpabile, dove spesso il confronto tra i blocchi aveva
luogo per interposta persona44
e dove gli interessi in gioco erano
svariati e non riguardavano i soli rapporti Est-Ovest.
Sul fronte dell’Europa continentale, la posizione italiana è
sempre risultata relativamente marginale, in quanto il fronte centrale
era rimasto, per decenni, quello tedesco, dove la minaccia sovietica
era forte, incombente e diretta. Per l’Italia, per contro, c’era soltanto la
minaccia del fronte meridionale e quello terrestre, dove peraltro
rimasero schierate, per decenni, le più importanti forze di difesa
italiane. Era in realtà un fronte dove una minaccia diretta delle truppe
del Patto di Varsavia non esisteva, in quanto queste ultime, per
44
Ludovico Incisa di Camerana, “L’Italia come avamposto occidentale”, Limes – Rivista italiana
di geopolitica, n. 2/1994, p. 182.
40
affacciarsi sul territorio italiano, avrebbero dovuto prima traversare
l’Austria e la Jugoslavia45
e si poteva pure ipotizzare che, salvo
circostanze particolari, l’attraversamento della Jugoslavia non sarebbe
stato, per le truppe del blocco comunista, nemmeno un’impresa da
poco, visto l’orientamento di difesa territoriale a oltranza esistente in
quel Paese, in base alla politica del suo presidente Josip Broz Tito.
Invece, la principale linea di minaccia contro l’Italia è sempre
provenuta dall’area mediterranea e non solo e non certo dalla
relativamente modesta squadra navale sovietica operante nelle acque
di quel mare, ma da tutte le tensioni che da sempre si accumulano
sulle rive del Mediterraneo, autentico crocevia tra mondi diversi. Su
questo sfondo, la ricerca di un ruolo italiano autonomo avvenne per
strade diverse, che non è facile sintetizzare e che risentono
ovviamente delle influenze della storia recente del nostro Paese, delle
culture dominanti all’interno del medesimo ed altri fattori.
Non si può dimenticare, ad esempio, che nei primi anni di vita
della NATO oltre il 40% degli italiani, vale a dire coloro che facevano
riferimento allo schieramento socialcomunista, era ostile alla semplice
partecipazione del nostro Paese all’Alleanza. Questa constatazione,
per quanto importante, era tuttavia poca cosa di fronte alle divisioni
esistenti all’interno dello schieramento atlantico italiano, dove una
parte del medesimo lo interpretava come passiva adesione alle
direttive di Washington e non meno passiva acquiescenza alle scelte
politiche e strategiche che venivano fatte altrove, spesso e volentieri al
di sopra della nostra testa, mentre un’altra parte – di certo
45
Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 38.
41
politicamente più attiva – lo considerava come una semplice garanzia,
una sorta di assicurazione, uno scudo dietro il quale nascondersi per
poter poi agire con indipendenza e spregiudicatezza, conseguendo
risultati positivi anche a livello di soddisfacimento dell’interesse
nazionale.
In questo atteggiamento convergevano anche aspetti metapolitici,
cioè al di là della politica, più o meno recenti. Il ventennio fascista
aveva infatti sedimentato, nel profondo della cultura nazionale, un
orientamento nazionalista che non poté certo essere cancellato con la
stessa rapidità con cui era stato abbattuto il regime. Quella cultura,
infatti, alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta era
ancora ben viva e abbinata al disagio per il modo con cui era maturata
e si era determinata la sconfitta italiana nel secondo conflitto
mondiale, ora cercava un modo per riemergere. In una parola, la classe
politica italiana accettava con difficoltà il declassamento che il nostro
Paese aveva subito, nel contesto internazionale, a causa della sconfitta,
e cercava delle modalità per riuscire in qualche modo a sopperirvi.
Sotto questo profilo, l’adesione alla NATO forniva una garanzia
passiva, ma, al tempo stesso, lasciava all’Italia le mani libere per
assumere altre iniziative, da prendersi ovviamente sotto la copertura
dello scudo atlantico.
Delle due culture politiche maggioritarie sul piano interno, quella
comunista era radicalmente ostile – per evidenti motivi – alla scelta
atlantica dell’Italia. Quella cattolica, dal canto suo, era divisa tra
coloro che erano favorevoli all’Alleanza e coloro che, sulla base di
una visione ecumenica e pacifista, pensavano che la nuova missione
42
storica dell’Italia fosse quella di “gettare ponti” tra mondi ostili, tra il
blocco occidentale e quello orientale, tra il mondo occidentale e quello
arabo e così via. Questi ultimi, quindi, da un lato prestavano ossequio
formale alla NATO, ma, dall’altro, erano in continua agitazione
nell’intento di disegnare un ruolo nuovo, a livello politico, per l’Italia.
Questo determinò in breve il sorgere di una politica del “doppio
binario” e di palesi contraddizioni, di cui ritorneremo con maggiore
ampiezza nel paragrafo successivo.
Tuttavia, anche in una prospettiva meno ideologica, ci fu chi,
all’interno del nostro Paese, cercò di interpretare la NATO come un
patto tra eguali e non un “patto leonino”, dando peraltro prova, in
questa logica, di essere molto ottimista o di non aver ben compreso la
reale natura del vincolo atlantico.
Sono altamente eloquenti, a questo proposito, le iniziative avviate
da ambienti diversi per garantire all’Italia l’accesso al nucleare. Si
pensi, ad esempio, alla questione del patto segreto tra Italia e Francia
per la costruzione di una nave italiana a propulsione nucleare, un
progetto avviato nel corso degli anni Sessanta e poi continuato
successivamente, attraverso alti e bassi e fatto oggetto dell’ostilità
soprattutto degli americani, un’ostilità che può essere rettamente
intesa solo se si tiene conto del fatto che l’Alleanza Atlantica non è
mai stata un patto tra eguali, ma un sistema formato da una potenza in
posizione centrale – gli Stati Uniti d’America – e da una coalizione di
Paesi satelliti46
, ai quali è sempre stata quasi del tutto preclusa la
possibilità di svolgere un ruolo autonomo.
46
Achille Albonetti, “Storia segreta della bomba italiana ed europea”, Limes – Rivista italiana di
geopolitica, n. 2/1998, pp. 155-171.
43
2.3. La difficile integrazione tra sicurezza atlantica e sicurezza
nazionale
La questione della difficile integrazione che si è sempre
manifestata tra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale è
essenzialmente frutto del fatto che, per le ragioni già accennate, esse
non hanno mai proceduto di pari passo, nel senso che la sicurezza
atlantica ha inglobato al proprio interno tutte le esigenze di sicurezza
passiva dell’Italia, ma non ha fatto altrettanto con quelle di tutela
attiva. La sicurezza atlantica, in effetti, ha funzionato sul versante
della tutela dai maggiori rischi che incombevano sulla sicurezza
nazionale italiana, ma non ha certo mai contribuito a soddisfare
l’ambizione di quanti, a livello di vertici politici ed economici,
miravano a sviluppare un ruolo di maggiore portata per il nostro
Paese.
Il primo banco di prova dell’atlantismo italiano fu la questione di
Trieste, dal momento che, con un singolare rovesciamento di
posizioni, l’Unione Sovietica sosteneva le tesi italiane (quasi
certamente per fare uno sgarbo alla Jugoslavia titina, di cui Mosca
deplorava l’inaffidabilità e la crescente autonomia), mentre gli alleati
occidentali parevano preferire quelle jugoslave. Nel caso di specie,
l’integrazione fra le esigenze di sicurezza nazionale e quelle atlantiche
poté essere contemperata grazie al fatto che la riunificazione di Trieste
all’Italia serviva a soddisfare il nazionalismo italiano e, al tempo
stesso, poteva giovare al rafforzamento complessivo dell’Alleanza,
44
che certamente risultava più solida se al proprio interno poteva vantare
un alleato contento del trattamento che gli era stato riservato.
La questione di Trieste, tuttavia, era poca cosa nel contesto della
già citata integrazione fra sicurezza atlantica e sicurezza nazionale. A
proposito di quest’ultima, infatti, il problema che si poneva era
decisamente più vasto. Per radicata tradizione, infatti, la politica estera
italiana si è sempre trovata nella necessità di integrare le sue esigenze
di politica europea con quelle di politica mediterranea ed occorre
riconoscere che, su questo sfondo, nel secondo dopoguerra tale
esigenza di sintesi è stata resa più difficile dalla “Guerra Fredda”,
dalla situazione politica interna del Paese (con la già citata
contrapposizione frontale tra uno schieramento politico filoamericano
e uno filosovietico) e dal fatto che l’Italia usciva pesantemente
ridimensionata, a livello politico globale, dalla grave sconfitta subita
nel corso del secondo conflitto mondiale, che l’aveva relegata al ruolo
subalterno di media potenza europea.
Proprio a seguito di tali considerazioni, la partecipazione italiana
al progetto di organizzazione atlantica, per quanto convinta, fu sempre
messa a paragone con altre opzioni di politica estera, come lo sviluppo
di una politica di sicurezza collettiva europea, la ricerca di un rapporto
più bilaterale che multilaterale con gli Stati Uniti e infine la ricerca di
un ruolo autonomo nel Mediterraneo, ponendosi come “ponte” fra gli
interessi del mondo occidentale e quelli del nascente nazionalismo
arabo, atteggiamento facilitato altresì dal fatto che, non essendo più
l’Italia una potenza coloniale (dato che tutte le sue colonie erano state
perse nel corso del secondo conflitto mondiale), il suo orientamento di
45
apertura era più credibile di quello di altre potenze europee, che erano
restie ad abbandonare i loro possedimenti coloniali.
Sullo sfondo cominciava a stagliarsi, in tutta la sua importanza, la
questione dell’interesse nazionale italiano e del fatto che esso era
contrapposto tra l’obbligo di osservanza degli impegni atlantici e il
fatto che qualunque iniziativa che prescindesse da questi ultimi recava
in sé la possibilità di nuocere loro in misura alquanto significativa.
Naturalmente non mancava chi, nella diplomazia italiana, era attento a
sottolineare che, con i suoi comportamenti autonomi, l’Italia stava
facendo l’interesse del blocco occidentale latamente inteso e non solo
quello più strettamente nazionale, ma è chiaro che una tesi del genere
non era facilissima da difendere47
, specialmente quando l’interesse
nazionale pareva prendere decisamente la meglio su quello atlantico.
Per fare un esempio concreto, dopo la crisi di Suez del 1956 e
l’appoggio agli Stati Uniti dato dal governo di Roma, in sostanziale
polemica con quelli di Londra e Parigi, si aprirono nuovi spazi di
penetrazione economica e di collaborazione energetica dell’Italia in
direzione dell’Egitto e di altri Paesi del Medio Oriente.
L’atteggiamento di apertura verso tali Paesi, sostenuto con forza dal
presidente dell’ENI Enrico Mattei48
, ma anche dal presidente della
Repubblica Giovanni Gronchi e dal leader democristiano Amintore
Fanfani, implicava necessariamente l’ottenimento di una maggiore
libertà d’azione per la politica estera italiana, di modo che a
quest’ultima fosse offerta l’opportunità di presentarsi come la 47
Alberto Tonini, “L’Italia fra Europa e Mediterraneo nella seconda metà del Novecento, in Ilona
Fried e Elena Barotono (a cura di), Il Novecento, un secolo di cultura: Italia e Ungheria,
Budapest, 2002, pp. 57-74. 48
Nico Perrone, Mattei, il nemico italiano, Leonardo, Milano, 1989;
Leonardo Maugeri, L’arma del petrolio, Loggia dei Lanzi, Firenze, 1994.
46
costruttrice di direttrici di cooperazione tra l’Occidente e il mondo
arabo.
Questo nuovo orientamento, che successivamente sarà definito di
“neo-atlantismo” e che, almeno nelle intenzioni di Mattei, mirava a
scardinare il sistema di controllo dei mercati energetici elaborato dalle
multinazionali del petrolio (le cosidette “sette sorelle”49
), finì ben
presto per scontrarsi con le posizioni di più tradizionale allineamento
atlantico50
, nelle quali tendeva in genere a riconoscersi buona parte del
corpo diplomatico e della classe militare nazionale. Senza ombra di
dubbio, l’obiettivo del neo-atlantismo era quello di «tentare di marcare
una maggiore autonomia della nostra politica estera»51
e di utilizzarla
altresì come mezzo per «tentare di recuperare, in qualche modo, quel
ruolo di “media potenza” smarrito con la sconfitta nella seconda
guerra mondiale»52
, mentre i fautori della più passiva fedeltà atlantica
non nutrivano obiettivi così ambiziosi, la cui intrinseca natura
probabilmente non comprendevano nemmeno appieno.
Tale confronto interno si fece particolarmente acceso nel corso
del 1957, per cui, mentre da una parte Mattei dava prova di grande
attivismo, stringendo accordi energetici con Paesi poco amati dagli
Stati Uniti come l’Iran, nel frattempo, all’inizio del 1958, il governo
italiano strinse un accordo con le autorità di Washington per
49 Le principali compagnie petrolifere multinazionali: le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco,
Standard oil of California (Socal), Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica
British Petroleum, che fino alla crisi petrolifera hanno svolto un ruolo dominante nel mercato del
petrolio. Il gruppo di compagnie si è modificato in seguito alla fusione tra la Socal e la Gulf oil,
che ha dato vita nel 1984 alla Chevron Corporation, a sua volta fusa nel 2001 con la Texaco, e alla
fusione (1999) della Exxon con la Mobil. Fonte: http://www.treccani.it/enciclopedia/sette-sorelle/ 50
Valter Coralluzzo, “La politica mediterranea dell’Italia”, in Carlo Maria Santoro, Il mosaico
mediterraneo, il Mulino, Bologna, 1991, pp. 43-45. 51
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia... , cit., p. 206. 52
Giuseppe Mammarella – Paolo Cacace, La politica estera dell’Italia... , cit., p. 206
47
l’installazione, sul territorio nazionale, di rampe di lancio per missili
USA dotati di testata nucleare. Naturalmente una scelta del genere
rafforzava l’immagine dell’Italia come elemento cardine del sistema
di difesa NATO del Mediterraneo e, al tempo stesso, ne contraddiceva
l’immagine di “ponte” fra mondo occidentale e mondo arabo. Ne
nacque una contraddizione insanabile, che non poteva essere
mantenuta a lungo. E fu infatti questo l’orientamento che prevalse ai
primi del 1959, quando le dimissioni di Fanfani da ogni incarico
governativo e politico dimostrarono che la linea filoatlantica era
preferita, dalle classi dirigenti italiane, a qualsiasi altra, giudicata più
avventurista.
È tuttavia opportuno notare che il versante di coloro che non
accettavano un’impostazione di passiva subordinazione a un
approccio meramente atlantico ed europeista non era un versante
omogeneo, ma vedeva confluire soggetti diversi, che potevano essere
tanto gli epigoni di una tardiva forma di nazionalismo quanto tutti
coloro che, da vari punti di vista, accarezzavano progetti terzaforzisti.
Un insieme alquanto eterogeneo, quindi, dove non era sempre facile
discernere tra quanti si facevano fautori di un approccio realmente
nuovo e quanti si limitavano ad agitare tematiche già note. Il limite
evidente di questa politica, tuttavia, era che, ogni volta che si arrivava
a scelte importanti, erano sempre quelle atlantiche a dover prevalere,
perché l’Italia non aveva alcuna possibilità, a livello di politica estera,
di fare diversamente, per cui non parve sorprendente che qualsiasi
scelta di tipo terzaforzista finisse per essere bollata di velleitarismo e
finisse per perdere qualsiasi connotazione di credibile opzione di
48
politica estera53
. Non che fosse davvero così, in molti casi, ma come
tale finiva per essere considerata e messa all’indice.
Alla stessa stregua, una nuova fase della politica filoaraba,
apertasi nel 1967, subì una dura battuta d’arresto nel 1973, con lo
scoppio della guerra arabo-israeliana del Kippur, ma questo non
impedì alla politica estera italiana di accentuare la propria linea filo-
araba. Tuttavia, qualsiasi reale rottura italiana con Israele ci era
preclusa dal legame con USA e NATO, per cui anche in questo caso la
politica italiana continuò a risultare velleitaria, contraddittoria e
involuta. Ne risultarono pure evidenti danni di immagine, in quanto
agli occhi dello schieramento atlantico la politica estera italiana era
totalmente inaffidabile, ma lo era altresì agli occhi dei potenziali
interlocutori arabi, i quali erano probabilmente disposti ad ammettere
la sincerità degli intendimenti italiani, ma dovevano al tempo stesso
prendere atto che quella italiana era una sovranità limitata, per cui il
governo di Roma, oltre certi limiti, non aveva proprio la possibilità di
spingersi.
La questione degli euromissili e la decisione del governo italiano
di ospitarli sul proprio territorio (una decisione che suscitò notevoli
polemiche e malumori), rappresentarono un approccio esattamente
inverso al precedente, ma comunque speculare, in quanto si cercò di
utilizzare l’obbedienza atlantica al fine di crearsi maggiori spazi
operativi su altri versanti di politica estera54
. Fino a quel momento, in
effetti, era avvenuto esattamente l’inverso. Tuttavia, tale diverso
53
Francesco Perfetti, “Mediterraneo e Medio Oriente nella politica estera italiana”, in La
Comunità internazionale, fasc. 2/2011, p. 193. 54
Sergio Romano, “Rinegoziamo le basi americane”, Limes – Rivista italiana di geopolitica, n. 4,
1996, p. 249 sg.
49
approccio non si dimostrò in grado di conferire all’Italia spazi politici
più ampi di quelli che già possedeva, notoriamente alquanto limitati.
Come sempre, non era facile contemperare interesse nazionale e
interesse atlantico e, in caso di conflitto tra i due, era sempre il
secondo non solo a prevalere, ma a dover prevalere (il che ovviamente
la dice lunga sull’intrinseca natura del vincolo atlantico).
Una nuova fase della politica estera italiana si aprì nel 1979,
quando il nostro Paese venne chiamato a concorrere alla formazione di
una forza militare multinazionale che doveva vigilare il confine tra
Israele e Libano. Da allora, numerose sono state le missioni militari
internazionali cui l’Italia è stata chiamata a partecipare, di norma sotto
l’egida dell’ONU: è sufficiente ricordare la partecipazione della
Marina Militare al pattugliamento degli Stretti di Tiran nel Mar Rosso;
l’invio di truppe italiane a Beirut nel 1982, come parte del contingente
multinazionale di pace; l’opera di sminamento del Canale di Suez nel
1984 per mezzo di unità sempre della Marina Militare; la
partecipazione alla missione per garantire la libertà di navigazione nel
Golfo Persico nel 1987.
Questo nuovo attivismo militare venne accompagnato da
crescenti legami politici ed economici con i Paesi del Mediterraneo e
del Medio Oriente, sulla base dell’esigenza, fortemente sostenuta da
Bettino Craxi per il lungo periodo in cui fu capo del governo (1983-
1987), di conferire maggiore prestigio internazionale all’Italia, come
pure della tradizionale politica filo-araba cara al ministro degli Esteri
Giulio Andreotti.
50
Tale maggiore visibilità italiana sul piano internazionale
determinò altresì alcuni contraccolpi negativi, come quello di
diventare terreno di scontro tra interessi diversi (ad esempio il
terrorismo palestinese e il suo tradizionale nemico israeliano). Fu in
tali circostanze che i rapporti tra Italia e Stati Uniti raggiunsero uno
dei punti più bassi a partire dal 1945, in particolare al momento del
celebre incidente avvenuto nel 1985 nella base NATO di Sigonella in
Sicilia, quando il tentativo americano di arrestare i terroristi
palestinesi responsabili del sequestro della nave da crociera “Achille
Lauro”, culminato nell’assassinio di un cittadino statunitense, venne
bloccato con le armi dalle forze di sicurezza italiane55
.
L’amministrazione del presidente Ronald Reagan (1981-1989),
duramente colpita dal comportamento del governo di Roma, criticò
aspramente la decisione di non procedere all’arresto di colui che era
considerato il mandante dell’azione terroristica e di non consegnare i
responsabili alla giustizia americana. Questa netta presa di posizione
si rivelò decisiva per costringere Craxi alle dimissioni e fu così che,
per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, una crisi di
governo venne provocata da un contrasto sulla politica estera del
Paese tra le fazioni filo-atlantiche e quelle che si potrebbero definire
più autonomiste56
.
Si può concludere questo paragrafo con la pessimistica
constatazione che la difficile integrazione fra sicurezza atlantica e
sicurezza nazionale non c’è mai stata, fra il 1949 e il 1989. Obiettivi
55
Matteo Gerlini, “I rapporti con gli Stati Uniti: la crisi di Sigonella e la formazione del G7”, in
Ennio Di Nolfo (a cura di), La politica estera italiana negli anni Ottanta, Venezia, 2007, pp. 99-
114. 56
Alberto Tonini, “L’Italia fra Europa e Mediterraneo...., cit. pp. 57-74.
51
di sicurezza nazionale sono stati ammessi, ed acquisiti, tutte le volte in
cui si sono perfettamente identificati con quelli atlantici. Per contro,
non c’è stato alcuno spazio per loro quando l’interesse nazionale è
entrato in rotta di collisione, anche blanda, con l’interesse atlantico,
che è sempre stato quello che ha avuto la prevalenza su tutto il resto.
In sede di valutazione, si potrebbe dire che è normale, quando si
partecipa a un sistema di sicurezza collettivo come la NATO, che gli
interessi dell’Alleanza siano superiori, nel loro complesso, all’insieme
degli interessi dei singoli Paesi che ne fanno parte, ma
un’affermazione del genere, per quanto legittima e fondata, sarebbe
almeno in parte assolutoria, in quanto l’interesse atlantico si è spesso
imposto, piuttosto duramente, all’interesse nazionale. È chiaro che una
riflessione di tale natura potrebbe portare molto lontano e che è di
fatto preferibile limitarsi a prendere atto di ciò che è stato, ma non c’è
dubbio che non solo l’interesse nazionale italiano e il quadro di
sicurezza che ne deriva, non si è mai identificato in toto con quello
atlantico, ma talvolta ha dovuto anche pagarne lo scotto.
L’interpretazione più benevola che è possibile darne è che l’interesse
atlantico abbia tutelato, nel lungo periodo, le macro-esigenze di
sicurezza del nostro Paese, senza per contro riuscire a contemperare
queste ultime con le micro-esigenze di sicurezza nazionale.
2.4. Il problema del condizionamento politico: atlantici per amore
o per forza ?
Sulla politica estera italiana sono presenti, fin dall’Unità, alcuni
fattori di debolezza che sarebbe assurdo non ricordare. Il primo di essi
52
è rappresentato dalla difficile posizione geopolitica che esso ha nel
Mediterraneo, dove la sua centralità è innegabile, ma, al tempo stesso,
è pure fonte di infiniti problemi, in quanto un Paese che occupi una
posizione cruciale in un’area strategica altrettanto cruciale è, per sua
stessa natura, un Paese a rischio.
Il secondo è rappresentato dalla nostra fragile, per non dire
fragilissima, identità nazionale, messa più volte alla prova dai
particolarismi, dai localismi e ovviamente anche dalle appartenenze
ideologiche. Non è certo una forzatura affermare che, almeno fino al
crollo del comunismo e del blocco sovietico, l’appartenenza
ideologica ha rappresentato, per milioni di italiani, un vincolo di
riferimento assai più forte dell’identità nazionale. In una parola, per
decenni molti, nell’Estrema Sinistra italiana, si sono sentiti prima
comunisti che italiani e, in quanto tali, ostili alle scelte di politica
internazionale del governo di Roma, specie quando tali scelte si
identificavano con le scelte atlantiche.
Il terzo fattore è l’incerto rango che l’Italia occupa sul piano
internazionale, dato che non si è mai risolto il cruciale interrogativo se
essa sia “l’ultimo dei grandi” o “il primo dei piccoli”. Anche dando
per scontato il fatto che lo scivolamento all’indietro è sempre più
evidente e accelerato, resta comunque una cruciale questione di
posizionamento, mai veramente risolta57
. Molte persone, nel nostro
Paese, ritengono che non vi sia una sostanziale differenza ad essere
l’ultimo dei grandi rispetto al primo dei piccoli, ma così non è.
57
Istituto Affari Internazionali, La politica estera italiana a 150 anni dall’Unità: continuità,
riforme e nuove sfide. Rapporto introduttivo dell’Edizione 2011 dell’annuario “La politica estera
dell’Italia”, Documenti IAI 11/06 – Marzo 2011, p. 2.
53
Il quarto fattore è che l’Italia è sempre stata costretta, dalla sua
intrinseca debolezza, a prendere parte ad alleanze asimmetriche,
alleanze all’interno delle quali non ha certo svolto un ruolo di primo
piano, ma semmai quello di comprimario obbligato ad adeguarvisi
proprio a causa delle sue stesse debolezze strutturali. Questa
condizione poco felice è risultata ulteriormente accentuata da un
significativo deficit di strumenti, poiché il nostro Paese non ha quasi
mai posseduto le risorse diplomatiche e soprattutto militari per far
sentire credibilmente la propria voce nell’agone internazionale. Si è
speso non poco, dal 1949 al 1989, per la difesa nazionale, ma tale
spesa è sempre stata una spesa concentrata soprattutto sul personale,
piuttosto che sui materiali e le dotazioni, per cui questo non è servito a
rafforzare nel corso del tempo lo strumento militare italiano, che di
fatto è rimasto debole.
L’adesione italiana alla NATO, nel 1949, ebbe luogo con
modalità assolutamente peculiari per il nostro Paese, vale a dire
«l’ansia di partecipare e il desiderio di eludere le regole della
partecipazione»58
, che si concretizzavano in «pubblici entusiasmi e
private prudenze»59
.
Del resto, nessun serio ragionamento su un tema del genere può
essere fatto prescindendo da una constatazione fondamentale, vale a
dire quella relativa al fatto che il quadro politico interno italiano era
nettamente diviso in due blocchi contrapposti, con orientamenti
politici radicalmente diversi.
58
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., p. 54. 59
Ibidem, p. 84.
54
Il problema fondamentale che si poneva alla classe dirigente
democristiana era quello di conciliare la stabilizzazione del quadro
politico (possibile solo con l’allargamento del governo ai socialisti)
con il sostanziale mantenimento delle alleanze internazionali e della
struttura socioeconomica liberistica60
.
Non appare dunque molto difficile rispondere all’interrogativo
che dà il titolo al presente paragrafo: in realtà gli italiani furono
atlantici più per forza che per amore, e in una forma del tutto
peculiare, per di più. Da un lato, infatti, non c’è dubbio che una parte
maggioritaria del Paese guardava con maggior favore agli Stati Uniti e
al modello di vita americano più di quanto non guardasse in termini
positivi all’URSS e a quello sovietico. Tuttavia – e qui sta il punto – si
voleva il più possibile fare parte del club atlantico senza doverne
pagare tassa di iscrizione e oneri, secondo un modello che non
rappresenta peraltro una novità nella storia della politica estera
italiana. Basta pensare alla modestia dello strumento militare italiano,
non tanto in termini quantitativi ma qualitativi, per comprendere come
l’adesione italiana alla NATO sia paragonabile all’acquisto di
un’assicurazione sulla vita (politica) da parte di una classe dirigente
che voleva però pagare il minimo possibile di polizza. E fu quello che,
per decenni, in sostanza venne fatto, basandosi sulla constatazione che
la rendita di posizione geopolitica che il nostro Paese era in grado di
riscuotere era tale da poter giustificare molti comportamenti, a
cominciare da certi velleitarismi terzaforzisti o indipendentisti o da
60
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere 1943-1976...., cit., p. 51.
55
rendere ammissibili certe omissioni sul versante della spesa militare e
di un impegno atlantico realmente convinto.
Il periodo 1959-1962 vide venir meno l’appoggio degli USA (e
anche del Vaticano) alla linea democristiana più intransigente, ma non
si trattò di un evento casuale, bensì di una scelta politica molto
precisa. L’amministrazione repubblicana, guidata dal presidente
Dwight Eisenhower, aveva dato prova di nutrire un forte orientamento
antisovietico, ma non lo aveva fatto con la necessaria flessibilità,
com’è dimostrato dal fatto che la sua dottrina strategica prevalente era
quella della “rappresaglia massiccia”, per cui, a ogni eventuale attacco
sovietico contro un Paese della NATO, quest’ultima avrebbe
immediatamente reagito con un’apocalisse nucleare.
La rigidezza di tale impostazione non era sfuggita alla nuova
amministrazione democratica subentrata a quella repubblicana
all’inizio del 1961 e guidata dal giovane presidente John Fitzgerald
Kennedy. Costui aveva dovuto affrontare crisi molto gravi nei rapporti
Est-Ovest, come quella di Berlino dell’agosto 1961 o quella di Cuba
dell’ottobre-novembre 1962, quando USA e URSS arrivarono
veramente a un passo dallo scontro nucleare, ma aveva saputo imporre
la propria volontà politica e i propri orientamenti strategici più grazie
alla flessibilità che alla rigidità di comportamenti. In tale flessibilità
rientrava sicuramente anche una visione meno ispirata alla logica del
“muro contro muro” e intesa ad indebolire il blocco comunista e i suoi
accoliti dovunque e comunque ciò fosse possibile. In questa logica,
anche “l’apertura a sinistra” in un Paese come l’Italia, con la
cooptazione del Partito socialista nell’area di governo, non era una
56
scelta disastrosamente aperturista, come affermava la destra
democristiana, ma piuttosto un’abile operazione per indebolire lo
schieramento socialcomunista, separando i socialisti dai comunisti in
base al principio del divide et impera, emarginando i secondi e
costringendo i primi a prendere le distanze dai loro alleati di un
tempo.
Per tutto il tempo in cui la contrapposizione tra i due blocchi fu
molto viva, il Partito comunista italiano mantenne una posizione di
radicale ostilità alla NATO. Tale ostilità, tuttavia, con il tempo venne
meno, specialmente quando il progressivo indebolirsi dell’Unione
Sovietica divenne un fatto evidente ed obbligò ovviamente il PCI a
ricercare una nuova posizione, nella quale un ruolo importante era
naturalmente da ascrivere alla sua accettazione della partecipazione
dell’Italia all’Alleanza Atlantica. Tuttavia, tale posizione risultò
almeno in parte ondivaga, poiché una cosa era – per la dirigenza
comunista – l’accettazione di tipo generalistico della partecipazione
italiana all’alleanza, un’altra era, ad esempio, la passiva accettazione
dell’installazione degli euromissili in territorio italiano61
. All’inverso,
non c’è dubbio che i governi a guida socialista che governarono
l’Italia negli anni Ottanta operarono la scelta di ospitare gli euromissili
sul territorio nazionale anche, se non soprattutto, per mettere il PCI in
una condizione di difficoltà e relegarlo in una posizione di marginalità
dalla quale gli sarebbe stato molto difficile uscire62
. Non a caso, una
scelta del genere mise effettivamente il PCI in difficoltà e lo costrinse
61
Leopoldo Nuti, “Dagli euromissili alla fine della guerra fredda. La politica estera italiana degli
anni Ottanta”, in Italianieuropei, 5/2004, p. 3. 62
Ibidem.
57
a giocare la carta dell’ “opposizione leale”, cioè di un’opposizione che
rivendicava il proprio diritto a contestare la decisione di installare i
missili in territorio nazionale, senza per questo mettere in discussione
un dato ormai acquisito come quello della fedeltà alla NATO63
.
L’aspetto più manifesto del fatto che l’Italia non era atlantica “per
amore”, ma “per forza” è quindi riscontrabile nel momento in cui, alla
fine degli anni Settanta, venne pronunciato il veto USA contro
l’ingresso dei comunisti nel governo, veto che diventò un vero e
proprio obbligo politico. Tale obbligo cercò di essere scavalcato dagli
stessi comunisti quando essi dichiararono la loro disponibilità ad
accettare la partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica64
. Tuttavia,
era chiaro l’obiettivo del PCI di cogliere, in questo modo, un duplice
successo: da un lato dare prova della propria disponibilità ad aderire
alla NATO, ma, dall’altro, anche svuotarne, di fatto, dal di dentro i
contenuti65
.
In ultima analisi, non appare una forzatura affermare che gli
italiani sono stati atlantici molto più “per forza” che “per amore”, in
quanto, a parte una minoranza di convinti sostenitori dell’Alleanza, la
maggior parte del Paese, in particolare delle sue classi dirigenti, si è
sempre resa perfettamente conto che il vincolo atlantico, molto utile
sul versante passivo, lo è sempre stato molto meno su quello attivo, là
dove c’erano da tutelare interessi nazionali concreti.
63
Leopoldo Nuti, “Dagli euromissili alla fine della guerra fredda...., cit., p. 4. 64
Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza...., cit., p. 206. 65
Sergio Romano, Guida alla politica estera italiana...., cit., pp. 195-197.
58
2.5. Il ruolo dei servizi segreti e delle strutture parallele
Fin dai primi anni di esistenza dell’Alleanza, era avvertito negli
ambienti NATO il pericolo dello scoppio di un nuovo conflitto in
territorio europeo e le previsioni sull’andamento iniziale delle
operazioni erano tutt’altro che ottimistiche. Il dispositivo militare
sovietico era, a livello convenzionale, talmente poderoso da rendere
più che plausibile l’ipotesi che, in caso di attacco, esso avrebbe potuto
sfondare le ben più deboli difese alleate e far penetrare le sue forze
corazzate in profondità. Uno sviluppo del genere sul piano militare
avrebbe comportato, per la NATO, la perdita di buona parte della
Germania, della Danimarca e probabilmente anche di una parte
consistente dell’Italia settentrionale.
Nel corso del secondo conflitto mondiale, le forze alleate
avevano coordinato l’attività dei movimenti di resistenza operanti nei
Paesi occupati dalle truppe dell’Asse tramite il SOE (Special
Operations Executive). Alla fine del conflitto, tale organismo era stato
sciolto, ma venne riattivato all’inizio degli anni Cinquanta, come
nucleo di una nuova organizzazione che aveva il compito di porre in
essere una rete di resistenza operante nei vari Paesi europei, nel caso
questi ultimi fossero stati occupati dall’Armata Rossa o nel caso in cui
i partiti comunisti avessero preso il potere mediante un colpo di Stato.
Un primo gruppo di Paesi (USA, Gran Bretagna, Francia) diede
quindi vita al Clandestine Planning Committee (CPC), il cui compito
era quello di pianificare le attività che avrebbero dovuto essere svolte
in comune in caso di invasione sovietica, in supporto alle operazioni
militari delle forze NATO. La relativa struttura di coordinamento era
59
sottoposta alla direzione del comando supremo delle forze alleate in
Europa, lo SHAPE (Supreme Headquarters Allied Powers Europe).
Lo scopo principale di tale struttura consisteva nel contrastare
una possibile invasione dell’Europa occidentale da parte delle forze
del Patto di Varsavia, essenzialmente mediante la conduzione di atti di
sabotaggio e guerriglia dietro le linee nemiche. Si sperava di poter
rallentare, in tal modo, la penetrazione in profondità sovietica, dando
tempo agli Stati Uniti di organizzare una reazione più articolata.
Questa struttura, denominata non a caso Stay behind, avrebbe dovuto
appunto “stare dietro” le linee nemiche, colpendo i rifornimenti e i
collegamenti delle truppe nemiche avanzanti. Per meglio tutelarne la
natura clandestina, la rete Stay behind venne tenuta rigorosamente al
di fuori della struttura militare della NATO66
.
Il dato da cui occorre partire è che, nel momento in cui si
manifestò l’adesione italiana all’Alleanza, cominciarono altresì ad
essere stipulati accordi segreti che impegnavano i governi aderenti e la
struttura militare atlantica a muoversi di comune accordo contro il
nemico esterno ed interno, percepito come avversario mortale. Il
servizio segreto militare italiano (SIFAR – Servizio Informazioni
Forze ARmate) nacque in stretto contatto con il servizio segreto
statunitense (CIA – Central Intelligence Agency) con il fine ultimo di
garantire alla NATO e soprattutto agli Stati Uniti, che sarebbe stato
compiuto ogni sforzo per impedire ai comunisti di prendere il potere
in Italia67
.
66
Francesco Cossiga, La versione di K, Rizzoli, Milano, 2009, p. 152. 67
Giuseppe De Lutiis, Storia dei Servizi Segreti in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1991, p. 128 sgg.
60
Tale sforzo venne notoriamente orchestrato con la gestione dei
vari tentativi di golpe che vennero organizzati tra la metà degli anni
Sessanta e l’inizio degli anni Settanta (il golpe bianco o Piano Solo del
generale Giovanni De Lorenzo del 1964, il golpe Junio Valerio
Borghese del 1970) e con quella, ancora più complessa, degli opposti
estremismi e del terrorismo nero e rosso. A proposito del terrorismo,
Giuseppe De Lutiis ha scritto che «molti indizi lasciano ritenere che vi
sia stata quanto meno una tutela esterna del terrorismo, la cui attività
era perfettamente funzionale ai disegni di chi intendeva opporsi con
ogni mezzo allo spostamento a sinistra dell’asse politico italiano»68
.
Per non parlare ovviamente di strutture più o meno segrete come
l’organizzazione “Gladio”, di cui si occupò per primo Francesco
Cossiga, quando era sottosegretario alla Difesa.
Già nel 1952, in base all’articolo 3 del Patto Atlantico, la CIA e il
SIFAR avevano stipulato un accordo per la creazione di una base
statunitense a Capo Marrargiu, in Sardegna, denominata Centro
addestramento guastatori (Cag) e riservata alla rete Stay Behind,
costituita al fine di operare in territori eventualmente occupati dal
nemico.
La direttiva USA NSC 5412 del 14 marzo 1954, denominata
Covert operations (operazioni nascoste), dispose tuttavia
un’integrazione fra la rete Stay Behind americana in Europa e quelle
nazionali di alcuni Paesi, compresi alcuni neutrali (come la Svizzera),
allo scopo di coordinare le azioni clandestine da condurre, in caso di
68
Giuseppe De Lutiis, Il golpe di via Fani, Sperling & Kupfer, Milano, 2007, p. 14.
61
invasione, in alcuni specifici settori, come informazione, sabotaggio,
evasione e fuga, guerriglia, propaganda.
Nel 1956, a seguito della firma di un protocollo d’intesa stipulato
fra il SIFAR e la CIA, la Stay Behind venne estesa a tutto il Triveneto,
vale a dire alla principale zona che sarebbe stata interessata da un
eventuale attacco sovietico proveniente da Est. Da quell’anno al 1980,
questa rete sarebbe stata alle dipendenze del servizio segreto militare
italiano, denominato da SIFAR a SID (Servizio Italiano Difesa) e poi
SISMI (Servizio Informazioni Sicurezza MIlitare). L’organico sarebbe
variato da un minimo di 622 unità (tutti civili), facenti parte
dell’elenco a suo tempo divulgato, a un massimo di 3.650 uomini69
.
Nel 1964, il servizio segreto italiano entrò a far parte dell’ Allied
Clandestine Committee (ACC), emanazione del Comitato di
pianificazione e coordinamento dello SHAPE, tra i cui compiti
rientrava esplicitamente anche l’eventualità di contrastare possibili
sovvertimenti interni.
Sull’esistenza di tale organizzazione venne a lungo mantenuto il
segreto, che cominciò ad essere parzialmente rotto a partire dalla metà
degli anni Ottanta. La sua esistenza venne ufficialmente riconosciuta
dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti il 24 ottobre 1990. Fino
a quella data, dell’esistenza di tale organizzazione erano informati i
massimi vertici politici e militari del Paese, ma non il Parlamento.
Dopo che venne rivelato il fatto che la rete Stay behind era
operante in quasi tutti i Paesi membri dell’Alleanza, ci furono
69
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 535 sg. (L’incertezza delle cifre
sulla reale consistenza della rete fa parte dell’attività di disinformazione che è sempre stata
condotta in merito ad essa).
62
numerose proteste relative al fatto che si era trattato di
un’organizzazione cresciuta e prosperata assolutamente al di fuori
della legalità.
Chiave di tutte le polemiche, in particolare di quelle successive,
molto virulente, era il fatto se questa rete fosse stata creata solo per
fronteggiare un’ipotetica invasione sovietica o anche per contrastare
alcune legittime modificazioni politiche interne, come ad esempio la
crescita di consenso del partito comunista. Se così fosse stato, infatti,
la rete Stay Behind avrebbe svolto, a livello di politica interna
nazionale, un ruolo assolutamente indebito.
Non appare certamente una forzatura sostenere che la rete Stay
Behind rappresenti una sorta di cartina di tornasole della natura
alquanto controversa della NATO, come pure una conferma del fatto
che essa svolse un ruolo anche politico. Tuttavia, occorre cercare di
andare al di là del dato meramente polemico e leggere la situazione
alla luce di quello che era il clima Est-Ovest per parecchi decenni,
quali le rivalità fra il blocco occidentale e quello sovietico, e quale
infine la posta in gioco.
In termini generali, è da ritenere che la linea di distinzione più
netta passi tra la legittimità militare di una rete clandestina come la
Stay Behind e la sua legittimità politica. Poiché la NATO è sempre
stata un’alleanza politico-militare in funzione anticomunista, non è
sorprendente o singolare che essa si sia costantemente preoccupata di
impedire il successo del blocco sovietico e che, per farlo, abbia preso
le sue precauzioni, compresa l’organizzazione di una rete clandestina
di resistenza, da attivare in caso di attacco sovietico.
63
Ben diverso, per contro, è il discorso relativo al fatto che tale rete
clandestina abbia potuto in qualche modo svolgere compiti non
istituzionali e si sia in qualche modo resa responsabile di interventi
diretti o indiretti, nella politica interna nazionale. Se questo fosse
accaduto, allora ci troveremmo di fronte ad un indubbio aspetto
negativo, relativamente al quale non sarebbe possibile in alcun modo
rivendicare una qualche forma di legittimità di comportamento.
Non è facile, tra le tante tesi sul tappeto, sposarne una in
particolare che non abbia a propria volta delle valenze scopertamente
politiche. Cercando di mantenerci in un ambito il più possibile
scientifico, si può dire che la struttura Stay Behind non fu certamente
concepita, in Italia come in altri Paesi, per impedire manu militari,
l’avvento al governo di partiti comunisti nazionali, ma non c’è dubbio
che impedire tale avvento, anche semplicemente per via politica, fu
per decenni la priorità strategica dell’Alleanza, il che conferisce come
minimo una natura e un ruolo ambigui a strutture come la rete Stay
Behind, ruolo che aumenta ulteriormente se poi si pensa al
coinvolgimento che queste organizzazioni o singoli membri delle
medesime, riteniamo abbiano avuto in certe vicende misteriose e
tutt’altro che esaltanti della nostra storia recente.
64
CAPITOLO 3
L’ITALIA NELLA NATO: POLITICA MILITARE
3.1. L’integrazione delle strutture militari italiane in quelle
atlantiche
L’Italia che veniva chiamata a fare parte della NATO fin dalla
sua fondazione era una nazione che usciva a pezzi da una grave
sconfitta militare e che doveva scontare, per di più, l’onta dell’8
settembre 1943, quando le sue Forze Armate, lasciate
drammaticamente prive di ordini e di direttive chiare dai massimi
vertici dello Stato, erano andate incontro al più totale collasso, oltre
che ad episodi francamente deplorevoli come l’autoconsegna della
flotta al nemico, nelle acque di Malta, frutto di una pessima gestione
della fuoriuscita dal conflitto. A ciò si aggiungeva il fatto che, nel
corso dei lunghi anni di partecipazione alla guerra a fianco dell’allora
alleato tedesco, non è che le forze militari italiane avessero dato una
grande prova di sé, a parte alcune rare eccezioni (come le incursioni
della X Flottiglia MAS nei porti del Mediterraneo sotto controllo
inglese o l’eroico comportamento della Divisione paracadutisti
“Folgore” ad El Alamein e poco altro) e tutto questo aveva contribuito
a dare alimento a un mito che da sempre aleggia sulla storia nazionale,
quello per cui “gli italiani non saprebbero battersi”. Mito che non
risponde a verità, ma che accompagna lo Stato unitario fin da quando
era ancora il Regno di Sardegna, con pagine poco brillanti come le
65
due battaglie di Custoza (1848 e 1866), la sconfitta di Lissa (1866), il
massacro di Dogali (1887), il disastro di Adua (1896) e la rotta di
Caporetto (1917). Tutti eventi che non hanno certo giovato, nel loro
insieme, al prestigio delle armi italiane.
La rovinosa sconfitta, inoltre, non era stata riscattata dalla
successiva decisione di schierare l’Italia a fianco degli Alleati anglo-
americani, anche perché la partecipazione del nuovo esercito regio alla
parte finale del conflitto era stata relativamente modesta (anche per le
diffidenze che i comandi alleati nutrivano comprensibilmente nei
nostri riguardi) e perché – come si è accennato nei due precedenti
capitoli – si era diffuso nella cultura nazionale il mito per cui l’Italia,
con il suo cambiamento di campo, dovesse alla fine essere annoverata
sul versante dei vincitori del conflitto, non su quello degli sconfitti.
Mito che i nostri nuovi amici, gli Alleati anglo-americani, non
parevano per nulla disposti a condividere e, comunque, non a costo
zero per il nostro Paese.
Si trattava di una ben strana disposizione di animo, che non
aveva alcun motivo di sussistere, ma che, dal momento che
legittimava la posizione italiana e, in particolar modo, la “giravolta”
dell’8 settembre 1943, si era rapidamente diffusa a livello di cultura
collettiva e le nuove classi dirigenti non avevano compiuto alcuno
sforzo per contenerla, ma anzi la alimentavano quotidianamente, di
fatto creando una illusione che non aveva alcuna ragione di esistere.
Si può comprendere quindi la delusione degli italiani quando gli
Alleati anglo-americani diedero prova di non avere alcuna intenzione
di “praticare sconti” all’Italia e imposero al governo di Roma la firma
66
di un trattato di pace dalle clausole alquanto dure. Sul piano militare,
che è quello che ci interessa in questo capitolo, venne imposto
all’Italia di smilitarizzare le sue frontiere, sia occidentali che orientali,
per una larghezza di 20 km; venne vietata la costruzione di nuove basi
aeree e navali e l’espansione di quelle già esistenti; gli effettivi
dell’Esercito vennero limitati a 185.000 uomini, più 65.000
carabinieri, per un saldo totale di 250.000 unità. La Francia ci fece
imporre inoltre il limite di un possesso massimo di 200 carri armati
“medi”.
All’Aeronautica furono consentiti 25.000 uomini, 200 aerei da
caccia e ricognizione armati, 150 da trasporto, addestramento e
collegamento. Venne invece vietato il possesso di aerei da
bombardamento e missili.
La Marina si vide ridotta a 25.000 effettivi e a 67.000 tonnellate
di naviglio operativo70
.
Di fatto, alla stessa stregua di quelle politiche, le clausole militari
del trattato di pace erano alquanto punitive nei riguardi dell’Italia.
Tuttavia, l’inserimento del nostro Paese tra le nazioni fondatrici della
NATO diede un poderoso contributo al superamento di questa
situazione. Già nel 1952, infatti, l’Italia poté cominciare a sottrarsi ai
vincoli militari del trattato di pace71
e ad avviare una significativa
politica di rafforzamento del proprio strumento militare.
Ciò che consentì di distogliere dall’Italia tutta l’ostilità di cui era
oggetto da parte degli ex-nemici nei primi anni del dopoguerra fu la
70
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975. Struttura e dottrine, Feltrinelli,
Milano, 1975, pp. 29-31. 71
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 20 sg.
67
sua capacità di stringere un rapporto privilegiato con gli Stati Uniti,
rapporto che garantì al governo di Roma l’appoggio iniziale
statunitense e, anche se non la partecipazione alla trattativa
diplomatica che portò alla creazione dell’Alleanza Atlantica, certo
l’invito a procedere alla firma della medesima.
In effetti, i fattori che potevano favorire l’ingresso del nostro
Paese nella NATO e i relativi compiti da attribuirgli erano
palesemente dettati dalla stessa posizione geografica dell’Italia, che la
rendeva oggettivamente – e la rende tuttora - un perno fondamentale
della mappa strategica del Mediterraneo e del sistema di tutela
dell’Europa occidentale. Situata al centro di tale mare, e
profondamente immersa in esso, l’Italia è perfettamente in grado di
controllarne le rotte, assumendo un ruolo di “portaerei naturale” che
non è una definizione esclusivamente tipica di forzatura nazionalistica
del periodo fascista, ma una condizione autentica, specie se si dispone
di un poderoso dispositivo aeronavale in grado di trasformare tale
condizione da una situazione potenziale a una reale.
La conseguenza di tale approccio è stata che il blocco occidentale
– e la potenza in esso egemone, vale a dire gli Stati Uniti – hanno
inglobato l’Italia al proprio interno adottando di fatto un automatismo
che per essi era indiscutibile, stanti gli equilibri e gli assetti strategici
del momento, ma in realtà senza specificarne dettagliatamente il ruolo,
tanto più dal punto di vista militare, che invece, in una logica di quel
tipo, appariva fondamentale.
Fin dal momento dell’adesione italiana all’Alleanza Atlantica,
non venne dunque specificato un aspetto fondamentale, se non molto
68
implicitamente: vale a dire quale avrebbero dovuto essere i confini,
anche in termini geografici, in cui l’Italia avrebbe dovuto soddisfare le
esigenze della NATO e quali invece quelli in cui il nostro Paese, in
quanto attore operante in un contesto regionale specifico, avrebbe
potuto muoversi quanto meno con una certa autonomia72
. Si può
persino ipotizzare che si sia trattato di un’omissione non casuale, in
quanto lasciare l’Italia in una posizione di indeterminatezza strategica
offriva il vantaggio di precluderle l’esercizio di qualsiasi linea politica
autonoma.
La conseguenza di tale atteggiamento si è tradotta, a livello di
politica militare, in una costante duplicità tra la priorità assoluta
conferita alla difesa a Nord-Est, di fatto in linea con gli orientamenti
più tradizionali della politica di difesa italiana dopo l’Unità e una linea
strategica subalterna legata ad un limitato ruolo aeronavale sul fianco
Sud e nell’area mediterranea. Tale linea avrebbe potuto procedere di
pari passo con le ambizioni di quanti, a livello politico, cercavano
soluzioni alternative a una semplice e passiva subordinazione alle
direttive atlantiche, ma gli orientamenti nazionali di politica estera
rimasero sempre privi di una corretta integrazione con le componenti
teoriche e tecnico-militari, essenzialmente a causa del fatto che nel
nostro Paese ha faticato ad affermarsi, nel secondo dopoguerra, un
pensiero militare nazionale autonomo e, quando infine è riuscito a
farlo, è risultato sempre molto legato alle visioni atlantiste. La cosa
non è sorprendente, in quanto è normale che, in condizioni come
quelle, la quasi totalità degli appartenenti all’universo militare fosse
72
Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa: strategia, direzione politica, comando
operativo, il Mulino, Bologna, 1986, p. 20 sg.
69
favorevole alla NATO e alle sue direttive, sia per ragioni politiche sia
altresì per motivi di carriera.
Di fatto, tutto questo ha compresso il nostro ruolo militare non
meno di quello politico, mantenendoci ai margini dell’Alleanza
Atlantica, nonostante la crescente importanza, con il passare del
tempo, del Fianco Sud73
. Questo ha fatto sì che, in concreto, l’Italia si
sia “autointrappolata” – come ha scritto Carlo Maria Santoro –
all’interno della NATO74
. L’affermazione è comprensibile, ma non del
tutto condivisibile, se non si tiene conto del modo in cui era maturata
la nostra sconfitta nel secondo conflitto mondiale, dei complessi di
colpa che (quanto meno a livello subliminale) ne erano scaturiti, del
fatto che, nel dopoguerra, la cultura militare era stata letteralmente
“eliminata” dalla cultura nazionale, che un ventennio fascista di
ubriacatura nazionalistica-militarista ci aveva lasciato come pessima
eredità una certa idea di “pacifismo” internazionalistico, come se,
dopo il 1945, il mondo fosse diventato diverso da quello che era
prima, una specie di “paradiso terrestre” non tormentato da contrasti,
rivalità, competizioni, conflitti.
Su questo sfondo, è facile comprendere come sia stata complicata
e difficile l’elaborazione di un pensiero militare nazionale e come, al
tempo stesso, non sia stata facile l’integrazione delle Forze Armate
italiane all’interno del dispositivo militare atlantico. Al di là delle
varie “serie dottrinali” relative alla dottrina operativa del nostro
strumento militare, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, di fatto è
stato necessario attendere fino alla metà degli anni Ottanta per avere, a
73
Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa ...., cit., p. 46 sg. 74
Ibidem, p. 47.
70
livello di politica militare, un’elaborazione teorica completa e
compiuta.
Così, nel “Libro Bianco” della Difesa del 1985, pubblicato quasi
alla fine del periodo oggetto di questo studio, le Forze Armate italiane
stabilirono un quadro di missioni operative che di fatto chiarivano
quale fosse, all’epoca ma anche in precedenza, il loro ordine di
priorità. Tali missioni erano cinque, così articolate:
La frontiera Nord-Est e Nord. Lo scacchiere di quella che, non
solo nel “Libro Bianco”, ma anche dal 1949 in avanti, era
riconosciuta come la prima missione operativa interforze
(Missione 1) formava un arco che andava da Treviso allo Stelvio
ed era uno scacchiere geograficamente importante e ben
consolidato, ma strutturalmente fragile, in quanto aggirabile da
varie parti, in particolare dall’Austria. A tale fragilità si era
sempre tentato di sopperire ricordando che le forze attaccanti
sovietiche avrebbero dovuto, nel caso di un’offensiva in
profondità, violare la neutralità austriaca e quella jugoslava.
Ipotesi tutt’altro che peregrina, ma che, ad esempio nel caso
jugoslavo, le avrebbe messe a contatto con un nemico
specializzato nel condurre una “guerra di popolo”, mentre in
quello austriaco avrebbe comunque complicato e rallentato
l’avanzata a causa delle difficoltà di un terreno prevalentemente
montuoso. Il problema di tale postura è che si era sempre trattato
di un atteggiamento difensivo, diventato talvolta
difensivo/controffensivo, ma mai particolarmente convincente e
soprattutto alquanto carente sul versante della dissuasione, in
71
particolare della dissuasione non basata sul ricorso alle armi
nucleari75
. Per non parlare del fatto che la difesa ad oltranza della
cosiddetta “Soglia di Gorizia”, anche se ha rappresentato il perno
di tutti gli orientamenti dottrinali del dopoguerra, di fatto si
basava su una staticità concettuale e dottrinale che faceva
assomigliare il tutto al “Deserto dei Tartari” di buzzatiana
memoria, senza lasciare spazio ad alternative credibili76
, a
cominciare da un mancato rispetto – da parte sovietica – della
neutralità austriaca e dunque del possibile concretizzarsi di una
minaccia da Nord. Nell’insieme, una visione molto più statica che
dinamica, tale da conferire un ruolo complessivamente subalterno
al nostro Paese, ben inferiore alla sua reale importanza in campo
geostrategico77
. In una parola, l’assolvimento di tale missione era
ineludibile, nella logica dell’appartenenza italiana all’Alleanza
Atlantica, ma il problema vero era relativo a come interpretare
tale compito, vale a dire nella sola forma statica di cui si diceva, o
anche in altri modi ?
La difesa a Sud, nell’area mediterranea, era invece la seconda
missione operativa interforze (Missione 2) individuata nel “Libro
Bianco” del 1985. Qui il quadro strategico appariva diverso,
rispetto alla Missione 1, nel momento in cui essa venne definita, a
causa della presenza della VI Flotta USA. In effetti, mentre il
compito della Difesa a Nord-Est spettava quasi integralmente alle
Forze Armate italiane, quello della presenza, nell’area
75
Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa...., cit., pp. 56-59. 76
Ibidem, p. 60 sg, 77
Ibidem, p. 78.
72
mediterranea, di un dispositivo aeronavale statunitense tanto
poderoso quanto flessibile ridimensionava notevolmente i
compiti che l’Italia era chiamata ad assolvere su questo versante,
in particolare per quanto concerne la cooperazione con le forze
NATO. Il dispositivo e il potenziale di quest’ultima, infatti,
rendevano il ruolo italiano marginale e subalterno, senza contare
che, con il passare del tempo e il riorientamento del dispositivo
aeronavale NATO verso altre direzioni, non ci si è forse resi
conto, a livello atlantico, che si stavano manifestando altri tipi di
minacce, alle quali occorreva fare fronte con altri strumenti e
altresì con diverse logiche operative.
La difesa aerea e la relativa deterrenza, dal canto suo,
rappresentavano la Missione 3, la quale ovviamente investiva
l’intero territorio nazionale, con funzione difensiva e dissuasiva
da eventuali minacce aeree di ogni tipo.
La difesa operativa del territorio costituiva invece la Missione 4,
una missione che ha sempre dato adito a una serie di potenziali
equivoci, non essendo mai stato chiaro come articolarla
realmente, se in forma statica, oppure dinamica, se orientata al
nemico esterno o anche a quello interno78
. Si tratta di un tema che
ha sempre innescato e alimentato vivaci polemiche, in quanto ha
sempre toccato il nervo maggiormente scoperto della
partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica, vale a dire la
presenza, all’interno del Paese, di una percentuale molto elevata
di cittadini che era ideologicamente ostile alla NATO e
78
Luigi Caligaris – Carlo Maria Santoro, Obiettivo Difesa...., cit., p. 94 sg.
73
favorevole, per contro, al blocco sovietico. Le scelte strategiche e
anche tecnico-militari di un Paese così diviso non potevano che
essere oggetto di controversie, come in effetti sono state, per
decenni e fino al collasso del comunismo e del blocco sovietico.
Gli interventi di sicurezza. In ultimo (Missione 5), il “Libro
Bianco” della Difesa del 1985 faceva riferimento a interventi di
sicurezza, deterrenza e pacificazione e soccorso nell’ambito delle
situazioni di crisi o di conflitti a bassa intensità, sia sul territorio
nazionale, sia in altre aree dell’Alleanza, sia in aree esterne. Di
fatto, questa missione rappresentava un qualcosa frutto
dell’evoluzione dei tempi e del mutamento degli scenari
strategici, in quanto, almeno fino alla seconda metà degli anni
Settanta, un’esigenza del genere non ebbe alcun modo di
manifestarsi, mentre divenne decisamente più marcata e pressante
a partire da quella data in avanti. Con il mutare dello scenario
strategico, infatti, da un lato cresceva la “minaccia da Sud”,
lasciando meno esposto il fronte nordorientale (la celebre “Soglia
di Gorizia”), ma, nel crescere, essa richiedeva altresì di essere
gestita in forma nuova e con strumenti altrettanto nuovi, come ad
esempio, per quanto concerne proprio il ruolo italiano,
l’incremento del dispositivo aeronavale nazionale, che
necessitava di essere messo in grado di poter operare da solo,
oltre che in concorso con gli alleati, al fine di assolvere alcune
esigenze operative specifiche. Questo problema, tuttavia, rimase
sempre irrisolto, in perfetto parallelismo con gli equivoci che
74
gravavano sul ruolo politico-militare italiano all’interno
dell’Alleanza.
Una volta entrata nella NATO, l’Italia venne chiamata ad
integrare le proprie strutture militari in quelle atlantiche e ciò, quanto
meno inizialmente, venne fatto in modo che eventuali comandi posti
sotto “cappello” italiano non godessero di particolare autonomia
operativa.
Tra il 1955 e il 1962, la vita interna dell’Alleanza Atlantica
venne caratterizzata da tre periodi diversi.
Il primo periodo, tra il 1955 e il 1957, durò fino al momento del
lancio del primo Sputnik sovietico e vide la dotazione, ai comandi
NATO, di armi nucleari tattiche (che in Italia ebbe luogo con la
creazione di una grande unità come la SETAF (Southern European
Task Force). Dopo la prima rottura del monopolio nucleare
statunitense avvenuta tra il 1949 e il 1954, tali misure organizzative
avrebbero dovuto prevenire la proliferazione delle nuove armi e
replicare, per mezzo di una strategia di “rappresaglia massiccia”, alla
situazione di squilibrio esistente, in campo alleato, a livello di forze
terrestri rispetto al nemico sovietico, non più compensato
dall’armamento atomico. Era poi molto diffusa la riluttanza a non
spingere oltre un certo livello i programmi di riarmo di tipo
convenzionale, in quanto non c’erano risorse da destinare ai bilanci
militari in un periodo di ricostruzione postbellica. Si giunse così a
teorizzare una strategia basata su “spada e scudo”, dove peraltro lo
scudo convenzionale risultava declassato a livello di semplice miccia,
destinata a far esplodere quanto prima l’esplosivo nucleare (“la spada”
75
della metafora sopracitata)79
. In apparenza, si trattava di scelte
necessitate e praticamente inevitabili, ma c’è da chiedersi quanto
potessero essere credibili, dal momento che in pratica l’unica difesa
possibile dell’Europa occidentale sarebbe stato l’olocausto nucleare.
Il secondo periodo, successivo al lancio del primo Sputnik, fu
quello in cui, onde prevenire la disseminazione delle armi nucleari e
per rendere credibile il rischio che gli americani avrebbero dovuto
correre per gli alleati in caso di crisi, venne proposta la creazione di
una forza multilaterale, in teoria posta sotto controllo congiunto dei
Paesi alleati, ma di fatto dotata di armamento statunitense.
Infine, il terzo periodo fu quello in cui negli USA, la presidenza
Eisenhower venne sostituita da quella Kennedy e si diede avvio
all’elaborazione della strategia della “risposta flessibile”80
.
Quest’ultima aveva l’enorme pregio di non impostare la difesa lungo
direttrici rigide, ma di graduare ogni forma di risposta militare
all’entità dell’offesa subita. Di conseguenza, un’offensiva militare
sovietica condotta, ad esempio, solo a livello convenzionale, non
avrebbe mai scatenato una reazione NATO a livello nucleare, almeno
fino al momento in cui risultasse chiaro che essa era contenibile dal
punto di vista convenzionale. Solo se tale capacità di resistenza fosse
stata superata, allora le forze alleate avrebbero potuto ricorrere al
fuoco nucleare. Alla stessa stregua, un’offensiva nucleare sovietica di
dimensioni contenute non avrebbe provocato un immediato ricorso
alla “rappresaglia massiccia”, ma a una assai più corretta reazione di
79
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 185. 80
Ibidem.
76
tipo analogo e contrario, dunque a una risposta per l’appunto graduata
e flessibile.
Per quanto concerne gli aspetti più strettamente organizzativi,
alla fine del 1945, cioè poco dopo la conclusione della Seconda guerra
mondiale, l’Italia disponeva di 5 piccole divisioni, 3 di sicurezza
interna di stanza nelle isole e di 11 reggimenti.
L’aviazione, praticamente inesistente, contava nel giugno 1948
153 caccia (di cui solo 50 realmente operativi) e 185 aerei di supporto
di tipo antiquato. La Marina, infine, era obsoleta, anche se
sovradimensionata.
Grazie agli aiuti forniti dagli USA, nel dicembre 1953 l’Esercito
raggiunse gli obiettivi di forza fissati dalla NATO, vale a dire 3
piccole divisioni corazzate, ciascuna composta da circa 8.000 uomini,
200 carri medi e 50 leggeri; 10 divisioni di fanteria, di cui 3
motorizzate, 5 appiedate e 2 ad organico ridotto. A ciò si dovevano
aggiungere 5 brigate alpine, 4 raggruppamenti di fanteria, 3
battaglioni carri di supporto, 1 settore forze lagunari e 7 reggimenti di
cavalleria blindata. Nel complesso, un insieme di forze equivalenti a
12 divisioni, in base ai criteri NATO, con 800 carri medi, dotate di
grande potenza di fuoco, ma scarsamente mobili e prive di un
adeguato supporto logistico.
Marina e Aeronautica rimasero invece al di sotto della
consistenza prevista: la Marina contava circa 86.000 tonnellate di
naviglio moderno, mentre l’Aeronautica poteva contare su 1.570 aerei,
77
di cui solo 470 dotati di efficienza bellica e solo 328 da
combattimento81
.
Tra il 1956 e il 1959 ci fu un riordinamento delle forze terrestri,
con una diminuzione delle unità di fanteria e un incremento di quelle
mobili.
La Marina, a sua volta, fu oggetto di significativi programmi di
sviluppo, mentre l’Aeronautica, in particolar modo negli anni
Sessanta, fu oggetto di un poderoso programma di potenziamento,
grazie ai programmi NATO (in particolare quello relativo all’acquisto
del caccia F-104 STARFIGHTER) e nazionali.
Nel 1975, per contro, le forze operative terrestri vennero ridotte
di circa un quarto e tali riduzioni continuarono anche negli anni
Ottanta, a causa delle sempre maggiori difficoltà in cui versava il
bilancio dello Stato.
Molto interessante è un tema relativo a una valutazione
comparata tra le Forze Armate italiane e quelle di altri Paesi facenti
parte dell’Alleanza Atlantica. I dati disponibili al riguardo sono
interessanti e istruttivi. Nel 1983, ad esempio, il 62% dei generali e
ufficiali superiori dell’Esercito giudicava il suo livello qualitativo
“inadeguato” allo standard NATO o “adeguato solo in pochi settori”.
Anche tra coloro che avevano espresso una valutazione ottimistica,
peraltro, non mancavano quanti esprimevano le loro riserve, dal
momento che il 30% di costoro lo reputava “adeguato salvo in alcuni
settori”, e solo l’8,3% lo considerava “pienamente adeguato”82
.
81
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 142 sg. 82
Ibidem, p. 146.
78
Nel 1986, un documento elaborato in ambito NATO e relativo
alla comparazione tra gli eserciti di 18 Paesi, recava giudizi alquanto
altalenanti su quello italiano. Il “patriottismo” di soldati e sottufficiali,
ad esempio, era valutato da 1 a 100 a 15 (dunque un livello
bassissimo), mentre quello degli ufficiali saliva a 25, a fronte – e
questo era certamente il dato meno confortante – dell’80-90 rilevato
per eserciti come quelli di Paesi quali Stati Uniti, Germania, Francia e
Gran Bretagna. La differenza, dunque, da questo punto di vista era
incredibilmente elevata, segno che il morale delle nostre Forze Armate
era lungi dal poter risultare di livello accettabile.
Tale risultato, assolutamente sconfortante, era invece contrastato,
anche piuttosto significativamente, dalla valutazione sull’”animosità
combattiva”, che vedeva addirittura al primo posto nell’Alleanza i
soldati italiani (con il punteggio di 75), seguiti da americani (70),
inglesi (60), francesi (45), tedeschi (40).
Inferiore a quella dei colleghi stranieri, per contro, risultava
l’”animosità combattiva” di sottufficiali (70) e ufficiali (50).
Sono dati contraddittori e difficilmente interpretabili, anche
perché la prima e più legittima domanda che è lecito porsi è relativa
alla marcata differenza tra patriottismo e volontà combattiva, in
quanto i due indicatori appaiono assolutamente contraddittori.
Tuttavia, non è una forzatura pensare che, dopo l’8 settembre 1943 e
la “morte della Patria”, il valore del patriottismo risultasse per
l’appunto in crisi, in parallelo con la crisi di identità dell’Italia post-
fascista. La volontà combattiva dei reparti italiani, per contro,
79
rimaneva forte, anche se essa scemava man mano che si saliva nella
scala gerarchica.
Su versanti più tecnici, poi, venivano fuori le note più dolenti,
con l’Italia che risultava all’ultimo posto per capacità strategiche e
operative degli Stati Maggiori (15), armamento nazionale (15),
equipaggiamento individuale (25-35) e addestramento (20-30). Ne
scaturiva una capacità di impiego complessiva pari a 35, tutt’altro che
esaltante e superiore solo a quella della Spagna, che era a 1083
.
Anche se questi indici non possono e non devono essere
sopravvalutati, essi ci consentono comunque di capire che, in ambito
NATO, la nostra posizione complessiva, a livello di strumento
militare, non era delle più elevate e certamente assai inferiore a quella
degli alleati più potenti e prestigiosi.
3.2. Le Forze Armate italiane nella NATO: dottrine e compiti
Prima ancora che la NATO adottasse ufficialmente la dottrina
della “difesa avanzata”, le caratteristiche geostrategiche del fronte
italiano resero obbligata la scelta di condurre la difesa aeroterrestre al
Brennero e tra i fiumi Isonzo e Tagliamento, a ridosso del confine
nordorientale, che appariva come il meglio difendibile: la sua
estensione non superava i 70 km, dunque era ridotta, poggiava per
gran parte sull’arco alpino o su terreno collinare adatto alla difesa,
salvo che nella piana di Gorizia, la quale peraltro avrebbe potuto
essere fortificata. Inoltre, i pochi assi di penetrazione percorribili
dall’Ungheria, vale a dire dalla linea di attacco più prevedibile delle
83
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 147
80
forze sovietiche e dei loro alleati, erano particolarmente vulnerabili
all’offesa aerea e all’impiego di armi nucleari.
La scelta di soluzioni alternative, per contro, avrebbe comportato
lo sbocco dell’aggressore nella pianura padana, dove la resistenza
delle forze di difesa italiane si sarebbe rivelata ben più difficile.
Infatti, nell’eventualità in cui fosse riuscito a stabilizzare una linea di
difesa sull’Appennino e le Alpi occidentali, l’aggressore avrebbe
rescisso il collegamento tra il fronte centrale e quello meridionale
della NATO, si sarebbe impadronito di tre quarti del potenziale bellico
nazionale (concentrato nel triangolo Milano-Torino-Genova) e
avrebbe potuto creare un governo collaborazionista; ipotesi
quest’ultima che, considerata la forza e il seguito del Partito
comunista italiano, era tutt’altro che peregrina.
I perni della struttura difensiva italiana erano dunque il Brennero,
il sistema Cadore-Carnia, la zona prealpina di Udine, la zona collinare
e di pianura tra l’Isonzo e il Tagliamento, il Carso e Trieste, la Laguna
veneta84
.
Per quanto concerne invece i compiti assegnati alle varie forze,
essi erano i seguenti:
Per l’Esercito, difendere soltanto con le proprie forze la frontiera
orientale in attesa delle forze aeree statunitensi che avrebbero
potuto raggiungere lo scacchiere orientale italiano, ad esempio
decollando da portaerei in navigazione nel Mediterraneo. Questa
capacità di resistenza avrebbe dovuto esercitarsi per tutto il tempo
necessario a consentire la mobilitazione delle forze americane e
84
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 79 sg.
81
di quelle NATO, una parte delle quali sarebbe stata destinata a
supportare direttamente le truppe italiane sul fronte orientale
della penisola. Oltre a questo compito prioritario, all’Esercito
italiano era richiesto, come compito secondario, di tenere il
controllo di tutto il Paese dal punto di vista dell’ordine pubblico.
Per quanto concerne invece la Marina, ad essa era affidato
l’incarico di operare come scorta dei convogli alleati nel
Mediterraneo e di garantire la difesa costiera della penisola, oltre
a supportare, in funzione comprensibilmente subalterna, il
mantenimento del dominio navale alleato nell’area mediterranea
e a consentire l’esplicazione del potere aeronavale alleato.
L’Aeronautica, infine, dal momento che all’epoca era la Forza
Armata più debole e antiquata di tutte, non avrebbe avuto altri
compiti se non quello di concorrere, con mezzi limitati, all’azione
delle altre forze85
.
Fu in questo periodo iniziale di partecipazione italiana
all’Alleanza che si dimostrarono determinanti gli aiuti economici e
militari statunitensi intesi ad accelerare la ricostruzione delle
strumento militare italiano e, al tempo stesso, il suo
ammodernamento86
.
Tutto questo sostegno non era ovviamente casuale, ma intendeva
significare, in concreto, l’attenzione che gli Stati Uniti e, in subordine,
la NATO attribuivano all’Italia quale caposaldo dello schieramento
atlantico in Europa, un caposaldo che non intendevano assolutamente
perdere e che anzi erano decisi a difendere dalle posizioni più
85
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 97. 86
Ibidem, p. 99 sg.
82
avanzate possibili, in quanto perfettamente consapevoli del fatto che,
se un’eventuale offensiva sovietica fosse riuscita a sfondare e a
dilagare nella pianura padana, l’intero fianco Sud della NATO
avrebbe rischiato di essere aggirato e la difesa occidentale sarebbe
stata spinta all’indietro, fino alla penisola iberica, con conseguenza
gravissime87
.
Su questo sfondo, resta ovviamente irrisolta la diatriba tra chi
riteneva che l’allineamento atlantico del nostro Paese fosse una scelta
determinata dalla volontà o imposta dalla necessità e chi riteneva
invece che, pur partecipando allo schieramento atlantico, sarebbe stato
preferibile, per l’Italia, adottare un atteggiamento meno passivamente
prono agli interessi degli alleati e in particolar modo degli americani e
più attento, per contro, alla tutela dell’interesse nazionale, senza
peraltro dimenticare il fatto che, in quel periodo, non pareva chiaro né
alla dirigenza politica né a quella militare quale fosse realmente il
nostro interesse nazionale88
.
A livello dottrinale, vale a dire di elaborazione della dottrina
operativa delle Forze Armate italiane89
, le prime pianificazioni
postbelliche riguardarono l’organizzazione difensiva (1948), le
operazioni combinate avioterrestri (1949), la difesa su ampi fronti
(1950) e la cooperazione avioterrestre (1951).
87
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 118. 88
Ibidem, p. 150 sg. 89
La dottrina militare è una delle due diverse e fondamentali fonti della tattica militare (l’altra
fonte sono gli ordini di operazione), fornisce gli orientamenti per l'impiego delle forze nei casi
medi. È contenuta in circolari e pubblicazioni delle serie dottrinali, il cui aggiornamento consegue
o ad una mutata visione strategica ovvero a profondi cambiamenti nell'organizzazione delle Forze
Armate. Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Tattica_militare
83
La prima serie dottrinale dell’Esercito fu la 3000, elaborata a
cavallo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, che fu
anche l’ultima delle concezioni dottrinali ispirate a una visione del
conflitto di tipo esclusivamente convenzionale90
.
La regolamentazione successiva, che risale al 1958-60 (circolari
della serie dottrinale 600), rifletteva invece i principi della dottrina
NATO della “rappresaglia massiccia”, adottata dall’Alleanza nel
1954. Si prevedeva infatti la costituzione di due posizioni difensive,
poste a distanza di 50-90 km l’una dall’altra, il cui compito era quello
di attirare le forze attaccanti nei punti più vulnerabili al fuoco
nucleare. Non era prevista, peraltro, una manovra controffensiva su
larga scala, il che la dice lunga su quello che era considerato il ruolo
delle forze italiane, relegato di fatto a compiti di mera resistenza
passiva, da esercitare fino a che non si sarebbe manifestato, sul
terreno, il supporto militare alleato, soprattutto americano.
La serie dottrinale 600, approvata nell’aprile del 1958, fu
comunque molto apprezzata, soprattutto negli USA, dove fu
addirittura oggetto di studio e di insegnamento. Si trattava, infatti,
della prima normativa di impiego elaborata da un esercito occidentale
che prevedeva l’uso di armi atomiche e cercava di valutarne
concretamente gli effetti tanto per chi difendeva quanto per chi
attaccava91
. Come tale, era certamente ricca di spunti dottrinali di
interesse non trascurabile, anche perché enormi erano gli interrogativi
che gravavano sulla reale possibilità di condurre operazioni efficaci in
ambiente pesantemente contaminato. Ogni contributo dottrinale in tal
90
Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 107. 91
Ibidem, p. 186 sgg.
84
senso, quindi, era il benvenuto, anche se tutti parevano
complessivamente alquanto ottimistici sul tema dell’operatività dei
reparti dopo uno scambio di fuoco nucleare, in quanto era
difficilissimo individuare l’entità delle distruzioni che avrebbero avuto
luogo.
La normativa del 1963 (serie dottrinale 700), per contro, riduceva
l’enfasi posta sull’impiego delle armi nucleari e distingueva tra una
difesa “ancorata”, da condurre con il sistema dei capisaldi di fanteria,
e una vera e propria difesa “mobile”, da condurre con consistenti forze
corazzate tenute di riserva.
La combinazione in profondità dei due procedimenti difensivi
realizzava una manovra di logoramento, intesa a rovesciare il rapporto
di forze fino a consentire la controffensiva dei reparti italiani, il che
costituiva una novità dottrinale non da poco.
Già a partire dal 1962, del resto, si stava operando una netta
ripresa delle capacità di combattimento convenzionale, intesa fra
l’altro ad accrescere le capacità di combattimento individuale dei
soldati. Va specificato, a questo proposito, che un’impostazione del
genere attirò molte critiche da parte delle Sinistre, convinte che in tal
modo il governo italiano stesse predisponendo uno strumento militare
che, oltre a prepararsi a combattere una guerra nucleare, si preparasse
a svolgere un ruolo essenzialmente di polizia, addestrata e predisposta
a svolgere soprattutto un ruolo di mantenimento dell’ordine e di
stabilizzazione del quadro politico interno92
. In un clima politico come
quello italiano di quegli anni, è chiaro che tali sviluppi apparivano
92
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 240.
85
inquietanti, non solo e non tanto in funzione anticomunista, poiché
quello poteva essere ritenuto uno sviluppo normale, alla luce della
situazione internazionale dell’epoca, quanto in presenza del famoso
avvento del “centrosinistra” e delle preoccupazioni che, a tale
proposito, erano state espresse da molti ambienti politici, non solo
nazionali ma anche internazionali, facendo lievitare le tensioni
politiche interne fino a rendere credibile addirittura l’ipotesi di un
colpo di Stato93
.
Dal canto suo, la normativa del 1971 (serie dottrinale 800)
rifletteva il cambiamento di riferimenti teorici frutto dell’adozione, da
parte della NATO, della strategia della “risposta flessibile”, avvenuta
nel 1967, basata sull’impiego selettivo e limitato delle armi nucleari,
di fatto tarato su quella che era la reale natura dell’offesa nemica,
come pure l’influenza della dottrina statunitense della “difesa mobile”
del 1968. Essa segnò una più decisa configurazione reattiva e
controffensiva della difesa avanzata e un potenziamento della difesa
mobile, che ora si intendeva combinare con la difesa ancorata in
prevalenza al fronte e non in profondità94
.
L’abbandono della manovra operativa in profondità venne
accentuata dalla nuova dottrina statunitense elaborata nel 1976 e
basata sulla “difesa attiva”, i cui principi vennero recepiti anche in
ambito NATO. L’Italia fece propri tali criteri con la normativa del
1976-77 (serie dottrinale 900), che eliminava la distinzione tra i
procedimenti difensivi della fanteria e delle forze mobili, prevedendo
al suo posto una manovra condotta da forze meccanizzate e corazzate,
93
Enea Cerquetti, Le Forze armate italiane dal 1945 al 1975...., cit., p. 241. 94
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 80 sg.
86
mediante uno spostamento progressivo all’indietro della difesa stessa.
A sua volta, nella fase offensiva, il compito riservato alle forze mobili
non era più quello dello sfondamento, ma il “fissaggio” delle forze
nemiche lanciate all’offensiva e l’infiltrazione.
Naturalmente, la scelta obbligata della difesa a Nord-Est
condizionò il modello organizzativo dello strumento militare italiano,
a cominciare dal fatto che, per poter garantire la disponibilità di un
discreto quantitativo di forze terrestri, era necessario poter contare
sulla coscrizione obbligatoria e su una ferma non inferiore a 12 mesi
di durata per assicurare, anche in tempo di pace, la struttura di una
forza in grado di fronteggiare il rischio di un attacco di sorpresa95
.
Contro questo tipo di organizzazione non si manifestarono,
all’interno dell’ambiente militare italiano, significative forme di
dissenso. Come si è già avuto modo di sottolineare, la cosa non è
sorprendente, in quanto, in quegli anni, l’ideologia atlantica era di
fatto l’unica impostazione che avesse legittimità tra i nostri militari.
Non si può negare che, a livello meramente teorico, esistessero anche
altre opzioni, ma esse erano considerate velleitarie e/o irrealistiche,
per non parlare del fatto che il quadro dottrinale atlantico era
considerato lo scenario dottrinale naturale di riferimento.
Appare del tutto evidente che, con l’adesione dell’Italia al Patto
Atlantico, il nostro confine militare venne ridotto di fatto al solo
scacchiere orientale e la sicurezza di quest’ultimo, dopo il ritiro delle
truppe sovietiche di occupazione dell’Austria, la rottura fra Stalin e
Tito e successivamente il riavvicinamento politico fra Italia e
95
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 87.
87
Jugoslavia sfociato nel trattato di Osimo del 1975, si è ulteriormente
accentuata.
A seguito di ciò, l’orientamento della dottrina di impiego delle
forze terrestri a difesa dello scacchiere nord-orientale ha risentito
dell’evoluzione della situazione politica dal 1945 in avanti, del
processo di ammodernamento dei mezzi e soprattutto della
meccanizzazione della fanteria, oltre, ovviamente, del mutamento
degli orientamenti atlantici in materia di armi nucleari tattiche. La
tendenza prevalente è sempre stata quella di difendere il confine il più
avanti possibile, in relazione alle forze a disposizione e alla
prevedibile minaccia avversaria e naturalmente di coinvolgere nella
battaglia di arresto la minore percentuale possibile di territorio
nazionale.
Negli anni Cinquanta era orientamento diffuso quello di
utilizzare il più possibile lo spazio “in avanti”, occupando, come già
accennato, posizioni difensive poste anche in territorio austriaco (che
all’epoca era ancora sottoposto all’occupazione militare alleata) e
jugoslavo e di fare ricorso al bombardamento atomico in profondità
sul dispositivo di attacco avversario96
.
Successivamente, con il venir meno della dottrina della
“rappresaglia massiccia” (che aveva ispirato la serie dottrinale n. 600)
e l’adozione di quella della “risposta flessibile” (che ispirò la 800) e
con l’abbandono dei piani relativi all’occupazione di postazioni
difensive in Austria e Jugoslavia, si stabilì che fossero venuti meno i
96
Virgilio Ilari, “Il problema politico della difesa nazionale e la dottrina d’impiego dell’esercito”,
in ISTRID (Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa), Gli indirizzi della difesa italiana, Atti del
Convegno tenutosi a Roma il 15 aprile 1982, Roma, 1982, p. 180.
88
presupposti per una difesa ad oltranza della frontiera e che fosse
indispensabile prevedere la possibilità di reiterare una seconda
battaglia d’arresto nell’area dei monti Lessini o dei Colli Euganei o
addirittura, nel caso si fosse dovuta cedere l’intera pianura Padana al
nemico avanzante, ad una sorta di “Linea Gotica” rovesciata. Tuttavia,
una soluzione del genere era piena di controindicazioni, in quanto
metteva duramente alla prova la reale tenuta del fronte interno, dal
momento che nessuno se la sentiva di prevedere che cosa sarebbe
accaduto in Italia nel caso di un’avanzata sovietica di tale entità e
confortata da così elevati livelli di successo. Molti esperti
prevedevano che il Partito comunista ne avrebbe tratto notevolissimi
vantaggi, quindi si preferì abbandonare tale impostazione, valutata
come troppo gravida di pericoli e si tornò a sviluppare il concetto di
una difesa il più avanzata possibile, che teneva anche conto del fatto
che pure l’Austria e la Jugoslavia, in caso di attacco delle forze del
Patto di Varsavia, avrebbero cercato di opporsi al medesimo, di fatto
aiutando l’Italia97
.
Per quanto concerne i compiti affidati alle Forze Armate italiane
nell’ambito della NATO, una lunga e mai sopita (almeno fino a
quando è esistito il blocco sovietico) contestazione proveniente dalle
forze di Estrema Sinistra è stata quella per cui il ruolo militare italiano
sarebbe stato, all’interno dell’Alleanza, assai modesto e circoscritto a
compiti di controllo del territorio e non di difesa, come asserito a
livello ufficiale, in funzione palesemente politica e, di fatto, di
97
Virgilio Ilari, “Il problema politico della difesa nazionale e la dottrina d’impiego dell’esercito”,
in ISTRID (Istituto Studi Ricerche Informazioni Difesa)...., cit., p. 183.
89
controllo del territorio contro eventuali sommovimenti interni98
.
Nell’ambito di questa visione, un’impostazione del genere non
avrebbe fatto che confermare la totale subordinazione dello Stato
italiano e del suo strumento militare alla volontà degli USA, sia pure
mediata attraverso il tramite NATO.
Altre affermazioni sono state addotte in questa direzione, a
cominciare dalla volontà delle nostre classi dirigenti di fare dell’Italia
la “Bulgaria della NATO”, vale a dire un alleato capace di distinguersi
negativamente per servilismo e passivo allineamento alle direttive che
gli provenivano dal potente alleato; oppure il fatto che, per aspirare ai
massimi gradi dell’apparato militare, era ritenuto indispensabile dare
costante attestazione della propria assoluta fedeltà atlantica99
.
Per questo insieme di ragioni, anche il Ministero della Difesa
sarebbe stato sempre fatto tenere, a livello politico, sotto stretto
controllo della Democrazia cristiana, vale a dire il partito di
maggioranza relativa e dei suoi esponenti considerati più affidabili (o
meno inaffidabili) dagli americani, al fine di garantire un controllo
assoluto su una struttura che, peraltro, presentava da sempre una
caratteristica tipica della storia italiana, non solo repubblicana. In
effetti, dal momento che le Forze Armate, lungo tutto il periodo della
monarchia, erano sempre state un campo d’azione riservato al sovrano
e da lui gelosamente controllato, una volta nata la Repubblica si
dovette trovare un assetto che, di fatto, continuasse a garantire alle alte
gerarchie militari di poter fare il bello e il cattivo tempo all’interno
98
Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia, Feltrinelli, Milano, 1973, p.
32 sg. 99
Ibidem, pp. 33-35.
90
dell’apparato militare, lasciando al ministro della Difesa
essenzialmente una funzione di garanzia, ma non propriamente di
controllo diretto del suo dicastero. Tuttavia, è evidente che ministri
della Difesa come Giulio Andreotti, rimasti per di più in carica per
lunghi periodi, fecero in modo di non accontentarsi soltanto del
controllo politico ma di allargarlo il più possibile anche sulla
macchina militare, cosa che puntualmente avvenne.
Fu solo nel 1966 che si ebbe l’approdo al Ministero della Difesa
di un esponente non della Democrazia cristiana, il socialdemocratico
Roberto Tremelloni. Tuttavia, anche in questo caso la scelta del
responsabile di un dicastero tanto delicato ricadde inevitabilmente su
un personaggio che dava le massime garanzie di orientamento filo-
atlantico100
.
In realtà, un problema di posizionamento politico le Forze
Armate italiane, dal 1949 in avanti, ce l’hanno avuto. Era infatti
evidente che, in un Paese dove le Sinistre socialiste e comuniste
avevano un peso politico e culturale elevato, disporre di un apparato
militare basato su un esercito di leva rappresentava una realtà tutt’altro
che facile da gestire, in quanto non era possibile avere un “esercito di
popolo” che di quel popolo non rispecchiasse peculiarità e divisioni
interne, nonché difformità di orientamenti ideologici.
Dal momento che la scelta atlantica aveva rappresentato una
decisione assai controversa e che, nei momenti più politicamente
favorevoli alla NATO, la quota di italiani ad essa ostile era sempre
rimasta al di sopra del 30% del totale della popolazione adulta e che,
100
Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia…., cit., p. 70 sg.
91
all’inverso, nei momenti più sfavorevoli la stessa aveva largamente
superato il 40%, era chiaro che un esercito di leva avrebbe potuto
essere tenuto insieme solo facendo riferimento a una presunta
apoliticità.
Sempre in questa logica, suonano inquietanti i continui
riferimenti fatti da altissimi ufficiali delle Forze Armate italiane al
fatto che l’ingresso del PCI nell’area di governo avrebbe potuto
causare, all’interno dello strumento militare, numerosi “casi di
coscienza”. Queste parole vennero pronunciate, nel marzo 1971,
dall’ammiraglio Gino Birindelli, che occupava incarichi di livello
elevatissimo tanto in ambito militare nazionale quanto NATO101
e
rappresentano una limpida testimonianza di come, in Italia, questioni
politiche e questioni militari si sono sempre intrecciate per quanto
concerne l’Alleanza Atlantica, in quanto il nostro è sempre stato, non
solo geograficamente ma anche politicamente, un Paese di confine.
3.3. Le basi americane in Italia e il loro status
Fin dall’inizio dell’appartenenza italiana alla NATO, dunque fin
dall’inizio dell’Alleanza Atlantica, gli Stati Uniti si dimostrarono
molto interessati a sviluppare una serie di accordi bilaterali con l’Italia
e a garantirsi la disponibilità, sul territorio italiano, di un certo numero
di basi, logistiche o militari. Esse possono essere distinte in quattro
tipologie diverse:
101
Angelo D’Orsi, La macchina militare. Le Forze Armate in Italia…., cit., p. 80 sg.
92
Le basi navali
Il comando della VI Flotta della Marina USA venne insediato a
Gaeta, mentre nell’area napoletana vennero stanziati l’8° Gruppo di
sottomarini d’attacco e l’aviazione navale. Vari depositi della VI
Flotta vennero dislocati in Sicilia (Sigonella, Augusta), mentre in
Sardegna, a La Maddalena, venne stanziato una squadra di sottomarini
nucleari lanciamissili.
I centri di comunicazione
Il sistema di comunicazioni strategiche americane, distinto da
quello dell’Alleanza, era ed è tuttora diffuso su tutta la penisola.
Le basi aeree
Le principali basi aeree vennero insediate ad Aviano e a
Capodichino (Roma), cui si aggiunsero delle Air Stations a Comiso,
Sigonella, San Vito dei Normanni.
Le basi logistiche e addestrative
Le principali basi logistiche vennero insediate vicino a Livorno
(Camp Darby) e Vicenza (Camp Ederle).
Quelle addestrative, per contro, vennero installate in Sardegna, a
Decimomannu e nell’area di Capo Marrargiu, anche se formalmente
rimasero sotto il controllo NATO102
.
Non si deve mai dimenticare che proprio sulla concessione di tali
basi agli americani e, in secundis, alla NATO, l’Italia ha costruito la
sua partecipazione alla difesa collettiva atlantica, consentendosi
102
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 57-59.
93
bilanci della difesa alquanto scarni e prendendosi anche alcune libertà
in politica estera103
.
In effetti, le basi militari alleate in Italia sono sempre state
oggetto di polemiche, soprattutto sul versante interno, senza peraltro
che si riuscisse mai a pervenire a un dibattito serio sulle medesime,
vale a dire non condizionato da valutazioni ideologiche preconcette.
103
Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di
Geopolitica, n. 4, 1999, p. 27.
94
TABELLA 1: Le basi e i comandi NATO e USA in Italia 104
Come ha notato Alfonso Desiderio, la contrapposizione politica e
ideologica tra i fautori del blocco occidentale e i loro avversari ha
provocato uno scontro fondato su considerazioni che poco avevano a
che fare con altri aspetti, molti dei quali sono rimasti colpevolmente
104
Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di
Geopolitica, n. 4, 1999, p. 31.
95
sottorappresentati, a cominciare dagli accordi che regolano l’impiego
delle basi stesse.
TABELLA 2: I comandi e le infrastrutture NATO in Italia 105
Per poter fare un minimo di chiarezza su tale questione, occorre
ricordare che, nei primi anni del dopoguerra, i rapporti di alleanza
politica e militare vennero sviluppati su due piani strettamente
105
Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”, in Limes – Rivista italiana di
Geopolitica, n. 4, 1999, p. 33.
96
correlati, vale a dire quelli tra Italia e Stati Uniti e quelli tra Italia e
NATO.
Se si guarda agli aspetti puramente formali, è lo stesso Trattato
del Nord Atlantico a costituire lo sfondo su cui si inserisce tutta questa
tematica. Tuttavia, non si deve dimenticare che il 27 gennaio 1950
venne firmato l’accordo bilaterale Stati Uniti – Italia sull’assistenza
difensiva reciproca (Accordo di Washington), mentre il 7 gennaio
1952 venne stipulata l’intesa bilaterale sulla sicurezza reciproca
(Accordo di Roma). Nel fare queste scelte, la presidenza degli Stati
Uniti agì nel quadro del Mutual Defense Assistance Act del 1949 e dei
Mutual Security Acts del 1951, i quali autorizzavano il capo
dell’esecutivo a stipulare accordi bilaterali specifici con ciascuna delle
nazioni facenti parte di patti militari regionali, sia in forma singola sia
in forma associata. Naturalmente, per poter aspirare a tale condizione,
le nazioni firmatarie dovevano essere considerate dagli USA
”meritevoli” di assistenza militare, nel loro interesse oppure in quello
di Washington106
. L’accordo di Roma, in particolare, impegna la
Repubblica italiana a «dare, compatibilmente con la sua stabilità
politica ed economica, il pieno contributo consentito dalla sua
manodopera, dalle sue risorse, dai suoi mezzi e condizioni generali
economiche, allo sviluppo e al mantenimento della propria forza
difensiva e alla forza difensiva del mondo libero»107
106
Giovanni Motzo, “Regime giuridico delle basi militari Nato e degli altri Stati nel territorio
nazionale”, in AA.VV., Le basi militari della Nato e di Paesi esteri in Italia, Camera dei Deputati,
Roma, 1990, p. 30. 107
Ibidem. Da notare come, nel testo originale inglese dell’accordo, vengano utilizzati i termini
facilities e infrastructures, che starebbero a indicare basi e installazioni, cioè qualcosa di
profondamente diverso dall’espressione “mezzi economici” che viene impiegata nel testo italiano.
A tale proposito, Alfonso Desiderio sottolinea che, più che di un’imprecisione, la quale, sotto il
profilo strettamente linguistico, sarebbe risultata sorprendentemente grave, si sia preferito, in
97
Sulla base dei trattati sopracitati, il 20 ottobre 1954 Italia e Stati Uniti
conclusero un accordo quadro della massima segretezza, che
disciplinava, a livello bilaterale, le basi e le infrastrutture concesse in
uso agli americani sul territorio italiano. La rivendicata peculiarità
della segretezza di questa intesa fece sì che esso non venisse
sottoposto a ratifica parlamentare, dato che lo si considerava un
accordo di semplice natura tecnica, come tale legittimato dai
precedenti accordi ratificati dal Parlamento italiano.
Tale accordo rappresenta la chiave di volta della presenza
militare statunitense in Italia e può essere considerato la principale
intesa di questo tipo che sia mai stata stipulata tra i due Paesi.
Nel 1999, la rivista “Limes” ha rivelato l’elenco completo delle
installazioni citate in tale intesa, così articolato:
Basi aeree: zona di Udine, Montichiari, Aviano, San Vito dei
Normanni, Amendola, Decimomannu, più il complesso di
installazioni di Napoli (compreso l’uso degli aeroporti di
Capodichino e Pozzuoli).
Basi navali: La Maddalena (sommergibili), Augusta, Sigonella
(base aeronavale), con appoggio a Catania.
Caserme e strutture tecnico-logistiche: Camp Darby (vicino
Livorno), Treviso, Ciampino, Verona e Venezia.
In particolare, in riferimento allo status delle basi concesse in uso
agli americani, l’accordo segreto del 1954 regola l’impiego delle
installazioni e i rapporti tra i militari dei due eserciti.
Italia, minimizzare il significato dell’accordo, in vista della sua ratifica ed esecuzione, per le più
volte citate ragioni di ordine politico interno.
98
In effetti, all’art. 2 esso obbliga gli USA ad avvalersi delle basi
«nello spirito e nel quadro della collaborazione atlantica, di
utilizzarle per assolvere gli impegni NATO e, in ogni caso, a non
servirsi delle dette basi a scopi bellici se non a seguito di disposizioni
NATO o accordi con il governo italiano».108
Per quanto concerne invece il comando, l’art. 4 precisa che «le
installazioni sono poste sotto comando italiano e i comandi USA
detengono il controllo militare su equipaggiamento e operazioni»109
.
Analogamente ad altri accordi concernenti le installazioni militari
presenti in altri Paesi europei, le basi sono italiane e sottoposte a
sovranità e controllo italiani e i militari alleati devono rendere conto,
almeno formalmente, del loro operato.
Gli accordi in questione, inoltre, non prevedono una scadenza,
ma naturalmente sono suscettibili di modifiche su richiesta di una
delle due parti coinvolte.
108
Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”…., cit., p. 32. 109
Ibidem, p. 32.
99
TABELLA 3: Installazioni concesse in uso agli Stati Uniti 110
Per quanto concerne le installazioni più prettamente definibili
come atlantiche, esse sono regolate dagli accordi dell’Alleanza. Non si
può tuttavia dimenticare il fatto che spesso la medesima località ospita
al tempo stesso strutture USA e NATO.
110 Sergio Romano, “Rinegoziamo le basi americane”, in Limes – Rivista italiana di Geopolitica,
n. 4, 1999, p. 251.
100
Tutte queste sovrapposizioni hanno fatto sì che sia frequente la
confusione tra basi NATO e USA, ma in realtà si tratta di una
differenza per lo più formale, poiché anche l’attività delle basi
americane e delle forze in esse stanziate, rientra nel dispositivo di
difesa integrato atlantico.
Tutto ciò non crea problemi di status, nel caso di operazioni
dell’Alleanza, ma ne crea nel caso in cui si tratti di operazioni militari
portate avanti dai soli Stati Uniti, senza l’avallo della NATO. In tale
eventualità, peraltro, gli accordi esistenti prevedono che il governo
americano chieda l’assenso di quello italiano. Non sono stati pochi,
nel periodo oggetto del presente studio (1949-1989), i momenti in cui
le autorità di Roma hanno negato tale assenso, ad esempio durante la
guerra arabo-israeliana del Kippur del 1973 (quando gli americani
chiesero di poter utilizzare le loro basi in territorio italiano per poter
rifornire Israele), nel caso dell’incidente di Sigonella (ottobre 1985) e
in quello del raid americano contro la Libia del marzo-aprile 1986.
Com’è ovvio, il ruolo strategico delle basi italiane – USA o
NATO che possano essere – è cambiato nel corso del tempo e sono
conseguentemente mutati anche numero e caratteristiche delle
installazioni alleate.
Nella prima fase della “Guerra Fredda”, ad esempio, l’Italia
aveva per l’Alleanza una grande importanza geopolitica, in quanto il
suo ruolo era quello di un Paese di frontiera. Sul piano più
strettamente militare, per contro, l’importanza delle installazioni
militari presenti in territorio italiano era più limitata, in quanto,
essendo particolarmente esposte, tali basi erano considerate alquanto a
101
rischio e quindi non ospitavano contingenti significativi e in genere
non permanenti. Più importanti, per contro, erano le installazioni
navali e aeronavali situate nel Meridione e nel mar Tirreno111
.
In una fase successiva, in particolare nel corso degli anni Ottanta,
l’Italia ha continuato ad essere un Paese di frontiera, ma ha potuto
avvantaggiarsi del mutamento della situazione generale e di alcune
scelte politico-strategiche fondamentali, come la decisione di ospitare
i missili PERSHING e CRUISE sul territorio nazionale, presa più o
meno in contemporanea con decisioni in senso avverso assunte invece
dal governo greco e da quello spagnolo. In tal modo, l’Italia è
diventata il principale caposaldo degli USA e della NATO nel
Mediterraneo112
.
Una volta che sia stata affermata, almeno dal punto di vista
formale, la sovranità e il controllo dello Stato italiano sulle basi alleate
poste all’interno del suo territorio, due casi importanti e noti possono
aiutarci a comprendere come sia regolato, in concreto, il rapporto tra
Italia e Stati Uniti su tale delicata materia:
- L’incidente di Sigonella
Nel 1985, il sequestro della nave da crociera Achille Lauro in acque
egiziane da parte di terroristi palestinesi, si concluse con un accordo
che prevedeva la liberazione degli ostaggi e la concessione di un
salvacondotto ai sequestratori. Dopo poco, tuttavia, si venne ad
apprendere che un passeggero americano di origine ebraica era stato
ucciso dai terroristi nel corso dell’azione. A seguito di tale scoperta,
alcuni caccia americani costrinsero l’aereo egiziano su cui stavano
111
Alfonso Desiderio, “Paghiamo con le basi la nostra sicurezza”…., cit., p.34 sg. 112
Ibidem, p. 36
102
fuggendo i terroristi ad atterrare nella base di Sigonella, in Sicilia, con
l’intenzione di trasferirli negli USA. L’Italia, che aveva la
giurisdizione sulla Achille Lauro, in quanto la nave era considerata
territorio italiano in base al diritto internazionale, arrestò i dirottatori,
ma lasciò andare via Abu Abbas, considerato dagli americani
l’ideatore del sequestro, pur essendo egli rimasto estraneo
all’operazione vera e propria. Nella base di Sigonella, inoltre, si arrivò
quasi a sfiorare lo scontro tra gli uomini della Delta Force statunitense
e i soldati italiani.
Stupisce, in questo contesto, la meraviglia provata dagli
americani di fronte a un comportamento italiano non arrendevole a cui
non erano in alcun modo abituati. Questa considerazione è ad un
tempo singolare e inquietante: singolare in quanto conferma ciò che è
da sempre fin troppo noto, vale a dire che gli Stati Uniti hanno sempre
considerato la NATO un’alleanza tra una potenza dominante e una
serie di Stati satelliti, alcuni dei quali, peraltro, hanno saputo
interpretare, almeno per certi periodi come nel caso della Francia, un
ruolo relativamente autonomo, mentre altri come appunto l’Italia, si
sono spesso dimostrati supinamente proni alle direttive di
Washington. Inquietante perché un’alleanza, concepita in questi
termini, non può essere definita come tale, ma può e diremmo deve
essere intesa come un “patto leonino”, totalmente squilibrato in favore
della potenza egemone, la quale, molto spesso, non si è nemmeno
troppo preoccupata di far vedere, almeno formalmente, che teneva
conto delle opinioni dei propri alleati/sudditi; in una parola, non si è
nemmeno preoccupata di soddisfare elementari esigenze di immagine.
103
- La base dei sottomarini nucleari a La Maddalena
Nell’aprile del 1972, alla vigilia della firma del trattato USA-URSS
sulla limitazione delle armi strategiche (SALT – Strategic Arms
Limitation Treaty), il governo italiano concesse infine agli Stati Uniti,
con accordo segreto, una base di appoggio nell’isola di Santo Stefano
(arcipelago de La Maddalena), riservata ai sommergibili nucleari
d’attacco della VI Flotta USA. Dopo anni di polemiche pacifiste e
ambientaliste sul ruolo di tale base, nell’aprile 1990 gli Stati Uniti
decisero di rinunciare alla medesima113
, probabilmente consapevoli
del fatto che, conclusa la “Guerra Fredda” con il loro incondizionato
successo, mantenere una base come quella faceva, sul piano
comunicativo, più danno di quanto non potesse invece apportare dei
vantaggi politici e strategici.
3.4. Le armi nucleari americane in Italia: funzioni e polemiche
Nei primi anni di vita della NATO, gli europei non erano in
grado di raggiungere gli obiettivi di forza fissati dai vertici
dell’Alleanza, in quanto ciò avrebbe comportato, da un lato, di
rinunciare alla ricostruzione economica e materiale postbellica e,
dall’altro, di doversi accollare costi sociali ed economici di entità tale
da non poter essere sopportati, in quel periodo. Si decise quindi di
compensare l’insufficienza delle forze convenzionali utilizzando le
armi nucleari non più solo come strumento politico di dissuasione, ma
anche come potenza di fuoco tattica. Ciò avvenne a partire
dall’ottobre 1953 e i vertici della NATO ne autorizzarono il “first use”
113
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 65.
104
(vale a dire l’impiego prima che le utilizzassero i sovietici) nel
dicembre 1955, prendendo come pretesto la costituzione, da parte
sovietica, del Patto di Varsavia, vale a dire l’alleanza politico-militare
dei Paesi europei facenti parte del blocco comunista, nata proprio per
fare il verso e al tempo stesso contrastare la NATO.
Tra le disposizioni stabilite all’interno dell’Alleanza per quanto
concerne la questione nucleare, ricordiamo l’istituzione di una serie di
misure di consultazione specifiche e la creazione del “Gruppo di
pianificazione nucleare”, accompagnato dalla ripartizione della
collocazione di armi nucleari americane in sette Paesi diversi della
NATO (Gran Bretagna, Germania, Italia, Turchia, Paesi Bassi, Belgio
e Grecia). Così, nella riunione del Consiglio Atlantico del 16-19
dicembre 1957, in risposta al lancio dello Sputnik, che dimostrava la
capacità sovietica di disporre di vettori nucleari, fu decisa
l’installazione in territorio italiano, nella base pugliese di Gioia del
Colle, di un sistema di 30 missili balistici a medio raggio
JUPITER114
. Tali missili saranno poi ritirati nel 1963, nel clima di
distensione apertosi tra le due superpotenze dopo la gravissima crisi di
Cuba dell’anno precedente, che aveva davvero portato il mondo
sull’orlo di una guerra nucleare.
Tali armi, inoltre, sono state divise in due categorie,
impropriamente dette “a doppia chiave” e “a chiave singola”.
Per armi “a doppia chiave” si intendono tutte le armi nucleari
americane che siano, in linea di principio, destinate a sistemi di lancio
del Paese alleato e gestite da uomini del Paese alleato stesso, mentre
114
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 39.
105
per armi “a chiave singola” si intendono armi nucleari americane
destinate sempre e soltanto a sistemi di lancio USA115
.
Fin dall’inizio, tuttavia, queste disposizioni non hanno potuto
eliminare le perplessità in merito alla credibilità della difesa nucleare
americana nei Paesi europei e tanto meno i dubbi su una possibile
decisione unilaterale americana di scatenare un conflitto in Europa. In
effetti, non poteva essere certo che gli americani avrebbero attivato
automaticamente il fuoco nucleare in risposta ad un attacco sovietico,
in quanto diverse avrebbero potuto essere le considerazioni che
avrebbero ispirato la condotta della loro dirigenza politica. In linea di
massima, era del tutto evidente che Washington aveva tutto l’interesse
a mantenere una solida testa di ponte in Europa, in quanto una
soluzione del genere avrebbe tenuto le forze sovietiche il più lontano
possibile dal territorio statunitense, ma, al tempo stesso, avrebbe
privato gli alleati europei di qualsiasi potere decisionale reale in tema
di impiego di armi nucleari, per le quali la decisione ultima rimaneva
strettamente riservata al Pentagono e alla Casa Bianca.
I primi sistemi di lancio nucleari americani vennero installati in
Europa nel 1953 (si trattava di cannoni da 280 mm). Da allora, si è
proceduto ad introdurre in servizio un gran numero di armi nucleari
statunitensi, che hanno raggiunto il loro massimo storico a metà degli
anni Sessanta, con un totale di oltre 7.000 ordigni. Nel 1983, poco
prima dell’installazione dei cosiddetti euromissili (cioè dei missili a
medio raggio PERSHING II e CRUISE), le armi nucleari tattiche
115
Paolo Cotta Ramusino – Maurizio Martellini, “L’atomica in casa: a che ci servono le bombe”,
in Limes – Rivista italiana di Geopolitica, n. 4, 1999, p. 45.
106
ammontavano a un totale di 5.845, di cui solo 1.950 “a doppia
chiave”.
Negli anni Sessanta e Settanta erano presenti in Italia circa 1.000
delle circa 7.500 testate nucleari americane esistenti in Europa. Nel
dicembre 1979 la NATO decise il ritiro unilaterale di 1.000 testate,
mentre nel 1983 decise un successivo ritiro di altre 1.400 testate di
tipo obsoleto, che avrebbe avuto luogo nei 5-6 anni successivi.
Nel 1985 restavano in Italia oltre 500 testate, così ripartite:
250 bombe a caduta libera B-61 (di cui 50 destinate ad essere
installate a bordo di velivoli TORNADO italiani);
70 testate per i missili superficie-aria SAM (Surface Air Missile)
NIKE HERCULES;
50 testate W-70 per i missili LANCE;
40 granate da 203 mm e 15 da 155 mm;
22 ADM (Atomic Demolition Munitions);
63 bombe B-57 per i SUBROC (di cui 20 per vettori italiani).
Non bisogna poi dimenticare che nel 1986-88 furono stoccati a
Santo Stefano (La Maddalena) 90 missili da crociera TOMAHAWK
lanciabili da sottomarino SLCM (Submarine Launched Cruise
Missile) e a Comiso 112 di questi missili in versione terrestre GLCM
(Ground Launched Cruise Missile), con relative testate atomiche116
.
Nel corso della seconda metà degli anni Ottanta, cioè alla fine del
periodo oggetto della presente trattazione, a seguito del progressivo
modificarsi del clima politico tra i due blocchi, il numero di armi e
forze nucleari americane presenti in Europa si ridusse rapidamente e
116
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 68.
107
l’accordo INF (Intermediate Nuclear Forces) del 1987 fece uscire di
scena gli euromissili appena installati in alcuni Paesi del Vecchio
Continente117
.
La struttura che regola la presenza delle armi nucleari americane
nei Paesi NATO è complessa. In primo luogo esistono accordi per la
cooperazione nell’impiego dell’energia atomica a scopo di reciproca
difesa, firmati dagli USA e da ciascun Stato membro dell’Alleanza. Si
tratta di accordi-quadro bilaterali di pubblico dominio (stipulati negli
anni 1955 e 1962), che stabiliscono il contesto per gli accordi
bilaterali segreti. Questi comprendono un “Programma di
cooperazione”, il quale definisce le regole relative all’addestramento
delle forze militari e all’installazione delle armi nucleari sul territorio
dei Paesi ospitanti e un accordo che riguarda la collocazione, la
responsabilità e la divisione dei costi dei depositi nucleari. Questa
articolazione risale ai primi anni Sessanta e non è noto se e come sia
stata modificata, ma è del tutto evidente che qualsiasi modifica
richiede un consenso multilaterale o quanto meno bilaterale, nel caso
in cui sia coinvolto un solo Paese, oltre agli Stati Uniti, il che rende il
tutto assai poco flessibile118
.
A sua volta, l’accordo bilaterale di Roma del 3 dicembre 1960
(contenente due annessi segreti) disciplinò la cooperazione con gli
USA nel campo dell’impiego dell’energia atomica a scopo di
reciproca difesa. Esso prevedeva una comunicazione congiunta
contenente le relative norme di sicurezza nazionali, nonché la
comunicazione e/o lo scambio delle informazioni ritenute necessarie
117
Paolo Cotta Ramusino – Maurizio Martellini, L’atomica in casa…., cit., p. 45. 118
Ibidem, p. 46.
108
per lo sviluppo dei piani di difesa, l’addestramento del personale
all’impiego delle armi e alla difesa NBC (Nucleare Batteriologica
Chimica) e la valutazione della minaccia atomica potenziale. Si
parlava informalmente anche di “doppia chiave”, in quanto,
nell’eventualità di un impiego, occorreva montare le testate nucleari
americane sui missili a medio raggio italiani IRBM (Intermediate
Range Ballistic Missile) o depositare le ADM (Atomic Demolition
Munitions) in siti vigilati da forze italiane. Tuttavia, gli americani
avevano in ogni caso in territorio italiano anche propri vettori aerei,
terrestri e subacquei a corto raggio ed erano quindi in grado di
utilizzare gli altri tipi di munizioni nucleari presenti in territorio
nazionale anche senza il consenso del governo di Roma119
.
Nel novembre 1983, dopo l’installazione degli euromissili a
Comiso, vennero introdotti in servizio i primi missili CRUISE, che
peraltro, a seguito del mutato clima politico internazionale, vennero
mantenuti in loco solo per un quinquennio.
Com’è noto, la presenza di armi nucleari statunitensi in territorio
italiano è sempre stato un tema oggetto di vivacissime controversie.
Per comprendere appieno l’atteggiamento degli italiani nei riguardi di
tale tema, occorre fare necessariamente riferimento alla più generale
questione dell’opinione degli italiani sulle armi nucleari.
Un atteggiamento molto diffuso nell’opinione pubblica italiana,
infatti, è sempre stata l’avversione nei riguardi di tale tipologia di
ordigni. Nell’ottobre del 1954, dunque agli albori della “Guerra
Fredda”, addirittura una schiacciante maggioranza dell’84% riteneva
119
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 69.
109
che non bisognasse mai usare le armi nucleari, mentre appena il 9%
ammetteva il second use (vale a dire il loro impiego come
rappresaglia, a seguito di un first use da parte del nemico) e infine solo
un modestissimo 7% ammetteva il first use, ma, anche in quel caso,
solo nell’eventualità di una sconfitta a livello di forze convenzionali.
Più significativo, semmai, può essere notare che l’opposizione
assoluta all’impiego delle armi nucleari scese con il passare del
tempo, tanto che si era ridotta al 55% circa nel 1962-63, mentre negli
anni Ottanta oscillava fra il 39 e il 45%120
.
Gli italiani erano convinti che la NATO avesse adottato il
principio del no first use e della dissuasione selettiva (cioè del ricorso
al nucleare solo nel caso dell’impiego del medesimo da parte del
nemico). In effetti, il ricorso al second use raccoglieva il consenso di
una quota variabile tra il 28 e il 44%, mentre solo una ristretta
minoranza (variabile fra il 2 e il 7%) ammetteva il first use. Tale quota
arrivò a raddoppiare, fino a toccare il 14%, nel 1981-82, per effetto
del dibattito sugli Euromissili, mentre gli oppositori si divisero a metà
fra il no firt use e opposizione assoluta (entrambi al 38-42%).
Molto importante è anche sottolineare che, sul tema, era diffusa,
nel Paese, la più completa disinformazione. Nel 1981-82, ad esempio,
solo una quota compresa fra il 25 e il 37% degli italiani sapeva che
l’Unione Sovietica era in grado di schierare in territorio europeo armi
nucleari a medio raggio INF (Intermediate Nuclear Forces), mentre la
NATO non lo era. Il 45-48%, dal canto suo, pensava che ne
disponessero entrambi i blocchi. Il 6-7% pensava che tali forze non
120
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 70 sg.
110
fossero disponibili né per la NATO né per il Patto di Varsavia e una
quota compresa fra il 14 e il 20% era addirittura dell’idea che solo la
NATO potesse contare su tali ordigni121
.
Quando, in occasione dell’installazione da parte della NATO
degli euromissili in territorio europeo, ci fu una notevole
mobilitazione pacifista contro i medesimi, l’opposizione
incondizionata al loro schieramento oscillò fra il 40 e il 54%.
Nel 1983, quando venne raggiunto il culmine della mobilitazione
pacifista, l’opposizione incondizionata allo schieramento degli
euromissili arrivò a coinvolgere il 76% di quanti si dichiaravano
comunisti e il 54% dei socialisti.
Non bisogna infine dimenticare che l’adesione italiana alla
NATO bloccò di fatto qualsiasi ambizione del nostro Paese a dotarsi
di armi nucleari. Sotto questo profilo, la politica italiana risultò molto
allineata – pressoché costantemente – a quella americana e ciò non
giovò granché alla nostra autosufficienza, ma rappresentò una costante
degli orientamenti italiani.
Al tempo stesso, occorre ricordare che venne comunque fatto
qualche tentativo di stringere la collaborazione con gli Stati Uniti e la
NATO anche in campo nucleare, dal momento che nel 1963
l’incrociatore GARIBALDI venne trasformato in unità lanciamissili e
posto in grado di lanciare missili americani POLARIS. Un’unità del
genere avrebbe dovuto essere inserita all’interno di una forza
multilaterale atlantica, dotata di capacità nucleari122
, ma alla fine il
progetto venne lasciato cadere.
121
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 71. 122
Enea Cerquetti, Le Forze Armate italiane…., cit., p. 217.
111
3.5. Il complesso militar-industriale italiano e la NATO
Una volta che l’Italia ebbe aderito all’Alleanza Atlantica, la
principale preoccupazione degli Stati Uniti fu quella di fornire aiuti
militari al nostro Paese, aiuti che erano indispensabili se si voleva
garantire la ricostruzione delle Forze Armate in un momento in cui la
ricostruzione postbellica poneva priorità decisamente più urgenti.
Tuttavia, accettare tali aiuti rendeva ovviamente l’Italia più esposta
alle pressioni statunitensi, in particolare a quelle che chiedevano un
incremento del bilancio della Difesa, un’esigenza ritenuta prioritaria a
Washington e che l’Italia soddisfece nel 1951, impegnandosi al varo
di un “piano quadriennale di riarmo”.
L’industria militare nazionale, dal canto suo, uscì dal secondo
conflitto mondiale di fatto azzerata, non solo per le distruzioni
materiali e la stasi delle commesse, ma soprattutto per l’enorme gap
tecnologico ormai accumulato nei riguardi dei principali Paesi
occidentali.
Essa venne gradualmente ricostituita nel corso degli anni
Cinquanta, esclusivamente grazie alle commesse imputabili al riarmo
delle Forze Armate italiane voluto dall’Alleanza Atlantica e, in
particolare, a quelle provenienti dall’estero (stimate in 500 milioni di
dollari), che consentirono di acquisire tecnologia e ripristinare
strutture produttive moderne. Già nel 1949, ad esempio, la De
Havilland concesse alla Fiat e alla Macchi la licenza per la costruzione
di 150 aerei da caccia VAMPIRE123
.
123
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 30.
112
Negli anni Sessanta, il comparto Difesa italiano poté consolidarsi
grazie alla cooperazione internazionale, più con gli Stati Uniti e con la
NATO, che con i Paesi e i consorzi europei.
L’acquisizione di tecnologia ebbe anche ricadute dirette o
indirette sulla capacità dell’industria italiana di sviluppare prodotti
completamente o prevalentemente nazionali. Tuttavia, se nel corso
degli anni Ottanta l’Italia poteva soddisfare in forma autonoma nove
decimi delle proprie esigenze militari, essa restava comunque
dipendente dalla cooperazione internazionale in tutti i settori a
tecnologia critica. Le stesse esportazioni furono complessivamente
limitate a tecnologie relativamente mature, competitive per la maggior
parte solo al di fuori dell’area NATO124
.
Occorre sottolineare che la cooperazione interalleata nel campo
degli armamenti si è svolta principalmente nel quadro della NATO,
anche se periodicamente si è cercato di sviluppare una cooperazione
esclusivamente europea al fine di controbilanciare la prevalenza
americana. Già nello stesso 1949, del resto, l’Alleanza Atlantica creò
un “Consiglio di rifornimenti e produzione militare”.
Significativa fu anche la collaborazione diretta fra l’industria per
la difesa italiana e quella statunitense, articolata in genere intorno alla
produzione su licenza di sistemi d’arma americani.
Le prime licenze di produzione postbelliche riguardarono i caccia
F-86K SABRE e F-84 THUNDERSTREAK (nel 1956, con il
coinvolgimento della Fiat), e l’elicottero BELL 47 (nel 1953, con il
coinvolgimento dell’Agusta).
124
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 267 sg.
113
Un consorzio di sei aziende (Fiat, Piaggio, Alfa Romeo, Macchi,
Siai Marchetti e Siai Ambrosini) partecipò anche al programma
NATO per il caccia notturno VENOM NF 2.
Nel giugno 1959 la Finmeccanica entrò nel programma NATO
per i missili HAWK e SIDEWINDER. L’anno successivo, una volta
ottenuto, non senza contrasti, un impegno di massima da parte
dell’Aeronautica, la Fiat aderì, quale capocommessa per l’Italia, al
consorzio europeo per la produzione di 977 caccia intercettori F-104
STARFIGHTER, da realizzare su licenza della compagnia americana
Lockheed, programma cui parteciparono anche Aermacchi, Aerfer,
Siai Marchetti, Alfa Romeo, Saca, Officine Aeronavali e Piaggio.
Nel giugno 1961 l’Italia si allineò alla posizione degli Stati Uniti,
i quali, temendo che intorno al progetto potesse formarsi un’industria
aeronautica europea che avrebbe potuto rivelarsi un temibile
concorrente, se fosse riuscita a sviluppare progressivamente un
elevato livello tecnologico, fecero dichiarare quello relativo all’F-104
STARFIGHTER un programma NATO, passandolo alle dipendenze
di un’apposita agenzia, la NASMO125
(NAto Starfighter Management
Organization). In cambio di tale atteggiamento, il governo italiano
ottenne uno sconto sui costi dei caccia che l’Italia si era impegnata a
produrre su licenza (in numero di 165)126
.
La partecipazione italiana alla costruzione degli F-104 garantì
non soltanto occupazione e profitti al settore, ma anche il fatto che
l’industria aerospaziale nazionale potesse cercare di colmare il divario
tecnologico che la divideva dalle maggiori industrie occidentali del
125
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit., p. 88. 126
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., p. 280 sg.
114
settore, dato che si trattava di velivoli di concezione estremamente
avanzata127
.
Negli anni Sessanta, l’esigenza di ammodernare e potenziare le
forze convenzionali incentivò il processo di standardizzazione degli
armamenti in ambito atlantico. Tuttavia, man mano che il tempo
passava, si vide con sempre maggiore chiarezza che, all’interno della
NATO, le esigenze dell’industria per la difesa statunitense erano
sempre più in conflitto con quelle della sua omologa europea, che non
a caso stava cercando di sviluppare una propria autonomia.
Di conseguenza, all’interno dell’Alleanza permaneva una
situazione sbilanciata, che di fatto tutelava gli interessi USA, ma non
quelli degli altri Paesi. Da un lato, Washington premeva al fine di
imporre agli alleati una crescente standardizzazione degli armamenti
e, certo non casualmente, dall’altro intendeva incentrare tale
standardizzazione sui sistemi d’arma di produzione statunitense, non
sicuramente su quelli di produzione europea.
In tale atteggiamento c’era indiscutibilmente molto di vero, ma
c’era altresì il fatto che le spese del Pentagono per
l’approvvigionamento di nuovi sistemi d’arma erano due volte e
mezzo rispetto a quelle dei loro alleati europei, mentre le spese per
attività di Ricerca & Sviluppo, fondamentali nel campo dell’industria
per la difesa, in quanto gli armamenti devono essere rinnovati di
continuo e sottoposti a un costante processo di rinnovamento, erano
ben sei volte e mezzo superiori a quelle europee. Appare dunque
abbastanza normale che chi spendeva così tanto per lo sviluppo
127
Virgilio Ilari, Le Forze Armate tra politica e potere...., cit. p. 88.
115
tecnologico e industriale dei propri sistemi d’arma cercasse altresì di
venderli, quando non di imporli ai propri alleati, dal momento che
quello era uno dei modi più semplici per ripagarsi delle spese
sostenute.
Fu su questo sfondo che, a metà degli anni Settanta, il dibattito
interno all’Alleanza su un tema di così cruciale importanza portò alla
formulazione della proposta della cosiddetta “two-way street”, vale a
dire su un più equilibrato rapporto tra Europa e USA, all’interno della
NATO, di modo che non fosse soltanto l’industria per la difesa
statunitense a vendere sistemi d’arma agli alleati europei, ma anche
viceversa. Nel complesso, tuttavia, lo squilibrio nei rapporti USA-
Europa rimase, in questo campo, molto grave, intorno a 8 a 1 alla fine
degli anni Settanta128
.
Per quanto concerne più specificamente il nostro Paese, nel
settembre 1978 venne sottoscritto un Memorandum d’intesa
(Memorandum Of Understanding – MOU) con gli USA, per il
miglioramento degli scambi reciproci, ma quella che continuava a
rimanere significativa era la modestia del ruolo che l’Italia svolgeva
nel contesto della cooperazione militare transatlantica. Il nostro Paese,
infatti, a metà degli anni Ottanta risultava coinvolto solo a 9 dei 26
programmi statunitensi che rispondevano ai requisiti NATO e a 12 dei
36 equipaggiamenti americani in corso di acquisto o sviluppo da parte
degli alleati, il che sta a significare che, nell’insieme, la sua
partecipazione non era superiore a un terzo del totale. Inoltre essa
partecipava solo a 8 delle 21 coproduzioni o cosviluppi, mentre ad
128
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 282-286.
116
esempio la Germania era presente in 16 e la Gran Bretagna in 14.
Altra nota dolente era rappresentata dal fatto che l’Italia era presente
in solo 1 dei 23 programmi europei acquisiti dal Dipartimento della
Difesa USA, quello relativo all’acquisto di 316.000 pistole Beretta,
per cui l’industria militare nazionale non riusciva a vendere alcun
sistema d’arma, a parte uno, al proprio più potente alleato.
Anche negli anni Ottanta gli Stati Uniti vararono diverse
iniziative per migliorare la collaborazione interatlantica nel campo
dell’industria per la difesa. A parte vari programmi sviluppatisi in
ambito convenzionale, l’iniziativa più rilevante fu quella del marzo
1985, quando Washington offrì agli alleati europei di partecipare alla
Iniziativa di Difesa Strategica (Strategic Defense Initiative - SDI)
voluta dalla presidenza Reagan, con la quale si intendeva rendere
inutile e obsoleto l’arsenale nucleare sovietico, allestendo un sistema
di difesa missilistico nello spazio che avrebbe impedito all’URSS di
colpire gli USA, sia con un attacco nucleare diretto (dunque un first
strike), sia con una rappresaglia (second strike). L’adesione italiana al
progetto, per quanto sofferta e contrastata per ragioni essenzialmente
politiche (la SDI non era infatti un’iniziativa difensiva e di fatto
violava il trattato ABM129
), non mancò di arrivare, ma alla fine
l’intendimento degli americani di far partecipare gli europei a un
programma di tale natura si rivelò più formale che effettivo130
.Troppo
di punta e segrete, infatti, erano le tecnologie coinvolte nel
129
ABM è l’acronimo di Anti-Ballistic Missile treaty, vale a dire il trattato, firmato nel 1972, che
si proponeva di limitare lo sviluppo di sistemi antimissile. 130
Virgilio Ilari, Storia militare della Prima Repubblica...., cit., pp. 290-292.
117
programma, per cui le aziende europee, nel complesso, non andarono
al di là di vedersi affidare un ruolo principalmente di facciata.
Negli anni Ottanta, l’Italia era interessata a 9 dei 29 Progetti
tecnologici di cooperazione sviluppati in ambito atlantico e a 80
programmi di Ricerca & Sviluppo o di produzione su scala bi o
multilaterale. I principali programmi multilaterali riguardavano i
caccia TORNADO ed EFA (European Fighter Aircraft), l’obice
semovente SP-70, l’elicottero NH-90 e la fregata NFR-90131
.
In questo campo, in definitiva, il quadro complessivo è ricco di
luci e ombre, in quanto non c’è dubbio che, da un lato, gli aiuti
militari statunitensi e le produzioni su licenza contribuirono alla
rinascita dell’industria per la difesa italiana, dopo i disastri del
secondo conflitto mondiale, ma, dall’altro, frapposero non pochi
ostacoli allo sviluppo di produzioni tecnologiche realmente nazionali
e, ancor più, ad una cooperazione europea che potesse fare in qualche
modo ombra alla loro industria militare.
131
Ibidem, p. 288 sg.
118
CONCLUSIONE
La storia della partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica, nel
quarantennio che va dal 1949 al 1989, è una storia controversa,
difficile, aperta alle interpretazioni più diverse.
Se cominciamo ad occuparci della scelta atlantica, possiamo dire
che, nelle condizioni che si erano determinate nel continente europeo
nell’ultimo biennio della seconda guerra mondiale, l’Italia, occupata
militarmente dagli alleati anglo-americani, dalla Sicilia a Bolzano e
Trieste, era inevitabilmente destinata a fare parte dello schieramento
occidentale. In effetti, la spartizione territoriale tra gli Alleati in
Europa era avvenuta in base al principio uti possidetis, per cui le forze
sovietiche avevano fatto entrare nella sfera di pertinenza di Mosca
tutti i Paesi che l’Armata Rossa era riuscita ad occupare nella sua
spinta da est verso il cuore della Germania, mentre, partendo da
occidente, gli alleati anglo-americani avevano fatto altrettanto.
Prima ancora che politicamente, quindi, l’Italia venne orientata
verso la scelta atlantica dagli assetti strategici scaturiti dalla Seconda
guerra mondiale.
Questa fu la scelta di fondo, ma appare difficile poter dire che fu
una scelta autonoma. Pare più corretto poter dire che fu eterodiretta e
al tempo stesso necessitata e necessaria. Eterodiretta in quanto si trattò
di una scelta avvenuta per cooptazione, dunque in larga misura
imposta dagli USA; necessitata e necessaria in quanto, stanti le
situazioni esistenti sul versante politico interno, con un blocco di
Sinistra appena poco più debole, numericamente, di quello moderato,
119
la classe politica democristiana non aveva soluzioni politiche
praticabili eccetto quella, anche se almeno una parte di essa avrebbe
preferito una scelta neutralista.
Una volta avvenuta l’adesione italiana alla NATO, si aprì una
diatriba destinata a durare in certe forme fino al 1989 e poi a
proseguire, con qualche mutamento, fino ad oggi. Il nostro Paese,
infatti, si è sempre diviso nettamente tra atlantisti e anti-atlantisti, ma,
mentre lo schieramento dei secondi è sempre risultato decisamente più
monolitico, in questo facilitato da una precisa scelta di campo, quello
dei primi si è sempre contraddistinto per numerose sfumature, da cui
emergono gli atlantisti convinti, quelli tiepidi, quelli per necessità, per
non parlare della nutrita schiera dei neutralisti, anch’essa divisa al
proprio interno tra i fautori di un neutralismo di stampo pacifista e
sostenitori di una forma di terzaforzismo molto attenta a cercare di
tutelare e promuovere soprattutto l’interesse nazionale.
Gli atlantisti convinti, per la verità, in Italia non paiono mai
essere stati troppi, in genere confinati allo schieramento
liberaldemocratico di più marcato orientamento filoamericano.
Gli atlantisti tiepidi sono sempre stati la maggioranza degli
atlantisti in Italia: gente che era favorevole alla NATO un po’ per
convinzione e un po’ per necessità, ma che in genere avrebbe sempre
preferito soluzioni politiche più blande, meno nette, tali non solo da
non costringerli a un confronto/scontro diretto con le Sinistre, ma
anche da consentire loro di “smarcarsi” dall’ossequio atlantico,
quando possibile e necessario, per andare alla ricerca di politiche più
120
autonome, non necessariamente neutraliste, ma spesso e volentieri
terzaforziste.
Per quanto concerne infine gli atlantisti per necessità, era
evidente che costoro non erano granché favorevoli, nel loro intimo,
all’Alleanza, ma non si ritenevano in grado di prospettare soluzioni
alternative credibili e dunque si attenevano alle direttive che venivano
da Washington e da Bruxelles.
A livello politico-strategico, appare difficile ipotizzare che sia
mai esistita, una reale contrapposizione tra scelta atlantica e scelta
europeista, in quanto la seconda, a parte alcune fiammate momentanee
e quanto meno fino al 1989, non si palesò mai come un’alternativa
credibile, ma rimase come un’opzione velleitaria che tutti gli europei
dicevano di apprezzare, ma che in realtà facevano ben poco per
concretizzare. Del resto, l’Europa occidentale del secondo dopoguerra
non aveva i mezzi economici e nemmeno la volontà politica per
costituirsi come potere autonomo e dunque la sua condizione di
subalternità rispetto agli Stati Uniti era palesemente totale. Né
migliorò particolarmente nei decenni seguenti.
Passando poi ad occuparmi del ruolo svolto dall’Italia nella
NATO a livello di politica estera, non si può fare a meno di notare
che, da un lato, tale ruolo venne generalmente ispirato al principio di
assecondare le direttive che provenivano dall’Alleanza e di farlo in
forma che potesse non solo non creare alcun tipo di attrito con gli
alleati, ma anche convincerli del fatto che l’Italia era un alleato serio
ed affidabile, un aspetto che essi erano in genere inclini a guardare
con un certo sospetto, sia perché l’Italia, durante il secondo conflitto
121
mondiale era stato un loro nemico, sia perché la tradizione italiana nel
campo della politica estera non era tale da suscitare particolari
entusiasmi, dal momento che era noto che il nostro Paese, nel corso di
tutta la sua storia e non solo di quella unitaria, raramente aveva
concluso guerre o alleanze dalla stessa parte in cui le aveva
cominciate.
L’Italia vedeva dunque appuntare su di sé una radicata diffidenza
e, per togliersela di dosso, non trovò di meglio che attenersi a una
passiva accettazione delle direttive atlantiche, passiva accettazione che
tuttavia, con il tempo, cominciò a tramutarsi nella ricerca di un ruolo
nazionale autonomo.
Si trattava di un’esigenza assolutamente legittima, ma si cercò di
soddisfarla nel peggiore dei modi possibili, vale a dire alternando fasi
di passività con fasi di velleitarismo indipendentista, che ebbero come
unica conseguenza quella di innervosire gli alleati. In entrambi i casi,
le autorità italiane esagerarono, sia nella passiva subordinazione alle
direttive alleate, sia nello sviluppare tentativi di politiche autonome
che si rivelarono sempre esempi di velleitarismo, in quanto non si
teneva conto che un Paese come l’Italia non disponeva né della
credibilità politica, né della forza economica, né degli strumenti
militari per potersi permettere, tanto all’interno del quadro atlantico
quanto soprattutto al di fuori del medesimo, linee politiche e
strategiche diverse da quelle volute dagli Alleati Atlantici.
Esisteva certamente una questione relativa all’integrazione tra
sicurezza atlantica e sicurezza nazionale, ma essa avrebbe potuto
cominciare ad essere migliorata, se non proprio risolta, attivandosi per
122
sviluppare nel Paese il concetto di interesse nazionale, l’unico che
avrebbe potuto raccogliere intorno a sé un significativo consenso,
invece nulla di tutto questo venne fatto e il tema dell’interesse
nazionale continuò a rimanere uno dei più secondari della politica
nazionale, in particolare di quella estera.
Nel contesto di un quadro politico e culturale così confuso, non
sorprende che si sia sviluppato sempre più il problema del
condizionamento politico, vale a dire una zona d’ombra in cui, mentre
era chiaro quale fosse lo schieramento anti-atlantico sul piano interno,
su quali forze potesse contare e a quali risorse potesse attingere, non
fu mai chiaro, per contro, quanto lo schieramento atlantico era
realmente tale per convinzione e quanto invece per convenienza e/o
necessità. Ciò che contribuì notevolmente a indebolirne la consistenza
e la credibilità politica.
Se questo era il fragile quadro di fondo, si comprende come
possa essere progressivamente cresciuto il ruolo dei servizi segreti e
delle strutture parallele; in effetti, se un Paese non riusciva a rimanere
all’interno dello schieramento atlantico per reale convinzione e per via
di una solida maggioranza politica, allora era comprensibile che,
stante la “Guerra Fredda” e le scelte di campo cui essa aveva costretto,
tale adesione fosse garantita anche per vie “indirette”, alcune delle
quali potevano essere reputate come francamente discutibili.
Non è questa la sede per soffermarci sui cosiddetti “misteri
d’Italia”, ma non c’è dubbio alcuno che una quota non indifferente di
essi possa e debba essere imputata a tali scelte controverse e a una
situazione politica e culturale interna divisa tra adesioni a blocchi
123
contrapposti. Se si accetta questa impostazione, non c’è dubbio che la
“Guerra Fredda” si manifestò non solo all’esterno, ma anche
all’interno dei confini nazionali italiani e non fu per nulla incruenta.
Su tutto si impone, come una questione tuttora aperta, quanto
talune strutture legate alla NATO abbiano influito sul mantenimento
di determinati equilibri politici interni, equilibri che dovevano essere
mantenuti così, in quanto alterarli avrebbe significato modificare la
posizione italiana all’interno dello schieramento atlantico. La
questione è di enorme portata e non può essere certo risolta all’interno
di questa tesi, ma sappiamo tutti che è esistita ed occorreva almeno
farvi cenno.
Per quanto concerne infine il ruolo atlantico dell’Italia in termini
di politica militare, ritengo si possa affermare che il versante militare
sia stato quello in cui sono stati compiuti i maggiori progressi, vale a
dire quello in cui più in profondità si è spinta la partecipazione italiana
all’Alleanza.
Difficile pensare che potesse essere diverso da così, in quanto, a
differenza dell’ambito politico, fosse esso di politica interna o di
politica estera poco importa, il versante militare fu quello dove meno
si manifestò una contrapposizione frontale tra atlantisti e anti-atlantisti
e dove invece si determinò un perfetto e maggioritario schieramento di
atlantisti.
I militari italiani, infatti, furono sempre atlantisti e lo furono
quasi costantemente nella loro totalità, dando conferma alla posizione
della Sinistra comunista, la quale, in base alla logica delle proprie
scelte di campo, aveva tutto interesse a presentare quella atlantica
124
come un’alleanza essenzialmente militare, poco politica e subalterna,
proprio in quanto militare, alle scelte strategiche degli Stati Uniti e del
Pentagono.
Questo aspetto non può essere sottovalutato, in quanto si
comprendono molte cose, a cominciare dalla totale integrazione delle
strutture militari nazionali in quelle atlantiche e naturalmente il non
meno totale inserimento delle Forze Armate italiane nelle strutture
NATO, tanto a livello di dottrine quanto di compiti.
Questo lavoro ha cercato di evidenziare come l’intero assetto
dell’apparato militare italiano dal 1949 in avanti sia stato concepito,
organizzato, strutturato e reso operativo al fine di fare delle Forze
Armate italiane il baluardo militare nella regione dell’Europa
meridionale, dove la “soglia di Gorizia” avrebbe dovuto essere difesa
allo stremo contro ogni minaccia di offensiva sovietica, lasciando
colpevolmente da parte, per contro, altre possibili opzioni, come
quella di una maggiore presenza italiana nel Mediterraneo, a difesa del
Fianco Sud della NATO, ma anche a tutela del proprio interesse
nazionale in un’area che stava diventando, anno dopo anno, di sempre
più cruciale importanza strategica.
Con queste premesse, la lunghissima polemica sulla natura delle
basi americane in Italia e del loro status, le controversie sulla difficoltà
a distinguere tra basi americane e basi NATO, gli accordi segreti
stipulati in tal senso tra i governi di Roma e di Washington, spesso al
di fuori e al di sopra delle intese atlantiche, costituiscono tutti fattori
soggetti ad interpretazioni meramente politiche, più che
auspicabilmente scientifiche.
125
Analoga affermazione è possibile in riferimento alle armi
nucleari presenti in territorio italiano, che in certi periodi raggiunsero
un numero assolutamente ragguardevole.
Anche in questo caso, non è facile discernere tra armi puramente
americane e armi NATO, dal momento che, per di più, le armi
americane avevano talvolta il “cappello” della NATO, ma sempre
americane e sotto diretto controllo statunitense restavano. Tale
situazione ha ovviamente dato origine a veementi polemiche e ha
ulteriormente complicato un quadro politico già di per sé assai
complesso, ulteriormente condizionato, tra l’altro, dalla radicalità
dell’ostilità al nucleare che il popolo italiano ha sempre dato prova di
nutrire, anche se non sempre parlandone con reale cognizione di causa
e adeguati supporti informativi.
In ultimo, mi sono soffermato sui rapporti tra il complesso
militar-industriale nazionale e la NATO, ben sapendo che tale
complesso ha svolto un ruolo di primo piano anche nel condizionare
certe scelte e nell’orientarle in una direzione piuttosto che in un’altra.
Non c’è dubbio, a questo riguardo, che il complesso militar-
industriale italiano strinse rapporti piuttosto stretti con i suoi omologhi
di altri Paesi e in particolar modo con quello americano, ma occorre al
tempo stesso rilevare che tali rapporti furono sempre rapporti di
oggettiva dipendenza industriale e tecnologica. Gli Stati Uniti, infatti,
si preoccuparono sempre di vendere agli alleati europei – Italia
compresa – le loro produzioni, ma non fecero mai alcuno sforzo serio
per coinvolgerla nello sviluppo di nuove tecnologie o di programmi
innovativi congiunti e neppure si dimostrarono molto favorevoli ad
126
aprire il mercato nazionale alle produzioni nazionali, se non in quella
ristretta misura indispensabile per metterli al riparo da spiacevoli
accuse di protezionismo.
Per concludere, quello che è possibile affermare è che l’Italia è
sempre stata un Paese la cui presenza all’interno della NATO è
risultata controversa, anche se molto più a livello politico che a livello
militare.
Il nostro Paese venne infatti cooptato nell’Alleanza Atlantica per
scelte strategiche solo in parte ascrivibili ad esso, ma che fu costretto
ad accettare obtorto collo per il successivo quarantennio oggetto di
questo studio, determinando delle contrapposizioni politiche sul piano
interno. Essendo la NATO stessa un’alleanza molto più militare che
politica, la nostra integrazione nel sistema risultò ancora più forte
della nostra integrazione politica generale, con squilibri che hanno
fatto sì che la storia della partecipazione italiana all’Alleanza
Atlantica sia stata, tra il 1949 e il 1989, particolarmente controversa.
Scopo di questa tesi è stato quello di mettere in evidenza
problemi e criticità, senza prendere particolari posizioni politiche, ma
cercando di mettere a confronto le tesi contrapposte. L’augurio è di
esserci riuscito.
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