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2 3 BIBLIOTECA DELL’APPENNINO l’isola è PER SEMPRE a cura di: edoardo callegari 29 luglio 2017

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BIBLIOTECA DELL’APPENNINO

l’isola è

PER SEMPRE

a cura di: edoardo callegari

29 luglio 2017

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INDICE

L’ISOLA E’ PER SEMPRE – quaderno 2017

I LIBRI DI RENATO PASSERINI di Graziella Sibra - Colla di Brugneto

ESCURSIONI, EXCARNAZIONI, GEOLOGIE INTERIORI di Edoardo Callegari - Brugneto SI PUO’ FARE - Vuoi mettere la luna vista da qui? La Rocchetta - Storie d’impresa di Sergio Campodall’Orto – Brugneto LE DUE ANIME DELL’APPENNINO di Aldo Acerbi - La Beata di Bosconure L’APPENNINO IN UN PANINO…CON IL SALAME di Benedetta Callegari - Brugneto PINETTO di Graziella Sibra - Colla di Brugneto

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L’isola è per sempre quaderno 2017

L’isola è per sempre è il titolo della collana dedicata al territorio dell’Appennino; sguardi di ieri e di oggi posati su questo territorio e lasciati in eredità in pubblicazioni poco note e per niente divulgate o valorizzate. All’idea hanno prontamente aderito con particolare entusiasmo alcuni studiosi che vivono, con occhio attento e vigile, questo luogo come un’isola. Un’isola, non in senso fisico-geografico come territorio circondato dall’ac-qua, ma come zona delimitata e definita da una realtà immateriale e personale perfetta-mente condivisa insieme ai suoi abitanti. La Biblioteca dell’Appennino è nata con il tra-sferimento di una parte dei libri di famiglia a Colla di Brugneto quando, dopo averne dona-to una parte ad amici e parenti, si è pensato di metterli a disposizione di tutti. Geografia, storia, letteratura, filosofia, chimica, fisica, matematica, atlanti, alcune enciclopedie, libri in lingua inglese, francese e tedesco, diziona-ri e molti testi di narrativa e gialli sono le materie più trattate. Sono quasi tutti libri pubblicati tra gli anni Cinquanta e i giorni no-stri e una modesta raccolta, in via di forma-zione, di libri dedicati all’Appennino. Da quando è stata aperta la Biblioteca sono i libri più consultati e di cui piacevolmente se ne parla nei luoghi aggregativi. Sono soprattutto le immagini contenute ad attrarre i lettori perché guardandole affiorano ricordi, rievoca-

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no eventi, rammentano avvenimenti, storie e storia si mescolano facendo diventare fami-liari volti sconosciuti e luoghi dimenticati. L’interesse manifestato ha incentivato il loro recupero e fatto nascere l’idea di far diventa-re la Biblioteca il centro di recupero e valoriz-zazione della memoria storica dell’Appennino Settentrionale, il territorio compreso tra il Colle di Cadibona (la linea divisoria fra le Alpi e l'Appennino) e la Bocca Serriola (la sezione appenninica tosco-emiliana e quella umbro-marchigiana). Nella Biblioteca sono oggi conservati scritti realizzati soprattutto dai residenti che con tanta pazienza e passione hanno svolto inte-ressanti e importanti lavori di ricerca e recu-pero di documenti, immagini, notizie, dati. Di fatto sono loro che stanno costruendo la me-moria storica dell’Appennino e la Biblioteca intende diventare il luogo dove poterli custo-dire, visionare e valorizzare. Sono tutti lavori ricchissimi di informazioni, documenti, imma-gini, notizie quasi sempre frutto di capillari recuperi porta a porta, interviste a personag-gi speciali, ricerche nei vari depositi. Lavori preziosi, da incentivare e sostenere, perchè la memoria storica del territorio può essere scritta quasi unicamente da chi ha vissuto quei luoghi, da chi ha patito i disagi e rinun-ce, da chi ha modellato e plasmato giorno per giorno campi e prati, da chi ha lottato per mi-gliorare la propria condizione e da chi è riu-scito, nonostante tutto, a trovare la sua isola. È una eredità immateriale percepita e ricono-sciuta, quasi unicamente, da occhi ben eser-citati ma facilmente ritrovabile proprio nelle

memorie scritte da chi ha vissuto negli Ap-pennini. L’edizione 2017 contiene la catalogazione dei testi di Renato Passerini, un instancabile ‘lavoratore della carta stampata’, da lui pro-dotta o scritta da altri dove il territorio, e tut-to quello che succede intorno ad esso, è sem-pre il protagonista principale. La spiritualità del territorio è raccontata da Edoardo Callegari attraverso un itinerario fat-to di suoni, pensieri, sensazioni, citazioni, ecc. Un intervista a Maddalena Scagnelli ci accom-pagna nella musica tradizionale quella legata all’Appennino del Nord-Ovest che si è fatta conoscere in tutta Italia ed all’estero. Mentre la realtà economica, descritta da Ser-gio Campodall’Orto, mostra un isola di recen-te costituzione dove la passione e l’amore per il territorio diventano elementi imprescindibili per nuove attività. Bendetta Callegari introduce il tema della cu-cina piacentina: una cucina schietta, compo-sta di piatti forti e robusti per uomini sempli-ci, solidi, tutti di un pezzo. Chiude questo terzo quaderno Graziella Sibra con un racconto di un incontro che ha segna-to una delle vacanze estive passate nelle valli appenniniche.

L’editore

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I LIBRI DI RENATO PASSERINI di Graziella Sibra – Colla di Brugneto Renato Passerini è un giornalista-scrittore. Scrive per il quotidiano ‘Il Piacenza’ e le sue rubriche sono quasi tutte dedicate alla sua terra: l’Appennino. È un instancabile ‘lavoratore della carta stampata’, da lui pro-dotta o scritta da altri dove il territorio, e tut-to quello che succede intorno ad esso, è sem-pre il protagonista principale. Veicola quoti-dianamente gli eventi che lo riguardano uti-lizzando strumenti digitali e social network meglio di un giovane adolescente di oggi. L’Appennino è la sua casa ed è facile incon-trarlo durante quasi tutti gli appuntamenti che si susseguono durante l’anno solare siano essi culturali, politici, sociali, folcloristici, mu-sicali, ecc dedicati o svolti nelle Valli. La sua premura nel raccogliere e diffondere le vicen-de di questa terra è quella di sempre, è una premura affettuosa con cui ti invita a condivi-dere e a sperimentare un libro, una storia, una poesia, una coincidenza, una memoria, un aneddoto, la scoperta di un personaggio o di un autore, un incontro. Assomiglia più ad un compagno di viaggio e i suoi articoli invi-tano molto spesso ad approfondire o ad avvi-cinarti al territorio appenninico facendoti di-ventare parte di esso. Eventi e appuntamenti, odierni o del passato o che dovranno avvenire, si possono tranquil-lamente trovare segnalati nelle sue rubriche

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e grazie alla sua costanza è diventato il punto di riferimento per tutti quelli che vogliono raggiungere l’Appennino o per chi vuole co-noscerlo. Consultato quotidianamente anche da chi ha dovuto emigrare, i suoi scritti raccontando della loro terra, in tempo reale, li fa sentire ancora a casa, il luogo dove sono nati, dove sono ancorate le radici, dove poter ascoltare le voci delle persone conosciute e respirare il ricordo dei suoi profumi. Tutto il lavoro svolto fino ad oggi è stato compensato da una ampia rete di amici e di contatti, sempre in crescita, più di quanti Lui stesso possa immaginare. Nelle suoi scritti la descrizione dei luoghi e degli eventi è sempre molto attenta e gli in-teressanti consigli profusi aiutano ad orien-tarsi sia nel luogo e sia nell’evento. Senza tener conto delle mode letterarie o giornalistiche del momento, il suo modo di fare informazione, è all’insegna della sempli-cità e della chiarezza scivolando lungo il tem-po con uno suo personale stile. Anche nelle curatela e nel recupero delle no-tizie perse, in lontane memorie, che si chiami Giovanni o Visconti viene ugualmente raccol-to e profuso giorno dopo giorno instancabil-mente. Gli Appenninici hanno imparato a conoscerlo così come hanno imparato a vederlo nelle zo-ne di sosta, lungo antichi sentieri, mentre legge i giornali, quelli fatti ancora con la car-ta.

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ESCURSIONI, EXCARNAZIONI, GEOLOGIE INTERIORI

di Edoardo Callegari – Brugneto

Prese con sé Pietro,

Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in

disparte, su un alto monte (Mt XVII,1).

C’era una volta, senza una volta ad esserci… nel più puro coro di montagna: “Hic est filius meus dilectus” (Mt XVII, 5), da “Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato” (Sal II, 7) a “Egli è mio figlio”, la Scrittura – passando dal “tu” a “egli” – si rivolge al mondo per dare al mondo del tu. La parola, dalle altitudini, si rivolge alle pendici in seconda persona. E dal-le pendici, di ritorno, deve iniziare il viaggio verso i luoghi dell’anima. Si parte per gran vento di desiderio, in una speranza esorbi-tante dello spazio – in cui “l’inebriarsi dello spirito è quello stato nel quale la letizia so-pravanza la possibilità intravista dal deside-rio” (Ruysbroeck). In questo sollevamento generale dell’essere, c’è una promessa di mi-stero montano: “Sulla terra ti solleverò” (Is 58,14).

*

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La mattina estiva, inizia nel cammino da Pas-so Crociglia. Scali le prime faggete che ac-compagnano un’altitudine già selvaggia, aperta verso destra alla freschezza scolpita dall’aria. Ritrovi un terreno piano e sei pro-tetto, ora – nelle brevi traversate delle radu-re - da macchie di lamponi. Una leggera di-scesa ti porta alla Rocca Marsia nella cui aria indurita a linguaggio navighi in Ovidio, Libro VI, dove le parole del satiro e il suono del suo aulòs, fanno testo con la sonorità ligure at-torno. Poi la vera salita. Arrivato all’aperto, l’altopiano spalanca pascoli sovrani di orchi-dee che, proseguendo, ti portano sull’altitudi-ne del Roncalla (m. 1 683). Sosti a riconosce-re mentalmente “questa realtà visibile, udibi-le/ la parola liberata/ svettante a tenda:/ In-sieme” (Paul Celan, Anabasis), nel primo sguardo ai nomi Maggiorasca, Tomarlo, Pen-na, Alfeo, Lesima, Penice, Crociglia, Carevolo, Aserei, Ragola e Nero; etimi prelatini, inter-mittenze di oblio che si propagano come ac-cordi della memoria. Dopo aver recuperato la faggeta, il paesaggio ti sporge sull’affiora-mento isolato del deserto d’erba del Groppo Rosso, da cui sei rinfrescato nell’aria alta sul-le rocce. La Val d’Aveto ha una luce di visita-zione salmastra, che ti porta, scendendo, alla conca smaltata d’acqua di Prato Cipolla e alla vista della cima del Monte Bue (1 777 m). Dopo esserti immerso con lo sguardo e le mani, inizi il ritorno, attraversando il silenzio della Val Tribolata: passi in punta di piedi ac-canto a nike rocce madri superbe, tribolate, di un’incompiutezza che sradica la terra e - nella variazione del cammino, nello stempe-rarsi dell’aria - ciò che sembra vuoto, in cui il

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vuoto stesso è tutta un’altitudine, trovi il vero clima di spogliazione da un desiderio che su-scita finzioni. I luoghi familiari sono parte della realtà, parte di un predicato dell’origine, senza mitologie del reale, metafore del possi-bile. Puntellare con questi frammenti le rovi-ne dei greti, non rende più intero il grande vuoto, ma innalza alla stessa tua altitudine una fertilità di qualcosa come giunta all’apice nella totale spoliazione: un linguaggio a mi-nore e uno sguardo a minore nel loro intero aderire al reale. Di ciò che vedi si annuncia solo la calma del visibile; una luce che si rin-nova come un giorno che avanzi rapidamente nella propria origine mattiniera, come luce in un tempo di concretezze luminose senza commiati dal reale. Ordinata della quiete di ciò che posa, della nudità posata. Sia così: la fertilità spoglia di ciò che è giunto all’apice, esiliato il desiderio per la finzione dominante, inaccrescibile quanto può esserlo nella rilut-tanza ad accrescere, migliora con la povertà per il niente di finzione da vedere. Disdire il niente da essere visto. Il niente di finzione non può continuare, salvo, purificato, nella povertà di luce andata.

*

Sei nuovamente alle fonti della Ciapa Liscia. Il suono delle sillabe dei monti attraversati, o solo avvicinati, prende nuova radiosità nella summa della voce delle acque aperte – Croci-glia, Marsia, Roncalla, Groppo Rosso, Bue, Tribolata. La forma saturata di acqua, chiarità reticente e freschezza sonora, è un angelus estivo in cui puoi liberare la parola: “Vidi ri-

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dere una bellezza che letizia era” (Par. XXXI vv. 133-135), esaltata in climi di grazia bat-tesimale d’aria aperta e flora. La luce ha di-sperso sul fondo della parete di basalto, su tutte le piccole acque, tutta la semente del suo spettro. Ricordi la prima volta in cui sei arrivato fino a qua; i sorrisi passi leggeri, perché accompagnato dalla femminilità di fa-miglia. Reimmerso, sai, nel suono e nel sapo-re dell’acqua, che l’allontanamento nelle di-stanze deriva dal contrasto tra la possibilità di perdere la somiglianza con l’eterno, unita all’impossibilità di cancellare l’immagine dell’eterno. Il vero spazio della distanza in cui ti immergono le scaturigini da cui oggi bevi, è il confronto tra immagine incancellabile e sta-to di dissomiglianza. “Clarifica me tu, Pater, claritate quam habui prius” (Gn XVII, 5) – chiarificami della chiarezza che avevo prima. L’acqua pura di sapienza è invisibile.

* Esci di casa nella sonorità purgata delle fon-tane: un accanto a gran vento, disimpietrato. Sei parte dell’allegria leggera del piccolo bor-go e riconosci il sorriso delle grandi speranze: “Le piazze delle città si riempiranno/ di ra-gazzi e ragazze che giocano nelle sue piaz-ze./(…) Sì, questo meraviglierà/ gli occhi dei viventi in quei giorni./ questo meraviglierà i miei occhi.” (Zc VIII, 4-6). Inizi il tuo cammi-no favorito e prendi il sentiero che da Colla di Gambaro – la Gamahalos dei re longobardi – ti porta a valle, dove il torrente si getta nell’estate, attraverso campi digradanti, in cui il sole si scheggia su di un paesaggio di querce e muretti a secco. Osservi la tonsura

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ancora fresca di fienagioni, il movimento lun-go della cote nell’ultimo ritocco di affilatura, il fruscio dello sfalcio, participio passato dei mestieri come titoli di nobiltà che fondano un rispetto, un centro di pura perdita di sé attor-no ad un vivere insieme; i tuoi genitori re-sponsabili per tutti della caritas in veritate in cui sei vissuto. I covoni su cui ti lasciavi ca-dere, hanno la fragranza di un incenso rusti-co, un raccolto delle essenze per gli oli di una sulamita materna dall’infanzia all’aria aperta: genziane, regine dei prati, erba medica, sile-ne, erba mazzolina. Costeggi una siepe di carpini che, al lato sinistro, delimita un lungo tratto di sentiero e pensi – tra i canti dei merli nella macchia - che i gesti di perseve-ranza alla grazia, avranno per sempre una calma fedeltà alla nascita che sopravvive alle nascite. La stessa levità e naturalezza che ti suscita al vivente, come roseti selvatici indi-sturbati a crescere nelle stagioni, a fiorire bianchi di luce estiva, fremendo appena nell’aria, con la stessa lentezza a svanire del-la crescita. Ma ciò che va spegnendosi, è solo la temporalità in cui sono cresciuti, in cui gli stami oscillano. Plenitudo temporis (Ga IV, 4). Più oltre, inizia uno sprofondare immobile nella maestà di luce inaccessibile - ombra lu-minosa di tutte le cose - concreta come il so-lo, immenso istante di luce che è dal fiat lux del primo giorno, al fiat mihi dell’annuncio: “Se domani è già spento, io vivo quel giorno/che prima ancora che divenissi – ebbi a vive-re in Dio” (Silesius, Der einige Tag). Percorri il sentiero reso più agevole da affioramenti di rocce di quarzo, vicino a cui crescono rosette di verbaschi, digitali e cardi e arrivi alla fine

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del sentiero, di fronte al salice, accanto ad una quercia alta sopra una collinetta, nei bre-vi campi che costeggiano la strada carraia fi-no a fondo valle. Osservi l'anello dell'Alta Val-nure dominato dai fianchi spogli del Monte Ragola (1 712 m) e dal tuo punto di osserva-zione tra l’altezza dei monti e la valle, la ter-ra cede al cielo spazio per le sue fienagioni, i suoi nutrimenti, il ridere delle erbe. In quello spazio sospeso, il climax dei campi in movi-mento verso proprie radici dall’innocenza di ginestroni, erba medica e vagabonde, non è suolo profondo di manto arbustivo o foresta-le, ma una città di pienezze d’aria, assente. “I monti la cingono” (Sal CXXV,2). Alzi lo sguardo sul paesaggio dei monti e riconosci la cintura di cielo composta dai borghi Pertu-so (1 022 m), Rompeggio (816 m), Retorto (950 m), Selva (1 110 m), come altrettante porte della città e sillabe di alleluia. Jerusa-lem est. Qualcosa di soffiato nella conca delle mani di un bambino. In questa conchiglia di nomi di paese, c’è una sonorità radiosa di ac-cento francese e genovese, quasi la lingua d’Oc della tua prima vera Repubblica delle Lettere. Nella stessa sonorità, nobilitata dalle sue origini nelle pietre, trovi nome ai suoni delle ore tutto attorno: campane leggere e mozartiane unde suspirat cor; campane grevi di rifugio e schiarite nimbum fugo; nel ripe-tersi dei rintocchi festivi. Ascolti fino a che il suono delle campane ripete quest’unica, grande voce di rimando: “Hai detto: <ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi>. Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via, così che io ti conosca e trovi grazia ai tuoi oc-

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chi” (Es. 33,12-13); “Come si saprà dunque che ho trovato grazia ai tuoi occhi, io e il tuo popolo, se non nel fatto che tu cammini con noi?” (Es 33,16). Angelus di grazia agli occhi e cammino sull’orlo della giornata, vacillante verso la sera. Tutto questo ti viene restituito come un tuo grande Continente Interiore, da cui puoi intonare un Te deum della mente che abbia la purezza degli anni salvati: “Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene di ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli un-guenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra disposte agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amples-so dell'uomo interiore che è in me, ove splen-de alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, dove promana un profumo non di-sperso dal vento, dove è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazie-tà.” (Agostino, Le confessioni Libro X, 6). Il ritorno lungo il faubourg delle genziane, sile-ne, caprofoglio, borragine, celidonia, vaga-bonde, è tutto un Vangelo secondo Emmaus, in cui “solo la mano che cancella, può scrive-re la parola giusta” (Dag Hammar-skjöld,Vägmärken). Quel luminoso molto di affievolito, quel fievole molto di ancora affie-volirsi nel fievole poco di luce soltanto.

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Sul letto della mattina. I primi giorni di gen-naio, l’ultima sinfonia a maggiore di luoghi dell’anima. Poco prima del tuo compleanno, ti immergi nella neve e nella luce al Passo del Crociglia. Durante l’estate, l’aria aperta nel paesaggio, ha solo fienagioni di puro spazio in una povertà essa stessa nullificata; ma nella neve, la trasparenza scolpita nella nudi-tà ondulata, è spoglia anche delle pose deboli di un clima meno appropriato alla luce. In questo Regno del Natale, delle erbe assolate non restano che i coralli di gelo dei cardi. Ti incammini verso il monte e procedi lenta-mente in piano ai margini dei rilievi nella ne-ve fresca, non molto profonda, più oltre ri-spetto al punto di salita che ti eri prefisso. Immobile nel freddo luminoso, la vista si apre in direzione sud-ovest verso le alte valli Nure e Aveto; pensi che camminare nella novità della neve, sia rinunciare alla strada per gli spazi. Respiri timidamente in questa nuova aria claritas, alla concreta apparizione della novità del paesaggio sull’orlo del visibile. L’u-nione essenziale alla concretezza di questi luoghi si consuma nell’amore senza ardore, senza sapore e nella sola profondità che re-gna alla punta fine dell’anima… à la pointe acérée … quassù, puoi dire che l’aria si denu-da di neve con odore nubile, con la mente profonda di un angelus del gelo originario e non puoi incorporarti, corpo, ad esso, ma soggiornare in pura perdita cristallina con la prima luce. Nell’incendio artico, la chiarità brucia chiarità ed esilia il desiderio per la luce di sette giorni, spogliati i loro nomi: Efeso,

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Smirne, Pèrgamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia, Laodicèa; questa per il giorno è la spoglia fertilità di acqua e aria, di ciò che è giunto all’apice, aria claritas. Decidi finalmente di tornare sui tuoi passi e vai al punto in cui il cammino sale al Monte Crociglia (1 578 m), ora a sinistra. Nella sta-gione degli alpeggi, i boschetti di noccioli of-frono riparo alle tovaglie dei giorni della fe-sta, per “genti alle nozze”: “Fortunati anche troppo, se conoscessero il loro bene,/ i pae-sani, (…)/ Se si corrompe il limpido olivo con la cannella:/ non manca una pace tranquilla, una vita che non sa ingannare,/ ricca di beni vari, riposo nei vasti spazi della terra,/ grot-te, laghi naturali e fresche valli,/ il muggito dei buoi, il dolce sonno sotto la coperta di un albero,/là sono (…) la gioventù frugale e pa-ziente nel lavoro,/ il culto degli dei, il rispetto dei genitori:/è in loro che la giustizia, ritiran-dosi dalla terra, ha lasciato le ultime tracce di cammino” (Virgilio, Georgiche II 458-474). Il bestiame è in maestà: altorilievi sopra la luce delle nubi, ne accrescono l’intensità del chia-rore con la trasparenza meridiana del concer-to dei campanacci. Ora, con la neve, sali fati-cosamente in direzione della statua dell’Ar-cangelo in marmo di Trieste, portata sulla ci-ma dagli abitanti di Torrio per ricordare i ca-duti della montagna. Lo sguardo della statua vede, a nord il Carevolo; a est il Megna; a sud i monti Ragola, Nero, Maggiorasca, Bue e la Ciapa Liscia; a ovest i profondi incassi bo-scati della val d’Aveto. Sei nei misteri monta-ni, quindi. Gaudiosi, dolorosi, gloriosi e della luce. E tutta la luce ad occhi chiusi non ti por-

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ta più avanti di così. Prosegui solo di qualche passo verso nord, dove già il piano inizia a digradare e ti siedi nella neve intatta. La chiarità della veglia nelle impressioni solari che attraversano l’anima di cristallo sulla su-prema punta dello spirito e sul fondo dell’ani-ma, assorbe la luce della ragione e si effonde in una Cella Vinaria in te, stanza segreta del Cantico dei Cantici. Sei giunto in un paese di-verso: ora puoi conoscere questi paesaggi osservandoli dal fondo luminoso di questa stanza segreta di quiete; farne sgorgare la concretezza liquefatta e il delicato fluire come un balsamo con la insaziabile sazietà che ne narra le erranze inauguratrici all’aria aperta. Qui, un Ave - vocale precoce di un avvento pasquale, irradiata di linfa che cola glicini di luce - è tutta una école du regard, pura per-dita - senza riparo dove l’amore degli angeli è spazio di totalità - e, con la voce dell’ange-lo: “nelle notti di lotta/ noi cediamo di intimi-tà in intimità/ e dove l’amante disgela/ siamo pietra che precipita” (R. M. Rilke, Poesie sparse). Ingressus angelus ad eam (Lc I,28)! Ad un tratto l’inverno, da verbo ausiliare dell’inanitas cordis - la vacuità del cuore – a piccola infanzia di pavone improvviso che scopre un giorno nuovo, apre la profondità incancellabile di profumi respirati a memoria aperta, in un immenso solvitur dell’orizzonte, in cui la distanza nuova dissigilla una varia-zione di luce, come alleggerita. Una grande freschezza spinge i monti davanti a sé, nell’a-ria sotto il latte, sotto il miele. Un immenso solvitur… E ti ritrovi bambino, in una mattina estiva di

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così tanto tempo addietro, appena nato allo smeraldo chiaro del Carevolo. Con la tua fa-miglia sei salito per la prima volta sulla cima del monte e poi ne sei ridisceso in corsa, fa-cendoti tenere per mano. Un monte della mirra; un monte della mirra elevato allo stato d’infanzia nella pura veriditas – luce della na-tura come precipitata verso l’alto - in un ap-prodo di eternità di perdono e di incontro. In questa nuova calma, si acquieta, perduta in te, una dedica commossa che unisce il ricor-do di pioppi bianchi del grande fiume in pia-nura, alla conoscenza del respiro del Carevo-lo: “Ombra mai fu/di vegetabile,/cara ed amabile,/soave più.” (Georg Friedrich Handel, Larghetto da Serse). In un altrove così cal-mo, della purezza della perdita, rimane non “una fame senza stimolo o desiderio di cibo incorruttibile (…) perché quanto più ero digiu-no, tanto più ne ero nauseato” (Agostino, Confessioni III, I, 1), ma un casto e puro amore. Non una speranza a cui duole lo spes-sore del presente in istanti che scorrono in un silere all’infinito, perché da una conoscenza come attraverso uno specchio e per enigma, ad una conoscenza faccia a faccia, con le stesse parole con cui acconsente, l’eterno si nega… Rimane solo la beatitudine di una ca-sta accettazione di felicità; “un pensiero ad altezza/ d’albero/ afferra il suono della lu-ce” (Paul Celan, Filamenti di sole) in uno sguardo benedicente e riposante. “Ombra mai fu”. Quel silenzio reso l’inno alla gioia di una voce di alto mascolino; una pura, luminosa accet-tazione della felicità. Un completo esserne la-

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vato, amplius lava me (Sal LI, 4) improvviso, fino al fondo di te che rialza la testa, è il me-ridiano di gran cammino, della grande novità di veglia come luogo d’essere luce: “In cam-mino egli berrà al torrente: perciò egli rialze-rà la testa” (Sal CX, 7). In questa pura dona-zione, non riconosci alcun senso di dissomi-glianza, alcun continente interiore, ma solo un piccolo quasi niente, un presque-rien, un aderire al Volto che è lo spazio e il tempo in cui respirare nel mistero abscondere in tor-rente (1 Re XVII, 3) dell’abbraccio a fondo nel respiro. Tutta la realtà satura, l’eleganza della terra, appare in una coerenza che è la maestà del rischiarare; una libertà dell’aria nella libertà vestita di sole di un’aria adonata, intatta. In essa c’è la viva voce del reale, sa-turo della propria pura donazione, come un appello. Ti senti chiamato per nome da que-sta realtà. La stessa felicità che prende corpo autentico nella fedeltà alla purezza non colti-vata in un ricordo esatto, ma nell’immemora-bile di un’assenza e del suo sopraggiungere con la pasta degli oli di aromi rustici che con-servano, nella continua imminenza dell’as-sentarsi, il profumo versato come un balsamo di nardo. Il cuore in questo tepore aromatico è il tuo nome proprio, che resuscita al vocati-vo. Un istante di pura reciprocità in questo giardino di azzurre correnti ascensionali, in cui intendere il tuo orecchio mentre ascolta, vedere il tuo occhio mentre guarda, intende-re ciò che li apre e si eclissa nel nome rinato, intatto. Tra appello e tuo responsorio non c’è qui lo scarto di un’estasi, perché tutta la pace irradiata, la conciliazione satura di reale, è nell’apparire, che non cessa di avvenire se-

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condo un “molto più” di donazione. Fino a che tutto quanto non sia nullificato nell’esse-re donato, non sia altrettanto “molto più” di donazione. Fuge dilecte mi (Ct 8, 14)… Come un addio fedele in un giardino italiano da primo incon-tro di resurrezione, scossi i calzari, è addio della bianchezza nella dominazione del bian-co, i tuoi giorni d’infanzia a venire avranno la nascita sempre appena estratta dalla pura carità originaria e una tale purezza, una tale reticenza, ritenzione di abbassamento, sarà parte della verità attorno alla sola presenza del tuo mero essere di Responsorio nella sa-turità di ciò che appare “tanta kenose, al-trettanta donazione”, come la brezza in serbo per la mattina, disincarna la sua stessa sum-ma di cristallo. L’avvenimento di una nascita, subito fatto regno; come dalla nascita dall’al-to, subito essere regno. Sei a fondo nell’ar-rière pays familiare, ma di una novità di con-cretezza come la suressenza di donazione fontale che satura ogni fecondità del giorno. Sei nel “non trattenuto”, in un noli me tange-re personale che ora riconosci fonte di un in-compiuto - inachevé – non per assenza di re-ciprocità iniziale di nome, appello, responso-rio, ma per l’oltranza della sua resurrezione ancora troppo fragile in te. Oltranza oltraggio del non poter trattenere la reciprocità nel no-me risorto “come la sinistra sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia” (Ct 2, 6), come un toccare in cui “le mie mani stillavano mir-ra;/ fluiva mirra dalle mie dita” (Ct 5, 5). Un Inachevé inverso. La infinita donazione nell’aria alta delle cose del giorno, è tutta l’e-

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sperienza del giorno, come “Albero che vive della cima” (Par XVIII, 29); l’aperto assoluto del tuo effacement “là dove armonizzando il ciel t’adombra/quando ne l’aere aperto ti sol-vesti” (Purg. XXXI, 144-145). Un cancellarti adonato come di amante - “Ho aperto allora all’amato mio,/ma l’amato mio se n’era anda-to, scomparso./Tutto di me è venuto meno, per la sua scomparsa;/l’ho cercato, ma non l’ho trovato,/ l’ho chiamato, ma non mi ha risposto.” (Ct 5,6) - nell’aria lavata dalla ve-ste dell’agnello. Ma ora emerge il vero signifi-cato della felicità che ti è offerta e che sai ac-cettare: non il riporsi in un ricordo, ma la pu-rezza dell’irriducibile che è l’intera innocenza dell’infanzia; ciò che hai chiamato inachevé inverso: la santità della purezza nella resur-rezione dell’essere amati, la sua concretezza nell’apparire della saturità dei fenomeni. Ri-volta all’avvenire della tua origine, capisci che è una purezza non ferma alla remissione di una marea di fertilità, ma che continua a lavare tutta l’aria del vivente e del visibile di allora e che “O la luce è nata qui, o prigionie-ra vi regna libera”… Sei di nuovo alla neve, decidi di tornare ri-nunciando ancora alla strada per gli spazi al-leviati. Scendi tenendo il profilo del Carevolo sulla destra e poi prosegui verso una luce di sud ovest un poco attenuata. Più ti avvicini a questa luce affievolita, tanto più “caro mi fu” questo éternel: nello spazio dell’aria e della luce come un tutt’uno di intatto, lo “Stette sulla riva” (Gn 21,4) e “Stette in mezzo a lo-ro” (Gn 20,19), come corpo a corpo, come inspirazione ed espirazione di una infinita stat

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veritas; questa è la presenza mattinale e se-rale della resurrezione dell’essere amato. Ora sei al passo con quanto della grazia ti è sfug-gito.

* Noi non abbiamo una Sistina affrescata che regge l’arco ofiolitico degli appennini, cieli di basalto; o – nei terreni intrisi e luce ariosa – torbiere che danno una terra di burro buono; non una Lescaux-Versailles parietale nelle profondità dei monti; non una Madonna del Parto di luce chiara sulle cortecce bionde dei faggi, ma, nell’orizzonte della valle, ogni pae-se si è sentito abbastanza umile da poter es-sere elevato e, in un cammino a gran vento di Visitazione - in cui ogni spalancata legge-rezza dell’aria che si respira; ogni fioritura insolita di luce esultante; ogni altitudine che dilata fino al fondo di te la chiarezza del ride-re, dà pienezza ad una parte di Magnificat – l’intero dialetto cantato della valle, si è pro-clamato sugli alti fatti di Dio: Magnalia Dei (At II, 11). La preghiera è l’estuario del cam-mino a gran vento, Tantus amor terrae – Co-sì grande è l’amore della terra (Virgilio, Geor-giche, II, 301). Consiglio per l’ascolto: Georg Friedrich Han-del, Larghetto da Serse. Soprano Jennifer Larmore.

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SI PUO’ FARE Vuoi mettere la luna vista da qui? – La Roc-chetta - Storie d’impresa

di Sergio Campodall’Orto – Brugneto

Fossoli è un minuscolo agglomerato di case nella strada che da Ozzola sale a Metteglia. Un tempo abitato da una quarantina di per-sone ma che ora, come tantissime altre real-tà dell’appennino, prende vita solo nel perio-do estivo. E’ una località a un’altitudine di 871 metri conosciuta solo agli amanti della natura che si avventurano alla scoperta delle bellezze dei rilievi piacentini del Trebbia e dell’Aveto. Tra “le valli più belle del mondo” come scriveva sul suo diario nel 1945 il fa-moso scrittore Ernest Hemingway tanto da indurlo a tornare negli anni ’50. E’ qui che nell’agosto del 1985 nasce Silvia Lupi terzogenita di una famiglia di agricoltori. Frequenta la scuola elementare a Marsaglia e diventa Ragioniera presso Istituto Tecnico Commerciale di Bobbio. La breve esperienza alla Facoltà di Economia dell’Università a Par-ma la convince ancora di più nella sua idea di continuare a vivere nell’ambiente in cui è na-ta e che ama. Non desidera un ufficio pubbli-co o un posto in banca, preferisce cercare un futuro professionale in ciò che le piace fare: l’agricoltore. Una scommessa davvero azzardata, per

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un’attività che, nel pensiero comune, è consi-derata da sempre indirizzata al sesso maschi-le. Ma Silvia Lupi ha le idee chiare. Comprende che se vuole avere un futuro non è sufficiente continuare con la tradizionale attività di alle-vamento dei bovini limitandosi alla vendita del latte ai vicini caseifici. E’ necessaria una svolta: dare un’immagine ben specifica all’a-zienda di famiglia e farla conoscere non solo a Corte Brugnatella ma in tutta la Provincia. Per raggiungere questo obiettivo gli viene in aiuto l’esperienza del padre Renzo (classe 1951), esperto norcino e chiamato da tutte le famiglie abituate a produrre in modo autono-mo i salumi per uso personale. Silvia prende quindi la decisione di specializzare l’azienda nella produzione di insaccati: dai salami, alla pancetta, alla rinomata coppa piacentina. E costituisce l’azienda agricola La Rocchetta. Sostenuta in questo oltre che dal padre, dalla mamma Maura Bongiorni e dai fratelli Daniele e Fabio pronti a impegnarsi anche loro nell’a-zienda se ve ne sono le opportunità. Silvia vuole anche creare un ecosistema pro-duttivo a chilometro zero. Da qui l’idea di al-levare in proprio la materia prima (i maiali) creando una zona recitata in cui i suini possa-no crescere in liberta. Per i propri salumi sce-glie un incrocio di suini pregiati: large white, duroc e maiale nero. Crea un sito web (http://www.azagricolalarocchetta.it) tramite il quale si fa conoscere oltre che in zona in tutta la

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provincia piacentina. I suoi salumi sono ap-prezzati e gli ordini arrivano anche dai punti più lontani come ad esempio da Brunico in Alto Adige, a conferma che con prodotti di qualità è possibile competere sul mercato e avere successo. La notorietà dell’azienda è derivata anche dalla partecipazione al SIAL di Parigi, la Fiera internazionale dei prodotti alimentari, grazie ad un contributo del Ministero per le migliori aziende agricole condotte da giovani impren-ditori. L’Azienda La Rocchetta, insieme ad al-tre 5 aziende agricole e vinicole, ha ben rap-presentato nella capitale francese le qualità del territorio piacentino. Oggi nell’azienda vengono allevati sia suini (50 unità che crescono in completa libertà) sia bovini (circa 20 capi). I salumi dell’azien-da agricola si sono imposti rapidamente sul mercato grazie alla qualità dei prodotti e, in-fatti, tutta la produzione del 2017 è già stata in gran parte prenotata e venduta. La voglia di fare è ancora tanta, pur con no-tevoli difficoltà. Nei sogni di Silvia vi sono un agriturismo e un parco didattico per i bambini. E si spende in prima persona per riuscirci. E’ anche impegnata personalmente per mi-gliorare la situazione dell’agricoltura della montagna e dei giovani che desiderano rima-nere: nella proloco, nella Confederazione de-gli Agricoltori (CIA), nel consiglio comunale di Corte Brugnatella. E si fa coinvolgere nella partecipazione a iniziative locali e tradizionali

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come i canti del Carlin di maggio. Sicuramente un aiuto diretto da parte delle istituzioni pubbliche sarebbe auspicabile. Non si tratta solo di soldi. Per le aziende agri-cole di montagna dovrebbero essere introdot-te semplificazioni burocratiche che agevolino la costituzione e la gestione. Non è infatti possibile trattare queste micro aziende con le stesse regole delle grandi imprese della pia-nura. Silvia dedica gran parte del suo tempo proprio a rincorrere e a superare i notevoli vincoli che periodicamente vengono emanati. Un ulteriore elemento è la difficoltà di comu-nicazione digitale. Portare internet veloce in tutte le valli dell’Appennino sarebbe un primo passo per impedire che il territorio venga ul-teriormente abbandonato. L’apertura al mon-do data dal commercio elettronico rappresen-ta una opportunità per tante minuscole im-prese che altrimenti non riuscirebbero a rag-giungere la dimensione minima per poter so-pravvivere con un attività agricola organizza-ta. L’esperienza di Silvia è importante poichè in-segna che tenacia, costanza, idee chiare pos-sono consentire di programmare un futuro che offra l’opportunità di avviare iniziative imprenditoriali tali da permettere di rimanere a vivere in queste aree, un tempo assai po-polate e piene di esperienze e conoscenze. L’esempio di Silvia Lupi dovrebbe essere dif-fuso e fatto conoscere, in particolare tra i giovani a dimostrazione che la gestione intel-ligente del territorio può essere una soluione

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economicamente sostenibile. E gli esempi non mancano. In tutto l’Appen-nino è un fiorire di iniziative. Si spazia dal tu-rismo, all’agricoltura, all’alimentare. Per ora sono esempi ancora sporadici e individuali che però registrano un costante aumento (le opportunità infatti ci sono). La speranza è quella che si consolidino e che generino uno spirito emulativo che consenta a tanti giovani (e meno giovani) a vivere su queste colline e ad apprezzare la qualità della vita e del terri-torio. E in tanti giovani pensano come Silvia “In questi posti ci si sente come dei soprav-vissuti. Ma poi vado a casa e dico: abbiamo un paradiso, non si può mollare. Vuoi mette-re la luna vista da qui?" 1 - Wikipedia – Val d’Aveto. 2 - Il programma Italia Digitale del governo Gentiloni fa sperare che la rete a larga banda possa raggiungere a breve anche la Val d’A-veto. 3 - Vedere “Dal Trekking all’azienda agricola” in Biblioteca dell’appennino n.1 sull’esperien-za dell’azienda agricola Le Cascinelle di Ca-stelsottano

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LE DUE ANIME DELLAPPENNINO di Aldo Acerbi - La Beata di Bosconure

Enerbia è una realtà di spicco del panorama musicale folk piacentino. Il gruppo, formatosi nei primi anni Zero, da allora è uno dei più attivi nel campo della musica tradizionale, le-gata all’Appennino del Nord-Ovest. Ha all’at-tivo tre album (Così lontano l’azzurro, 2003; La Rosa e la Viola, 2009; Per viam, 2013), svariate incisioni, tra cui vale la pena di ricor-dare almeno quella per la più importante rivi-sta di musica folk, World Music Magazine, e numerosissime collaborazioni nell’ambito del-la cultura (tra gli altri Paolo Rumiz, Michele Serra, Giovanna Zucconi) e del cinema (Ermanno Olmi, Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio), grazie alle quali la musica dell’Appennino si è fatta conoscere in tutta Italia ed all’estero. Proprio dal nostro Appen-nino, per la precisione da Pradovera, viene una delle due anime del gruppo, il fisarmoni-cista Franco Guglielmetti. L’altra, Maddalena Scagnelli, voce (incantevole) e violino, ha ac-cettato di fare una chiacchierata sul gruppo, la musica popolare e l’Appennino.

INTERVISTATORE: Maddalena, vorrei impo-stare l’intervista mostrandoti alcune immagini che, in qualche modo hanno a che fare con Enerbia e vorrei che tu le commentassi e poi da lì partiremo per la nostra chiacchierata. M. SCAGNELLI: Saprei già quali scegliere, ma tu che cosa hai scelto? INT: Ti farò una sorpresa, te le svelerò una alla volta. Mi piacerebbe partire da questa.

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Una delle foto più recenti di Enerbia. Ci siamo Franco [centro-destra], Gabriele Dametti, [centro-sinistra, con il piffero], Nicola Rulli [sinistra] ed io. Penso di sapere perché me l’hai mostrata e ne vado molto fiera. All’inizio dell’avventura di Enerbia, Franco ed io maci-navamo chilometri. Ora siamo più anzianotti - ride ironica - ed io mi pongo il problema di avere tante persone giovani attorno a me e sono felicissima di esserci riuscita. Oltre a Ni-cola, ventunenne italo-francese, polistrumen-tista straordinario, iscritto alla scuola Abbado di Milano, ci sono Daniele Alborghetti, ven-tenne pifferaio originario della zona tra Val d'Aveto e Val Boreca, Carlo Gandolfi, anche lui polistrumentista con un percorso accade-mico in conservatorio come oboista, che gra-zie ad Enerbia si è appassionato a tutte le an-ce e ora suona le cornamuse e le zampogne, le pive e le müse, gli strumenti delle vecchie danze, prima della fisarmonica. Gabriele Da-metti, che è il nostro pifferaio principale, ha

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ventinove anni, anche se in verità è un uomo d’altri tempi, come Franco. All'inizio ha suo-nato con noi Stefano Faravelli, pifferaio, e poi, per un breve periodo, anche Ettore Losi-ni, in arte Bani, sempre al piffero. INT: Proprio questo volevo chiederti. La for-mazione di Enerbia nel corso del tempo è cambiata più volte. Le uniche costanti siete tu e Franco. M.S.: E’ vero e contemporaneamente non lo è. La varietà del repertorio ci impone ogni volta di cambiare formazione. All'inizio di Enerbia c'era anche il contrabbasso. A vario titolo hanno collaborato Nicola Iannone, Fabio Torrembini e Davide Confalonieri. Poi abbia-mo abbandonato questo strumento a favore di altri provenienti dalla tradizione. Oggi poi è molto importante l'apporto di alcuni altri mu-sicisti, perché adesso Enerbia fa il repertorio popolare ma anche l’antico. Sono Adriano Sangineto, grandissimo strumentista con le arpe antiche, Sara Pavesi, con l'arpa anglica, e il trio vocale, Anna Perotti, Lucia Dal Corso, Elisa Dal Corso. In Così lontano l’azzurro fon-damentale, per molti aspetti, è stato il contri-buto di Fabio Milana, chitarra e seconda voce, ma anche studioso raffinatissimo di Giorgio Caproni, a cui quell’album era ispirato. Nei pezzi con chitarra c’è Massimo Visalli, perso-na meravigliosa. E poi, certo, ci siamo anche io e Franco. INT: Come è iniziata la vostra avventura, che poi è diventata anche una storia d’amore? M.S.: Ci siamo conosciuti nel 2000, grazie ad un amico comune, io avevo appena vinto due borse di studio per l’Inghilterra bandite dall’Università di Parma e Franco stava con-

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cludendo l’esperienza dei Suonatori delle Quattro Province. L’energia di Franco è stata travolgente, grazie a lui ho riscoperto il mon-do dell’Appennino, il piacere di suonare alle feste, la musica della tradizione. E non sono più partita. Abbiamo inciso i primi brani nel 2002, il valzer dei Disertori e E c’era una ra-gazza per Piero Carfì di World Music. E que-sta incisione ha fatto conoscere Enerbia al di fuori dalla provincia: Olmi ascoltò il cd e volle inserire i pezzi nella colonna sonora dei Cento chiodi. INT: Il secondo brano però è solo a tuo no-me. Come mai? M. S.: Franco non voleva inserire E c’era una ragazza nell’antologia di Carfì perché gli sem-brava troppo triste, malinconica. Per questo l’ho incisa a mio nome. Poi Olmi le ha selezio-nate entrambe. Devi sapere che io ho scoper-to il repertorio popolare, o meglio, l’ho risco-perto, perché i miei nonni cantavano, attra-verso Franco, che lo conosce a memoria. Lui ha una memoria straordinaria, ma ha difficol-tà a scegliere, perché per lui ogni pezzo ha una storia, un’anima, un valore. E qui sono subentrata io, che attraverso lo studio [Maddalena è diplomata al conservatorio], ho iniziato a selezionare i brani. Franco è un uo-mo del Sessanta, ma è come un uomo dell'Ottocento. Questa è una delle cose affa-scinanti di Franco - gli occhi le si illuminano -, lui ha imparato per imitazione e per tradizio-ne orale. Conosce tutto a memoria e sopra-tutto è da quando aveva quattordici anni che suona questo strumento. Ha cominciato a suonare con gli anzianissimi, per esempio il 'Rosso' di Coli, e poi ha incontrato un altro

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giovane come lui negli anni Ottanta, Stefano Valla, e hanno suonato assieme vent'anni, formando questa coppia di piffero e fisarmo-nica, che poi è diventato trio con la müsa e quartetto con i Suonatori delle Quattro Pro-vince. Erano i giovani che facevano rivivere la tradizione, perché la generazione prima ave-va dimenticato, voleva dimenticare quel mondo, perché era il simbolo della povertà. Questa operazione, che è stata fatta anche in altri Stati europei, ha avuto grandissimo suc-cesso. Franco e Stefano hanno vinto il diapa-son d'oro in Francia, il riconoscimento più im-portante della musica. E non solo suonava lo strumento, ma partecipava alla vita sociale dell'Appennino, perché lui è davvero un mu-sicista tradizionale, una sorta di cerimoniere laico delle feste. Un tempo non c'era matri-monio sull’Appennino che non avesse accom-pagnamento di piffero e fisarmonica. Franco va in un paese ed è conosciuto da tutti, cono-sce tutti, la gente lo accoglie come portatore di gioia e di festa. INT: Mi pare di capire che il tuo apporto alla musica di Enerbia sia invece, in prima battu-ta, di tipo filologico. M.S.: Anche io vengo dall'Appennino, sono originaria di quella zona, ma ho un difetto o un pregio, ho anche studiato e quindi ho un approccio anche analitico. Quando ho cono-sciuto Franco, ho iniziato a lavorare con lui sul suo materiale, sulla sua memoria. Nel re-pertorio popolare c'è di tutto, la perla e la co-sa più grossolana, e c'è la commistione. Non tutto ha lo stesso valore né si può suonare con strumenti moderni, come andava di mo-da negli anni Ottanta e Novanta finendo per

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snaturare la musica. Il lavoro che abbiamo fatto in questi anni è di scegliere le cose più belle. Facciamo un paragone: pensiamo alle architetture rurali. Questa musica è come i piccoli paesi con le case in sasso, con i tetti con le ciappe, con le finestre piccole. Una co-sa anni Ottanta, terribile, è di fare crossover: allargare le finestre, intonacare. Noi facciamo un restauro conservativo dei brani, con stu-dio e ricerca. C'è un po' di movimento, per fortuna, nel panorama della musica tradizio-nale, ma spesso c’è il pericolo di cadere in due eccessi opposti: l’eccesso di modernizza-zione e la naïveté, il così come viene, perché a volte il popolare è buttato lì, come la tratto-ria che ti serve un piatto casereccio pensando che, soltanto perché la ricetta è rustica, il piatto sia automaticamente buono. Io credo che si debba preparare a regola d’arte anche la ricetta più rustica. E’ un modo per onorare la tradizione, continuare a farla vivere.

INT: Mi sembra l’aggancio perfetto per mo-strarti la seconda immagine.

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M.S.: E’ la copertina del nostro primo disco, Così lontano l’azzurro. INT: Titolo e fotografia hanno due storie par-ticolari. Le puoi raccontare? M.S.: Il titolo viene da una poesia di Caproni, che abbiamo messo in musica nel disco e sul-la quale abbiamo poi costruito un recital di poesia e musica. Caproni aveva insegnato in Val Trebbia e poi, dopo il 1943, vi aveva combattuto la guerra partigiana. Ha scritto versi straordinari sulla Valle, Ballo a Fontani-gorda, Statale 45. La foto ritrae invece la pa-rete di ruote che si trova al Museo Ettore Guatelli a Ozzano Taro. E’ un luogo unico, dedicato agli oggetti della vita contadina e allestito in modo fortemente evocativo. Nel museo rivivono le storie e l’immaginario di gente comune legata alle tradizioni. Sono le due anime della nostra musica, le due anime dell’Appennino che noi cerchiamo di fondere insieme, quella colta di Caproni e quella tra-dizionale della musica popolare. L'obiettivo di Enerbia è quello di mostrare come tra reper-torio colto, sia antico che moderno, e tradi-zione popolare, questa cosa così semplice, fatta di ingredienti minimali, ci sia un rappor-to strettissimo, e nel popolare ci sia la me-moria dell'antico, viva. Questo lo dico sem-pre, è un mio slogan, ma ci credo. Poesia, musica antica e musica tradizionale sono am-biti veramente uniti. INT: Nel disco c’è anche Serenin, la mia can-zone preferita di Enerbia, un canto di nozze, eppure intimo, privato, di un romanticismo asciutto. Amore senza retorica. Questa volta, al posto di un’immagine, ti offro uno spunto musicale.

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M.S.: Serenin è la canzone a cui sono più af-fezionata. E’ stato amore a prima vista e an-cora oggi non smette di emozionarmi quando la canto. Come dicevo, nel repertorio tradi-zionale ci sono cose di valore diseguale. Se-renin è però un perla rarissima. Forse l’esem-pio migliore per capire che cosa sia stata la musica popolare. INT: Che cosa è stata? La musica popolare tradizionale - oggi si pre-ferisce questa espressione rispetto a musica popolare, dal momento che il termine ’popolare’ tende a confondersi con ’pop’ che è qualcosa di limitato al Novecento - la musica di tradizione è legata a pratiche e riti storici del territorio. Nel nostro territorio, per esem-pio, è connessa alle pratiche agricole, ai riti calendariali, al lavoro, alla danza, alle occa-sioni della vita sociale, il matrimonio, la na-scita, ai riti religiosi o profanissimi, come il Cantamaggio, che è un rito agrario, alla festa e poi spesso collegata al paesaggio e al terri-torio perché gli strumenti sono espressione concreta di quel paesaggio, sono fatti con i legni locali. In questo senso 'tradizionale'. Ma è poi anche popolare, riprendendo l'aggetti-vo, perché il repertorio è per la maggior par-te anonimo, non è un repertorio d'autore. Questa è un'altra cosa importante della musi-ca tradizionale: storicamente la trasmissione è avvenuta oralmente da musicista a musici-sta, in luoghi appartati, anche marginali, per pratica, per imitazione. Spesso non c'era una competenza linguistica o culturale per poterla trascrivere. Soltanto tra Otto e Novecento, in Europa, il repertorio è stato annotato, prima dai musicisti e poi dagli antropologi. Dopo il

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Romanticismo, tutti i grandi musicisti, basti pensare a musicisti etnomusicologi come Bar-tok e Kodali, si sono riconnessi al popolare, perché quello è il mondo dove c'è qualcosa di autentico. Così la linfa vitale dei temi popolari è entrata nella musica colta. Poi Nel Nove-cento hanno cominciato gli intellettuali, gli antropologi, non soltanto i musicisti, ad an-dare a registrare. INT: E in Italia? M.S.: In Italia il recupero è avvenuto in ritar-do. Bisogna tenere conto che il fascismo vo-leva minare queste tradizioni, perché c'era l'idea di una solennità italiana, di una unità all'insegna della classicità, quindi tutto ciò che era dialettale fu marginalizzato. Dopo la guerra, grazie agli inglesi, agli americani, si assiste alla riscoperta; anche prima però ci sono state delle attenzioni verso il popolare italiano: Brahms, Medelssohn hanno messo nelle loro opere la siciliana, la tarantella per fare un po' di colore locale. Intuiscono che lì c'è qualcosa di vivo, di fremente. Nel reperto-rio popolare non c'è un autore, c'è qualche cosa che si tramanda e che è meraviglioso. Come le ricette, come la cucina, una pratica ogni famiglia. Così ogni piccolo paese ha la sua variante di un canto, di una danza, che però, se riconosciuti, fanno molto parte di un territorio. INT: Come è stato possibile che questo re-pertorio si sia conservato pressoché intatto attraverso i secoli? M.S.: Spesso i luoghi nei quali si è conserva-to qualcosa di questi mondi che suonano in-teressanti agli intellettuali, perché magari di-versi, vitali, sono aree chiuse, che hanno

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avuto meno contaminazioni, si sono meno mischiate con ciò che succedeva attorno, con ciò che era alla moda. Pensiamo al nostro Ap-pennino, che è il punto di convergenza di quattro regioni e quattro province, ed un confine perenne. Giorgio Caproni, li chiamava infatti "luoghi non giurisdizionali". Tuttavia questo confine perenne ha mantenuto, pro-prio perché siamo le cime più alte del Nord Ovest, per la sua marginalità, per il suo esse-re lontano e anche un po' pericoloso, tutta una serie di pratiche. Un mondo che si è con-servato, al di là della modernizzazione con tutto quel che di positivo o che di negativo vogliamo connettere a questo termine. Tieni presente che negli anni Ottanta, io andavo in Val Perino e in Val Trebbia, per arrivare a Pradovera c'era una strada sterrata, non c'e-ra l'asfalto e l'ascesa era infinita. Anche adesso è una salita ripidissima, perché si par-te dal fondovalle e si arriva a più di mille me-tri e quindi c'è un dislivello di settecento me-tri; ma io la facevo con mio padre in Cinque-cento; mio padre mi accompagnava a risalire i rami del Perino: ogni domenica esploravamo un luogo diverso e poi finivamo spesso a fare la merenda ad Aglio oppure a Pradovera. Franco, che io ho conosciuto venticinque anni dopo queste gite, mi diceva che quando an-dava a suonare in Val Boreca, che è la nostra valle estrema, in cui si arriva al cuore geo-grafico delle nostre quattro province, negli anni Settanta non c'era nemmeno l'energia elettrica. INT: Ti mostrerò allora l’ultima foto, un luogo dell’Appennino che so essere molto caro a te e Franco.

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M.S.: Franco e io nel 2005 abbiamo deciso di salire in cima all'Alfeo. Era una domenica di dicembre, con un cielo di un blu talmente profondo che quasi non lo ricordo. Abbiamo iniziato a salire ripromettendoci di arrivare fin dove potevamo. Siamo arrivati a Campi di Ottone all'una, e poi abbiamo proseguito fino alla cima. Ci abbiamo messo due ore: era il 15 del mese, c'era un fhon pazzesco, la luce digradava: da una parte guardando verso nord vedevamo la pianura padana minuscola, con la valle che si schiudeva come un quinta teatrale, e piccolissima la Pietra Parcellara. Dall'altra parte il mare, una lastra d'oro con una piccola nave che passava. Contempora-neamente mare e pianura padana, bastava girarsi. Siamo scesi quasi rotolando, con la sera che si faceva sempre più sera. Siamo arrivati all’auto con il buio, negli occhi ancora questa visione incredibile che sarà eterna.

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Sono posti ad un'ora di macchina dalla città e la gente non li ha mai visti. E' incredibile. Ep-pure le nostre cime sono tra i luoghi più me-ravigliosi dal punto di vista naturalistico di tutto l'Appennino. Sono tra le zone più spo-polate d'Italia, con i paesi più piccoli, come Zerbarini o Cerignale, eppure sono luoghi straordinari, perché hanno la caratteristica unica di avere l'acqua dei fiumi, e quindi han-no valli e convalli, come la Val Perino, la Val d'Aveto, per tralasciare quelle delle altre pro-vince, quelle del versante alessandrino, come la Val Bordera, nel versante alessandrino, o nel Pavese, la Val Staffora, stupenda, che ar-riva fino alle pendici del Lesima. Lì in quel cu-neo geografico, tra monte Alfeo e monte Le-sima, che sono il confine tra il pavese, il pia-centino, l'alessandrino, il genovese ci sono alcuni dei luoghi più belli di tutta la provincia, dove insieme al paesaggio si è conservato miracolosamente anche il tesoro musicale. INT: Maddalena, ti ringrazio. Ci sarebbero al-tre cose che avrei voluto chiederti, Shake-speare, la musica antica, gli strumenti. Spero alla prossima occasione. M.S.: Grazie a te e a Edoardo [Callegari]. Mi hai dato modo di ripensare alla nostra espe-rienza, rivederla sotto una luce diversa. INT: Ci rivedremo quest’estate ad Appennino Festival. M.S.: Ci conto.

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L’APPENNINO IN UN PANINO…… CON IL SALAME di Benedetta Callegari - Brugneto

“Quand me s’era piccinein, tra una platta e tra un basein me am sintiva a predicaa: – Sippia puur di fuurtuunaa, ma na spera maai c’at tucca di turtei a mzuura ad bucca! – Da cla vota a i’ho capì cl’è quistion da faagla dì e al turtell (quand al capitta) l’è cmé al libar ad la vitta: – “Dimm cma i’enn i to turtei… ed io ti dirò chi sei…… Tempo fa il giornalista Vittorio G.Rossi scrisse che “non si può capire la psicologia di un po-polo se non si assaggiano i suoi cibi e non si gustano i suoi vini” e la cucina piacentina è vincolata alla sua terra più di molte altre re-gioni. E' una cucina schietta, composta di piatti forti e robusti per uomini semplici, soli-di, tutti di un pezzo, fatta di piatti in cui si esprime la filosofia del “non si butta via nien-te”, basata su ingredienti genuini e elementa-ri ma resi gustosi dalle sapienti mani delle cuoche nel tempo. La curiosità dei buongustai porta inevitabilmente ad allargare il campo delle conoscenze alla etimologia, al folklore, alla storia, a voler conoscere cioè il significa-to del nome, il perché di certi usi e tradizioni

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e l’origine e l’evoluzione dei piatti tipici. In molti nostri piatti, infatti, sopravvivono ricor-di e antichissime valenze greche, romane, longobarde, ebraiche, francesi, austriache. Nell’età del bronzo (1800-900 a. C.), i Liguri stanziati nei territori di montagna si cibavano di carne, latte e derivati, cereali, bacche, tu-beri, cacciagione, frutti e bevevano birra d’orzo. Con la romanità nel territorio piacen-tino si espande l’uso dei cereali e gli autori dell’epoca ricordano i salumi, alcune specie di polente ottenute impastando latte, farine di ghiande e castagne; tra le bevande si affer-ma la cultura del vino e si espande l’alleva-mento delle pecore per la lana e il latte. Con la caduta dell'Impero romano i barbari im-pongono i loro usi e costumi: potatura di viti, mietitura, sfalcio d’erbe e vendemmia, prepa-razione di botti, abbacchiatura di frutti quali noci, castagne, olive e anche le tecniche di conservazione delle carni di maiale favorite dalla disponibilità di sale provenienti dalle fonti saline attorno a Bobbio e a Salsominore in val d’Aveto (Ferriere). Dopo il 1492, anno della scoperta dell’America, in Europa arriva-no il mais, la patata, il pomodoro, il cacao, la vaniglia, il peperoncino piccante, il “pollo d’india”, (ossia il tacchino), l’ananas, il tabac-co, il caffè e alcune varietà di fagioli che af-fiancano i già diffusi “fagioli dell’occhio”; cre-sce anche l’assortimento varietale delle zuc-che. Curioso il fatto che pomodoro e patate fossero per molti decenni coltivati solo per i fiori; in particolare queste ultime entrarono gradualmente nell’alimentazione, dopo che alcuni soldati ebbero occasione di assaggiarle cotte tra le ceneri di un incendio. Nel piacen-

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tino la patata entrò alla fine del 1700 e la più famosa è di Mareto. Nel 1800 a Bobbio si mangiavano lasagne e vermicelli (forse i maccheroni fatti con l’ago), piatti a base di riso con diverse carni (la bomba di riso) fichi, meloni, mandorle e altri frutti. Allora, perché non provare un pranzo virtuale tra le eccellenze dei piatti del nostro Appenni-no? Come antipasto verrebbe proposto un bel piatto di salumi misti. I salumi sono una grande tradizione piacentina, al momento piacenza è l’unica città a vantare 3 DOP: cop-pa, salame e pancetta. Non è un caso che nell’Abazia di San Colombano a Bobbio ci sia-no affreschi e mosaici raffiguranti il maiale. Sono nati nel XV secolo ed era un mercato molto importante per Milano e varie città lombarde. Nel 700 il cardinale Alberoni addi-rittura li utilizzò come oggetto di strategia di-plomatiche convincendo il condottiero france-se duca di Vendome a mettersi al servizio del re Filippo V di Spagna e facendo sposare il re con Elisabetta Farnese, nipote di Francesco duca di Parma e Piacenza. E nell’800 i massa-lein della Valnure erano richiesti in tutta la pianura padana per la loro bravura nello sce-gliere le varie parti del maiale e nella capaci-tà di mischiare le spezie. Potreste trovare anche la mariola (presidio Slow Food), un salume tradizionale dell’Ap-pennino piacentino realizzato con le parti no-bili del maiale. In media e alta Valnure, in particolare nel territorio comunale di Farini, viene prodotto fin dal Quattrocento. Si tratta

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di una specialità che affonda le proprie radici nella cultura contadina dove era il salame che veniva consumato per ultimo, di solito in oc-casione delle feste natalizie. Il nome mariola significa “tasca nascosta” e deriva dal budello in cui viene insaccata la carne, budello che è ricavato dall’intestino cieco del suino e che ha la forma di una tasca. Sarebbe perfetto accompagnarli con un’otti-ma bortellina (burtleina) specialità di Bettola, una schiacciata di pane fritta nell’olio o nello strutto che ha origini molto antiche: ne parla Abramo nella genesi quando chiede a Sara di preparare un piatto simile per accogliere tre viandanti in cui aveva riconosciuto il Signo-re". E come dimenticare la famosa torta di patate di Mareto? nato come piatto di riciclo per le patate rovinate che non potevano essere vendute, ma che Pellegrino Artusi stesso amava ed elogiava nei suoi libri. Questo è un piatto a me particolarmente caro perché nella mia famiglia, si tramanda di generazione in generazione la ricetta della bisnonna e carat-terizza le nostre estati. Ora addentriamoci nei primi piatti piacentini, fatti ancora interamente a mano con un sa-piente uso di ingredienti poveri: farina, pan-grattato, uova, formaggio, castagne, erbette, fagioli, pomodoro. I pisarei e fasô in prima linea, la carne dei poveri, precursori della macrobiotica con il giusto connubio di cereali e legumi esistente già nel Medioevo. Il nome “pisarei” pare derivi dalla storpiatura della parola Bissa (serpente) data la forma delle

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strisce di pasta che vengono fatte prima di essere tagliate e schiacciate con il pollice. Un tempo il callo sul pollice era un elemento di valutazione di una brava massaia al momen-to del matrimonio. Oppure i maccheroni alla bobbiese fatti con il ferro da calza descritti da Martino Da Como già nel Quattrocento. O an-cora le tagliatelle con ricotta e noci che un tempo era preparato esclusivamente la sera di Natale in particolare nel Groppallese e in Val Nure, zona in cui si narrano usanze anti-chissime tra cui quella di bagnarsi gli occhi prima di iniziare la cena, con l’acqua nella quale erano state cotte le tagliatelle e nel contempo recitare alcune preghiere a Gesù Bambino. La torta di riso alla bobbiese la cui origine risale al fatto che molte ragazze di montagna fino a metà del ‘900 andavano ogni anno a fare le mondine nel vercellese e, finita la campagna, venivano pagate con sac-chi di riso. I tortelli con la coda, diventati così durante una visita del sommo poeta France-sco Petrarca al suo amico Bernardone An-guissola, feudatario dei Visconti e signore di Vigolzone nel 1330 che non amava dei sem-plici fagottini ripieni di erbette e ricotta. In passato, poi, si cercava sempre di rendere il più gustosi e ricchi possibile i cibi disponibili con salse e condimenti. Come ad esempio la salsa alle noci (ajà), veloce alternativa al pe-sto genovese, un condimento povero ma ec-cellente in cui l’ingrediente principale sono l’aglio e le noci la cui pianta ha massima dif-fusione sul nostro Appennino ed è legata all’uomo grazie a tante storie e leggende, tra il sacro e il profano. Si pensi solo che dove cresce il noce le altre piante non osano e si

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raccomandava di non dormirci sotto né tanto-meno di piantarli vicino alle stalle per il peri-colo di far ammalare gli animali. In effetti il noce si difende dalle altre specie producendo con le sue radici una sostanza tossica: la ju-glandina. Si prosegue nella scelta con i pin di Cerignale fatti dalle massaie con una parte di ricotta che veniva fatta in casa. Il nome deri-va dal fatto che in dialetto, “pin” significa ri-pieno e questa pietanza è fatta solo dal ripie-no senza la copertura della pasta. Ora proseguirei con i secondi. In montagna c’è sempre stata una grande di-sponibilità di selvaggina, di castagne, di fun-ghi e ognuno cucinava ciò che trovava nel suo orticello e dintorni, ad esempio, è molto naturale trovare le lumache in umido a Bob-bio, piatto tipico per la vigilia di Natale e nel giorno di San Colombano, patrono del paese. Ricetta che richiede pazienza e abilità nel trattare la materia prima e che stupisce chi non è abituato ad un piatto così originale no-nostante sia uno degli alimenti più antichi della storia umana. La sua innocuità e la pro-verbiale lentezza, furono un handicap per l'a-nimale ed un invito a pranzo per l'uomo. Che ne abbiano consumato gran quantità, del re-sto, è un fatto testimoniato dai ritrovamenti, nelle caverne preistoriche, d'ammassi di gu-sci pulitissimi e muti testimoni di un primor-diale hors-d'oeuvre caldo. Possono essere molto buone abbinate ad una polenta di fari-na di castagne, farina ideale per sostituire il frumento dato che sia il frumento sia il mais erano cereali rari nell’Appennino. Il castagno è una pianta molto diffusa e la farina di ca-

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stagne è estremamente energetica quindi adatta alle esigenze di chi per tutto il giorno si sottoponeva a lavori sfiancanti. Oppure per chi preferisce animali di taglia più grande si può assaggiare il Tasto, tasca di carne di vi-tello ripiena. Le origini di questo piatto deri-vano dalla genialità dei contadini che, per non sprecare la carne, ne facevano una sorta di arrosto anche se, in realtà, di carne ce n’è ben poca: tolta la sacca il ripieno è composto da verdure, uova, formaggio e aglio. O ancora la cacciagione alla piacentina, come cervo, cinghiale, capriolo, lepre, daino, fagia-ni, pernici, germani, quaglie cotti come arro-sti o spiedini o al tegame in umido o in salmì, lasciati macerare nel vino con bacche e erbe aromatiche per eliminare il sapore di selvati-co. Si può accompagnare il tutto con ottimi fun-ghi raccolti nei vasti boschi. Specialmente porcini, ovoli e il prugnolo (o spinarolo). Da non dimenticare sono anche il tartufo bianco e nero già presenti nel rinascimento in cui il tartufo nero veniva lasciato ai porci perché considerato di qualità inferiore. Nel ‘400 Bar-tolomeo Sacchi nel De Honesta Voluptate et Valetudine nel descrivere l’ambiente di corte ricorda che il tartufo veniva servito frequen-temente nei banchetti di uomini ricchi e raffi-nati. A fine pasto, per pulirsi la bocca si consiglia un formaggio come la Ribiola della Bettola, amatissima da Elisabetta Farnese, regina di spagna, preparato con latte di pecora e/o vacca e conservato in vasi di vetro coperta di

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olio e fatta stagionare finché non diventa pic-cante. Ma arriviamo ai più golosi: i dolci del nostro Appennino, che descritti da Carmen Artocchi-ni “non hanno nulla di straordinario nell’a-spetto ma in compenso sono ottimi, deliziosi, a base di ingredienti semplici, genuini e invi-tano al bis, al tris, accompagnati dallo squisi-to vino bianco piacentino”. Possiamo iniziare assaggiando i canestrelli, il cui nome pare de-rivi dai canestri, i cestoni cilindrici fatti di in-trecci di rami di castagno e usati per il tra-sporto. Il castagnaccio fatto con la farina di castagne, alimento base della cucina dell’Ap-pennino fino all’800 grazie alle ampie distese di bosco. Oppure frittelle fatte con la farina di castagne. O ancora il croccante preparato fin dal XIV secolo per banchetti nuziali durante i quali la sposa rompeva delle gigantesche tor-ri o ceste di croccante con un martello per far uscire un uccellino in precedenza intrappola-to. Il croccante è sempre stato presente an-che in altre festività e le famiglie erano solite scambiarselo con forme strane e originali e pare che servisse anche per nascondere cor-rispondenze clandestine tra cospiratori ai tempi del risorgimento. Croccante preparato sempre ed esclusivamente con il miele mono-flora come acacia, castagno o tarassaco, o multiflora del nostro Appennino. Non da ulti-me, la torta dei preti, tipica di Ottone, fatta durante sagre e festività; o la torta sabbiosa chiamata così perché l’impasto è ricco di bur-ro e una volta cotta, si scioglie in bocca come se fosse sabbia. Oppure u bonettu, dolce al cucchiaio tipico dell’Alta Val Trebbia con un

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nome marcatamente dialettale. Questo dolce risale al 1859 periodo in cui il territorio di montagna tra Cerignale e Bobbio con il riordi-namento del Regno d’Italia fece parte della provincia di Pavia. E, per concludere con una buona digestione con un bel bicchierino di bargnolino, li liquore fatto con un susino selvatico (bargnò).

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PINETTO di Graziella Sibra – Colla di Brugneto

Aveva un nome silvestre, come gli alberi dell’Appennino, e subito dopo la sua nasci-ta, i suoi occhi si erano colorati di verde smeraldo: la stessa tonalità degli aghi del-le conifere in primavera quando si addob-bano di nuovi germogli. L’ultimo figlio, il settimo, di Palmira e Giovanni di xxxxxxxxxx, nato durante l’antico rito cel-tico della Cassinella, quando il suono di una conchiglia accompagna la combustione di una pira vestita di ginepro, prese il no-me di Pinetto. Il nome venne ufficializzato dal padre qualche giorno dopo la sua na-scita, quando di ritorno dai campi si era accorto della sua presenza per il suono ininterrotto di un nuovo pianto e per quello strano ciuffo di capelli rivolti verso l’alto. Erano state le amorevoli carezze della ma-dre, per quel figlio nato quasi senza accor-gersene, che avevano portato quel teneris-simo capo ad assumere la forma di un pi-no. In una fotografia in bianco e nero, re-cuperata e pubblicata in un prezioso testo di memorie locali, si può vedere un paffuto e felice nascituro con una massa di capelli rivolti verso l’alto. Il colore purtroppo era ancora assente ma quei capelli erano di-ventati crescendo color del rame, residuo indelebile di sangue antico.

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Il suo nome, Pinetto, completamente di-verso da quelli assegnati ai suoi fratelli o da quelli presenti all’interno della comuni-tà, può forse essere capito pensando pro-prio a quella immagine e all’influenza che può aver esercitato quella comune forma vegetale, oggi come ieri, in quel territorio. Sicuramente il nome avrà trovato resisten-ze, durante la trascrizione all’anagrafe o nell’archivio parrocchiale, ma saranno stati inutili di fronte al volere del padre che non avrà voluto sentire ragioni. Avevo appena finito la classe quinta delle elementari e, come tutti gli anni, anche quell’estate la meta delle vacanze estive era caduta sull’Appennino, in quel territo-rio tra la Liguria, la Lombardia e l’Emilia scelto per la semplicità del vivere quotidia-no. La comunità ospitante, in quella lonta-na estate, non si discostava da tutte le al-tre incontrate fino ad allora: un piccolo borgo con poche case abbarbicato tra i monti, densamente popolato da instanca-bili lavoratori impegnati dall’alba al tra-monto in mille occupazioni e da nugoli di bambini e ragazzi di tutte le età. I giorni passavano spensierati senza esse-re scalfiti dai doveri scolastici e dalle in-combenze assegnate quotidianamente che perdevano, in quel luogo, il loro peso com-pensate, molto probabilmente, da ore di assoluta libertà. La continua frequentazione in quell’am-biente aveva facilitato l’integrazione con i

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miei coetanei con l’accorciamento dei tempi di conoscenza e l’aumento degli inviti a rag-giungerli nei pascoli o nelle esplorazioni di luoghi da me sconosciuti. Non mi ero accorta della presenza di Pinetto, che allora aveva 18 anni, fino a quando i compagni di giochi di quella lontana estate, avevano tentato di distogliermi da quel mon-do ancora incantato, ingenuo e spontaneo, insinuandomi maliziosamente pensieri nuovi. Erano state soprattutto le ragazze a distac-carmi da quello stato di assoluta leggerezza, nel diventare partecipe dei loro sogni confi-dandomi, in quel gioco tutto al femminile fat-to di estenuanti giuramenti di silenzio assolu-to, il loro amore per Pinetto. Depositaria in-volontaria di quei segreti pensieri, stupita per il divieto di proferir parola e per il numero di pretendenti, mi avevano portato ad accorger-mi di quel ragazzo dallo strambo nome. E così ho cominciato a guardarlo. Era facile incontrarlo durante le passeggiate pomeridiane in particolare quando percorrevo la strada sterrata per il mulino, il percorso preferito dove si alternavano prati pascoli e boschetti, oppure lungo i sentieri di collega-mento tra i borghi d’alta valle. Luoghi diven-tati ormai famigliari, dopo l’esplorazione con i coetanei o dopo il loro ritrovamento in una vecchia mappa di famiglia, una carta militare portata ogni anno insieme con i bagagli. Guardavo quel ragazzone passare e più lo guardavo e più non riuscivo a capire cosa avesse di così diverso da tutti gli altri Appen-

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ninici se non per il colore dei capelli. L’asso-luta cecità di allora si scontrava con le attese delle ragazze e quando raccontavo di averlo incontrato tutte si arrabbiavano soffrendo per non aver saputo cogliere eventuali pene d’a-more. Avevo invece capito, dai suggerimenti di mia madre, la naturale ammirazione che suscita-va il suo passaggio. Aveva sempre il sorriso sulle labbra e il suo passaggio era sempre scandito da saluti e interesse per tutti. Quan-do faceva lavori pesanti era facile sentirlo cantare e, nei campi o nei boschi, la sua vo-ce, anche se lontanissima, assumeva un suo-no gradevole diventando parte del paesaggio. Aveva voglia di lavorare: era sempre l’ultimo a tornare a casa alla sera e il primo al matti-no a mettersi in moto, sempre pronto a qual-siasi richiesta, e la sua disponibilità incondi-zionata, diceva mia madre, era ammirevole. Era amico di tutti, giovani o anziani, sempre pronto a fare bisboccia o a giocare a pallone con i più piccoli. L’estate finì e al mio ritorno a casa, raccon-tando alle amiche di città le avventure estive, mi accorsi che avevo introdotto anche Pinet-to: un ragazzo di montagna dagli occhi color smeraldo e dai capelli color del rame. Facili-tata dalla libertà di poterne parlare, nono-stante pochi particolari e la mancata cono-scenza, anche loro così come le ragazze dell’Appennino, avevano dimostrato interesse per Pinetto facendomi rivivere quegli incontri. Con inizio del nuovo anno scolastico anche il ricordo di Pinetto si era stemperato insieme

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ai giuramenti e le nuove amicizie avevano so-stituito completamente tutti gli spazi che era-no stati aperti quell’estate. Il ricordo però riaffiorò nell’ultima estate tra-scorsa nelle valli Appenniniche, quando avevo 16 anni e la scelta del luogo ricadde su un borgo poco distante dalla residenza di Pinet-to. In quel ordinato groviglio di case disposte lungo il crinale c’era una osteria, raggiunta quotidianamente per l’acquisto delle provvi-ste: latte, pane, formaggio e vino. Nessuno dei miei fratelli voleva andarci: mia sorella maggiore diceva che si vergognava mentre gli altri due erano ancora troppo piccoli e così quell’appuntamento diventò soltanto mio. Ogni mattina, prima di mezzogiorno, raggiun-gevo la mescita, quasi sempre deserta, tro-vando ad accogliermi l’oste o la moglie dell’o-ste e l’abitudine ad assaggiare o il formaggio o una fetta di salame, a seconda di cosa do-vevo portare a casa, oppure un biscotto. Nell’osteria, in un angolo buio un po’ appar-tato, un tavolo accoglieva quasi sempre un bicchiere vuoto e la testa di una persona e i pochi avventori, incrociati durante i giorni di festa quando l’osteria diventava il luogo di ritrovo della comunità, si rivolgevano a quell’angolo con frasi in dialetto molto stret-to, incomprensibili, dai toni sprezzanti. Un giorno, nella quotidianità dei doveri, du-rante il riempimento di quel bicchiere la testa muovendosi aveva fatto emergere una massa di capelli color del rame e due occhi color smeraldo ed un nome: Pinetto. Ancora incre-dula e mentre affioravano i ricordi di quella

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adolescente estate mi avvicinai al tavolo sen-za ritrovare, con profondo rammarico, l’im-magine lasciatami di quel giovanissimo uo-mo. Il volto, una volta fiero e radioso, porta-va profondi segni di stanchezza, il colorito sa-no di un viso esposto al sole, era diventato spento e grigio, gli occhi stracolmi di vitalità e gioia si era tramutati in opachi e vuoti. Irri-conoscibile. Stupita e sempre più incredula di quella visio-ne mi avvicinai per essere sicura che si trat-tasse proprio di Pinetto e una volta dissipato qualsiasi dubbio ebbi il coraggio di chiedergli cosa era successo. Alzando a fatica il capo e con uno sguardo perso nel vuoto mi racconto in modo confuso, il vissuto lontano da casa, dai suoi monti, dalla sua gente. Mi aveva ri-sposto con profonda tristezza e con quella profonda tristezza tornai a casa. Il racconto di quanto era successo, completa-mente diverso dalle letture di allora e dalle storie somministrate attraverso la televisio-ne, i giornali e il cinema, venne frettolosa-mente accantonato, lasciandomi quel senso di spaesamento dovuto alla visione di una realtà ignorata. Mi resi conto di non poter modificare quella situazione, non si poteva tornare indietro e neppure soffocare quella quotidiana immagine e così presi l’abitudine di passare vicino a quel tavolo, accarezzare quella mano per potermi illudere di rivedere quella massa di capelli color del rame e due meravigliosi occhi color smeraldo che aveva-no fatto sognare una intera generazione di giovani donne.

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Pinetto si era fatto convincere ad andare via dal suo Paese, dalla sua terra, per trovare la-voro ma una volta raggiunto il posto promes-so non era riuscito a sopportare i metodi usa-ti, si era sentito soffocare. Gli mancavano le sue montagne, i suoi boschi, i gesti millenari, le relazioni sincere, la staticità delle cose, pri-vilegio quasi unicamente presente nei posti isolati quando si è lontani dalle dinamiche ur-bane. Aveva deciso di tornare nonostante non avesse vinto né una guerra né alcuna batta-glia e, come un guerriero sconfitto, ritornò a casa. I suoi fratelli gli avevano suggerito di raggiungere lAmerica, ma questa volta non volle più sentire ragioni e, lasciandosi invece trasportare dal richiamo della sua terra, ritor-nò. Nulla però era più come prima, le monta-gne erano le stesse, gli alberi erano sempre allo stesso posto, il profumo della sua terra era ancora forte ma ……………………………………………… ma Lui era cambiato. Ripensandoci oggi alle sue parole mi sembra di poter cogliere la sua consapevolezza nell’a-ver attraversato i confini, di aver incontrato individui senza punti di riferimento, di aver avuto difficoltà ad assumere valori quali la rapidità, la permeabilità e la mutevolezza. Nella sua visione di città piene di grandi case, aveva perso valori e sicurezze, ritrovandosi a sapere cosa non voleva ma non che cosa vo-leva. E così una volta ritornato a casa, nella sua amata terra, aveva infine compreso di aver posseduto un bene prezioso e di averlo

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perso. Tornando sui miei passi trent’anni dopo, ho cercato Pinetto sapendo dove poterlo trovare e così una mattina, prima di mezzogiorno, con un pennarello color smeraldo ho dipinto quegli occhi che erano diventati opachi e grigi per poterli ricordare, per sempre, lucenti e radiosi.

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