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1 LINGUA E LETTERATURA ITALIANA Prof.ssa Eva Sabatini CLASSE V FS A.S. 2017/2018 LA SERA: TECNICHE POETICHE E SUGGESTIONI STILISTICHE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO MOTIVAZIONE Ho deciso di impostare un percorso tematico che affronti l’analisi di liriche composte tra Ottocento e Novecento concernenti la sera. Tale tema, presente fin dall’antichità classica nella lirica greca e latina, sviluppato fin dalle origini della letteratura italiana (Dante, Petrarca), risulta interessante ed accattivante nelle testimonianze ottocentesche e novecentesche; appare un argomento di facile spendibilità in classe e ricco di spunti interdisciplinari. Prendo l’avvio analizzando La sera del dì di festa di Leopardi, proseguendo diacronicamente con La mia sera di Pascoli, La sera fiesolana di D’Annunzio, Sera di Ungaretti, Ed è subito sera di Quasimodo. CLASSE DI RIFERIMENTO Il percorso è stato svolto nella mia VFS U.D. 1 Lettura, analisi e commento di La sera del dì di festa di G. Leopardi U.D. 2 Lettura, analisi e commento de La mia sera di G. Pascoli U.D. 3 Lettura, analisi e commento de La sera fiesolana di G. D’Annunzio U.D. 4 Lettura, analisi e commento di Sera di G. Ungaretti e di Ed è subito sera di S. Quasimodo Sintesi dello sviluppo tematico tra Ottocento e Novecento. Collegamenti interdisciplinari

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LINGUA E LETTERATURA ITALIANA Prof.ssa Eva Sabatini CLASSE V FS A.S. 2017/2018

LA SERA: TECNICHE POETICHE E SUGGESTIONI STILISTICHE TRA OTTOCENTO E NOVECENTO MOTIVAZIONE Ho deciso di impostare un percorso tematico che affronti l’analisi di liriche composte tra Ottocento e Novecento concernenti la sera. Tale tema, presente fin dall’antichità classica nella lirica greca e latina, sviluppato fin dalle origini della letteratura italiana (Dante, Petrarca), risulta interessante ed accattivante nelle testimonianze ottocentesche e novecentesche; appare un argomento di facile spendibilità in classe e ricco di spunti interdisciplinari. Prendo l’avvio analizzando La sera del dì di festa di Leopardi, proseguendo diacronicamente con La mia sera di Pascoli, La sera fiesolana di D’Annunzio, Sera di Ungaretti, Ed è subito sera di Quasimodo. CLASSE DI RIFERIMENTO Il percorso è stato svolto nella mia VFS U.D. 1

Lettura, analisi e commento di La sera del dì di festa di G. Leopardi

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Lettura, analisi e commento de La mia sera di G. Pascoli

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Lettura, analisi e commento de La sera fiesolana di G. D’Annunzio

U.D. 4

Lettura, analisi e commento di Sera di G. Ungaretti e di Ed è subito sera di S. Quasimodo Sintesi dello sviluppo tematico tra Ottocento e Novecento. Collegamenti interdisciplinari

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Analisi e commento di La sera del dì di festa di Giacomo Leopardi

Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. O donna mia, 5 già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi 10 quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme 15 nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti 20 piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via 25 odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, 30 e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido 35 de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. 40 Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume, ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri

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45 lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core.

La lirica fu composta a Recanati nel 1820, probabilmente nella primavera, come mostra la presenza di alcune tematiche che si ritrovano in una lettera a Pietro Giordani del 6 marzo dello stesso anno, in cui il Leopardi afferma: “poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, sentendo un’aria tiepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo”. Diretto è anche il legame tra i vv. 21-23 e un passo di una lettera al Giordani del 24 aprile: “io mi getto e mi ravvolgo per terra, domandando quanto mi resta ancora da vivere”. Pubblicata la prima volta sul Nuovo Ricognitore nel 1825 con il titolo La sera del giorno festivo, modificato solo nell’edizione dei Canti del 1835, il componimento prende l’avvio dal tema del tramonto per poi giungere alla contemplazione del paesaggio lunare attraverso effetti, sensazioni, memorie di tipo diverso, che si affacciano e si cancellano, culminando nei due canti solitari che riecheggiano: quello dell’artigiano che torna a casa dopo la festa (vv. 24-27) e quello ascoltato nell’infanzia in analoghe circostanze (vv. 43-45), entrambi con l’effetto di stringere il core del poeta. Queste suggestive riprese di temi e di immagini hanno il loro centro nella soggettività dell’io lirico, nella percezione di una lacerazione che grava sulla sua esistenza: la natura lo ha condannato all’infelicità.

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La lirica sembra voler ritrovare modi di espressione antichi, seguendo quasi un modello greco. Del resto un pensiero iniziale dello Zibaldone (77, tra il luglio 1819 e il gennaio 1820), sottolinea proprio la distanza tra l’espressione antica e quella moderna del dolore, notando come per gli antichi il dolore fosse assoluto e senza rassegnazione: “il dolor loro era disperato, come suol essere in natura, e come ora nei barbari e nelle genti di campagna, senza il confronto della sensibilità, senza la rassegnazion dolce alle sventure da noi, non da loro, conosciute inevitabili….”. La lirica è composta da quarantasei endecasillabi sciolti. Nel componimento si possono distinguere diversi momenti. Ai vv. 1-4 abbiamo la visione della serenità del paesaggio lunare, la luna appena sorta rivela la serenità che si diffonde dovunque. Dal v. 4 al v. 10 il vocativo O donna mia introduce un effetto di contrasto: la calma del paesaggio non riguarda più qualcosa di perfettamente visibile, ma qualcosa di più ombroso e indistinto (il tacere dei sentieri, il brillare della lampada notturna, le silenziose stanze dove la donna dorme). Nel suo sonno la donna si colloca in uno spazio cui il poeta non partecipa. Al v. 10 con il richiamo alla piaga che lacera il petto del poeta si ha l’opposizione e la frattura. I vv. 11-16 hanno inizio con l’opposizione nel v. 11 tra Tu dormi ed il successivo io attraverso cui il poeta pone se stesso in rapporto con il paesaggio, secondo l’immagine antica di un dialogo con la natura. La disperazione del poeta viene oggettivata nelle parole attribuite alla natura che gli ha negato ogni speranza. Nei vv. 17-30 si svolge una considerazione più diretta del poeta, che culmina in quel gettarsi a terra e gridare, inquadrato tra il richiamo al sogno della donna e l’ascolto del canto dell’artigiano che torna a casa creando così una sensazione dolorosa e che suscita la coscienza dell’inevitabile passare di ogni cosa. La riflessione poetica sul fuggire del tempo partendo dal presente risale al passato, evidenziando come il tempo abbia cancellato anche la potenza degli antichi popoli e dell’impero di Roma. Ai vv. 40-46 l’idillio si chiude con la dimensione del ricordo che riporta a un passato ben diverso da quello della storia: ad altre sere del dì festivo dell’infanzia del poeta, alla disperazione di allora, molto simile a quella presente e sottolineata anch’essa da qualche canto solitario, che procurava lo stesso effetto del canto ora ascoltato. Dolce e chiara è la notte e senza vento, e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti posa la luna, e di lontan rivela serena ogni montagna. …………

L’incipit ci ricorda una di quelle immagini vaghe e indefinite, tanto care al poeta ma richiama subito alla memoria tutta la tradizione classica a partire dalla descrizione omerica della sera fino ad evidenti richiami petrarcheschi. Infatti così scriveva Leopardi nei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza: “Veduta notturna colla luna a ciel sereno dall’alto della mia casa tal quale alla similitudine d’Omero”; il riferimento è ai vv. 555-559 del canto VIII dell’Iliade che due anni prima era stato tradotto e citato nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Tra vari echi letterari per gli aggettivi dolce e chiara torna alla memoria l’incipit della celebre canzone

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di Petrarca Chiare, fresche e dolci acque, ma anche quello dei Pensieri d’amore di Monti (VIII, 1-2). Leopardi usa prima l’aggettivo dolce per sottolineare la percezione del calare delle tenebre nella dolcezza che si avverte nel cuore, poi indica con chiara il diffuso chiarore della luna nascente, infine mediante l’iperbato allontana la fine del verso senza vento: così il verbo e il sostantivo notte si trovano al centro del primo verso. Il v. 2 si apre con un ulteriore aggettivo, queta: alla percezione visiva si associa quella auditiva, mentre la prospettiva si amplia arrivando fino all’orizzonte delimitato dalle montagne. Nel primi due versi si fa ampio uso della sinalefe dolce e chiara è la notte e senza vento, / e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti per creare un lungo e lento snodarsi del ritmo. Inoltre l’andamento paratattico dei vv. 1-4 e il polisindeto con la ripetizione della congiunzione e, producono ulteriormente l’idea della serenità. In mezzo alla sera risplende la luna che è quieta, rende netto il profilo delle montagne e le fa apparire serene giacché tutto intorno è pace e silenzio. Nel v. 3 l’espressione posa la luna ci fa sentire l’eco del ti posi rivolto alla luna nel Canto notturno al v. 4; qui si approfondisce la sensazione di calma attraverso l’aggettivo serena. Lo schema nella disposizione degli aggettivi è il seguente: v. 1 dolce e chiara; v. 2 e queta; v. 4 serena. ………… O donna mia, 5 già tace ogni sentiero, e pei balconi rara traluce la notturna lampa: tu dormi, che t’accolse agevol sonno nelle tue chete stanze; e non ti morde cura nessuna; e già non sai né pensi 10 quanta piaga m’apristi in mezzo al petto. In questa pace e serenità viene improvvisamente inserita a metà del verso l’invocazione O donna mia (v. 4), da qui si ha la contrapposizione tra due figure giovanili: quella della fanciulla ignara di affanni, che si abbandona fiduciosa alle sue gioie e alle sue speranze, in armonia con la quiete della notte; quella del poeta che la natura ha creato per essere triste. Il poeta si rivolge a una donna che non viene chiamata per nome, forse Teresa Brini – secondo Contini – ; essa, come avverrà nelle liriche successive, diventa il simbolo di ciò che il poeta non potrà mai ottenere. Il silenzio domina la scena, da sottolineare il riferimento al virgiliano tacet omnis ager che qui è richiamato da tace ogni sentiero, filtra soltanto attraverso le finestre dei balconi la luce di un qualche raro lume. Questa descrizione ci richiama i veroni del paterno ostello di A Silvia e la luce del legnaiolo ne Il sabato del villaggio. La donna, ignara della condizione del poeta, dorme nella sua camera dominata dalla quiete e dal silenzio che sono specchio della tranquillità del suo animo. Da notare l’aggettivo chete che fa direttamente eco, al plurale, a queta del v. 2. Inoltre l’espressione chete stanze ricorrerà, anche se con un valore un po’ diverso, in A Silvia nei vv. 7-8. A tal proposito l’insistenza sulla seconda persona tu dormi, che t’accolse agevol sonno, che crea anche una allitterazione della t nelle tue chete stanze non ti morde, evidenzia bene questo contrasto pronome personale tu, che crea anche un’allitterazione della t, evidenzia bene questo contrasto. La giovane è priva di preoccupazioni: da notare l’uso di cura (latinismo) per sottolineare l’asprezza della sofferenza: la cura infatti morde l’animo del poeta. La distanza tra la quiete del sonno della donna e l’essere stesso del poeta è sottolineata, tra l’altro,

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dall’emergere dei negativi non….nessuna….non….né. La donna è inconsapevole della ferita che ha aperto nel cuore del poeta ed inoltre vive in assoluta serenità cullata dalle sue speranze e dalle sue illusioni. Il v. 10 con l’immagine della piaga aperta nel petto del poeta, che richiama il petrarchesco in mezzo ‘l pecto (XX 10) e aprire….il petto (XXIII 73, CCL 10), non solo rappresenta insieme a m’apristi un’allitterazione della p, ma fa esplodere in modo estremo la lacerazione, la frattura che dà avvio, grazie al pronome personale, alla contrapposizione tra la donna e il poeta, che poi viene evidenziata nel v. 11. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno appare in vista, a salutar m’affaccio, e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme 15 nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Al v. 11 l’anafora di Tu dormi, con ripresa diretta nella stessa posizione metrica dell’inizio del v. 6, è in netta opposizione con io questo ciel, che appare con forza dopo la pausa segnata dalla punteggiatura. Il dimostrativo, spesso usato dal Leopardi per inserire la sua poesia in una situazione concreta, introduce il punto di vista del poeta e il suo dialogo con la natura. Ancora di più l’opposizione è sottolineata dal tu….io, tu riferito alla donna ed io riferito al poeta. Il poeta si affaccia a salutare questo cielo che quando lo si guarda appare tanto sereno e la natura che nel suo moto eterno e inappellabile lo ha creato per soffrire. L’io lirico sottolinea la propria diversità, è escluso dall’umanità comune ed è condannato alla sofferenza. Ai vv. 13-14 l’allitterazione della n pone l’accento sul fatto che la natura eterna e onnipotente lo abbia destinato alla sofferenza. L’aggettivo antico proietta l’espressione del dolore del poeta in un orizzonte “antico” in forme che vogliono ripetere quelle della poesia degli antichi. Ai vv. 14-16 la natura personificata si rivolge direttamente al poeta e in maniera categorica e senza possibilità di cambiamento ne decreta la condanna; gli viene negata la speranza. Si noti l’A te a lui rivolto, che si oppone direttamente al Tu che egli rivolge alla donna nei vv. 6 e 11, in cui sono contrastanti le situazioni esistenziali. Al binomio dormi-poeta si sostituisce quello natura-poeta, sempre con forte contrapposizione di stati d’animo e di intenti. Attraverso le negazioni nego….non….se non la natura vieta la speranza al poeta, da sottolineare la ripetizione della parola speme. La natura inoltre condanna il poeta al pianto, infatti per tutta la sua vita i suoi occhi saranno solo pieni di lacrime, si noti l’uso del verbo brillare usato in modo metaforico. Questo dì fu solenne: or da’ trastulli prendi riposo; e forse ti rimembra in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti 20 piacquero a te: non io, non già ch’io speri, al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

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quanto a viver mi resti, e qui per terra mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi in così verde etate! Ahi, per la via 25 odo non lunge il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello; e fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, 30 e quasi orma non lascia. …………. Al v. 17 il poeta descrive il giorno del dì di festa che è solenne (dal latino solennis) e torna a pensare alle gioie e agli amori della giovane donna di cui si è invaghito; questo tema sarà ripreso in A Silvia e ne Il sabato del villaggio. Attraverso l’immagine realistica dei divertimenti del giorno festivo il poeta cerca quasi di penetrare nel riposo della fanciulla, come se questo fosse un luogo dove poter trovare i suoi sogni. Proprio in quei sogni vede immagini del piacere che la donna sa suscitare e prova, piacere dal quale il poeta è escluso, esclusione di cui il poeta è consapevole. Questo viene sottolineato dalla doppia negazione del v. 20 non io, non già. Ancora una volta risulta efficace notare l’opposizione dei pronomi personali di prima e seconda persona nei vv. 18, 20, 21. Nei vv. 21-23, come nella già citata lettera al Giordani del 24 aprile 1820, il poeta descrive la sua estrema disperazione che si manifesta in forme di romantico titanismo e in atteggiamenti di violenta ribellione per terra mi getto, e grido, e fremo in cui la ripetizione della congiunzione e e le allitterazioni della r, della e, della g evidenziano ancora di più la sofferenza disperata che culmina nella climax. Il v. 23 forma un endecasillabo con il secondo emistichio che con il primo del v. 24 costituisce un’esclamazione in cui il poeta mostra la sua tragica condizione in un’età così giovane. L’esclamazione introdotta da Oh si richiama a quella successiva inserita con Ah che collega nello stesso presente la disperazione del poeta alla suggestione del canto dell’artigiano. La descrizione dell’artigiano che torna alla sua povera casa dopo i divertimenti del giorno festivo creano un momento di serenità nella lirica, subito spezzata dall’avverbio fieramente che conduce al concetto successivo in cui il poeta, prendendo spunto dal fatto che il giorno festivo con i suoi divertimenti è trascorso, così con amarezza pensa che tutto passa senza lasciare un’impronta di sé. ………. Ecco è fuggito il dì festivo, ed al festivo il giorno volgar succede, e se ne porta il tempo ogni umano accidente. Or dov’è il suono di que’ popoli antichi? or dov’è il grido 35 de’ nostri avi famosi, e il grande impero di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

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che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona. Nei vv. 31-33 si sottolinea la sacralità del giorno festivo, infatti l’aggettivo festivo viene ripetuto per due volte nello stesso verso, ma anche la sua brevità e l’inesorabile trascorrere del tempo, come ribadiscono le espressioni è fuggito, succede, se ne porta. Il tempo che porta via ogni umano accidente permette di inserire un flash back sulla storia dei popoli antichi e delle glorie dell’impero romano che sono svaniti senza quasi lasciare un’impronta. La meditazione è suggerita da un’altra sensazione vaga ed indefinita: il canto solitario che risuona nella notte allontanandosi a poco a poco. Questo processo associativo viene chiarito nello Zibaldone 50-51 in cui il poeta sottolinea che, come il canto fa risaltare il silenzio della notte e richiama per contrasto l’animazione e la vita del giorno festivo, così in quel silenzio si sono dissolte tutte le cose senza lasciare traccia. Da qui nasce una più ampia riflessione sulla gloria dei popoli antichi che è scomparsa nell’oblio attuale. Si ha la ripresa di un tema dell’Infinito: la riflessione sul tempo è prodotta dalla percezione uditiva. Il poeta introduce delle interrogative retoriche particolarmente significative secondo l’uso dello stilema del latino ubi sunt che hanno la funzione di sottolineare l’ineluttabile destino di ogni momento della storia, soggetto a distruzione e annientamento dal momento che questo è accaduto ai popoli antichi, agli avi famosi, al grande impero di Roma. Il nichilismo si diffonde dovunque: l’uomo è impotente di fronte a questo panta rei. Questo passato perduto viene chiamato in causa con un crescendo sonoro, che parte dal termine suono per giungere al termine grido e a fragorio. Lo svanire della fama del passato, dopo i precedenti richiami sonori, viene espresso dalla quiete e dal silenzio, addirittura dall’assenza di discorso non si ragiona al v. 39. 40 Nella mia prima età, quando s’aspetta bramosamente il dì festivo, or poscia ch’egli era spento, io doloroso, in veglia, premea le piume; ed alla tarda notte un canto che s’udia per li sentieri 45 lontanando morire a poco a poco, già similmente mi stringeva il core. La stessa esperienza descritta nei vv. 24-27 viene qui recuperata nel passato, secondo il principio leopardiano che “la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei” (Zibaldone, 515, 16 gennaio 1821). Ancora una volta la posizione del poeta è antitetica egli attende con ansia le gioie del dì festivo ma quando poi la sera di esso è ormai giunta, facendo il bilancio di ciò che di fatto

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il poeta ha ricevuto, non gli resta altro che soffrire dolorosamente nel suo letto non riuscendo a dormire per il dispiacere. L’allitterazione della p in premea le piume con il poeta che resta sveglio in angoscia si contrappone all’agevol sonno della donna citato nei vv. 12-16. Si noti la metonimia piume per indicare il guanciale. Negli ultimi quattro versi ricompare il canto che è in opposizione all’espressione già tace ogni sentiero del v. 5 ed invece è corrispondente a quella del v. 25. Però mentre il canto solitario del v. 25 si udiva non lunge, qui tutto si sfuma in effetto di lontananza che conduce soltanto alla sofferenza del poeta che già da allora come ora era tanto grande. La struttura del v. 46 è analoga a quella del v. 28: il tempo passa e cancella tutto ma non cancella la sofferenza del poeta che è stato condannato e creato per soffrire.

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Analisi e commento de La mia sera di Giovanni Pascoli

Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c’è un breve gre gre di ranelle. 5 Le tremule foglie dei pioppi trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Si devono aprire le stelle 10 nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell’aspra bufera, 15 non resta che un dolce singulto nell’umida sera. E’, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano 20 cirri di porpora e d’oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell’ultima sera. 25 Che voli di rondini intorno! che gridi nell’aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte,sì piccola, i nidi

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30 nel giorno non l’ebbero intera. Né io... e che voli, che gridi, mia limpida sera! Don…Don…E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, 35 Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra.… Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era… sentivo mia madre…poi nulla… 40 sul far della sera. La lirica, tratta dai Canti di Castelvecchio, è stata composta nel 1903. Già il titolo della lirica bene evidenzia il significato complessivo: non è una sera qualsiasi l’occasione della poesia, ma la sera del poeta che ci prospetta così, fin dall’inizio, la chiave di lettura simbolica del componimento e l’antitesi tematica che lo sorregge. Infatti l’attenzione del lettore si sofferma alle descrizioni antitetiche: dopo la tempesta del giorno si ha la quiete della sera, dopo gli affanni della vita finalmente la pace. Tutti gli elementi stilistici e formali di questa poesia concorrono a delineare un quadro di contrasto incentrato sulla coppia giorno/sera sullo sfondo di un’opposizione più profonda, presente in tutta la produzione di Pascoli. Il primo elemento di questa delicata costruzione è nel tipo di sequenza metrica. Il ritmo concitato ed enfatico dei novenari, tutti caratterizzati dall’accentuazione discendente, si placa nel senario che chiude ogni strofa, il cui ritmo ascendente riconduce a livello concettuale al conforto della sera, sempre nominata in questo verso. Pertanto lo schema metrico risulta essere così strutturato: ABABCDCd. La stessa ricerca formale di opposizione è nelle frequenti esclamazioni di cui tutto il componimento è attraversato, la cui valenza è quella di imporsi al lettore-ascoltatore. Infatti la poesia di Pascoli difficilmente prescinde dall’effetto fonico che si può rinvenire nella lettura, sottolineando gli stati d’animo che la poesia di volta in volta configura. Ma in tutta la poesia è forte l’identità, oltre che fonica, lessicale e semantica per mezzo della quale il gioco di opposizioni tra il giorno e la sera si snoda come un percorso che va progressivamente da un livello descrittivo verso una sempre maggiore interiorizzazione. La lirica è caratterizzata da tre temi strettamente connessi tra di loro:

1. la contrapposizione tra il giorno tempestoso e la pace della sera, in senso simbolico- autobiografico (prime tre strofe)

2. il nido, in relazione all’adolescenza di stenti del poeta (quarta strofa) 3. la simbiosi morte – vita (quinta strofa)

Il giorno fu pieno di lampi; ma ora verranno le stelle, le tacite stelle. Nei campi c’è un breve gre gre di ranelle. 5 Le tremule foglie dei pioppi

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trascorre una gioia leggiera. Nel giorno, che lampi! che scoppi! Che pace, la sera! Nella prima strofa si evidenzia immediatamente la contrapposizione tra giorno e sera, all’inizio e alla fine della strofa. Il termine sera suggellerà anche le strofe successive con la risonanza di un’eco misteriosa: la parola tematica diventa il simbolo chiave della lirica. La contrapposizione si replica anche nei due versi iniziali tra i lampi del giorno e le stelle della sera, rafforzata poi dalla ripetizione le tacite stelle (cfr. vv. 1-3) e dalla rima al mezzo. Il gre gre di ranelle è la prima voce onomatopeica del testo, ma altre figure di suono sono presenti: l’allitterazione della consonante liquida l (lampi, stelle, ranelle, leggiera) e del gruppo tr (tremule …. trascorre) per rendere il leggero movimento, il brivido che pervade la natura dopo il temporale. Queste sono alcune delle tecniche utilizzate da Pascoli per realizzare una particolare musicalità: a tal proposito si può parlare di fonosimbolismo. La poesia diventa un mezzo con cui Pascoli, attraverso lo sguardo e l’ascolto della campagna, letta nella sua dimensione domestica, esorcizza, supera il contrasto, ricompone nel sonno la paura degli scoppi e dei lampi. Così come l’epanalessi di le stelle, le tacite stelle (vv. 2-3) crea una distensione, altrettanto avviene con il susseguirsi di figure di "pace", quali il gre gre di ranelle (v. 4), la gioia leggiera (v. 6) che, come una carezza, passa attraverso le tremule foglie dei pioppi (v. 5): a tal proposito si deve notare che l’azione del tremare viene trasferita sulle foglie, che diventano così parte integrante del vento. La strofa si conclude con tre esclamazioni che bene caratterizzano non soltanto il contrasto tra giorno e notte, ma soprattutto l’animo del poeta, che trova finalmente pace nella sera. Ciò è acusticamente espresso dalla ripetizione del che e dalla allitterazione della consonante p, sia nella rima pioppi … scoppi, sia negli ultimi due versi lampi … scoppi … pace. Si devono aprire le stelle 10 nel cielo sì tenero e vivo. Là, presso le allegre ranelle, singhiozza monotono un rivo. Di tutto quel cupo tumulto, di tutta quell’aspra bufera, 15 non resta che un dolce singulto nell’umida sera. La seconda strofa si apre con un’elegante analogia: le stelle come fiori che sbocciano nel cielo simile a un prato (Si devono aprire le stelle, v. 1). Il cielo viene caratterizzato dagli aggettivi tenero perché è non più minaccioso né foriero di tempesta, e vivo perché più luminoso dopo la pioggia. Il cielo sembra personificato, dal momento che l’uso degli aggettivi tenero e vivo è generalmente riferito ad esseri umani. Al v. 11 è presente una allitterazione della l e viene ripreso il tema delle ranelle che portano serenità anche se rimane, come segno della sofferenza, il singhiozzo di un ruscello. Anche in questo caso assistiamo all’umanizzazione della natura. L’immagine è emblematica: il verbo singhiozzare, accostato all’aggettivo monotono (singhiozza monotono un rivo, v. 12), evidenzia il pianto che rimane costante anche se si ha un

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momento di pace; inoltre l’avvicinamento di singhiozzare a rivo per analogia pone l’attenzione del lettore sulla quantità di lacrime versate, tante da formare un ruscello. L’opposizione prima citata dei vv. 11-12 introduce quella, più estesa, dei quattro versi che seguono. Essa fa perno sull’anafora Di tutto quel ... di tutta quell’… (vv. 13-14) e sulla successione di quattro coppie parallele aggettivo/sostantivo in fine di verso che connotano i vari elementi entro i quali gioca l’opposizione: il tumulto e la bufera, rispettivamente cupo e aspra, lasciano il posto nell’umida sera al dolce singhiozzo (un dolce singulto, v. 15) entro cui sono racchiusi, sintetizzati il rivo e le ranelle dei versi precedenti. Da notare il risalto della u su cui cadono gli accenti di secondo, quinto e ottavo nei vv. 13-15 e l’efficace enjambement tra i vv. 14 e 15 che crea musicalità e fa porre attenzione al momento di pace della sera. E’, quella infinita tempesta, finita in un rivo canoro. Dei fulmini fragili restano 20 cirri di porpora e d’oro. O stanco dolore, riposa! La nube nel giorno più nera fu quella che vedo più rosa nell’ultima sera. La terza strofa si apre con una ripresa, terminologica e concettuale, della seconda, a cui vengono tuttavia aggiunti elementi nuovi: l’infinita tempesta, che sintetizza il tumulto, gli scoppi, i lampi, si è trasformata in un rivo canoro. La musicalità creata dal binomio di opposti infinita….finita prelude al rivo che, in contrasto a quello citato nel v. 12, è divenuto canoro, cioè un ruscello melodioso, immagine che raccoglie la molteplicità dei suoni fin qui incontrati. L’ allitterazione della f e quella della r del v. 20 enfatizzano nell’andamento musicale le suggestioni visive. Si ha così il passaggio dal livello descrittivo ad un primo livello di interiorizzazione. Infatti, dopo l’elegante immagine di fulmini (in allitterazione, come già evidenziato, con fragili, con cui forma un ossimoro) che si trasformano in nuvole (cirri di porpora e d’oro, v. 20) ecco per la prima volta un sintagma, stanco dolore, dove l’aggettivo stanco per ipallage si riferisce al poeta e non al dolore e connota sia lo stato d’animo della stanchezza sia quello del dolore, che si scioglie, nella sera pascoliana, nella possibilità del riposo. La strofa si chiude con una nuova opposizione tra nube….nera….rosa (vv. 22-23), ottenuta con un virtuosistico scarto dalla norma, secondo la quale chiaro e scuro sono attributi rispettivamente della sera e del giorno. La strofa è caratterizzata dalla presenza dei colori che diventano simbolo della condizione esistenziale del poeta.

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25 Che voli di rondini intorno! che gridi nell’aria serena! La fame del povero giorno prolunga la garrula cena. La parte, sì piccola, i nidi 30 nel giorno non l’ebbero intera. Né io... e che voli, che gridi, mia limpida sera! La quarta strofa ci riporta alla memoria la poesia X Agosto. Il tema del nido è messo in relazione con l’adolescenza del poeta: un’adolescenza di stenti, forse anche di fame, come fa intuire la reticenza indicata dai puntini di sospensione al v. 31. Questa strofa delega all’immagine di rondini, e all’osservazione del loro piccolo cosmo di affetti familiari, il compito di mettere in atto l’opposizione tra la loro condizione e quella del poeta: le rondini, dopo la fame del povero giorno, finalmente possono concedere ai piccoli intera la loro parte di garrula cena. Le rondini possono soddisfare la fame sofferta dai loro piccoli durante il giorno con la cena che diventa così più lunga e festosa grazie ai cinguettii dei rondinini riprodotti dall’allitterazione insistente della r. L’allitterazione della n nei vv. 29-31, la metonimia i nidi conducono all’immedesimazione del poeta con le rondini. Ma l’accenno (Né io....) è subito come soffocato dall’improvvisa allegria dei voli delle rondini, dai loro gridi nella limpida sera (Né io….e che voli, che gridi, mia limpida sera !, vv. 31-32); e anche qui è eloquente la diversità dei registri semantici consueti: la sera, territorio ambiguo nella poesia che si trova tra il crepuscolare e il notturno, è invece limpida, è il regno riconquistato della certezza e della serenità. Don…Don…E mi dicono, Dormi! mi cantano, Dormi! sussurrano, 35 Dormi! bisbigliano, Dormi! là, voci di tenebra azzurra.… Mi sembrano canti di culla, che fanno ch’io torni com’era… sentivo mia madre…poi nulla… 40 sul far della sera. L’interiorizzazione si completa nell’ultima strofa, aperta dal gioco di allitterazioni in dentale che accomuna l’onomatopea Don.…Don delle campane con Dormi in una corrispondenza dove il gioco delle opposizioni viene finalmente superato e messo da parte in attesa del “sonno conciliatore”. Le voci delle campane si smorzano a poco a poco come quelle di una madre presso una culla: il tono musicale si abbassa e i verbi

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esprimono questa sensazione acustica (dicono….sussurrano….bisbigliano, vv. 33-35) con un climax discendente. Subito dopo compare la sinestesia voci di tenebra azzurra, (v. 36) che suscita una sensazione di mistero, confermata dai versi successivi che contengono la rivelazione del significato simbolico della lirica. I rintocchi delle campane, con il loro invito al sonno, si identificano infatti con le nenie materne, con i canti di culla (v. 37) (da notare l’allitterazione della c). Prendendo spunto da questi suoni il poeta esprime per mezzo di un flashback il suo desiderio di rifugiarsi nel passato, confortato dalla presenza della madre. L’uso reiterato dei puntini di sospensione favorisce l’alternanza di dimensioni spazio-temporali diverse. Tutti questi richiami sono come sospesi - non a caso il penultimo verso termina con poi nulla…. - suoni indefiniti che conciliano un sonno che assomiglia ad un annullamento finale, una negazione di sé, un nascondersi nel nido primordiale. La conclusione della lirica diventa emblematica e giustifica il titolo stesso: infatti in ogni strofa, nel verso conclusivo, il poeta delinea un aspetto di quella che è la sua visione della sua sera: Che pace, la sera ! (v. 8), nell’umida sera (v. 16), nell’ultima sera (v. 24), mia limpida sera (v. 32), sul far della sera (v. 40). Le cinque caratterizzazioni della sera diventano specchio della riflessione intimistica del poeta e fanno trasparire la dimensione autobiografica.

U.D. 3

Analisi e commento de La sera fiesolana di Gabriele D’Annunzio

Si procede con la lettura, l’analisi e il commento della lirica dannunziana. Si mostra innanzitutto alla classe l’incipit autografo dell’autore per far comprendere agli studenti come il lavoro di creazione poetica si possa avvicinare ad una dimensione a loro vicina. Anche il poeta procede come un qualsiasi studente quando deve comporre un testo: si scrive, si cancella, si “lima”, si selezionano le parole fino ad ottenere l’effetto concettuale e stilistico ricercato.

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La lirica è tratta dalla raccolta Alcyone, edita nel 1903, ma già nel 1899 la rivista Nuova Antologia ne anticipava un gruppo di liriche; la composizione de La sera fiesolana è dunque collocabile tra le due date. Per quanto concerne la forma metrica abbiamo tre strofe lunghe di quattordici versi liberi variamente rimati e con assonanze, concluse ciascuna da un quinario; ogni strofa è seguita da una ripresa, una lauda alla sera di tre versi, anch’essa conclusa da un quinario. Originariamente ogni strofa, costituita da un lungo periodo sintattico che si sviluppa armoniosamente attorno ad un unico motivo, aveva un titolo che ne evidenziava l’immagine chiave: La natività della luna, La pioggia di giugno, Le colline. Ripercorro pertanto, seguendo le indicazioni dell’autore stesso, lo svolgimento della lirica.

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La natività della luna E’ una sera di giugno, dopo il crepuscolo. Nella campagna immobile, quasi in attesa, in un silenzio appena interrotto da suoni e rumori impercettibili, la luna che sta per sorgere irradia una luminosità diffusa, nella quale si placa il sogno d’amore del poeta e della sua amica. Nel refrigerio dell’ora le presenze umane sono appena accennate: il poeta, la donna (silenziosa interlocutrice), il contadino intento alla paziente raccolta del gelso. La lauda alla Sera torna a suggerire, nel viso di perla e nelle pozze d’acqua in cui si riflette il cielo la sensazione di tenue chiarore e di frescura. La pioggia di giugno La dolcezza delle parole nella sera si associa ora alla sensazione della pioggia primaverile: sono tiepide lacrime, picchiettii lievi (il bruire) sulle creature vegetali (gelsi, olmi, viti, pini, grano, fieno, olivi), anch’esse pervase da sfumata dolcezza di colori. E poi, nella lauda alla Sera, profumi di terra, di fieno e, ancora, il cinto di luce dell’astro. Le colline Nel mistero sacro della sera fiorisce l’attesa dell’amore e le colline si fanno labbra incurvate, suggellate in un loro segreto, capaci di sempre rinnovate consolazioni. La lauda alla Sera evoca la soavità di una pura morte: muore la primavera dissolvendosi nell’estate, muore la Sera dissolvendosi nella notte, che già si annuncia col palpito di luce delle prime stelle. Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscìo che fan le foglie del gelso ne la man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta 5 su l'alta scala che s'annera contro il fusto che s'inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo 10 ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.

15 Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva 20 tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l'aura che si perde, 25 e su 'l grano che non è biondo ancora e non è verde,

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e su 'l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi 30 che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!

35 Io ti dirò verso quali reami d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l'ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto 40 le colline su i limpidi orizzonti s'incurvino come labbra che un divieto chiuda, e perchè la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire 45 e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte, 50 o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle!

La poesia riecheggia le laudi medioevali, celebrando la sacralità della natura in termini religiosi e mistici, secondo il gusto tipicamente decadente, che si rifà alla poesia delle origini. Tema centrale della poesia è la metamorfosi della sera e del paesaggio collinare, che assumono caratteri ed emozioni umane. A questo tema corrisponde in modo speculare la metamorfosi dell'uomo, che trasferisce se stesso nel mondo esterno.

Nella prima strofa, in cui è evidente l’assenza di punteggiatura così da formare un solo periodo, possiamo cogliere immagini libere e spontanee; alle sensazioni uditive e visive, che si accumulano delineando un paesaggio crepuscolare, si aggiungono le impressioni, le risonanze interiori che quel paesaggio desta nell'animo di chi guarda, finché il paesaggio esteriore non si trasforma lentamente in un paesaggio interiore. Queste sensazioni sono ancor più sottolineate dalle rime sera…s’annera, foglie…coglie, spoglie…soglie, velo…gelo, giace…pace. Lo scambio incessante tra mondo fisico e mondo psichico continua nella seconda strofa in cui, colui che vede il protagonista dell'intenso monologo contemplativo, proietta la sua natura interiore sulla natura esterna, diventando pioggia, albero, olivo e ritrovando in essa la propria originaria innocenza in una sorta di rapimento estatico. Nel monologo della terza strofa, recitato di fronte alla silenziosa compagna, il poeta parla di richiamo all'amore, suggerito dalla misteriosa parola della natura, evocando l'immagine sensuale delle labbra che si incurvano per dire qualcosa di segreto, che non possono rivelare agli uomini. La presenza inanimata del paesaggio e della sera si trasforma in questo punto in inquietante femminilità che fa slittare il misticismo francescano presente nella prima e nella seconda strofa verso un'esplicita e pagana sensualità.

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Fresche le mie parole ne la sera ti sien come il fruscio che fan le foglie del gelso nella man di chi le coglie silenzioso e ancor s'attarda a l'opra lenta 5 su l'alta scala che s'annera contro il fusto che s'inargenta con le sue rame spoglie mentre la Luna è prossima a le soglie cerule e par che innanzi a sé distenda un velo 10 ove il nostro sogno si giace e par che la campagna già si senta da lei sommersa nel notturno gelo e da lei beva la sperata pace senza vederla.

15 Laudata sii pel tuo viso di perla, o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tace l'acqua del cielo!

La prima strofa della lirica si apre con una sinestesia –Fresche le mie parole– in cui l’aggettivo fresche, per ipallage, si riferisce alla sera. Segue una similitudine che paragona le parole al fruscio delle foglie del gelso, in cui non soltanto l’immagine risulta particolarmente suggestiva ma soprattutto il suono è evocato dall’allitterazione della f. Si diffonde poi un silenzio profondo che rallenta gradualmente il ritmo della lirica; la mano di colui che coglie le foglie di gelso, quasi per venire in contatto con la natura, è la mano di chi si muove silenziosamente, quasi per non violare la sacralità della notte. L’allitterazione della s e della r nei vv. 4-5 sottolinea la lentezza e il silenzio. Il tronco del gelso, ormai privo di foglie, risalta di un colore argenteo nel vago riflesso della luna che sta per spuntare; su di esso spicca la scala del raccoglitore, scura nell’oscurità della sera (vv. 5-7). I due predicati, che indicano note di colore, sono significativamente posti in fine di verso per farne risaltare il contrasto (che s’annera…che s’inargenta); da notare l’assonanza lenta…annera…inargenta. La luna è prossima ad emergere dalle soglie azzurre (cerule) del cielo, cioè sta per innalzarsi al di sopra della linea dell’orizzonte ma non è ancora comparsa. E’ da notare che Luna (v. 8) è scritta con la lettera maiuscola, come se fosse una divinità che distende il velo del suo abito sulla campagna, in cui per velo si intende il chiarore che viene emanato dalla luna e che viene contemplato dal poeta e dalla sua donna in un sogno estatico (ove il nostro sogno si giace, v. 10). Il tema della luce lunare è il nucleo centrale della strofa e della sua rete di immagini. I primi versi costituiscono solo un preambolo che permette di creare un’atmosfera sospesa e quasi religiosa. Infatti l’opera lenta del raccoglitore silenzioso sembra preannunciare misteriose corrispondenze tra la freschezza e i rumori della sera.

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Questo rituale di gesti preannuncia il carattere mitico-religioso del sorgere della luna: è una teofania, un’apparizione della divinità, come suggeriva il titolo originale della strofa. L’evento naturale, cioè l’apparire della luna, assurge qui alla dimensione del mito, la luna diventa una divinità che appare, il poeta sceglie di evocare con sottili suggestioni l’attimo inafferrabile che precede il sorgere della luna. E’ uno di quei momenti indefiniti, ambigui che sono prediletti da D’Annunzio. La luna, non ancora rivelatasi, distende dinanzi a sé una luminosità diffusa e già la campagna, sentendosi come sommersa dal gelo notturno, gode il refrigerio atteso prima ancora che la luna compaia. Il tenue velo argenteo irradiato dalla luna, quindi una realtà visiva, è assimilato al notturno gelo (v. 12), che suggerisce sensazioni tattili. Al gelo si associa anche un’idea di liquidità: la campagna “beve” la pace, la luce argentea è come un liquido fresco che dà refrigerio alla campagna, riarsa dal sole e assetata. La complessa rete di immagini, luce lunare – gelo – liquidità – pace allude quindi all’azione miracolosa della luna vista come divinità. Risulta così un altro legame segreto tra il gelo diffuso dalla luna e la freschezza delle parole del poeta. La parola poetica e l’apparizione divina sono intimamente collegate, le parole del poeta vengono trasfigurate in entità divine e mitiche che portano così refrigerio e vita. Dal v. 15 con Laudata sii abbiamo un’eco del Cantico delle Creature di San Francesco. La sera viene personificata in una divinità femminile, perciò numerosi sono i legami tematici con la strofa precedente: il viso di perla della sera si presenta come ripresa in chiave metaforica del motivo della luce lunare e si armonizza con la tonalità cromatica che produce, cioè il colore argenteo. Questa immagine proviene probabilmente dagli stilnovisti e da Dante, in cui si trova spesso il paragone tra la bianchezza del viso femminile e il color di perla (color di perla ha quasi, v. 47, Dante, Donne ch’avete intelletto d’amore; ed inoltre cfr. Paradiso III, 14). L’immagine pe’ tuoi grandi umidi occhi (v. 16) è una ricercata metafora in cui probabilmente gli occhi umidi della sera sono le pozze in cui si distende silenziosa l’acqua caduta dal cielo; infatti una nota del manoscritto indica che la poesia è stata scritta la sera del 17 giugno dopo la pioggia. L’immagine dell’acqua del cielo che si tace richiama il silenzio arcano e sospeso in cui risuona la parola magica del poeta e il fruscio dell’opera rituale del raccoglitore.

Dolci le mie parole ne la sera ti sien come la pioggia che bruiva 20 tepida e fuggitiva, commiato lacrimoso de la primavera, su i gelsi e su gli olmi e su le viti e su i pini dai novelli rosei diti che giocano con l'aura che si perde, 25 e su ’l grano che non è biondo ancora e non è verde, e su 'l fieno che già patì la falce e trascolora, e su gli olivi, su i fratelli olivi

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30 che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti, o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce il fien che odora!

La seconda strofa è costruita su procedimenti solo in apparenza più semplici e lineari, ma in realtà molto elaborati. In primo luogo prevale la musicalità: la parola tende a divenire puro suono grazie alla modulazione degli accenti e delle rime e alla qualità timbrica dei suoni. Interessante notare il verbo bruiva, francesismo da bruit, cioè rumore, ripreso da Verlaine (o bruit doux de la pluie), in cui D’Annunzio fa assumere alla parola un valore onomatopeico per indicare il picchiettio delle gocce di pioggia sulle foglie. E’ una musicalità che insiste su toni limpidi, dati dal ritorno insistito in rima di sillabe toniche con la vocale i (bruiva, fuggitiva, viti, diti, olivi, clivi) oppure e (sera, primavera, perde, verde, sorridenti). Il gioco delle immagini ripropone la metafora dell’acqua, già presente nei vv. 15-17; qui abbiamo la pioggia tiepida di giugno, con cui termina la primavera: D’Annunzio definisce questa pioggia commiato lacrimoso (v. 21), perché l’estate sta sopraggiungendo. La natura che pulsa nella sua vita è quasi personificata (cfr. v. 23 e su i pini dai novelli rosei diti), in cui le pigne novelle, con il loro color roseo, sembrano dita che giocano con il vento che passa attraverso di esse e si perde lontano. Il poeta insiste su immagini colte in un attimo di sospensione, di impercettibile trapasso: il grano che non è biondo ancora e non è verde (vv. 25-26), il fieno che patì già la falce e trascolora (vv. 27-28). Gli elementi del paesaggio naturale sono citati per accumulo e introdotti dal polisindeto. Il senso di musicalità in questi versi è caratterizzato dalla combinazione di eleganti simmetrie ritmico-sintattiche. Abbiamo tre versi di struttura affine che riguardano il grano, il fieno e gli olivi. Gli olivi vengono definiti fratelli, in cui questa parola è un epiteto di francescana memoria. Le foglie verde argenteo degli ulivi danno ai colli una sfumatura di pallore; il pallore a sua volta si collega con idee di santità e di ascetismo, (che fan di santità pallidi i clivi, v. 30). L’ulivo nella tradizione è considerato simbolo di pace e umiltà, rientra nella liturgia cattolica, caratterizza il paesaggio umbro e quindi è legato alla memoria di San Francesco. La strofa si chiude con un’altra lauda in cui la sera, di nuovo personificata, viene lodata per le sue vesti e per i profumi che aleggiano nell’aria nelle sere calde di giugno: dalla notazione visiva della prima strofa si passa ad una notazione olfattiva. Con elegante metafora il cinto che ti cinge, che rappresenta realmente la linea dell’orizzonte, viene per similitudine paragonato al ramo di salice che cinge il covone di fieno. Questa seconda ripresa rappresenta l’anticipazione della tematica che caratterizza la terza strofa. La sera viene descritta in maniera più sensuale e voluttuosa, che prelude al motivo amoroso.

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35 Io ti dirò verso quali reami d'amor ci chiami il fiume, le cui fonti eterne a l'ombra de gli antichi rami parlano nel mistero sacro dei monti; e ti dirò per qual segreto 40 le colline su i limpidi orizzonti s'incuvino come labbra che un divieto chiuda, e perché la volontà di dire le faccia belle oltre ogni uman desire 45 e nel silenzio lor sempre novelle consolatrici, sì che pare che ogni sera l'anima le possa amare d'amor più forte. Laudata sii per la tua pura morte, 50 o Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare le prime stelle! Questa terza strofa conduce ad una sensualità panica e naturalistica con un voluto contrasto di toni. La natura è personificata e si ha un fenomeno di identificazione del poeta e della donna amata nella natura. Anche qui non manca una sospensione mitico-religiosa: infatti le fonti eterne dei fiumi parlano nel mistero sacro dei monti: si ha un’eco del culto antico per le fonti e i boschi, abitati dalle divinità. Ma questo messaggio allude ai reami d’amor, legati con forte enjambement, quindi ad una forza sensuale che pervade la natura ed in cui l’uomo si immedesima. La trasfigurazione della natura, di cui solo il poeta sembra conoscere il segreto, è sottolineata ai vv. 40-42, in cui la curva delle colline sul limpido orizzonte è paragonata alla curva di due labbra, chiuse da un misterioso divieto che impedisce loro di parlare, ma che sono ansiose di rivelare il loro messaggio. Questo desiderio le rende belle al di là di ogni desiderio umano. Pertanto, pur non potendo rivelare il loro segreto, hanno ugualmente una funzione consolatrice che si rinnova continuamente; pertanto ogni sera l’anima le ama di un amore più forte. Solo il poeta è capace di recepire il messaggio arcano che rivela io ti dirò, ripetuto in anafora, ad una compagna non individuata dal nome (probabilmente la Duse). La lauda conclusiva rappresenta il passaggio dalla sera alla notte: la sera viene lodata per la sua pura morte, essa morendo nella notte palpita nell’attesa delle prime stelle: l’allitterazione della p permette di percepire le emozioni che la sera, considerata una donna, provoca.

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U.D. 4

Analisi e commento di Sera di Giuseppe Ungaretti

SERA Appiè dei passi della sera Va un'acqua chiara Colore dell'uliva, E giunge al breve fuoco smemorato. Nel fumo ora odo grilli e rane, Dove tenere tremano erbe. La lirica è tratta da Sentimento del tempo ed è stata composta nel 1929. La forma metrica è costituita da versi liberi. Il testo è polivalente, infatti l’interpretazione è anche volutamente affidata in parte alla sensibilità del lettore. Non si tratta di individuare un nucleo concettuale e logico, ma di abbandonarsi al fluire delle sensazioni e delle immagini, talvolta anche filtrate dalla tradizione letteraria che esse richiamano. La lirica si apre con una polisemia: infatti Appiè dei passi della sera può essere interpretato su un piano razionale intendendo l’imbrunire oppure, cogliendo l’enfasi che l’allitterazione della p produce, si può considerare la sera personificata, quasi una donna divina che procede, che avanza. Dai suoi passi scende un’acqua chiara (petrarchismo), però caratterizzata dal colore dell’uliva; da notare l’allitterazione della c (vv. 2-3). La metafora il Colore dell’uliva richiama la sfumatura di colore grigio-argentea che per polisemia si può riferire sia alla sera come creatura vestita di tal colore, sia al cielo limpido che incomincia a scurirsi. E si riflette nella corrente d’acqua. E giunge al breve fuoco smemorato: nel suo lento scorrere, reso sul piano metrico dalla lentezza dell’unico endecasillabo, la luce dell’acqua si mescola con quella del tramonto. Ma perché il fuoco è smemorato? Il termine potrebbe alludere al breve attimo di sospensione, quasi fuori del tempo, che è proprio del tramonto. Ma questa espressione potrebbe riferirsi anche agli ultimi brevi bagliori di un fuoco acceso nella campagna e poi “smemorato”, cioè dimenticato, in cui indirettamente compare l’uomo che quasi viola la sacralità della sera.

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E’ comunque un esempio di legame analogico del tutto imprevedibile e originale, che viene usato dal poeta per evocare suggestioni alogiche, cioè che non vengono razionalmente spiegate. Nel v. 5 abbiamo l’allitterazione della o e della r: insieme alle sensazioni visive subentrano quelle auditive. La parola fumo, che può essere riferita al fuoco lasciato acceso o alla leggera nebbia che sale verso sera sui corsi d’acqua conduce l’attenzione del lettore sulle voci dei grilli e delle rane, che provengono da un luogo indistinto. L’ultimo verso Dove tenere tremano erbe, che può essere riferito al luogo precedentemente citato, permette attraverso l’allitterazione delle consonanti t e r di far cogliere l’impercettibile vibrazione dei fili di erba che quindi si affiancano al suono evidente e distinto dei grilli e delle rane determinando così livelli espressivi diversi.

Analisi e commento di

Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo

ED E' SUBITO SERA Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. La lirica è tratta dalla prima raccolta del poeta, Acque e terre (1930) e avrebbe poi dato il titolo alla raccolta omonima Ed è subito sera (1936-42). La data di composizione pertanto è incerta: si colloca tra il 1920 e il 1929. Originariamente costituiva la strofa finale di un testo più ampio dal titolo Solitudini, poi ridotto a questi tre versi, risultato della ricerca ermetica del poeta. La forma metrica consiste in una strofa in cui si alternano liberamente un doppio senario, un novenario e un settenario. La lirica è una riflessione fulminea sulla condizione esistenziale dell'uomo, è un’allegoria della vita umana, risolta in scarni accenti che assumono un significato universale. La solitudine, la pena del vivere, la brevità dell'esistenza sono i temi espressi in tre versi incisivi, secondo un modello di essenzialità e di ambiguità semantica, tipici della corrente ermetica. I nuclei tematici sono: solitudine, pena del vivere, morte. La solitudine nel primo verso acquista un particolare rilievo: il pronome ognuno con processo induttivo estende la condizione esistenziale della solitudine a tutto il genere umano, l’allitterazione della s sta solo sul enfatizza questa condizione e il sintagma sul cuor della terra contrappone la grandezza della terra alla limitatezza e allo

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smarrimento di uomo che, pur vivendo al centro dell’universo, si sente tragicamente solo ed incapace di comunicare con i suoi simili. La pena del vivere nel secondo verso è evocata dall'immagine del cuore di ogni individuo trafitto da un raggio di sole, che analogicamente richiama la dimensione della vita umana oscillante tra l'attesa della felicità (il raggio di sole) e il sentimento del dolore (trafitto). Il raggio di sole non illumina l'uomo ma lo trafigge, poiché la speranza di appagamento lascia presto il posto alla delusione. La morte è richiamata dal terzo verso, la cui brevità rispetto ai due precedenti accentua la drammaticità della conclusione: le illusioni crollano in fretta al sopraggiungere della sera, metafora della morte. Il tempo e lo spazio sono fondamentali per la comprensione della lirica: allo spazio cosmico, rappresentato dal sole e dalla terra, corrisponde la contrazione del tempo, ridotto a quel subito, a un attimo che spegne la vita dell'uomo.

SINTESI DELLO SVILUPPO TEMATICO TRA OTTOCENTO E NOVECENTO

Dopo aver svolto la lettura e l’analisi dettagliata delle liriche scelte sul tema della sera, ritengo opportuno evidenziare i seguenti punti fondamentali concernenti la struttura metrica utilizzata dai poeti.

1. la trasformazione della canzone ad opera di Leopardi, che rompe la tradizione petrarchesca liberando la lirica dalla rima, dal ricorso alla divisione tra fronte e sirma, dalla ricorrenza fissa di endecasillabi e settenari

2. la poesia di Pascoli dà l’apparenza di una fissità nello schema metrico, che viene in realtà superata con il ricorso all’allitterazione, all’onomatopea, alla sinestesia

3. con D’Annunzio si arriva al verso libero, che aprirà la strada alla sperimentazione novecentesca di Ungaretti e Quasimodo

E’ necessario inoltre far riflettere la classe sui seguenti elementi, al fine di operare un confronto tematico nella descrizione della sera. Tema della serenità della sera crea dissonanza con l’infelicità dell’io lirico (Leopardi), accentuata dalla

contrapposizione con il sonno inconsapevole della donna amata e con l’opposizione crudele della natura

viene avvertita in confronto allo sconvolgimento del temporale passato (Pascoli) che simboleggia le dolorose sventure della vita. La pace della sera si insinua piano piano come una nenia per far addormentare un bimbo

percezione di una magia silenziosa che viene rivelata solo al poeta ( D’Annunzio)

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Tema della morte dall’assopimento serale cullato da una nenia dell’infanzia si passa per allusione al

sonno della morte (Pascoli) l’uomo è soggetto alla sofferenza ed alla morte che lo sorprende in un attimo

(Quasimodo) Personificazione della sera la sera è vista come una bellissima donna (D’Annunzio) umanizzazione del paesaggio che diventa oscuro (Pascoli) i passi della sera ( Ungaretti)

COLLEGAMENTI INTERDISCIPLINARI Si suggerisce alla classe la visione dell’opera lirica Bohème di Puccini per avere una descrizione particolareggiata ed evocativa della sera vissuta dagli artisti nella Parigi dell’Ottocento. Ritengo inoltre utile mostrare alla classe alcune immagini di pitture di impressionisti al fine di evidenziare come nell’Ottocento la sera venisse interpretata.

Ninfee, effetto della sera Stampa artistica di Claude Monet

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Vincent Van Gogh, Impressionismo Terrazza del caffè la sera, Place du Forum, Arles 65 x 81 cm