L’infinita pazienza di ricominciare - Fraternità di Romena · ricominciare da qui. Da queste mie...

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1 Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XIX n° 3 / 2015 L’infinita pazie nza di ricominciare

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trimestrale Anno XIX - Numero 3 - Dicembre 2015REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio Stia (AR)tel. 0575/582060 - [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo OrlandiREDAZIONE e GRAFICA:Raffaele Quadri, Massimo Schiavo

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Giuseppina Brunetti, Francesca Fiorentini, Laura Pedri, Cristina Citterio e Maria Teresa Marra Abignente

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

Il giornalino è anche online suwww.romena.it

SOMM

ARIO

Primapagina3

Ricomincio da qui 4

Basta un alito di vento per navigare6

Il rischio di esporsi alla vita10

Ripartire da un nuovo sogno 8

Ritrovare il coraggio di cambiare il mondo14

La nostra umanità? È solo ai primi passi 12

La mia poesia a piedi nudi20

Sogno una chiesa aperta al mondo 18

La passeggiata di Arturo 22

La fatica della luce24

La nuova veglia 26

La nuova vita del nostro “giornalino”28

Annunci vari31

Agenda 2016 30

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“Ma voi di Romena, cosa volete?” Pietro Ingrao si presento così. Ero andato a trovarlo in albergo alla vigilia dell’incontro organizzato con lui e Alex Zanotelli. Che cosa volete? Avevo arrancato, e non per l’emozione. Erano state le mie risposte, troppo articolate, a non essere convincenti.Che cosa vogliamo? Ingrao lo capì il giorno dopo. A parlargli fu il respiro semplice della pieve e il calore della sua gente. In quella situazione l’anziano politico si sentì come tanti viandanti prima e dopo di lui: libero. E a casa. Così mise a nudo senza sconti la sua vita, il suo cammino, i suoi errori. La scia di autenticità di quella giornata me la sento ancora addosso. È un ottimo modo per ricordare Pietro. Fa parte dell’eredità, però, anche quella domanda che, da allora, ho sempre tenuto aperta.

In questi giorni ho riascoltato un intervento fatto a Romena tre anni fa dall’amico scrittore Maurizio Maggiani. Prima dell’incontro, a pranzo, Maurizio mi aveva fatto una specie di terzo grado sulle nostre attività e sul loro significato. Pensavo di essermi difeso con onore. Invece durante l’incontro, pubblicamente, mi aveva restituito il senso di quello che gli avevo detto sotto forma di un’altra domanda: ma voi di Romena, volete essere una pieve o una clinica? Lì per lì mi era sembrata solo una provocazione. Era molto di più. Evidentemente gli avevo presentato le nostre attività, corsi, gruppi, incontri, soprattutto in funzione di un miglioramento della qualità di vita delle persone, di un tentativo di cura di alcune ferite interiori. “Ma questo – mi voleva far capire Maurizio – è clinica: è in una clinica che si va per curarsi e per star meglio. Voi invece siete una pieve. Una pieve è semplicemente un luogo che deve attrarre anche solo perché esiste, perché è lì, perché è per tutti” (non a caso pieve viene da plebs, popolo).

Siamo pieve, ne sono convinto. Ma, aveva ragione Maurizio, ci siamo spesso presentati come clinica: perché è più facile rappresentare un luogo secondo la sua capacità di risposta a bisogni concreti, più facile valorizzarlo illustrando la gamma delle attività messe in campo o indican-done i risultati. È il momento di potare, direbbe il nostro don Gigi. E i 25 anni della Fraternità sono l’occasione giusta. Stiamo lavorando a un cammino che ci accompagnerà nel 2016 proprio per guardare la nostra anima di pieve e per capire meglio come viverla.Abbiamo scelto gli otto punti della nostra “via della resurrezione”: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, fedeltà, perdono, tenerezza e amore come tappe di un cammino profondo di incontro con le nostre radici, e di costruzione di uno stile condiviso che le sappia armonizzare.Come è accaduto anche in altri momenti ci libereremo da qualche attività che rischia di ap-piattirsi nell’abitudine, per camminare più liberi nel cammino di ricongiunzione con la nostra anima di pieve.

La strada ce l’avete indicata voi, molti di voi, indicandoci cosa, dell’esperienza della Fraternità, vi resta di più: “Speranza” ci avete detto, “questo è un luogo da cui si riparte portando con sé un po’ di speranza”. Questa speranza non è figlia di una persona, di un incontro o di una attività: nasce, credo, per il semplice contatto con un’atmosfera. Questo è pieve. Questo risponderei, oggi, a quella domanda: a Romena vogliamo essere una lanterna accesa, accesa per tutti. Vogliamo essere uno spazio dell’anima dove ciascuno possa stare, in qualunque passaggio della sua vita. Per sentire che si può ancora accendere un fuoco nel cuore.

Massimo Orlandi

PRIMAPAGINA

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Ricomincio da quidi Luigi Verdi

Sì, voglio fermarmi, e provare dopo questi anni meravi-gliosi a potare, come ci dicono i contadini, perché, se non poti, il nuovo non nasce. Ci diceva l ‘Abbé Pierre: “Vogliate ogni tanto tutto spegnere perché rivivano le stelle e vi indichino la strada”. Aveva ragione, bisogna, a volte, ripartire da zero. Affrontare ad “orecchio nudo” gli altri e quello che hai vissuto fino ad ora. Reimparare ad ascoltare.Voglio ri-ascoltare queste mura di Romena e farmi rac-contare il tempo che abbiamo perso, le falsità rimaste na-scoste, gli spiriti liberi lasciati andar via senza accorgerce-ne. Voglio spostare il baricentro oltre me stesso e vedere dove sono davvero. Ogni presa di coscienza è infatti un punto di partenza.Rinnovarmi e rinnovarci, allora, e chiederci se ancora le nostre scelte sono calate nella realtà, se sono capaci di aprire nuove strade o ci fanno stagnare. Spesso la fretta ci porta a non affrontare i problemi che stanno dietro la crisi, e che rimossi velocemente sono come veleni non smaltiti.Fermarsi, per avere un tempo che veglia su ciò che non si vede, per andare al di là del visibile, per inventare nuo-ve strade, per progettare nuovi percorsi, per ricreare e ricrearsi.

“Al la sogl ia dei venticinque anni di Romena, voglio ricominciare da qui.D a q u e s t e m i e mani nude che murano pietre, che si sporcano di calce e polvere”.

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Fermarsi, per liberarci dai vincoli del già visto, del già conosciuto, e ritrovare la fre-schezza dell’inizio, libero da ciò che credevo di sapere, e da quello che credevo di avere.

Vorrei riavvicinarmi alle otto parole della “via della resurrezione” con grande silen-zio e togliendomi le scarpe. Vorrei “vivere” quella via della resurrezione e di nuovo, partorire me stesso, passare la cruna dell’a-go per entrare in una nuova tappa della mia vita e della vita della fraternità, imparare a morire per risorgere in una nuova vita, silen-ziosamente senza drammatizzare nulla.

Tornare attento a ciò che stiamo vivendo, agli incontri che facciamo, a come preghia-mo, alla musica che ascoltiamo per trasfor-mare il nostro fare in gesti sacri.

Spesso ci sono cose essenziali tanto vicine da diventare quasi invisibili. Non sempre ciò che cerchiamo è lontano, spesso ci è accan-to, “abita con noi”, è parte del nostro quoti-diano.Tornare ad “esserci” è più importante di tutte le cose che possiamo fare, la presenza è la cosa più creativa che esista.È difficile recuperare la libertà dentro, è dif-ficile disintossicarci dentro, è difficile espel-lere i faraoni che ci comandano dentro, per-ché la nostra è una generazione iper-psichi-

ca e iper-emotiva. Non siamo ancora riusciti a elaborare un pensiero che metta insieme l’ideale e l’esistenza di tutti i giorni, l’amore e la solidarietà concreta.Spesso i nostri sentimenti più veri, ven-gono usurati dall’abitudine e rinascono quando appaiono nuove visioni, nuovi ideali. Io credo che tutte le nostre tristezze siano momenti di tensione, che noi sentia-mo come paralisi, perché non udiamo più vivere i nostri sentimenti repressi.

Ho voglia di ripartire dalla vita, per ritrova-re il coraggio di percorrere strade che nessu-no ha percorso, di pensare idee che nessuno ha ancora pensato.La libertà contiene la radice “Hfsh” che vuol dire: cercare. Ecco, voglio continuare a cer-care, a far rivivere il soffio della vita che è in me, avanzare nello spazio ove la vita conti-nua.

Ci vuole tempo, e non bastano venticinque anni, affinché la nostra vita si impregni di bellezza. Bisogna, rimanere a lungo incom-piuti perché qualcosa di bello e di duraturo cresca in noi.Vorrei che chi viene a Romena non sentisse la nostalgia di tornare a Romena, ma la no-stalgia e la voglia di essere a casa dapper-tutto.

Iniziare una fraternità è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire

Marguerite Yourcenar

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Possiamo morire di disperazione e di motivi ce ne sono tanti, dal disumano che ogni giorno intorno a noi avanza, fino al sentirsi deriva, naufragio di spe-ranze e tentativi. Si può morire di dispe-razione. Quando tutto intorno è arso e vuoto, quando la speranza rimbalza con-tro strade strette, chiuse, sbarrate. Quan-do Dio delude. Si muore di disperazione. È successo a Graziella, alla mamma che ha ripetuto il gesto della figlia scegliendo di lasciarsi spappolare da un treno. Si muore dav-vero, non come viene ripetuto nelle can-zoni, in cui sembra che la morte sia un ritornello, ma si muore proprio davvero. Fine.

Un episodio tragico che ci coinvolge anche perchè riguarda una amica di Romena. E che ci chiama a interrogarci su come rigenerarci, quando solo la disperazione parla. E su dove trovare q u e l f r a m m e n t o di fiducia che può bastare. Per ripartire.

Basta un alito di vento per navigare di Maria Teresa Abignente

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Succede anche, per la disperazione, che il cuore d’improvviso impazzisca e come animale stanco e ferito si ripo-si, per sempre. Lo chiamavano, anni fa i nostri vecchi, crepacuore. Quando un cuore cioè, assediato dal dolore, esplo-de, troppo gonfio di lacrime e di sangue cattivo. Sangue che non ossigena ma avvelena, che non nutre ma intossica. E troppe, troppe lacrime. Un cielo che si fa opaco, senza squarci, pesante, uggioso. Un mantello ingombrante e che schiac-cia, che non lascia l’aria di un respiro. Un fiato di libertà. E morire sembra la scelta più giusta per riappropriarsi di un poco di bellezza, di un poco di pace. Quel tan-to che ci spetta, quel poco che ci è stato promesso venendo al mondo e che ab-biamo sentito possibile da bambini.

Dio ci delude e forse Dio è deluso di noi. Delude quando le necessità impellen-ti vengono ignorate, quando il nostro grido si schianta contro un abisso di si-lenzio, quando nessuna mano ti afferra per non lasciarti annegare. Forse non c’è, forse è distratto, forse ha altro a cui pen-sare o forse quel che ci sta a cuore, che crepa il nostro cuore, non gli interessa. Lui non lo sa che il cuore può scoppiare? Possibile che ignori questa eventualità? Allora forse Dio non c’è e basta. Favole, consolazioni da bambini: dal nulla al nul-la, solo lo spazio di qualche giorno que-sta nostra vita. Ma forse Dio è deluso da noi, incapaci di una piccola fiducia, quel tanto che basta

per poter ancora navigare, a occhi chiusi, sognando insieme. Lo diceva Fossati in una sua canzone “basta un filo di ven-to per poter navigare”: appena un filo e le vele si gonfiano, e ti portano al largo, non importa dove, ma lontano. Una pic-cola fiducia che allenta gli ormeggi, che disincaglia dagli scogli. E quella Dio non ce la può dare, tocca a noi. Tocca a noi fare il salto nel buio, non quello della morte, ma della speranza bambina che fa intravedere tutte le cose, ogni cosa, possibile e meravigliosa. Appena un sorso, una boccata, un gram-mo di fiducia in un Dio che finge di dor-mire, là, a poppa della tua barca, un Dio capace di addomesticare venti e tempe-ste, e che chiede solo di non aver paura. Fiducia, appunto. La prima delle cose per noi meno importanti e invece, in assolu-to, la più importante. “Non ti importa che moriamo?”: glielo chiedono i discepoli, glielo chiediamo noi. Lui a poppa. Noi nella tempesta. Insieme sulla barca. Lui a sussurrarci di non tremare e a calmare i nostri brividi. Forse. A stringerci la mano, ad asciugare le lacrime, dicendoci piano all’orecchio: “sono qua, non aver paura!”Sentire quella certezza di bambino, quando queste stesse parole ce le diceva la mamma o il babbo, la stessa sicurezza, la stessa fiducia. Chiudere gli occhi final-mente e respirare.Nell’infinita pazienza di ricominciare.

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Ripartire da un nuovo sogno

di Ermes Ronchi

Quando tutto sembra finito e sembra che non ci sia più niente da sperare, lì, al cuore del dolore, succede qualcosa. I giorni del ri-schio sono i giorni dell’apertura, perché il ri-cominciare ha in sé una sola direzione, in fon-do una sola promessa: crescere a più libertà, a più consapevolezza, a più amore.La Parola di Dio, da un capo all’altro della Bib-bia, conforta e incalza, ripetendo infinite vol-te: Non temere! Non avere paura! Sulla bocca di Dio, di Gesù, di profeti, di donne, di re, di mendicanti per centinaia di volte, per 365 volte, una per ogni giorno dell’anno, ci rag-giunge, quasi fosse il buongiorno di Dio, ad ogni nostro risveglio, ad ogni inizio di gior-nata, come nostro pane quotidiano, “il non temere!” di Dio.

Perché avete paura? Sono mille i motivi, e validi. Abbiamo la paura del bambino, del fragile, del malato, del povero, del morente. Mille motivi. Ma nel libro di Geremia c’è un’immagine bel-lissima di Dio, quella del vasaio che sbaglia il suo vaso e che ogni volta ricomincia dac-capo, con la stessa argilla: noi siamo le anfo-re rotte di Dio, quelle che secondo la nostra logica perfezionista andrebbero buttate, ma

che Dio riutilizza come preziosi canali, magari per far nascere fiori lungo la strada.

È bello sapere che ogni giorno Dio accarez-za la nostra paura, che ogni giorno ci rimette in piedi instillandoci una goccia di coraggio: Alzati e va’, lo ripete anche a noi timorosi e spesso codardi, ma soprattutto sfiduciati. Ma per ascoltare questo invito che Dio ci sussur-ra ogni mattino, per viverlo ogni giorno, con l’infinita pazienza di ricominciare, dobbiamo vedere, fermarci, toccare.

Nel vangelo di Giovanni è detto che la vita era luce degli uomini: vita e luce coincido-no e noi abbiamo occhi di lucerna, che non solo vedono, ma illuminano. Sono gli occhi di chi vede le ferite e si lascia ferire dalle ferite dell’altro, come quelli del buon samaritano. Sono gli occhi di Agar scacciata nel deserto: sta per morire di sete con il suo bambino, si allontana dietro un cespuglio per non assi-stere allo strazio dell’agonia del bimbo ed ecco, Dio le aprì gli occhi ed ella vide un poz-zo d’acqua. Dio non crea qualcosa, apre gli occhi: l’acqua era già lì, ma lei non riusciva a vederla.Dio apre gli occhi anche a noi e così vediamo

“Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare”. È da questa espressione di Ermes Ronchi che nasce questo numero. Non solo: le parole con cui Ermes, durante un incontro a Romena, ha dato corpo a questa frase, sono bussola preziosa per questa fase di cambiamento. Ermes ci invita ad accogliere l’invito di ogni giorno. L’invito a non arrenderci. A ripartire. Perché questo invito profuma di eternità.

*L’intervento è un estratto dall’incontro “L’infinita pazienza di ricominciare” tenuto a Romena. Intervento integrale su www.romena.it

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“Basta che un uomo sogniperché un’intera razza profumi di farfalle.Basta che solo uno sussurri di aver visto l’arcobaleno di notteperché perfino il fango abbia gli occhi rilucenti”.

(Manuel Scorza)

ciò che già è qui, strade di cui non ci eravamo accorti, bellezza che c’era sfuggita, vediamo un fratello in chi ci pareva straniero, la poesia nel quotidiano. Sono queste le strategie di Dio: piccole cose e occhi profondi.Noi domandiamo segni straordinari a un Dio illusorio e non apriamo gli occhi sui segni po-veri del Dio reale. Il Dio delle piccole cose, il Dio degli occhi profondi. Dobbiamo impara-re ad aprire gli occhi, a tenerli bene aperti. Per fare luce.E poi ‘fermarci’: viviamo a velocità folle, sia-mo connessi con il mondo, ma disconnessi con noi stessi. Il corpo corre e l’anima rimane indietro, boccheggiante. Fermarci ci aiuta a rimetterci in sesto con la vita, ci aiuta a veder-la questa vita. Noi che cerchiamo disperata-mente il senso della nostra vita ci accorgere-mo così che la vita trabocca di sensi, perché è essa stessa il senso. Fermarci ci dà il tempo per guardare, per sentire, per accorgerci de-gli innumerevoli gioielli di cui è costellato il nostro cammino e che noi correndo calpe-stiamo.

La velocità, di cui siamo impregnati, produce cecità e la cecità a sua volta porta alla durez-za del cuore, porta allo scoraggiamento, allo

sfinimento. Ma ancora, per ritrovare l’anima che non percepiamo più, dobbiamo tocca-re: ogni volta che Gesù si commuove tocca, come a Nain tocca la bara del figlio della ve-dova, come tocca la bocca del muto. Toccare significa rimettersi in contatto con la vita, con la sua bellezza, con l’infinito che è dentro. Ogni giorno possiamo abbracciare l’infinito. Se ognuno di noi può pensarsi come una piccola isola, deve però aver ben presente che là dove finisce la terra comincia l’oceano; ognuno di noi confina con Dio, ogni giorno l’infinito ci abbraccia. Secondo alcuni studi scientifici le molecole di cui siamo fatti vengono addirittura dalle stelle: siamo un impasto di polvere cosmica e fiato divino. Noi lo dimentichiamo, ma Dio lo sa, per questo prende le nostre speranze e le nostre attese e le porta avanti.Ecco ciò che Dio fa: non ci lascia gettare la spugna, non accetta che ci arrendiamo, con Dio c’è sempre un poi. Alla peccatrice Gesù dice “d’ora in poi”: noi siamo quel “d’ora in poi”, creature non ancora finite, non ancora cresciute e proprio per questo possiamo dirci e ripeterci che l’uomo non è un essere morta-le, ma un essere natale. Ogni giorno nascia-mo un poco di più.

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Dove sei? È la prima domanda che Dio pone all’uomo nella Bibbia. Ma cosa contiene davvero quella domanda? Secondo il nostro don Gianni è la richiesta, da parte di Dio, di una assunzione di responsabilità di ogni uomo per le sue scelte. Ma anche un invito a non temere i propri limiti. Anzi a partire proprio da questi.

Il rischio di esporsi alla vita

di Gianni Marmorini

Uomo dove sei? Per entrare in questa do-manda, fondamentale è cercare di capire cosa davvero voleva comunicare Dio.La storia la conosciamo bene: Dio crea Adamo, lo mette nel giardino e subito gli dice: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non devi mangiare perché nel giorno in cui tu ne mangerai tu dovrai mo-rire”.Bisogna capire bene questa premessa: nel giardino hanno tutto, ma non possono mangiare di un solo albero, hanno cioè un limite.

La Genesi ci racconta dell’arrivo del serpen-te e della sua capacità, con un abile gioco di parole, di ingannare Adamo ed Eva spin-gendoli a mangiare il frutto proibito.Dopo questo gesto, Adamo ed Eva non muoiono, ma si nascondono quando sen-tono arrivare Dio.Ed ecco che arriva Dio con la sua prima do-manda rivolta all’uomo: “Dove sei?” cui Ada-mo risponde così: “Ho udito la tua voce nel giardino, ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto”.

Adamo ed Eva si nascondono non perché pensano di aver fatto arrabbiare Dio con la loro disobbedienza, ma perché hanno ver-gogna della loro nudità.

La percezione che noi abbiamo di questo episodio è spesso inappropriata, perché nel racconto non viene mai detto che l’uomo è pentito di aver mangiato il frutto proibi-to, né viene detto mai che Dio è arrabbiato per la mancanza di obbedienza. E allora che senso ha fare questa domanda?

Con questa domanda Dio vuole coinvolger-ci, vuole che prendiamo coscienza. Chie-dendo “Dove sei?” è come se Dio chiedesse: “Ti stai rendendo conto di dove ti fa vivere quello che hai fatto? Hai capito cosa deter-minano nella tua vita le tue scelte, le tue azioni, il tuo modo di fare?” È una doman-da importante questa, è diversa, perché se fosse stata una domanda tipo “che cosa hai fatto”, allora avrebbe messo l’uomo di fron-te al suo senso di colpa, al suo errore.La domanda di Dio vuol invece portare l’uo-mo non tanto a pensare al suo sbaglio, ma a rendersi conto di cosa diventa la sua vita quando pretende di viverla senza accettare i suoi limiti.

Cos’è che allora che aveva attratto Adamo ed Eva delle parole del serpente? Il fatto di toglier loro ogni limite, di renderli uguali a Dio. Il serpente li invita a dire “no, non ac-cettate questo limite: siate totali, siate per-fetti”. Eva non mangia per disobbedire, ma per essere perfetta come Dio.

*L’intervento è un estratto dall’incontro che don Gianni ha tenuto a Romena alla vigilia della tre giorni di incontri Uomo dove sei?.

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Ma cosa succede dopo? Succede che quan-do si accorgono di poter fare tutto, di po-ter usare e mangiare tutto quello che è a disposizione non diventano come Dio, anzi vedono messa ancor più in evidenza la loro fragilità.

Ma poi cosa vuol dire questa vergogna della propria nudità? A questo punto mi viene sempre in mente il famoso episodio biblico di Davide e Go-lia. Saul sta combattendo contro i Filistei, ma c’è il campione dei Filistei, Golia, che è un gigante che non teme rivali, e quando si decide di far combattere i campioni dei due eserciti, non c’è nessun soldato dell’esercito di Saul che voglia accettare questa sfida.Allora si presenta questo ragazzino, David, e dice: ” Lo affronto io”.Saul per proteggerlo gli fa indossare la sua armatura, ed è una scena quasi comica, perché David la mette, ma gli sta grande, è troppo pesante per lui. Certamente lo ren-derebbe sicuro dai colpi che potrebbe rice-vere, ma David chiede invece che gli venga tolta e, indifeso, prende la sua fionda e quei cinque sassolini e si avvia. E nonostante la sua apparente inferiorità, riesce a sconfig-gere Golia.

Ecco, quando penso alla nudità penso sem-pre a questo episodio, perché nudo, nella sua accezione più biblica, significa “senza protezione”.In fondo, Adamo e Eva cosa proteggevano? La loro nudità era la loro fragilità, quella del non essere riusciti ad accettare questo limi-te su cui Dio li aveva messi in guardia. Noi

uomini, in un primo momento, giochiamo sempre a fare i migliori di quel che in realtà siamo e poi, quando ormai non possiamo più nasconderle, quando ormai sono evi-denti, giochiamo a proteggere le nostre nudità.Pensateci: soprattutto quando si va in un posto nuovo noi ci proteggiamo con una bella corazza difensiva. È un’armatura ele-gante, razionale, ma a volte è un armatura fatta di prepotenza, di arroganza, o all’ap-posto di timidezza. Stare con le nostre nudi-tà è sempre difficile, perché vuol dire espor-si al rischio di essere colpiti.

Quando Dio ci chiede “dove sei?” è come se riportasse la nostra condizione a quello stato. Accetta di essere nudo, ci dice.Nella vita i problemi veri derivano solo da questo, dal fatto che non ci piace essere im-perfetti, la consideriamo una condizione di svantaggio e non, come forse viene presen-tata nella bibbia, una condizione di inizio.Così, quando Dio chiede ad Adamo ed Eva “dove sei?” è come se li volesse rimettere di nuovo davanti all’albero dicendo loro: ac-cetta di essere limitato, non averne paura.Questo è il problema che la Bibbia ci pre-senta di continuo: il rapporto con la nostra fragilità e la nostra imperfezione. Ci voglia-mo mettere corazze come quella di Saul, ma queste corazze quando anche riuscissi-mo a metterle addosso non ci fanno stare neanche in piedi. Solo liberi da queste co-razze si può affrontare il nemico, accettare il rischio. Esporsi alla vita.

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Nella storia abbiamo fatto questo grande errore di pensare che l’uomo fosse nato già adulto e definito: così prima uomo è diventato un genere, poi uomo è diventa-to una razza particolare, quindi è diventato un modello per tutti e ci siamo dimenticati le sfumature, per esempio l’essere donna o l’essere bambino. Alla fine l’uomo ha cominciato a dire “io sono un uomo perché penso” e si è sepa-rato da tutti: animali, piante, terra, universo. Così abbiamo perso dei pezzi lungo la sto-ria, abbiamo creduto di essere già compiuti, invece noi come esseri umani stiamo ancora nascendo e allora tutte le opportunità d’in-contro sono opportunità di crescere, di di-ventare diversi. Lo è anche il faccia a faccia con la terra, nella sua fatica, la terra risorsa che vorrebbe essere lavorata, collaborare con la nostra storia, per dare da bere e da mangiare a tutta l’umanità.

Allora la domanda “Uomo dove sei?” la ri-traduco come “Dove sei essere in crescita, dove sei essere umano-essere terra-essere acqua-essere pianta? Dove sei tu che devi ancora imparare a vivere? E chi sei tu men-tre impari a vivere?” Oggi mi sembra che qualcuno abbia la pretesa di dare delle ri-sposte da solo, di poter dire “io so cosa fare

di fronte a queste cose” e invece oggi da soli si diventa solo uomo in senso sbagliato, si diventa chi continua a fare del male a qual-cuno, chi continua a prendere troppo posto nella storia, cultura che continua a dire alle altre culture: devi essere in questo modo. Pensate ad esempio ai danni che stiamo facendo nel mondo islamico pretendendo che impari dalle nostre democrazie. E inve-ce noi oggi siamo ancora alle porte di qual-cosa che dobbiamo inventare: io mi sveglio al mattino e devo andare, incontrare delle persone diverse, perché questa storia va fatta e rifatta e così ci sospingiamo fino alle ali dell’aurora. Dobbiamo ascoltare perché ci sono tanti altri animali, piante che devono nascere, continuare a nascere intorno a noi e a crescere.

Perché io non sono uomo, sono un po’ uomo, un po’ donna, un po’ bambino, un po’ giovane e anche un po’ albero, un po’ acqua, un po’ terra e lo devo essere, lo dob-biamo essere: persone così capaci di stare gli uni con gli altri e così miti da non pren-dere troppo posto. Io devo prendere il mio posto, il posto della mia identità del mio nome e nulla di più. Dobbiamo recuperare i pezzi che abbia-mo perso per strada, pezzi di noi stessi, di

Ciascuno di noi ha un grande compito: contribuire a far nascere l’umanità. Abbiamo costruito un modello di uomo talmente convinto della sua centralità da essersi separato da tutto: dagli altri uomini e dalla natura. È tempo di riportare l’uomo al suo compito: che non è quello di conquistare spazio, ma di farlo, non quello di dominare gli altri, ma di affidarsi a loro.

La nostra umanità? È solo ai primi passi

di Antonietta Potente*

*L’intervento è un estratto dall’incontro tenuto a Romena nell’ambito dell’incontro “Uomo dove sei?”. Intervento integrale su www.romena.it

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queste nostre radici primordiali, ma anche pezzi del mistero,del divino, di quello che noi eravamo prima, che non sappiamo, che dovremmo diventare. Questi pezzi vanno raccolti ora: bisogna farlo e non aspettate che lo faccia qualcuno: fatelo voi, non ab-biate paura! Non perdete l’identità se dite che non siete uomini, ma che siete per ora un po’ bam-bini e un po’ ragazzi e sperate di diventare donna, uomo, cipresso, faggio, terra rossa, bianca, minerale, profumo. Profumo, diven-teremo profumo alla fine, perché il profumo raccoglie l’aroma di tutto e non è pesante, non occupa spazio.

Ma ora come cercare i pezzi? Con le cose quotidiane che noi dobbiamo inventare, che dobbiamo esigere dai nostri governi: ci diano degli spazi per cercare i pezzi per creare del lavoro, per creare una cultura dove tutti impariamo ad essere donna, uomo, bambino.L’umanità si sta rimescolando in questo momento e allora non è solo il tempo di far del bene, è il tempo di diventare buoni, di diventare un po’ tutto e un po’ tutti, di met-terci nei panni degli altri. Ci sono tanti posti vuoti, inventiamoci dei lavori e incomincia-mo subito a condividere dei lavori nei luo-ghi, e non accumuliamo tristezza: trattiamo

quelli che arrivano da uomo, donna, bambi-no quali sono, non da masse in emergenza perché qui non è successo un terremoto, qui è in atto un fenomeno che esplode dall’u-mano stanco, vecchio, da questo uomo che ha saputo solo creare guerre, divisioni, po-teri e una società gerarchica, a cominciare dalle religioni.

Non abbiate paura, ci stiamo facendo. E Dio non è così piccolo, stretto, così meschino nei confronti della vita: c’è spazio. State tranquil-li, non credete a chi dice che non c’è spazio: c’è spazio, ma è mal abitato, noi abbiamo abitato male lo spazio. Non abbiate paura, respirate nel profondo alla mattina e se in-contrate qualcuno provate a mettervi d’ac-cordo su qualcosa: fate gruppi, fate gruppi nei vostri condomini, nei vostri paesi, nelle vostre città, pensate, pensate, fate gruppi di contemplazione per diventare altri. Fate gruppi per vivere, per vivere davvero e vivere significa anche contraddizioni: io ho vissuto in una terra e in una cultura dif-ferente, a volte ci capivamo altre volte non ci capivamo ma non ero costretta sempre a sorridere o a dire “Voglio bene a tutti”. No, devo crescere negli incontri e anche nelle contraddizioni, perché io da sola non le ho delle risposte, ho bisogno degli altri, ho bi-sogno di voi, di tanta gente che cerca.

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S c o n f i g g e r e e g o i s m o e indifferenza e ripartire dagli altri, dal valore delle relazioni, della prossimità. È l’appello che ci ha lanciato don Ciotti al nostro incontro di settembre. Un invito a ricordare che la nostra identità non si costruisce sull’io, ma partendo da chi è ferito, umiliato, abbandonato.

“Uomo, dove sei?” è la domanda che Dio, nel-la Genesi, rivolge ad Adamo e Eva, dopo che hanno mangiato dall’albero della conoscenza. “Dove sei?” Dobbiamo però per me rendere ancora più graffiante questa domanda, che Dio rivolge ancora anche a noi. Non solo dove sei, ma chi sei? La domanda cruciale oggi è quella sulla nostra identità.La verità dura da accettare è che per molti oggi non sappiamo più chi siamo. Non sap-piamo più chi siamo, perché siamo usciti dallo spazio della relazione, dal reciproco riconosci-mento che fonda la nostra identità.

Riconoscere gli altri vuol dire riconoscere se stessi, accogliere gli altri vuol dire accogliere se stessi, mancare l’appuntamento con l’altro vuol dire mancare l’appuntamento con la vita. L’unità di misura dei rapporti umani è la rela-zione e la prima dimensione della giustizia, guarda caso, è la prossimità. Chi siamo, ce lo dicono gli altri. È nel rapporto con gli altri che emerge la nostra natura. La risposta alla domanda sulla nostra identità, al nostro spesso vagare oggi disorientati, anche alla perdita di senso, che avvertiamo a volte in fondo ai nostri cuori, ce la dà la prossimità, ce

la dà il rapporto umano, ce la dà in particolare il rapporto con le persone più fragili, i poveri, i respinti, gli emarginati, nessuno escluso.

Allora i migranti, i profughi interpellano le nostre coscienze. Io mi sono vergognato e mi ribello: che l’Europa risponda, il mondo risponda, solo per il piccolo Aylan di 3 anni, il bimbo siriano trovato morto su quella spiag-gia in Turchia. Ma perché dico questo? Perché quella fotografia ha permesso a qualche poli-tico di alcuni Paesi di dire “be, allora apriamo un pochettino i confini”. E le altre fotografie, gli altri migliaia di morti non li hanno visti? Penso a quei sommozzatori della guardia co-stiera, che hanno recuperato 300 corpi all’isola dei Conigli. Con le lacrime agli occhi mi diceva-no “Sai Luigi qual’è la ferita che ci porteremo sempre dentro al nostro cuore: per 20 giorni siamo scesi per pochi minuti per poi risalire, a 50 metri di profondità. La più grande ferita è stato dover separare le mamme dai loro bam-bini che, mentre quel barcone affondava, se li sono stretti forti forti forti e facevamo fatica a dividerli…”

Allora c’è una domanda che io faccio alla mia coscienza e che condivido con voi. Ma io, in

di Luigi Ciotti*

Ritrovare il corag gio di cambiare il mondo

*L’intervento è un estratto dall’incontro tenuto a Romena nell’ambito dell’incontro “Uomo dove sei?”. Intervento integrale su www.romena.it

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Ritrovare il corag gio di cambiare il mondo

quelle condizioni, come vorrei essere trat-tato? Nessuno può essere condannato a vita dal suo luogo di nascita. Quelle morti non si aspettano le nostre lacrime, non si aspet-tano la nostra indignazione, quelle morti aspettano da noi il coraggio di costruire un mondo davvero umano dove riconoscerci diversi come persone e uguali come cittadini.Tonino Bello diceva: “Delle parole dette mi chiederà conto la storia, ma del silenzio con cui ho mancato nel difendere i deboli dovrò render conto a Dio”. C’è troppa indifferenza, c’è troppa superficialità, e allora noi siamo chiamati a metterci in gioco per accorciare queste distanze, per essere anche noi dei mol-tiplicatori di conoscenze e sensibilità, per tra-volgere positivamente tanta gente, affinché si possa mettere in gioco.

A Torino è stata aperta la sindone quest’an-no. È un simbolo, un segno e questi segni vi-vono di vita propria. Sono schegge di infinito,

capaci di farci intravedere l’infinito. Allora ben vengano gli studi e gli accertamenti scienti-fici, ma sapere chi è davvero l’uomo del lino non è decisivo. Quello che importa è guardare attraverso quel lenzuolo. Chiunque sia, è uno che ha pagato con la vita, che è stato umiliato, crocifisso. Lasciatemi dire che anche in molte della vostre realtà avete la sindone. Perché nel-la comunità dove quelle lenzuola avvolgono persone ferite, umiliate, abbandonate, quel lenzuolo è la sindone. È veramente la sindone.

Concludo con le parole di papa Francesco, quando dice: “Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Una fede autentica implica un profondo desi-derio di cambiare il mondo.” E allora voi capite che noi dobbiamo impe-gnarci per una chiesa capace di guardare ver-so il cielo senza distrarsi dalle responsabilità verso la terra.

Una fede autentica implica un profondo desiderio di cambiare il mondo. papa Francesco

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Perchè il mistero è troppo accanto e non lo vedo, per questo e altro ancora io ti prego tremiamo insieme.

Chandra Candiani

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Non ha ori addosso il cardinale ottantenne, solo occhi curiosi e limpidi di ragazzo e il suo sorriso largo, allegro, aperto.Sul palco sta ancora parlando qualcuno mentre si siede senza disturbare. E ascolta la potenza di voce di quel prete che ha per par-rocchia la strada: don Luigi Ciotti ha un fuo-co nelle mani, nel volto che trasmette a tutti. Alla fine si abbracciano forte sul palco, prima che Kasper si sieda per concludere il conve-gno “Uomo dove sei?”. «Occorre avere occhi e cuore aperti, guardare il presente, scorgerne le luci e le ombre, guardare il mondo dal sud del mondo. Si vive in un chiaroscuro, ma que-sto non è per forza un male, non c’è solo lo scuro, c’è anche tanta luce».

Il cardinale accompagnerà tutte le sue fra-si con racconti, esperienze private raccolte come fiori dalla sua ricca vita. “Quando ero giovane, in Germania, ero alpinista. Conosco i sentieri d’altura. Difficili, ardui. Vedi la monta-gna, grande, immensa. A tratti ti sembra insu-perabile. Ma sul ciglio, in basso scorgi dei piccoli fiori, piccoli e limpidi. Le stelle alpine, ma anche altri, più piccoli. Anche qui fra voi ci sono delle stelle alpine, dei fiori d’altura. Non c’è mai solo la difficoltà, il muro aspro di una montagna insu-perabile: ci sono piccoli fiori, sui sentieri d’altura’.

Mentre lo ascolto mi torna in mente che an-che quando si è in alto mare si dice che si fa navigazione d’altura. Come se l’alto e il pro-fondo ammettessero la stessa misura, come se la ricerca e il pericolo della navigazione a mare aperto indirizzasse poi lo sguardo alle stesse sponde, alla bellezza di fiori piccoli sul ciglio della strada che spingono oltre, inco-raggiano, sostengono a vedere il germoglio piuttosto che la pietra, le braccia di un porto all’orizzonte piuttosto che solo pareti d’acqua invalicabili.

Guarda dritto il cardinale, ma con un incan-to che salva la bellezza del mondo. Si passa al valore dell’enciclica Laudato si’, della chiesa che sogna il papa. «Siamo fatti col fango della terra, tutti; questo è il segno della familiarità fra noi e con l’universo. Siamo fili d’erba e stel-le, siamo fratelli del sole. Occorre riscoprire la meraviglia di questo, la bellezza del dono, della custodia del creato e di noi stessi. Come in una ruota dovremmo provare ciascuno ad essere raggio. E dovremmo anche riscoprire il valore della gioia, ricominciare a far festa, ba-ciare la vita. Gesù ha cominciato la sua intera vita pubblica con una festa, col vino allegro di Cana. L’enciclica Laudato si’ comincia con la lode del mondo e si chiude con l’esortazione

Sogno una chiesa aperta al mondo

di Giuseppina Brunetti

È uno dei collaboratori più stretti di Papa Francesco. E ormai è anche un amico della nostra fraternità. Il cardinale Kasper è tornato a trovarci, per il nostro incontro di settembre, regalandoci i suoi pensieri larghi. E l’immagine di una chiesa misericordiosa, con le braccia aperte sull’umanità.

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a camminare cantando. C’è stato un tempo della mistica dagli occhi chiusi, che poneva una distanza fra noi e il mondo; forse è arri-vato il tempo di una spiritualità dagli occhi aperti».

Gli applausi non si contano, sono liberatori, tutti desiderano sottolineare un consenso, il desiderio della gioia. Da qui il passo alla misericordia è breve, all’anno giubilare che comincia l’8 dicembre. Il cardinale Kasper ha dedicato a questo un libro intero: “La sfida della misericordia”. Sì, la misericordia è una sfida dice, non viene naturale, è una qualità che appartiene a Dio. «Nella sua misericordia Dio apre il suo cuore e ci lascia guardare nel suo cuore.». L’affermazione: «Dio è misericordia» si-gnifica che Dio ha un cuore per i miseri. Egli non è un Dio, per così dire, sopra le nuvole, disinteressato al destino degli uomini, ma piuttosto si lascia commuovere e toccare dalla miseria dell’uomo. Egli è un Dio compassione-vole, un Dio ‘simpatico’ (nel senso originale di questa parola sym-pathein, ‘sentire insieme’).

Il cardinale prosegue: «Io non esiste senza un tu, senza un noi. Dovremmo ricordarcelo.

Quanta solitudine di vecchi, quanta solitudine di bambini lasciati soli per ore c’è nel nostro mondo. In questo tempo di egocentrismo, di narcisismo dovremmo ricordare che non esi-ste il proprio bene senza il bene comune. La chiesa dev’essere una famiglia. C’è tanto fred-do nelle nostre chiese a volte. Non sarà sem-plice, cambierà la forma della nostra vita, ma c’è anche una ricchezza in tutto ciò che migra, in tutto ciò che è differente. La misericordia vede come il nostro Dio, che ha un cuore che vede, che sente. E noi tutti, non solo il papa, dobbiamo essere dei “pontifices”, dobbiamo costruire ponti».

È così, nel segno della gioia, del cammino d’altura e della misericordia che si chiude questo ultimo incontro a Romena, col cardi-nale dagli occhi limpidi che viene dalla nuova Roma di papa Francesco. Forse non è un caso se anche qui si chiama un Dio che cammina per le strade del mondo, che vede e sente l’infelicità, il grido degli uomini. Che cammi-nando va come noi per mare alto e montagne scoscese e ci insegna ad amare, ma ci semina intanto la strada di fiori e di stelle.

La chiesadev’essere una famiglia. C’è tanto freddo nelle nostre chiese a volte…

Walter Kasper

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Forse immaginiamo i poeti come dei giganti che con la loro voce possente scavano la vita dentro le parole e che con le loro lunghe braccia afferrano il cielo e ce lo portano un po’ più vicino. Forse ce li figuriamo imponenti e muscolosi, perché ne devono avere di forza per sollevare i macigni del cuore e farli giungere a diventar fiato. Magari con gambe lunghissime, per sconfinare i recinti della razionalità e passeggiare decisi o tremanti sui prati e sui mari della vita.Chandra Candiani è piccola invece e ha voce di bambina: a piedi nudi ci parla di poesia, scandisce le sue poesie con quell’espressione dei bambini sorpresi a giocare o a raccontarsi i loro segreti. Chandra è una bambina pugile, così ama definirsi e così ha chiamato la sua ultima raccolta di versi: e ci sembra davvero

In un mattino di luglio ci siamo tutti innamorati di lei. Lei con quella vocina delicata in quel corpo minuto. Lei non solo poetessa, ma lei stessa poesia. Ritratto di cuore di Chandra Livia Candiani, e di come lei e Romena si sono incontrati. Con la convinzione che fosse solo la prima alba di un lungo cammino.

di Maria Teresa Abignente

La mia poesia a piedi nudi

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di vederla lottare nella notte arruffata, lei “filo d’erba impassibile” contro il “gigante trasparente” della notte. La vediamo a pugni alzati, a scansare i colpi, a difendersi dalla ferocia della vita. Piccola e leggera come una scintilla. Che brucia. Per questo può intendersi alla perfezione coi bambini e può far uscire da loro scintille di poesie, anche da quelli che l’italiano lo conoscono poco perché a casa parlano un’altra lingua, anche da quelli che se ne stanno all’ultimo banco, svogliati. Arriva lei, maestra di poesia, e insieme si mettono a cercare le parole. Per riuscire a dire quel che si ha nel cuore, per dare parole alle domande mute, al cuore che impazza, al silenzio che scava.“…io vi conservo le parole / come pane inzuppa-to / nel latte della memoria / come lacrime incol-te / che precipitano / a due a due / nell’inchiostro / io sono capitano serio / quando navighiamo / le parole il loro / buio fitto l’alto mare / e allagano la classe / e noi le rastrel-liamo / con le biro nere e blu a dire / le formule che ormeggiano e il mondo / che bussa forte…”Come se la poesia esi-stesse da sé, già dentro di noi: in un luogo segreto e nascosto esisto-no parole che aspettano di essere navigate, per esprimere ciò che le lacrime raccontano, per dire quel che il batticuore ci regala. Parole che pulsano, che sono fatte di sangue e saliva, parole vive.

Un verso di un poeta nicaraguense dice “Un poeta sente”: la poesia riesce a trasformare le orme che i sensi lasciano in noi parole che sono contemporaneamente leggere e pe-santi, oscure e luminose. Parole vive, appunto.“È la voglia di comunicare che fa trovare le pa-role. Ma anche lo scarto, sentire che la poesia è anche musica e magia, che si possono fare dei salti con le parole e farli fare agli altri. Si può far sorridere o tremare. E soprattutto si può non sapere”. E si può anche non sapere da dove arrivi questa poesia, come una voce che gra-

zie al silenzio giunge a visitarci, come un’eco del nostro sentire che finalmente risuona. Ma c’è bisogno di silenzio per lasciare che queste parole si impiglino dentro, c’è bisogno del si-lenzio come una tregua dall’affanno della vita, come una sospensione dal rumore frettoloso e fuorviante:“…Che tu possa sentire il bene grande / quell’a-ria che ci sta sempre intorno / che sempre bada a noi e sa / che mentre ci scuotiamo forte / men-tre scartiamo / e sgroppiamo via i pesi /già stia-mo facendo dell’infinito / casa”.Fare dell’infinito una casa è forse il nostro de-siderio più acuto e segreto e il poeta lo sa. E ci commuove e trafigge il cuore vedere questa minuscola donna abitare l’infinito, aggirarsi negli spazi illimitati e sconosciuti in nome di tutti noi. Una bambina pugile coraggiosa, che “semina il grazie più piccolo che c’é”.

Così vicina a noi la poe-sia non è mai stata: la guardiamo stupiti, con occhi di bambini anche noi, con brivido di gra-titudine. Chandra ci in-segna la vita e anche la morte; suo è il verso più bello che abbia mai tro-vato sul lutto:“…Pensa, la relazione di

ora / questa nuova faccia / dell’amore, / la chia-mano lutto.”

Nelle sue poesie Chandra ci offre tutta se stes-sa, si regala a noi senza risparmio di timidez-ze, e da lei ci sentiamo abbracciati e stretti, raggiunti negli angoli più bui del nostro sen-tire, che sono anche quelli più veri. Colpisce il sentirci stanati nei nostri nascondigli, là dove ci rifugiamo quando tutto intorno grida e diventa fastidioso; là dove ricerchiamo un pezzetto di infinito. Sarà perché riconosciamo in lei il nostro cam-mino faticoso e duro, un “cammino di mina-tore che spacca le unghie”, sarà perché lei per-cepisce “d’essere una e sola e comunissima briciolitudine”, ma ora abbiamo ben chiaro dentro di noi che “la misura esatta è l’infinito”.Grazie, piccola scintilla, di ricordarci il fuoco.

Riparti a mani vuote e senza impermeabile

a pelle d’oca e cuore affamato riparti neonato.

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La passeggiata di Arturo

Lo scorso 30 n o v e m b r e a v r e b b e c o m p i u t o 103 anni. Ma Arturo non puntava ad allungare i suoi giorni. La sua vita di uomo di Dio, di missionario, di profeta degli ultimi, era stata lunga e intensa, la sua fede lo aveva preparato all’incontro con l’Amore senza fine. E in un giorno di luglio Arturo ha iniziato il suo nuovo cammino...

Eravamo a tavola, uno davanti all’altro, in uno dei primi nostri incontri. A fine pasto non persi l’occasione di fargli la domanda delle domande: Arturo, come ti immagini che sarà, dopo la morte? “Vedi – rispose allargando ancor più la fronte spaziosa – oggi pomeriggio un caro amico mi accompagnerà a fare una passeggiata. Io non sto mica a chiedergli dove andremo, non sto mica a farmi spiegare cosa troverò. Così penso all’incontro con Dio. È un amico. E io mi fido di lui”.Arturo, caro amico Arturo. Arturo che non aveva paura della morte, ma la attendeva, Arturo che non aveva passato la vita a riempirsi di Dio, ma a svuotarsi di ‘io’ per poterlo accogliere. Arturo, la cui fede era promettente come la luce dell’alba.“È tutto finito” gli disse un suo antico allievo in punto di morte. E Arturo, di risposta, lo sbatacchiò: “Non è questo che ti ho insegnato! Non è vero che è tutto finito. Ma che tutto inizia”.Arturo non aveva paura di morire perché sentiva che su tutto, tutto ciò che ci circonda soffia il vento dello Spirito e che questo vento non si muove a caso: lo spinge l’Amore, con la A maiuscola.

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di Massimo Orlandi

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“L’unica missione umana – diceva – sta tutta in una espressione di Teillhard de Chardin: “amouri-seur le monde”, portare l’amore nel mondo. Gesù non ci ha chiesto di fare proseliti, ci ha chiesto di portare l’amore nel mondo”. E in questo consi-steva, per lui, la sua missione di uomo di Dio, di uomo consacrato a Dio: “La cosa più grande che può dare un prete? È far sentire la persona amata. Perché se Dio è Amore, Dio non si scopre attraverso un ragionamento teologico, lo si sco-pre solo se ci si sente amati”.

Era nato il 30 novembre 1912, a Lucca. Ma il primo episodio che ricordava sempre dei suoi albori di vita era arrivato otto anni più tardi quando, bambino, aveva assistito impotente, a un conflitto a sangue tra fascisti e antifascisti davanti alla chiesa di San Michele. “Ma allo-ra gli uomini non si vogliono bene?” “E cosa si può fare per poterli aiutare a riconciliarsi?” L’interrogativo bambino sarebbe diventato una missione di vita. Sacerdote nel 1940, Artu-ro aveva avuto quale prima parrocchia un ex seminario nel quale avrebbe nascosto e salva-to da morte certa tantissimi ebrei.

La sua azione di riconciliazione era poi con-tinuata nel dopoguerra quando, dai vertici dell’Azione cattolica, Arturo si era impegna-to a ricostruire i valori del Paese a partire dai giovani. Ma le sue idee avanzate si erano scontrate duramente con i vertici ecclesia-stici e l’esito era stato fortemente penaliz-zante per Arturo, inviato come cappellano sulle navi della rotta Genova-Buenos Aires. La punizione era pesante, ma grazie all’incon-tro, proprio sulla nave, con un piccolo fratello di Charles De Foucauld, Arturo aveva intuito quella che sarebbe stata la tappa decisiva del suo cammino di fede: stare in mezzo ai poveri.

Arturo sarebbe così vissuto per oltre cin-quant’anni tra gli ultimi del Sudamerica, com-pagno di viaggio speciale per tanti uomini e donne marchiati a vista dal flagello della po-vertà. Solo alla soglia dei novant’anni sarebbe rientrato in Italia, aprendo una nuova comuni-tà (a San Martino in Vignale, Lucca) e metten-dosi a disposizione di quel popolo crescente di viandanti del nostro tempo, in cerca di se stessi e di un senso per vivere.

Un proverbio africano dice che un vecchio che muore equivale a una biblioteca che brucia. Ci ho pensato spesso davanti a anziani che avreb-bero avuto un mondo di cose da rivelarci, se fossimo stati umili e attenti da ascoltarli prima della loro morte. Arturo, grazie al suo tempo di vita in esubero, ha permesso a tanti di noi di avvicinarlo e di scorrere senza fretta i titoli della sua biblioteca, la biblioteca della vita.

Io, in particolare, ricordo una indimenticabile settimana a Spello: Arturo mi concesse due ore tutte le mattine per raccontarmi tanta parte della sua vita e permettermi di ritrasmetterla. Ne nacque un piccolo libro, “La forza della leg-gerezza” i cui contenuti, oltreché su carta, me li sono stampati dentro.

“Mi piace stare al mondo, anche ora che sono vecchio” esordiva Arturo con la sua disarmante semplicità. “Quello che rende bella la vita è il non portare fardelli. Non ti posso dire che la mia vita sia stata tutta buona, no, però ti posso dire che la mia vita è stata bella: anche gli aspetti negativi, anche le avversità sono state importanti, perché mi hanno aiutato ad avanzare, a vedere di più, a liberarmi da tante pesantezze”.

La leggerezza di Arturo non era dovuta all’as-senza di fatica e di sofferenza, ma alla capacità di elaborarla. Era il frutto maturo di una capa-cità totale di darsi agli altri al punto da dimen-ticarsi di sé: l’angoscia esistenziale di noi occi-dentali, spiegava, scompare davanti al povero che è privo di tutto, che è umiliato, che chiede solo un po’ di dignità.

L’ultima volta che l’ho visto è stato un mese prima di morire. Le sue parole si erano fatte rade. Parlava per lui il suo sorriso lieve, e quello sguardo proteso sull’orizzonte, a saggiare l’infi-nito. Dissi qualcosa io, allora, ma poco, e tutte le parole volevano essere solo una: grazie.

Era un consapevole commiato. Era un affettuo-so arrivederci.

Sapevo che sarebbe arrivata, prima o poi, la notizia della sua partenza.

La fine di una vita. L’inizio di una passeggiata.

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Dov’è mai, nel racconto della sua nascita, la luce, se non per dire che quella madre «lo mise alla luce»? Ma è modo di dire, perché quella era notte. Lo mise alla notte.

Non si parla nei vangeli di una lam-pada di miracolo calata, in segno di misericordia, dall’alto, a far luce alla donna che vedeva sgusciare dal grembo il frutto dei nove mesi.Né di lampada calata dall’alto, in vol-to di misericordia, sulla mangiatoia in cui, avvolto di fasce, deporre uno scricciolo di figlio. Ma adagio, lenta-mente, per non fargli male. Ed era notte, buio pesto.

Non è la luce il segno del Natale.

di Angelo Casati*

* Il testo è un estratto da “I giorni dello stupore” di Angelo Casati - Edizioni Romena, 2014

Ma il buio. È nel buio che nasce Gesù, è nel buio delle nostre vite che può alzarsi, davvero, un grido alla luce. È solo nel buio che si può capire davvero il miracolo di quella notte.

La fatica della luce

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A veglia – questa sì, la possiamo imma-ginare – a veglia l’umile lampada accesa da Giuseppe. A fiato lento e oscillante, come le lampade d’allora. Le nostre splendono sicure e senza emo-zioni. Quella di Giuseppe era viva, pul-sava fiato. Come quel bimbo, suo e non suo. Ma non sarà, me lo chiedo, che que-sto impazzire di luci nasconda il sussulto del buio? Qualcuno di noi ancora ricorda il brivido che ci correva nelle vene quan-do da piccoli si faceva buio nella stanza e tutti ad occhi sgranati a fissare il presepe che pulsava nell’ombra.

È il buio, non le luci sfacciate, è il buio che ancora può tremare d’emozione per la lampada fioca e a corto fiato di Giu-seppe. Oggi mi verrebbe da augurarmi che tutto a un tratto si spegnesse, tutte le luminarie della mia città, quelle della via che mi sta accanto e mi toccasse per grazia la lampada di Giuseppe.Sono ad augurarmi che si faccia buio. Se così non fosse, forse che qualcuno si accorgerebbe di un’umile lampada che veglia il Natale dentro l’ostentato impaz-zire di luci?Solo il buio può gridare il miracolo della tenerezza del lume. Che per grazia si è acceso nella notte. Non il soffitto di luci della mia strada.

Perché miracolo dei miracoli e grazia delle grazie non è un Dio che scende su un tappeto di luci, ma un Dio che scen-de nella notte, nella ruvida paglia di una

mangiatoia. E se rubi la notte, la notte della storia, se rubi la ruvida paglia a questa nascita, le strappi la grazia delle grazie, che è questo sposalizio di luce e di tenebra, questa immersione di un fru-golo di lievito sincero nella pasta oscura che resiste a fermentare, questa speran-za che la luce possa alleviare il peso delle nostre notti. Che non vanno ignorate. O cancellate da luminarie che tentano di far dimenticare la fatica della luce.

“La fatica della luce”, direbbe una cara amica, Gabriella Caramore. Così ha inti-tolato il suo libro. A volte mi verrebbe la voglia – e mi prenderebbero per un pazzo – di andare per le strade e gridare: «Togliete le luminarie, danno immagine falsa del mondo. Mascherano il buio che ci portiamo dentro, il buio che segna i nostri giorni. Mi sembrano cancellare il grido del buio alla luce vera. Mi sembra-no irridere la lampada fioca, fiato a rilen-to, di Giuseppe, lampada che fa segno a un altro. Un altro che venga a illuminare per grazia angoli oscuri della vita e del mondo.E metti in attesa il buio. In attesa il buio della terra, perché riceva luce. Dalla na-scita. È dal buio che sale il grido alla luce. E se puoi, per quello che puoi, porta la tua lampada. Non importa se fioca e corta di respiro, purché vi arda un poco dell’olio del Vangelo.

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BRESCIA 18 gennaio 2016Centro Mater Divinae Gratiae - via Sant’Emiliano, 30 ore 21.00BERGAMO 19 gennaio 2016Chiesa dei Frati Cappuccini - via dei Cappuccini ore 21.00MILANO 20 gennaio 2016Parr. Beata Vergine Immacolata - Lavanderie di Segrate ore 21.00CASALMAGGIORE (CR) 21 gennaio 2016Parr. S. Maria Nascente-Via N. Tommasco 73, Casalbellotto ore 21.00PIACENZA 22 gennaio 2016Parrocchia Santa Franca - P.zza Paolo VI, 1 ore 21.00SIENA 26 gennaio 2016Parrocchia San Francesco all’Alberino ore 21.00AREZZO 27 gennaio 2016Parrocchia San Marco Alla Sella ore 21.00CATANIA 1 febbraio 2016Parrocchia SS. Pietro e Paolo - via Siena ore 20.30SCICLI (RG) 2 febbraio 2016Parrocchia SS. Salvatore - Via Giovanni XXIII, 13 ore 20.00RAGUSA 3 febbraio 2016Parrocchia S. Pietro Apostolo, V. Lazio 89, Beddio ore 19.00PALERMO 4 febbraio 2016Suore Basiliane di Santa Macrina - V.le dei Picciotti, Brancaccio ore 20.00MESSINA 5 febbraio 2016Parr. S. Giacomo Maggiore Ap. - v. Buganza, Isolato 54 ore 20.00LE PIAGGE (FI) 10 febbraio 2016Comunità delle Piagge ore 21.00LOCRI-ARDORE MARINA 22 febbraio 2016Parr. Santa Maria del Pozzo ore 19.30CROTONE 23 febbraio 2016Parr. Sacro Cuore - Borgata S. Francesco ore 20.00LAMEZIA TERME 24 febbraio 2016Chiesa del Carmine - Sambiase ore 19.30

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camminaa piedi

DioNUOVA VEGLIA

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COSENZA 25 febbraio 2016Parr. di San Nicola - Piazza Cenisio ore 20.30SCALEA (CS) 26 febbraio 2016Da definire ROVERETO 7 marzo 2016Parrocchia di Santa Caterina - Frati Cappuccini ore 21.00VERONA 8 marzo 2016Parr. San Nicolò all’Arena - P.zza San Nicolò 13 ore 21.00MODENA 9 marzo 2016Chiesa San Barnaba, Via Carteria 108 ore 21.00BOLOGNA 10 marzo 2016Parrocchia Madonna del Lavoro - Via Ghirardini 15 ore 21.00MILANO - SAN CARLO AL CORSO 15 marzo 2016Corsia dei Servi, Corso Matteotti 14 ore 21.00IMOLA 16 marzo 2016Chiesa Santa Maria dei Servi - Piazza Mirri 2 ore 21.00NOCERA INFERIORE 11 aprile 2016Parr. S. Maria del Presepe - P.zza Amendola ore 20.00SALERNO 12 aprile 2016Parrocchia Gesù Redentore - Via P. De Ciccio 1 ore 21.00NAPOLI 13 aprile 2016Parr. S. Gennaro al Vomero - Via Bernini 55 ore 21.00CAMPOBASSO 14 aprile 2016Centro Famiglie Incontro - via Reine, Colle D’Anchise (CB) ore 21.00FONDI (LT) 15 aprile 2016Monastero San Magno - Fondi ore 21.00ROMA 2 maggio 2016Parrocchia San Frumenzio - via Cavriglia 8 ore 21.00GROSSETO 3 maggio 2016Parr. Del Cottolengo - Via Scanzanese 67 ore 21.00LIVORNO 4 maggio 2016Parrocchia Sant’Agostino - via Aldo Moro 2 ore 21.00AULLA (MS) 5 maggio 2016Parr. San Caprasio - Piazza Abbazia ore 21.00PERUGIA 10 maggio 2016Chiesa di Santo Spirito - via Parione 17 ore 21.00OSTUNI 16 maggio 2016Parrocchia San Luigi - via G. Di Vittorio 18 ore 20.30GALATONE (LE) 17 maggio 2016Chiesa di San Francesco d’Assisi - via Metello ore 21.00LOCOROTONDO (BA) 18 maggio 2016Chiea di S. Giorgio Martire - P.zza A. Rodio ore 21.00BARI 19 maggio 2016Chiesa di San Marcello - L.go D. F. Ricci 1 ore 20.30ALTAMURA 20 maggio 2016Foyer De Charitè - Contrada Fornello ore 20.30BISCEGLIE (BT) 21 maggio 2016Parr. Santa Maria Madre di Misericordia - P.zza C. A. Dalla Chiesa 11 ore 21.00

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cammina

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Da vent’anni questa nostra rivista ac-compagna il cammino della Fraternità di Romena. Questa longevità non sarebbe stata possibile senza il vostro amore e il vostro sostegno di calore e di amicizia. Ogni volta, mentre la concepiamo la no-stra rivista lievita di responsabilità e di gioia al solo pensiero di raggiungervi: sappiamo quanto la desiderate!Questo consenso e questa vicinanza sono un patrimonio prezioso, che non voglia-mo disperdere. Allo stesso tempo, però, sentiamo ormai da qualche tempo, sem-pre più necessario un percorso di cambia-mento sia dello stile e del formato della rivista, sia dei modi per farla arrivare nelle vostre case.

Nei prossimi mesi la nostra rivista cambierà di pelle. N u o v a g r a f i c a , n u o v i contenuti, e due possibilità di leggerla:• gratuita (da scaricare on line) • cartacea (con abbonamento)

La nuova vita del nostro “giornalino”

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Nauralmente non si tratta di mettere in di-scussione l’anima della rivista, o il suo stile più profondo, ma di renderla meglio in gra-do (nel formato per esempio, e nella lun-ghezza) di raccontare i temi, le persone, gli incontri e la vita della Fraternità. Abbiamo imparato, dalla storia di Romena, che la fedeltà è preziosa, ma non va scam-biata con l’abitudine: vogliamo restare fe-deli al progetto originario, ma proprio per questo essere pronti a un cambiamento che ci permetta di onorarlo meglio. Cosa faremo? In questi mesi ci impegne-remo in un progetto grafico e di contenuti che vi sottoporremo sin dal prossimo nu-mero e che miglioreremo in seguito, grazie anche ai vostri suggerimenti.

C’è poi un secondo aspetto, altrettanto importante e riguarda la diffusione. Negli anni, questa rivista ha seguito passo passo la crescita di contatti e di presenze della Fra-ternità. Attualmente spediamo a casa gratu-itamente circa 15.000 numeri ogni volta. Ma dopo venti anni l’indirizzario costruito nel tempo non è più adeguato: ci sono sempre più situazioni di indirizzi sbagliati (le per-sone costruiscono le loro vite, si sposano, cambiano casa…), c’è quindi la necessità di rimettere un po’ di ordine. Inoltre le spese postali sono lievitate e su un quantitativo di spedizioni come le nostre sono diventate davvero esose. La rivista, solo tra stampa e spedizione ha un costo annuo di circa 20.000 euro e la generosità di chi risponde con un contributo utilizzan-do il bollettino al centro (un’opzione asso-lutamente libera) non è ormai da tempo

sufficiente. Ma come mantenere insieme la possibilità di farvi avere gratis la rivista e allo stesso tempo non pesare sui bilanci della Fraternità?

L’idea che proponiamo è questa. La rivista potrà essere letta, vista, e anche scaricata su Internet . Quindi manterrà una dimen-sione gratuita, per tutti. A chi invece vorrà continuare a riceverla a casa, nella sua di-mensione cartacea, chiederemo un piccolo abbonamento annuale.

Questa novità non ha effetto immediato. Il prossimo numero della rivista, che vedrete già nella nuova veste, lo riceverete a casa come questo. E lì’ vi spiegheremo meglio le modalità dell’abbonamento. Così avrete tutto il tempo, se vorrete, per adeguarvi. Altrimenti potrete continuare a leggere la rivista on line .Se poi volete contribuire a questa nostra proposta con inviti, consigli, suggerimenti, proposte, fatelo scrivendoci a [email protected]. Sarà un aiuto prezioso in questa fase di cambiamento.

A questo punto il dado è tratto. Questa lun-ga storia di amicizia e di affetto con la no-stra rivista vive un momento rischioso, ma necessario. Ogni cambiamento è preceduto da un tuffo alla gola, da una paura di non riuscire. Ma sentiamo che questo è il mo-mento. Che aspettare sarebbe ancora più rischioso. E allora.. che la creatività ci assista. Ce la metteremo tutta per mantenere quel filo delicato ma forte di amicizia e di sinto-nia che da tanti anni ci lega a ognuno di voi.

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Agenda

Ogni Giorno 2016 - Pagine 284 - Prezzo € 14,00 - ISBN 978-88-89669-63-1

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novità

Ogni Giorno 2016

Dio è un Bacio

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SEGRETERIA: per iscriversi ai corsi è necessario telefonare al nostro numero 0575.582060. Le iscrizioni ai corsi si aprono il primo giorno del mese precedente il corso stesso.

CORSO CON

Antonietta Potente

DIALOGHI TRA I CORPI E L’ANIMA26-27-28 febbraio 2016

Guidati da Antonietta, dalle sue intuizioni, dal suo sguardo aperto e profetico sulla vita e sulla fede, affrontando un cammino di riflessioni, intuizioni, esperienze per mettere in contatto anima e corpo.Iscrizioni dal 01/01/2016 - tel 0575.582060

Guarda l’intervento di don Luigi Verdi nella puntata di “Beati voi” di TV2000 dal titolo “Beati i misericordiosi”.

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don Luigi a TV2000

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ella dimora d’acqua e d’argilla senza di te distrutto è il cuore: entra, o amato, in casa o lascerò, io, la casa.

Rumi

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