L’INFERMIERE: VITTIMA O SOPRAVVISSUTO · CAPITOLO 2 - SCOPO DELLA TESI Indagare il coinvolgimento...

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I Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio” Chieti – Pescara FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA Corso di Laurea in INFERMIERISTICA L’INFERMIERE: VITTIMA O SOPRAVVISSUTO UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI Il Laureando Il Relatore Clara Cappelli Dr.ssa Nadia De Camillis Anno Accademico 2007 – 2008

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I

Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”

Chieti – Pescara

FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA

Corso di Laurea in

INFERMIERISTICA

L’INFERMIERE: VITTIMA O SOPRAVVISSUTO

UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI

Il Laureando Il Relatore

Clara Cappelli Dr.ssa Nadia De Camillis

Anno Accademico

2007 – 2008

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Ringrazio Cinzia, Roberta, Luigi, l’ Ufficio Infermieristico e tutto

il personale infermieristico degli Ospedali di Mirandola e Finale

Emilia.

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“Comunichiamo quello che

sentiamo,

solo quello che sentiamo

e quello che sentiamo non

può essere nascosto.

Per questo dobbiamo stare

in ogni momento

In contatto con i nostri

sentimenti”

Ramòn Cortés

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INDICE CAPITOLO 1 – INTRODUZIONE pag. VI CAPITOLO 2 – SCOPO pag. VII CAPITOLO 3 - BACKGROUND pag. VIII

3.1. La storia dell’infermiere: dall’abnegazione alla consapevolezza delle emozioni 3.2. Perché si sceglie il lavoro di cura: aspetti psicologici

CAPITOLO 4 - L’INFERMIERE: “VITTIMA O SOPRAVVISSUTO” – UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI pag. XVII

4.1. Le emozioni e i sentimenti

4.1.1. Le emozioni

4.1.2. I sentimenti

4.1.3. La differenza tra emozioni e sentimenti

4.2. Perché l’infermiere diventa “vittima” delle proprie

emozioni? 4.2.1. Emotivamente in “gabbia”

4.2.2. Burn-out

4.2.3. Aspetti legislativi

4.3. Perché l’infermiere diventa “sopravvissuto” 4.3.1. Autostima e sviluppo delle capacità personali

4.3.2. Intelligenza emotiva

4.3.3. Empatia

4.3.4. Comunicazione ed ascolto

4.3.5. Counseling: un aiuto all’infermiere

4.3.6. Strategie di Coping

4.3.7. Formazione

CAPITOLO 5 - MATERIALI E METODI pag. LXXIII

5.1. Disegno 5.2. Setting 5.3. Popolazione 5.4. Ricerca e risultati 5.5. Discussione e conclusione

6. BIBLIOGRAFIA pag. LXXXIX

7. ALLEGATI pag. XCIV

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CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE

Questo lavoro di ricerca è nato dal desiderio di “comprendere” un importante e trascurato

aspetto della professione infermieristica. Spesso si tende al miglioramento delle abilità

professionali e tecniche, dando grande spazio alla razionalità e si privilegia la

alfabetizzazione logico-formale rispetto a quella affettivo-sentimentale.1 La vita dei

sentimenti, degli stati d’animo degli affetti è vista e vissuta come un ostacolo rispetto alla

logica cognitiva, un potenziale pericolo da arginare, incanalare e circoscrivere. Molti sono

i percorsi formativi che si occupano di aiutare l’ infermiere ad affrontare il paziente in

condizioni critiche e la sua famiglia, ma poco o nulla si è fatto per preparare gli operatori

ad affrontare i propri disagi emotivi. La vita emotiva degli operatori è stata presa in

considerazione solo negli anni Ottanta, quando apparvero in Italia le prime ricerche sul

burn-out, evidenziando così il “rischio” emotivo delle professioni sanitarie.2 Preso atto di

queste uniche certezze e spinta dal contatto con i miei colleghi, le loro paure, la loro

rabbia e le loro difficoltà, ho avuto il desiderio di capire meglio. Mi sono così interrogata

chiedendomi, “ma siamo vittime?”, vittime di noi stessi e dei nostri vissuti. La censura

emotiva ci impedisce di entrare in rapporto con l’esposizione quotidiana alla sofferenza,

generata dall’incontro e dalla vulnerabilità dell’altro, viene sentita come un peso eccessivo

ed intollerabile. Nei servizi è stato perciò assunto un modello di professionalità neutra ed

impersonale.3Questo clima di neutralità è condiviso dagli operatori, che mettono così tra

parentesi il loro coinvolgimento, considerandolo un handicap. Ma a fronte di tutto ciò

siamo in grado di “risorgere” emotivamente e considerarci dei “sopravvissuti”. A mio

parere sì, a patto che ci venga consentita una formazione adeguata, utile al riconoscimento

e all’elaborazione delle nostre emozioni, al rafforzamento dell’autostima e allo sviluppo di

una buona intelligenza emotiva. Per potere dimostrare se siamo “vittime” o “sopravvissuti”

ho elaborato un questionario per favorire momenti di riflessione e di discussione tra gli

operatori, per dar loro la possibilità di “guardarsi” dentro e di andare al di là della logica

puramente cognitiva.

1 Vanna Iori. “Strumenti” Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale “In lista per vivere” e

altre narrazioni autobiografiche tra famiglie e servizi. Guerini studio N° 9 Dicembre 2003 2 C.Cherniss. La Sindrome del Burn-out: lo stress lavorativo degli operatori dei servizi socio-sanitari.

Torino, Centro scientifico torinese, 1983 (2° ed. 1992) 3 Pisana Collodi. Il burn-out:una lettura a spirale, in G. Badolato (a cura), Le donne nelle professioni

d’aiuto. Una ricerca sul burn-out femminile, Torino,Borla,1993 p.47

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CAPITOLO 2 - SCOPO DELLA TESI Indagare il coinvolgimento emotivo degli infermieri nella relazione di cura

END POINT PRIMARI

- Definire l’infermiere come vittima delle proprie emozioni

- Definire l’infermiere come sopravvissuto alle proprie emozioni

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CAPITOLO 3 - BACKGROUND

L’infermiere come professionista è stato indubbiamente preparato, più all’ azione che alla

riflessione4. Intorno agli anni Novanta , anni della svolta, grazie ad una serie di

provvedimenti normativi, viene sancita l’autonomia e la responsabilità dell’infermiere5.

Questi traguardi hanno dato visibilità alla figura infermieristica. La volontà è stata quella di

definire la base cognitiva, intesa come l’insieme di conoscenze scientifiche, abilità

tecniche e metodologie razionali che allontanassero questa figura da una connotazione di

“mestiere” , avvicinandola invece a quella di professionista della salute. L’introduzione

dell’ Evidence Based Nursing come processo di autoapprendimento ha consentito il

diffondersi di una conoscenza basata sulla ricerca.”L’utilizzo della ricerca può essere

considerato come l’attuazione sistemica nel campo dell’ assistenza di un’ innovazione,

scientificamente fondata e basata sulla ricerca, accompagnata da un processo di

valutazione dei risultati conseguito a seguito del cambiamento” ( Buckwalter 1992).La

ricerca può favorire la conoscenza di fenomeni importanti, tra questi, la vita emotiva

dell’infermiere. E’ con l’apparire del termine “burn-out”,che viene configurata una

condizione di stress lavorativo riscontrabile con maggior frequenza tra i soggetti impegnati

in attività assistenziali: si tratta quindi di una patologia professionale particolarmente

rilevante per l’ area socio-sanitaria6. In un lavoro di cura, fondato sulla relazione tra le

persone e destinato a una persona per il suo benessere complessivo, è forte più che mai,

l’esigenza della cura di sé. Fare ciò che serve all’altro per il suo benessere , come

movimento che serve anche a sé.7

Oggi il lavoro di cura è un doppio movimento: infatti un buon rapporto con la propria vita,

con se stessi, pur nella fatica e nella sofferenza della ricerca, è condizione senza la quale

non si dà luogo a sopravvivenza umana e professionale dinanzi al dolore estremo.8 Chi

svolge un lavoro di cura affronta la necessità di continuare “a sentire”, nel senso che è

impossibile svolgere un lavoro con un alto contenuto di cura senza essere coinvolti sul

4 Professioni Infermieristiche: Aspetti Psico-sociali del Burn-out; 2005 5 D.ssa Angela Morsiani: Laurea in Scienze Infermieristiche Università di Modena e Reggio E.: C’è

differenza tra badante e un infermiere; 2001 : p.23 6 S.Tabolli, A.Ionni, C.Renzi,C.Di Pietro, P. Puddu: Soddisfazione lavorativa,Burn-out e stress del

personale infermieristico: indagine su due ospedali di Roma; Suppl.Psicologia; 2006: p.49-52 7 G. Colombo, E. Cocever, L. Bianchi: Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci e Faber: 2001 8 G. Colombo, E. Cocever, L’ Bianchi:Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci e Faber: Demetrio 2001 p. 20-21

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piano emotivo. Ciò che ingombra non è il sentire emotivo; ingombra il fatto che l’emotività

sia invasiva verso di sé. Siamo coinvolti in un lavoro emozionale ma si è ancora un po’

analfabeti rispetto al linguaggio delle emozioni. E’ una delle più forti ragioni per cui è

ormai chiaro che le persone che curano non vanno lasciate sole.

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3.1. LA STORIA DELL’INFERMIERE:

DALL’ABNEGAZIONE ALLA

CONSAPEVOLEZZA DELLE EMOZIONI

Il principio di solidarietà è parte integrante della cultura dell’uomo sin dagli albori della

sua comparsa sulla terra. Si parla di assistenza al povero e al malato come condizione

indifferenziata di soddisfazione dei bisogni di base per l’assenza di conoscenze scientifiche

in grado di descrivere, spiegare e prevedere l’evoluzione della malattia. L’assistenza

all’uomo trova la sua ragion d’essere, la sua concretizzazione culturale nel principio di

aiuto, solidarietà, come valore civile di qualsiasi gruppo umano9. L’uomo è da sempre “un

animale sociale” che ha, tra gli scopi essenziali della vita, quello di unirsi formando gruppi

e comunità, più o meno strutturati. E’ perciò dalla comunanza che nascono valori come

l’unione e l’aiuto reciproco e si dà luogo allo sviluppo del concetto di azione assistenziale.

In tale contesto si sviluppa il pensiero di assistenza. E’ rappresentata concettualmente da

quell’insieme di azioni, offerte da persone esterne, che permettono il superamento di

momenti difficoltosi che si presentano nel corso della vita degli individui. Questo aiuto

viene elargito nei momenti fisiologici della nostra vita dal momento della nascita, durante

la crescita, nella vecchiaia e nella morte, ma anche nei momenti patologici della nostra

esistenza, come ad esempio la malattia. E’ importante differenziare i momenti fisiologici

da quelli patologici. Tale differenziazione dà luogo alla diversità tra assistenza generale e

assistenza sanitaria. È da questo concetto che nasce la necessità di creare figure in grado di

fornire un’assistenza, non più fine a se stessa, ma regolata da un sapere, come quello della

disciplina infermieristica. La definizione di un simile pensiero per lungo tempo rimane

incompiuta, è una figura, quella dell’infermiere dal profilo “incerto” non del tutto

legittimata.10 L’ assistenza è inizialmente affidata a prostitute, ex detenuti, perché

occuparsi dei malati era ritenuto un lavoro “sporco”, “sgradevole”, adatto solo a

9 Dr.ssa G. Morsiani. 1° Lezione Laurea in scienze Infermieristiche: Che differenza c’è tra una badante e un infermiere. Università di Modena e Reggio E.; p.1 10 B.Longoni, G.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza; 1997 p.14

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determinate categorie di persone i ”reietti” della società. Le condizioni igienico- sanitarie

in cui versava la popolazione erano le peggiori, l’instaurarsi di malattie e pestilenze era

all’ordine del giorno. Con il trascorrere dei secoli e alle radici delle professioni sanitarie

sono nate anche associazioni filantropiche guidate da donne, soprattutto nobili e borghesi

che vogliono recuperare un ruolo sociale di utilità. Un notevole contributo viene dato dalle

istituzioni religiose , l’importanza dei centri monastici cresce notevolmente, diventano veri

e propri centri di sviluppo e trasmissione del sapere. Nascono così molti ordini religiosi,

femminili e maschili, che vedono nell’ assistenza al malato un buon modo per dar valore ai

voti religiosi, ma che rallentano la legittimazione dell’attività assistenziale intesa come

assistenza infermieristica, così da accentuare ancora di più l’idea che definisce la figura

infermieristica come figura “debole”.11”(…) in campo (…) assistenziale il personale

sanitario è in gran parte religioso. La formazione, la retribuzione, le competenze di questi

operatori sfuggono strutturalmente a qualsiasi controllo. Si può comunque presumere che

si tratti di persone con forti motivazioni alla dedizione e al sacrificio, disposte ad

occuparsi dei malati, degli anziani, degli handicappati e degli orfani con tutta la buona

volontà e l’entusiasmo che possono derivare da una scelta di spendere la propria vita per

il prossimo sofferente. Questo impegno personale e religioso può supplire a carenze di

competenze e comunque garantisce che ciò che viene messo a disposizione degli utenti (…)

è un aiuto morale “12. Altro elemento che non è stato d’aiuto all’instaurarsi di una

coscienza infermieristica e che ne ha permesso uno scarso riconoscimento, è il significato

simbolico riservato al termine di “cura”, spesso associato, se non identificato, con

l’universo femminile. Il femminile è stato a lungo, e per certi versi lo è ancora, soggetto a

una pesante svalorizzazione, che trova legittimazione nei dualismi che strutturano

l’impianto del paradigma di pensiero prevalente in Occidente. Infatti la cultura Occidentale

è ricca di dualismi concettualmente e radicalmente oppositivi: ragione/emozione,

mente/corpo, materia/spirito ecc. E’ su questi dualismi che grava una sensibile asimmetria,

poiché solo ad uno dei poli è riconosciuto un valore ( ragione, mente, spirito ecc.), mentre

l’ altro è svalutato, addirittura fatto portatore di un valore negativo. Il problema è che la

polarità negativa è identificata con il femminile , e con il femminile è identificato il lavoro

di cura. Inoltre la donna è vista come madre, come colei che ha la vocazione materna,

11 B.Longoni C.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza: 1997 p 14 12 Olivetti Manoukian, Franca: Stato dei servizi. Un’ analisi psicosociologica dei servizi sociosanitari; Il Mulino, Bologna 1988, p. 16

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perciò il risultato è di incatenare le donne nella concetto di offerta che si realizza solo

tacitando il proprio sé per dedicarsi all’altro.13 Molte similitudini si possono fare con la

concezione di lavoro infermieristico che si aveva sino a non molto tempo fa, quando l’

infermiera era vista come colei che doveva donarsi completamente all’altro in una sorta di

spinta vocazionale. A rafforzare questa concezione è stato il fiorire di innumerevoli scuole

a gestione religiosa, che avevano come presupposto di portare avanti il loro ideale di

devozione. Su tali convinzioni che vedevano il “curare” come sinonimo di accettazione,

completa sottomissione, totale abnegazione di sé, è ovvio che l’emotività del curante

veniva messa in secondo piano se non addirittura annullata. L’ infermiera è messa a dura

prova nel rapporto con l’altrui sofferenza: deve sapersi mantenere emotivamente distante,

per essere a completa disposizione di chi soffre, non può permettersi momenti di

riflessione per sé, di ascolto della propria interiorità. E’ il ruolo che ricopre che glielo

impedisce come da sempre le è stato insegnato, è ormai un idea radicata su anni di

pregiudizi del ruolo di chi cura, secondo la Kuhse ” la malattia è il nemico, l’infermiera è

il soldato (…) le virtù richieste sono dunque affidabilità, lealtà (…) e sacrificio di sé “. Ad

accentuare un simile concetto è stata anche la nascita del mansionario nel 1974 che ha dato

forza ai criteri di esecutività, di accettazione del proprio ruolo di inferiorità nei confronti

del medico, ma anche nei confronti di se stessa come figura marginale e come tale

assoggettata anche alle proprie emozioni. Chi, in un tale contesto ideologico, avrebbe

potuto, solo lontanamente, pensare alla propria vita interiore? all’infermiera era chiesto

solo di obbedire a un elenco molto sterile e tecnico di atti e regole ben stabilite, che le

impedivano ogni “fantasia lavorativa” pena l’esercizio abusivo della professione medica.

Ma l’infermiera non può restare sempre “bloccata” in questa immagine di sé, ad aiutarla ad

emergere da questa condizione di “subordinazione” emotiva e professionale c’è

innanzitutto l’ abrogazione del mansionario e della definizione di professione ausiliaria

rispetto a quella del medico. Viene riconosciuta all’infermiere una propria autonomia e un

proprio ambito di competenza su cui poter decidere, pianificare e valutare l’attività svolta.

In particolare si dà nuova importanza alla formazione con la nascita degli ECM. Questa

spinta formativa non ha fatto altro che centrare l’interesse anche su problematiche diverse

da quelle puramente tecnico-professionali. Cominciano a nascere corsi che si occupano di

aiutare l’infermiere ad affrontare se stesso, le proprie emozioni e l’elaborazione dei propri

13 Luigina Mortari: La pratica dell’aver cura , Bruno Mondatori 2006, p. 19-20

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vissuti. Questi percorsi formativi aiutano gli infermieri alla consapevolezza di se stessi

come persone inserite in un processo complesso e dai risvolti umani ed emotivi importanti

come quello di cura. E’ un argomento nuovo e di grande importanza che però non ha

ancora trovato i giusti consensi, soprattutto perché è l’infermiere stesso che ancora fatica

ad avere coscienza di se stesso come individuo capace di lasciarsi coinvolgere

emotivamente . Siamo di nuovo ancorati alla vecchia concezione di subordinati e

fatichiamo ad affermarci sia come professionisti che come soggetti inseriti in contesto

molto intricato, in cui ci viene chiesto sempre molto in termini di umanità e sensibilità. Ma

un grande passo è già stato fatto in particolare perché finalmente se ne parla, cosa che non

accadeva prima, si è sempre considerato motivo quasi di vergogna che, chi svolge il nostro

lavoro, possa avere momenti di sconforto e di debolezza, possa insomma, avere dei

sentimenti.

3.2 PERCHE’ SI SCEGLIE IL LAVORO DI CURA:

ASPETTI PSICOLOGICI

Vanna Iori (2003) ha ipotizzato che la scelta del lavoro di cura racchiuda in sé motivazioni

di stampo sado-masochistiche, contenenti elementi predatori, mascherati da motivazioni

ideali. Può apparire come una frase forte, che però crea spunti di riflessione piuttosto acuti.

E’possibile che qualcuno scelga il lavoro di cura, che per certi versi è permeato da elementi

quasi romantici che richiamano al materno, al familiare, per continuare a rivivere

situazioni “quasi perverse” grazie al contatto con la sofferenza altrui. “ E’ rischioso

affrontare il lavoro di assistenza alla persona con un bagaglio di sofferenza personale

troppo grosso “14. Bisogna, inanzitutto, partire dal concetto di cura. Tutti hanno necessità

vitale di ricevere cura e di avere cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di

14 B. Longoni, C. Perucci: “Noi ci siamo, guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza”; 1993 p. 177

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esistere: “Senza relazioni di cura la vita umana cesserebbe di fiorire. Senza relazioni di

cura nutrite con attenzione, la vita umana non potrebbe realizzarsi nella sua

pienezza”15

.La cura in ambito sanitario, in particolare nel nursing prende il termine più

appropriato di relazione d’aiuto e Carl Rogers definisce la relazione d’aiuto: “Una

relazione in cui una dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo

sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato

(…); una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le

parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto e una maggiore

possibilità di espressione”16

.La relazione professionale d’aiuto è un rapporto dinamico che

si basa sull’interazione tra due o più persone delle quali una delle due si trova in una

situazione di difficoltà. Chi porge aiuto racchiude in sé interessi e competenze che per

entrambe le persone coinvolte hanno anche dei risvolti emozionali. Chi aiuta necessita di

un’adeguata preparazione sia dal punto di vista tecnico-cognitivo sia psicologico

relazionale. Terminate queste premesse è opportuno continuare a spiegare il perché si è

portati verso una scelta così dispendiosa in termini emotivi come quella dell’infermiere.

Non è mai per caso che si valuta l’idea di optare per un lavoro di cura, c’è sempre una

motivazione che ci spinge. Sappiamo bene di avere delle risorse, dell’energia, dei

sentimenti da investire in un rapporto d’aiuto, oltre ovviamente alle capacità fisiche di

offrire le nostre prestazioni. Allora ci si chiede da dove possa venire tanta volontà.

Certamente dai nostri valori, da ciò in cui crediamo, dall’importanza che ha la vita per noi

e dal ruolo che rivestono le persone nell’ ambito dell’esistenza. E perché scegliere un

utenza così particolare, formata da persone sofferenti, anziane o disabili? Tutto ciò ha

senz’altro radici profonde che vanno ricercate nella nostra storia personale, nelle vicende

familiari, negli incontri che abbiamo fatto e che hanno rappresentato per noi qualcosa

d’importante e significativo. Spesso non è solo una motivazione iniziale di stampo

puramente umanitario a spingerci nella scelta ma anche una motivazione, se vogliamo più

razionale o addirittura casuale. Tali obbiettivi però sono destinati a trasformarsi in

qualcosa di più profondo che trasforma la logicità in un rapporto di tipo

affettivo/relazionale. Non basta certo una motivazione puramente razionale per riuscire ad

affrontare un lavoro emotivamente così impegnativo. Dobbiamo inoltre renderci conto che

15 Groenhout, 2004, p.24. 16 G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “Counseling e professione infermieristica : teoria,tecnica,casi”; 2004 p.57

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essere utili agli altri ha il suo “tornaconto” si viene a creare una situazione di reciprocità. “

In particolare, ciò che può essere a questo livello fondamentale, per un’interpretazione

ingenua e semplicistica, è il livello di consapevolezza relativamente ad un ovvio

coinvolgimento e ad un “tornaconto” nell’azione messa in atto. Lungi dal rivelare una

posizione egoistica, coloro che sono in grado di dichiarare che l’azione messa in atto

risponde anche a dei bisogni propri mostrano una percezione più completa del proprio

agire. (…) si potrà essere tanto più solidali con gli altri, nei termini della reciprocità

sopra descritta, quanto più si darà spazio alle esigenze intime e profonde proprie, che

necessariamente saranno attivate. (…).La posizione di reciprocità vede compresente il

proprio e l’altrui bisogno e spiega l’ambivalenza sempre presente in campo relazionale.

Infatti, se il riferimento solo a sé è sintomo di posizione egocentrica, l’altruismo “puro” è

anch’esso sospetto, perché tende a nascondere l’altra faccia della medaglia: l’individuo è

portato ad attribuire ad “alter” bisogni suoi e a non vedere i propri.17

Può essere

rischioso affrontare un lavoro di cura quando si è particolarmente provati dal punto di

vista emotivo e umano, perché si è portati ad orientare l’azione più verso se stessi, e nel

tentativo salvifico di aiutare gli altri a risolvere i loro problemi si vuole, in realtà, superare i

propri. Quello che viene definito come un’ atteggiamento di “Oblatività coatta”

(compulsive careging) definita in accordo con Bowlby, 198018 come un prendersi cura

intensamente e spesso eccessivamente, del benessere degli altri, con le problematiche

emotive che essa comporta. L’istanza motivazionale a prendersi cura degli altri nell’ipotesi

di Bowlby (1980) è legata ad esperienze infantili di dolore, che vengono affrontate

occupandosi del dolore altrui, piuttosto che elaborando la propria sofferenza , oppure all’

esperienza infantile di richiesta di cura da parte del genitore, incapace o impossibilitato di

fornire lui cura al bambino. In una interessante indagine condotta da Phillips (1997)19 la

tendenza ad occuparsi degli altri è stata per l’appunto messa in relazione ad esperienze

infantili di dolore. Un’altra domanda interessante da porsi unita ad una riflessione è come

mai il lavoro di cura è spesso prerogativa del sesso femminile? Le donne sono gli attori

privilegiati dello scenario della cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono

lavoro di cura nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura per i

17 Bramanti, Donatella : Soggettività e senso nell’agire volontario, 1989,p.160-162 18 Bowlby J. Attachment and loss, Vol. III Loss sadness and depression. London: Hogard Press; 1973 ( Tr. It. Attaccamento e perdita, Vol. III. La perdita, Torino Boringhieri;1983) 19 Phillips P. A comparison of the reported early experiencies of a group of student nurses with those of

a group of people outside the helping profession, 1997; 25: p.412-420.

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loro familiari ( Colombo, 1995 ). E’ naturale pensare alla donna come colei che si occupa

della cura e biologicamente legata ad essa in quanto madre, essa è naturalmente più

coinvolta emotivamente. Il motore che spinge una donna alla scelta del lavoro di cura è

spesso dovuto alla continuità tra lavoro sociale e lavoro familiare, da ciò deriva il rischio di

un grosso coinvolgimento personale, per cui la fusione tra lavoro e vita privata può

diventare pericoloso perché viene persa di vista la realtà che richiede la scissione dei due

ruoli. Altresì la donna senza famiglia, il più delle volte, sceglie il lavoro di cura perché è

geneticamente predisposta ad occuparsi di qualcuno ed è questa motivazione che la spinge

a canalizzare questo desiderio di famiglia e di maternità nell’espressione della cura. Cosa

spinga poi il sesso maschile a tale scelta può non essere facilmente intuibile. Ancorati

come siamo ai falsi pregiudizi, secondo cui l’uomo rappresenta l’ideale di persona forte,

autosufficiente e virile, tutto ciò si troverebbe in netto contrasto con il lavoro di cura,

inteso sin qui come professione “tutta al femminile”. Senza alcun dubbio, al di là delle

considerazioni pregiudiziali, le motivazioni che spingono l’uomo a tale scelta d’impegno,

sono senz’altro da ricercarsi negli stessi valori che hanno spinto le donne e di cui si è

parlato all’inizio: riconoscere la vita dell’altro come un valore e dare importanza alla

propria storia personale ricca di vissuti e di incontri significativi. La soggettività

individuale, la storia del singolo, i suoi progetti esistenziali si intrecciano inevitabilmente

con quelli professionali motivandone il più delle volte scelte e stili20. I vissuti esperienziali,

presenti in ogni persona con caratteristiche soggettive e oggettive, insieme a fatti spiegati

dalle scienze umane, ne condizionano la vita. Le esperienze dell’angoscia, della precarietà,

del dolore,del tempo, dell’incertezza, dello smarrimento, della tristezza, della gioia, della

paura, della solitudine… sono le esperienze più profondamente soggettive e

contemporaneamente le più universali. Si situano ad un livello di conoscenza “vissuta” che

precede ogni spiegazione razionale.

L’ Erlebnis (il vissuto esperienziale) si configura quindi come “chiave di lettura” basilare

per superare i limiti dell’oggettivismo nell’indagine dei fatti e delle scelte umane,

consentendone una comprensione dall’interno, in quanto vissuti (Husserl, 1981, pp.41).

Comprendere la connotazione emotiva che è presente in ogni esperienza di vita è

necessario per intuire quale sia il progetto e la scelta professionale che si è fatti.

20 V. Iori Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, 2003 p. 209

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XVII

CAPITOLO 4. L’INFERMIERE: “ VITTIMA O SOPRAVVISSUTO”

UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI.

L’ infermiere all’ interno del suo ruolo, come già abbiamo detto, è sottoposto ad un carico

emotivo gravoso e affaticante. Il lavoro di cura o specificamente la relazione d’aiuto

richiedono un enorme dispendio d’energie emotive e risorse personali. Se viene meno la

nostra capacità d’elaborazione e se i sentimenti, piuttosto che la razionalità, prendono il

sopravvento, ecco che siamo di fronte, a quello che viene definito un infermiere “vittima”.

Il coinvolgimento emotivo eccessivo può diventare una trappola invece che una risorsa, se

mal gestito, può travolgerci sino all’inevitabile insorgenza del burn-out. Le “nobili”

motivazioni, che inizialmente ci hanno portato a scegliere un lavoro di cura, vengono meno

e la demotivazione, unita allo scoraggiamento che le accompagna, prendono il posto delle

buone intenzioni. Dobbiamo riuscire con la formazione a vincere ed eliminare la possibilità

che queste situazioni possano insorgere. Certo è la formazione l’unico mezzo che ci è

disponibile, unito alla volontà della consapevolezza. Bisogna impegnarsi affinché questo

accada. La formazione è conoscenza e la conoscenza porta alla crescita dell’individuo

come entità. L’individuo si riconosce e anche l’infermiere nel suo ruolo impara che è una

figura rilevante all’interno dell’organizzazione sanitaria. E’ per questo che ha il diritto di

essere formato, il dovere di informarsi e di crescere, di diventare appunto “sopravvissuto”,

libero di provare emozioni e sentimenti che non lo coinvolgano negativamente, ma che lo

aiutino ad essere migliore per sè stesso come professionista della cura, ma anche per gli

utenti che affronta quotidianamente.

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XVIII

4.1. LE EMOZIONI E I SENTIMENTI

Ora ci accingiamo a descrivere in modo più dettagliato qual è il significato delle emozioni

e dei sentimenti. Essi sono parte integrante della vita dell’uomo come essere sociale.

Inevitabilmente, all’interno di una relazione tra due o più persone, emergono emozioni e si

sviluppano sentimenti. Sono importanti per vivere e qualcuno li ha definiti “il sale della

vita”. Senza di essi saremmo individui a metà perciò incompleti. Sono indispensabili per

dare motivo e valore alla nostra esistenza. E quale situazione è più idonea per collocare le

emozioni se non quella rappresentata dalle relazioni d’aiuto? In questo contesto che vede

coinvolte diverse figure, l’infermiera, il paziente, i suoi familiari e l’equipe’ è naturale

emergano situazioni dal forte impatto emozionale. Le dinamiche in esso contenute sono

molteplici e consentono in modo inequivocabile l’instaurarsi di situazioni ricche di

emozioni coinvolgenti e spesso destabilizzanti.

4.1.1. LE EMOZIONI

Le emozioni sono una caratteristica presente in tutti gli esseri viventi che implica una

reazione cognitiva e fisica, prevalentemente improvvisa, ad uno stimolo. Quindi, sono

intese come uno stato affettivo di tipo fuggevole.21

I primi studi sulle emozioni sono stati fatti da filosofi o naturalisti. Già Cartesio, nel 1649,

distinse altre qualità umane contrapposte alla razionalità, e cominciò a parlare di emozioni,

“ Le emozioni hanno la funzione di incitare l’anima a volere le cose a cui esse

predispongono il corpo; (…) esistono sei passioni primitive, le altre emozioni sono una

mistura di queste”.22 Per lui sono qualcosa che ci mette in contatto con una serie di

automatismi e di comportamenti più semplici di quelli che - secondo il suo dualismo -

sono diretti da un’anima capace di risposte di tipo cognitivo, ossia di tipo più elevato

rispetto alle emozioni. Quindi Cartesio introdusse la separazione tra la ragione e

l’emozione. Tuttavia solo nell’ottocento con Charles Darwin, le emozioni acquistano un

rilievo scientifico delineando un modo nuovo di interpretare il cosiddetto rapporto mente-

corpo. Egli manifestò il suo pensiero all’interno di un ampio ed accurato trattato dal titolo

21 Estratto da internet: http://it.wikipedia.org/wiki/Emozione. Da wikipedia l’enciclopedia libera 22 S. Obinu: “Cartesio, le passioni dell’anima”, 2003, p.478

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“ L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. L’interpretazione scientifica di

Darwin si basa sulla teoria dell’adattamento, egli sostenne che le emozioni rappresentano

la prima risposta di un individuo all’ambiente circostante, permettendo una pronta ed

efficace risposta dell’organismo in circostanze critiche e assumendo quindi un’importante

significato “adattivo” (concetto utilizzato in campo evoluzionistico) legato alla

sopravvivenza.23 Ritenne che molte delle espressioni facciali avessero un significato

“adattivo”, utile ad esprimere , senza bisogno di parole, lo stato d’animo del soggetto : ad

esempio mostrandosi impaurito poteva segnalare una situazioni di pericolo, utile alla

salvaguardia di se stesso e del clan di appartenenza. Darwin, grazie ad alcuni studi

effettuati su diverse popolazioni indigene, nel tentativo di stabilire se le emozioni fossero

innate o acquisite, arrivò alla conclusione che esisteva una base comune nelle espressioni

caratteristiche di ogni emozione nei vari popoli e che pertanto bisognava ritenere innata

questa capacità. Con le sue intuizioni è stato il primo a creare le basi del concetto di

emozioni, a dar loro un significato e un’ interpretazione in termini di utilità e di

comunicazione.24 A suffragare gli studi di Darwin ci fu anche lo psicologo canadese Paul

Ekman che, insieme a Friesen ed Ellswort si prefissero di studiare: felicità, rabbia, paura,

tristezza e sorpresa, in particolare su alcune popolazioni della Papua Nuova Guinea.

Insieme scoprirono che una caratteristica importante delle emozioni primarie è data dal

fatto che vengono espresse da ogni essere umano in ogni luogo, di qualsiasi cultura ed

etnia, attraverso modalità simili. Da ciò possiamo notare l’importanza che ha il linguaggio

non verbale, che generalmente ha una valenza maggiore di quello verbale, rafforza la

comunicazione, ed è in grado di anticipare quello verbale. Altri ricercatori si sono occupati

di emozioni. James nel 1884, facendo riferimento ai processi neurofisiologici, ha definito

l’emozione come “il sentire” elaborando la “Teoria periferica”, secondo cui un evento

emotivamente coinvolgente darebbe origine ad una serie di reazioni viscerali e

neurovegetative che percepite dal soggetto sarebbero all’origine dell’esperienza emotiva.

Ecco che l’evento emotigeno non è più semplicemente percepito ma anche emotivamente

sentito.25

Al contrario James e Lange producono una “teoria somatica”, secondo cui “ i

cambiamenti corporei seguono direttamente la percezione del fatto eccitatorio, e che il

sentimento dei cambiamenti stessi al loro manifestarsi è l’emozione”. Cannon nel 1927 ha

23 C. Darwin, “Expression of the emotion in man and animals”, 1872 24 A. Ragaglini, “Psicologia e scienze dell’educazione”,1998, p. 302-303. 25 W. James, “ What is an emotion?”, 1884,9, p.188-205

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proposto una “Teoria centrale delle emozioni”.Tale teoria collocherebbe i centri di

regolazione e controllo delle emozioni, non nelle vie periferiche, ma bensì, nella regione

talamica, i cui segnali nervosi, sono in grado sia di indurre le manifestazioni espressivo-

motorie, sia di determinare le componenti soggettive tramite le connessioni con la

corteccia cerebrale.26 Cannon coniò il termine di “reazione d’allarme” indicata come la

complessa reazione viscerale che avviene in concomitanza alle esperienze emotive e

soprattutto nelle situazioni pericolose per la sopravvivenza e l’integrità dell’organismo,

finalizzata a preparare le migliori condizioni per al lotta o per la fuga.27 Sono apparse in

seguito la “Teoria cognitivo attivazionale” di Schachter del 196228, secondo cui

l’emozione è il risultato dell’interazione fra due componenti: una fisiologica ed una

psicologica, tale concezione individua nell’elaborazione cognitiva un aspetto importante

dell’ esperienza emozionale. Una definizione condivisa dalla maggior parte degli studiosi è

che l’emozione, sia quando viene attivata dall’esterno da stimoli sensoriali, ad esempio il

piacere legato al gusto di un buon pasto, sia quando si manifesta come risposta ad un

evento, ad esempio l’incontro inaspettato con un vecchio amico, sia quando viene attivata

dall’interno attraverso ricordi o processi cognitivi, si presenta sempre come una forza

organizzatrice e propulsiva per pensieri ed azioni successive.

I ricercatori concordano sul fatto che i fenomeni emozionali siano il legame centrale tra

una persona, i suoi bisogni interiori ed il suo mondo esterno. Da alcuni studi recenti fatti da

Robert Plutchik29 le emozioni vengono identificate come otto emozioni primarie, divise in

quattro copie:

- la rabbia e la paura;

- la tristezza e la gioia;

- la sorpresa e l’attesa;

- il disgusto e l’accettazione;

26 W. B. Cannon, “ The James-Lange theory of emotion: a critical examination and an alternative

theory”, American Jounal of Psicology,1927, 39, p.106-126 27 W.B. Cannon, “Bodily chances in pain, hunger, fear and rage”, 1911 28 S.Schacheter, J.Singer “Cognitive, social and physiological determinants of emotional state”, Psychological Review, 1962, 69, p.379-399. 29 R. Plutchik “ The nature of emotion”, American Scientist, 2001.

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Secondo alcuni autori, dalla combinazione delle emozioni primarie derivano le secondarie

o complesse:

- l’allegria;

- la vergogna;

- l’ansia;

- la rassegnazione;

- la gelosia;

- la speranza;

- il perdono;

- l’offesa;la nostalgia;

- il rimorso;

- la delusione;

Terminata l’analisi della storia delle emozioni e delle teorie ad esse correlate, ci

accingiamo a ribadire, quanto le emozioni diano colore e sapore all’esistenza, anche se in

una civiltà come la nostra, fondata sulla ragione e il tecnicismo, spesso sono considerate

con sospetto e timore. Non potrebbe essere altrimenti, perché se la ragione permette

all’uomo il dominio su se stesso e sulle cose, le emozioni rappresentano l’esatto contrario,

ci fanno agire d’impeto e sono incontrollabili. Eppure, sono le emozioni a motivare molti

agiti e, se sono positive, ci aiutano a superare il contatto quotidiano con la sofferenza, se

sono negative diventano spunto di riflessione, per se stessi e i componenti dell’equipe.

Possiamo inoltre aggiungere che sono state internazionalmente riconosciute, nelle varie

fasi lavorative dell’infermiere, sei fra le emozioni conosciute : felicità, rabbia, tristezza,

paura, disgusto e sorpresa. Ora di seguito andremo ad analizzarle brevemente.

LA FELICITA’

L’etimologia della parola fa derivare felicità da: felicitas, deriv. felix-icis “felice”, la cui

radice ”fe-“ significa abbondanza, ricchezza e prosperità. La nozione di felicità, intesa

come condizione ( più o meno stabile) di soddisfazione totale, occupa un posto di rilievo

nelle dottrine morali dell’antichità classica, tanto che qualcuno le ha definite come dottrine

etiche eudemonistiche (dal greco eudaimonia) solitamente tradotto come felicità. Epicureo,

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in una lettera sulla felicità a Meneceo, lo ravvisa sul fatto che non c’è età per conoscere la

felicità: non si è mai né vecchi né giovani per occuparsi del benessere dell’anima. La

“Felicità” in quanto “Soddisfazione per la propria vita” rappresenta l’aspetto soggettivo più

importante e significativo della Qualità della Vita. La “Felicità” è un problema che l’

umanità si è posta da molto tempo e come è noto, si trova presente in larga misura in quasi

tutte le formulazioni filosofiche (Donati,1984).29 Dal punto di vista di psicologi, psichiatri

e medici il problema della felicità, che nell’ accezione comune ha una dimensione

squisitamente personale e spirituale, può essere inglobato utilmente nel più ampio concetto

di Qualità della Vita , si può considerare che ne rappresenti l’essenza soggettiva. In sintesi

si può affermare che la maggioranza degli Autori, pur con accenti diversi, accettano,

contrapposto alla Quantità, il concetto di Qualità della Vita con una dimensione

sociologica e una psicologica. Qualità determinata cioè da fattori oggettivi e da fattori

soggettivi, però intrinsecamente interdipendenti o dialetticamente connessi. Secondo

Argyle il maggior studioso di questa emozione, la felicità è rappresenta da un senso

generale di appagamento, Argyle e Martin (1991) definiscono la felicità come uno stato di

gioia e uno stato di soddisfazione. Il primo è un’emozione, il secondo una cognizione,

risultato di riflessione e giudizi di valore.30 La felicità è anche legata al numero e

all’intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento e

processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia. ( D’Urso e

Trentin, 1992). Ma chi è l’individuo felice? Secondo Argyle e Lu (1990) la persona

estroversa è più felice perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa

ad un maggior numero di attività pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi di

interesse e divertimento. Inoltre la persona felice è anche una persona che sta bene con se

stessa e che ha fiducia nelle sue capacità e percepisce una fondamentale congruenza tra ciò

che è e ciò che vorrebbe essere. Gli stati d’animo positivi possono influire in modo

considerevole sia sul comportamento sia sui processi di pensiero rendendoli maggiormente

adeguati e funzionali alle situazioni di vita dell’individuo. Inoltre, per quanto riguarda gli

aspetti cognitivi, il buon umore ha effetti positivi anche sulle capacità di apprendimento (

Ellis, Thomas e Rodriguez, 1984; Ellis, Thomas McFarland e Lane, 1985).Vi è però da

osservare che l’attitudine alla felicità, alla soddisfazione e all’ottimismo, cioè ad uno stile

29 P. Donati: “Risposte alla crisi dello stato sociale”. Milano: Franco Angeli. 1984. 30 M. Argyle e M. Martin:”The Psycological causes of happines”. In F. Strack, M. Argyle e N. Schwartz (Eds).Subjective well-being . p 77-100. Oxford: Pergamon Press.

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cognitivo che porta a questi stati psichici, è nella storia di un individuo una caratteristica

assai stabile in età adulta. Secondo le teorie contemporanee ( tra cui Giuliana Proietti) la

felicità è provare ciò che esiste di bello nella vita. Non è un’emozione oggettiva ma una

capacità individuale, non è casuale come un evento del destino ma è una capacità da

scoprire ed imparare. Bisogna imparare ad essere felici.

LA RABBIA

“Come tutte le emozioni, la rabbia non è mai giusta, o sbagliata: c è, e bisogna prenderne

atto, comprenderla, e gestirla al meglio. Chi riesce a mettere la sordina alla rabbia, non

sempre ne ricava benessere, perché si tratta di un segnale molto importante: che qualcuno

o qualcosa sta calpestando il nostro Io ( Dott. Luigi Mastronardi psicologo e filosofo)”

La rabbia è un’ emozione specifica che nasce da un senso di frustrazione, impotenza e

oppressione che si manifesta attraverso aggressività rivolta verso gli altri, se stessi o verso

oggetti. In quanto insita nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata nei

fondamentali meccanismi della sopravvivenza; essa, come il dolore e la gioia, è una delle

emozioni più precoci.31 Si manifesta quando si ritiene siano stati calpestati i propri diritti o

violati i propri valori. La rabbia quindi è una reazione che consegue ad un determinato

stimolo e si manifesta attraverso l’impellente necessità di attaccare l’oggetto frustrante.

Quando siamo arrabbiati avvertiamo un disagio e una tensione crescente che sentiamo di

dover “scaricare” al più presto per trovare uno stato di benessere, una sorta di acme

raggiunto che deve necessariamente regredire al fine di poter trovare equilibrio. E’ da

considerarsi fondamentalmente un’ emozione distruttiva “Ogni emozione che causa danni

a noi stessi o agli altri è un’emozione distruttiva (…) la rabbia rende ciechi (…)sono le

emozioni distruttive, quelle che limitano al libertà dell’ uomo”32 L’eccessivo sfogo delle

proprie emozioni e il mancato controllo della rabbia può arrecare conseguenze negative a

se stessi e agli altri: prendere tutto come un attacco personale, sentirsi messi in discussione

solo per la scortesia di un familiare, di un paziente o di collega è l’inizio dell’iter che

percorriamo ogni qualvolta si innesca il meccanismo della “rabbia”. “ Ben più gravi sono

gli effetti prodotti in noi dall’ira e dal dolore, con cui reagiamo alle cose, che non quelli

31 Estratto da internet: http://www.medicinalive.com/ psicologia e medicina della mente, 2008. 32 D.Goleman, T.Gyatso (Dalai Lama):”Emozioni Distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente:

rabbia, desiderio e illusione”, Mondatori, Milano; 2003.

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prodotti dalle cose stesse, per le quali ci adiriamo o ci addoloriamo ( Marco Aurelio,

imperatore romano, 121-180 )”. Una delle tante spiegazioni che si danno alla rabbia è

riferita ad un passato lontano, a fantasmi che appartengono alla nostra infanzia. Secondo la

maggior parte degli studi effettuati al riguardo, i casi più frequenti di mancato

autocontrollo sono stati identificati in soggetti che hanno avuto genitori critici, intolleranti

e svalutanti. La soluzione non è sicuramente accusare mamma e papà, ma nel recuperare il

bambino che è in noi e fargli fare pace con la nostra parte adulta. Il primo passo per cercare

di allearsi con la propria rabbia è ascoltarla bene, e cercare di capire chiaramente il suo

messaggio: dove ci sentiamo colpiti, cosa vorremmo. Una volta definita, con calma, la

posizione che noi riteniamo più adeguata, possiamo affermarla con assertività.

LA TRISTEZZA

Anche la tristezza fa parte delle emozioni primarie, associata generalmente a situazioni di

perdita (simbolica o reale), non solo riferita ad un lutto per la morte di una persona cara,

ma legata anche alla perdita di un ruolo, di un valore morale, alla lontananza improvvisa di

una figura d’ attaccamento importante , un genitore, un fratello ecc. Secondo Izard e

Terrine, uno degli effetti della tristezza è il rallentamento dei movimenti come pure

dell’attività mentale. L’antecedente della tristezza è sempre riscontrabile in situazioni che

comprendono una situazione di separazione e di perdita. La tristezza quindi è un’emozione

negativa, suscitata da un evento spiacevole, dall’incapacità di far fronte alla minaccia o al

pericolo esterno, nonché dalla percezione della propria impotenza. L’espressione “triste”,

caratterizzata da espressione mesta, volto abbassato, rima labiale rivolta in giù e spalle

ricurve, è più fugace rispetto al sentimento di tristezza. Sebbene l’espressione

caratteristica di questa emozione possa comparire anche per pochi secondi, il sentimento

tende a durare più a lungo.33 La comunicazione della tristezza nella sua forma passiva e

silenziosa, rispetto ad altre emozioni, quali felicità, paura e disgusto segnala uno “stato

nullo di attività relazionale”34, in questo caso la mancanza di attività è essa stessa una

modalità relazionale, allo stesso modo in cui lo sono gli atti di dirigersi, rifiutare e opporsi.

“ Nel comportamento emotivo c’è una continua, mutevole oscillazione tra il lasciarsi

33 A. Garrese: “I volti della tristezza: un’analisi psicologica” edito da Liguori 34 N. H. Frijda: “Emozioni” cit. p.44

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andare e il contenersi; il reagire e l’agire di propria iniziativa, l’assumere il controllo ed

essere controllati, in risposta agli eventi esterni come anche alle variazioni interne nelle

proprie inclinazioni”35 La tendenza all’azione caratteristica della tristezza comprende, ad

esempio, il sentirsi impotenti che denota l’incapacità di sfruttare le opportunità positive

presentate dall’evento o di affrontare quelle negative; l’ ipoattivazione ( il sentirsi apatici,

senza alcun interesse ). La tristezza con la rabbia, la paura e la felicità, sono emozioni

fondamentali. L’aggettivo “fondamentale” sottolinea il fatto che “nell’uomo queste quattro

risposte emozionali mediano in maniera efficace il rapporto tra organismo e ambiente

permettendo un continuo confronto tra le esigenze biologiche e le esigenze sociali

dell’individuo”36 La tristezza tende a suscitare l’aiuto e il conforto degli altri. Un volto

triste fa nascere in noi, il desiderio di aiutarlo. “ L’espressione della tristezza è un richiamo

automatico per l’empatia e relazioni amichevoli”37 La tristezza sembra un’emozione

socialmente desiderabile, necessaria, specialmente quando si tratta di una grave perdita.

Nel lutto, le espressioni pubbliche di dolore e di tristezza sono previste o addirittura

incoraggiate.38 Pensiamo ad un reparto di degenza ospedaliera dove tutto ciò accade quasi

ogni giorno. Sono diverse le modalità per esprimere la tristezza. Alcuni la manifestano in

modo realistico accettando la perdita ed elaborando il lutto, ma altri, facendo appunto

riferimento a ciò che dice Parkers, rivelano in modo piuttosto visibile il loro dolore

esternando emozioni che vanno al di là della semplice tristezza, che implica rassegnazione

ed apatia, ma mostrando momenti di autentica disperazione unita a vere e proprie

esplosioni di rabbia, perché non si accetta la realtà, specie se la perdita è stata improvvisa e

non si è avuto il tempo per prepararsi ad essa.

LA PAURA

La paura è una delle emozioni primarie importanti per la sopravvivenza. E’ un campanello

d’allarme, una reazione di fronte ad un pericolo. Per l’uomo la paura riveste un valore

ambivalente, oscilla tra istinto ed elaborazione culturale e si colloca nel cuore della nostra

vita psichica divenendo un determinante fattore di crescita o d’involuzione. “Ci serve per

strutturare il nostro mondo e la nostra vita. Chi dice di non avere paura è semplicemente

35 A. Garrese: “ I volti della tristezza: un’analisi psicologica” edito da Liguori. p. 86. 36 D. Galati “ Le emozioni primarie” Bollati, Boringhieri, Torino 1993, p.41. 37 C.E. Izard “ The Psycology of emotion” cit. p.198. 38 C. M. Parkers, “ Il lutto. Studio sul cordolio negli adulti “ Feltrinelli, Milano 1981.

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un incosciente, perché corre moltissimi rischi”(A. Oliviero Ferraris, 2002). Quando

appare, produce una serie di modificazioni corporee che predispongono alla fuga o

all’aggressione. Alterazioni fisiologiche e psicologiche, quali la tachicardia, la produzione

di adrenalina, l’aumento della pressione arteriosa, rendono l’individuo più vigile e pronto a

un intervento, all’azione.39 Secondo Joseph Toynbee “ Una civiltà si sviluppa in risposta

alle difficoltà che pone all’ambiente e alle sfide che l’uomo affronta per superarle: la

paura è uno degli incentivi a cautelarsi, e insieme a mobilitare le forze necessarie per

vincere la partita”. La paura viene confusa erroneamente con l’ansia e l’angoscia, in

quanto le manifestazioni fisiologiche le accomunano, ma mentre queste due emozioni sono

di carattere puramente soggettivo, la paura è provocata da un pericolo oggettivo. La paura

ha diversi gradi di intensità a seconda del soggetto: persone che vivono intensi stati di

paura hanno sovente atteggiamenti irrazionali e/o pericolosi. I diversi gradi di intensità

possono essere:

- Terrore: rappresentato da un evidente stato di paura, durante il quale un individuo

diventa confuso e viene attanagliato da un senso di elevato pericolo. Questo porta il

soggetto a non riconoscere più il “giusto” e lo “sbagliato”, portandolo quindi a

commettere azioni al di fuori di qualsiasi logica, ma dettate solo dall’istinto.

- Paranoia: psicosi di paura, relativa alla percezione di essere perseguitati.

- Panico: è la forma più grave di paura, in cui l’individuo prende coscienza di essere

a rischio di vita imminente ( spesso è causato da una fobia a qualcosa o qualcuno).

La paura peggiore è quella della morte, in quanto è da essa che ha origine la paura stessa,

dalla consapevolezza che siamo persone finite e che un giorno moriremo. E’ un elemento

irrisolvibile che crea tutte le altre paure.(A. Oliviero Ferraris, 2002). Pensiamo a quante

volte nella carriera di un infermiere si presenta l’incontro con la morte, e a ciò che essa

rappresenta in termini di coinvolgimento emotivo. Occorre familiarizzare col tema della

morte ed intendere la morte come un aspetto della vita, vale a dire: non considerare la

morte solo come “oggetto di studio”, ma considerarla come “presenza”, come “processo” e

non solo come un evento. L’evento è qualcosa che capita comunque; il processo è qualcosa

a cui ci si prepara.40 Ecco che la paura, se viene compresa e accettata, può cambiare il

proprio valore, può diventare in un certo senso più sostenibile.

39 V.Slepoj: “Capire i Sentimenti: Per conoscere meglio se stessi e gli altri”,1996.p99 40 O. Bassetti, R.Lesca “ L’Infermiere di fronte alla sofferenza ed alla morte”

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XXVII

IL DISGUSTO

Il disgusto è uno stato affettivo negativo evocato da stimoli repellenti. Le teorie

sull’origine biologico-evolutiva di quest’emozione sostengono che il disgusto può essersi

evoluto come una risposta d’accompagnamento al rifiuto di cibo pericoloso per la salute.41

Perciò a differenza delle altre emozioni il disgusto a per stimolo scatenante non un essere

vivente, ma qualcosa di inanimato rappresentato essenzialmente dal cibo. Il disgusto è

considerato un’emozione fondamentale, è riconosciuto universalmente nelle sue

manifestazioni e secondo l’interpretazione corrente ha la funzione di proteggere dal rischio

di entrare in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose. “Si

prova disgusto principalmente di fronte a stimoli sensoriali: vedere, toccare o essere

colpiti dall’odore di qualcosa che ispira repulsione, spinge ad allontanare dal proprio

campo percettivo l’oggetto disgustoso, distogliendo lo sguardo, scotendo le dita o

sputandolo se lo si è già messo in bocca” ( Garotti, 1992). Rozin e Fellon (1987), gli

psicologi che più recentemente hanno studiato l’emozione del disgusto, ritengono che

l’oggetto che scatena questa emozione sia quasi sempre di origine animale; può essere

un’animale vivo e integro ( come ad esempio uno scarafaggio), la parte di un essere

vivente ( come un arto amputato) o pezzi di origine animale ( come il sangue o le budella ).

Inoltre, nonostante si sia rilevato che gli oggetti che ispirano disgusto variano da cultura a

cultura più che da individuo a individuo, ne esistono alcuni, come feci, urine o muco, che

unificano tutti gli abitanti della terra in una repulsione unanime. Purtroppo si possono

cogliere da queste righe, alcune analogie con quella che può essere la sensazione di

disgusto che può essere innescata a contatto con il malato. La professione infermieristica,

da buona parte dell’opinione pubblica viene considerata spiacevole poiché si articola

intorno ad alcune manovre, che vengono considerate sgradevoli. In particolare ci

sentiamo dire “…io non farei mai il vostro lavoro…” frase accompagnata da sguardi di

vero e proprio disgusto. Un professionista della cura è abituato a sostituire il disgusto con

la compassione, a capire la situazione di bisogno in cui si trova colui che gli viene affidato.

Ad un infermiere in tali situazioni, sono richieste grande forza d’animo e capacità

41 Prof. D.Grossi Dipartimento di Psicologia Seconda Università di Napoli “Neuropsicologia delle

emozioni”

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empatiche che spesso impara grazie all’esperienza e che non gli vengono certo impartite

durante il periodo scolastico.

LA SORPRESA

La sorpresa è senza dubbio l’emozione più breve. Lo stimolo fa scattare immediatamente

la risposta. Se abbiamo il tempo di pensare, cioè di valutare a livello cognitivo l’evento,

allora non è più sorpresa. Inoltre la sorpresa è vissuta in modo soggettivo, dipende molto

dal nostro modo di valutare l’evento e dalla nostra disposizione d’animo. Così che di fronte

ad una stessa situazione potremmo arrabbiarci o sorridere. Poiché l’esperienza della

sorpresa è breve, seguita quasi sempre da un’altra emozione, il volto mostra una miscela

delle due emozioni. Così possiamo osservare sopracciglia alzate, che segnalano la sorpresa,

raggentilite dal sorriso che è senza dubbio un segnale di emozione positiva. Oppure le

sopracciglia rialzate della sorpresa possono apparire insieme con la bocca che invece è

stirata indietro, chiaro segnale della paura.42

4.1.2. I SENTIMENTI

La radice della parola sentimento, derivante dal latino medievale, è ancora riconoscibile

con il significato di “sentire”, inteso con un significato diverso da quello conosciuto

odiernamente. Leonardo da Vinci credeva che i muscoli ricevessero il sentimento dai

nervi, o Leopardi che chiamava i sentimenti principali la facoltà del vedere e dell’udire:

erano considerati sentimenti quelli che per noi oggi sono i sensi o le capacità di percepire

sensazioni a livello fisico, mediante gli organi di senso. Oggi il significato di sentimenti

non è più riferito ad una sensazione fisica, ma bensì ad uno stato d’animo, sono le

emozioni che danno origine ai sentimenti.”I sentimenti si producono unicamente quando

un sistema di sopravvivenza è presente in un cervello che ha anche la capacità di essere

cosciente. Nella misura in cui la coscienza è uno sviluppo tardivo dell’evoluzione, i

42 J.A.Russel, J. M.F.Dols, Erickson „Psicologia delle espressioni facciali“

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sentimenti sono arrivati dopo le emozioni (…) la capacità di provare sentimenti è

direttamente legata alla capacità di avere una coscienza di sé e il resto del mondo”43.

Kant (1724-1804) fu il primo a collocare il sentimento, accanto alla ragione e alla volontà,

tra le categorie fondanti la qualità umana. Al sentimento in particolare, attribuisce la

facoltà di giudicare un oggetto in base al piacere o dispiacere che suscita: una qualità del

tutto soggettiva, non generalizzabile. I sentimenti sono l’espressione di ciò che ci circonda

e che agisce direttamente o indirettamente su di noi. La maggior parte dei sentimenti è

controllata dal nostro subconscio e perciò ogni elemento esterno ci affligge anche

internamente, cioè una catena logica viene innescata dal nostro subconscio maturando così

risposte logiche non esprimibili con parole ma che si sviluppano all’interno della nostra

mente come concetti. I sentimenti sono qui, in noi, e lì, fuori di noi, e con i sentimenti

dobbiamo confrontarci per conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo

andando.44 “La facoltà intellettuale del comprendere si dimostra incapace di formulare la

natura del sentire in un linguaggio intellettuale, poiché il pensare appartiene a una

categoria incommensurabile con il sentire (…). A questa circostanza si deve il fatto che

nessuna definizione intellettuale sarà mai in grado di riprodurre, sia pure

approssimativamente,ciò che è specifico del sentimento”45.

4.1.3. LA DIFFERENZA TRA EMOZIONI E SENTIMENTI

La differenza fondamentale è nella durata. Emozioni e sentimenti sono contigui: non è

facile delimitarne i confini. E, tuttavia, si suole distinguere l’emozione dal sentimento per

le sue caratteristiche di breve durata e maggior intensità. Tante e varie emozioni vanno a

comporre un sentimento, ma non lo si può considerare come la semplice somma delle

emozioni, ma la risultante, in perenne evoluzione, di diversi stati d’animo che

interagiscono fra di loro, filtrati di volta in volta dal controllo critico, intellettivo, che

elabora i sentimenti.46 L’emozione come abbiamo già precedentemente chiarito , è fugace,

immediata e improvvisa, solo in seguito, quando entra a far parte di noi, diventa

sentimento. I sentimenti sono stabili, profondi, scaturiscono dal legame tra gli individui e 43 J. Le Doux: “Il cervello Emotivo. Alle origini delle emozioni” Baldini e Castoldi – Milano-; 1999, p. 129. 44 V. Slepoj. “Capire i sentimenti. Per conoscere meglio se stessi e gli altri. “ 1996, p.11. 45 C.G.Jung, “Tipi psicologici” ( Op. vol. 6). Boringhieri, Torino 1969-1993, p.482. 46 V. Slepoj: “Capire i sentimenti: per conoscere meglio se stessi e gli altri” 1996, p.17

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dai vissuti comuni. Le emozioni possono essere comprate e vendute, attraverso il

divertimento, l’eccitazione la novità il piacere ecc., i sentimenti debbono invece essere

costruiti, e successivamente, difesi.47 Il sentimento ha durata nel tempo perché è guidato

dai nostri valori, dagli scopi che vogliamo raggiungere nella vita. I sentimenti muovono le

persone a scelte e itinerari di vita, emerge la loro facoltà intenzionale, che pesca le proprie

energie nel mondo dei valori esistenziali. Intuitivamente si avverte ciò che è positivo o

negativo per l’individuo e la collettività, sulla base di un sentire che è connesso al piacere e

al dolore, alle radici stesse, corporee e biologiche della vita.

Il sentimento, infatti, oltre che dalle emozioni, è motivato anche da un preciso

orientamento cognitivo sui valori che si attribuiscono all’oggetto, alla persona, alla

situazione per i quali si prova un determinato sentimento. L’emozione va racchiusa nella

sfera irrazionale nell’agito di un individuo, mentre al sentimento viene riconosciuta la

facoltà di attribuire valore ad un oggetto, una situazione, un evento è perciò da

considerarsi incluso negli agiti della sfera razionale. I sentimenti sono componenti

intelligenti delle vita cognitiva, che possono guidare a una più profonda comprensione

delle cose. Perché la vita della mente, e con essa l’intero nostro modo d’essere nel mondo,

si nutre di sentimenti.

4.2. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “VITTIMA” DELLE

PROPRIE EMOZIONI?

L’infermiere, all’interno del proprio operato, può facilmente diventare “vittima” quando si

lascia coinvolgere in modo inappropriato dal punto di vista emotivo. Si allontana da sé

stesso, non sa gestire ed elaborare le emozioni. Si lascia travolgere dagli eventi quotidiani.

Diventa per molti aspetti una sorta di individuo “incudine”, sulla sua figura si abbattono

innumerevoli eventi. Nel suo lavoro sono presenti molti attori: il paziente, i familiari e i

colleghi, ognuno con il suo bagaglio di problemi, aspettative ed esigenze. Il professionista

della salute si sente spesso solo di fronte a tante sollecitazioni, tende a richiudersi in un

isolamento emozionale che inevitabilmente si ripercuote su ciò che lo circonda, ma in

particolare su se stesso. Cosa ancor più preoccupante è che spesso, tali vissuti, vengono 47 V. Masini: Art. Tratto da “ Gli attentati ai sentimenti“ Counseling psicologico w.w.w.incanta.it

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portati all’interno dei rapporti personali come gli affetti e le amicizie, che invece di

rappresentare un momento di distacco e di evasione, diventano l’occasione di sfogo dei

disagi acquisiti durante la giornata.

4.2.1. EMOTIVAMENTE IN “GABBIA”

La “gabbia” come figura metaforica ci riconduce bene all’idea di limite, un limite che

l’infermiere mette a se stesso se non è in grado di stabilire una giusta distanza emotiva, ma

soprattutto un giusto grado di autoconsapevolezza nei riguardi di ciò che lo circonda. Un

ambiente ricco di vissuti, a forte impatto emozionale, se sottostimati, possono trasformarsi

in una vera e propria prigione destabilizzante e oppressiva che indurisce ed allontana,

favorendo l’instaurarsi del burn-out emotivo. Laddove l’infermiere attiva un

coinvolgimento soggettivamente significativo con il paziente per incrementare il lavoro di

cura si può parlare di interpretazione vocazionale della professione infermieristica.48

Situazioni come queste sono difficili da sostenere e in un’ indagine , non pubblicata,

condotta da Benner e Wrubel49 risulta che tra le maggiori preoccupazioni del personale

infermieristico vi sia l’ipercoinvolgimento emotivo, con il rischio di danneggiare il proprio

equilibrio interno. Mettersi in gioco anche sul piano emotivo è utile affinché si crei una

relazione significativa ma ciò non significa sentire dentro di sé il dolore dell’altro, sarebbe

un’esperienza insostenibile, soprattutto perché le persone di cui avere cura sono tante. Così

diceva Amleto all’amico Orazio “ Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla

subisce: e con pari animo accoglie i favori e gli schiaffi della fortuna (…) Mostrami un

uomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterò chiuso nell’intimo del cuore”.,

dando valore alla padronanza di sé, ossia la capacità di resistere alle tempeste emotive

causate, in ambito sanitario, dal contatto quotidiano con il dolore e la sofferenza.

L’infermiere rischia di diventare oggetto di veri e propri “sequestri” emozionali, perché è

giusto occuparsi dei bisogni dell’utente, ma anche ascoltare le proprie esigenze, i propri

48 P. Bowden: “ Caring. Gender-Sensitive Ethics” Routledge, London. P.110. 49 P. Benner, J. Wrubel The Primacy of Caring. Stress and Coping in Health and Illness, Addison-Wesley Publishing Co. ,Menlo Park (Calif.) p.373.

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bisogni e desideri. La capacità di prendersi cura richiede un faticoso lavoro di

elaborazione dei propri vissuti emotivi, fin nelle pieghe più oscure di essi, per imparare

non solo a tollerare il carico emotivo del lavoro di cura, ma anche a utilizzare i propri

sentimenti per meglio comprendere l’esperienza e trovare direzioni di senso del proprio

agire50. Winnicott ritiene che la possibilità di imparare ad avere cura di sé sia

proporzionale al tasso di “ buona cura” ricevuta nei primi anni di vita51. Sentirsi

“manipolati” con cura permette al bambino di godere la continuità del proprio essere.

Quando invece si provoca un disagio corporeo, s’interrompe la percezione del piacere di

essere e si possono procurare esperienze di dolore che rimangono impresse nella carne.

Poiché l’essere umano è un’unità inscindibile di corpo e mente, un buon accudimento del

corpo facilita un buon sviluppo cognitivo ed emozionale. Sono tante le emozioni che

accompagnano il lavoro di cura, emozioni e sentimenti soppressi e sottovalutati che fine

fanno? Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai sentimenti, non dà voce alle

emozioni, non attribuisce significato a una parte importante dei compiti professionali e,

soprattutto, alle proprie risorse emotive. Può essere molto pericoloso, per il lavoro di cura,

essere investiti da sentimenti soffocati o ignorati o mal governati, piuttosto che assumerne

consapevolezza. Non riconoscerli e non nominarli può far credere di tenerli sotto controllo,

ma porta certamente a manifestarli in forme non sempre corrette o compatibili con le

funzioni professionali e, soprattutto, con le proprie risorse emotive.52 Il rischio di un

“analfabetismo emotivo”, negato o rimosso con più o meno arroganza, impone i suoi limiti

e le sue gravi insufficienze proprio in quei contesti in cui sarebbe necessario comprendere

le emozioni dell’altro e saper esprimere le proprie, per non restare paralizzati da

incomprensibili problemi di comunicazione, o per non liquidarli ai danni

dell’interlocutore.53 Nella relazione di cura la gestione dei sentimenti diventa una delle

cose più necessarie, l’operatore va supportato. Abbandonato a se stesso, è spesso privo di

risorse per fronteggiare da solo il rischio dovuto ad un’ emotività mal trattata .

50 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura” 2006, p.70 51 Winnicot, Donald W. “I Bambini e le loro madri” , Raffaello, Cortina, Milano, 1987,p.5. 52 V.Iori: “Emozioni e Sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p.207. 53 C. Calmieri, “La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare” 2000.

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4.2.2. IL BURN-OUT

DEFINIZIONE E STORIA DEL TERMINE

Il termine “burn-out” fu coniato per la prima volta nel 1974 da Herbert J. Freudenberger in

un articolo pubblicato sul Journal of Social Issues dal titolo “ Staff e burn-out”, in cui

veniva descritto l’esaurimento fisico ed emotivo sperimentato dagli operatori di una

istituzione psichiatrica. Qualche anno più tardi Freudenberger definì il burn-out uno “ stato

di fatica o di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita, da una

relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Nel 1976 Christina Maslach

descrisse il burn-out come “la perdita d’interesse per la gente con cui si lavora” ovvero la

tendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico quando le richieste di lavoro

diventano eccessive. L’anno successivo – in una relazione presentata al Convegno della

Associazione Psicologi Americani ed in un articolo dal titolo “ The Burn-out sindrome in

the day care settino”- l’Autrice definì il “burn-out” come una condizione in cui, dopo mesi

o anni d’impegno generoso, gli operatori si “bruciano”, manifestando un atteggiamento di

nervosismo, di irrequietezza o di apatia ed indifferenza fino al cinismo. Il burn-out

cominciò così a delinearsi come una risposta emotiva ad uno stress cronico caratterizzato

da tre componenti: “esaurimento emotivo”, “mancata realizzazione personale”, e

“depersonalizzazione”. Cherniss, pur condividendo l’idea che il burn-out fosse lo stato di

esaurimento emotivo relativo ad un sovraccarico e una malattia da eccesso d’impegno,

ritenne che tale definizione fosse parziale e insoddisfacente. Egli definì il burn-out come

“una ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione con

perdita dell’entusiasmo, dell’interesse e del senso di responsabilità. Il burn-out sarebbe, in

definitiva, un processo transazionale che consiste in stress lavorativo, esaurimento

dell’operatore e accomodamento psicologico. Un operatore precedentemente impegnato si

disimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress e alla tensione sperimentata. Cherniss

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quindi propone un modello di burn-out a tre fasi: lo stress, la risposta emotiva e la

conclusione difensiva.54 Molti altri si sono occupati di definire il burn-out, ma nel 1982

Perlman e Hartman, dopo aver esaminato tutta la letteratura inerente il burn-out dal 1974

al 1980, giunsero a darne una definizione che tenta una sintesi delle precedenti: esso è una

risposta ad uno stress emotivo cronico caratterizzato da tre componenti: esaurimento

emotivo o fisico, ridotta produttività sul lavoro, spersonalizzazione. Nella traduzione

italiana del termine si parla di operatore “cortocircuitato”, “usurato”, o più spesso fuso o

bruciato – esprime con una metafora efficace l’esaurimento dell’operatore e il suo

cedimento psicofisico, all’interno dell’attività lavorativa quotidiana. Prostrazione e

svuotamento, che si esprimono sì a livello fisico, ma in particolare, ci interessano i risvolti

emotivi legati al contatto ripetuto con la sofferenza.

FATTORI PSICOLOGICI PREDISPONENTI (CARATTERISTICHE DI

PERSONALITA’)

L’ approccio clinico al burn-out non può prescindere, come vedremo, dall’ analisi puntuale

della personalità del soggetto, del suo modo di essere e di rapportarsi a se stesso e agli altri,

del suo stile di vita.55 Si intende per personalità “L’ espressione sempre più compiuta

dell’individuo nelle sue componenti morfologiche e fisiologiche, intellettive, cognitive,

volitive, affettive e sociali, componenti che sono irripetibili nelle loro caratteristiche

soggettive.” ( R. Zonta, 1998 ). Il problema va ricercato anche nella molteplicità e

mutevolezza della richieste e degli stimoli che ci provengono dall’esterno, cui non sempre

si riesce a rispondere in termini positivi. E’ la capacità di adattamento individuale che

viene ad essere sollecitata di continuo. E il burn-out può esprimere senz’altro, in molte

circostanze, questa difficoltà a un continuo adattamento e riadattamento. Si ritiene infatti

che in un contesto, come quello delle helping profession, carico di tensioni e fonti di stress:

anche quando si lavora nelle migliori condizioni possibili, la natura stessa del lavoro

comporta un carico emotivo che può favorire l’insorgenza di una condizione di disagio

psicologico. Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi

54 M.L. Bellini,G. Marasso, D. Amadori, W. Orrù, L. Grassi, P.G. Casali, P. Bruzzi: “Psicooncologia” p.1042-1044. 55 F. Pellegrino:” Oltre lo Stress: burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.1.

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il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto

alla vita. E’ questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare la

sofferenza: spesso si sente dire dagli operatori “così è la vita”, uno slogan questo che

insinua, a lungo andare, in queste persone l’idea che il modo in cui vanno le cose in questo

tipo di lavoro è il modo in cui vanno le cose in tutti i lavori! Non c’è soluzione! Occorre

provare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la motivazione e la

propria capacità di alimentare i desideri. Di fronte alle macerie dei propri ideali è quasi

“normale” sentire il peso del fallimento.56 Tra i fattori predisponesti, di cui occuperemo in

particolare, sono i fattori personali o individuali.

Alcuni tratti di personalità sembrano aumentare la vulnerabilità al burn-out emotivo. In

uno studio condotto da McCraine nel 198857, emersero alcune caratteristiche che rendono

l’individuo più fragile e soggetto all’insorgenza del burn-out :

- bassa autostima

- senso d’inadeguatezza

- disforia

- preoccupazione eccessiva

- passività

- ansietà sociale

- isolamento dagli altri.

Anche C. Maslach ha provato a definire un tipo di personalità a rischio di burn-out:

Persona debole e non assertiva nel trattare con la gente; è un soggetto sottomesso,

ansioso, teme il coinvolgimento, ha difficoltà nel definire i limiti nell’ambito della

relazione d’aiuto. Questa persona è spesso incapace di esercitare un controllo sulla

situazione e si rassegna passivamente alle richieste che essa gli pone anziché limitarle alla

propria capacità di dare (…).58

Contesti che richiedono oltre ad iniziativa personale,

fiducia in se stessi, impegno, forte assunzione di responsabilità, creatività ma soprattutto la

gestione di situazioni a forte impatto emotivo, rappresentano situazioni in cui il vissuto

soggettivo ( percezione del lavoro e sofferenza che ne consegue) assume una particolare

56 M.Bernardi, A. Condolf: “Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.76. 57 E.W. McCraine, J.M. Brandsma: “ Personality Antecedents of Burnout among Middleaged Physicians”, Journal of Human Stress, 1988, p. 30-36. 58 C.Maslach: “ La Sindrome del Burnout, il prezzo dell’aiuto agli altri” Cittadella editrice, 1992.

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rilevanza. Alcuni soggetti tendono ad attribuire al lavoro significati personali, legati alle

dinamiche di personalità, che possono compromettere l’efficacia individuale. Karen

Horney59ha tracciato alcune modalità di base di tipo disadattivo descrivendole

dettagliatamente. Vi sono i tipi espansivi, soggetti che ipervalutano l’attività professionale,

non accettano critiche e non accettano il lavoro altrui, tendendo a sottovalutare le difficoltà

e, se narcisisti , mostrano un rifiuto pregiudizievole nell’ammettere che esistono limiti alle

loro possibilità, non riescono a sentirsi uguali agli altri, sono incapaci di compiere sforzi

affettivi, hanno una bassa tolleranza alle frustrazioni e possono cedere di fronte alle prime

difficoltà. L’arrogante-rivendicativo che appare dominato dalla passione per il lavoro,

tuttavia è inconcludente, sterile, può apparire un lavoratore prodigioso ma nella realtà dei

fatti non riesce ad apportare seri contributi personali. Nelle situazioni serie non regge, si

lascia dominare dal panico. Al contrario delle figure espansive, vi è il tipo remissivo mira

in basso, potrebbe rendere molto ma sul lavoro appare dominato da un ossessionante

sentimento d’impotenza e futilità, tende a soddisfare le esigenze di tutti e a disperdere le

energie. C’è poi il tipo rinunciatario , colui che si accontenta di poco, il suo più grande

ostacolo è costituito dall’inerzia, ma è un’inerzia generale, che pervade gli aspetti globali

della vita; si tratta di persone difficili da stimolare e da motivare. Tali caratteristiche di

personalità comportano uno spreco di energie umane, limitano l’approccio interpersonale e

creano situazioni complesse nei gruppi di lavoro.

Un altro fattore che incide profondamente sulla vulnerabilità al burn-out è lo stile di

attribuzione causale: gli individui infatti possono tendere ad attribuire le cause dei propri

successi o insuccessi, e degli eventi in genere, prevalentemente a fattori esterni o interni.

L’attribuzione delle cause di eventi, risultati e successi personali ad altri, alle circostanze o

al caso ( locus of control esterno), piuttosto che alle proprie abilità, ai propri sforzi e

all’impegno personale (locus of control interno), si rivela maggiormente correlata

all’insorgenza di burn-out ( Maslach, Schaufeli e Leiter 2001).

59 K.Horney: “ Nevrosi e sviluppo della personalità”, Casa editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma,1981.

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4.2.3 ACCENNI LEGISLATIVI

La legislazione italiana, sino a non molto tempo fa, non aveva previsto articoli che

disciplinavano i cosiddetti “ danni emozionali” come avviene ad esempio negli Stati Uniti.

Accenni sono all’interno della Costituzione italiana ad esempio nell’Art. 32 e in

osservanza all’ Art. 2087 del Codice Civile, rispetto agli obblighi del datore di lavoro, c’è

quello di assicurare livelli organizzativi adeguati e garanti della tutela psicofisica del

prestatore d’opera. Altri organi e in primis l’ INAIL,60 – possono inviare ispettori presso le

aziende e chiedere l’intervento di esperti per la codifica delle condizioni lavorative,

esaminare e valutare le responsabilità dell’azienda e le patologie evidenziate dal

dipendente.61Questo organismo fornisce, in base ad un testo unico, secondo il D.P.R 30

giugno 1965 n.1124, un’indennità o una rendita ai lavoratori che abbiano subito un

infortunio o abbiano contratto una malattia professionale.Va inoltre rilevato che il

Consiglio di Amministrazione dell’ INAIL nella Delibera. 473 del 26 luglio 2001, ha

messo per oggetto le “ Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativo”

dando probabilmente spazio al burn-out come malattia professionale. Non esistono però

veri e propri interventi istituzionalizzati per prevenire ed intervenire direttamente sui

fenomeni di stress emozionale. Questo chiaramente non significa che certi fenomeni non

esistono, ma che non si manifestano nell’immediato. Con la legge 626/94 e il servizio di

Prevenzione e Protezione, e con l’ Unità Operativa di Medicina Preventiva e Sorveglianza

Sanitaria si sta cercando di aumentare il benessere nei luoghi di lavoro e di eliminare i

fattori di rischio. Questa attenzione nel caso del personale infermieristico è soprattutto

legata a danni derivanti dalla manipolazione gravitazionale e posturale dei pazienti, che

per quanto sia importante per il benessere fisico è irrilevante per il benessere psicologico e

non è l’unico fattore di rischio professionale. L’approccio al burn-out comincia a trovare la

sua giusta collocazione, come evidenzia il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008,

60 INAIL, Direzione Generale, Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche. Circolare 71 del17/12/2003. 61 F. Pellegrino: “Il burn-out come malattia professionale”, 2004, 45 (2): p.93-98.

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nell’ambito delle patologie derivanti da rischi psicosociali connessi all’organizzazione del

lavoro, ponendosi come malattia professionale emergente.62,63. Un ulteriore segnale di

cambiamento si ha con l’uscita nel Decreto Legislativo 9 Aprile 2008, n. 81. “ Attuazione

dell’ articolo 1 della legge 3 Agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della

sicurezza nei luoghi di lavoro” in cui si precisa – Sezione II “Valutazione dei rischi” Art.

28. Oggetto della valutazione dei rischi : La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1,

lettera a) precisa che anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei

preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve

riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli

riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati

allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre

2004.64 Tali mutamenti legislativi sono un chiaro segnale di un aumentata sensibilità verso

simili problemi e di una rinnovata consapevolezza della loro reale esistenza.

62 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia, Decreto 27 Aprile 2004 ( GU 134, 10/06/2004). 63 Ministero della Salute, Piano Sanitario Nazionale 2006-2008, DPR 7 Aprile 2006 (GU 139, 17/04/2006). 64 Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale” n. 101 del 30 aprile 2008.

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4.3. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “SOPRAVVISSUTO”

Può l’infermiere uscire dalla condizione di “vittima” ? Sicuramente questa possibilità

esiste. La formazione è senza dubbio l’arma migliore che ha a disposizione. Attraverso la

conoscenza e la percezione, il disagio emotivo può essere combattuto. Conoscenza,

percezione e successiva elaborazione sono tre condizioni indispensabili al fine della

“sopravvivenza” emotiva. La constatazione del burn-out emotivo deve anche essere letta

come un segnale di insofferenza che spinge al cambiamento, come l’occasione per

fermarsi, cogliere le ragioni del disagio e riorganizzare la propria vita e l’atteggiamento

complessivo nei confronti dell’attività lavorativa65. Diventare consapevoli delle difficoltà e

sapere che abbiamo i mezzi per affrontarle è senza dubbio di conforto e incoraggiamento

come il miglioramento di caratteristiche fondamentali quali: l’autostima, l’intelligenza

emotiva le capacità empatiche, comunicative e di ascolto. Riuscire a sensibilizzare le

istituzioni ospedaliere e coloro che si occupano di attività sanitarie, ma soprattutto renderli

consapevoli dell’esistenza del problema sarebbe un passo nuovo e importante. Un

operatore “rinnovato nell’animo”, che sa di essere persona, avrà un approccio migliore con

tutto ciò che lo coinvolge e di conseguenza anche con il fruitore finale del suo ritrovato

benessere, il paziente. Questo feed-back positivo gioverà ad entrambi, attenuando o

addirittura eliminando l’insorgenza della sofferenza emotiva.

4.3.1. AUTOSTIMA E SVILUPPO DELLE CAPACITA’ PERSONALI

Accade di percepirsi stanchi di tutto e di tutti, si vorrebbe abdicare all’esistenza prima

ancora di qualsiasi valutazione su di essa. La lassitudine è quel sentire in cui trova

espressione il rifiuto di esistere, di assumersi l’impegno di dare forma al proprio tempo. Si

65 F.Pellegrino: “Oltre lo stress :Burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.9.

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esperisce il sentimento della lassitudine quando ci si sente stanchi di sopportare il peso non

di un solo aspetto della vita, ma della vita intera.66E’ quindi di primaria importanza

coltivare il desiderio di esistere, di esserci nella propria qualità unica e singolare. Imparare

ad avere cura di sé è imparare la passione per la ricerca di quell’ “arte del vivere” che è

essenziale per trovare per la propria esistenza la migliore forma possibile. Diventa perciò

indispensabile coltivare la passione per la cura del sé ossia costruire quegli strumenti

cognitivi ed emotivi necessari a tracciare con autonomia e con passione il cammino

dell’esistenza. Avere cura di sé significa assumersi il compito di dare forma alla propria

esistenza, scartando le occupazioni che farebbero scivolare il tempo della vita

nell’insensatezza.67 E’ importante imparare a conoscere se stessi, perché “ senza sapere chi

siamo non potremmo conoscere l’arte che ci rende migliori (…) La saggezza consiste nel

conoscere sé stessi(…) e conoscere sé stessi significa conoscere la propria anima” (

Platone, Alcibiade primo, 127e). Diventa pertanto di grande importanza e rappresenta una

necessità umana fondamentale lo sviluppo di una buona autostima. L’ autostima è

l’immagine che ognuno ha di sé, che si costruisce sin dall’infanzia che è la risultante di

vari fattori. Rappresenta dunque una valutazione del concetto di sé, una reazione emotiva

che le persone sperimentano quando osservano e valutano se stesse, collegata alle credenze

personali circa le abilità, le capacità, i rapporti sociali, e i risultati futuri. Essa comprende

dunque un aspetto cognitivo ( le opinioni che ognuno ha di sé), un aspetto emotivo ( cosa la

persona prova nei propri confronti), e un aspetto comportamentale ( come la persona si

comporta nei suoi riguardi)68. Essa è un processo, un modo di relazionarsi con la realtà e

rappresenta anche un filtro attraverso il quale la si interpreta. L’autostima ha notevoli

ripercussioni su molti ambiti della vita, su come ci si presenta e si interagisce, sulla scelta e

sulla realizzazione degli obbiettivi, sulle reazioni agli eventi positivi o negativi. Essa è

dunque di fondamentale importanza per la salute psicologica ed è strettamente connessa

ad altri concetti quali l’autoefficacia, l’assertività, il senso di colpa. Molti fattori sono

implicati nel processo di formazione dell’autostima, fattori interni che riguardano gli

schemi cognitivi della persona, la sua visione della realtà e di se stessa, e fattori esterni

dovuti all’ambiente che ci circonda e dai contatti con le altre persone. L’autostima è

dunque un concetto dinamico, continua a modificarsi nel tempo, ad alimentarsi attraverso

66 E.Lèvinas : “ Dall’ esistenza all’esistente”, trad. it., Marietti, Genova , 1997. p.19. 67 L.Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 11-13. 68 M. Strocchi: “Autostima- Se non ami te stesso, chi ti amerà?”, 2003.

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le esperienze di vita, i feedback ricevuti e il modo in cui tutto viene vissuto e percepito.

L’individuo infatti sviluppa un’idea di sé sulla base di come viene trattato o giudicato dagli

altri che fanno da “specchio”: l’immagine che rimandano, diventa pian piano ciò che

l’individuo pensa di se stesso.69 Altra definizione dell’autostima è quella portata dal James,

autostima vista come il rapporto tra il Sé Percepito di una persona e il suo Sé Ideale : il Sé

Percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle abilità, caratteristiche e

qualità che sono presenti o assenti; mentre il Sé Ideale è l’immagine della persona che si

vorrebbe essere. Secondo James una persona sperimenterà una bassa autostima se il Sé

Percepito non riesce a raggiungere il livello del Sé ideale. L’ampiezza della discrepanza tra

come ci si vede e come si vorrebbe essere è infatti un segno importante del grado in cui si è

soddisfatti di se stessi. Purtroppo la diffusa cultura di “analfabetismo affettivo”

contribuisce a rendere gli operatori della salute meno consapevoli dei propri bisogni,

incapaci di esplicitarli, di tradurli in richiesta e quindi anche di raggiungere quella

consapevolezza necessaria per progettare se stessi. Per produrre il recupero di

progettualità, a partire da una condizione svantaggiosa, occorre sostenere l’infermiere a

riconoscere il proprio valore, potenziando la sua capacità di autostima.

L’ essenza dell’autostima quindi è fidarsi della propria mente e sapere di meritare la

felicità. Se ci fidiamo della nostra mente e del nostro giudizio, è più probabile che

operiamo come un essere pensante. Esercitando le nostre capacità di pensare, mettiamo la

giusta consapevolezza in quello che facciamo e la nostra vita funziona meglio. Tutto ciò

rafforza la fiducia nella nostra mente, se tale fiducia venisse meno ci renderebbe più

passivi, meno consapevoli e perciò meno perseveranti di fronte alle difficoltà. Il lavoro

della stima di sé non sta solo nel fatto che ci permette di sentirci meglio, ma che ci

permette di vivere meglio, di reagire alle sfide e alle opportunità in modo più appropriato e

di sfruttare a pieno le nostre risorse. Il livello di autostima ha profonde conseguenze su

ogni aspetto della nostra vita: ad esempio sul modo di operare nel lavoro, di rapportarci

con i colleghi e con i pazienti. Una “sana” stima di sé porta alla razionalità, al realismo,

all’intuito, alla creatività, all’indipendenza, alla flessibilità, alla capacità di gestire i

cambiamenti, al desiderio di ammettere e correggere gli errori, alla benevolenza e alla

cooperazione.70 Date tali premesse si evince come sia importante, ai fini di una buona

autostima, sviluppare altre caratteristiche quali l’assertività e l’autoefficacia percepita, una 69 D.Francescano, E.Giusti: “Empowerment e Clinica” Edizioni Kappa, 1999. 70 N.Branden: “ I Sei Pilastri dell’Autostima" 1994,p.21

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buona capacità creativa e la resilienza. In termini più pratici, questi concetti,, che

sottendono le potenzialità espressive della persona matura, connotano l’operatore, di un

pervasivo senso di responsabilità che lo porta ad essere identificato sempre di più come

lavoratore della conoscenza, persona che gestisce informazioni, idee, abilità

(L.Edvinsson).

L’ASSERTIVITA’

E’ un termine che proviene dal latino, asserere, che significa asserire, cioè affermare con

convinzione e tenacia. Per definire il comportamento assertivo, lo si può immaginare come

il punto centrale di un continuum che presenta, alle due estremità, il comportamento

aggressivo e quello passivo.71 Come comportamento passivo s’intende quello di una

persona che mette da parte le proprie esigenze, i propri diritti, subisce le situazioni senza

apparenti reazioni. Il comportamento aggressivo appartiene alla persona che cerca di fare

in modo che le proprie esigenze ed i propri diritti vengano soddisfatti ad ogni costo, senza

tenere in considerazione le opinioni e le necessità altrui. Il comportamento assertivo

appartiene a colui che considera importanti le proprie esigenze, i propri diritti, bisogni e

desideri e cerca di soddisfarli. Riconosce le proprie e le altrui libertà, non si fa

condizionare da pregiudizi e da influenze ambientali. L’assertività è dunque la capacità

d’identificare ed esprimere i propri bisogni e i propri diritti, le proprie sensazioni positive o

negative, comunicare in modo aperto, onesto, diretto, senza violare i diritti ed i limiti altrui.

Comportarsi in maniera assertiva vuol dire apprezzarsi per ciò che si è, riconoscendo anche

i propri limiti, avere stima di se stessi, assumersi la responsabilità delle proprie scelte di

vita.72 Per sviluppare un giusto processo assertivo serve accrescere alcuni principi quali: la

consapevolezza, l’attenzione, l’autostima, la reciprocità e la fiducia.

- La consapevolezza è l’elemento fondamentale per creare quel meraviglioso processo

che è la comunicazione assertiva. La consapevolezza sottende al principio che ognuno

comunica ciò che sa e ciò che è.

71 E.Giusti: “Training dell’assertività – mai dire sì quando si vorrebbe dire no!” Sovera Edizioni , 1992. 72 B. Celani : “Counseling Psicologico e Autostima” art. http://psicologia.piùchepuoi.it (2009).

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- L’attenzione è intesa come essere attenti nella comunicazione; in questo caso l’attenzione

può essere anche indirizzata sui propri comportamenti nella relazione, o dell’osservazione

dell’altro o dell’ambiente più allargato.

- L’autostima permette di avere fiducia in noi stessi, d’essere efficaci nelle relazioni

interpersonali . Corrisponde alla misura con la quale una persona si accetta e si approva.

-La reciprocità, la capacità di concentrarsi comunicando le propri idee agli altri, ci

permetterà di realizzare i nostri progetti condividendoli con gli altri, sviluppando

riconoscimento e sentimenti di accettazione reciproca.

- La fiducia pone le basi per sviluppare un progetto con un’altra persona e attivare quei

sentimenti di reciprocità e accettazione esposti prima.73

In sintesi, si può dire che l’assertività, tenendo presenti i propri obiettivi ed interessi, è la

manifestazione più immediata e diretta di emozioni, sentimenti, esigenze e convinzioni

personali. (Giannantonio- Boldorini, 2007).

L’ AUTOEFFICACIA PERCEPITA

Il concetto di autoefficacia (self-efficacy) si deve a Bandura e può essere definito come la

convinzione personale di poter eseguire con successo i comportamenti richiesti in una data

situazione o di produrre determinati conseguimenti. L’ autoefficacia percepita influenza gli

obbiettivi che il soggetto si pone ed è a sua volta influenzata dalle prestazioni e dalle

interpretazioni passate e presenti. La nozione di autoefficacia si fonda sulla stima che

l’individuo a delle sue abilità di riuscire in un determinato compito e si forma anche in

base a previe esperienze di successo e all’osservazione di comportamenti altrui (esperienza

vicaria). Una valutazione ragionevolmente accurata delle proprie capacità svolge un ruolo

importante nel funzionamento di successo. Anzi, i giudizi di efficacia più funzionali sono

probabilmente quelli che eccedono leggermente ciò che si è in grado di fare. Tali

autovalutazioni conducono le persone ad intraprendere compiti realisticamente stimolanti e

forniscono la motivazione per il progressivo auto-sviluppo delle proprie capacità.74

73 D. Di Lauro: “L’Assertività- comunicare in modo chiaro ed efficace”, 2008, p.11-16. 74 E. Giusti, A. Testi: “L’Autoefficacia-vincere quasi sempre con le 3 A” 2006.

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Bandura ritiene, infatti, che un’irrealistica stima dell’auto-efficacia conduce spesso al

successo, mentre il deprezzamento delle proprie abilità da parte del soggetto predice l’esito

negativo.75

LA CREATIVITA’

Il verbo italiano creare, al quale sostantivo creatività rimanda, deriva dal creare latino, che

condivide con “crescere” la radice KAR. In sancito, KAR-TR è colui che fa (dal niente), il

creatore. Tra le moltissime definizioni di creatività che sono state coniate si segnala, per la

sua semplicità e precisione, quella fornita dal matematico Henri Poincarè: “ Creatività è

unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. 76 Nuovo e utile illustrano

adeguatamente l’essenza dell’atto creativo: un superamento delle regole esistenti (il nuovo)

che istituisca una ulteriore regola condivisa (l’utile). Caratteristiche della personalità

creativa sono curiosità, bisogno d’ordine e di successo ( ma non inteso in termini

economici), indipendenza, spirito critico, insoddisfazione, autodisciplina. La creatività non

è esclusivo appannaggio di pochi fortunati individui, ma è una qualità presente in ogni

essere umano, a prescindere da quale sia la sua cultura, il suo lavoro. La creatività si

definisce la capacità di attivare funzioni in grado di ottenere l’adattamento alla realtà: sotto

la pressione della frustrazione si tratta di inventare scenari in cui la gratificazione sia

ottenuta nella fantasia o di inventare azioni e concatenazioni di azioni che riguardino

oggetti umani o inanimati.77 La Klein è dello stesso avviso per cui a mettere in moto i

processi creativi sarebbe dunque una mancanza, una sofferenza a cui rimediare per tornare

ad una situazione di equilibrio che sia stata alterata. Per Winnicott, invece, lo stimolo a

creare e le modalità stesse in cui la creazione è concepita non traggono origine da una

situazione di frustrazione né di angoscia per un oggetto danneggiato da riparare, ma

appaiono come il prodotto di una motivazione autonoma, una delle tendenze in cui la

filogenesi ha dotato gli esseri umani, che trova nelle prime relazioni che accompagnano lo

75 A. Bandura: “L’autoefficacia. Teoria e applicazioni” 2000. 76 Da Wikipedia, l’enciclopedia libera. 77 http//www.lucazucconi.it “Psicologia Oggi” Aprile 2007.

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sviluppo l’occasione per manifestarsi.78 Le caratteristiche peculiari della persona creativa

sono le capacità di un incontro autentico con la realtà, il possesso di una notevole forza

psicologica sufficiente ad una distaccata immedesimazione con la stessa ( sa guardare a se

stesso nelle situazioni reali come se vedesse una terza persona), rivivendola e

assorbendone le forze di vita grazie ad una particolare sensibilità, altro tratto caratteristico

dei creativi, ma inconscia il più delle volte. Vivere per la persona creativa è espandere al

massimo tutte le capacità dell’Io nella loro massima valorizzazione.Questo è vero in modo

particolare per quei creativi con massima apertura alle esperienze della vita, che

possiedono molta sicurezza interiore e una struttura cognitiva molto plastica sia per quanto

riguarda i concetti, le percezioni sia per le ipotesi. Tollera le ambiguità e le informazioni

contrastanti e mai adotta posizioni cristallizzate. Grazie ad una personalità forte e alla

capacità di giudizio indipendente approda alla libertà intellettuale non comune che

consente accostamenti inusuali di idee.79

LA RESILIENZA

La resilienza assume diverse significati in base al contesto in cui è inserita. In psicologia

viene vista come la capacità dell’uomo di affrontare e superare le avversità della vita.

Andrea Canevaro definisce la resilienza come “la capacità non tanto di resistere alle

deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di

conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una

dimensione che renda possibile la propria struttura”.80

La resilienza è la capacità di far

fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria

vita dinanzi alle difficoltà. E’ la capacità di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità 78 A.Gennaro, G. Bucalo: “ La Personalità creativa”, 2006, p. 8-10. 79 R. Ferraresi: “La Persona Creativa- Chi è?”, htt//www.arteit, 2009. 80 A. Canevaro, A. Malaguti, A. Mozzo, C. Venier ( a cura di), “ Bambini che sopravvivono alla guerra”, 2001.

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positive che la vita offre, senza perdere la propria umanità. Persone resilienti sono coloro

che immerse in circostanze avverse riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni

previsione, a fronteggiare con efficacia le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria

esistenza e a raggiungere mete importanti. Si può concepire la resilienza come una

funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto con l’esperienza, i vissuti e,

soprattutto, con il modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono. Non è solo

sopravvivere a tutti i costi, ma avere la capacità di usare l’esperienza nata da situazioni

difficili per costruire il futuro. Le caratteristiche della resilienza sono sette:

- “insight” o introspezione: la capacità di esaminare sé stesso, farsi le domande

difficili e rispondersi con sincerità.

- Indipendenza: la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale,

dai problemi, ma senza isolarsi.

- Interazione: la capacità per stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altre

persone.

- Iniziativa: la capacità di affrontare i problemi, capirli e riuscire a controllarli.

- Creatività: la capacità per creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos e

dal disordine.

- Allegria: disposizione dello spirito all’allegria, ci permette di allontanarci dal punto

focale della tensione, relativizzare e positivizzare gli avvenimenti che ci

colpiscono.

- Morale: si riferisce a tutti i valori accettati da una società in un’epoca determinata e

che ogni persona interiorizza nel corso della sua vita.81

81 A. Fiorentini: “ La Resilienza” htt://www.italy-news.net, 2009.

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In quest’ottica il trauma, rappresenta una sfida che mobilità le proprie risorse interne, oltre

che quelle socioculturali dell’ambiente circostante: non ci si può esimere dall’accettare tale

sfida, perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore,

rispetto a quello da cui si era partiti.

4.3.2. INTELLIGENZA EMOTIVA

DEFINIZIONE DEL TERMINE INTELLIGENZA

Spearman (1971) ritiene che esista un’intelligenza generale, che comprende varie

prestazioni di pensiero, ragionamento, abilità verbali e numeriche, e una serie più o meno

numerosa di fattori specifici, legati all’esecuzione di compiti particolari (come ad esempio

l’abilità ortografica). Una delle definizioni più esaurienti d’intelligenza ci è data da Piaget

(1947-1970), secondo il quale una delle funzioni chiave dell’intelligenza è generare la

previsione, cioè produrre l’anticipazione del cambiamento e quindi l’azione costruttiva per

realizzarlo o annullarlo. L’intelligenza è comunque il risultato di abilità strettamente

cognitive, quali capacità logiche, di ragionamento, memoria, combinate a tratti di

personalità e altri aspetti non intellettivi quali la concentrazione, la perseveranza, l’ansia,

l’entusiasmo, il controllo degli impulsi e la consapevolezza dei fini che influiscono sulle

prestazioni; tali tratti sono in gran parte indipendenti da qualsiasi abilità intellettiva

specifica. Per questa ragione essi sono più propriamente indicati come fattori non

intellettivi dell’intelligenza. E’ così possibile parlare di: intelligenza verbale, intelligenza

sociale e intelligenza emotiva, con la quale ci si riferisce al riconoscimento delle emozioni

altrui e al controllo delle proprie.82

82 N. Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie” , 2004, p. 78-79.

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L’INTELLIGENZA EMOTIVA

Molto spesso capita di avere a che fare con persone capaci e intelligenti, ma che allo stesso

tempo si possono mostrare arroganti e incapaci nel relazionarsi in maniera cortese ed

educata con gli altri. Questi soggetti sono privi di quella che in psicologia è chiamata

intelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva può essere definita l’intelligenza del cuore .E’

responsabile della nostra autostima, della consapevolezza dei nostri sentimenti, pensieri,

emozioni; presiede alla nostra sensibilità, all’adattabilità sociale, all’empatia, alla

possibilità di autocontrollo. Essere dotati d’intelligenza emotiva significa riconoscere i

sentimenti, così da esprimerli in modo appropriato ed efficace.83 Nel 1994 Daniel Goleman

pubblicava “L’intelligenza emotiva”, in questo testo metteva in guardia da una situazione

di analfabetismo emotivo che si andava profilando negli esseri umani. Goleman non fece

altro che concettualizzare e divulgare in modo comprensibile le ricerche neurofisiologiche

di Salovey e Mayer nel 1990, i quali avevano evidenziato le basi anatomico-funzionali che

indicherebbero l’intelligenza emotiva come meta-abilità. Meta-abilità significa che,

mediante la gestione dell’esperienza emotiva, essa consente di servirsi di altre capacità

superiori. Questa capacità è centrale nel processo di adattamento quotidiano ed è alla base

della salute psichica.84 L’intelligenza emotiva è costituita da cinque abilità , a loro volta

generatrici di capacità operative che aiutano a comprendere più praticamente l’importanza

della presenza o dell’assenza di ciascuna delle cinque abilità principali:

1. Conoscenza delle proprie emozioni. L’autoconsapevolezza - in altre parole la

capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta – è la

chiave di volta dell’intelligenza emotiva. Distinguere e denominare le proprie

emozioni in determinate situazioni; riconoscere i segnali fisiologici che indicano il

sopraggiungere di un’emozione, comprenderne le cause. La capacità di monitorare

istante per istante i sentimenti è fondamentale per la comprensione psicologica di sé

stessi, mentre l’incapacità di farlo ci lascia alla loro mercè. Le persone molto sicure

dei propri sentimenti riescono a gestire molto meglio la propria vita.

83 L. Mastronardi Art.“ Psicologia pratica – La rabbia e i suoi effetti” http://www.viveremeglio.org. 2008. 84 C.Miliacca Art.”Emozioni e Psicosomatica” http://www.videoconf.it/ emozioni o psicosomatica. 2008.

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2. Controllo delle emozioni. La capacità di controllare i sentimenti in modo che essi

siano appropriati si fonda sull’autoconsapevolezza. Il controllo degli impulsi e

delle emozioni, dell’aggressività rivolta verso gli altri, e soprattutto verso sé stessi

evita la perenne battaglia contro sentimenti tormentosi. E’ indispensabile imparare

a calmarsi, liberarsi dall’ansia, dalla tristezza o dall’irritabilità.

3. Motivazione di se stessi. La capacità di dominare le emozioni per raggiungere un

obiettivo è una dote essenziale per concentrare l’attenzione, per trovare

motivazione e controllo di sé, come pure ai fini della creatività. Il controllo

emozionale – la capacità di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi- è

alla base di qualsiasi realizzazione. E’ indispensabile incanalare ed armonizzare le

emozioni dirigendole verso il raggiungimento di un obiettivo; reagire attivamente

agli insuccessi e alle frustrazioni.

4. Riconoscimento delle emozioni altrui. L’empatia, un’altra capacità basata sulla

consapevolezza delle proprie emozioni, è fondamentale nelle relazioni con gli altri.

Riconoscere gli indizi emozionali degli altri; essere sensibili alle emozioni ed alla

prospettiva altrui. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali sociali

che indicano o i desideri altrui. Questo le rende più adatte a professioni come quelle

dedite all’assistenza.

5. Gestione delle relazioni. L’arte delle relazioni consiste nella capacità di dominare

le emozioni altrui. Negoziare i conflitti tendendo alla risoluzione delle situazioni;

comunicare efficacemente con gli altri. Coloro che eccellono in queste abilità

riescono bene in tutti i campi nei quali è necessario interagire in modo disinvolto

con gli altri.85

E’ naturale che le persone hanno capacità differenti all’interno delle cinque abilità

principali, è probabile che qualcuno non riesca a controllare benissimo la sua ansia ma che

riesca a comprendere e consolare i turbamenti altrui. Saper utilizzare in modo funzionale

nella vita quotidiana queste abilità produce effetti di benessere e successo. Le dimensioni

emotive e affettive non sono dunque di “ostacolo” alla professionalità, ma sono autentica

competenza professionale, risorsa per favorire i cambiamenti nelle pratiche sociali e nella

85 D .Goleman: “Intelligenza Emotiva”, 1996, p.64-65.

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progettazione dei servizi, per orientarsi nella professione con quell’intelligenza del cuore

che rende significativo il legame tra vita emotiva e vita intellettiva.86

4.3.3. EMPATIA

Abbiamo visto quanto la capacità empatica sia componente importante dell’intelligenza

emotiva, il relazionarsi con gli altri, ma soprattutto comprendere e sentire le loro emozioni,

dare un “peso” un “valore” ai loro sentimenti. All’interno della professione infermieristica,

tale risorsa è importante per interagire con il malato, ma lo diventa anche nel rapporto

con i colleghi. La condivisione dei momenti difficili della giornata, dei disagi interiori

richiede buone capacità di immedesimazione, è un fondersi con l’esperienza altrui che dà

forza e ci impedisce di pensare che siamo soli o inadeguati alla professione. Spesso nella

cura dell’altro si ha paura di essere feriti e così, a volte, ci si trincera, si alzano barriere per

proteggersi dall’incontro e ci si allontana dalla verità. La relazione “io-tu” diviene quindi

luminosa od oscura e lascia entrare o contrasta la solitudine e la con-divisione.(V.Iori

2008). Assumerci la capacità di sentire la realtà dell’altro determina quanto sia importante

l’empatia. Empatia come co-sentire che consente ad un soggetto di avvertire l’altro nel suo

essere proprio. Quando si è capaci di empatia accade che l’esperienza di altri, quindi ciò

che non abbiamo vissuto e che non vivremo mai, diventi elemento della nostra esperienza.

Ma l’empatia non va concepita come il confondersi totalmente con l’altro “ la proiezione

della propria personalità sulla personalità di un’altra persona per comprenderla meglio;

l’identificazione intellettuale di sé stessi con un altro”87, ma con l’opera della Stein, si

esclude qualsiasi forma di identificazione confusiva con l’altro. Essa definisce l’empatia la

capacità di cogliere l’esperienza vissuta estranea, e concepisce l’ atto di cogliere come un

proiettarsi sull’altro ma come accoglienza dell’esperienza estranea. L’altro rimane

estraneo e da me distinto. Empatizzare non significa proiettarsi nell’esperienza altrui, ma

86 V. ori, M.Rampazi “ Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008, p.33. 87 N. Noddings: “Starting at home. Caring and Social Policy” University of California Press, 2002, p.13.

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insieme: co-sentire.88 L’empatia perciò non è unipatia (L.Mortari, 2006), deve essere

presente la distinzione tra me, e l’esperienza dell’altro, che io accolgo ma che non

rappresenta comunque un vissuto originario. Dobbiamo perciò essere coscienti che non

siamo gli attori dell’esperienza originaria dell’altro, anche se abbiamo ben vivo quale sia

l’essenza del suo vissuto. Il nostro può essere visto come un sentire pensoso.89 Ci si deve

però allontanare da pensieri di onnipotenza, ci deve essere tolta l’illusione di una

comprensione perfetta del sentire altrui, i pensieri efficaci richiedono sempre una certa

capacità di autocritica. Costruire una relazione in cui dell’altro è salvaguardata la

trascendenza significa rinunciare ad ogni forma di potenza e situarsi “in una passività più

passiva di ogni passività”90

, deve esserci volontà per un ascolto autentico che lasci libero

spazio all’unicità dell’altro. Come si accennava all’inizio, all’interno del nostro lavoro è

importante interagire con i colleghi di lavoro per consentirci di elaborare i vissuti e creare

quella che viene definita un’amicizia professionale. In questo tipo di relazione amicale i

soggetti coinvolti attivano una comunicazione complessa che si nutre delle esperienze

empatiche di entrambi, cosicché ciascuno, oltre a far risuonare dentro di sè l’esperienza

dell’amico, si attiva per rendere empatizzabile la propria esperienza all’altro; ciò permette

una contemporanea bifocalizzazione dell’attività cognitiva, in quanto impegnata sia ad

esplicitare il proprio vissuto ma anche a comprendere quello altrui91. Diventa perciò

importante che all’interno delle nostre realtà lavorative si creino e coltivino relazioni di

amicizia professionale che facilitino il confronto delle emozioni reciproche.

4.3.4. COMUNICAZIONE ED ASCOLTO

Comunicazione ed ascolto sono intimamente legati fra loro ed acquistano significato

quando è presente anche un coinvolgimento empatico. Al di là dei tecnicismi che richiede

la nostra professione è utile fermarsi a riflettere, allargare le nostre conoscenze ed imparare

88 E. Stein.: “Il problema dell’empatia”, 1998, p.71-84. 89 L.Mortari: “La pratica dell’aver cura” , 2006, p. 120. 90 E. Lèvinas : “Altrimenti che essere o Al di là dell’ essenza”, 1991, p.20. 91 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 121.

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a comunicare in modo efficace i disagi, i sentimenti, le emozioni che sono componente

costante della nostra attività quotidiana. La comunicazione è niente se separata dalla

capacità di ascoltare e di empatizzare, si parla infatti in questo caso di “ascolto empatico”.

Saper comunicare in modo adeguato può diventare molto difficile e dare adito a situazioni

destabilizzanti di forte incomprensione, un incrocio di pensieri spesso pregiudizievoli che

danno poi luogo ad azioni scorrette. Tali situazioni possono essere evitate se ad intervenire

è la capacità empatica, e per essere empatici bisogna inanzitutto imparare ad ascoltare.

Stare vicino all’altro con tutto sé stesso, un sé che abbiamo imparato ad accettare perché

solo con questa consapevolezza, che è autoconsapevolezza, siamo in grado di accogliere

l’altro. L’ altro inteso come il compagno di lavoro, che condivide ogni giorno con noi i

suoi dubbi, i dolori, le incomprensioni, i conflitti che vengono a generarsi nel confronto

con la sofferenza. Viene definito anche come il bisogno di “fare rete”92, rendere

condivisibile un sapere, quel sapere che viene dall’esperienza, dando luogo ad una serie di

scambi informali che rappresentano quei vissuti che sono sostegno essenziale alle fatiche

quotidiane.

LA COMUNICAZIONE

La comunicazione è un processo mediante il quale vengono trasmessi messaggi da un

soggetto ad altri. Essa si avvale di linguaggi, che per l’uomo sono rappresentati da una

serie di codici linguistici molto complessi. Dunque il processo del comunicare è il

passaggio di un messaggio da un’Emittente ad un Ricevente: il Ricevente lancia dei

messaggi di risposta all’Emittente attraverso il feed-back, cioè quel segnale di ritorno che

permette di comprendere quando l’attività comunicativa è arrivata a destinazione e

consente di prevedere il seguito che la comunicazione avrà. E’ quindi un processo circolare

che funziona sulla base di un feed-back reciproco,93 condizionato dal contesto in cui si

esprime e dai canali che si usano. Definita brevemente la struttura della comunicazione, è

possibile ora vederne modalità e proprietà, che vengono dette da Paul Watzlawick,

assiomi.94 Si tratta di principi semplici, evidenti di per se stessi, che tuttavia hanno

fondamentali implicazioni interpersonali.

92 V. Iori: “Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p. 227. 93 G. Artioli, R. Montanari, A. Saffioti: “Counseling e Professione Infermieristica”, 2004, p.42. 94 P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D.Jackson: “Pragmatica della comunicazione umana”. pp.41-42

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LIII

Primo assioma è: “Non si può non comunicare”.

Watzlawick afferma che non può esistere qualcosa che sia un non-comportamento; tutti

noi, necessariamente, che lo vogliamo o no, mettiamo in atto dei comportamenti. Quindi:

“…se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di

messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può

non comunicare”. La comunicazione è il mezzo che ci fa stare in relazione con gli altri,

mettendo in comune emozioni, sentimenti, pensieri,esperienze, azioni. Ci regoliamo e ci

comportiamo con gli altri in base ai messaggi che ci scambiamo in continuazione e che

influenzano reciprocamente il nostro modo di essere e di agire.95

Secondo assioma: “Si comunica sia con il canale verbale che non verbale”

Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, in modo che il

secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione. Perciò si intende che una

comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso, impone un

comportamento. Molto spesso è il messaggio di relazione che prende il sopravvento su

quello di contenuto.96 Il canale non verbale è il più potente, attraverso di esso passa il 90%

di ciò che vogliamo comunicare. E’ il canale che esprime con gesti, tono e inflessione della

voce, postura e contatto fisico ed oculare, le nostre emozioni, anche le più profonde, che

non riusciamo ad esprimere a parole.

Terzo assioma: “ La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di

comunicazione tra i comunicanti”

La “punteggiatura”, cioè l’interpretazione soggettiva che si dà di un messaggio, condiziona

pesantemente, in realtà, il proprio modo di essere, di autodefinirsi e di rapportarsi con gli

altri. Questo assioma indica la necessità di tenere contemporaneamente presente i

comportamenti di tutti i comunicanti. Infatti possiamo dire che ogni comportamento di una

sequenza è lo stimolo per l’evento che segue e, allo stesso tempo, la risposta o il rinforzo

per quello precedente. Così ogni comportamento è causato e causa il comportamento altrui.

95 Corso di formazione “Efficacia e cooperazione nella relazione d’aiuto” Padova 10-11 Ottobre 2008. 96 M.Bernardi, A. Condolf: ”Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.105.

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LIV

Quarto assioma:“ Gli esseri umani comunicano sia con il linguaggio non verbale

(analogico) che con quello verbale (numerico).”

La comunicazione umana si manifesta con forme verbali e non verbali, combinate e

sinergiche, al punto che è difficile distinguere tra gli aspetti verbali e non verbali che si

manifestano nella comunicazione quotidiana e non. La comunicazione verbale è, infatti,

più complessa, ma più flessibile, quella non verbale più immediata, efficace e veloce, ma

talvolta non chiara, perché lascia spazio alle interpretazioni personali. La comunicazione

non verbale è molto più difficilmente controllabile di quella verbale da parte di chi la invia,

mentre è facilmente decodificabile per chi la riceve.

Quinto assioma: “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a

seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”

Si ha una comunicazione simmetrica quando entrambe le parti sono sullo stesso piano,

l’una tende a rispecchiare il comportamento dell’altra, senza che ci sia chi prevale e

domina e chi, invece è sottomesso. Tra i due interlocutori può esserci una collaborazione

equa, ma anche una competizione antagonistica, proprio perché si pongono in una

posizione di parità. Nella relazione complementare, viceversa, una delle due assume una

posizione superiore rispetto all’altra. Tra i due interlocutori può esserci integrazione

reciproca o squilibrio problematico, proprio in quanto ognuno sceglie una collocazione non

paritetica. Entrambi i tipi di comunicazione possono essere funzionali ed efficienti, ma

possono essere anche problematici e disfunzionali, ciò dipende dalla elasticità o rigidità

con cui vengono gestiti.

Date le premesse possiamo stabilire che perché una comunicazione sia efficace bisogna97:

- Curare e modulare sia il contenuto che la relazione, il canale verbale e non verbale.

- Parlare chiaramente

- Esprimere uno stesso concetto in modi diversi secondo l’interlocutore e il contesto

- Usare in modo efficace anche il silenzio

- Ascoltare e osservare le reazioni dell’interlocutore per capirne le reazioni

- Saper utilizzare quanto emerge

97 Corso di formazione “ Efficacia e cooperazione nelle relazioni d’aiuto” Padova, 10-11 Ottobre, 2008.

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LV

L’ASCOLTO

All’interno della comunicazione non è importante solo dare messaggi, ma è fondamentale

anche saperli ricevere, mettersi nella posizione di colui che ascolta: il ruolo dell’ascoltatore

è la verifica della propria disponibilità a porsi in questa posizione. All’ interno della

relazione, possiamo riconoscere diversi benefici che l’ascolto efficace può portare: si

ottiene la comprensione del messaggio ricevuto, si ascolta un significato che va oltre le

parole, si favorisce l’empatia e il feed-back, si stimola l’altro a continuare l’interazione.98

Per Rogers l’ ascolto ”equivale a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo stato

d’animo, il significato personale e persino il significato più riposto e inconscio del

messaggio che mi viene trasmesso dall’interlocutore”, l’ascolto diventa perciò, incontro

profondo con l’altro, un sentire solo la sua voce, annullare ciò che ci circonda. Il vero

ascolto diventa valido solo nel silenzio di tutto il resto. L’ascolto autentico, l’accoglienza

emotiva, senza giudizio,dei sentimenti e delle emozioni dell’altro. E’ necessario mettere in

atto, la sospensione del giudizio, per poter accettare l’altro per quello che è. Dobbiamo

imparare a fare in modo che il nostro giudizio, a volte inevitabile, non interferisca più di

tanto nella relazione. Bisogna inoltre costruire un estremo rispetto per l’altro: noi siamo lì

perché il collega ha bisogno, non il contrario e il rispetto per lui, per il suo modo di vivere

gli eventi, va mantenuto ad ogni costo. Farsi ascoltare diventa necessario quando

l’incontro con la sofferenza diventa quotidiano, è l’incontro- scontro con noi stessi, con ciò

che siamo e che siamo stati, a rendere indispensabile una richiesta d’aiuto. Saper ascoltare

richiede inanzitutto una buona consapevolezza di sé, unita allo sviluppo delle capacità

relazionali. Non si è in grado di ascoltare quando non siamo capaci di ascoltare il nostro

dolore interiore, il nostro passato determina il nostro porci di fronte al presente. La persona

ha dei vissuti dolorosi, ma se impara a riconoscerli e a fare di essi degli strumenti per

riconoscere e comprendere l’altro, può creare un incontro che ha dei risvolti positivi in

termini di emotività. Le esperienze di gioia, dolore, paura, incertezza danno luogo allo

sviluppo di “risorse guaritrici” che possiamo condividere con coloro che collaborano con

noi ogni giorno. Mettersi nei panni dell’altro va visto nel senso di “mettersi con l’altro”:

dobbiamo valorizzare ciò che la persona porta, il suo vissuto, i suoi sforzi, il suo stesso

chiedere aiuto e il suo porsi in discussione.

98 G. Artioli, r. Montanari,A. Saffioti: “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.43.

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LVI

IL SILENZIO

In una relazione di reciprocità come quella della comunicazione, oltre all’ascolto, diventa

di grande importanza il silenzio. Il silenzio è ricco di significati e spesso diventa una

esplicita richiesta di aiuto. E’ in grado di spaventarci e ci trova impreparati, il silenzio ci fa

paura, tendiamo a riempirlo in ogni modo. Esso va di pari passo con l’ascolto e ne fa parte,

bisogna consentire a chi ci è di fronte di avere spazio per i suoi pensieri, di poter trovare

tempo e modi per esprimere ciò che sente. La formazione al silenzio ha inizio alla presa di

contatto con se stessi per scoprire ed incontrare la propria interiorità “ Le pause di silenzio,

in un colloquio, hanno una misteriosa solennità: concedono alle frasi dette di riposare dal

loro significato, e a entrambi gli interlocutori di riascoltare in silenzio e di approfondire

nella loro eco, sia che dicano gioia, sia che dicano dolore (…)” 99

. Il silenzio diventa

quindi una forma di rispetto verso l’altro, è uno spazio entro il quale si possono

racchiudere molte domande e preparare altrettante risposte. E’ un tempo per se stessi, ci

mette in contatto con il nostro mondo interno, e ci rende possibile un modo personale e

profondo di vivere il rapporto con noi stessi e gli altri. Il silenzio è paragonabile ad un

rifugio in cui noi troviamo il modo per proteggerci dai disturbi ambientali, è un riparo

sicuro in cui possiamo elaborare i nostri pensieri per poi esternarli con serenità. Così

inteso, il silenzio appare come una dimensione spirituale della persona e come una

condizione per promuovere l’unità e l’utilizzo di tutte le risorse interiori.100

99 J. Dugger: “Le tecniche di ascolto”, Franco Angeli, Milano, 1999. 100 G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “ Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.51.

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LVII

4.3.5. COUNSELING: UN AIUTO ALL’INFERMIERE

Il counseling psicologico è un intervento d’aiuto specifico e specialistico, offerto da un

professionista ad un cliente che si trova in una situazione di conflitto o di difficoltà. I

problemi che presenta possono essere di varia natura e/o collegati alla propria crescita

personale. Grazie a una relazione basata sull’ascolto e sulla facilitazione della

comunicazione, il counselor aiuta il cliente ad approfondire e a riconoscere la sua

situazione, ad affrontare le scelte e i cambiamenti necessari per risolvere il problema e

proseguire nella crescita personale.101Il counseling è tuttora insegnato e utilizzato come

strumento nell’attività di cura, “ (…) le sue finalità appartengono al mandato professionale

dell’infermiere in quanto assistere significa sia “stare con” che “esserci”. Care, “occuparsi

di”, “prendersi cura”, sinonimi e specificazioni di “assistere”, implica vicinanza,

prossimità, alterità, quindi relazionalità, contatto, presenza, non abbandono e non

indifferenza “102. L’attività di cura che offre l’infermiere, sappiamo che comporta

dispendio di forze: l’offrirsi inteso spesso come annullamento del sé, comporta

l’accrescimento di angosce, di domande a cui vorrebbe dare una risposta. I pensieri

diventano tanti, chiediamo troppo alle nostre capacità emotive. Ormai è noto, molti di noi

non sono pronti ad affrontarsi, perché è con noi stessi che abbiamo a che fare ancor prima

che con gli altri. La cura richiede che si impegnino molte energie fisiche, cognitive e

affettive. Per questa ragione c’è chi vede nella cura il rischio di un’ emorragia d’essere, di

una perdita di sé per un eccessiva attenzione all’altro. La buona cura è quella in cui,per

entrambi i soggetti della relazione, non c’è perdita di sé ma guadagno d’essere, e questo è

possibile solo se chi ha cura si prende anche cura di sé.103 Aristotele insegna “…che non

c’è amicizia dell’altro se non c’ è l’amicizia per sé, perché per poter essere capaci di

volere il bene dell’altro, si deve amare soprattutto sé stessi”. Solamente avendo cura di sé

si può coltivare la propria umanità. Anche chi ha cura è vulnerabile, poiché il

101 V. Calvo: “Il colloquio di counseling”, 2007, p.11. 102 G. Artioli, R.Montanari, A. Saffioti “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.85. 103 L.Mortari: “ La pratica dell’aver cura”, 2006, p.80.

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LVIII

coinvolgimento emotivo, la partecipazione intensiva alla situazione dell’altro, lo

espongono ad una situazione di analoga vulnerabilità. L’operatore perciò dovrebbe

imparare a chiedere aiuto, esplicitare le sue fragilità, ma spesso, aspetta di giungere a

situazioni estreme. E’ più facile chiedere di essere aiutati per problemi di ordine pratico,

piuttosto che per problemi relazionali o psico-affettivi, accettare di essere bisognosi d’aiuto

è molto difficile, in particolare per chi svolge la nostra professione. La domanda d’aiuto è

sinonimo di debolezza, si teme di essere “etichettati”, particolarmente in questo ambito,

quello psicologico, come persone “folli” e la resistenza alla richiesta di aiuto è alta . Ecco

che il counseling, nel suo significato più puro, dall’etimologia latina di consulo, significa

venire in aiuto, avere cura di.... E’ quasi un “consolare”, uno stare accanto, che diventa

quanto mai adatto ad essere utilizzato come mezzo per sostenere l’infermiere a superare i

suoi dubbi. Di Fabio da una chiara definizione di counseling “Il counseling è un intervento

psicologico finalizzato a migliorare il benessere individuale e ad incrementare le abilità

personali per aumentare il funzionamento adattivo dell’individuo sia a livello personale

che interpersonale, perfezionando e implementando la qualità della sua vita. E’ un

intervento d’elezione per il potenziamento, la riorganizzazione e la mobilitazione delle

risorse personali e per il fronteggiamento, la risoluzione e il superamento di crisi (non

patologiche), siano esse evolutive o accidentali. Pur rimanendo primariamente un

intervento individuale centrato sulle peculiarità del versante comunicativo e della

relazione, può giovarsi di particolari applicazioni in un contesto gruppale e/o di estensioni

all’ambito organizzativo”104 Proprio perché non ha obbiettivi terapeutici, curativi o

ricostruttivi, ma cerca soluzione a problemi di vita e situazioni di normalità, il counseling è

considerato da alcuni come un modo efficace a disposizione di varie figure professionali

per offrire un aiuto a chi lo richiede, nei più diversi ambiti e contesti lavorativi.

CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL COUNSELING

- Il counseling è un intervento d’aiuto. Esso indica “ (…) una molteplicità di

interventi, accomunati dall’intento di offrire, a soggetti che si confrontano con

situazioni conflittuali o con problemi di varia natura, un’occasione di comprendere

104 A. Di Fabio: “Counseling e relazione d’aiuto. Linee guida e strumenti per l’autoverifica”, 2003, p. 41.

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la propria situazione in modo più chiaro (…)”105. E’ la capacità di porsi in termini

sinceri e genuini verso la persona che richiede aiuto, perciò di avvicinarsi con

onestà.

- Il counseling si fonda sul concetto d’incontro, comunicazione e relazione tra due o

più persone. Richiede abilità e strategie comunicative. Il counselor deve creare un

clima relazionale centrato sull’ascolto attivo, empatico. Deve mettersi sulla stessa

lunghezza d’onda dell’interlocutore.

- La relazione è finalizzata ad aiutare il cliente“ aiutare le persone ad aiutarsi” ( Di

Fabio, 1999). Come dice Carl Rogers, viene enfatizzato il ruolo attivo della

persona che cerca per prima di farsi aiutare nella ricerca di soluzioni alle proprie

difficoltà. Il counseling mira all’attivazione e alla riorganizzazione delle risorse

esistenti nella persona.

- Il counseling può essere utilizzato per insegnare al cliente ad affrontare diversi

problemi e difficoltà. Ha il compito specifico di abilitare il cliente a prendere una

decisione riguardo a scelte di carattere personale relative a problemi o difficoltà

speciali che lo riguardano direttamente.106

Il counseling quindi serve principalmente a promuovere il benessere della persona, a

renderla capace di assumersi responsabilità in quanto essere autonomo. Guida al processo

di autoesplorazione attraverso il vissuto emozionale,nel qui e ora e permette di acquisire

quella consapevolezza che conduce al contatto chiaro tra il sé e l’ambiente. Consente,

attraverso l’aiuto del counselor, di ricontestualizzare ovvero offre la possibilità di

sviluppare una diversa visione che cambi il significato dell’evento, aiuta a non vedere il

problema secondo la prospettiva di chi ha ragione o chi torto, stimolando la

trasformazione delle posizioni irrigidite. Questa viene detta anche riformulazione che

consiste nel ridire, con altre parole, in modo più conciso o più chiaro, ciò che l’altro ha

appena detto, ricercando l’accordo da parte del soggetto (Mucchielli,1983). Il counseling

aiuta a confrontare ciascun soggetto con quegli aspetti della personalità che non vengono

percepiti, favorendo l’ascolto dell’altro e di noi stessi, sviluppando un apprezzamento più

empatico dell’esperienza interna. Per queste sue caratteristiche di immediatezza e

105 P. Valerio: “ La psicologia di counseling.” , 1997, p. 154. 106 J. Burnett: “What is Counselling?, in Counselling at work” a cura di A.G. Watt, London, Bedford Square Press., 1977.

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semplicità, in quanto è sufficiente anche un solo incontro, il counseling si presta molto

bene, per essere usato come strumento di aiuto all’interno dei servizi sanitari. E’ privo di

quelle connotazioni psicoanalitiche che spaventano, allontanano e creano non poche

resistenze spesso associate alla precarietà della psiche.

4.3.6. STRATEGIE DI COPING

Il processo di coping è principalmente coinvolto nel processo di adattamento a situazioni

stressanti. Secondo Lazarus è “avere la meglio sugli eventi” e cioè in inglese , quello che

viene definito come coping: “ l’ insieme dei tentativi per riuscire a controllare gli eventi

ritenuti pericolosi o superiori alle mie risorse”. Siamo noi quindi a dare coloritura alle

situazioni stressanti, “ non è tanto importante quello che ci accade, quanto il modo in cui

noi lo interpretiamo” (Selye). Diventa rilevante la nostra capacità di valutare un evento

“l’operazione mentale che ci fa dare all’evento un significato soggettivo, personale; è la

mia sensazione che sia in pericolo qualcosa d’importante, ed è anche il calcolo delle mie

risorse per affrontare e diminuire il pericolo” (R. S. Lazarus). Si è portati perciò a

chiedersi se sia a rischio il nostro benessere personale, la nostra emotività, pertanto siamo

istintivamente guidati a proteggerci da queste minacce attuando in modo personale alcune

strategie di coping. Pertanto il concetto di coping, entra in gioco quando una situazione

viene percepita come stressante allo scopo di attivare la persona a cercare di fare qualcosa

per dominare l’evento e per controllare le proprie emozioni. Ma quando l’individuo viene

posto di fronte ad un evento stressante non è solo, ma è inserito nel contesto in cui vive.

Quindi si pone l’attenzione su una visione olistica dei problemi e degli eventi stressanti,

mostrando come questi siano inseriti e radicati nel contesto sociale. Questa posizione ci

riporta al modello sociocontestuale di Berg (1998), che studia il processo attraverso cui gli

individui in connessione con gli altri affrontano gli eventi della vita, costituendo un’unità

sociale che va oltre alle proprietà dei singoli individui. Alla luce di queste considerazioni il

coping può essere pensato come un costrutto multidimensionale e un processo che

coinvolge più livelli: emotivo, comportamentale, valutativo e sociale. Infatti, oltre

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all’ambito esclusivamente individuale e personale, il coping interessa anche il gruppo

sociale in cui è inserito: i colleghi, la famiglia, gli amici e quindi l’equipe in cui

l’infermiere lavora. In questa prospettiva, il ruolo degli altri e del contesto sociale assume

valenze specifiche non solo di semplice risorsa od offerta di sostegno, ma come

componente fondamentale che interviene a definire il costituirsi stesso del processo di

coping. Le strategie di coping dette anche di “fronteggiamento” seguono stili individuali,

anche se meno stabili e rigidi rispetto ad esempio ai tratti di personalità, possono essere

distinte almeno quattro strategie riconosciute107 :

• Coping centrato sulla soluzione del problema, caratterizzato dal tentativo di

affrontare la situazione problematica, cercando le soluzioni più adeguate e facendo

ampio ricorso a risorse ed esperienze personali ( ad esempio “Cerco di trovare

soluzioni efficaci”, “ Opero con i mezzi che ho a disposizione”).

• Coping centrato sulla richiesta di supporto sociale, caratterizzato dalla tendenza a

ricercare il sostegno, il consiglio e l’aiuto di altre persone per risolvere la situazione

problematica ( ad esempio “Cerco aiuto tra i colleghi” o “ Mi consiglio con un

collega che stimo”).

• Coping centrato sul disagio emotivo, caratterizzato dalla tendenza a reagire

fortemente a livello emotivo di fronte al problema e dall’incapacità a gestire e

controllare adeguatamente le proprie emozioni ( ad esempio “Ho difficoltà a

controllare le mie emozioni” e “Entro in uno stato di forte agitazione”).

• Coping centrato sull’evitamento del problema, caratterizzato dalla tendenza a

tentare di eludere la situazione problematica a livello cognitivo o comportamentale

( ad esempio “Evito di pensarci” e “ Delego la soluzione del problema a un mio

diretto superiore”).108

Le strategie di coping, che comprendono la soluzione del problema e la richiesta di

supporto sociale, hanno il tentativo di trasformare l’evento stressante in un compito più

padroneggiabile o addirittura in una sfida professionale. Questi atteggiamenti proteggono

l’infermiere dal burn-out emotivo. Al contrario strategie come la fuga e l’espressione del

107 N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie”, 2004, p. 254. 108 Art. “ La valutazione dello stress e delle strategie di coping di medici e infermieri, attraverso l’Healh Professions Stress and Coping Scale” ,2006 http://www.giuntios.it/items/showArticolo

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LXII

disagio di fronte all’evento e, l’evitamento con auto colpevolizzazione, predispongono

all’insorgere del burn-out emotivo. Evitare quindi situazioni difficili da gestire,

rimandandole nel tempo o lasciandole ad altri, si rivela in ultima analisi dannoso per

l’operatore, che vede aumentare i suoi livelli d’ansia e insoddisfazione, tanto da non

riuscire più a gestirsi. L’infermiere si trova a fronteggiare svariate situazioni che mettono a

dura prova la sua capacità di dirigere, più o meno adeguatamente, le strategie di coping

acquisite. Gli eventi più frequenti sono:

• L’emergenza clinica, relativa a situazioni di elevata emergenza in cui è in pericolo

la vita di un paziente.

• Relazioni problematiche con pazienti e familiari, si riferisce a situazioni di

contrasto con il paziente e i suoi familiari tanto da rendere difficoltoso e ricco di

ostacoli il regolare svolgimento dell’attività lavorativa.

• Attacco personale, si riferisce ad attacchi personali da parte dei colleghi, dei

superiori, del paziente o della sua famiglia, ancor peggio se immotivati.

• Svalutazione personale, riguarda situazioni in cui l’infermiere ha la netta

sensazione che le proprie richieste, i suoi suggerimenti e le necessità di

formazione non vengano ascoltati.

• Imprevisti organizzativi, relativi a situazioni d’improvvisa difficoltà sul versante

organizzativo che compromettono il normale espletamento delle proprie mansioni

o interferiscono con la propria vita privata.

Le strategie di coping, che quotidianamente vengono messe in atto dall’operatore della

cura, devono essere viste non solo come nemiche, ma anche come fonte di stimolo alla

propria crescita professionale e personale. Esse sono un campanello d’allarme che ci

segnala quando le cose non vanno per cui si rende necessario imparare a gestirle, a

cambiarle per usarle a nostro vantaggio. Il tempo che dobbiamo trascorrere al lavoro deve

essere anche tempo di riflessione affinché si maturi l’esigenza di formazione e di richiesta

d’ aiuto, come ad esempio con il counseling. Particolarmente utile è il contributo che la

teoria psicanalitica fornisce per l’analisi dei meccanismi di difesa e quindi anche i

meccanismi di coping come la negazione, l’evitamento ecc. In questo caso , l’attenzione

non è tanto posta sui significati inconsci dei problemi, ma sui modi affettivi di affrontarli.

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LXIII

L’analisi di questa cultura affettiva difensiva può essere utile, in quanto resta più ancorata

al presente, anche se i meccanismi difensivi sono nati solitamente nel lontano passato e una

loro individuazione e definizione può essere un obiettivo ragionevole nel lavoro di

counseling. E’ proprio nell’aprirsi al rischio dell’incontro con l’altro e con le situazioni

difficili che si fonda la possibilità trasformativa della psiche, poiché solo attraverso questa

dinamica è possibile la rappresentazione e l’elaborazione del proprio mondo affettivo.

4.3.7. FORMAZIONE

La formazione può essere il nodo centrale per iniziare un’efficace azione preventiva nei

confronti dello stress lavorativo? Azione che si concentrerebbe in particolare su temi come

il coinvolgimento emotivo, dovuto al contatto ripetuto con la sofferenza che dà luogo

all’instaurarsi di una situazione di anaffettività e di indurimento interiore. Questo tipo di

atteggiamento è la risultante inevitabile del nostro lavoro: allontanarsi dal proprio sé, non

riconoscersi come parte emotivamente ed affettivamente attiva, tende ad annullare le

caratteristiche più umane della persona per privilegiare quelle più tecniche. Per

raggiungere una maturità affettiva di questa portata, serve un percorso di crescita interiore

che spinge l’operatore a ripartire da sé per rilanciarsi nel mondo del lavoro sociale di cura

e, in forma più ampia, nel mondo-della-vita (Lebenswelt). Assumere un atteggiamento di

apertura davanti al mondo, alla vita, permette l’attraversamento dell’affettività senza

timori, ma anzi con desiderio, interesse, entusiasmo e con una sana dose di forza d’animo

e coraggio. E’ un’esperienza sensoriale che evoca un senso di pienezza della vita affettiva,

sia a livello personale, sia professionale. Conoscere il proprio sentire è comprendere

sempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire e pensare le cose che

accadono.109 A questo proposito gli studi di Carl Rogers spiegano che quando “una

persona comprende se stessa, il Sé diventa più congruente con l’esperire. La persona

109 V. Iori, M. Rampazi “ Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008,p. 209-210.

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LXIV

diventa in tal modo più autentica, più genuina”110 Questo presuppone perciò che anche

chi cura riconosca le proprie emozioni e rinunci al suo ruolo di “esperto”, estraneo a

quanto sta avvenendo all’interno della relazione di cura. E’ forse la dimensione più delicata

e più difficile da apprendere. Con l’introduzione dei crediti formativi in Sanità, si è

percepita un’iniziale sensazione che qualcosa stesse cambiando, per dare slancio a un

settore come quello della formazione, la cui carenza era fortemente sentita. Ma la

formazione si occupa ancora in gran parte della preparazione tecnico-strumentale e

tralascia gli aspetti affettivo - relazionali della nostra professione. E’ quindi necessario

completare la nostra preparazione arricchendola di incontri che insegnino all’infermiere lo

sviluppo dell’ autostima, dell’ intelligenza emotiva, dell’ empatia, del senso del gruppo e

del miglioramento delle strategie di coping. Inoltre va ricordato che dovrebbe essere

responsabilità degli uffici infermieristici, in quanto vicini alla realtà dell’operatore,

organizzare percorsi formativi specifici. E’ altresì comprensibile, che le difficoltà

organizzative e le diverse dinamiche istituzionali disfunzionali si sovrappongono ai

problemi più specifici, derivanti dal contatto con la malattia e dal carico emozionale

proveniente dalla relazione d’aiuto. Ciò però non può essere motivo per giustificare queste

carenze che purtroppo sono reali. I responsabili del benessere del personale non possono

esimersi dal farsi promotori di una riflessione approfondita e di un agire declinato su

questo tema, che non può essere lasciato all’informalità e allo spontaneismo, ma deve

occupare un posto centrale nella professionalità degli operatori e nei percorsi formativi di

base e permanenti.111 Spesso, però, è l’operatore il primo artefice di questa mancanza

d’interesse, in quanto rifiuta di ricorrere alla formazione affettivo-relazionale: glielo

impedisce la vergogna di esporsi, la non accettazione della propria vulnerabilità e della sua

fragilità. I comportamenti asettici e freddi, tipici del burn-out emotivo, esprimono la

tradizionale modalità “anaffettiva” dei Servizi che bandiscono i vissuti emozionali e ne

vietano ogni interferenza nei codici delle condotte professionali. Conoscere il proprio

sentire è comprendere sempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire e

riflettere sulle cose che accadono. Essere sincero e autentico è difficile, ma deve essere

possibile per l’infermiere quando è pronto a “viversi, vedersi, ascoltarsi come essere vivo

che è nel mondo con gli altri” e a mettere “a disposizione nel rapporto educativo la sua vita

110 C. Rogers “ Un modo di essere. I più recenti pensieri dell’autore su una concezione di vita centrata-sulla- persona”. 1993, p.102. 111 V. Iori “Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2208. p. 221.

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verso il comprendere e lo sperimentare l’esistenza altrui” ( Iori, 1988, p. 165). Anche nei

momenti in cui si è accompagnati dal dolore si può trovare uno spazio in cui continuare a

stare bene con se stessi. Nei momenti di difficoltà emotiva, e in una giornata di lavoro ce

ne sono tanti, è utile anche solo confrontarsi con i propri colleghi e trovare momenti di

condivisione. Spesso ascoltare un compagno di lavoro riapre quella condizione di

rispecchiamento in cui l’operatore rimbalza un possibile esito di problematiche e disagi che

sono anche i suoi. Il bisogno di raccontarsi è presente, anche se a volte è poco esplicitato

oppure viene espresso nei momenti informali d’incontro, come la “pausa caffè” o durante il

cambio all’interno degli spogliatoi. “Sarebbe auspicabile promuovere spazi d’incontro in

cui raccontarsi le difficoltà emotive del lavoro, lasciandole uscire, legittimando il vissuto

di rispecchiamento, superando la logica oppositiva/difensiva noi-loro e scoprire il “senso

degli altri”112 Bisognerebbe dare un nuovo significato alla parola equipe, spesso così

lontana, così fredda e distaccata dal contesto più umano della cura. E’ sempre riferita

all’organizzazione del lavoro ma in termini tecnicisti, dovrebbe assumere invece il

significato di reciprocità e di ascolto tra i componenti. Affinché questo possa avere luogo è

necessario che chi - ha - cura acquisisca un buon livello di competenza emotiva, in

particolare verso se stesso: saper riconoscere le proprie tensioni per essere in grado di

agirle nella relazione evitando sia di rifugiarsi in un’ asettica neutralità sia di farsi

travolgere dal sentire dell’altro. Nei contesti formativi destinati ai professionisti della cura,

dovrebbero essere organizzati laboratori riflessivi in cui dare spazio anche alla

rielaborazione della vita emozionale. In quelli che si definiscono laboratori di riflessività

sulla vita emozionale è importante promuovere attività di pensiero capaci di provocare una

disamina analitica e critica della propria esperienza, affinché i partecipanti individuino la

qualità dei propri vissuti e da lì identifichino la matrice generativa nonché l’intensità e la

direzione della forza performativa che tali vissuti esercitano sull’agire.113In conclusione,

l’ambiente di lavoro può diventare supportivo, anche nelle situazioni di fragilità, quando si

respira un’atmosfera fiduciosa, nutrita di sentimenti coltivati in una cura della vita emotiva.

“Ci si migliora se, nel coltivare se stessi, si coltivano le possibilità di un’universale

amicizia. Incontrarsi e chiamarsi amici”.114 La formazione, come abbiamo sin qui spiegato,

è fondamentale, è l’unico mezzo per risvegliare l’interesse, motivare alla ricerca, al

112 M. Augè: “Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia”, 2000. 113 L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 90. 114 S. Natoli, “Il libro della cura di sé degli altri del mondo”, 1999.

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rinnovamento e alla riflessione, è da sempre una spinta motivazionale di crescita.

All’interno dell’attività formativa possiamo trovare diverse approcci, abbiamo già parlato

del counseling, un modo breve ed immediato per dare sollievo a chi lo richiede,

all’importanza che rivestono strategie di coping adeguate e ora, di seguito, andremo ad

elencare brevemente altre metodologie tra cui i Gruppi Balint, il Role play e l’utilizzo

dell’autobiografia per la cura del sé.

GRUPPI BALINT

Michel Balint nacque a Budapest nel 1896. Formatosi come medico psichiatra e

psicanalista affermò che l’idea di permettere al medico di utilizzare sia la terapia

farmacologia, sia la psicoterapia, in vista dei bisogni del suo malato, era stata per lui una

fonte d’interessi fin dall’epoca dei suoi studi in medicina. Balint coltivò questa idea,

sperimentandola con un gruppo di medici generici già negli anni trenta, nonostante le

diffidenze destate da questi gruppi, che ne ostacolarono lo sviluppo. Poco prima dell’inizio

dell’ultima guerra emigrò a Londra dove, a partire dal 1950, con la moglie Enid, organizzò

una serie di seminari per medici alla clinica Tavistock. Era nato così e si diffondeva, il

“Gruppo Balint”115. L’elemento fondamentale, che caratterizza il Gruppo Balint, è

considerare la centralità della persona. Saper ascoltare diventa così il primo obiettivo da

raggiungere con la formazione balintiana. Come dice Balint “con un terzo occhio” e

“attraverso tutti i pori della pelle”.116 Il gruppo, nella sua conduzione più classica, è

composto da infermieri, medici che con la conduzione di uno psichiatra di formazione

psicanalitica, discutono quei casi della loro pratica professionale che sono stati causa di

difficoltà sul piano emotivo-relazionale con il paziente. La frequenza degli incontri può

essere settimanale o quindicinale e la durata nel tempo dell’esperienza è di almeno un paio

di anni. Il gruppo ottimale è generalmente formato da 10-15 partecipanti che devono sedere

in circolo e parlare avendo ciascuno la possibilità di osservare tutti gli altri. Questa

caratteristica permette di definire il gruppo Balint come “piccolo gruppo” o “ gruppo vis-à-

vis”. Come valido mezzo di prevenzione del burn-out emotivo, il Gruppo Balint consente

115 M.L. Bellini, G.Marasso ,D.Amadori, W. Orrù, L.Grassi, P.G.Casali,P.Bruzzi:” Manuale di Psiconcologia”, edito da Masson p.928. 116 SIMP, Società Italiana Medicina Psicosomatica http://nuke.simpitalia.com, Marzo 2009.

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l’apprendimento emozionale di nuove capacità, perché la comprensione del partecipante

dipende sia dalla capacità conscia d’ascolto, sia dalla recettività inconscia dell’animatore. I

partecipanti sono messi in contatto con esperienze psicologiche ancora informi, poco

strutturate ma intense. Colui che espone il caso clinico, esprime anche il proprio vissuto

emozionale, durante la riunione di gruppo trasmette una molteplicità di segnali e di

comunicazioni, anche non verbali, talvolta contradditori e apparentemente privi di

significato. Questi segnali diventano comprensibili soltanto attraverso la risonanza

emozionale che producono ai partecipanti del gruppo. Questo fenomeno di risonanza è

basato sui processi psichici dell’identificazione proiettiva e della personificazione delle

emozioni, molto presenti nel Gruppo Balint. E’ stato ipotizzato che l’uomo è naturalmente

e spontaneamente ricettivo alla risonanza emotiva; nella personificazione e

nell’identificazione proiettiva riconosciamo alcuni processi psichici primordiali, base

comune dell’empatia e dell’intuizione del vissuto altrui. Il Gruppo Balint diventa occasione

per ricevere consigli e indicazioni, si hanno inoltre a disposizione diversi vertici di

osservazione. L’ascolto si diversifica e si arricchisce: diviene anche ascolto di sé e delle

proprie reazioni emotive di fronte alla sofferenza. All’ interno del gruppo si portano alla

luce emozioni ove ciascun individuo può aiutare l’altro a riconoscerle, a esprimerle, a

contenerle e a trasformarle. Oltre ad esplicitarsi la risonanza come fenomeno, è presente

anche il rispecchiamento, attraverso il quale, aspetti si sé spesso inconsapevoli vengono

colti nell’altro. Quando l’incontro rivela anche nostre qualità di solito va tutto bene,

quando riflette qualcosa di noi che non ci piace è più facile che si tenti, con modalità di

tipo proiettivo, di disconoscerla e di collocarla solo nell’altro.117 Il Gruppo Balint non è

solo il mezzo supportivo che si è rivelato di utilità per chi lavora nelle helping-profession

ma presenta vantaggi che presentano costi e tempi limitati, visto il grande impegno di ore

lavorative degli operatori. Una peculiarità non trascurabile è che il sostegno proveniente da

un gruppo di lavoro, viene ritenuto, da chi lo sperimenta, molto ricco di stimoli per

migliorare il proprio rapporto con se stessi e migliora anche la capacità d’interazione con

l’utente.

117 N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie”, 2004, p. 266-267.

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ROLE PLAYING O GIOCHI DI RUOLO

I giochi di ruolo sono tecniche che derivano dalle teorie psicodrammatiche. Sono metodi

basati sulla simulazione di una situazione, di un evento, sulla messa in scena, per il

coinvolgimento dei partecipanti chiamati a immedesimarsi, a vestire panni di altri, a

ipotizzare soluzioni. E’ possibile mettere in scena una tipica situazione presente

quotidianamente all’interno dell’ Unità Operativa, quindi interpretare il ruolo di un’altra

persona o di una parte di se stessi che solitamente non è messa in gioco. Per esempio si può

interpretare un paziente o un familiare considerati insopportabili o un altro collega con il

quale si ha una relazione problematica. Rappresentare una scena o recitare “ nei panni di

qualcun altro” è in realtà un modo per accostarsi a se stessi, per esprimere parti di sé e

riconoscere modalità relazionali disfunzionali, non consapevoli, messe in atto nella

relazione con l’altro118. Oltre ai partecipanti è presente un formatore che dirige, osserva e

registra quanto avviene e che, con una certa esperienza, può interpretare ruoli particolari,

come ad esempio l’antagonista della situazione. All’ interno del role playing possiamo

considerare quattro fasi principali :

• Warming up: Questa fase comprende tutte quelle tecniche ( brevi sketch e scenette,

interviste e discussioni) volte a “riscaldare” l’ambiente, a creare, se non ancora

presente, un clima accogliente.

• Azione: E’ la fase di gioco vera e propria tra gli attori. Può comprendere tecniche

particolari come l’inversione dei ruoli, il doppio ( l’assistente si pone alle spalle

dell’attore e prova a dare voce a ciò che l’attore sembra non riuscire ad esprimere)

che è una funzione di sostegno e accompagnamento.

• Cooling off: Opposta al Warming up, questa fase serve per uscire dai ruoli e dal

gioco e riprendere le distanze.

• Analisi del role playing: IL role playing offre opportunità di apprendimento. In

primo luogo legate al momento della messa in scena, della drammatizzazione, grazie al

coinvolgimento che viene stimolato; in secondo luogo legate al momento di commento,

discussione e analisi di ciò che è avvenuto: delle parole, dei gesti, della postura, degli

atteggiamenti, del detto e non-detto. L’esistenza di questa fase dipende dalla presenza di

118 G. Marasso, M. Tomamichel : “ La sofferenza psichica in oncologia. Modalità d’intervento”, p. 153.

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diversi fattori: un gruppo che svolga la funzione di contenitore, la capacità e la

motivazione dei partecipanti a mettersi in gioco, a scoprire lasciandosi scoprire, dalla

capacità del formatore di intuire quale deve essere il livello di profondità delle

interpretazioni a cui è opportuno fermarsi. Ogni commento non richiesto e non tollerato dai

partecipanti indurrà delle difese, sarà pertanto dannoso. Il role playing può essere fonte di

cambiamento , ma perché questo si verifichi bisogna riconoscere la presenza di una

disfunzionalità nelle attuali pratiche di comportamento e riuscire a passare a una

progettualità nuova: promuovere il cambiamento, ricostruire un clima collaborativo,

rilassato e accogliente. In questo modo il role playing agisce sull’aspetto emotivo e

cognitivo.119 “Interpretando diversi ruoli all’interno del gruppo ognuno capirà meglio se

stesso ed i propri ruoli abituali, ne aumenterà le possibilità, trasformando spesso il suo

modo di essere. Questa esperienza privilegiata sfocia su una migliore conoscenza di sé e

degli altri, su una presa di coscienza di ciascuno e del proprio atteggiamento profondo. “

(Schutzenberger, 1975, p. 80 ) Il gioco di ruolo promuove un apprendimento attivo e per

questo molto efficace, “ Apprese in questo modo, queste lezioni non si dimenticano

facilmente” ( Schutzenberger, 1975, p. 70) 120.Da questa sintetica panoramica emerge

come i gruppi nelle varie configurazioni, siano un mezzo naturale di interazione e di

scambio, in equilibrio dinamico con gli individui che ne fanno parte. Possono diventare

pertanto irrinunciabili strumenti di lavoro in grado di potenziare risorse e creatività.

L’AUTOBIOGRAFIA COME CURA DI SE’

L’autobiografia è un genere letterario che il critico francese Philippe Lejeune ha definito

come “ racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza,

quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria

personalità". C’è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi

in modo diverso dal solito. Questo bisogno, i cui contorni sfumano, e tale può restare per il

resto dell’esistenza, una presenza incompiuta, ricorsiva, insistente, è ciò che prende il

nome di pensiero autobiografico. Il pensiero autobiografico, anche laddove si volga verso 119 S. Ricotta : “Il Role Playing”, 2004 http//www.psicologiadelavoro.com. 120 A. Improta: “Il Role Playing” laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia, 2006. http//psicolab.net

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un passato personale doloroso di errori o occasioni perdute, di storie consumate male o

non vissute affatto, è pur sempre un ripatteggiamento con quanto si è stati. Questa

riconciliazione - un’assoluzione talvolta certo difficile - procura all’autore della propria

vita emozioni di quiete. Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia avrebbe

potuto conoscere altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di

cercare di amarla poiché la nostra storia di vita è il primo e ultimo amore che ci è dato in

sorte. Per tale motivo il pensiero autobiografico in certo qual modo ci cura; ci fa sentire

meglio attraverso il raccontarci e il raccontare che diventano quasi forme di liberazione e

di ricongiungimento.121La scrittura autobiografica ( pratica che sta iniziando a diffondersi

in alcuni servizi) consente di ritrovarsi, di ridare un senso alla propria identità personale e

professionale, di “ ri-progettarsi” nel progettare la cura. L’autobiografia professionale

accresce la consapevolezza di sé, sgorga da un intuizione che mette a fuoco un vissuto, che

dà parola a una sensazione rimasta indefinita, che depone sulla carta una delusione, una

gioia commossa. “ La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio

delle vite, che non può essere detto (…): Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna

scrivere”122 Alla parola scritta, si affidano, quei moti dell’anima generalmente taciuti e

allontanati entro rapporti che devono soggiacere alle tecniche.123 Il lavoro dell’aver cura

ha bisogno di riflessività e saggezza, della capacità di elaborare pensieri in dialogo

continuo con l’esistenza. Il vuoto di sapere e di competenze, sulle diverse forme di disagio

professionale, può iniziare ad essere colmato attraverso la scrittura di sé, quella scrittura

intesa come “ luogo interiore di benessere e di cura”, “ esercizio filosofico applicato a se

stessi.” (Demetrio, 1995, p. 10).La rilevanza della narrazione come strumento formativo e

di cura è insita nella capacità di far emergere gli aspetti più significativi dell’esperienza

vissuta. La sua finalità è sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti di se stessi e delle

funzioni svolte, imparando a riflettere sui modi in cui si vive la relazione. Nella formazione

in ambito sanitario, come abbiamo più volte sottolineato, viene data spesso la priorità alle

competenze scientifiche tralasciando quelle umanistiche. Ma, oltre al sapere scientifico, è

importante acquisire e sviluppare anche la capacità di ascolto, di comprensione e di

rispetto. La responsabilità di coloro che lavorano nella cura si acquisisce formandosi anche

attraverso la metodologia della narrazione, dove il soggetto in apprendimento narra di sé;

121 D. Demetrio: “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”, 1995, p.10-11. 122 M. Zambrano:”Verso un sapere dell’anima”,1996, p. 25-26. 123 V.Iori: “Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008,p. 235.

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delle proprie motivazioni al lavoro di cura, delle occasioni di apprendimento, delle prime

conoscenze della cura, delle proprie esperienze di curato, quando qualcun altro si è

occupato di lui. Le nostre esperienze di malattia complessivamente racchiudono una tal

densità di componenti cognitive e di vissuti affettivi che richiedono un’adeguata

elaborazione culturale ed esistenziale. Il pensiero narrativo è molto legato al contesto ed

alla situazione particolare da cui si sviluppa. Il riferimento è sempre ad eventi particolari e

concreti che caratterizzano la giornata lavorativa. Nelle attività formative, quindi, la

narrazione non può essere un fatto individuale, ma spesso il racconto del singolo viene

condiviso, analizzato ed interpretato dal gruppo “ Il testo è un ponte che unisce narratore

ad ascoltatore su cui transita esperienza che si offre all’osservazione, alla condivisione,

all’elaborazione e all’interpretazione propria e altrui”124 Si evidenzia dunque il valore del

metodo della narrazione come forza generatrice di un patto per il cambiamento, per una

relazione che possa aiutare sia chi cura che coloro che si offrono come facilitatori del loro

apprendimento in un percorso che parte dalla accettazione e dal riconoscimento dei limiti

per camminare insieme e trovare le vie per superarli. Il dispositivo narrativo consente

dunque di educare alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo della competenza

emotiva. I sentimenti ed i pensieri di chi cura possono essere raccolti ed esaminati

attraverso l’utilizzo di diari emozionali con l’obbiettivo di indagare il tipo di sentimenti e

vissuti che si provano, e con la possibilità di riflettere su questi ultimi. (Pittala, Mantyranta,

2004). La pratica diaristica consente di porsi in una posizione percettivo-riflessiva diversa

rispetto a quella abituale, e di riconsiderare, così, aspetti dell’esperienza professionale

solitamente abbandonati alla routine del lavoro quotidiano. Di qui l’idea che riconquistare

zone “invisibili” perché scontate, o vedere aspetti diversi di una medesima esperienza, o

scegliere di soffermarsi analiticamente su un percorso professionale ( per esempio le

dinamiche relazionali tra colleghi, la gestione delle problematiche che possono insorgere

nella gestione dei familiari, i momenti a forte impatto emotivo dell’operatore ecc. ), siano

tutte occasioni formative che trovano nella scrittura giorno-per-giorno un espediente unico

per estensione e profondità. Madrussan sottolinea come l’utilizzo dei diari si configuri

come una vera e propria “sosta riflessiva”, necessaria per dare forma alla propria esistenza.

In tal modo riflettere sull’esperienza significa riflettersi nell’esperienza, cioè significa

rielaborare, amplificare e ricondurre l’accaduto ad una pratica di sé tesa ad attribuire senso

124 Franza, A.Montana: “Dissolvenze.Le immagini della formazione”,1997.

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e forma alla problematicità dell’io.( Madrussan, 2007). La letteratura presenta numerose

esperienze dell’utilizzo della diaristica nella formazione in ambito sanitario, consentendo

di affermare che tale pratica si presenta ricca di risvolti positivi per l’apprendimento

dall’esperienza. (Garrino, 2007). L’utilizzo della narrazione trova inoltre una sua

applicazione in senso autobiografico all’interno delle esperienze personali nella sezione

che comprende aspetti biografici e personali relativi a “chi sono” ed al “che cosa ho fatto”

per la presentazione e ricostruzione della propria storia professionale, utile anche condurre

il proprio bilancio di competenze. L’utilizzo delle pratiche di tipo narrativo si presta e

supporta anche la creazione di un laboratorio continuo come spazio di analisi e riflessione

sulle pratiche quotidiane, quale strumento di supervisione nei contesti lavorativi. L’utilizzo

di metodologie narrative richiede tempo: i ritmi devono essere lenti per consentire la

libertà di espressione e il tempo di analisi e interpretazione. La complessità dell’utilizzo

della narrazione richiede una progettualità accurata ed una definizione degli obiettivi di

apprendimento finalizzati ai bisogni formativi dei soggetti. E’ importante inoltre, che il

discente percepisca chiaramente che la propria narrazione non venga utilizzata per fini

valutativi di tipo sanzionatorio. Trovarsi davanti ad un foglio bianco con il mandato di

narrare può scatenare delle crisi di rifiuto, deve essere garantita la libertà individuale, senza

forzature ed obblighi. La presenza e il supporto del formatore, che dimostra di accogliere

questa difficoltà iniziale, sdrammatizzando, alleggerendo e fornendo esempi per il ricordo

di situazioni significative, permette di superare il blocco iniziale. Il raccontare e il

raccontarsi consente di orientare lo sguardo su aspetti particolari dell’esperienza e

sviluppare nel soggetto in formazione questa capacità riflessiva su di sé. Il dispositivo

narrativo contribuisce ad educare alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo della

competenza emotiva: consente di esplorare prima a livello individuale e poi in gruppo la

dimensione cognitiva e affettiva dell’apprendimento, dell’insegnamento e del lavoro di

cura, portando i partecipanti a riflettere su quali sono le dinamiche e sugli esiti.

Complessivamente consente un ricco ed approfondito lavoro di crescita personale e

professionale.

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CAPITOLO 5. MATERIALI E METODI

5.1. DISEGNO

E’ stato effettuato uno studio descrittivo con somministrazione di un questionario,

composto da 12 domande. Questa ricerca è nata con lo scopo di capire quale e quanto sia il

coinvolgimento emotivo, dell’infermiere, “nell’assunzione” quotidiana della sofferenza.

Attraverso le risposte degli operatori si è cercato di comprendere se il disagio emotivo era

tale da renderli vittime di se stessi. Altresì si è individuato se erano in grado attraverso

adeguate strategie di coping e una formazione mirata di divenire sopravvissuti. Questa

indagine ha permesso di capire se il problema del burn-out emotivo esiste, se è percepito

e quanto possa condizionare il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e gli affetti. Sono

stati distribuiti 221 questionari nel mese di Ottobre 2008 presso gli Ospedali di Mirandola

e Finale Emilia della provincia di Modena.

5.2. SETTING Ospedale di Mirandola presso le Unità Operative di:

• Medicina Generale;

• Chirurgia;

• Pneumologia;

• Ortopedia;

• Pediatria;

• Lungodegenza post-acuzie;

• Fisiatria;

• Cardiologia;

• Day Hospital Oncologico;

• Ostestricia e Ginecologia;

• Sala Operatoria chirurgica;

• Sala Operatoria ortopedica;

• Endoscopia;

• Pronto Soccorso;

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Ospedale di Finale Emilia presso le Unità Operative di:

• Lungodegenza post-acuzie;

• Punto di primo intervento;

• Day Surgery;

5.3. POPOLAZIONE I questionari sono stati distribuiti a tutto il personale infermieristico. In totale ne sono stati consegnati 221 e raccolti 136 (≅ 61%) 5.4. RICERCA E RISULTATI Questionari divisi per sesso: Su un campione di 136 infermieri, 23 (17%) erano di sesso

maschile, 113 (83%) di sesso femminile.

Figura 1 - Questionari divisi per sesso

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Questionari divisi per anzianità di servizio: Su un campione di 136 infermieri sono stati

suddivisi per anzianità di servizio, frazionati in decadi: da 1 a 10 anni di anzianità 35

infermieri, da 11 a 20 anni 53 infermieri, da 21 a 30 anni 39 infermieri e ≥ a 30 anni 5

infermieri.

Figura 2 - Questionari divisi per anzianità di servizio

Questionari divisi per età: Il campione analizzato è suddiviso per età anagrafica: 13

infermieri con età compresa tra 20 e i 30 anni, 66 con un’età compresa tra i 31 e i 40 anni,

49 con un’età compresa tra i 41 e i 50, infine 8 infermieri con età ≥ ai 50 anni.

Figura 3: Questionario diviso per età

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1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella

infermieristica?

Nel campione preso in esame 67 infermieri hanno scelto la professione perché hanno un

interesse per le professioni sanitarie, 65 per il desiderio di essere utili a qualcuno, 18

perché garantisce uno stipendio sicuro, 17 perché hanno un familiare o un’amico che

svolge la stessa professione, 8 perché hanno vissuto un dramma familiare, 4 per il fascino

che la professione suscita, in particolare riferito al modo in cui i media ci rappresentano e 1

non ha risposto.

Figura 4: 1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella infermieristica?

2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenza

durante gli anni di studio?

Il 52% del campione ha risposto con un sì, il 46% con un no e il 2% poco.

Figura 5: 2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la

sofferenza durante gli anni di studio?

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3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una persona soffrire?

Nel campione analizzato 70 infermieri provano compassione, 69 tenerezza, 37

malinconia, 34 inadeguatezza, 30 dolore, 28 rabbia, 21 distacco,12 paura, 5 fastidio e 4

cinismo.

Figura 6: 3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una persona

soffrire?

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4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la

quale la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?

Nel campione preso in esame 26 persone non hanno risposto, 8 hanno risposto “non mi sono

mai sentito messo alla prova”, 19 hanno risposto “uso la mia professionalità per non gestire le

mie emozioni”, 17 hanno risposto “sono fortunato! – la vita è breve!”, 17 hanno risposto

“cerco un modo per liberarmene”, 6 hanno risposto “ti condiziona la vita cambiandola”, 30

hanno risposto “mi sento psicologicamente troppo debole”, infine 11 hanno risposto “mi sento

inutile”.

Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante quale la tua emotività è stata messa a dura prova?

26

8

19

17

17

6

30

11

Figura 7: 4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la quale

la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?

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LXXIX

5°Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?

Per il 60% del campione preso in esame la vita e il lavoro sono indipendenti,e per il

40% sono interdipendenti.

Figura 8: 5° Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più in

accordo?

6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte al

dolore e alla sofferenza?

Le strategie di coping più utilizzate dal campione preso in esame, divise per anzianità di

servizio,

Figura 9: 6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di

fronte al dolore e alla sofferenza?

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LXXX

7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quando sei

emotivamente in difficoltà?

Nel campione preso in esame il 54% a dichiarato che Qualche volta si è confrontato con

i colleghi, il 27% Spesso e il 19% Mai.

Figura 10: 7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quando

sei emotivamente in difficoltà?

8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal

provare emozioni forti?

L’85% del campione preso in esame ha risposto No, il 6% Non so, il 6% Non ha risposto e

il 3% ha risposto Sì.

Figura 11: 8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo

ti esoneri dal provare emozioni forti?

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LXXXI

9°Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?

Il 34% del campione preso in esame ha paura di potersi indurire emotivamente, il 19% si

sente emotivamente sfinito, per il 15% il contatto diretto con il dolore e la sofferenza gli

pesa, l’11% dichiara di essere diventato insensibile, un altro 11% non ha dato nessuna

risposta e il 10% ritiene di trattare gli utenti come oggetti.

Figura 12: 9° Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?

10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibilità, nei momenti di difficoltà

emotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?

Il 64% del campione preso in esame ha risposto Sì e il 36% ha risposto No.

Figura 13: 10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibilità, nei momenti di

difficoltà emotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?

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LXXXII

11° Domanda del questionario: Hai mai sentito parlare di counseling?

Il 51% del campione dichiara di aver sentito parlare di counseling e il 49% dichiara di non

conoscerlo.

Figura 14: 11° Domanda del questionario: Hai mai sentito parlare di counseling?

Completamento 11° Domanda del questionario:

Il 67% del campione ha dichiarato di essere venuto a conoscenza del termine counseling

all’interno di percorsi formativi e il 33% durante il percorso di studi.

Figura 15: Completamento 11° Domanda del questionario: Se sì in quale occasione?

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LXXXIII

12° Domanda del questionario: Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse a

conoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?

Il 75% del campione ha dichiarato di non aver mai frequentato alcun corso che lo aiutasse

ad elaborare le proprie emozioni e il 25% ha dichiarato di aver frequentato un corso che lo

aiutasse ad elaborare le proprie emozioni.

Figura 16: 12° Domanda del questionario:Hai mai frequentato un percorso formativo

che ti aiutasse a conoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue

emozioni?

Completamento della 12° domanda del questionario:

Il 50% del campione ha scelto i gruppi Balint e i role playing, il 12% un

counselor/psicologo permanente, il 10% non sa e il 5% vorrebbe degli incontri individuali

con un counselor/psicologo.

Figura 17: Completamento della 12° domanda del questionario: Se no, cosa preferiresti

ti fosse proposto?

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LXXXIV

5.5. DISCUSSIONE E CONCLUSIONE

La raccolta dati ha permesso di evidenziare situazioni dalle quali emergono elementi di

discussione piuttosto interessanti che confermano quanto il nostro lavoro sia impegnativo

dal punto di vista emotivo. E’ importante mettere in evidenza l’elevata adesione al

questionario, dei 221 distribuiti a tutto il personale infermieristico dei Presidi Ospedalieri

di Mirandola e Finale Emilia, ne sono stati raccolti 136 per cui ben il 61% dei colleghi

hanno aderito all’iniziativa. L’adesione allo studio, che ha avuto una durata di 4 mesi

(Ottobre 2008 - Gennaio 2009), è stata del tutto volontaria e, come già specificato, non ha

voluto privilegiare nessuna Unità Operativa in particolare. La scelta della sperimentazione

ha coinvolto ogni infermiere in servizio nel periodo suddetto, in quanto il coinvolgimento

emotivo di fronte alla sofferenza, riguarda tutti indistintamente. I dati percentuali riferiti

alla partecipazione al questionario e la spontaneità all’adesione ci hanno consentito di

capire quanto il problema dell’emotività venga sentito. Persone con un passato, che

inserisce luci ed ombre sul presente; che nutrono sogni, desideri e aspettative; che si

muovono nel quotidiano, con il loro bagaglio di frustrazioni, delusioni, orgoglio, voglia di

“farcela” e timore di fallire. Infermieri/e che hanno messo a disposizione tutta la loro

esperienza e sensibilità per aiutarci a comprendere che cosa si cela sotto la superficie della

quotidianità e, già dalle prime risposte, affiora la componente emotiva. Alla domanda che

chiedeva del perché si è scelto il lavoro di cura, la maggioranza riferisce di essere stata

spinta dal desiderio di essere utile a qualcuno, molti, quando sono a contatto con la

sofferenza, avvertono compassione, tenerezza, inadeguatezza e malinconia. Un dato

significativo da rilevare è l’elevata presenza di personale di sesso femminile (83% del

campione) che dà sicuramente ragione di queste risposte. La donna ha da sempre una

collocazione di prevalenza nel lavoro di cura, si parla addirittura di “una “divisione

sessuale del lavoro di cura” che attribuisce alle donne la responsabilità delle attività di

cura”. Il personale maschile, se pur irrisorio (17% del campione), ha infatti privilegiato lo

stipendio come motivazione alla scelta della professione perché in genere l’uomo ha più

difficoltà ad esplicitare il proprio disagio interiore, difficilmente abbandona il cliché di

persona forte ed autosufficiente. Nel titolo della tesi viene suddiviso l’infermiere,

nell’approccio alla sofferenza, in “vittima” o “sopravvissuto” e dalle risposte successive si

avverte con chiarezza questa realtà. L’infermiere “vittima” appare in tutta la sua fragilità

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LXXXV

quando gli viene chiesto “Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la quale

la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?”. Il grafico è rappresentato

appositamente da una serie concentrica di cerchi che vanno da una condizione di massima

freddezza sino ad una di elevato coinvolgimento, con una piccola percentuale che esprime,

seppur in modo lieve, un desiderio di riscatto. Partendo dalla situazione di massima

freddezza troviamo che ben 26 componenti del campione non hanno risposto e 8 non si

sono mai sentiti messi alla prova, un segnale piuttosto preoccupante in quanto non fanno, o

non sono in grado di fare nessuna riflessione di fronte alla sofferenza. E’ un messaggio

chiaro di disagio e di distacco, di allontanamento dal problema che sembra non riguardarli,

preferiscono “non sapere”, “non porsi alcuna domanda”, si trincerano dietro una cortina di

gelo nella speranza che possa proteggerli, senza pensare che invece non fa altro che

renderli ancor più indifesi. Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai

sentimenti, non dà voce alle emozioni, non attribuisce significato a una parte importante

dei compiti professionali e soprattutto alle proprie risorse emotive. Sempre rimanendo

nell’ambito di questo schema, un totale di 46 infermieri/e dichiara di utilizzare la propria

professionalità per allontanarsi dalle emozioni o preferisce “frasi fatte” quali “sono

fortunato! La vita è breve!”. Dobbiamo chiederci se in queste affermazioni ci sia solo una

certa superficialità o se invece sono anch’esse una modalità di fuga. Proseguendo

nell’analisi 17 colleghi del campione si lasciano condizionare al punto che il lavoro è in

grado di cambiargli la vita, tanto che 40 di loro ritiene che vita familiare e professione

siano interdipendenti e leggiamo dichiarazioni come: “Spero che ciò che ho visto oggi, non

capiti mai alla mia famiglia”, “Nelle situazioni dolorose ripenso spesso i miei figli”. Si

giunge infine a dati allarmanti in cui 41 infermieri/e riferiscono di sentirsi troppo deboli

per affrontare la sofferenza quotidiana, o addirittura di sentirsi inutili e si esprimono con

frasi come “ Chiudo il “cancello” delle mie emozioni”, “Rifletto sulla sofferenza, e capisco

che è più facile accettare la morte che la sofferenza stessa”. Come non pensare a questo

punto ad un elevato tasso di burn-out emotivo, ad un vero e proprio “analfabetismo

emozionale” a quello che viene definito un “guaritore ferito”. All’interno della stessa

domanda, tra i molti che denunciano una chiara sofferenza interiore, 17 hanno dichiarato di

cercare un modo per liberarsi da certi pensieri ritenuti ingombranti anche se non sanno

ancora come. Vediamo comunque affiorare un fragile tentativo di riscatto, uno stimolo

alla riflessione, un segno di speranza, un’ammissione e una volontà di essere aiutati, uno

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sforzo per cercare di crescere e migliorarsi. Purtroppo nell’immaginario comune si è

portati a credere che la scelta di svolgere un lavoro di cura sia tale da renderci immuni al

coinvolgimento, all’empatia e al disagio ma fortunatamente alla domanda “Pensi che l’aver

scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioni forti?” l’85% dei colleghi ha

risposto di non sentirsi affatto esonerato dal provare forti emozioni, nonostante abbia

preferito una professione che invece dovrebbe trovarci “pronti” o “abituati” al dolore

altrui. Al di là dei propositi positivi, viene ancora svelato un buon livello di sofferenza che

traspare con chiarezza alla domanda “Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?”.

Parecchi infermieri/e dichiarano (il 34% del campione) che hanno paura di poter indurire il

proprio carattere, accanto ad un 19% del campione che si sente emotivamente sfinito e un

altro 15% che riferisce quanto il contatto diretto con il dolore e la sofferenza crei nel loro

animo una sensazione di peso. Quanta forza e che grado elevato di disperazione si coglie in

simili e alquanto pesanti dichiarazioni; se non è esaurimento emotivo questo..! Il

questionario prosegue con altre interessanti rivelazioni inerenti le strategie di coping messe

in atto dal campione preso in esame. E’ evidente, dall’analisi dell’ istogramma, quanto il

campione si differenzi nella scelta delle strategie di coping da adottare al fine di proteggere

il proprio benessere personale. Gli infermieri/e che hanno un’anzianità lavorativa che va

dall’1 ai 10 anni di attività tendono ad usare un approccio negativo. Privilegiano coping di

evitamento e di distacco, oppure scelgono di non rispondere o di non utilizzare alcuna

strategia difensiva. L’atteggiamento scelto, va senza dubbio imputato al fatto che non

hanno ancora maturato esperienza sufficiente che li possa tutelare dall’essere

eccessivamente coinvolti, sono incapaci di gestire adeguatamente le loro emozioni e non

riescono ad elaborarle. Questo dato si contrappone decisamente a quel 52% che ha

dichiarato di essere stato formato durante il percorso scolastico ad affrontare le situazioni

di sofferenza. Se ne deduce che probabilmente la formazione è stata inadeguata,

insufficiente e alquanto inefficace. Interessante infatti, è notare l’assoluta inesistenza di

modalità di coping positive quali l’ottimismo o le abilità professionali. Il campione con

anzianità lavorativa ≥ a 30 anni fa ricorso all’ottimismo, all’ironia e al sorriso per

sdrammatizzare la situazione. Diversamente molti di loro non utilizzano nessuna strategia

in particolare. Questo dato non è da vedersi in modo negativo in quanto, molto

probabilmente, accettano l’evento emotigeno come parte della loro quotidianità.

Preferiscono elaborarlo successivamente, eventualmente facendo ricorso al coping centrato

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LXXXVII

sulla richiesta di supporto sociale, infatti il 54% sono disposti a confrontarsi con i colleghi

dopo una giornata o un evento emotivamente pesante. Il campione con anzianità che va

dagli 11 ai 30 anni ha una distribuzione più equa delle strategie, l’unico dato interessante

di chi ha un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni è che preferisce non ricorrere alle

abilità professionali, si è già allontanato dall’idea che il tecnicismo possa essere sufficiente

a tutelarlo dall’eccessivo coinvolgimento. Appare comunque evidente, dai dati generali,

quanto sia pesante la situazione di burn-out emotivo, il bisogno di aiuto che deve essere

garantito all’operatore, già dai primi anni di attività lavorativa. L’infermiere/a ha il

diritto/dovere di ricercare un valido supporto per potersi ritenere “sopravvissuto”. Il

desiderio di essere aiutati è palesato da un 64% dei colleghi che vorrebbe rivolgersi ad una

esperto in caso di difficoltà emotiva e da più di un 50% che ha sentito parlare di counseling

all’interno di percorsi formativi. Interessante è sapere che purtroppo ben il 75% non ha mai

affrontato un percorso formativo che lo aiutasse ad elaborare le proprie emozioni. Appare

evidente che si favoriscono sempre corsi di formazione che privilegiano la preparazione

tecnico-strumentale. Ai colleghi è stato inoltre chiesto cosa avrebbero preferito gli fosse

proposto, ai fini di sviluppare una maggiore capacità all’elaborazione degli eventi e allo

sviluppo di più adeguate strategie di coping. La maggioranza ha preferito il Gruppo Balint

o il Role Playing oppure un counselor permanente all’interno della struttura. In

conclusione dai dati rilevati appare chiaramente la presenza di tassi elevati di sofferenza

nell’operatore. L’infermiere che è parte in causa ed è direttamente coinvolto

“nell’assunzione quotidiana di sofferenza” diventa l’attore principale del coinvolgimento

emotivo. Questo continuo contatto con il dolore lo indurisce interiormente e lo allontana

dalla scelta che ha fatto, quella di offrire aiuto e cura a chi ne necessita. Da questa ricerca

è quanto mai chiaro che il problema dello stress emotivo esiste e che spesso non è

manifesto, lo si allontana quasi non ci riguardasse. Solo un attenta analisi ha permesso che

la realtà fosse visibile in tutta la sua gravità. Appare evidente quanto il collega che inizia

la nostra professione esca dal periodo di studi privo di una formazione adeguata, che lo

tuteli per escludere la possibilità che il burn-out emotivo lo colpisca. La spinta

motivazionale, presente agli inizi dell’attività, non è sufficiente a difenderlo, le sue

aspettative di un ambiente lavorativo diverso, più attento alle difficoltà emotive

dell’operatore vengono ben presto, e in più occasioni disattese. Solo con il passare degli

anni l’esperienza aiuta ad affrontare e ad affinare le strategie di coping. Il percorso però è

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denso di difficoltà e sarebbe utile intervenire prima che trascorrano molti anni in cui non si

è fatto nulla per migliorare se stessi e la propria vita interiore. Questa ricerca ha permesso

di mettere in luce aspetti molto interessanti dell’emotività che vanno oltre le semplici

competenze tecniche. Lo scopo fondamentale era quello di capire se il problema del burn-

out emotivo esisteva e se era percepito dagli infermieri di qualunque contesto lavorativo.

E’ noto che all’interno di alcuni contesti, come reparti che gestiscono pazienti oncologici o

le unità operative di pronto soccorso, siano maggiori le possibilità di burn-out emotivo ma

credo che ogni operatore sanitario ne sia colpito e, a cambiare, siano semplicemente i

tempi d’insorgenza. Inoltre è davvero triste pensare che per potersi tutelare si debba far

affidamento solo sulla propria esperienza lavorativa, ritenere che sia il tempo trascorso a

contatto con la sofferenza ad insegnarci le corrette strategie di coping e la capacità di

elaborazione. Sarebbe di grande interesse che ricerche come questa riuscissero a

sensibilizzare i responsabili del personale sanitario affinché questo fenomeno possa essere

controllato. Bisognerebbe evitare, attraverso una formazione precoce e costante, che il

burn-out emotivo abbia inizio e riuscire ad arginare il problema prima che si manifesti.

Quest’opera di rinnovamento servirebbe prima di tutto al benessere dell’operatore e di

conseguenza ne beneficerebbe anche chi necessita delle sue cure.

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6. ALLEGATI - QUESTIONARIO

Gentile collega, ti chiedo un attimo del tuo tempo per rispondere a qualche domanda. Sto facendo una ricerca che ha lo scopo di capire quale e quanto sia il nostro coinvolgimento emotivo “nell’assunzione” quotidiana di sofferenza. Mi sono chiesta se siamo in grado di percepire i nostri sentimenti e le nostre emozioni, di dar loro un valore e, se e quanto condizionano il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e i nostri affetti. Alcuni dati per conoscerti:

Eta’: Sesso: Anzianita’ lavorativa:

1. Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella infermieristica? (segna con una x le tue motivazioni)

• Uno stipendio sicuro • Un’esperienza drammatica in famiglia • Un familiare/amico che gia’ svolge questa professione • Il desiderio di essere utile a qualcuno • Un interesse per la pratica sanitaria • Il fascino suscitato dalla professione infermieristica, in particolare riferito al

modo che certa televisione ha di rappresentarci

2. Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenza durante gli anni di

studio?

Si No

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3. Cosa avverti quando vedi una persona soffrire? (segna con una x sino a tre possibilità)

• paura • compassione • distacco • cinismo • dolore • orrore • fastidio • inadeguatezza • malinconia • tenerezza • rabbia

4. Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro durante la quale la tua

emotività e’ stata particolarmente messa alla prova?

5. Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?

• La vita privata e il lavoro sono interdipendenti • La vita privata e il lavoro sono totalmente indipendenti

6. Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte al dolore e alla

sofferenza?

7. Ti sei mai confrontato con i colleghi quando sei emotivamente in difficoltà?

• Spesso • Qualche volta • Mai

8. Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioni

forti ?

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9. Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?

• Mi sento emotivamente sfinito/a dal mio lavoro • Lavorare a contatto diretto con il dolore e la sofferenza mi pesa • Ho l’impressione di trattare alcuni utenti come oggetti • Da quando ho iniziato a lavorare sono diventato insensibile • Ho paura di potermi “indurire” emotivamente

10. Vorresti avere la possibilità, nei momenti di difficoltà emotiva, di rivolgerti ad

un esperto all’interno del tuo Presidio?

Si No 11. Hai mai sentito parlare di counseling?

Si No

Se si in quali occasioni?

12. Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse a conoscerti meglio,

a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?

Si No Se no cosa preferiresti ti fosse proposto?

Grazie per la collaborazione