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sinergie n. 73-74/07 L’inefficacia dei modelli di corporate governance. Un’evidenza empirica: il caso Parmalat * MAURO GATTI ** BICE DELLA PIANA *** MARIO TESTA **** Abstract L’articolo intende riesaminare le concezioni e le prassi prevalenti di corporate governance, riconducendole all’interno del quadro ideologico e paradigmatico del neo- liberismo. Solo in questo modo, infatti, si ritiene possibile una migliore comprensione delle ragioni per cui i modelli di corporate governance sin qui applicati abbiano mostrato significativi segni di debolezza nel prevenire e nel contrastare le crisi del sistema economico, come di recente è accaduto. L’articolo intende pervenire ad una riformulazione del concetto di corporate governance che contribuisca alla definizione di un nuovo “campo magnetico istituzionale”, in grado di riconoscere i diversi ruoli e le responsabilità che ciascun attore impegnato in tale processo deve assumere nella promozione di una possibile nuova forma di capitalismo, più aderente alle aspettative e ai valori diffusi nella società. Parole chiave: corporate governance, crisi del sistema economico, neo-liberismo, campi magnetici istituzionali The article intends on evaluating the main concept of corporate governance, taking it back to the ideological and pragmatic theory that created it: the neo-liberalism. Only by doing so it will be possible to understand the reasons why the corporate governance models developed up until now have been significantly poor in forecasting and contrasting economic system crises, such as the most recent one of the last few years. The aim of the article is therefore to re-define the concept of corporate governance, highlighting the different roles and responsibilities that each player must assume in order to promote a new form of capitalism, with the results being closer to society’s expectations and values. This will offer a contribution to the formation of a new “institutional magnetic field” upon which a new founding concept can be based, including new behavioural models geared towards * Sebbene il lavoro sia frutto di un’impostazione unitaria e di riflessioni comuni e condivise, sono da attribuire, rispettivamente, a Mauro Gatti l’introduzione e i paragrafi 2, 7 e 8, a Bice Della Piana i paragrafi 3, 4 e 5, a Mario Testa il paragrafo 6 e i box relativi al caso Parmalat. ** Straordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Salerno e-mail: [email protected] *** Dottore di ricerca in Economia e Direzione delle Aziende Pubbliche - Università degli Studi di Salerno e-mail: [email protected] **** Dottorando di ricerca in Marketing e Comunicazione - Università degli Studi di Salerno e-mail: [email protected]

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sinergie n. 73-74/07

L’inefficacia dei modelli di corporate governance. Un’evidenza empirica: il caso Parmalat*

MAURO GATTI** BICE DELLA PIANA*** MARIO TESTA****

Abstract

L’articolo intende riesaminare le concezioni e le prassi prevalenti di corporate governance, riconducendole all’interno del quadro ideologico e paradigmatico del neo-liberismo. Solo in questo modo, infatti, si ritiene possibile una migliore comprensione delle ragioni per cui i modelli di corporate governance sin qui applicati abbiano mostrato significativi segni di debolezza nel prevenire e nel contrastare le crisi del sistema economico, come di recente è accaduto. L’articolo intende pervenire ad una riformulazione del concetto di corporate governance che contribuisca alla definizione di un nuovo “campo magnetico istituzionale”, in grado di riconoscere i diversi ruoli e le responsabilità che ciascun attore impegnato in tale processo deve assumere nella promozione di una possibile nuova forma di capitalismo, più aderente alle aspettative e ai valori diffusi nella società. Parole chiave: corporate governance, crisi del sistema economico, neo-liberismo, campi magnetici istituzionali

The article intends on evaluating the main concept of corporate governance, taking it

back to the ideological and pragmatic theory that created it: the neo-liberalism. Only by doing so it will be possible to understand the reasons why the corporate governance models developed up until now have been significantly poor in forecasting and contrasting economic system crises, such as the most recent one of the last few years. The aim of the article is therefore to re-define the concept of corporate governance, highlighting the different roles and responsibilities that each player must assume in order to promote a new form of capitalism, with the results being closer to society’s expectations and values. This will offer a contribution to the formation of a new “institutional magnetic field” upon which a new founding concept can be based, including new behavioural models geared towards * Sebbene il lavoro sia frutto di un’impostazione unitaria e di riflessioni comuni e

condivise, sono da attribuire, rispettivamente, a Mauro Gatti l’introduzione e i paragrafi 2, 7 e 8, a Bice Della Piana i paragrafi 3, 4 e 5, a Mario Testa il paragrafo 6 e i box relativi al caso Parmalat.

** Straordinario di Economia e Gestione delle Imprese - Università degli Studi di Salerno e-mail: [email protected] *** Dottore di ricerca in Economia e Direzione delle Aziende Pubbliche - Università degli

Studi di Salerno e-mail: [email protected] **** Dottorando di ricerca in Marketing e Comunicazione - Università degli Studi di Salerno e-mail: [email protected]

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INEFFICACIA DEI MODELLI DI CORPORATE GOVERNANCE. CASO PARMALAT

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recuperating the sense of institution as well as the institutional role of each player in the safeguarding of general and more widespread interests.

Key words: corporate governance, economic system crisis, neo-liberalism, institutional magnetic fields

1. Introduzione La corporate governance ha assunto negli ultimi anni un’importanza cruciale

negli studi manageriali. Ciò è anche dovuto al ruolo che molti studiosi le attribuiscono nella delicata fase di superamento della crisi che ha di recente colpito l’intero sistema economico. Numerose imprese e istituzioni di vario ordine e nazionalità, nell’ultimo decennio, sono fallite o sono state condotte in situazione di grave dissesto in seguito a comportamenti palesemente illegali o irresponsabili dei relativi vertici1.

Il presente lavoro riconosce nell’inefficacia dei meccanismi della corporate governance uno dei fattori che hanno concorso a determinare la suddetta situazione di crisi. I modelli di corporate governance vigenti in molti Paesi - pur con i necessari distinguo - riflettono i profondi cambiamenti dovuti alla diffusione dell’ideologia dominante in ambito economico e, più in generale, politico-sociale, negli anni Ottanta e Novanta: il neo-liberismo. Si intende, così, analizzare il concetto e le prassi prevalenti di corporate governance, partendo proprio dal quadro ideologico e paradigmatico del neo-liberismo. Solo in questo modo, infatti, si ritiene possibile una migliore comprensione delle ragioni per cui i modelli di corporate governance sin qui applicati abbiano mostrato significativi segni di debolezza nel prevenire e nel contrastare crisi sistemiche come quella recente. L’obiettivo che l’articolo si prefigge è quindi pervenire ad una riformulazione del concetto di corporate governance, che metta in evidenza i diversi ruoli e le responsabilità che ciascun attore impegnato in tale processo deve assumere nella promozione di una possibile nuova forma di capitalismo, più aderente alle aspettative e ai valori diffusi nella società. Il quadro teorico cui il lavoro attinge condivide l’impostazione di taluni studiosi secondo la quale determinate teorie - incluse alcune di quelle su cui si fondano molte delle attuali concezioni della corporate governance - risultano dannose, in quanto fondate su presupposti o assunti di base che, esplicitamente o implicitamente accolti dagli operatori, si traducono in profezie auto-avverantisi, in pratiche e comportamenti distorti (Ghoshal 2004).

Funzionale agli obiettivi del presente lavoro è poi il caso Parmalat, emblematico di una situazione di dissesto il cui impatto economico, finanziario, istituzionale e sociale ha assunto proporzioni rilevanti, a livello nazionale e internazionale. La tecnica di rilevazione utilizzata è l’analisi documentale. I dati analizzati sono desunti da documenti ufficiali quali bilanci, organigrammi, articoli di giornali e riviste 1 Una loro ampia elencazione, peraltro non esaustiva, è contenuta in Gallino L., L’impresa

irresponsabile, Einaudi, Torino, 2005, pagg. 12-17.

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specializzate, banche dati. Un’ultima annotazione riguarda l’esposizione del case study; essa segue le considerazioni che, a livello teorico, emergono nello svolgimento del lavoro.

2. La base ideologica della corporate governance

L’inizio del terzo millennio ha fatto emergere un quadro piuttosto allarmante

dello stato di salute del sistema economico capitalistico. L’esplosione della bolla speculativa finanziaria ha dato origine ad un ciclo recessivo le cui dimensioni ed effetti non sono mai stati sperimentati dall’ultimo dopoguerra. Gli scandali societari, dovuti alla corruzione e a comportamenti illegali e fraudolenti, la manipolazione del mercato, la collusione con gli organismi di vigilanza, l’inefficacia dei controlli delle istituzioni pubbliche, lo sviluppo dirompente dei nuovi strumenti finanziari, ecc., rendono oggi più visibili i segni della trasformazione del sistema capitalistico industriale in quello del capitalismo finanziario globale.

Simili accadimenti si sono verificati nonostante i considerevoli avanzamenti registrati negli ultimi decenni dagli studi manageriali ed organizzativi sulle tematiche della responsabilità sociale dell’impresa, dell’etica, della stessa corporate governance. Nel medesimo periodo, l’impianto normativo dei Paesi più industrializzati si è nel complesso rafforzato, incorporando nuove sensibilità e istanze generalmente diffuse in merito alla protezione di interessi “deboli”, afferenti ai lavoratori, alle minoranze azionarie, ai risparmiatori, ai consumatori, ecc. Istituzioni dotate di particolari professionalità e di sofisticati strumenti di analisi si sono via via interposte fra varie tipologie di attori economici, con lo scopo ufficialmente dichiarato di ridurre le asimmetrie informative, promuovere la concorrenza, contrastare i potenziali conflitti di interesse, aumentare la trasparenza e tutelare il pubblico dei risparmiatori e - in generale - dei cittadini2. Inoltre, nuove forme di regolamentazione (ad esempio l’adozione di principi contabili uniformi a livello internazionale) e di auto-regolamentazione delle attività economiche (codici di condotta e di auto-disciplina; codici etici, ecc.) si sono affermate ad opera di enti ed istituzioni nazionali e sopranazionali.

All’interno delle imprese, i sistemi di monitoraggio e di gestione dei rischi sono diventati più sofisticati, con l’affinamento delle tecniche dei controlli e la disponibilità di una più vasta strumentazione a supporto dell’attività imprenditoriale. Nonostante questi ed altri aspetti, a fronte dei recenti accadimenti sembra che l’esperienza del “grande crollo” del ’29 altro non abbia lasciato se non uno sbiadito ricordo degli effetti delle “crisi strutturali” del sistema economico, delle misure necessarie a contrastarle, degli errori da non ripetere in futuro.

2 Ci si riferisce alle banche centrali, alle agenzie di rating, alle authority di vario genere,

alle società di revisione contabile, di certificazione della qualità e della conformità ai principi di responsabilità sociale e, ancora, alle società di investimento del risparmio nel comparto della cosiddetta finanza etica, ecc.

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Alla crisi - ora come allora - hanno contribuito in maniera significativa anche i comportamenti delle principali istituzioni economiche, con l’aggravante del coinvolgimento proprio di quelle che l’esperienza del ’29 aveva vivamente consigliato di attivare per realizzare un complesso equilibrio di “pesi e contrappesi” volti a mitigare l’impatto sociale ed economico dei comportamenti devianti.

Le cause di quanto accade hanno radici lontane; i sintomi non erano sconosciuti né invisibili e gli effetti non potevano considerarsi del tutto imprevedibili. Il quadro diagnostico evidenzia aspetti da un lato ascrivibili a comportamenti generalizzabili e comuni a tutti i Paesi economicamente progrediti, dall’altro addebitabili al particolare contesto politico-istituzionale, sociale ed economico da cui i comportamenti in esame sono originati.

L’ideologia neo-liberista - nata dall’applicazione, nei primi anni Ottanta, dei principi della scuola “monetarista” di Chicago alla politica economica statunitense e quindi britannica - ha prodotto mutamenti radicali nella struttura portante del sistema capitalistico dei Paesi ad economia progredita3. Al mercato, ai suoi meccanismi e ai processi di auto-regolamentazione attuati con strumenti tipicamente privatistici e contrattuali, è stato progressivamente delegato l’importante ruolo di coordinamento delle attività economiche. Nell’ambito di questa ideologia devono essere inquadrati i modelli di corporate governance e da essa occorre partire per una corretta valutazione degli scopi e dell’efficacia dei suddetti modelli. Tale valutazione richiede un’analisi del più generale contesto sociale - istituzionale, culturale, politico oltre che economico - che ha concorso a determinare la forma e gli elementi essenziali della corporate governance. 3. Campi magnetici istituzionali e modelli di corporate governance

Un modello di corporate governance tende a qualificarsi come uno schema di

riferimento presente ed attivo nel contesto in cui l’impresa opera, dai confini non ben definiti e a mano a mano più sfumati quanto più l’ambito operativo assume caratteri di marcata internazionalizzazione. Concorrono alla determinazione di uno specifico modello di corporate governance le istituzioni deputate all’emanazione di norme di legge, codici di auto-regolamentazione e regole di condotta di tipo non

3 Cfr. Stiglitz J.E., The Roaring Nineties: A New History of the World’s Most Prosperous

Decade, Norton, New York, 2003, ha di recente efficacemente illustrato i fattori che hanno determinato il profondo cambiamento dello scenario economico e istituzionale. Tra questi, i più importanti appaiono: 1) le politiche di liberalizzazione in una serie di settori industriali tra cui, in particolare, quello bancario, con la conseguente eliminazione di ogni barriera tra l’attività di erogazione del credito ordinario e le funzioni di investimento tipiche della merchant bank; 2) la de-regolamentazione, con la progressiva cessione ai meccanismi del mercato di una serie di funzioni regolatrici in precedenza assolte dal sistema normativo, dalle istituzioni pubbliche e governative; 3) i processi di privatizzazione, con il passaggio di mano del controllo di una serie di grandi imprese dallo Stato ai privati.

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coercitivo. A queste si accompagna il complesso di istituzioni incaricate di assicurare il rispetto delle suddette norme (la magistratura, le autorità ispettive e di vigilanza, le società di revisione e certificazione dei bilanci, gli organi societari preposti al controllo sull’operato degli amministratori, quali il collegio sindacale o il comitato di sorveglianza, ecc.) o degli organismi aventi il compito specifico di monitorare costantemente l’andamento economico-finanziario dell’impresa esprimendo giudizi sullo “stato di salute” dei titoli e delle obbligazioni da questa emessi (agenzie di rating). Tali norme e regole sono frutto della specifica evoluzione sociale, politica, storico-culturale ed economica, del contesto in cui tali entità sono presenti e delle interazioni che si producono tra le varie istituzioni e che concorrono a modificarne le condizioni.

La corporate governance ha, dunque, lo scopo di regolare gli interessi che gravitano attorno all’impresa, incidendo sui rapporti di potere in base ai quali si formano le decisioni di governo e, conseguentemente, si determinano l’allocazione e la distribuzione delle risorse di cui l’impresa stessa dispone. Se questo può essere definito lo scopo esplicito di qualunque modello di corporate governance, il suo scopo implicito consiste nel predisporre e nel rendere effettivi quei meccanismi in grado di prevenire o attenuare i conflitti tra portatori di interessi, salvaguardare l’unitarietà dell’impresa ed evitare che situazioni di dissesto esplodano mettendo a repentaglio interessi generali e diffusi. È con specifico riferimento a questo scopo implicito - guardando ai numerosi casi di dissesto finanziario registrati negli ultimi anni - che appare visibile l’inefficacia dei modelli di corporate governance così come hanno trovato applicazione nei maggiori Paesi industrializzati.

Un modello di corporate governance rappresenta pertanto uno schema contestualizzato di azione organizzata, volto ad incidere direttamente sulla struttura dell’organo di governo e, quindi, sulle dinamiche di funzionamento dell’impresa. Poiché ciascun modello riflette la cultura e la storia dello specifico contesto in cui esso si è formato, una prospettiva di studio importante, al fine di comprendere le fonti di varietà dei modelli di corporate governance può essere individuata nella Teoria delle Contingenze4.

A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la Teoria delle Contingenze è stata arricchita al fine di considerare le variabili culturali ed istituzionali che possono aver influenza sulla determinazione di un assetto organizzativo o di un altro e che hanno consentito di identificare dei “campi organizzativi” caratterizzati dalla

4 Questa teoria - nella sua versione originaria, sviluppatasi nella seconda metà degli anni

sessanta nell’ambito degli studi organizzativi - è stata impiegata per valutare la potenziale “superiorità relativa” di un assetto organizzativo rispetto ad un altro. In particolare, il programma di ricerca di tale teoria richiedeva in via preliminare la specificazione: a) delle principali forme di organizzazione e delle principali alternative strutturali; b) delle diverse condizioni, situazioni, contingenze in cui i vari assetti organizzativi sono efficaci e efficienti. Ciò consente una valutazione della maggiore efficacia di un modello rispetto ad altri in ragione delle differenze riscontrate tra le variabili strutturali e i meccanismi operativi adottati, rapportate alle caratteristiche e alle specificità del contesto di riferimento.

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tendenza all’isomorfismo organizzativo. Come opportunamente sottolineato, l’analisi delle contingenze strutturali, culturali e istituzionali non origina teorie rivali, bensì prospettive di ricerca che si influenzano significativamente e che si rivelano complementari5. In particolare è possibile affermare che:

a) gli effetti strutturali si sostanziano nella qualificazione delle alternative strutturali

delle organizzazioni imprenditoriali in ragione delle condizioni e delle situazioni in cui queste ultime si trovano ad operare; tali alternative sarebbero perciò qualificate come efficaci o efficienti in virtù delle specifiche contingenze in cui l’impresa opera;

b) gli effetti culturali attengono alle differenze di mentalità degli attori - ad esempio, intese come l’accettazione delle distanze sociali e di potere, la propensione al rischio, il significato attribuito al lavoro e gli standard etici prevalenti, il grado di identificazione con il gruppo di appartenenza - dando vita a contingenze correlate a differenze sistematiche nel grado di formalizzazione, accentramento e modalità di controllo presenti ed efficaci nell’organizzazione delle imprese (Hofstede 1980; Grandori 1995, 53);

c) gli effetti istituzionali riflettono l’influenza del contesto istituzionale in cui l’impresa è inserita e, più in particolare: l’influenza generata dai cosiddetti dispensatori di teorie e di modelli organizzativi (comunità scientifica, business school, imprese leader); i sistemi educativi e di formazione professionale; le norme fondamentali dei sistemi legali; la struttura politica; il livello di industrializzazione; il ruolo dello Stato nell’economia (Powell e Di Maggio 1991). La Teoria delle Contingenze - unitamente ad altre prospettive di ricerca, quali

l’istituzionalismo e l’interazionismo - può essere efficacemente utilizzata anche per inquadrare le differenze esistenti tra i diversi modelli di corporate governance presenti nei vari contesti nazionali, se si tiene conto che ciascuno di essi è frutto: a) dello specifico processo evolutivo che ha prodotto, in ciascuna nazione, l’attuale assetto strutturale della società; b) della storia, della cultura e del sistema di valori prevalente in ciascun contesto nazionale; c) delle specifiche istituzioni attualmente presenti nel contesto, delle loro interazioni e dei particolari meccanismi atti a regolare la dinamica economica.

La Teoria delle Contingenze, dunque, rende evidente la dipendenza di ciascun modello di corporate governance dall’evoluzione sociale, storico-culturale, politico-istituzionale, economica e morale (path dependency) di un determinato contesto: la considerazione di questi elementi e degli effetti che ne derivano contribuiscono alla formazione dei cosiddetti “campi magnetici istituzionali” (institutional fields) entro cui le istituzioni pubbliche e di regolazione dell’attività economica e le forme di organizzazione diretta di queste ultime si “contagiano” a vicenda stabilendo quali siano i modi “legittimi” di organizzare ed agire (Grandori 1995, 53). 5 Cfr. Grandori A., L’organizzazione delle attività economiche, Il Mulino, Bologna, 1995,

pag. 48.

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All’interno di questi campi o zone istituzionali - pensabili anche come stati-nazioni - si determina una sorta di isomorfismo non solo a livello organizzativo, ma anche comportamentale degli attori economici, che consente di spiegare, dal punto di vista “contingente”, le differenze sistematiche all’interno delle configurazioni socio-economiche-organizzative che danno origine ai diversi modelli di corporate governance esistenti nelle diverse società6. L’analisi degli effetti delle diverse contingenze consente una più corretta interpretazione del rapporto tra il contesto di riferimento ed i comportamenti imprenditoriali; tale analisi, applicata allo studio dei modelli di corporate governance, evidenzia che le contingenze ambientali, ossia le condizioni e le situazioni che operano in un determinato contesto, costituiscono non solo la fonte primaria della varietà di tali modelli ma che, al tempo stesso, ciascun modello influenza significativamente il comportamento degli attori economici. Quanto appena osservato avvalora l’ipotesi dell’institutional embeddedness dei modelli di corporate governance e consente di affermare: 1) che ogni contesto nazionale sviluppa un proprio modello di corporate governance; 2) che ciascun modello di corporate governance non è immutabile, ma può subire cambiamenti - talora consistenti pur se in epoche diverse - per effetto dell’ideologia dominante, della dinamica sociale e delle interazioni tra le diverse istituzioni, considerando che tutto ciò può anche concorrere a modificare il campo magnetico istituzionale; 3) che ogni impresa interpreta e vive diversamente il modello di corporate governance affermatosi nel contesto in cui prevalentemente opera, poiché ciascuna di esse tende alla realizzazione di una specifica forma di equilibrio tra gli interessi dei diversi partecipanti alla dinamica evolutiva della propria gestione.

Da quanto appena detto si evince che i modelli di corporate governance non sono altro che una costruzione sociale che riflette un corpus di idee, norme, regole e codici di comportamento o, più semplicemente, modi di pensare che altro non sono che “campi magnetici istituzionali”. Essi non possono essere ricondotti a dei principi aprioristici validi universalmente, in quanto sono il frutto irripetibile della storia, degli individui che l’hanno vissuta e dei contesti nei quali si è svolta. Si potrebbe dire, dunque, che sono i confini simbolici di azione degli attori economici - istituzioni comprese - dettati dai valori di riferimento di una data comunità7. In quanto tali, i campi magnetici istituzionali influenzano i modelli di corporate governance originati e adottati nei diversi contesti sociali prima che economici. Ciò suggerisce che un particolare modello di corporate governance emergente in un

6 Gli studi sulla “varietà dei capitalismi” condividono questa ipotesi di fondo. Al riguardo si

veda Guatri L., Vicari S., Sistemi di impresa e capitalismi a confronto, Egea, Milano, 1994; si veda anche Dore R., Capitalismo di Borsa o Capitalismo di Welfare?, Bologna, Il Mulino, 2000, Williamson O.E., Markets and Hierachies, Free Press, New York, 1975, Aoki M., Information, Incentives and Bargaining in the Japanese Economy, Cambridge University Press, Cambridge, 1988, North D.C., Structure And Change in Economic History, Norton, New York, 1981.

7 Come si avrà modo di argomentare in seguito, è sulle determinanti dei valori di riferimento della comunità che è necessario agire affinché i campi magnetici possano evolvere correttamente.

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INEFFICACIA DEI MODELLI DI CORPORATE GOVERNANCE. CASO PARMALAT

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determinato momento e in un determinato luogo, riflette un eterogeneo concatenarsi di eventi che, nel loro complesso, contribuiscono a formare un insieme di credenze riguardo a ciò che è accettabile e ciò che non lo è.

Fig. 1: Le relazioni tra campo magnetico istituzionale, modello e concezione di corporate governance

Fonte: nostra elaborazione Parmalat - Breve scheda tecnica8 Nel 1961 i fratelli Tanzi, Calisto ed Anna Maria, fondano Dietalat S.r.l., una piccola impresa per la pastorizzazione del latte, con sede legale in Collecchio (PR) e raggio d’azione circoscritto alle zone limitrofe. Nei primi anni Settanta l’impresa, ridenominata Parmalat nel 1968, deve la sua fortuna ad una doppia intuizione di Calisto Tanzi: l’utilizzo del “tetrapak” per il packaging del latte ed il lancio della tecnologia Uht e della microfiltrazione: sistemi di conservazione che consentono di mantenere pressoché inalterate le qualità organolettiche e nutrizionali del latte. A ciò si aggiunge un’ulteriore opportunità di mercato, derivante dalla vittoria legale sulle centrali municipalizzate del latte, costrette a rinunciare alle posizioni di monopolio, in precedenza detenute nelle varie province italiane. Nel 1970 il fatturato di Parmalat è pari a circa 3 mln €. In appena dieci anni - dal 1973 al 1983 - il volume d’affari passa da circa 10 mln € a circa 280 mln €. Nella seconda metà degli anni Settanta Parmalat inizia il processo di internazionalizzazione con lo “sbarco” in Brasile. Le principali ragioni del repentino successo di Parmalat possono riassumersi: - nella capacità di districarsi negli innumerevoli provvedimenti comunitari, emanati per il

settore lattiero; - nella creazione di una rete distributiva capillare, in grado di incrementare le vendite di

latte Uht, sebbene più costoso di quello fresco;

8 Le informazioni riportate nella presente scheda e in quelle successive sono frutto della

consultazione di numerosi articoli apparsi su quotidiani, riviste specializzate, bilanci e documenti on line. Tra questi:

Tamburini F., “Eurolat, il ‘puzzle’ è completo”, Il Sole 24 Ore, 20-2-2004, Tamburini F., “Falso e aggiotaggio: indagata Deloitte”, Il Sole 24 Ore, 9-1-2004, Tamburini F., “Cessione Eurolat da Cirio a Tanzi: affare da 250 mln per Geronzi”, www.repubblica.it, 22-01-2004, Tamburini F., “Quando Tanzi “comprò” i debiti di Cragnotti”, Il Sole 24 Ore, 16-1-2004, Monti M., “Una fabbrica di bilanci falsi”, Il Sole 24 Ore, 21/07/04, Di Staso M.K., “Il caso Parmalat”, Luiss, 2004, http://www.archivioceradi.luiss.it/docu-menti/archivioceradi/im-presa/banca/parmalat.pdf.

Concezione di corporate governance

Campo magnetico istituzionale

Modello di corporate governance

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- negli investimenti in comunicazione ed in aggressive politiche di marketing, specialmente nel campo delle sponsorizzazioni sportive;

- nei rapporti con il sistema politico, capace di garantire una efficace “rete di protezione”; - nel massiccio e continuo ricorso alla leva finanziaria (con una crescita abnorme del

quoziente di indebitamento e dell’indice di rischiosità). La leva del debito consente a Parmalat di compiere numerose acquisizioni, in Italia e all’estero, e di realizzare una strategia di “crescita esterna” basata sulla diversificazione. Fra le principali acquisizioni, vi sono: Beatrice Food (Canada); Ault Food (Canada); Bonnita Holdings (Sud Africa); Pauls (Australia); Mother’s Cake (USA). In riferimento alla strategia di diversificazione, oltre a quello del latte (fresco ed Uht) e dei suoi derivati (panna, besciamella, yogurt), Parmalat entra in altri settori - più o meno correlati e contigui - quali quello delle bevande e dei succhi di frutta, dei prodotti a base di pomodoro (sughi), dei prodotti da forno (biscotti, merendine, dessert), dell’acqua potabile microfiltrata ed imbottigliata ed in altri, più lontani rispetto al core business, ad esempio, quelli del calcio (con l’acquisizione della squadra del Parma) e del turismo. Nel 1990 Parmalat Finanziaria viene quotata presso la borsa italiana. Prima dell’esplosione della crisi, Parmalat rappresenta il quarto gruppo alimentare europeo - dopo Nestlè, Unilever e Danone - e vanta 13 marchi nel solo settore dei prodotti lattieri. Inoltre, possiede ben 124 stabilimenti produttivi, in Europa (46), in America del nord ed in quella centrale (41), in Sud America (37) ed un’altra ventina nel resto del mondo, dando lavoro a circa 36 mila dipendenti (in 30 diversi paesi): il 77% del suo fatturato viene realizzato all’estero, mentre nel 1990 era appena del 15%. Lo scandalo Parmalat scuote l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica nel novembre 2003, allorché la situazione di dissesto finanziario, a lungo coperta, emerge in tutta la sua gravità.

Un ruolo determinante nella definizione di un campo magnetico istituzionale è

svolto dalle teorie applicate allo studio dei problemi di corporate governance. In proposito, è possibile enucleare due macro prospettive teoriche di osservazione che, pur ponendo attenzione alla tutela degli interessi coinvolti nell’attività d’impresa, offrono delle diagnosi e delle soluzioni opposte tra loro. In una prospettiva si ritrova la concezione dominante di “libertà individuale” (visione individualista) e, quindi, di “massimizzazione” della ricchezza dei proprietari azionisti, che assurge ad obiettivo di fondo (o fine) dell’impresa; nell’altra ritroviamo l’idea di una “giustizia per tutti” (visione collettivista) e, quindi, una serie di raccomandazioni, di meccanismi e di strumenti per favorire l’armonizzazione degli interessi di una pluralità di soggetti a vario titolo coinvolti nell’attività d’impresa. La prima prospettiva è quella della tutela prioritaria degli azionisti e corrisponde nella sostanza alla visione della corporate governance tipica dei Paesi anglo-americani. L’assunto di base comune ai modelli che rientrano in tale prospettiva è che la tutela dei diritti di proprietà deve rappresentare il principio ispiratore delle decisioni di gestione da parte degli amministratori e, più in generale, del management (approccio “contrattualista”). La seconda si prefigge una maggiore tutela di tutti i soggetti coinvolti nell’attività d’impresa. Essa attribuisce una maggiore importanza all’aspetto “sociale” dell’impresa ed è tipico dei Paesi europei continentali (approccio “istituzionalista”).

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INEFFICACIA DEI MODELLI DI CORPORATE GOVERNANCE. CASO PARMALAT

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L’assunto comune ai modelli che rientrano in quest’ultima prospettiva è che ad essere tutelati non devono essere solo gli interessi degli azionisti, ma anche e soprattutto quelli di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nell’attività d’impresa.

Il principale fattore di confusione che ancora caratterizza l’individuazione delle determinanti dell’efficacia dei modelli di corporate governance - mai affrontato dalle suddette prospettive teoriche - è il mancato interesse per lo studio delle relazioni attivate tra entità (qualificabili in generale come “sistemi”) operanti nel contesto di riferimento dell’impresa.

La mancata esplicitazione di tale interesse di studio è dovuta principalmente alla riconduzione di tali interazioni ad una aprioristica razionalità progettuale che non è dato riscontrare nella realtà. Non esistono, infatti, in assoluto modelli ideali o efficaci di corporate governance e, dunque, determinabili a priori. La stessa struttura della corporate governance - a meno di relazioni tra componenti previste a livello normativo - emerge attraverso processi dinamici difficili da prevedere nella loro totalità oltre che nella loro complessità. Ciò che si osserva con maggior frequenza, infatti, è la correlazione tra strutture di corporate governance e fattori politici (Pettigrew, 1973).

Con ciò si vuol intendere che l’allocazione del potere - e, conseguentemente, dei profitti - tra proprietari, manager e gli altri stakeholder deriva dall’allocazione dei diritti organizzativi che, a sua volta, dipende dalle scelte effettuate dall’organo di governo nel favorire determinati soggetti a scapito di altri a seconda delle circostanze specifiche che caratterizzano il contesto in cui l’impresa opera.

Le due prospettive sono espressione di una semplificazione teorica che in genere caratterizza gli studi comparati sulla corporate governance. Le ricerche a livello comparato, in effetti, tendono ad evidenziare una differenziazione tra quello che viene definito il “modello anglo-americano” ed il “modello renano” di corporate governance. Il primo mostra un consistente grado di compattezza, in quanto derivante dalla presenza, nei rispettivi Paesi, di un contesto istituzionale, di una cultura e di un complesso di valori dominanti omogenei.

Il modello renano, al contrario, polarizza attorno al “modello tedesco” le diverse realizzazioni della corporate governance sia nei Paesi dell’Europa continentale sia in Giappone ed altri Paesi asiatici.

Pur considerando le differenze socio-culturali ed istituzionali presenti all’interno dei vari Paesi, il modello renano è espressione di una diversa concezione del ruolo dell’impresa nella società, che tende a sottolineare il ruolo e la valenza “sociale” della grande impresa, il cui profilo ed i cui interessi non raramente vengono fatti coincidere con quelli dell’intera nazione di appartenenza. Il modello anglo-americano, viceversa, è coerente con i principi del liberismo classico, fondati sulla libertà di iniziativa individuale e sulla valenza sociale del profitto, anche quando questi principi sono stati mitigati da politiche economiche caratterizzate da una maggiore attenzione e tutela degli interessi sociali collettivi.

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4. Processi di convergenza dei modelli di corporate governance Al di là delle differenze formali e delle impostazioni esplicite delle diverse

prospettive più sopra illustrate, ciò che realmente conta sono i comportamenti effettivi, ossia l’identificazione, in concreto, del “modello realmente emergente” di corporate governance.

Sotto questo profilo, i recenti scandali societari sono accomunati (oltre che dall’intento fraudolento dei comportamenti) da un sostanziale disinteresse degli attori coinvolti per la corretta applicazione dei principi della corporate governance, dall’emergere di macroscopici conflitti di interesse riflessi nelle interazioni tra imprese ed organismi di controllo, da una particolare astuzia dei singoli individui e dalla loro abilità a sfruttare tutte le possibili smagliature della ancora largamente incompleta rete di protezione giuridico-normativa a tutela degli interessi diffusi e generali (come quelli dei risparmiatori), a fronte di un contesto economico e finanziario sempre più integrato e globalizzato.

L’inefficacia dei meccanismi della corporate governance pone in evidenza che qualunque rimedio sin qui proposto, come ad esempio l’inasprimento delle sanzioni e dei controlli, potrebbe non sortire gli effetti sperati e non offrire adeguate garanzie circa il ripetersi in futuro di quanto verificatosi negli ultimi anni. Ciò che realmente può costituire una svolta significativa sembra risiedere nella formazione di un “nuovo campo magnetico istituzionale”, alimentato dal rinnovamento delle impostazioni teorico-dottrinali di base, le quali non possono più ignorare le premesse di valore che vedono nell’impresa un’istituzione sociale, uno strumento degli esseri umani e della collettività finalizzato alla creazione di valore economico e benessere sociale nel rispetto delle attese e dei valori condivisi dalla collettività stessa.

L’analisi dei comportamenti effettivi in tema di corporate governance, invece, palesa elementi di forte convergenza verso il modello anglo-americano9.

Quando ci si riferisce alla convergenza verso tale modello, dunque, bisogna specificare “verso il modello attualmente dominante”, affermatosi in seno all’ideologia del neo-liberismo.

Diversi studiosi concordano con quanto affermato da Holmstrom e Kaplan (2003), ossia che i cambiamenti nel modello di corporate governance americano sarebbero dovuti all’attivazione da parte dell’organo di governo delle grandi imprese di meccanismi di difesa contro le scalate ostili ed il rischio di takeover.

Questi fenomeni, considerati alla base degli attuali modelli di corporate governance, appaiono in realtà come l’effetto più significativo della radicale

9 È tuttavia doveroso ricordare che anche quest’ultimo ha subito consistenti mutamenti

negli ultimi decenni. Holmstrom B., Kaplan S.N., “The State of U.S. Corporate Governance: What’s Right and What’s Wrong?”, Accenture - Journal of Applied Corporate Finance, vol. 15, n. 3, Spring 2003, ad esempio, hanno recentemente analizzato le modificazioni intervenute nella concezione e nell’applicazione della corporate governance nella realtà statunitense, in seguito all’evolversi dello scenario economico e finanziario.

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trasformazione che ha consentito all’ideologia neo-liberista di affermarsi nelle moderne civiltà industrializzate.

Si vuole alludere, in particolare, ai seguenti aspetti: 1) ai processi di liberalizzazione del mercato dei capitali, con la progressiva globalizzazione di quest’ultimo e la comparsa sulla scena economica e finanziaria mondiale di nuovi attori quali i grandi investitori istituzionali (Useem 1996); 2), ai conflitti di interesse nati dalla fusione tra banche di investimento e istituti di credito ordinario (Stiglitz 2003); 3) all’effetto congiunto dei due predetti fenomeni nel determinare lo sviluppo e la diffusione di nuovi strumenti finanziari a disposizione delle imprese, che nella maggior parte dei casi sono utilizzati per raddrizzare o occultare situazioni di dissesto più o meno latenti.

L’integrazione su scala mondiale dei mercati dei capitali sino alla realizzazione di un unico mercato mondiale rappresenta l’unica forma di globalizzazione che ad oggi possa dirsi realmente compiuta. Il peso che la finanza ed il sistema finanziario hanno assunto rispetto all’economia reale e al sistema “industriale” ha profondamente modificato i rapporti di potere nello scenario dell’economia mondiale, determinando il passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario.

Esso ha imposto a tutti gli attori economici nuove e più pressanti condizioni operative, anche in quei Paesi (come l’Italia) che non disponevano e non dispongono tuttora delle condizioni di contesto istituzionali adatte a recepire e sostenere tali nuove logiche di condotta; ha generato inoltre l’illusione, negli operatori economici, che la mentalità finanziaria sia la mentalità vincente al fine di generare sviluppo economico e benessere materiale.

Il processo di concentrazione delle azioni nelle mani di pochi grandi investitori istituzionali risale agli anni Sessanta. Tuttavia, solo negli anni Novanta l’internazionalizzazione dell’azionariato si è pienamente affermata (Useem 1996). Lo stesso Useem individua le cause alla base di tale mutamento: la privatizzazione delle imprese statali, la deregolamentazione dei mercati azionari interni, le quotazioni incrociate di azioni su borse straniere.

Allo sviluppo degli investitori istituzionali e al peso da questi assunto nell’ambito del mercato globale dei capitali hanno contribuito tutte quelle misure mediante le quali rilevanti flussi di denaro sono affluiti sul mercato dei capitali finendo sotto la gestione degli investitori istituzionali: la riforma della previdenza e dell’assistenza; la proliferazione dei prodotti finanziari; l’imposizione ai governi di molti Paesi (da quelli europei a quelli sud-americani), da parte di istituzioni internazionali quali l’IMF, di politiche economiche volte alla riduzione del deficit pubblico, cui segue l’abbassamento dei tassi di interesse e lo spostamento conseguente di rilevanti flussi di risparmio dagli investimenti a rendimento fisso (tipicamente, quelli in titoli di stato) a quelli a rendimento variabile (tipicamente, le azioni).

Il cambiamento di scenario prodottosi da questi eventi appare dirompente se si riflette sui condizionamenti che gli investitori istituzionali sono in grado di esercitare sull’organo di governo dell’impresa.

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Sostenuto da un corpus teorico che spazia dalla teoria dell’agenzia a quella dei diritti di proprietà, da quella della massimizzazione del valore per gli azionisti a quella delle forze competitive (Ghoshal 2004), l’attivismo di questi attori - facilitato dalla minaccia di cessione dei rilevanti pacchetti azionari nelle proprie mani - si sostanzia nella possibilità e nella capacità di esercitare pressioni sull’organo di governo dell’impresa, che vanno dalle ristrutturazioni volte al recupero dell’efficienza (spesso accompagnate dal taglio dei costi del personale), al miglioramento delle performance a breve termine, alla modificazione dell’impianto strategico, alla definizione di nuovi meccanismi di incentivazione dei dirigenti ancorati alla creazione di valore azionario, come i piani di stock option (Useem 1996).

Gli investitori istituzionali diventano per l’impresa - e per l’organo di governo - lo stakeholder prioritario. All’interno dell’impresa si forma un orientamento alla finanza che calamita la maggior parte dell’attenzione del management e dell’organo di governo. È qui che entrano in gioco le banche universali.

L’espansione a livello internazionale del modello della banca universale consente un più stretto rapporto tra banca ed impresa.

In particolare, il ruolo della banca si estende da quello di mero prestatore di fondi ed attento controllore degli indici di solidità patrimoniale, di solvibilità e di redditività, al fine di garantire il rientro del denaro prestato, a quello di partner finanziario, di advisor e, in molti casi, di soggetto che partecipa al capitale di rischio delle imprese.

Al contempo, la possibilità per le imprese di partecipare al capitale di rischio delle banche, pur nei limiti previsti dalla legge, produce commistioni perverse tra banca ed impresa, come dimostra il fatto che, attualmente, la proprietà di non poche tra le maggiori imprese italiane è in mano alle grandi banche.

Questi eventi, producendo considerevoli mutamenti nei rapporti tra i vari interlocutori e l’impresa, con il supporto di teorie normative che hanno dominato il campo culturale delle discipline economiche e manageriali e che sono state promosse e divulgate da pressoché la totalità delle business school dei Paesi economicamente più sviluppati, hanno contribuito alla formazione di un campo magnetico istituzionale che ha condotto al processo di convergenza verso un unico modello dominante di corporate governance, quello di tipo anglo-americano.

Schiacciato dall’ossessione del soddisfacimento delle attese degli investitori istituzionali, stretto tra la necessità di massimizzare le performance finanziarie di breve periodo e di garantire l’onorabilità delle obbligazioni contratte con i nuovi strumenti ideati dal sistema bancario e finanziario, oberato dai continui impegni dei road show volti a convincere e rassicurare i mercati finanziari, è facile comprendere perché spesso il top management delle grandi imprese abbia trascurato i problemi dell’economia reale e sia incorso in pratiche scorrette ed illegali - come la manipolazione dei mercati, l’uso spregiudicato della finanza creativa, la ricerca di collusioni con gli organismi di controllo - per occultare le situazioni di dissesto delle proprie imprese.

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Gli errori industriali e la finanza creativa Lo sviluppo di Parmalat non è stato continuo e progressivo. Prima dell’esplosione della crisi l’impresa aveva già vissuto momenti di grave difficoltà. La rete di relazioni attivate - soprattutto quella intessuta personalmente da Tanzi - contribuisce al salvataggio. Si tratta, tuttavia, di una sopravvivenza artificiale, in quanto gli effetti dei soli meccanismi di mercato ne avrebbero, già da tempo, decretato il passaggio ad altre mani o addirittura sancito il fallimento. La storia di Parmalat, oltre agli elementi di successo già evidenziati, è caratterizzata anche da scelte industriali tutt’altro che vincenti. Di queste occorre tenere conto, in quanto la svolta in senso finanziario del governo e della gestione di Parmalat rappresenta la volontà e la necessità di coprire - appunto con la finanza - gravi errori commessi in campo industriale. Tra questi ultimi vanno segnalati: - la scelta strategica di puntare sui prodotti da forno: un business sul quale Parmalat non

possedeva competenze specifiche ed, inoltre, caratterizzato da ingenti investimenti in capitale fisso;

- l’infelice ingresso, con il latte Uht, sul mercato nord americano nella prima metà degli anni Novanta.

Ad una strategia industriale imprudente si affianca un uso spregiudicato della finanza. Oltre alla già menzionata leva dell’indebitamento bancario, Parmalat si avvale ripetutamente dell’emissione di bond, anche a costo di esserne travolta, come avvenuto nel 1988, allorché rischiò di essere acquisita da Kraft.

5. La lettura del campo magnetico istituzionale attraverso l’approccio sistemico vitale

L’approccio sistemico vitale (ASV) offre una nuova chiave di lettura del

comportamento dell’impresa (Golinelli 2000); esso risulta particolarmente utile per l’interpretazione delle specifiche e contestuali realtà imprenditoriali10. Si ravvisa in 10 L’ASV concepisce l’impresa come un sistema dinamico orientato alla creazione di valore

ed avente come finalità la sopravvivenza nell’ambiente in cui opera (Beer S., Diagnosi e progettazione organizzativa, Petrini, Torino, 1991). Il sistema impresa è caratterizzato da una struttura composta di due macro-componenti - il sub-sistema di governo ed il sub-sistema operativo - che si configurano come sistemi di livello L-1 rispetto al sistema impresa (livello L) che li comprende. Tali componenti qualificano la struttura universale di qualunque sistema impresa e risultano essere collegate tra di loro da relazioni bi-direzionali di amplificazione e di attenuazione della varietà cognitiva e comportamentale. Inoltre, il sistema impresa (livello L) risulta a sua volta collegato con l’ambiente esterno da un complesso di relazioni con le varie entità che lo compongono e che sono qualificate come sovrasistemi (livello L+1). In particolare, si denomina sovra-sistema una qualunque entità - appartenente al contesto di operatività dell’impresa - in grado di porre dei vincoli al comportamento della stessa, di proiettarvi le proprie aspettative e di esercitare su di essa una certa influenza; il grado di influenza varia in ragione della criticità della risorsa che il sovrasistema detiene e di cui l’impresa abbisogna e del potere di cui il sovrasistema

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questo approccio l’interesse per lo studio delle relazioni attivate tra sistemi operanti nel contesto di riferimento dell’impresa e all’interno di questa. E’ proprio l’attivazione delle suddette relazioni - ossia le interazioni intersistemiche ed intrasistemiche - ad influenzare significativamente la dinamica evolutiva del sistema impresa. L’approccio in esame, pur non disconoscendo che le specifiche dinamiche sociali interne al sub-sistema operativo (L-1) spesso possono concorrere a modificare le linee-guida per esso prefigurate dal sub-sistema organo di governo, considera espressamente la necessità di un governo unificato e centralizzato della dinamica evolutiva del sistema impresa11.

L’ASV conferisce esplicitamente a quest’ultimo la responsabilità della dinamica evolutiva del sistema impresa pur se condizionata dalle interazioni che esso intrattiene con i sovrasistemi ritenuti rilevanti e quelle che si sviluppano tra i due sub-sistemi di livello L-1. A questo punto, sembra doveroso sintetizzare i punti cardine dai quali non è possibile prescindere affinché si possa correttamente condurre l’analisi del comportamento di qualsiasi impresa:

1. conferimento della principale responsabilità della condotta dell’impresa al sub-

sistema organo di governo; 2. individuazione delle pressioni derivanti dai comportamenti dei sovrasistemi e in

particolare: a) delle pressioni che derivano dal comportamento del singolo sovrasistema sul

sistema impresa; b) delle pressioni che derivano dai comportamenti di tutti i sovrasistemi

rilevanti per l’impresa, considerati in interazione tra loro; 3. individuazione delle pressioni derivanti dal comportamento del subsistema

operativo. L’analisi del comportamento dell’impresa necessita perciò di una complessa

lettura di tutti i comportamenti che gravitano intorno all’impresa e dentro la stessa. Questa lettura presuppone due diverse direzioni: la lettura verticale consente l’individuazione delle pressioni di cui ai punti 2a e 3; la lettura orizzontale consente, invece, l’individuazione di quelle di cui al punto 2b. Entrambe le direzioni di lettura andrebbero percorse in senso bidirezionale; con ciò si vuole intendere che è fondamentale chiedersi in che modo l’organo di governo risponde alle pressioni, o più semplicemente agli stimoli, provenienti dai sovrasistemi e dal sub-sistema operativo.

dispone. Alla base dell’ASV e del ruolo centrale che l’organo di governo svolge al fine di indirizzare la dinamica evolutiva del sistema impresa, vi è l’assunto che ciascun sovra-sistema rappresenta un centro di interessi e di aspettative proiettate sull’impresa e fatte valere sulla base di un più o meno elevato grado di influenza.

11 In merito alla capacità di auto-organizzazione del sistema impresa cfr. Della Piana B., Interazioni sociali e dinamica evolutiva dell’impresa: dissonanze, incoerenze ed omeostasi, Giappichelli Editore, Torino, 2005.

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Come si avrà modo di argomentare in seguito, è proprio l’analisi delle reazioni dell’organo di governo ai suddetti stimoli o pressioni che consente di leggere compiutamente il comportamento dello stesso in quanto responsabile principale della condotta dell’impresa, nell’ambito degli spazi d’azione ad essa concessi dalle pressioni dei sovrasistemi. L’organo di governo individua il modello di corporate governance che insiste sul sistema impresa interpretando gli spazi di azione che, appunto, gli sono consentiti dal corpus di idee, norme, regole e codici di comportamento, ossia dal campo magnetico istituzionale nel quale è inserito. L’utilizzo di questi spazi di azione fa sì che l’organo di governo sia in grado di dotare il sistema impresa di strutture appositamente create (dalle joint venture alle associazioni, dai consigli di amministrazione incrociati alle reti di rapporti informali), al fine di “organizzare” l’ambiente nel quale l’impresa opera (Emery e Trist 1965; Thompson 1967; Pfeffer e Salancik 1978)12. Maturana e Varela (1980) avvertono al riguardo che l’organizzazione/impresa, intesa come sistema, non solo riceve segnali dall’ambiente, ma li “metabolizza”, li “legge” e, dunque, li interpreta secondo gli schemi cognitivi di chi la governa. E’ evidente, dunque, che almeno una parte della struttura di corporate governance emerge attraverso processi altamente dinamici - posti in essere dallo stesso organo di governo - difficili da prevedere nella loro totalità oltre che nella loro complessità13. La dinamica di tali processi è guidata, almeno in parte, dagli scopi - inevitabilmente diversi e, per tale motivo, spesso conflittuali - dei soggetti a diverso titolo interessati all’impresa. Gli interessi di questi soggetti dovrebbero essere considerati come “elementi di funzionamento dell’impresa”, nel senso che dovrebbero essere soddisfatti in modo adeguato “al fine anche di preservare la loro coesistenza nella diversità” (Guatri e Vicari 1994). Preservare tali interessi non equivale a dire che la finalità dell’impresa è comprimibile in quella dei soggetti che sono portatori di interessi nei suoi confronti14; si vuole intendere che l’impresa non ha una finalità in senso soggettivo, ossia la finalità va ricondotta all’impresa in quanto istituto e non in quanto singola realtà, per cui non è possibile parlare di una specifica finalità ricollegandola ad una specifica impresa e, dunque, a determinati soggetti che ad essa sono interessati (Guatri e Vicari 1994). 12 La scuola delle contingenze strutturali, invece, considera l’impresa come un sistema

unitario, un organismo alla ricerca dell’adattamento all’ambiente, trascurando il fatto che anche all’interno dell’impresa stessa esistono attori dotati di capacità, e di norma anche di possibilità, di scelta e interazione strategica con effetti sia sulle azioni economiche che sulle forme di organizzazione delle stesse. Cfr. Crozier M., Friedberg E., L’acteur et le système. Les costraintes de l’action collective, Editions du Seuil, Paris, 1977.

13 Ad accogliere appieno tale visione è la prospettiva teorica interazionista - contrapposta a quella delle contingenze - secondo cui almeno alcuni degli aspetti dell’organizzazione rispondono debolmente a fattori causali esterni (natura deterministica della prospettiva contingentista), mentre dipendono moltissimo dai processi di interazione tra più parti del sistema che ne generano l’evoluzione. Cfr. Grandori A., L’organizzazione delle attività economiche, Il Mulino, Bologna, 1995.

14 Cfr. Caselli L., Teoria dell’organizzazione e processi decisionali dell’impresa, Giappichelli, Torino, 1965, pag. 129.

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L’approccio sistemico vitale è particolarmente utile per “leggere” e, dunque, comprendere il campo magnetico istituzionale in virtù della lettura verticale e orizzontale delle relazioni attivate tra sistemi. Le modalità di attivazione di queste relazioni, infatti, concorrono a generare il campo magnetico istituzionale nel quale prendono forma gli specifici modelli di corporate governance che a loro volta alimentano la sussistenza di quel campo magnetico che li ha generati. Non bisogna dimenticare che ad incidere sulle modalità di attivazione delle relazioni è anche il particolare - e, in alcuni casi, casuale - punto di inizio del processo di evoluzione del sistema, oltre che il modo e il tempo in cui una certa struttura è nata e, non ultimo, le particolari traiettorie di apprendimento percorse fra le molte possibili15.

6. I fattori di inefficacia della corporate governance La corporate governance, intesa come sistema orientato e finalizzato ad

assicurare un’equa armonizzazione degli interessi che gravitano attorno all’impresa, si è dimostrata inefficace - in relazione ai molteplici corporate scandal degli ultimi anni - non solo perché i suoi meccanismi e gli strumenti utilizzati si sono rivelati deboli, ma sostanzialmente perché essi sono stati distorti e piegati alle logiche comportamentali degli attori, derivanti dall’essere questi immersi ed incastrati (embedded) nel campo magnetico istituzionale prodottosi con l’avvento del neo-liberismo.

Conflitti di interesse, fenomeni di collusione e di corruzione, comportamenti irresponsabili e contrari alla morale diffusa sono sempre esistiti e non vi è ragione per dubitare della loro ineliminabilità, qualunque sia l’ideologia prevalente. Il problema risiede nella concreta intenzione e nella volontà delle istituzioni di contrastare simili fenomeni, perché, oltrepassato un certo livello, essi non possono più essere tollerati ed in gioco vi è la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico. Dopo la crisi del ’29, le classi dominanti - politica ed economica - presero coscienza che il mercato, abbandonato a se stesso e privo di meccanismi regolatori esogeni, può rivelarsi tutt’altro che efficiente nel prevenire dissesti e crisi strutturali e che l’impresa, in specie la grande impresa, attraverso il comportamento dei suoi vertici, può essere socialmente pericolosa. Negli ultimi anni, diverse tra le istituzioni create allo scopo di proteggere interessi economici generali e diffusi hanno abdicato al proprio ruolo istituzionale.

I responsabili di alcune delle più importanti società di revisione, di analisi finanziaria, di rating hanno avallato e concorso ad attuare e diffondere pratiche illegali, contribuendo in maniera significativa al deterioramento della fiducia nelle istituzioni e, allo stesso tempo, alla distruzione del patrimonio di reputazione che queste stesse organizzazioni avevano saputo guadagnarsi nel tempo.

15 Sull’evoluzione del sistema derivante dai processi di interazione si veda North D.C.,

Institutions, Institutional Change And Economic Performance, Cambridge University Press, Cambridge, 1990.

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Il ruolo delle società di revisione Compito precipuo di una società di revisione, come è noto, è quello di effettuare verifiche ed acquisire elementi, al fine di esprimere un giudizio imparziale sulla conformità dei valori iscritti in bilancio ai criteri legali e agli standard elaborati da primarie istituzioni nazionali ed internazionali, verificando altresì la corretta e completa rilevazione contabile degli accadimenti di gestione nonché la regolare tenuta della contabilità. L’attività di revisione contabile del gruppo Parmalat è stata svolta, fino al 1999, dalla Grant Thornton, i cui revisori, come si è potuto successivamente accertare, occultavano, con una certa sistematicità, le perdite nei bilanci di una pluralità di società estere. Tuttavia, l’obbligo previsto dalla legge, in base al quale la revisione dei conti non può essere effettuata dalla stessa società per più di 3 anni (rinnovabili due volte), avrebbe determinato il coinvolgimento di un’altra società di revisione e la conseguente necessità di modificare la precostituita architettura delle società off-shore. Su suggerimento degli stessi revisori della Grant, nasce nel 1999 la Bonlat, con lo scopo di “ovviare” alla difficoltà di “amministrare” un ammanco di oltre 1,5 mld €, funzione questa precedentemente svolta da due società - Zilpa e Curcastle con sede nelle Antille Olandesi - gestite al fine di accettare i trasferimenti di crediti inesigibili da parte di altre società del gruppo. Sulla base di dichiarazioni fornite dai dirigenti Parmalat, furono gli stessi revisori a suggerire di accentrare in un’unica nuova società le perdite e il correlato inesistente attivo. Ciò allo scopo di lasciare la funzione di revisione nelle mani della Grant, in quanto le società off-shore non rientravano nell’area di consolidamento ed i relativi conti si sarebbero potuti “razionalizzare” facilmente, ricorrendo alla compilazione di documenti falsi. Pertanto, la Deloitte&Touche diviene revisore principale, ovvero responsabile delle società rientranti nell’area di consolidamento, e la Grant Thornton revisore secondario, per le società appartenenti al gruppo, ma non rientranti nella suddetta area. La Deloitte che, nelle sue attività di “certificazione” presso la Parmalat, utilizzava anche il “lavoro” svolto dalla Grant, non ha mai manifestato dubbi sulla veridicità e trasparenza dei dati forniti dai revisori secondari, fino alla relazione semestrale del settembre 2003, allorché rileva la scarsa trasparenza di alcune attività del Fondo Epicurum.

Il ruolo delle agenzie di rating Il rating sintetizza la valutazione del merito di credito di un soggetto debitore, attraverso la formulazione da parte di un’agenzia indipendente, circa la sua affidabilità finanziaria e la probabilità che si verifichi la sua insolvenza nel medio-lungo termine. L’elaborazione di tale giudizio è effettuata, in primo luogo, sulla base dei dati contabili e, in secondo luogo, sulle informazioni, talvolta confidenziali, che generalmente il management fornisce su richiesta della stessa agenzia. Quest’ultima elabora il rating, ma spetta alla società decidere se renderlo pubblico. Quando ciò accade si instaura un rapporto duraturo con l’agenzia, poiché al rating si affianca il cosiddetto outlook, che ne valuta le prospettive di mutamento. Alla luce di tale rapporto, è evidente l’obbligo in capo alla società di comunicare all’agenzia qualsiasi accadimento in grado di influire in maniera rilevante sul rating già formulato. In tale circostanza, l’agenzia può modificare sia l’outlook, che il rating assegnato e, nei casi più gravi, finanche ritirare il giudizio espresso.

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Nel novembre 2000, la Standard & Poor’s, una delle agenzie più accreditate a livello internazionale, assegna alla Parmalat un rating BBB- (qualificando il titolo con un profilo relativamente basso, adatto perciò anche ad investitori meno “spregiudicati”) con prospettive “stabili”, elevate nel giugno 2002 a “positive”. Tuttavia, nei primi mesi del 2003 l’outlook torna ad essere “stabile” a causa del mancato lancio di un’ulteriore emissione obbligazionaria. La smentita dell’emissione del bond, dell’ammontare di 300 mln €, genera sul mercato forti oscillazioni del titolo, che perde fino a 9 punti percentuali. Nel novembre dello stesso anno, il rating è sottoposto ad osservazione, a causa della mancata ristrutturazione finanziaria più volte annunciata dal management, cui fa seguito una serie costante di richieste di informazioni circa l’esigibilità di alcune poste in bilancio non iscritte come immobilizzazioni. Tuttavia, alle rassicurazioni da parte della dirigenza non seguono chiari riscontri e, il 9 dicembre, data di scadenza del bond, allorché la società decide di avvalersi del “periodo di grazia”, S&P abbassa il rating a B-, per poi portarlo a CC il giorno successivo. Il bond viene ripagato grazie al sostegno di alcune banche italiane, ma il default è solo rimandato al 19 dicembre 2003, quando la società non onora un’opzione di vendita esercitata dagli azionisti di minoranza di una controllata brasiliana. In seguito alla smentita di Bank of America in merito all’esistenza di un conto disponibile di 3,9 mln €, il rating viene ritirato definitivamente. Dagli eventi sinteticamente riportati emergono seri dubbi sulla circostanza in base alla quale un’agenzia, quale la S&P, dotata di non irrilevanti capacità di pressione sull’organo di governo e sul management di Parmalat, per l’acquisizione di informazioni sullo stato di salute della stessa, assegni, nel febbraio 2003, un rating BBB - con prospettive di upgrading nel medio termine, per dichiarare dopo breve tempo i relativi titoli junk bonds.

Allo stesso modo, le grandi banche hanno rinunciato a svolgere quella fisiologica

e irrinunciabile attività di controllo sullo stato di salute delle imprese un tempo tipica della loro funzione, aiutando le imprese coinvolte negli scandali finanziari a collocare presso ignari risparmiatori quantità enormi di junk bonds ben conoscendo il loro stato di salute (e di dissesto). Esse si sono inoltre prestate a supportare i responsabili finanziari delle imprese-clienti nella costruzione di complesse e tortuose operazioni finanziarie che hanno prodotto la volatilizzazione di ingenti somme di denaro, lo stesso loro affidato dai risparmiatori. Il ruolo delle banche Nel caso Parmalat - come del resto in numerosi recenti scandali finanziari - particolarmente significativo è il rapporto tra impresa e sistema bancario. Tale legame, che attiene a diverse funzioni e che coinvolge vari livelli, ha solitamente per oggetto: 1) il finanziamento alle imprese, soprattutto attraverso l’emissione ed il collocamento di obbligazioni; 2) la capacità da parte delle banche di influenzare la gestione aziendale. In riferimento al primo aspetto, va evidenziato che le acquisizioni ed i molteplici investimenti della Parmalat sono stati finanziati ricorrendo all’indebitamento, dapprima sottoforma di finanziamenti da parte del sistema bancario italiano ed internazionale, in seguito attraverso il mercato obbligazionario. Dal 1997, infatti, si è registrata l’emissione di ben 32 prestiti, per un totale di circa 7 mld €. La giustificazione a ciascuna emissione obbligazionaria era quella di “ridurre gli oneri sulla provvista a lungo termine, rifinanziando l’indebitamento, e sostenere

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eventuali nuove esigenze di sviluppo” (Comunicato Stampa 1997 Parmalat Finanziaria Spa). Eppure, nel bilancio approvato nel marzo 2003 risulta una liquidità di appena 4 mld €, a fronte di un indebitamento quasi doppio. Le banche, nel collocare il titolo della società, stilano il prospetto informativo (offering circular), teso a disciplinare le caratteristiche ed il regime regolamentare dell’emissione, dando luogo ad un consorzio - formato da banche e da società di investimento - che assume il compito di sottoscrivere le obbligazioni, per poi collocarle presso gli investitori. Tale procedimento non prevede l’offerta in sottoscrizione diretta ad investitori privati e, pertanto, non richiede la redazione di un prospetto informativo (ex art.94 TUF), preliminarmente approvato dalla Consob. Le obbligazioni in esame, dunque, possono essere vendute ai privati solo attraverso trattative personalizzate, ovvero, nell’ambito del servizio di negoziazione erogato dagli intermediari. Peraltro, gli istituti di credito che provvedono ad emettere le obbligazioni e a collocarle tramite i propri sportelli sono gli stessi che hanno finanziato l’impresa emittente. Per la salvaguardia del corretto funzionamento del mercato, i dati contabili, di cui una banca viene in possesso nell’ambito del processo di erogazione del credito ad un’impresa, non devono essere resi disponibili anche ad altri settori dello stesso istituto, retail incluso. Ciò per evitare che gli addetti alla vendita abbiano maggiori informazioni, rispetto a quelle disponibili sul mercato, compromettendo così la trasparenza delle operazioni. In relazione al caso Parmalat, esistono forti dubbi circa l’effettiva validità di tali precauzioni, soprattutto se si considera che mentre 85.000 risparmiatori hanno acquistato le obbligazioni del gruppo, tutte le società di gestione del risparmio, appartenenti ai gruppi bancari che hanno partecipato alle emissioni, non possedevano titoli Parmalat nel proprio portafoglio oppure hanno provveduto alla loro vendita, prima che si verificasse la crisi. Il collocamento dei bond allo scopo di ridurre, con le somme acquisite, la propria esposizione debitoria nei confronti di un gruppo di cui si conosceva lo stato di dissesto, rappresenta una grave forma di market manipolation. In riferimento al secondo aspetto, occorre evidenziare che, da un lato, le forme di partecipazione delle imprese alla gestione delle banche comportano inevitabilmente riflessi sulle scelte decisionali relative al merito di credito, dall’altro, esiste una innegabile influenza degli istituti creditizi sulla gestione delle imprese stesse, legata, ad esempio, alle attività di acquisizione e cessione di altre società. Appare, infatti, non del tutto trasparente la vicenda dell’acquisizione, da parte di Parmalat, di Eurolat, società appartenente al gruppo Cirio, per le forti pressioni esercitate dall’allora presidente della Banca di Roma. Esse erano tese a favorire tale operazione per un importo pari a 392 mln € che, rapportato al fatturato della società (155 mln €), peraltro in costante perdita, risultano considerevolmente al di sopra del valore di mercato. Parmalat copre parte della suddetta somma accollandosi i debiti di Eurolat - 186,6 mln € - la gran parte dei quali (152,7 mln €) nei confronti di Capitalia. Dei restanti 205 mln €, il 50% è immediatamente corrisposto da Parmalat, la parte restante, invece, è assistita da fideiussione a cura della Banca di Roma. Della somma versata in contanti al momento della chiusura dell’operazione, circa 40 mln € sarebbero stati corrisposti direttamente alla Banca di Roma; un secondo pagamento sarebbe stato effettuato contestualmente alla concessione, da parte della stessa banca, di un finanziamento alla Parmalat pari a 97 mln €, necessari per portare a termine l’operazione. L’obiettivo della Banca di Roma sarebbe stato quello di rientrare nel forte indebitamento nei confronti di Cirio, dalle cui scritture contabili si evidenzia una riduzione di tale debito di oltre 90 mln €.

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Gli istituti di vigilanza, come le banche centrali e le autorità di controllo sulle società quotate e sul risparmio, hanno molto spesso chiuso entrambi gli occhi, venendo meno al loro dovere tecnico ed al requisito morale dell’indipendenza. I comportamenti irresponsabili e immorali di coloro che rivestono importanti ruoli istituzionali sono in pratica diventati una costante, una componente strutturale del sistema capitalistico oggi finanziario, difficili da sradicare se non con un ripensamento delle basi ideologiche che presiedono il funzionamento delle istituzioni della società moderna16.

Il ruolo della Banca d’Italia L’attività di controllo sulle emissioni di valori mobiliari e sulle offerte, in Italia, di valori mobiliari esteri rappresenta una delle funzioni di maggior rilievo della Banca d’Italia. L’art. 129 del Testo Unico Bancario prevede che l’autorità di controllo riceva dal soggetto emittente comunicazione delle emissioni che superano una determinata soglia e, qualora essa ravvisi la sussistenza di un rischio per la stabilità del sistema, può entro 20 giorni richiedere ulteriori informazioni o vietare il compimento dell’operazione. Il divieto può essere imposto per evitare offerte ed emissioni di titoli che per quantità rilevanti, concentrate in un determinato periodo, o per particolari condizioni e caratteristiche finanziarie, possano inficiare il buon funzionamento del mercato. La banca centrale solamente in un’unica circostanza ha ritenuto opportuno evitare di condurre a termine operazioni di emissione di corporate bond della Parmalat - poiché presentavano rendimenti indicizzati al corso di azioni in Tailandia e ad altri inusuali parametri - considerando i diversi prestiti obbligazionari della società assimilabili ad operazioni già varate ed autorizzate. Tuttavia, tra le fonti di informazione di cui dispone la banca centrale, rientra anche la Centrale dei Rischi, organo nato da un accordo tra banche e autorità creditizie, che permette ad ogni istituto di comunicare ad un archivio centrale i nominativi le cui esposizioni risultino al di sopra di certe soglie. Le banche partecipanti - ed ovviamente anche la banca centrale - hanno il diritto di ricevere informazioni circa gli affidamenti erogati dagli altri istituti di credito per lo stesso nominativo. Sebbene tale strumento non potesse evidenziare l’ammontare dell’indebitamento complessivo della Parmalat (14,3 mld €), poiché vengono registrati esclusivamente i prestiti erogati da banche italiane e da altri intermediari vigilati, il continuo ricorso a massicce emissioni di bond, al fine di reperire mezzi finanziari, avrebbe dovuto quantomeno insospettire le autorità di vigilanza, soprattutto alla luce delle ingenti disponibilità liquide dichiarate dalla società. Da quanto emerge dalla relazione depositata il 20 luglio 2004, predisposta dal consulente della procura, si evidenzia come “tale contraddizione non appariva giustificata da ragioni di carattere finanziario, tenuto conto degli interessi passivi pagati e degli interessi attivi che la liquidità dichiarata avrebbe generato, se fosse stata investita in titoli sostanzialmente privi di rischio, come sempre dichiarato dalla società”.

16 Questa affermazione è peraltro suffragata dal fatto che, a distanza di circa quattro anni

dalla vicenda Enron, gli scandali societari continuano ad aver luogo. Si veda, in proposito, quanto accade in questi giorni negli USA alla Refco e al suo CEO P. Bennet, arrestato con l’accusa di frode in bilancio ai danni degli investitori con l’aiuto di banche estere ed hedge fund compiacenti.

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Il campo magnetico istituzionale, prodotto dall’ideologia neo-liberista, ha comportato uno stravolgimento del senso e del ruolo delle istituzioni, oltre che dei meccanismi e degli strumenti della corporate governance. Alla sua formazione hanno concorso assunti di base contenuti nelle principali teorie diffuse negli ultimi decenni e nelle stesse definizioni del concetto di corporate governance. Si pensi, ad esempio, alle definizioni delineate nell’ambito dei codici di autoregolamentazione che, pur trovando un’ampia accettazione e condivisione, soprattutto dai membri della comunità finanziaria, appaiono limitative e parziali. Queste, infatti, si basano sul presupposto che coloro che governano l’impresa debbano attribuire centralità e priorità alla soddisfazione degli interessi degli azionisti (e, principalmente, agli azionisti di maggioranza). Simili concetti non sono privi di implicazioni teoriche e pratiche. Sotto il profilo teorico, infatti, assumere la necessità di assecondare le aspettative e gli interessi della proprietà significa attribuire a questo particolare stakeholder la qualifica di portatore di interesse privilegiato, nella consapevolezza che “creare valore per gli azionisti significa creare valore per tutti”17. Se a ciò si aggiungono il sostegno di teorie fondate su modelli di comportamento opportunistico degli esseri umani (teoria dell’agenzia, dei costi transazionali, dell’appropriazione del valore, ecc.) ed il battage mediatico che influenza l’orientamento di imprenditori e manager, ne scaturisce una sorta di finalismo analogico in base al quale lo scopo ultimo dell’impresa è solo la massimizzazione del capitale economico (o del valore di mercato delle azioni) dell’impresa, a prescindere da qualunque forma di moralità.

7. Ridefinire la corporate governance: una possibile via per la formazione di un nuovo campo magnetico istituzionale Ove si consideri la corporate governance come l’insieme di meccanismi, regole

e processi atti ad incidere sugli organi societari e di governo dell’impresa, appare necessaria una concezione di più ampio respiro, che si sviluppi cioè a partire da direttrici generali che consentano una comprensione organica e globale, più prettamente “sistemica”, dell’azione di governo e dei comportamenti che concorrono a determinare l’evoluzione del sistema impresa nel contesto ambientale in cui essa è inserita.

Per queste ragioni, si definisce la corporate governance, in senso lato, come il complesso di regole, meccanismi e processi generati dall’interazione tra differenti entità dotate di potere a diversi livelli istituzionali, atti a garantire che gli interessi che ruotano attorno all’impresa siano composti in maniera equa e soddisfacente, nel rispetto sia delle condizioni di sopravvivenza dell’impresa sia dei valori diffusi e

17 Cfr. Agliati M., “Le misure per governare la generazione di valore. Modelli contabili e

modelli del valore - Dal cash flow all’EVA”, Economia & Management, n. 6, 1999, pag. 52.

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generalmente condivisi dalla collettività di appartenenza18. Un’attenta considerazione dei vari elementi che compongono la suddetta definizione può contribuire a renderla meno irrealistica ed utopistica, qualora per ciascuno di essi vengano svolte opportune riflessioni circa il ruolo dei diversi attori che concorrono alla determinazione dei modelli di corporate governance.

1) La sopravvivenza dell’impresa come fine collettivo condiviso. Al centro della

predetta definizione di corporate governance vi è l’accettazione implicita del concetto di sopravvivenza dell’impresa come fine riconosciuto ed interiorizzato da tutti gli attori i cui interessi sono in essa coinvolti. Tale accettazione, a sua volta, ha alla base la condivisione diffusa ai vari livelli della società dei valori poggianti sull’impresa e sull’imprenditorialità ed il riconoscimento che tali valori devono essere difesi, nel quadro dei vincoli definiti dal mercato e dalle leggi vigenti. A queste condizioni, la sopravvivenza dell’impresa è dunque concepibile come fine condiviso dalla collettività.

Questa visione affonda le sue radici nella concezione dell’impresa come istituzione sociale. L’impresa si è universalmente affermata come la cellula elementare dei moderni sistemi produttivi. Su di essa intere comunità sociali ripongono speranze ed aspettative di crescita del benessere materiale; ad essa affidano le sorti che animano gli ideali di progresso nella quasi totalità dei campi in cui si esplica l’attività umana. Per queste ragioni, nell’organizzazione della società moderna, l’impresa rappresenta un’istituzione sociale. Le conseguenze di quanto appena detto si rilevano non solo sotto un profilo teorico, ma anche per l’agire pratico. Esse possono così riassumersi: a) la qualificazione dell’impresa come istituzione sociale legittimata dalla collettività ad esistere e a perdurare nel tempo, in relazione ai benefici che il suo impiego strumentale apporta alla società, porta a configurarla come “bene” di interesse generale; b) questa caratteristica, a sua volta, implica che le altre istituzioni presenti nel contesto sociale e con le quali l’impresa interagisce - in specie le istituzioni politiche ed amministrative, oltre che quelle economiche - debbano porre nei riguardi di quest’ultima una particolare attenzione. Più in particolare, l’impresa necessita al contempo di adeguate forme di tutela, affinché possa servire al meglio la collettività che su di essa fa affidamento, ma anche della predisposizione di particolari strumenti e meccanismi di controllo, atti a prevenire e a sanzionare

18 Si è consapevoli di come questa definizione - nella sua apparente semplicità - non sia di

facile applicazione. È evidente che, laddove i precetti in essa contenuti venissero sempre applicati, non vi sarebbero scandali societari e frodi finanziarie. Il problema fondamentale risiede nell’interpretazione di quella parte della definizione di corporate governance che si riferisce ai valori intendendoli come “condivisi dalla collettività di appartenenza”. Se quei valori non sono correttamente interpretati e se per collettività di appartenenza si intende una cerchia ristretta di “amici”, la condivisione degli stessi potrebbe sempre portare a situazioni di collusione ossia a privilegiare delle “occasioni” il cui risultato non produrrebbe l’equa e soddisfacente garanzia di tutti quegli interessi che ruotano attorno al sistema impresa.

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comportamenti finalizzati ad un utilizzo non corretto dello strumento in esame, nonché a circoscrivere gli eventuali danni che questo comportamento può arrecare alla collettività; c) come logica derivazione della precedente considerazione, ne discende che coloro i quali assumono responsabilità di governo dell’impresa, la dirigono o per essa agiscono, devono innanzitutto essere consapevoli della loro funzione di “tutori” di un bene di interesse generale operante al servizio e a vantaggio della collettività. In relazione a questo aspetto, che non solo qualifica la funzione tecnico-operativa di coloro che nell’impresa rivestono le massime responsabilità, ma individua anche un loro preciso “dovere morale”, tali attori dovranno essere giudicati e valutati. Il profilo dell’impresa intesa come istituzione sociale evidenzia non solo la responsabilità dell’organo di governo dell’impresa nei confronti della collettività, ma che anche la collettività, intesa nella sua dimensione sociale (società), ha a sua volta delle responsabilità nei confronti dell’impresa19.

2) Il ruolo dell’organo di governo. L’organo di governo dell’impresa ha il ruolo primario di garantire la sopravvivenza dell’impresa nel tempo, nel rispetto dei vincoli definiti dal mercato, delle leggi vigenti, dei valori diffusi e generalmente condivisi dalla o dalle collettività appartenenti ai contesti in cui essa opera20. La sopravvivenza è tecnicamente perseguita con riferimento ai seguenti aspetti: a) rispetto delle esigenze vitali del sistema impresa (condizioni di economicità e di solvibilità); b) analisi, valutazione e corretta gestione dei rischi aziendali, tale da garantire una costante protezione del patrimonio tangibile ed intangibile dell’impresa ed il suo incremento nel tempo; c) impostazione di corrette relazioni con il sub-sistema operativo, fondate sulla diffusione nell’organizzazione di una cultura ispirata a valori morali condivisi aventi al centro, in primo luogo, il

19 Scrive Caselli: “…la responsabilità sociale è…un ponte tra l’impresa e l’ambiente, ed

esige da parte dei vari soggetti una capacità di combinare orizzonti di breve e di medio e lungo termine, una capacità di armonizzazione delle diverse dimensioni della vita economica, sociale e civile... il tema della responsabilità rimanda, per così dire, ad un patto tra l’impresa e la società. Questa - la società - vede nell’impresa una risorsa da salvaguardare e sviluppare, quella - l’impresa - accetta la sfida del bene comune, da valutarsi con riferimento alla tutela del cittadino consumatore, risparmiatore, utente, alle esigenze dello sviluppo tecnologico e di una migliore collocazione del Paese nella divisione internazionale del lavoro. Il bene dell’impresa (capacità di reddito, di sopravvivenza, di sviluppo) ed il bene del contesto sociale sono tra di loro strettamente interconnessi nel reciproco riconoscimento dell’impegno e del contributo necessari per la realizzazione di assetti più giusti e solidali…”. Cfr. Caselli L., “Etica dell’impresa e nell’impresa”, Sinergie, n. 45, 1998, pag. 88.

20 E’ l’attento governo del complesso di relazioni che consente all’impresa di ottenere, dal contesto, le risorse e i contributi essenziali per il perseguimento delle proprie finalità e per la perpetrazione nel tempo della propria attività; queste rappresentano le condizioni che garantiscono, a loro volta, opportunità e vantaggi alle parti sociali con cui il sistema interagisce. Cfr. Testa M. “La sorveglianza”, in Pellicano M., (a cura di), Il governo strategico dell’impresa, Giappichelli, Torino, 2004, pag. 218.

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rispetto dell’integrità (fisica e psichica) e della dignità della persona21. La sopravvivenza dell’impresa poggia sulla creazione di valore, ossia sulla

ricchezza che questa genera attraverso le sue attività produttive e commerciali. La ricchezza può essere prodotta in molti modi, più o meno corretti sotto un profilo tecnico-operativo, più o meno leciti sotto un profilo giuridico, più o meno responsabili sotto un profilo etico-morale. L’aver sottolineato il vincolo del rispetto delle norme vigenti e dei valori diffusi e generalmente condivisi dalle collettività di appartenenza indica chiaramente le direttrici del comportamento auspicato dell’organo di governo22.

Nel ricupero di questo ruolo istituzionale risiede la possibilità, per i manager e per le loro imprese, di riconquistare la legittimazione sociale perduta. Le moderne concezioni della corporate governance, basate - come affermato in precedenza - su teorie quali quella dell’agenzia e dei costi di transazione, alle cui radici vi è una visione pessimistica della natura e dell’agire umano motivato prevalentemente dall’opportunismo hanno previsto, come rimedio alle disfunzioni che hanno prodotto comportamenti illeciti ed irresponsabili, la costruzione di un “cordone di sicurezza” attorno all’organo di governo delle grandi imprese, ampliandone a dismisura la struttura. Oltre alla separazione, nelle grandi corporation, del ruolo del CEO da quello del “board” e all’introduzione di un numero significativo di amministratori indipendenti, una serie di organismi o comitati sono stati approntati a sostegno dell’azione di governo: quelli per l’audit ed il controllo interno, per la retribuzione del management, per l’etica, ecc. Questo apparato strutturale, ove si dimostrasse effettivo e non solo realizzato sulla carta, se da un lato soddisfa le esigenze degli investitori finanziari e contribuisce ad incrementare la reputazione dell’impresa, dall’altro può avere conseguenze negative. Esso, di fatto, potrebbe appesantire e, in taluni casi, inibire le decisioni e l’azione di governo e non garantire affatto l’esito sperato.

3) Le relazioni tra organo di governo e sub-sistema operativo. Lo svolgimento del ruolo istituzionale dell’organo di governo passa attraverso l’impostazione di relazioni con il sub-sistema operativo, atte a realizzare condizioni di consonanza

21 In questo senso, è opportuno rilevare, in accordo con Fazzi, che non bisogna considerare

l’organo di governo, “… come un’entità isolata, distaccata dal sistema soggetto a guida. Anzi: il «vertice» …, deve trarre alimento dai fermenti che l’ordinato svolgersi del lavoro ai vari livelli del sistema medesimo sospinge verso tale vertice per proporgli ulteriori analisi innovative”. Cfr. Fazzi R., Il governo d’impresa, Vol. I, Giuffrè, Milano,1982, pag. 8.

22 Si è consapevoli del fatto che ciò lascia ampi spazi di discrezionalità, come accade nei casi in cui la legge non riesca a coprire tutti gli ambiti comportamentali possibili, quando il sistema sanzionatorio non consente di scoprire tempestivamente e punire adeguatamente i colpevoli di condotte irresponsabili. Sotto il profilo etico-morale, gli spazi di discrezionalità si riferiscono alla relatività dei valori morali di ciascun individuo e alla difficoltà a discernere quali possano effettivamente essere i valori condivisi e generalmente diffusi. Il discorso in esame meriterebbe considerazioni e approfondimenti che esulano dagli scopi di questo lavoro.

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interna al sistema impresa. Tale impostazione si riferisce innanzitutto al corretto funzionamento dell’apparato dei controlli interni. L’impresa e l’organo di governo dispongono già di sofisticati apparati e strumenti presenti nel sub-sistema operativo, come l’internal auditing, il risk management ed il controllo di gestione - con cui acquisire le necessarie informazioni sull’effettiva protezione del patrimonio aziendale, sul corretto controllo e sulla gestione dei rischi e per valutare il grado di raggiungimento degli obiettivi prefissati. Questi strumenti - se effettivamente implementati ed efficacemente funzionanti - rappresentano la base essenziale dei processi interni di governance23. Costruire attorno all’organo di governo una “contro-struttura” che replica apparati di controllo già presenti nel sub-sistema operativo, comporta non solo una duplicazione di costi a carico dell’impresa, ma significa anche il disconoscimento ed il depotenziamento dei controlli operativi interni, con una peraltro palese mozione di sfiducia sull’operato di quanti si sono dedicati allo svolgimento di tali funzioni.

Inoltre, compito dell’organo di governo consiste nel promuovere, nel contesto organizzativo interno, una cultura ed un sistema di valori improntati alla trasparenza e, ove possibile, incentivi affinché pratiche scorrette ed illegali possano emergere tempestivamente, prima che siano messi a repentaglio il patrimonio e la sopravvivenza dell’impresa. L’attribuzione di riconoscimenti - se del caso anche pubblici - per coloro che, in base a fondati ed accertati motivi, vengano a conoscenza di comportamenti illeciti e li rivelino agli organi di controllo interni ed esterni, può rappresentare un utile elemento per impedire prassi scorrette e per incrementare la tutela del patrimonio aziendale24.

4) Il ruolo dei sovrasistemi. Nella sopra menzionata definizione di corporate governance si tiene ampiamente conto dell’importanza degli interessi proiettati sull’impresa dai diversi sovrasistemi, laddove si afferma che questi devono essere composti in maniera equa e soddisfacente. Il ruolo istituzionale

23 Scrive Demattè: “...Dopotutto, è all’interno dell’impresa che tutto ha inizio: la percezione

delle difficoltà di mercato o sul mercato, la registrazione dei fatti economici e finanziari dal cui quadro si evince lo stato dell’impresa, le prime avvisaglie di crisi, la messa in moto delle azioni di contrasto, l’intervento tempestivo presso le procedure quando il circolo vizioso non s’arresta. Se questi meccanismi interni non funzionano e se viene consentito che il deterioramento possa essere nascosto agli occhi esterni, anche con pratiche truffaldine, gli altri soggetti preposti al controllo esterno hanno vita difficile, se non impossibile. I sistemi di monitoraggio esterni sono necessari, ma sono strutturalmente tardivi e, come si è visto, ingannabili. Il primo vero presidio deve essere quello interno all’impresa. Un presidio che deve anzitutto essere in grado di cogliere tempestivamente il deteriorarsi della situazione competitiva, economica e finanziaria. Deve poi essere capace di elaborare risposte tempestive. Infine, deve gestire l’evolversi della situazione in trasparenza, affinchè i vari soggetti coinvolti possano posizionarsi per tutelare i loro interessi compatibilmente con quelli degli altri...”. Cfr. Demattè C., “Un Sistema di Pesi e Contrappesi Necessario, da Progettare con Molta Attenzione”, Economia & Management, n. 2, 2004.

24 Si pensi, in proposito, alla vicenda di Sherron S. Watkins, ex vice-presidente di Enron, riportata in California Management Review, Vol. 45, n. 4, 2003, pagg. 6-19.

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dell’organo di governo prevede - a fianco a quello suddetto di garantire la sopravvivenza del sistema impresa - lo svolgimento di questo assai difficile e delicato compito. Nell’ASV viene ben individuata la distinzione tra logica di comportamento “soggettiva” e “sistemica”. La prima pone attenzione primariamente agli interessi dei sovrasistemi, mentre la seconda - pur non trascurando questi ultimi - si afferma quando l’organo di governo tiene fede al proprio ruolo istituzionale curando e difendendo l’interesse alla sopravvivenza dell’impresa, prima ancora di quelli dei sovrasistemi. Ponendosi nell’ambito del variegato complesso di interessi che gravitano attorno all’impresa, anche quelli stessi dell’organo di governo, il recupero del ruolo istituzionale - come sopra previsto - dovrebbe assicurare comportamenti mai pregiudizievoli della probabilità di sopravvivenza dell’impresa, anche quando sono in gioco i propri interessi personali. L’organo di governo si trova in questo caso a sopportare gradi elevati di tensione dovuti alla sovrapposizione dei ruoli con riferimento all’appagamento degli aspettative in gioco: quelli relativi alla sopravvivenza dell’impresa, quelli dei sovrasistemi ed i propri interessi.

Mantenere un’equidistanza non è facile. Ma è proprio su questo punto che si giocherà in futuro la credibilità e la legittimazione sociale dell’organo di governo. L’organo di governo deve possedere elevate qualità politiche e capacità di mediazione tra interessi contrastanti, mantenere una propria indipendenza rispetto ai pur rilevanti interessi in gioco e alla forza delle pressioni esercitate dai sovrasistemi, centrata sulla necessità di assicurare al sistema impresa le più elevate probabilità di sopravvivenza e ai sovrasistemi eque ed adeguate soddisfazioni alle proprie aspettative. Riuscire in questo intento è la vera sfida che attende il management del futuro. Essa richiede un salto di qualità culturale e morale non indifferente, che deve debitamente considerare tanto gli interessi più deboli e, per questo, più meritevoli di attenzione e di equo soddisfacimento, quanto i valori diffusi e condivisi dalla collettività come non è accaduto, ad esempio, con riferimento al costante ampliamento della forbice tra i compensi del management ed il compenso medio dei dipendenti dell’impresa.

5) Il ruolo del mercato e delle istituzioni. Nelle moderne società democratiche, che basano la propria economia sul sistema capitalistico incentrato sul mercato, i particolari meccanismi che da quest’ultimo scaturiscono per assicurare il coordinamento delle attività economiche dovrebbero consentire, più o meno rapidamente, di riversare sulla collettività e sui cittadini i vantaggi dell’intero processo di produzione della ricchezza, incrementandone il benessere materiale e sociale.

L’accettazione delle regole della libera competizione rappresenta un dovere morale dell’organo di governo dell’impresa. Tuttavia, le vicende relative agli scandali finanziari degli ultimi anni hanno reso maggiormente evidenti i già noti limiti dei meccanismi del mercato quali forme di auto-regolazione degli attori e delle attività economiche. Altri meccanismi e strumenti sono necessari a tutela degli interessi in gioco, specialmente i più deboli. In ciò consiste il ruolo delle istituzioni pubbliche. Ad esse, infatti, è affidato il compito di predisporre

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interventi normativi che vincolino gli attori economici inducendoli a determinati comportamenti ed impedendone altri. A queste spetta il ruolo primario di garantire il corretto funzionamento dei meccanismi di corporate governance, attraverso interventi che incidano: sugli attori che concorrono a definirne l’aspetto strutturale (politiche, giudiziarie, authority, organismi di controllo svolgenti funzioni pubbliche); sugli strumenti per il conseguimento degli obiettivi della corporate governance; sulle aree di impatto delle regole, dei meccanismi e dei processi della corporate governance; sulla dinamica delle interazioni tra gli attori coinvolti nella stessa.

Affinché gli obiettivi della corporate governance siano realizzati, le suddette regole, meccanismi e processi devono incidere sui seguenti aspetti: a) sulla definizione del sistema dei controlli esterni sull’operato dell’impresa e dell’organo di governo; b) sulla strutturazione dell’organo di governo e sulle regole di comportamento; c) sulla strutturazione del sistema di controllo interno dell’organo di governo; d) sulla definizione delle regole secondo cui l’impresa si rapporta con i suoi sovra-sistemi; e) sulla valutazione dei comportamenti effettivi e sull’applicazione delle necessarie sanzioni.

6) L’etica, il ruolo dei valori e del sistema educativo. L’etica identifica la struttura dei modi di comportamento abituali in una determinata comunità sociale osservata in un determinato periodo storico. In quanto punto di arrivo di un processo che vede tra loro interagire, simultaneamente, individui, gruppi di individui ed istituzioni sorte per garantire un ordinato ed efficace svolgimento della dinamica sociale, l’etica non è immutabile. È noto, infatti, come le diverse concezioni etiche succedutesi nel tempo abbiano sempre rispecchiato le grandi trasformazioni politiche e sociali che hanno contraddistinto le varie epoche storiche.

A queste trasformazioni normalmente consegue la perdita delle certezze che l’individuo e la comunità in generale riponevano sulla struttura sociale e sulle istituzioni del precedente ordinamento. È così che vengono alla luce nuove istanze e nuovi fabbisogni etici. La comunità avverte la pressante esigenza di fondare su nuove basi ideologiche e valoriali la nuova struttura, le nuove istituzioni e la rinnovata dinamica relazionale tra gli attori dell’ordine neo-costituito, conferendo ad essi una nuova legittimazione sociale. Il richiamo ai valori etici è tanto più urgente quanto più i membri della comunità sociale percepiscono gli effetti dell’incertezza conseguente all’aver perso i punti di riferimento presenti nel precedente ordinamento ed al trapasso verso un nuovo ordine. Il fabbisogno etico che si genera in simili situazioni assume talora anche un valore suppletivo nei confronti del vuoto normativo che di solito si determina con il passaggio al nuovo ordine. I fatti e gli accadimenti degli ultimi decenni, comprendenti grosso modo il periodo che intercorre tra la caduta del regime sovietico e l’epoca attuale - caratterizzata dall’inarrestabile processo verso l’integrazione globale delle culture e dei sistemi socio-economici - definita come “l’era dell’informazione”, conduce ad affermare con pochi dubbi che siamo al cospetto di una trasformazione epocale che ha già modificato in misura rilevante

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- e modificherà ancora - i nostri comportamenti, atteggiamenti, modi di pensare e di concepire la realtà che ci circonda. In questa logica, appare più che giustificata l’istanza - proveniente da molteplici ambiti culturali e da diversi settori di attività - di appellarsi all’etica e di ricercare i presupposti di una nuova (o rinnovata) etica in grado di supportare le trasformazioni sociali, culturali, politiche ed economiche verso il conseguimento di nuovi equilibri.

Il recupero - anzitutto a livello individuale - dei valori etici, del senso e del ruolo istituzionale che caratterizza l’operato degli attori ai vari livelli della corporate governance rappresenta dunque il necessario punto di partenza per un cambiamento del campo magnetico istituzionale. Questo aspetto, inoltre, chiama direttamente in causa il ruolo delle teorie, degli studiosi in generale e del sistema educativo e formativo che attualmente caratterizza le società moderne25.

8. Considerazioni conclusive

L’analisi condotta consente di evidenziare che i comportamenti irresponsabili,

immorali e fraudolenti scaturiscono da fattori di varia natura, riconducibili a tre diversi ambiti di riferimento. Il primo consiste nell’attuale fisionomia del sistema capitalistico che, pervasa dall’ideologia neo-liberista, ha talvolta assecondato e talaltra alimentato atteggiamenti opportunistici, distorcendo le basi volte a garantire un equo contemperamento degli interessi che ruotano attorno all’impresa. Il secondo ambito riguarda il contesto strutturale con particolare riferimento agli organi di vigilanza e di controllo, sia interni sia esterni all’impresa; essi, attraverso vincoli, regole e procedure, hanno il compito di ridurre il rischio derivante dalle suddette distorsioni, onde salvaguardare il corretto funzionamento del mercato ed assicurare la tutela dei soggetti più deboli. Tuttavia, è necessario evidenziare come il sistema di corporate governance, preposto all’ottemperamento di codeste funzioni, rifletta, in buona sostanza, la matrice ideologica da cui discende.

Una più estensiva definizione del sistema di corporate governance può contribuire ad una corretta lettura dei sovrasistemi rilevanti per l’impresa ed alla relativa interpretazione delle interazioni - verticali ed orizzontali - tra questi attivate, dando un significativo apporto al recupero del ruolo istituzionale proprio delle organizzazioni imprenditoriali. Appare fin troppo evidente come il riorientamento degli obiettivi del sistema di corporate governance e delle relazioni tra le componenti della struttura - attraverso, ad esempio, la ridefinizione dei poteri, dei compiti e delle finalità degli organismi di vigilanza e di controllo che ne fanno parte - non possa correggere del tutto le distorsioni derivanti da un utilizzo improprio delle 25 Come sostenuto da Ghoshal, infatti: «...Ideas matter. In a practical discipline like

management, the normative influence of ideas can be powerful, as they can manifest themselves as uniquely beneficial or uniquely dangerous. Bad theory and a philosophical vacuum have caused managers to subvert their own practice, trapping them in a vicious circle...». Cfr. Ghoshal S., Bartlett C.A., Moran P., “A New Manifesto For Management”, Sloan Management Review, Vol. 40, n. 3, 1999.

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stesse istituzioni. La nitida individuazione di prescrizioni tesa ad “imprigionare” l’attività dei diversi attori economici e politici in uno stringente quadro normativo (i cui riflessi sono ravvisabili nell’ambito legale/amministrativo, economico, sociale ed ambientale), può senz’altro ridurre il rischio di degenerazioni, ma non può garantire la completa eliminazione di vuoti strutturali all’interno dello specifico modello di corporate governance. Possibili zone grigie, o meglio “coni d’ombra” - rappresentati ad esempio dall’esistenza dei cosiddetti paradisi fiscali nell’ambito dell’attuale sistema economico mondiale - continueranno ad esistere, offrendo facili opportunità per eventuali attività illecite.

Ovviamente, non tutte le imprese si avvantaggiano delle variegate imperfezioni del sistema economico. Più dell’ideologia dominante (primo ambito di riferimento) e dei vincoli imposti dalla corporate governance (secondo ambito di riferimento) infatti, sono le caratteristiche proprie dell’organo di governo (il terzo ambito di riferimento) che influenzano i comportamenti adottati dalle imprese.

L’attività dell’organo di governo è, in primo luogo, funzione degli specifici obiettivi dell’impresa e, più in generale, della sua finalità di sopravvivenza (connessa ai risultati raggiunti sia in termini economici che sociali), nel rispetto del mandato ricevuto dalla proprietà. Oltre alle pressioni che da questa derivano e a cui il gruppo dirigenziale è solitamente sottoposto, è necessario porre adeguata attenzione al ruolo che le motivazioni dell’organo di governo assumono nell’adozione delle scelte dell’impresa.

Come ampiamente argomentato in letteratura, infatti, l’imprenditore mira al successo, che si configura non solo in termini di risultati raggiunti dall’impresa e dal suo posizionamento positivo rispetto alla concorrenza e, più in generale, all’interno del contesto di riferimento, ma anche di ulteriori fondamentali motivazioni personali, tra cui il reddito, il prestigio ed il potere; è necessario tener conto poi che tali motivazioni vengono perseguite con diversa intensità dagli individui che compongono l’organo di governo26. La compresenza di numerosi obiettivi di diversa natura (legati alle finalità dell’impresa, alle istanze della proprietà ed alle motivazioni più squisitamente manageriali), filtrata dall’etica dell’organo di governo, definisce le priorità economiche e sociali da perseguire. Scale di valori inadeguate e la ricorrente parzialità delle variabili decisionali sovente privilegiate dalle imprese, con processi troppo spesso rivolti a soddisfare specifici interlocutori a svantaggio di altri, sottolinea pertanto l’esigenza di riaffermare la centralità della correlazione tra le potenzialità di successo duraturo e l’adeguata composizione di tutte le attese legittime.

26 Lo stretto legame tra aspirazione al successo e svolgimento dell’attività imprenditoriale è

stato ampiamente approfondito da numerosi autori. Le motivazioni dell’attività imprenditoriale provengono, secondo Schumpeter, esclusivamente dalla personalità psicologica dell’imprenditore. Ci può essere - egli afferma - “… il sogno e la volontà di fondare un regno personale … la volontà di conquista … l’impulso di battersi per dimostrarsi superiore agli altri … la volontà di aver successo non per i frutti del successo, ma per il successo stesso … la gioia creativa, ecc.”, cfr. Schumpeter J.A., Teoria dello sviluppo economico, Etas, Milano, 2002.

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Tale legame, raggiungibile attraverso la consapevolezza del necessario recupero del ruolo istituzionale delle organizzazioni imprenditoriali, deve necessariamente poggiare su adeguati valori e determinate attitudini proprie dei partecipanti all’organizzazione dell’impresa ed, in particolare, di chi, in essa, ricopre il ruolo di governo.

Il comportamento socialmente responsabile, quale sintesi delle tre dimensioni descritte, da un lato, è in grado di alimentare nuovi campi magnetici che influenzano il contesto stesso in cui l’impresa opera, dall’altro, rafforza il sistema di valori fondanti l’azione dell’organo di governo e la cultura dell’organizzazione. Sembra, quindi, opportuno poter affermare che la reale garanzia di conformità alle regole, necessaria a preservare non solo l’istituzione imprenditoriale, ma l’intero sistema economico e politico, derivi dall’attivazione di un circolo virtuoso che si autoalimenta, partendo dall’alto e attraverso un approccio istituzionale, ovvero mediante le creazione di mercati morali27 e, dal basso, promuovendo la crescita di una rinnovata etica individuale.

Infatti, se l’imprenditore o il manager preposto alla conduzione dell’impresa crede nei giusti principi di comportamento propugnati dall’etica (equità, lealtà, rispetto del prossimo, ecc.), non solo le opzioni strategiche di fondo saranno sempre filtrate attraverso l’ossequio di questi principi, consentendo a questi ultimi di diffondersi lungo tutti i livelli dell’organizzazione, ma contribuiranno anche ad offrire una corretta interpretazione del sistema di relazioni - orizzontali e verticali - attivate tra i diversi sovrasistemi. Il cambiamento di mentalità degli individui rappresenta il primo passo verso la definizione di nuovi campi magnetici e la successiva declinazione di una migliore ideologia. Sotto questo profilo, pertanto, la sopra esposta concezione di corporate governance ingloba gli attori-chiave che garantiscono all’impresa la continuità nel tempo, sino ad incorporare il concetto di impresa come “bene di interesse generale”. Questi aspetti, inoltre, concorrono con maggiore adeguatezza a definire i rapporti tra la governance dell’impresa e l’eticità dei comportamenti, non solo dell’organo di governo, ma anche delle entità interne finalizzate a verificarne e controllarne l’operato e degli attori esterni che esprimono pareri e valutazioni - legali e non - sui risultati dell’impresa e di tutti gli attori dalle cui scelte dipende la sua sopravvivenza. Adottando quest’ottica, anche la nascita e la formazione di gruppi particolari a tutela di interessi diffusi si configura come momento di esplicitazione di un complesso di valori sia di natura patrimoniale e finanziaria, che etico-sociale, il cui contenuto deve essere considerato non solo dall’organo di governo, ma anche da parte degli altri gruppi economici e sociali, i cui interessi sono coinvolti nel buon andamento dell’impresa stessa.

27 In proposito, Boatright afferma che se lo scopo della business ethics è quello di introdurre

l’etica nelle decisioni strategiche, tale obbiettivo non può essere raggiunto attraverso il modello del manager morale, piuttosto attraverso la creazione di mercati morali. Questa alternativa non esclude l’importanza della responsabilità individuale dei manager, ma pone in preminente rilievo la responsabilità delle autorità garanti nelle organizzazioni economiche. Cfr. Boatright J.R., Ethics in finance: foundations of business ethics, Blackwell, Mass., 1999.

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Su questi presupposti è possibile individuare un nucleo di premesse di valore la cui accettazione consente di addivenire ad una definizione “globale” del concetto stesso: 1) l’accettazione e la condivisione dei valori positivi dell’imprenditorialità e dell’impresa, nel quadro di un’economia di mercato sufficientemente regolamentata, come elementi da difendere per garantire adeguati livelli di sviluppo economico e di benessere della collettività; 2) il riconoscimento di un ruolo economico nonché sociale delle organizzazioni imprenditoriali; 3) la sopravvivenza dell’impresa come fine riconosciuto e condiviso da tutti gli attori, i cui interessi sono coinvolti nella specifica iniziativa imprenditoriale; 4) il riconoscimento di reciproche responsabilità (bidirezionalità e multilateralità) nei confronti della sopravvivenza dell’impresa: da questa all’ambiente e viceversa; 5) l’accettazione, la condivisione e la suddivisione delle responsabilità in base alle quali la sopravvivenza dell’impresa deve essere garantita all’interno di una cornice di valori invalicabile, espressione del comune sentire collettivo.

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