Limiti del prodotto interno lordo come misura del benessere e ricerca di indicatori alternativi

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Limiti del prodotto interno lordo come misura del benessere e ricerca di indicatori alternativi Interfacoltà Corso di laurea in Economia della Cooperazione Internazionale e dello Sviluppo Cattedra di Statistica Economica Candidato Daniele Girardi 1133772 Relatore Maria Chiara Turci A/A 2008/2009

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Tesi di Interfacoltà Corso di laurea in Economia della Cooperazione Internazionale e dello Sviluppo Cattedra di Statistica Economica Candidato Daniele GIRADI Relatore Maria Chiara Turci A/A 2008/2009

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Limiti del prodotto interno lordo come misura del benessere e ricerca di indicatori alternativi

InterfacoltàCorso di laurea in Economia della Cooperazione Internazionale e dello SviluppoCattedra di Statistica Economica

Candidato Daniele Girardi 1133772

RelatoreMaria Chiara Turci

A/A 2008/2009

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LIMITI DEL PRODOTTO INTERNO LORDO COME MISURA DEL BENESSERE E RICERCA DI INDICATORI ALTERNATIVI

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“...Mia madre gli ha detto che “allora posso fare come ‘na brava massaia che i primi 20 giorni del mese mi spendo i 1000 euro, poi dal 21 fino alla fine ci chiudiamo dentro casa, non facciamo la spesa, non consumiamo corrente, non ci laviamo..insomma non spendiamo altri soldi”.

“E no! - l’ha rimproverata lui - se non consumi cala il Pil, il prodotto interno lordo, e crolla l’economia. Bisogna sempre spendere soldi, pure a costo di buttarli via!”

Allora io gli ho detto “papà, guarda per esempio il nonno. Lui va solo a piedi e quindi non consuma benzina, sta in salute e dunque non spende per i farmaci, le analisi e il medico. Si lava poco e solo con l’acqua fredda e quando cala la sera si mette a letto perciò non consuma manco la corrente e poi si mangia solo le verdure dell’orto e non spende manco per la zuppa del supermercato. Il nonno è una vera tragedia per il Pil e per l’economia.Invece se noi ammazziamo il nonno.. spendiamo denaro per comprarci la pistola e le pallottole, l’ambulanza che lo porta all’ospedale consuma benzina, bisogna pagare medici e infermieri, quando muore c’è da fargli il funerale, pagare il falegname che inchioda la cassa, lo scalpellino che gli fa la lapide, il fioraio per i fiori e poi sulla tomba ci mettiamo una lampadina perpetua, così nonno continua a consumare elettricità pure da morto!.Se ammazziamo il nonno cresce il Pil!”In quel momento il telegiornale ha detto che a Monfalcone stanno morendo 2000 persone per l’esposizione all’amianto e si prevede che in tutta la provincia ce ne stanno 20.000 di malati. Mio padre ha fatto un sorriso e ha detto “quella è gente fortunata. Con tutti quei morti gireranno un sacco di soldi. Grazie all’amianto Monfalcone diventerà una piccola Svizzera!”

E così, sorridendo, ci siamo finiti la zuppa.Siamo andati in salotto dove c’è il televisore grande con lo schermo fino fino che mio padre sta comprando a rate.Mia madre ha chiesto “che fanno stasera in televisione?”Mio padre ha risposto “niente”.Così l’abbiamo accesae siamo rimasti a guardarla.”

Ascanio Celestini, “La zuppa del supermercato”

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INDICE

INTRODUZIONE (pag. 5)

1. INCONGRUENZE DEL PIL NEL MISURARE LA PRODUZIONE (pag. 8)1.1 Metodologie di calcolo 1.2 Una valutazione in termini monetari 1.3 I confini della produzione 1.4 Problemi della stima a prezzi costanti 1.5 La contabilizzazione dei servizi: il caso del commercio 1.6 Il caso dei Sifim 1.7 La mancata contabilizzazione della qualità dei fattori di produzione e il metodo di contabilizzazione della produzione della Pa

2. INADEGUATEZZA DEL PIL NEL MISURARE IL BENESSERE (pag. 16)2.1 Reale significato del Pil e definizione di benessere 2.2 Critica del Pil da un punto di vista di sostenibilità sociale 2.3 Crescita economica e sviluppo 2.4 Critica dei Pil da un punto di vista di sostenibilità ambientale

3. LA RICERCA DI INDICATORI ALTERNATIVI (pag.26)3.1 Lo stato della ricerca di indicatori alternativi 3.2 Il valore mediano del reddito reale netto disponibile delle unità di consumo 3.3 L'indice di sviluppo umano (HDI). 3.4 Il risparmio netto corretto. (NAS, Net Adjusted Savings) 3.5 L'ISEW (Index of Sustainible Economic Welfare) e il Gpi (Genuine Progress Indicator) 3.6 L'impronta ecologica 3.7 Le statistiche sull'impiego del tempo 3.8 Il capitale Sociale 3.9 Gli indici basati sull'autovalutazione del benessere

CONCLUSIONI (pag.37)

COMPLEMENTO APPLICATIVO Analisi comparata sul livello di benessere di cinque nazioni utilizzando diversi indicatori: Italia, Francia, Stati Uniti, Finlandia, Irlanda. (pag. 40)1. .Raffronto basato sul Pil2. Raffronto basato su un set di indicatori alternativi al Pil tra quelli attualmente esistenti

2.1. Indice di sviluppo umano (HDI)2.1.2. Aspettativa di vita alla nascita2.1.3. Tasso combinato lordo di iscrizioni scolastichE

2.2. Risparmio netto corretto (Adjusted net saving, ANS)2.3. Impronta Ecologica2.4. Coefficiente di Gini della sperequazione dei redditi2.5. Percezione soggettiva della qualità della vita2.6. Utilizzo del tempo

3. Considerazioni finali riguardo le due analisi comparate

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (pag.49)

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INTRODUZIONE

“Many people looked at US GDP growth in the 2000sand said: ‘How fast you are growing– we must imitate you.’

But it was not sustainable or equitable growth. Even before the crash ,most people were worse off than they were in 2000.It was a decade of decline for most Americans.”

(Joseph Stiglitz)

Da quando nel 1933 fu messa a punto, su indicazione del Ministero U.S.A. del Commercio, la prima versione del calcolo del Prodotto Interno Lordo, questo indicatore è diventato per tutti i governi del mondo (paesi socialisti compresi, anche se con delle sostanziali differenze di definizione) il principale parametro di valutazione dello stato del sistema economico e produttivo. La crescita economica, che il Pil, più o meno fedelmente, misura, è l'obiettivo principale della politica economica di qualsiasi paese insieme alla stabilità finanziaria, ed è il metro col quale i governi stessi vengono giudicati dall'opinione pubblica, col presupposto implicito che la crescita economica misuri l'aumento del livello di benessere materiale.Sintomatico della posizione primaria attribuita al Pil e al Pnl ai fini sia dell'analisi economica sia delle decisioni politiche, è che l'Unione Europea li abbia adottati come principali parametri di riferimento: il Pnl determina la ripartizione del contributo al bilancio comunitario tra gli Stati membri, il Pil è al denominatore di due dei quattro parametri di Maastricht che gli Stati aspiranti a far parte della Ue devono soddisfare (rapporto indebitamento/Pil e rapporto deficit/Pil), ed è in base al Pil pro-capite regionale che si attribuiscono i fondi strutturali al fine di attenuare gli squilibri territoriali.La concezione in base alla quale il Pil pro-capite viene preso come indicatore di benessere, nasce, schematizzando, dal seguente ragionamento: esiste un complesso di bisogni che, in qualsiasi parte del mondo, ogni individuo cerca di soddisfare e il livello di benessere si misura in base al loro grado di soddisfazione. Poiché le merci sono ciò che serve a soddisfare questi bisogni, il paese che ne dispone in quantità maggiore può raggiungere un livello più elevato di benessere [Fuà, 1992].Nel secondo capitolo analizzeremo meglio questo ragionamento per capirne i punti deboli, cioè le argomentazioni con cui la concezione del Pil come misura del benessere è stata messa ampiamente in discussione negli ultimi tre decenni. Oggi infatti la ricerca di indicatori alternativi è stata messa in atto da molte istituzioni nazionali e sopratutto delle organizzazioni internazionali. E' infatti cresciuta la consapevolezza che il Pil, da solo, non può dirci molto sullo stato dell'economia di un paese e sul benessere dei suoi abitanti. Si tratta, a ben vedere, di un indicatore che trascura alcune variabili fondamentali per il benessere delle persone, e che ne tratta altre con esiti paradossali, come si vedrà nei primi due capitoli di questa tesi.La successione delle critiche al Prodotto Interno Lordo è strettamente correlata all'evoluzione di una concezione prevalente di sviluppo, utilizzata a partire dal secondo dopoguerra per indicare il passaggio da economie di sussistenza - “arretrate” secondo gli standard occidentali - ad economie industrializzate come quelle da tempo affermatesi in Europa e negli Stati Uniti.Questa concezione, intrisa di etnocentrismo, identifica crescita e sviluppo e propone un modello unico e stereotipato per tutti i paesi, basato su crescita economica e “modernizzazione” (intesa come percorso totalmente funzionale alla crescita economica). Tale concetto è stato messo in discussione a partire dagli anni '70, fino ad arrivare più recentemente alla ricerca sempre più diffusa di indicatori alternativi a quello puramente quantitativo del Pil, idonei ad offrire un quadro degli

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aspetti qualitativi dello sviluppo e della reale condizione delle persone.Basti citare alcuni esempi. L'Onu ha da tempo elaborato l'indice di sviluppo umano, che è comunque basato per un terzo sulla stima del Pil pro-capite. L'Ocse ha messo in atto, a partire dal giugno 2007, un progetto (denominato “Global Project on Measuring the Progress of Societies”) finalizzato espressamente alla ricerca di indicatori per "misurare il progresso della società". L'Unione Europea ha indetto una conferenza intitolata “Beyond Gdp”, nel corso della quale sono state approfondite le modalità per perseguire analoghi obiettivi. In Francia il Governo ha affidato ad una commissione – “Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress” – presieduta da Joseph Stiglitz e Amartya Sen e coordinata da Jean Paul Fitoussi – il compito di trovare una gamma di indicatori da sostituire al Pil per misurare lo stato dell'economia e il progresso sociale.Lo scopo, come riportato in un documento della Commissione stessa, è di “scostarsi dalla misurazione standard del Pil per abbracciare misurazioni che siano più vicine all'essere indicatori del reale benessere delle persone”.Un caso singolare è quello dello Stato del Buthan, nel quale il Gross National Product è stato sostituito dal Gross National Happiness (GNH), un indicatore basato su una grande quantità di variabili riguardanti anche aspetti non-economici come il tempo libero, la salute, la conoscenza delle tradizioni e l'autovalutazione del proprio benessere.Si tratta, a ben vedere, di un tentativo di focalizzare l'attenzione sul vero fine dell'attività di Governo, il benessere delle persone, invece che sulla crescita economica, che dovrebbe essere solo un mezzo per il raggiungimento di questo fine, e non un fine in sé [Financial Times, 2009].Da questo punto di vista emerge anche, se non sopratutto, un problema di comunicazione. Per un verso la statistica economica, definendo con precisione il Pil e analizzando le componenti di cui è un aggregato, conosce da sempre il reale significato di questo indicatore. Per un altro verso le istituzioni e i mezzi di comunicazione hanno usato e continuano ad utilizzare le capacità di sintesi di questo indicatore (in particolare della sua misurazione pro-capite) in modo distorto, proponendolo semplicisticamente all'opinione pubblica come misura della ricchezza prodotta, e di conseguenza del benessere.Questo malinteso toglie qualità e lucidità al dibattito pubblico e al confronto politico. E ciò viene giudicato molto penalizzante da parte di chi è convinto che soltanto attraverso un dibattito democratico, aperto e ben informato una società dovrebbe effettuare le scelte tra valori che stanno alla base del sistema istituzionale [Sen, 1999].Alla base della ricerca di nuovi tipi di indicatori statistici idonei a sintetizzare ed esprimere lo stato dell'economia, abbandonando un criterio puramente quantitativo come quello su cui si basa il Pil, si ravvisano varie motivazioni: l'inadeguatezza del Pil nel calcolare i prelievi di capitale naturale come un costo invece che come un aumento di valore aggiunto; il crescente divario tra la misurazione statistica di alcuni fenomeni e la percezione di essi da parte dei cittadini; le tendenze all'aumento delle diseguaglianze e al disgregamento della classe media nella maggior parte dei paesi industrializzati che rendono sempre meno significativa la valenza conoscitiva di un indice medio pro-capite; l'incapacità di distinguere i fenomeni negativi rispetto a quelli positivi determinati dall’attività economica; l'incidenza dell'economia di sussistenza nei paesi del Sud del mondo; le incongruenze nelle stime del settore terziario e del prodotto imputabile alla pubblica amministrazione.Ulteriori argomenti a sfavore dell'affidabilità del Pil sono desumibili dalla grave crisi finanziaria che si è abbattuta ormai da molti mesi, con sorprendente velocità e intensità, nell'economia reale di tutti i paesi del mondo. I tassi di crescita economica registrati negli Usa negli ultimi anni, oltre ad accompagnarsi all'aumento della sperequazione dei redditi, si sono rivelati basati più su bolle speculative che su una crescita dell'economia reale. Come ha dichiarato Joseph Stiglitz ad un giornalista del Financial Times, “questa crisi ha mostrato che i dati sul Pil americano erano completamente errati. La crescita era basata su un illusione”. Sempre Stiglitz ha dichiarato che “molte persone hanno visto i tassi di crescita del Pil Usa negli anni 2000 e hanno detto “quanto state crescendo in fretta, dovremmo imitarvi”. Ma la crescita non

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era sostenibile ne' equa. Anche prima dello scoppiare della crisi, la maggior parte delle persone era in condizioni peggiori che nel 2000”.Le problematiche approfondite in questa tesi possono essere in definitiva riassunte nei seguenti termini: analizzare i motivi in base ai quali il prodotto interno lordo è stato messo in discussione come indicatore di benessere e di progresso; interrogarsi se esista una relazione diretta e sempre verificabile tra crescita economica e benessere materiale; ricostruire lo stato dell’arte della ricerca di indicatori alternativi da sostituire o affiancare al Pil; verificare in che modo gli indicatori alternativi potrebbero offrire punti di riferimento alla politica economica e orientare il dibattito pubblico con esiti più soddisfacenti rispetto al Pil.Per rispondere a queste domande si partirà da un'analisi critica del ragionamento in base al quale il Pil misurerebbe la crescita economica e la crescita economica sarebbe a sua volta in grado di misurare il benessere.Per capire se davvero il Pil sia in grado di sintetizzare la crescita, nel primo capitolo si intende esaminare il modo in cui il Pil misura effettivamente la produzione, analizzando in quali casi e in che misura la produzione di beni e servizi sia effettivamente rispecchiata da questo indicatore. Nel capitolo successivo, verrà passata in rassegna la relazione tra crescita economica - come misurata dal Pil - e benessere, per verificare quali siano le incongruenze e se esista davvero una relazione positiva e sempre verificabile tra aumento della produzione e miglioramento del tenore di vita.Nel terzo capitolo si farà il punto sulla ricerca di indicatori alternativi per evidenziare quali di essi potrebbero assolvere un ruolo importante come indicatori economico-statistici in grado di misurare le componenti economiche e sociali dei territori in modo più completo, alla luce di un concetto di benessere più aderente alla realtà umana, e di una più comprensiva concezione del progresso, basata sulla sostenibilità sociale ed ambientale.

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1. INCONGRUENZE DEL PIL NEL MISURARE LA PRODUZIONE

“Our statistical apparatus, which may have served us well in a not too distant past, is in need of a serious revision.”

(French Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, Issue paper, 2008)

1.1 Metodologie di calcolo del Pil

Nell'accezione corrente si considera il Pil come espressione sintetica del tenore di vita. Il ragionamento implicito che supporta tale convinzione è che con questo indicatore si misura la produzione di beni e servizi,i quali a loro volta soddisfano i bisogni, cioè creano benessere. Al fine di analizzare il fondamento di tale convinzione diffusa, per prima cosa è opportuno verificare la validità della frase iniziale del ragionamento, cioè cercare di capire se davvero il Pil risulti in grado di misurare fedelmente la creazione di risorse in un sistema economico nazionale.Il prodotto interno lordo misura il valore monetario complessivo, al lordo degli ammortamenti, dei beni e dei servizi che vengono prodotti in un paese in un certo periodo di tempo (di norma un anno), indipendentemente dalla nazionalità dei produttori. Può essere calcolato sulla base di tre differenti metodologie, che corrispondono ai tre punti di vista in base ai quali si può considerarlo:

somma di salari, profitti, rendite, interessi, imposte dirette e imposte indirette (metodo del reddito).

somma dei valori aggiunti delle varie branche ai prezzi di mercato, diminuita dei servizi imputati del credito e aumentata dell'IVA e delle imposte sulle importazioni

somma di consumi delle famiglie, spesa pubblica, investimenti e esportazioni nette:

Y = C + I + G + X – Z (metodo della spesa)

In teoria i risultati delle tre differenti metodologie, applicandosi allo stesso aggregato, dovrebbero coincidere. In pratica, per le inevitabili imperfezioni che i metodi di rilevazione e di calcolo comportano, i risultati non combaciano mai perfettamente. Perciò gli istituti nazionali di statistica utilizzano delle stime per trovare un valore unitario, ridistribuendo le discrepanze in funzione del grado di affidabilità relativa delle fonti utilizzate fino ad arrivare ad un risultato unico.

1.2 Una valutazione in termini monetari

La prima segnalazione di criticità riguarda il fatto che il Pil misura il valore monetario dei beni e servizi.

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L'utilizzo del valore monetario come parametro di riferimento deriva dall'esigenza di aggregare variabili che risultano in realtà incommensurabili tra loro. Ma ciò implica una fiducia, per molti versi eccessiva ed immotivata, nella capacità del mercato di attribuire ad ogni merce un prezzo che sia lo specchio del valore realmente attribuito dalle persone a quel bene o servizio. Questo potrebbe succedere se l'economia reale corrispondesse all'ideal-tipo della teoria neoclassica, vale a dire se ogni agente economico agisse in perfetta razionalità e secondo criteri puramente utilitaristici, sulla base di una perfetta circolazione e simmetria delle informazioni e quindi di una perfetta concorrenza. In tal caso il prezzo di ogni bene coinciderebbe perfettamente con la sua utilità marginale, come descritto nei modelli “puri” degli economisti neo-classici.In realtà i prezzi dei beni dipendono da molti fattori, basti pensare ai monopoli, agli oligopoli – vedi ad esempio l'OPEC - , alle asimmetrie informative, alle distorsioni create dall'utilizzo massiccio della persuasione pubblicitaria, alla scarsità e non riproducibilità di alcuni risorse naturali, e così via. Sarà analizzato più avanti il modo in cui questa valutazione monetaria viene applicata anche ai beni non-market prodotti dalle pubbliche amministrazioni e dalle istituzioni sociali private al servizio delle famiglie (Isp), utilizzando i costi di produzione come sostituto dei prezzi di mercato, generando non pochi problemi, sia concettuali che pratici.Nell'Issue paper della commissione Stiglitz-Sen sulla misura della performance economica e del progresso sociale, il problema della valutazione ai prezzi di mercato è spiegato in modo molto efficace nel seguente passaggio:

“Nel calcolare il Pil, noi sommiamo le mele e le arance; per aggregarle utilizziamo i loro prezzi relativi. Se un'arancia costa il doppio di una mela, allora ogni arancia è contabilizzata come due mele. La giustificazione di questo procedimento è che in mercati competitivi, i prezzi relativi rispecchiano valutazioni marginali relative. Per i consumatori un'arancia vale quanto due mele. Se per quanto riguarda le transazioni di mercato questo procedimento può essere messo in discussione (ogni volta che i mercati sono imperfetti, ad esempio), quando ci si muove verso aree in cui il mercato è limitato, o in cui le transazioni avvengono al di fuori del mercato, l'efficacia di una misurazione monetaria del valore dei beni diventa ancor più discutibile. La scelta di metri di valutazione alternativi deve essere valutata sia dal punto di vista concettuale che dal punto di vista pratico” [Commissione Stiglitz-Sen, pag. 6-7, 2008].

L'utilizzo del valore monetario come unità di misura per aggregare le merci e i servizi prodotti comporta problemi anche nel caso in cui una transazione di mercato determini delle esternalità, cioè degli effetti su soggetti non partecipanti alla transazione. In questo caso il prezzo pagato da un individuo per il prodotto non include gli effetti traslati sulla collettività, e quindi non rappresenta il valore più comprensivo (positivo o negativo) che la transazione assume per la società.La crisi finanziaria esplosa nel settembre 2008 a Wall Street e propagatasi alle economie reali di tutto il mondo ha evidenziato altre forti distorsioni della misurazione della crescita tramite il Pil. Oggi sappiamo che l'incremento del reddito negli Usa nella prima decade del nuovo secolo non ha rispecchiato reali aumenti di produzione,in quanto influenzato prima dalla sopravvalutazione del prezzo delle azioni di società della new economy (le c.d. dot-com) e successivamente dall’abnorme espansione del mercato immobiliare, alimentata dalla spinta speculativa dei “titoli tossici” . All'aumento del prezzo delle case o del prezzo di alcune azioni, imputabili alla speculazione finanziaria, non ha corrisposto nessuna crescita dell'economia reale: eppure la misurazione standard del Pil li ha calcolati come aumenti della produzione. Secondo il Pil l'economia era in crescita e quindi indirizzata sulla strada giusta. In realtà si stava materializzando la più grave crisi finanziaria ed economica degli ultimi settanta anni. Un ruolo in questo “fallimento” della misura della crescita è sicuramente stato giocato da una posta controversa come quella dei “fitti figurativi”. Questa pratica serve a contabilizzare un servizio che effettivamente deriva dal possesso dell'abitazione, e a consentire un confronto omogeneo tra le strutture produttive di regioni o paesi in cui vi è una differente quota di alloggi in proprietà.

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D'altro canto quando si alza il prezzo delle case, e spesso ciò avviene per cause speculative invece che per investimenti effettivi nel quartiere, il valore dei fitti imputati si gonfia, alimentando a sua volta la crescita economica, senza che ci sia stato il minimo aumento nella crescita reale (e tantomeno nel benessere delle persone).Esiste quindi un trade-off tra esaustività e precisione dei conti. E', in fondo, un trade-off analogo a quello che si manifesta nel caso delle stime dell'economia sommersa.

1.3 I confini della produzione

La misurazione del valore di beni e servizi attraverso il valore monetario implica che soltanto i beni e servizi scambiati sul mercato in cambio di denaro vengono contabilizzati. L'unica correzione consiste nell'aggregare anche i beni non-market prodotti da pubblica amministrazione e Isp, valutandoli ai prezzi di costo.Dobbiamo correggere quindi la definizione riportata nei precedenti paragrafi: il Pil non misura i beni e servizi che vengono prodotti, ma i beni e servizi che vengono scambiati, sommati a quelli distribuiti dalle istituzioni.L'approfondimento della differenza tra il concetto di bene e quello di merce è contenuto nel secondo capitolo. Per ora ci si può limitare a constatare che non tutti i beni e servizi prodotti vengono scambiati per denaro. Ciò che un contadino produce per l'autoconsumo proprio e della famiglia, è evidentemente un insieme di beni prodotti. Per il Pil però questi beni non esistono. Allo stesso modo il lavoro che una persone svolge nella propria casa è sicuramente un servizio reso alla propria famiglia, ma il Pil non lo contabilizza.Tutto ciò genera un'omissione di parte della produzione. Nel momento in cui una persona assumesse qualcuno per svolgere il lavoro in casa al proprio posto, a quel punto il servizio diventerebbe in effetti un servizio scambiato con denaro, e quindi entrerebbe a pieno titolo a far parte del Pil. In questo modo il Pil contabilizza un aumento nella produzione che nella realtà non esiste assolutamente: il servizio svolto è analogo al precedente.Servirebbero delle correzioni alla misurazione della crescita economica per fare sì che uno spostamento dalla produzione sul mercato a quella che non vi transita, o viceversa, a parità di prodotto non influenzi le misure dell'output produttivo [Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, 2009].Come ha scritto a tal proposito Giorgio Fuà, “in realtà buona parte di ciò che chiamiamo crescita economica moderna consiste nella mercificazione di attività e di soddisfazioni che precedentemente esistevano al di fuori del mercato. (...) C'è da chiedersi quali siano le prospettive future, cioè se sia pensabile e desiderabile che la marea del mercato continui a crescere indefinitamente” [Fuà, 1993].In linea teorica c'è da operare una distinzione. Se la metodologia di calcolo del Pil e del Gdp esclude espressamente il lavoro svolto in casa da componenti della famiglia, la produzione per autoconsumo rientrerebbe a tutti gli effetti nel Pil e andrebbe contabilizzata all'interno dell'economia informale. In pratica però è impossibile per gli istituti di statistica realizzare una stima con un sia pur minimo livello di completezza ed affidabilità della produzione per autoconsumo.Secondo un recente studio sull'economia tedesca e su quella finlandese, in questi due paesi i servizi non contabilizzati svolti dalle famiglie al proprio interno presentano una consistenza che oscilla tra il 30 e il 40% del valore del Pil contabilizzato. Un valore, dunque, decisamente considerevole. [Ruger, Steinel and Varjonen, 2008].Se in nazioni economicamente sviluppate come le due appena citate questa omissione risulta quindi piuttosto rilevante, lo è ancor di più nei Paesi del Sud del mondo, dal momento che la maggior parte della popolazione vive nelle campagne, e la produzione per autoconsumo mantiene una fortissima rilevanza.Non a caso gli economisti dello sviluppo, da Lewis in poi, hanno parlato del dualismo - presente nell'economia dei paesi non industrializzati o in via di industrializzazione - tra un settore produttivo tradizionale da un lato, caratterizzato da economie di sussistenza (beni agricoli, manufatti e servizi prodotti dalla famiglia contadina per autoconsumo), e dall'altro l'economia moderna, con lavoratori

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assunti nelle piantagioni o nelle industrie.Da non trascurare inoltre le attività produttive destinate alla vendita, ma che non vengono registrate, e che quindi possono essere contabilizzate soltanto tramite stime indirette. Si tratta dell'economia sommersa.Secondo i nuovi standard europei1 e mondiali2, l'economia sommersa fa parte della produzione nazionale, e pertanto deve essere inclusa nel calcolo del Pil.Le stime sull'economia sommersa riguardano tutte le attività produttive finalizzate alla vendita che non vengono registrate, per la volontà dei produttori di sfuggire alla tassazione o alla regolamentazione sul lavoro, oppure per semplici errori di compilazione; in altre parole per motivi economici e/o statistici.Queste stime vengono si basano principalmente sull'input di lavoro, quindi sulla rilevazione della quota di lavoro sommerso.Le varie fonti disponibili vengono raffrontate per individuare le discrepanze attribuibili alla presenza di lavoro sommerso: il Censimento dell'Industria e dei Servizi viene confrontato ed integrato con quello della Popolazione, con gli archivi del Ministero delle Finanze (ad esempio, le dichiarazioni IVA) e dell'INPS, con l'indagine campionaria sulle forze di lavoro, con i dati sui permessi di soggiorno, sulle regolarizzazioni, e sull'attività ispettiva del Ministero del Lavoro presso le imprese. In questo modo si cerca di identificare e quantificare le posizioni di lavoro regolari, irregolari, e quelle plurime (regolari ed irregolari).Se da un lato queste stime sono indubbiamente utili ad avvicinare alla realtà i dati sulla produzione e sull'occupazione, dall'altro inseriscono ulteriori elementi di arbitrarietà. Le stime sul sommerso presentano un margine di errore abbastanza ampio, in quanto tentativi di misurare indirettamente un fenomeno sul quale, per definizione, non esistono fonti dirette di informazione.In conclusione su questo punto, un Pil senza il sommerso sarebbe ancora più lontano dal misurare realmente la produzione, ma misurerebbe in maniera abbastanza affidabile il volume di produzione legale e registrata destinata al mercato (pur restando aperti i problemi che evidenzieremo nei paragrafi seguenti riguardo la stima a prezzi costanti, il settore terziario, la pubblica amministrazione e quelli già segnalati in merito alla valutazione in termini monetari e all'inclusione dei fitti figurativi). D'altro canto una stima del Pil che include l'economia sommersa diventa una misura molto approssimativa della produzione totale di beni e servizi.

1.4 Problemi della stima a prezzi costanti

Per disporre di serie storiche sul Pil si calcola l'andamento del valore di questo aggregato a prezzi costanti, per depurarlo dall'effetto dell'inflazione. Per eseguire raffronti tra diverse nazioni si utilizza la procedura della parità del potere d'acquisto (l'unità di misura è il dollaro PPP, purchase parity power), che tiene appunto conto delle differenze nei prezzi.Quando eseguono questi calcoli, gli istituti di statistica nazionali ed internazionali calcolano l'incremento dei prezzi riferito ad un determinato paniere di beni. Il problema nasce dal fatto che differenti gruppi di persone comprano differenti panieri di beni. Ad esempio i ceti più poveri spendono una maggiore frazione del reddito per beni di prima necessità, mentre i ricchi acquistano più beni di lusso. Finché i prezzi di tutti i beni hanno all'incirca lo stesso andamento, il problema potrebbe essere trascurabile. Ma quando, come negli anni più vicini, i prezzi dei diversi tipi di beni presentano andamenti così marcatamente differenti, la questione diventa molto rilevante. Basti pensare ai recenti incrementi del prezzo degli alimenti e della benzina. Ciò spiega il crescente divario tra l'inflazione calcolata e quella percepita, che quindi non è imputabile a meccanismi psicologici, ma ad un reale difetto di rilevazione. Sarebbe necessario sviluppare differenti indici dei prezzi da applicare a differenti gruppi sociali, se si volesse analizzare in modo più aderente alla realtà la loro condizione economica.

1 SEC 95, il sistema di contabilità adottato nella Comunità Europea a partire dal 1999.2 SNA 93. adottato dalle Nazioni Unite nel 1993.

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Un'altra problematica connessa con la valutazione a prezzi costanti nasce dall'impatto delle innovazioni merceologiche e dei cambiamenti nella qualità dei prodotti. Sopratutto in comparti caratterizzati da un alto grado di tecnologia e di innovazione, come l'informatica, si commercializzano ogni anno prodotti di nuova generazione, oppure caratterizzati da rilevanti cambiamenti qualitativi. E' pertanto molto difficile costruire un indice dei prezzi di queste merci da confrontare con anni precedenti nei quali esse non esistevano, o si trovavano sul mercato in varianti molto diverse.Sottostimare gli aumenti di qualità delle merci prodotte porta a sovra-stimare l'inflazione, e quindi a sottostimare la crescita. Al contrario una sovrastima dei miglioramenti qualitativi dei prodotto porta a sopravvalutare la crescita del Pil.In aggiunta a queste criticità nelle stime, il monitoraggio stesso dei prezzi è diventato più impreciso da quando una quantità sempre maggiore di transazioni economiche avviene via internet o nei discount. [Stiglitz-Sen Commission, 2008].

1.5 La contabilizzazione dei servizi: il caso del commercio

Sul versante della contabilizzazione dei servizi nel Pil si evidenzia immediatamente un problema: con quali metodologie stimare le “quantità” dei servizi? Per molti tipi di produzioni terziarie immateriali, non è possibile individuare delle unità fisiche da moltiplicare per il loro prezzo. L'immaterialità intrinseca nel concetto di servizi, che vengono definiti come “insieme di trasformazioni fisiche, psichiche e ambientali delle condizioni del consumatore procurate finché dura il processo di produzione, quale esso sia” [Siesto, 2000], implica una inevitabile semplificazione, e quindi un'imprecisione, nel contabilizzarli con un metodo che è stato pensato originariamente per misurare merci materiali.L'espediente usato per aggirare il problema della mancata quantificazione è di prendere in considerazione variabili come la merce venduta (per il commercio) o il numero di lavoratori impiegati, che possono essere messe in relazione con la “quantità” di servizio prodotta.Per quanto riguarda i servizi forniti dalle Pubbliche amministrazioni, la contabilizzazione è ancora più imprecisa, ma l'argomento sarà trattato a parte nel paragrafo successivo, essendo collegato al problema della mancata considerazione della qualità dei fattori di produzione.Il tema è di grande rilevanza nei paesi a reddito pro-capite più alto, nei quali il processo di terziarizzazione dell'economia ha fatto si che l'attività produttiva si sia spostata verso settori come l'intermediazione finanziaria o i servizi alle imprese, rendendo sempre meno affidabile la misurazione dell'output aggregato.Il primo problema che va affrontato riguarda il calcolo della produzione di servizi a prezzi costanti, cioè depurati dall'inflazione. Prendiamo il caso del commercio.Non potendo calcolare la quantità esatta di merce prodotta sotto forma di servizio commerciale, si finisce per attribuire interamente all'inflazione aumenti che in realtà potrebbero anche essere imputabili all'aumento della qualità del servizio, o, più precisamente, della “quantità di servizio” presente in ogni unità della variabile presa in considerazione (l'unità di merce venduta o l'unità lavorativa standard, come visto in precedenza). Per esempio, l'aumento del prezzo di un pasto in un ristorante potrebbe essere dovuto, almeno in parte, ad un aumento nella qualità del servizio offerto ai clienti. Come determinare in che misura l'aumento sia dovuto ad inflazione, piuttosto che all'incremento del servizio incorporato nel bene venduto, è un problema che la contabilità nazionale non è in grado di risolvere efficacemente.Per calcolare la produzione di servizi commerciali a prezzi costanti bisogna compiere una semplificazione rispetto alla realtà. Si presume che il rapporto tra fatturato e valore aggiunto rimanga costante tra l'anno preso come base e quelli successivi, oppure che resti invariato a prezzi correnti e a prezzi costanti; in altri termini, si pone arbitrariamente che il deflatore del servizio offerto sia uguale al deflatore del bene che si commercia [Fuà, 1993].Ciò implica una distorsione nella contabilizzazione del prodotto del settore terziario, che si ripercuote sul calcolo del prodotto interno lordo, sopratutto in Paesi come il nostro, in cui

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quest'ultimo dipende per più di due terzi dal comparto dei servizi.

1.6 Il caso del prodotto dei servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati (SIFIM)

La definizione del prodotto dell'intermediazione finanziaria rappresenta un operazione tra le più problematiche e controverse che la contabilità nazionale si trovi ad affrontare.Il sistema di contabilità adottato dalle Nazioni Unite, SNA 93, definisce l'intermediazione finanziaria come "l'attività produttiva svolta dalle unità istituzionali che assumono passività per proprio conto al fine di raccogliere fondi da investire sul mercato, operando come intermediari" (par.78 del SNA 93). Nei bilanci redatti dagli intermediari, solo una parte dei servizi di intermediazione finanziaria viene esplicitamente addebitata al cliente come costo a suo carico, mentre una parte più cospicua viene remunerata implicitamente tramite il margine d'interesse applicato, cioè la differenza tra interesse attivo e passivo. La contabilità nazionale assume convenzionalmente che il valore globale di questi servizi finanziari imputati sia equivalente a quello del margine di interesse.Nel sistema europeo dei conti i servizi non direttamente misurabili, denominati “servizi di intermediazione finanziaria indirettamente misurati” (SIFIM), venivano attribuiti, prima della riforma del 2005, ad una branca fittizia invece che ai vari settori che li utilizzano. Questo provocava, a livello di statistiche disaggregate per branca, una sottovalutazione dei consumi intermedi dei vari settori utilizzatori dei SIFIM, e una sopravalutazione del loro valore aggiunto. A livello di sistema economico complessivo, la sopravalutazione del valore aggiunto delle varie branche veniva compensata dal valore aggiunto negativo della branca fittizia appositamente creata.Come conseguenza l'impatto dei SIFIM sul Pil non veniva calcolato, dato che questi servizi non venivano allocati agli utilizzatori finali.Il nuovo metodo, introdotto con la revisione dei conti nazionali del 2005 disposta da una direttiva UE dopo tre anni di sperimentazione, è imperniato su due novità: la definizione di SIFIM viene applicata in modo restrittivo, includendovi soltanto i servizi di prestito e deposito, ed escludendo quindi i titoli finanziari, in quanto la remunerazione di questi ultimi non dovrebbe inglobare alcun costo per il servizio non essendo fissata dall'intermediario ma determinata dal mercato. La conseguenza è una rilevante diminuzione del valore complessivo della produzione di SIFIM;i SIFIM vengono attribuiti, come impieghi, ai settori che effettivamente li utilizzano, aumentando i consumi finali di famiglie, imprese, PA, istituzioni private senza scopo di lucro, esportazioni ed importazioni. In questo modo i SIFIM acquisiscono un impatto diretto sul calcolo del Pil, provocandone un aumento dovuto alla parte di produzione che resta negli impieghi finali.

Come conseguenza delle innovazioni, nelle nuove stime il Pil risulta aumentato, nel periodo che va dal 1980 al 2005, dell'1,5% circa a valori correnti, e dello 0,05% circa a prezzi costanti. L'aumento è dovuto dal punto di vista dell'offerta alla riduzione dei consumi intermedi delle varie branche produttive, e dal punto di vista della domanda all'aumento dei consumi finali delle famiglie, dei consumi collettivi e delle esportazioni [Scafuri 2006].La riforma della contabilità del 2005, imposta dal Regolamento Ue del 1998, ha quindi migliorato leggermente le stime del Pil, inserendovi la stima dell'apporto dei SEFIM. Si tratta di una riforma con una lunga gestazione, tanto che nel 1997 per sbloccare la situazione il direttore generale dell'Istat, Paolo Garonna, scrisse una serie di lettere aperte al presidente dell'Ecofin e ai Ministri europei delle Finanze, nelle quali evidenziava - a fronte della situazione di stallo venutasi a determinare - il rischio di una interferenza politica sulla definizione delle metodologie di costruzione dei conti nazionali. Infatti la Germania e l´Olanda hanno bloccato per anni la riforma, per via delle implicazioni che una modifica della stima del Pil avrebbe avuto sul

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calcolo del contributo di ogni Stato al bilancio comunitario. [Agostinelli, 1998]. La possiamo considerare una vicenda emblematica degli aspetti arbitrari presenti nel misurare la produzione tramite il Pil e della valenza politica che le metodologie di calcolo possono assumere.Un altro aspetto critico per quanto riguarda i SIFIM è il calcolo a prezzi costanti. Il problema è analogo a quello visto in precedenza riguardo il commercio, e nasce dalla impossibilità di disporre dei dati di prezzo e di quantità per ogni tipologia di SIFIM. In occasione di un aumento del prezzo del margine d'interesse, diventa impossibile separare esattamente la componente relativa al costo del denaro da quella del servizio di intermediazione finanziaria e dall'incremento dell'effettiva “quantità” di servizio fornita [Fuà, 1993].

1.7 La mancata considerazione della qualità dei fattori di produzione il metodo di contabilizzazione del prodotto della PA

Nella contabilità nazionale, e quindi nella misurazione del prodotto interno lordo, l'input di lavoro è misurato in termini di unità fisiche, con un sistema che non permette di dar conto della composizione qualitativa dei fattori della produzione. Questo sistema è basato, per il calcolo del contributo del lavoro al prodotto, sulle unità lavorative annue (ULA), che corrispondono alla somma del numero di dipendenti a tempo pieno, a tempo parziale o stagionali considerati per il lavoro effettivamente prestato durante l'anno. Le ULA fanno riferimento alle ore di lavoro medie contrattualizzate in ogni settore, e vengono riponderate in base alle varie posizioni di lavoro, ma non in base alla qualità del lavoro e all'impegno dei lavoratori.Perciò i miglioramenti qualitativi della manodopera non vengono presi in considerazione. Ciò per prima cosa influisce in modo distorto sul calcolo della produttività, dato che le variazioni nella qualità dei fattori, non venendo esplicitate, si manifestano impropriamente in una crescita fittizia della produttività totale dei fattori.Questa problematica è venuta alla luce con evidenza quando molti autori si sono dedicati a studiare il fenomeno della cosiddetta “new economy”, cioè la riorganizzazione delle attività produttive - avvenuta a partire da fine anni '70 negli Stati Uniti - dovuta alla progressiva penetrazione in tutti i settori produttivi delle tecnologie informatiche.Questa rivoluzione è sfuggita alle stime della crescita della produttività, e in parte a quelle del Pil, a causa dell'impossibilità per il sistema dei conti nazionali di catturare nelle statistiche ufficiali esternalità importanti, quali i cambiamenti nei processi organizzativi, i miglioramenti nella qualità e nelle condizioni di lavoro, le possibilità di scelta dei consumatori e via dicendo [Griliches, 1994].La rivoluzione informatica ha portato col tempo ad aumentare la produttività della maggior parte dei lavoratori in tutte le branche, anche per le nuove competenze informatiche che essi hanno man mano acquisito; ma l'aumento di produttività non è stato colto dalle statistiche economiche né in America né negli altri paesi in cui le tecnologie informatiche si sono diffuse [Salvatore Rossi, 2003].Una distorsione particolarmente rilevante dovuta alla mancata considerazione della qualità dei fattori produttivi si verifica nel calcolo del prodotto della pubblica amministrazione. Normalmente il valore aggiunto di un settore si calcola come differenza tra produzione a prezzi di mercato e beni intermedi utilizzati. Ma nel caso della PA si producono beni e servizi che non vengono scambiati sul mercato (basti pensare al mantenimento della sicurezza nazionale, all'istruzione pubblica, alle funzioni dell'apparato burocratico, all'esercito), per i quali non esiste un prezzo da utilizzare per eseguire i calcoli.L'espediente utilizzato dai sistemi di contabilità nazionale consiste nel misurare il prodotto della PA sulla base degli input utilizzati: il calcolo del valore aggiunto viene eseguito sommando il monte retributivo dei dipendenti pubblici e degli ammortamenti dei beni capitali (i quali costituiscono per definizione la remunerazione del capitale pubblico) [Brandolini e Cipollone, 2003].Si ipotizza quindi che tutti gli impiegati pubblici producano beni e servizi in maniera perfettamente proporzionale al loro stipendio e al loro grado, mentre la qualità e la quantità dell'istruzione che

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hanno ricevuto, il grado di impegno personale, le loro qualità individuali, vengono considerate ininfluenti.Ipotizziamo che un governo decida, per aumentare il proprio consenso, di disporre una serie di promozioni generalizzate, o di aumentare in modo indiscriminato lo stipendio dei dipendenti pubblici. In questa ipotesi, che non è certo fantascientifica, a parità di numero di impiegati e di lavoro svolto, la contabilità nazionale registrerebbe un aumento del Pil dovuto ad un aumento di produzione della pubblica amministrazione, nonostante la produzione reale di beni e servizi resti invariata. Altro esempio significativo è l'errore che può verificarsi quando dei dipendenti pubblici beneficino di un corso di formazione: nel momento in cui gli impiegati stanno seguendo il corso, la quantità di beni e servizi che essi producono presumibilmente diminuirà, dato che durante le ore di lavoro sono impegnati nell'attività formativa, ma il prodotto registrerà un aumento dovuto agli stipendi che lo Stato dovrà pagare ai formatori. Viceversa, una volta terminato il corso, gli impiegati diventeranno più produttivi, facendo aumentare, a parità di ore di lavoro, la quantità di produzione. L'aumento non verrà registrato nel Prodotto Interno Lordo.Nel momento in cui l´introduzione di una nuova tecnologia consenta di produrre servizi pubblici migliori, impiegando meno lavoro, il prodotto reale della pubblica amministrazione aumenterà, mentre per la contabilità nazionale si verificherà una diminuzione del PIL [Fuà, 1993].Da questi paradossi nasce l'esigenza di stimare la produzione non-market della PA con metodi basati sull'output prodotto, in modo da tener conto dei cambiamenti nella produttività dei fattori. Quest'esigenza è stata espressa anche dalla Commissione Stiglitz-Sen, ed esistono già diversi studi in merito - come quelli effettuati da Atkinson nel 2005 in Inghilterra e da Deveci, Heurlèn e Sorensen nel 2008 in Danimarca - che hanno evidenziato come una stima basata sull'output porti ad una più precisa misurazione del prodotto della PA e quindi della crescita economica.Possiamo quindi concludere, in base a quanto finora esposto, che l'indice del Pil pro-capite a prezzi costanti produce delle distorsioni nella misurazione della quantità di beni e servizi prodotti in un paese in un anno, e necessiterebbe comunque significative correzioni. La riforma del SNA che è prevista per il 2010 probabilmente interverrà su alcuni degli aspetti evidenziati. Nei paesi del Sud del mondo la distorsione è dovuta principalmente alla mancata misurazione della produzione effettuata da unità di autoconsumo. Nei paesi ad alto reddito e ad economia terziarizzata è attribuibile alle distorsioni nel calcolo del prodotto dei servizi a prezzi costanti e della PA sulla base degli input, alla mancata misurazione della qualità degli input produttivi, senza dimenticare la distanza che in molti casi si crea tra fenomeni economici reali e fenomeni finanziari.Si rinvia al terzo capitolo per un approfondimento dei correttivi apportabili alla stima della crescita economica, fermo restando che anche un Pil corretto e perfezionato andrebbe secondo il parere di chi scrive sostituito con altri indicatori più idonei a orientare e guidare le decisioni politiche.

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2. LE INADEGUATEZZE DEL PIL NEL MISURARE IL BENESSERE

“The welfare of a Nation can scarcely be inferred from a measure of National Income”

(Simon Kutznets, rapporto al Congresso Usa nel 1934)

“Uomini, vi dannate per cose inutili, avidi di guadagno scatenate risse e guerre. Ma la natura non vuole molta ricchezza, mentre voi l'estendete all'infinito.”

(Ateneo, citato da Epicuro nella Lettera sulla Felicità”)

2.1 Reale significato del Pil e definizione di benessere

Il Pil ha dei meriti notevoli. E' una di quelle misure aggregate senza le quali chi si occupa di orientare le politiche economiche si troverebbe sperduto in un mare di singoli dati non organizzati, e non sarebbe in grado di stabilire e raggiungere degli obiettivi economici [Samuelson 1995]. La rappresentazione di un fenomeno attraverso un unico indicatore presenta l’innegabile vantaggio di essere facilmente comunicabile e utilizzabile per immediati confronti nel tempo e nello spazio, anche se come visto nella prima parte di questo lavoro il Pil è lungi dall'essere una misura perfetta della produzione di beni e servizi.Ma, al di là delle incongruenze che abbiamo esaminato nel precedente capitolo, e anche assumendo che il Pil, se adeguatamente riformato, possa tutto sommato essere una misura approssimativamente buona della produzione sul mercato e dell'attività economica, vogliamo ora esaminare il dibattito riguardo alla coerenza o meno dell'attribuzione a questo indicatore della funzione di misuratore del tenore di vita, per individuare i limiti riscontrabili nell'approccio che identifica la crescita economica misurata tramite il Pil pro-capite con il progresso e con il benessere materiale. Lo stesso ideatore del Pil, Simon Kuznets, ha avvertito che "difficilmente il benessere di una nazione può essere dedotto da una misura del reddito nazionale", che “bisogna tenere bene a mente la differenza tra la qualità e la quantità della crescita, tra i costi e i ritorni, tra il breve e il lungo termine” e che “chi pone l'obiettivo di una maggiore crescita dovrebbe specificare maggiore crescita di cosa e per quale motivo” [Kutznets, 1934 e 1962].Il rifiuto di ridurre l'evoluzione delle società umane a mera crescita economica quantitativa, come si è fatto e si fa ogni volta che si compara il Pil delle diverse nazioni per stabilire chi è che "è più ricco e quindi sta meglio", va di pari passo con la ricerca di una nuova definizione di sviluppo, che ponga questo concetto in "una relazione molto più stretta con la promozione delle vite che viviamo e delle libertà di cui godiamo"[Sen 2000], rendendolo coerente con un'ottica di progresso sociale e di

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sostenibilità ambientale, quest'ultima intesa come rientro nei limiti della capacità di carico degli ecosistemi. Contenuto di questo capitolo è la rassegna e l'analisi dei motivi per i quali non esiste un nesso di proporzionalità diretta tra crescita economica e aumento del benessere.Prima di procedere a questa analisi bisogna però fissare dei concetti, in particolare definire meglio una nozione generica come quella di benessere.La definizione di benessere qui presa in considerazione non è quella paretiana, basata sul soddisfacimento delle preferenze mediante l'acquisto di beni e servizi in grado di appagare i desideri (e che fonda i suoi presupposti nella filosofia utilitarista e nella concezione di “homo economicus”), bensì quella formulata da Amartya Sen, basata sui concetti di functionings e capability, che d'ora in poi tradurremo in italiano come “funzionamenti” e “accessibilità”3.I funzionamenti sono le esperienze effettive che l'individuo vive, gli “stati di fare e di essere” dotati di buone ragioni per essere scelti e tali da qualificare lo stare bene. Sono le attività che una persona aspira a svolgere e le condizioni nelle quali aspira ad trovarsi al fine di vivere nel modo al quale egli attribuisce più valore.“Questi funzionamenti cui viene riconosciuto un valore – spiega Sen - vanno dai più elementari, come l'essere nutrito a sufficienza e il non soffrire di malattie evitabili, ad attività o condizioni personali molto complesse, come l'essere in grado di partecipare alla vita della comunità e l'avere rispetto di sé”. L'“accessibilità”, invece, è l'insieme delle combinazioni alternative di funzionamenti che una persona è in grado di realizzare. Si tratta dunque di una libertà: “nella misura in cui i funzionamenti costituiscono lo star bene, le capacità rappresentano la libertà individuale di acquisire lo star bene”.Per esempio un benestante che digiuni per propria scelta può avere un regime alimentare simile a quello di un indigente costretto alla fame. Ma il primo possiede un insieme di accessibilità diverso dal secondo: infatti l'uno potrebbe decidere, se lo ritenesse opportuno, di mangiare bene e nutrirsi adeguatamente; il secondo non ha invece la possibilità di realizzare questo funzionamento.L'approccio da adottare quindi consiste nel capire fino a che punto le persone siano messe in condizione di esprimere il loro potenziale, in che misura una società riesca a permettere a ogni componente di compiere le azioni che, in base a scelte soggettive, considera necessarie a condurre una vita apprezzabile. Non si tratta solo di soddisfare le esigenze primarie, ma della possibilità di "essere nel modo più completo individui sociali, che esercitano le loro volizioni, interagiscono col mondo in cui vivono e influiscono su di esso"[Sen 2000].Avendo esplicitato la concezione di benessere a cui fare riferimento, possiamo cercare di capire se, e in quali casi, la crescita economica misurata dal prodotto interno lordo determini effettivamente un impatto positivo sul livello delle capacitazioni di cui gli individui godono.Come anticipato nell'introduzione, il ragionamento che identifica la crescita economica col benessere, è cosi schematizzabile: in qualsiasi parte del mondo ogni individuo cerca di soddisfare un complesso di bisogni, e in base al grado in cui essi sono soddisfatti si determina il livello di benessere. Poiché le merci sono ciò che serve a soddisfare tali esigenze, il Paese che ne dispone in quantità maggiore può raggiungere un livello più elevato di benessere.Per prima cosa è importante mettere in luce l'importante distinzione tra bene e merce: un bene è qualsiasi oggetto disponibile in quantità limitata, reperibile ed utile, in quanto idoneo a soddisfare un bisogno; la merce è tutto ciò che viene scambiato per denaro. Nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non pertiene al concetto di merce. [Pallante, 2005]Dalla definizione formulata, risulta evidente l'esistenza di beni che non sono merci, e di merci che non sono beni. Se si rimane fermi in un ingorgo automobilistico aumenta il consumo della merce carburante, ma si

3 Una traduzione più usata di “capability” nella letteratura sull'argomento è “capacitazione”, ma l'uso questo termine, anche se attraente per la sua somiglianza col termine originale inglese, appare scorretto nella nostra lingua.

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ha uno svantaggio, una privazione di un funzionamento (ad esempio muoversi in modo agevole nella propria città, oppure avere più tempo libero invece di passarlo bloccati nel traffico). Più si rimane fermi in coda, più il Pil aumenta. Se poi si ha un incidente, il Pil sale ancora di più, perché si acquisteranno merci e servizi (medicinali e cure mediche). Se poi le cure non funzionassero e l'incidente si rivelasse mortale, il Pil registrerebbe un ulteriore aumento dovuto alle spese funebri!! Possiamo considerare la benzina sprecata nel traffico, l'inquinamento, gli incidenti stradali e gli eventuali decessi come degli elementi che migliorano lo stato della nostra economia e il nostro benessere? E' quello che facciamo se utilizziamo come misura del progresso la massimizzazione del Pil pro-capite.Viceversa, si può produrre qualcosa di utile senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o donarla. Jean-Philippe Cotis, presidente dell'Insee, l'istituto nazionale francese di statistica, e membro della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, ha osservato che “attribuire un valore ad attività non di mercato – come il tempo libero e la cura dei bambini – potrebbe evidenziare il trade-off esistente tra crescita economica e benessere sociale. Prendersi cura dei propri figli o prestare cure ad un parente malato sono attività che possono anche non dare nessun contributo al Pil, ma sono di grande valore per le famiglie e per la società”. E' stato già visto nel primo capitolo che secondo recenti ricerche queste attività non-mercificate costituiscono una parte importante della produzione di ogni paese.Ciò che il Pil misura, infatti è la quantità di merci scambiate con denaro sul mercato, non la quantità di beni a disposizione degli individui. E' già questo un importante limite alla capacità di questo indicatore di dare indicazioni sulla stato di benessere di una comunità: il Pil, contrariamente a quanto si crede, non misura la produzione di ricchezza.Riguardo a ciò, nel menzionato saggio sulla crescita economica, Giorgio Fuà individuava tre aree problematiche. Nel primo caso un cambiamento produttivo aumenta la disponibilità di merci sul mercato privando d'altra parte la popolazione di alcune soddisfazioni di cui essa godeva in forma non mercificata, e per soddisfare le quali ora abbisogna di merci appropriate. Ad esempio con l'urbanizzazione e l'abbandono di massa del lavoro agricolo si sono persi il contatto con la natura e l'esercizio fisico, per fornire nuovamente i quali si sviluppano le palestre e il turismo montano. Il Pil registra gli aumenti di merci presenti sul mercato, senza registrare le conseguenti perdite di soddisfazioni non-mercificate.Il secondo problema che Fuà solleva è la mancata contabilizzazione dei danni provocati dalla produzione, per cui “la serie del Pil registra anno per anno i risultati immediati degli sviluppi produttivi, senza tener conto delle ipoteche che in conseguenza di questi sviluppi vengono a gravare sul futuro”. Rientra in questo ambito il problema dei danni ambientali provocati dallo sviluppo economico, che sarà affrontato nella parte finale di questo capitolo.Il terzo problema, sempre nell'analisi di Fuà, riguarda “innovazioni merceologiche che appaiono guidate esclusivamente dalla logica interna del mercato”, cioè merci che non soddisfano alcun bisogno, la cui unica qualità è la “novità”, e il cui inserimento sul mercato è accompagnato da una fortissima campagna pubblicitaria per catturare la clientela e attribuire al prodotto un significato ed un valore ben oltre l'effettiva funzionalità della merce in questione. Il caso più evidente è la moda, e Fuà lo esemplifica con un “ingenua parabola”, quella degli abitanti di Pantopia.

“Fino alla prima guerra mondiale gli abitanti di Pantopia portavano i loro abiti per 10 anni prima di smetterli. Adesso i produttori di abbigliamento cambiano la moda ogni anno e persuadono gli abitanti che sarebbe inelegante continuare a portare il modello “passato” (è un caso di obsolescenza pianificata). Gli abiti potrebbero durare ancora 10 anni, ma gli abitanti di Pantopia ora li buttano via dopo un anno di uso, per sostituirli con quelli all'ultima moda. Per rifornire la popolazione, occorre ora un flusso annuo di abiti decuplo del passato. I conti nazionali ci dicono che il livello di consumo degli abitanti attuali è 10 volte quello dei loro nonni: possiamo ritenere che anche il loro livello di soddisfazione sia tanto più alto?” [Fuà, 1993]

Fatta questa distinzione, e quindi chiarito che il Pil non è misura della produzione di beni ma dello

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scambio di merci, dobbiamo anche constatare come esso non ci dica nulla riguardo alla distribuzione del potere d'acquisto tra la popolazione, ma sopratutto al reale accesso delle persone ai funzionamenti cui attribuiscono valore intrinseco.

2.2 Critica del Pil dal punto di vista della sostenibilità sociale

Gli esponenti della teoria dei Basic Needs, nata in seno alla World Bank negli anni '70, indicano come primo presupposto dello sviluppo la soddisfazione dei bisogni essenziali di tutti. Una nazione non dovrebbe quindi limitarsi a promuovere la crescita economica, sulla base della convinzione che questa porterà benefici a tutta la popolazione, ma distribuire in modo equo le risorse in modo che la crescita sia indirizzata al benessere collettivo. Ai fini dell'argomento della tesi, tale presupposto è ancora incompleto perché dà per scontato che l'aumento dei consumi sia automaticamente sinonimo di benessere per chi ne è destinatario, senza considerare il contenuto qualitativo della crescita e il prelievo di capitale naturale che essa implica. Nonostante ciò, l'analisi basata sull'approccio dei Basic Needs è importante per mettere in luce uno dei punti di criticità dei ragionamenti che attribuiscono, a prescindere da qualsiasi discriminante, un valore positivo alla crescita economica. Infatti, della distribuzione delle risorse e del fatto che qualcuno sia privato di cibo, acqua, alloggio, vestiario, sanità e istruzione, il Pil non ci dice alcunché, neanche nella versione pro-capite.Constatare che la crescita economica non assicuri una accettabile distribuzione del reddito, e quindi una diminuzione della povertà, è già un buon punto, ma si può andare oltre. Secondo i modelli elaborati dall'economia dello sviluppo - come quelli di Harrod-Domar e di Chenery e Syrquin - le economie, perlomeno nei primi stadi del processo di crescita, crescono maggiormente quando il reddito è distribuito in modo più iniquo. La ragione è che le risorse a disposizione di chi ha una maggiore propensione al risparmio e all'investimento verranno investite generando crescita economica, mentre le risorse in mano ai ceti meno abbienti verranno spese in maggior misura per il consumo, cioè sottratte agli investimenti.In altre parole, la crescita economica richiede risparmio, che a sua volta impone una riduzione dei consumi.Secondo la curva elaborata da Kutznets, questo vale solo per i primi stadi dello sviluppo di un paese, mentre in uno stadio successivo l'ineguaglianza dovrebbe cominciare a diminuire.

CURVA DELL'INEGUAGLIANZA DI KUTZNETS:

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(Immagine tratta da: François Nielson, "Income Inequality and Industrial Development: Dualism Revisited", American Sociological Review, 59 (Ottobre 1994), pp. 654-677)

In realtà il fatto che nei paesi ad alto reddito agli aumenti del Pil corrispondano diminuzioni della povertà è tutto da dimostrare. Anzi due recenti ricerche, tra le altre, ci mostrano come spesso accada il contrario anche nei paesi più ricchi. La prima riguarda in particolare la Francia, la seconda i paesi dell'OECD.Un modo per entrare più nello specifico del contenuto della produzione, in modo da adottare una visione più chiara del reale contenuto della crescita, è quello di esaminare i componenti del Pil con maggior dettaglio. E' ciò che ha fatto il presidente dell'istituto nazionale di statistica francese, Jean-Philippe Cotis, entrando nel dettaglio di uno dei grandi aggregati che formano il Pil: il consumo. Cotis ha studiato i budget delle famiglie francesi tra il 2001 e il 2006, distinguendo tra i costi fissi, come affitti, tasse e bollette, e le spese che sono invece a discrezione della famiglia. Cotis ha così constatato che le famiglie meno ricche, in particolare il quintile a reddito più basso, nel 2001 ha avuto a disposizione il 45% del reddito per spenderlo come preferiva, mentre il restante 55% serviva a coprire le spese fisse. Nel 2006, a causa principalmente dell'aumento del costo delle case, la quota di reddito non assorbita dalle spese fisse era ridotta al 25%, mentre il restante 75% andava via tra bollette, affitti, mutui e tasse.Presumibilmente il tenore di vita di queste famiglie è nettamente peggiorato nel corso di quei cinque anni, nonostante le statistiche sulla crescita economica suggeriscano il contrario, cioè che il benessere pro-capite della nazione sia aumentato [Financial Times, 2009].Concentrare l'attenzione sull'evoluzione delle condizioni materiali e del potere d'acquisto dei diversi gruppi sociali è una delle direzioni in cui si deve andare in futuro per superare una visione basata su un indice medio pro-capite della crescita economica, nel quale in una società con forti ineguaglianze nessun cittadino può trovare rispecchiata l'evoluzione della propria condizione economica.Una ricerca più generale, compiuta dall'OECD basandosi su propri dati statistici, e contenuta nel rapporto “Growing unequal?” pubblicato nel 2008, mostra come dal 1980 ad oggi ineguaglianza e povertà siano aumentate in quasi tutti i paesi industrializzati, nonostante si sia trattato di due decenni di crescita economica abbastanza sostenuta [OECD, 2008].Tornando ai paesi del Sud del mondo, in alcuni di essi il fatto che la crescita economica non si traduca in una riduzione, bensì in un aumento della povertà, è dovuto tra le altre cose all'esistenza di elite al potere, le cui considerevoli ricchezze aumentano regolarmente, mentre la condizione delle fasce sociali più deboli continua a peggiorare. Così la crescita economica, per ottenere la quale secondo la teoria economica è necessario aumentare le ineguaglianze, una volta innestata rischia di portare vantaggi soltanto alla parte più ricca della popolazione.Ricapitolando: l'ineguaglianza, sopratutto nei paesi poco industrializzati, è condizione necessaria per il tipo di processo di crescita economica che si cerca di innescare e nel quale si cerca la soluzione al problema della povertà. Ma proprio in questi paesi l'ineguaglianza comporta povertà, essendoci un basso livello generale di consumi e una concentrazione della ricchezza e del potere nelle mani di un elite corrotta. E' difficile non trovare aspetti paradossali nel fatto che, per combattere la povertà, si propone di avviare un meccanismo che, per essere alimentato, richiede un aumento della povertà stessa, e che una volta innescato, in società con cosi grandi ineguaglianze, rischia di andare a vantaggio soltanto delle elite agiate e delle multinazionali straniere. La crescita misurata dal Pil, infatti, comprende anche quei profitti che vengono rimpatriati da investitori stranieri, e quindi non aumentano il potere d'acquisto di nessuno degli abitanti del paese. Da questo punto di vista, come si vedrà meglio nel terzo capitolo, attribuire maggiore importanza al reddito reale netto delle famiglie (che però necessita anch'esso di alcune correzioni) invece che al Pil sarebbe già un importante passo avanti.La cattiva distribuzione dei redditi e la diminuzione dei consumi (e quindi l'aumento della povertà), necessari ad avviare il processo di crescita economica, vengono giustificati in un ottica di lungo periodo, in base ai vantaggi futuri di cui la crescita stessa sarebbe portatrice, e che dovrebbero

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arrivare a tutti grazie ad un effetto di trickle down o sgocciolamento, per cui una parte della ricchezza dovrebbe fluire spontaneamente dalle classi più ricche al resto della società. In realtà questi vantaggi rischiano di non arrivare mai alle classi più povere, se non si attuano politiche volte ad assicurare a tutti l'accesso ai funzionamenti di cui hanno bisogno.Per spiegare il concetto della crescita economica come soluzione al sottosviluppo, la classica metafora usata è quella della torta: bisogna far crescere la torta, perché tutti in futuro possano avere fette più grandi. Ci si dovrebbe chiedere però di che ingredienti è fatta questa torta: se tutte le fette siano davvero buone e commestibili, e se non ci siano degli strati tossici. Per capire questo non basta pesare la torta con la bilancia del Prodotto Interno Lordo. In altre parole bisogna guardare al contenuto della crescita economica, alla sua qualità, invece che valutarla soltanto in base a criteri di crescita quantitativa. Il Pil non è in grado di distinguere tra i beni e i mali che una società produce. L'acquisto da parte di un governo autoritario di armi da usare contro i propri cittadini allo scopo di mantenere il potere, la spesa bellica di una nazione in guerra, i costi che alcune famiglie si trovano a dover sostenere per curare un proprio componente affetto da una nevrosi o dipendente da droga, non sono certo sintomi di benessere per una società, eppure contribuiscono all'incremento del Pil. Stiamo trattando di un indicatore puramente quantitativo, per il quale una certa quantità di soldi spesi per la costruzione di una scuola e un aumento dello stesso importo nella produzione di sigarette hanno esattamente lo stesso significato.In altri termini il Pil è indifferente rispetto alla destinazione ultima della produzione: se un imprenditore produce qualcosa che si rivela completamente inutile o disfunzionale, e che quindi rimane inutilizzato e diventa un rifiuto da smaltire, per il buonsenso c'è stato uno spreco, mentre in base al Pil si registra un contributo alla crescita economica. Lo scrittore californiano Jonathan Rowe, in un discorso tenuto nel 2008 di fronte al Senato americano, ha evidenziato molto efficacemente l'assurdità insita nel misurare l'economia contando meccanicamente quanto produce. Rowe ha portato ad esempio la prospettiva distorta a cui porta il fatto che i servizi sanitari vengano misurati in base agli input invece che in base agli output: per misurare il contributo che il settore medico dà all'economia, si calcolano le quantità vendute di servizi medici e di medicine, invece che il numero di persone che godono di buona salute.Rowe ha notato ironicamente che se il Pil misurasse la felicità, il modello di uomo felice sarebbe un malato terminale nel momento in cui sta attraversando la terapia più costosa, meglio ancora se nel pieno di un costoso divorzio [Financial Times, 2009].

2.3 Crescita economica e sviluppo

La storia delle critiche al prodotto interno lordo è strettamente correlata all'evoluzione della concezione prevalente di sviluppo, indicante in origine il passaggio da un economia di sussistenza, “arretrata” secondo gli standard occidentali, ad un economia industrializzata come quella affermatasi da tempo in Europa e negli Stati Uniti.Non a caso il termine sviluppo è mutuato dalle scienze naturali. In esse indica il processo di accrescimento progressivo degli organismi viventi, un processo che segue in ogni individuo della stessa specie una stessa successione di stadi di sviluppo, uno stesso percorso quindi.

«Il 20 gennaio 1949 il vento e la neve spazzavano la Pennsylvania Avenue – che va dalla Casa Bianca al Campidoglio – quando, nel suo discorso inaugurale davanti al Congresso, il presidente Truman definì come regioni sottosviluppate la maggior parte del mondo. Nacque così, bruscamente, questo concetto cerniera – da allora mai rimesso in discussione – che inghiottisce l’infinita diversità dei modi di vita dell’emisfero Sud in una sola e unica categoria: il sottosviluppo. Nello stesso tempo e per la prima volta, sorgeva nelle arene politiche più importanti una nuova concezione del mondo, secondo la quale tutti i popoli della Terra devono seguire la stessa via e aspirare a un unico scopo: lo sviluppo. Agli occhi del presidente, il cammino era tracciato: “Una

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maggiore produzione è la chiave della prosperità e della pace”. Dopo tutto, non erano forse gli Stati Uniti il paese che più si era avvicinato a questa utopia? In quest’ottica, le nazioni vengono classificate come i corridori: quelle attardate in coda e quelle che guidano la corsa. E “Gli Stati Uniti si distinguono tra le nazioni per lo sviluppo delle tecniche industriali e scientifiche”. Camuffando i suoi interessi come generosità, Truman non esitò ad annunciare un programma di aiuto tecnico che avrebbe eliminato “la sofferenza di queste popolazioni” grazie all’ “attività industriale” e all’ “aumento del tenore di vita”» [Sachs, 1996].

Cosi Wolfgang Sachs, sociologo ed economista esperto di sviluppo, descrive in un suo libro la nascita del concetto di sviluppo nel senso di percorso di una società da una condizione di arretratezza ad una di avanzamento tecnologico e prosperità [Latouche, 2005].Questo concetto è intriso di etnocentrismo, dal momento che si considera quello compiuto dalle nazioni europee e dagli Stati Uniti (quindi dal mondo “occidentale”) come il percorso naturale ed inevitabile che le comunità di ogni territorio devono imboccare per raggiungere lo sviluppo.In altre parole, il percorso di sviluppo da prendere a modello e riprodurre in ogni angolo del mondo coinciderebbe necessariamente con quello delle società occidentali negli ultimi due secoli, dall'inizio della rivoluzione industriale inglese.Come scrive Volpi nella sua “Introduzione all'economia dello sviluppo”,

“si partiva quindi dal presupposto che esistesse un naturale percorso, un percorso di “sviluppo” appunto, che ogni nazione avrebbe prima o poi intrapreso, un percorso uguale per tutti nel quale però alcuni paesi erano già ad un punto avanzato, mentre altri erano rimasti indietro.La linea lungo la quale lo sviluppo economico procede è identificata, secondo il metodo comparatistico, astraendo dalla storia delle società europee e occidentali caratteristiche che si suppone abbiano costituito stadi successivi dell'evoluzione umana nel suo assieme, il cui punto di arrivo – assunto come termine di confronto per tutti - è l'economia moderna capitalistica con i comportamenti individuali e le istituzioni che la caratterizzano” [Volpi, 1993].

Cosi, nel modello proposto da Rostow, uno dei primi e più famosi economisti dello sviluppo, si riscontrano cinque specifici stadi che ogni società deve attraversare per passare dall'economia agricola tradizionale alla società della produzione e del consumo di massa, cioè per “modernizzarsi”.In questa concezione, dominante fino agli anni '70, i due elementi chiave, identificanti lo sviluppo stesso, sono crescita economica e modernizzazione.Si parte dall'assunto che lo stato di partenza di ogni società non occidentale sia il sottosviluppo. Come nota Volpi, “la tesi che il sottosviluppo di una parte del mondo dipenda dall'ambiente fisico o dalle caratteristiche etniche dei popoli che vi vivono e l'ideologia di una missione civilizzatrice dell'uomo bianco che giustificava le imprese delle potenze coloniali sono fantasmi che si aggirano ancora tra le teorie e i modelli dell'economia dello sviluppo fondati sul paradigma della modernizzazione” [Volpi, 1993].In questa fase lo sviluppo viene identificato quasi totalmente con la crescita economica, con la sola aggiunta del concetto di modernizzazione, inteso peraltro come insieme di trasformazioni necessarie a far nascere rapporti di produzione di tipo capitalistico e a far procedere la società lungo il cammino dell'industrializzazione, quindi totalmente funzionale al processo di crescita economica.Come ha scritto Scidà [1981], “la strategia prioritaria consisteva nel massimizzare il tasso di crescita delle economie più deboli come via obbligata per il superamento del dislivello esistente nel prodotto nazionale lordo pro-capite fra paesi ricchi e poveri, ritenendo quest'ultimo l'indicatore più significativo in merito allo sviluppo e al benessere sociale di un paese”.Era quindi naturale che le “posizioni” della nazioni nella corsa allo sviluppo portatore di benessere fossero misurate attraverso il livello del Pil pro-capite. In un contesto del genere, in cui lo sviluppo era definito come un processo lineare e positivo, basato su una modernizzazione che rimuovesse blocchi e ostacoli di ogni tipo all'avvio di un percorso di

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crescita economica illimitata e di benessere crescente, l'identificazione tra livello di produzione e benessere di un territorio era assolutamente naturale e non sollevava obiezioni, in quanto presupposto implicito delle teorie dello sviluppo.Le cose iniziano a cambiare, almeno a livello di teorie, negli anni '70, quando la già citata teoria dei Basic Needs comincia a mettere al centro dell'analisi la soddisfazione dei bisogni.Questa ricerca di nuovi paradigmi deriva evidentemente non solo da un percorso di pensiero, ma anche dal fallimento delle politiche di sviluppo: il gap tra Paesi del Sud e del Nord del mondo si allarga invece che restringersi, con condizioni di vita nei paesi a basso reddito rimaste tragiche, a causa della persistenza su grande scala di povertà, malnutrizione, bassa aspettativa di vita, cattive condizioni sanitarie ed alta mortalità infantile.In particolare nel continente africano l'insuccesso delle politiche di sviluppo basate su modernizzazione e rimozione degli ostacoli alla crescita appare più evidente che in ogni altro paese.Economisti come Paul Streeten e Frances Stewart propongono esplicitamente di spostare l'attenzione dalla crescita economica alla soddisfazione dei bisogni fondamentali.In questa prospettiva, che sposta l'accento verso una dimensione soggettiva, ciò che importa non è tanto ampliare il mercato, produrre ricchezza o distribuire in modo omogeneo i redditi, quanto ottenere specifiche realizzazioni, come l'innalzamento dell'aspettativa di vita e la riduzione della mortalità infantile, la lotta alle malattie e alla denutrizione, la garanzia dell'accesso all'istruzione.Importa garantire a tutti i componenti della comunità la possibilità di vivere una vita piena [Stewart, 1981; Streeten, 1985].Su queste basi, ma spostando ulteriormente lo sguardo verso una dimensione ancora più soggettiva, si inserisce l'approccio, descritto in precedenza, di Sen, basato su funzionamenti e accessibilità e sul quale si basa la definizione di benessere che orienta questa tesi.Teorie dei Basic Needs e teoria dei funzionamenti di Sen portano alla nascita del concetto di sviluppo umano: uno sviluppo in grado di guardare non solamente alla crescita economica quantitativa, ma anche idoneo ad analizzare le condizione soggettive in cui si trovano gli individui di una nazione.

2.4 Critica del Pil da un punto di vista di sostenibilità ambientale

Parallelamente a quello appena descritto, un altro fronte di messa in discussione dell'identificazione tra sviluppo (e quindi benessere) e crescita economica è stato aperto in seguito alla nascita del concetto di sostenibilità ambientale.La prima crisi petrolifera (1972-'73) e la nascente consapevolezza dei danni che l'attività umana sta provocando al pianeta, segnalati con forza nel 1972 dal rapporto del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, obbligano la teoria economica a riconsiderare l'idea di uno sviluppo fondato sulla crescita illimitata. Il benessere futuro delle popolazioni umane dipende in buona parte dalla capacità di preservare gli ecosistemi e di non esaurire le risorse naturali necessarie alla sopravvivenza. I progressi in questi campi non sono misurabili attraverso il prodotto interno lordo, la cui crescita è anzi direttamente proporzionale alla depredazione delle risorse naturali e all'emissione di agenti inquinanti. Il Pil infatti misura il flusso della produzione, ignorando l'impatto delle attività produttive sugli stock, compreso lo stock di capitale naturale.La questione ambientale fu un punto di svolta, nella storia dell'identificazione tra Pil e benessere materiale, ancor più dell'emergere dell'approccio dello sviluppo umano. Se infatti quest'ultimo ha proposto di affiancare al Pil un'analisi delle condizioni di vita, ha anche continuato a considerare la crescita economica come un processo tendenzialmente positivo. Al contrario la constatazione dell'esistenza del problema ambientale come conseguenza dei processi di sviluppo economico evidenziò l'esistenza di un vero e proprio trade-off tra crescita economica e condizione dell'ambiente, aspetto fondamentale per il benessere umano.La crescita economica, in altre parole, metteva in moto dei meccanismi che, compromettendo la capacità di carico e la capacità di assorbimento dell'ecosistema, pregiudicavano il benessere dell'uomo e, potenzialmente, la stessa possibilità per la vita umana di continuare a riprodursi nel

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proprio pianeta.Bisogna però aspettare gli anni '80, e la teorizzazione da parte di studiosi come Daly, Costanza e Perrings dell'approccio dell'economia ecologia (ecological economics), per la strutturazione di una teoria organica che impone esplicitamente una revisione dell'obiettivo di crescita economica illimitata, formulando una concezione “forte” di sostenibilità.Infatti secondo l'approccio “debole” dell'economia dell'ambiente – nata negli anni '70 - la teoria neoclassica è ancora valida ed applicabile, solo va corretta inserendovi un terzo fattore di produzione oltre a capitale e lavoro, il capitale naturale. Non si propone di interrompere il processo di crescita, ma solo di internalizzare i costi ambientali tramite tasse ambientali e permessi di emissione - teorema di Coase. L'obiettivo di questo filone di studi è il raggiungimento di un equilibrio ottimale nei processi di impiego ed estrazione delle risorse, considerando il capitale naturale sostituibile con il capitale materiale prodotto dall'uomo, e l'esame delle correlazioni esistenti tra i tassi d'interesse di mercato e il valore delle riserve disponibili. Perciò secondo questo approccio di sostenibilità “debole” è conveniente trasformare il capitale naturale in capitale materiale ogni qualvolta questa trasformazione implichi un aumento di valore: ciò che è importante è infatti il valore complessivo del capitale (naturale e materiale) che si consegna alle generazioni successive.Considerare perfettamente sostituibile il capitale naturale con gli altri due fattori di produzione implica che la crescita economica illimitata sia possibile nonostante i limiti del pianeta. Gli avanzamenti tecnologici permetterebbero infatti di sostituire le risorse naturali limitate con altri fattori della produzione. Questa teoria però si scontra con la realtà nel momento in cui viene meno il presupposto della perfetta sostituibilità: nel mondo reale la produzione non può avvenire in assenza di risorse naturali. Il sistema economico non è un sistema chiuso ed autosufficiente ma un sistema aperto che attinge all'ecosistema ambientale e riversa in esso gli effetti della produzione.Secondo Daly, esponente dell'economia ecologica, l'influenza che l'indirizzo economico esercita sul filone dell'economia dell'ambiente e sulle teorie della sostenibilità “debole” ha la prevalenza sulle tematiche ambientali e porta ad accogliere in maniera acritica l'idea di una crescita economica illimitata, non considerando scarsità delle risorse e degradazione degli ecosistemi come vincoli potenziali allo sviluppo.L'economia ecologica invece, gettando le sue radici nel lavoro di Georgescu Roegen, inserisce l'economia in un contesto di interdipendenza tra uomo ed ecosistemi naturali [Pogutz, 2008].Il sistema economico viene visto come un sottosistema aperto dell'ecosistema terra, che è finito e non in espansione.In questa ottica, un espansione illimitata del sistema economico, quindi la crescita indefinita del Pil, non può che avvenire a scapito dell'ecosistema terrestre, e non può che finire per scontrarsi in modo tragico contro i limiti del pianeta.Il secondo principio della termodinamica, cioè la legge dell'entropia - ogni trasformazione di materia che liberi energia porta ad una degradazione irreversibile della materia e ad un aumento dell'entropia, cioè dello stato di disordine - fa si che capitale naturale e capitale materiale siano poco sostituibili. Tanto più i processi produttivi trasformano le risorse, tanta più energia si trasforma in uno stato indisponibile e viene sottratta alle generazioni future, tanto più disordine viene riversato sull'ambiente.In questo modo l'economia ecologica crea una distinzione sostanziale tra crescita del Pil e benessere. Non è l'aumento della produzione di merci che porta l'uomo al benessere, ma la messa in pratica di processi produttivi e stili di vita che minimizzano l'impatto sull'ambiente fino a rispettare la sua capacità di assorbimento e la capacità di rigenerazione delle risorse.Questa impostazione del problema ha aperto le porte ad una nuova visione dello sviluppo basata sulla sostenibilità ambientale, per la quale l'aspetto della crescita economia, quello delle condizioni sociali e quello delle condizioni ambientali sono tre processi che interagiscono tra loro e tra i quali esistono dei trade-off. Ogni società, in base alle proprie scelte, deciderà in che misura limitare ognuno dei tre aspetti per

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non compromettere gli altri due. Il benessere deriverà quindi da un buon equilibrio tra obiettivi di produzione, obiettivi sociali e obiettivi ambientali, e non da una massimizzazione del prodotto interno lordo. In questo modo si elimina concettualmente l'idea che il Pil possa misurare il benessere materiale, e diventa chiara la necessità di trovare nuovi indicatori che sappiano dirci qualcosa degli aspetti qualitativi dello sviluppo, della sua sostenibilità ambientale e delle condizioni sociali. In base a questo approccio possiamo anzi considerare una crescita economica forte come un indice di uno squilibrio tra aspetti economici e aspetti ambientali e sociali, cioè un'eccessiva priorità data alla crescita del mercato e dei profitti rispetto agli aspetti sociali ed ambientali.

Approccio ecocentrico alla sostenibilità

Fonte: “Economia e sostenibilità. Teoria e pratica nella scienza economica.”

E'chiaro che in base a tale schema una crescita economica quantitativa eccessiva rappresenta un'invasione delle altre due sfere, un sacrificio di elementi sociali ed ambientali fondamentali per il benessere delle persone, per avere in cambio aumenti della produzione. Tali aumenti di produzione, perlomeno nei paesi economicamente sviluppati in cui la produzione è già a livelli molto alti, difficilmente coincidono con aumenti di benessere.Al di là degli aspetti teorici, e come sostenuto nel Draft Summary della Commissione Stiglitz-Sen [2009], “il Pil è principalmente una misura dell'attività di mercato, anche se spesso è stato trattato come un indicatore di benessere economico. Questo equivoco può portare informazioni svianti riguardo la condizione delle persone e comportare decisioni politiche errate”.

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3 – LA RICERCA DI INDICATORI ALTERNATIVI

“If policy-makers are to make well-being a central objective they have to have ways of measuring it. ”

Professor Lord Richard Layard

3.1 Lo stato della ricerca di indicatori alternativi

Una volta appurato che il Pil non è un buon indicatore dello stato dell'economia e del progresso sociale, il passo successivo è quello di capire quali indicatori possono sostituirlo come metodo di calcolo della ricchezza e del benessere delle nazioni.Da un lato la ricerca di indicatori alternativi va avanti da tempo ed ha sviluppato una grossa quantità di proposte, alcune presenti come conti satellite nella contabilità nazionale. D'altra parte non è ancora emerso un indice, o meglio ancora una gamma di indici, sui quali il consenso sia abbastanza largo da legittimarli come sostituti del Pil nel ruolo di misure-guida delle decisioni politiche e del dibattito pubblico.Come constatato dalla Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi [2008], “anche in questo campo, come spesso accade in economia, siamo in presenza di un trade-off: un più largo numero di indicatori rifletterebbe meglio la diversità delle problematiche e le singole situazioni, ma un numero troppo ampio darebbe un quadro confuso della situazione generale. D'altro canto, un singolo indicatore che aggreghi un largo numero di fenomeni socio-economici sarebbe una base inadeguata per appropriati provvedimenti politici”.L'utilità della produzione di un numero sempre maggiore di indicatori particolari da parte dell'apparato statistico è indiscutibile, per l'apporto che ciò può dare a studi specialistici e a chi si trova ad affrontare problematiche tecniche e molto specifiche.Per quanto riguarda però la guida delle politiche economiche e sociali e del dibattito pubblico, è bene che emerga una ristretta gamma di indicatori comprensibili e facilmente comunicabili, che misurino con adeguata capacità di sintesi i vari aspetti della situazione sociale ed economica, il benessere dei cittadini e la sostenibilità.E' anche opportuno che questi indicatori non si presentino come aggregati di misure troppo eterogenee, perché ciò implicherebbe una forte arbitrarietà nell'attribuire dei pesi relativi ai diversi componenti dell'indicatore sintetico. Anche per questo è preferibile non sostituire il Pil con un unico indicatore, bensì una ristretta gamma di indici.Un indice sulla ricchezza - possibilmente più indicativo del Pil pro-capite e idoneo a tener conto della ricchezza derivante dal capitale naturale, dal capitale umano e dal capitale sociale - andrebbe accompagnato da indicatori specifici sulla sostenibilità sociale ed ambientale, collocati in un ruolo non subordinato ma di interdipendenza e complementarietà all'indicatore sulla ricchezza.L'aspetto ambientale e quello sociale devono rientrare sia negli indicatori sulla ricchezza attuale sia in quelli sulla sostenibilità. E' infatti necessario distinguere l'apporto che le risorse naturali, l'ambiente e il capitale umano e sociale danno al livello di benessere attuale, lasciando aperta la verifica sulla possibilità mantenere questo livello di benessere nel lungo periodo, cioè sul rispetto dei vincoli economici, sociali ed ambientali di sostenibilità.In questo modo si darebbe appunto spazio alle diverse impostazioni del problema della sostenibilità ambientale: la concezione di sostenibilità “debole” guiderebbe l'inserimento dei costi ambientali nei

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conti nazionali standard; una concezione di sostenibilità “forte” risulterebbe invece alla base degli indicatori specifici, basati sul concetto di impronta umana sull'ecosistema.In questo modo ad un indicatore monetario, come ad esempio un calcolo corretto del reddito reale nazionale netto disponibile, si affiancherebbero misure non monetarie come quelle basate sull'impiego del tempo, sull'autovalutazione individuale del benessere, e sulla quantità di terreni produttivi necessari a sostenere i consumi.Stabilire esattamente quali indicatori siano in grado di raccogliere il più ampio consenso, in modo da sostituire il Pil pro-capite, è qualcosa che al momento nessuno è in grado di fare.Un contributo in tal senso potrebbe venire da iniziative volte ad avviare gruppi di lavoro territoriali per la ricerca e la selezione di indicatori di sviluppo diversificati in base alle diverse condizioni culturali, sociali ed economiche delle diverse regioni, come si propone di fare il progetto dell'Ocse “On measuring the progress of societies”.E' possibile però ipotizzare le caratteristiche che questi indicatori dovranno avere, e sviluppare parallelamente un analisi comparata degli indici già messi a punto, per cercare di individuare quelli che si avvicinano maggiormente al modello proposto.

3.2 Il valore mediano del reddito reale nazionale netto disponibile corretto delle unità di consumo

Questo indicatore, proposto dalla Commissione Stiglitz-Sen, si potrebbe ottenere attuando alcuni aggiustamenti (elencati alla fine di questo paragrafo) alla misura del reddito nazionale netto disponibile. Esso potrebbe dare un informazione molto più attendibile di quella data dal Pil pro-capite sul potere d'acquisto delle famiglie. Andrebbe comunque affiancato da indicatori sulla sostenibilità sociale ed ambientale e da indicatori non monetari, per dare un buon quadro generale dello stato dell'economia e del progresso sociale di un territorio.La misura del reddito nazionale netto disponibile presenta i seguenti vantaggi rispetto al Pil:

Trattandosi di un valore netto, e non lordo, tiene in considerazione i deprezzamenti del capitale fisso. La preminenza che si è fino ad ora data al Pil, cioè ad un valore lordo, è dovuta principalmente alle difficoltà nella stima del deprezzamento del capitale, e al fatto che, finché la struttura produttiva rimane pressoché invariata, Pil e Pnl hanno andamenti prettamente simili. La struttura produttiva è però cambiata negli ultimi anni, a causa dello sviluppo delle tecnologie informatiche e della comunicazione (ICT, Information and Communication Technology), che sono diventate parte fondamentale del capitale fisso. Queste tecnologie hanno un tasso di deprezzamento e un aspettativa di vita estremamente brevi rispetto a beni capitali più tradizionali, come quelli che ad esempio possono caratterizzare un acciaieria. Per questo motivo il tasso di deprezzamento del capitale fisso oggi ha livelli molto più alti rispetto, per esempio a venti anni fa. Questo fa si che il Pil e il Pnl non vadano più di pari passo: il Pnl cresce ad un tasso più lento. Prendere in considerazione il reddito nazionale invece che il prodotto nazionale permette di escludere quella parte di profitti e di produzione che viene effettuata da investitori stranieri ed immediatamente rimpatriata da essi. Questa differenza è particolarmente rilevante nei paesi del Sud del Mondo nei quali una parte rilevante della produzione è effettuata da multinazionali estere. Solitamente soltanto una piccolissima parte dei redditi generati da queste produzioni va effettivamente ad incrementare i redditi delle famiglie del paese in questione.Utilizzando il RNN reale disponibile, si considera la parte di reddito che realmente è a disposizione delle famiglie, al netto delle imposte e dei trasferimenti, e si tiene conto dei rapporti di scambio con l'estero, quindi delle evoluzione dei prezzi relativi di importazione ed esportazioni.

Il reddito reale nazionale netto disponibile (real net national disposable income) fa parte dei conti nazionali di quasi tutti i paesi, però è usato molto più raramente del Pil nel dibattito pubblico.Le correzioni da fare a questo indice, cosi come proposto dalla Commissione Stiglitz-Sen, si configurerebbero in questo modo:

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Tenere conto, nella stima del deprezzamento del capitale, del deprezzamento del capitale naturale e dei costi sociali. Si diminuirebbe quindi la stima del valore aggiunto di quei settori che con le loro attività produttive incidono negativamente sull'ambiente e sulle risorse naturali, e di quei settori le cui produzioni comportano un danno sociale, come il settore degli alcolici e delle sigarette. Il problema più rilevante da questo punto di vista è trovare un metodo per stimare in modo meno controverso possibile i danni all'ambiente e i prelievi di risorse con criteri monetari.Misurare non solo i trasferimenti diretti che lo Stato fa alle famiglie, ma anche tutti i servizi di cui le famiglie usufruiscono, anche collettivamente, tramite l'attività della Pubblica Amministrazione. La ricchezza prodotta dalla PA, e messa a disposizione delle famiglie sia direttamente che indirettamente, andrebbe misurata tramite stime basate sull'output invece che sull'input. Si tratta di una sfida difficile, ma sono già in atto progetti di ricerca in questo senso, e molte ricerche sono state pubblicate al riguardo. Inoltre si propone di calcolare le cosiddette spese “difensive” sostenute dalla PA come investimenti in capitale umano ed in capitale sociale.Misurare, nelle stime sul capitale e sugli investimenti, l'ammontare e le variazioni del capitale umano e del capitale sociale, oltre che di quello ambientale. Nella misura del capitale umano bisognerebbe inserire le variabili che misurano la salute dei cittadini, come i dati sulle malattie e sulla mortalità. Il problema, cosi come nel caso del capitale ambientale, è di stimare queste variabili con valori monetari per poterle aggregare al reddito reale nazionale netto disponibile.

Un altro importante correttivo sarebbe di considerare indicativo non il valore pro-capite, ma il valore mediano. Il valore mediano, essendo quel valore che divide a metà la classificazione dei redditi, è molto più indicativo della condizione dell'individuo medio rispetto ad un valore pro-capite che invece diventa inaffidabile in situazioni di forte diseguaglianza. Pur presentando anch'esso dei difetti, come quello di non rendere conto di variazioni di ricchezza che avvengono agli estremi della distribuzione del reddito, e quindi di essere anch'esso non indicativo della distribuzione dei redditi, un valore mediano avrebbe un grado di indicatività maggiore di uno pro-capite.Il problema è, anche in questo caso, la maggiore difficoltà statistica di misurazione di un valore mediano, in quanto implicante l'utilizzo di informazioni micro-economiche.La Commissione Stiglitz-Sen propone inoltre di calcolare il reddito disponibile non per persona o per famiglia ma per unità di consumo. Le unità di consumo corrispondono alle famiglie, ma con aggiustamenti legati alla loro ampiezza in numero di componenti. In questo modo si può tenere conto del fatto che ci sono dei costi fissi (principalmente affitti e bollette), che vengono condivisi tra un numero diverso di persone in base all'ampiezza della famiglia [Commissione Stiglitz-Sen, 2009].I due grafici della pagina seguente, allegati al “Draft Summary” di giugno 2009 della Commissione Stiglitz-Sen, e basati su dati OECD, mostrano come, anche limitandosi ai dati disponibili oggi, la misura della crescita economica assumerebbe una dimensione diversa se valutata in base al valore mediano del reddito netto delle unità di consumo. I paesi presi ad esempio sono Francia e Stati Uniti.

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3.3 L'indice di sviluppo umano (Human Development Index, HDI)

Dal 1990 l'ONU nei suoi rapporti annuali sullo sviluppo calcola lo Human Development Index (HDI) di ogni nazione, basandosi su reddito, speranza di vita e livello di istruzione.L'HDI ha il vantaggio di presentarsi come un indice semplice e comprensibile a tutti (richiede solo conoscenze di base di matematica e statistica) e quindi in grado di avere impatto sull'opinione pubblica. Non è però privo di difetti, anzi è per molti aspetti un indice fortemente controverso. Basandosi su delle misure pro-capite, questo indice non tiene conto delle diseguaglianze, inoltre non vengono considerati i prelevi di risorse naturali, il rispetto dei diritti umani, il capitale sociale e la partecipazione alla vita pubblica. Il difetto più grande è però quello di basarsi per un terzo sulla stima del Pil pro-capite, col risultato di portarsi appresso tutte le distorsioni che sono state elencate nei primi due capitoli di questa tesi. Ciò inoltre fa si che l'andamento dei tassi di variazione dell'HDI in ogni nazione siano molto simili agli andamenti di tassi di variazione del Pil pro-capite.Come ha osservato la Commissione Stiglitz-Sen [2009], il fatto che per un terzo questo indice sia basato su una misura logaritmica del Pil pro-capite, comporta che per l'Hdi un aumento di un anno nell'aspettativa di vita negli Usa valga 20 volte un aumento di un anno nell'aspettativa di vita in India.L'HDI ha rappresentato indubbiamente un importante passo avanti nel percorso verso un concetto più ampio e più aderente alla realtà di sviluppo, e del resto le graduatorie tra paesi basate su questo indice sono ben diverse da quelle basate sul Pil, ma gli aspetti controversi di cui sopra, e il fatto di essere un indicatore unico che aggrega differenti aspetti in modo arbitrario, probabilmente non lo rendono idoneo a rientrare nella gamma di indicatori in grado di sostituire il Pil pro-capite in futuro.

3.4 Il risparmio netto corretto (NAS, Net Adjusted Saving)

Il Risparmio netto corretto è stato elaborato dalla World Bank con l'obiettivo di misurare il reale tasso di risparmio di un paese, prendendo in considerazione non solo il capitale fisso materiale ma anche il capitale naturale ed il capitale umano.Si calcola a partire dal risparmio lordo nazionale, sottraendovi il prelievo di risorse naturali non rinnovabili, i danni da inquinamento e il deprezzamento del capitale fisso materiale; la spesa per l'istruzione viene invece addizionata all'ammontare del risparmio, come investimento in capitale umano. In questo modo si cerca di ovviare al difetto dei conti nazionali standard di prendere in considerazione solo una parte del capitale, quello prodotto dall'uomo, senza prendere in considerazione capitale umano e capitale naturale.Si tratta di un indicatore che misura la sostenibilità degli investimenti di un paese basandosi sul concetto di sostenibilità debole, per cui il deprezzamento del capitale naturale viene inserito nei calcoli economici come un costo, e confrontato coi benefici derivanti dall'attività economica. Derivando da un impostazione che non prende in considerazione la capacità di carico del pianeta, questo indicatore non ci dice nulla riguardo al fatto che la capacità di rigenerazione delle risorse e la capacità di assorbimento di rifiuti del territorio in questione vengano rispettati.Inoltre il capitale umano viene preso in considerazione solo dal punto di vista della spesa per l'istruzione, mentre non viene considerata la salute delle persone. Viene anche ignorato un altro tipo di capitale che ha invece un importanza fondamentale nella qualità della vita, cioè il capitale sociale.Rinnovare il concetto di risparmio è un passo importantissimo nella riforma dei conti nazionali verso una nuova formulazione che prenda in considerazione ciò che influisce realmente sul benessere delle persone, e una misura come quella del NAS, se implementata con maggiori dati su capitale umano, naturale e sociale, potrebbe essere molto efficace.D'altro canto per avere informazioni sulla sostenibilità forte, cioè sull'effettiva capacità della struttura dei consumi di perpetuarsi indefinitamente in un territorio finito, è necessario che misure come questa siano affiancate da indicatori sul modello dell'impronta ecologica, basati sul concetto di capacità di carico.

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3.5 L'ISEW (Index of Sustainable Economic Welfare ) e il GPI (Genuine Progress Index)

L'ISEW, indice del benessere economico sostenibile, è stato elaborato nel 1989 da Herman Daly e John B. Cobb, due economisti americani, esponenti dell'economia ecologica.Nel 1994 Daly e Cobb, insieme a Philip Lawn, hanno proposto una nuova versione dell'ISEW, il Genuine Progress Indicator, GPI.L'ISEW e la sua nuova versione, il GPI, sono stati proposti esplicitamente come sostituti del Pil nella misurazione del benessere. La loro caratteristica principale è di essere in grado di distinguere tra spese positive e spese negative, e di calcolare in senso negativo le sperequazioni tra i redditi, oltre che di inserire degli elementi importanti per il benessere che il Pil ignora, come i servizi casalinghi prestati all'interno delle famiglie e il volontariato.Si tratta di un aggregato, misurato in termini monetari, che partendo dal valore dei consumi privati, aggiustato in base alla distribuzione del reddito, aggiunge delle voci positive, come la spesa pubblica non difensiva, gli aumenti di capitale fisso, il tempo libero, i servizi da lavoro domestico e l'apporto del volontariato, e sottrae delle voci negative, tra cui la spesa pubblica difensiva, il tasso di criminalità, il degrado ambientale, la degradazione delle risorse naturali, la dipendenza dagli investimenti esteri.E' interessante confrontare gli andamenti pro-capite del GPI E dell'ISEW con quelli del Pil:

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Fonte: Friends of the Earth - http://foe.co.uk/(Per Italia e Svezia è stato usato l'ISEW perché per ORA il GPI è stato calcolato soltanto per USA e

Australia)

3.6 L'impronta ecologica

L'impronta ecologica è un indicatore di sostenibilità ambientale che misura la quantità di territorio biologicamente produttivo (sia terrestre che marino) necessario per sostenere l'attuale livello di consumi di una determinata popolazione, e per assorbirne la produzione di rifiuti.In particolare vengono considerati: terreno boschivo necessario per assorbire le emissioni di CO2 prodotte, terreno agricolo necessario per produrre i beni agricoli consumati (alimenti oppure altri beni come iuta o tabacco), superficie destinata ai pascoli, terreno boschivo necessario per produrre la legna consumata, superficie edificata occupata da abitazioni e industrie, superficie marina per il prelievo di risorse ittiche, e prelievo di risorse non rinnovabili (miniere ed altro).Questo indicatore è quindi basato sul concetto di capacità di carico dell'ecosistema, cioè sul calcolo della misura in cui un territorio è in grado di sostenere una comunità umana senza rimanere irrimediabilmente compromesso.Se l'impronta ecologica di una comunità supera l'estensione del territorio nel quale la comunità vive, il livello di consumi della comunità in esame non è sostenibile, e implica il degrado dell'ambiente e/o lo sfruttamento di risorse di altri territori.L'impronta ecologica, pur avendo tutti i limiti di un indicatore che riduce problemi complessi e multidimensionali ad un'unica unità di misura (la terra), ha due grandi vantaggi rispetto agli indicatori di sostenibilità ambientale basati su valutazioni costi-benefici:- Gli indicatori basati sull'internalizzazione dei costi ambientali danno un valore, più o meno arbitrario, al degrado dell'ambiente, e lo confrontano coi benefici che derivano dalla produzione e dal consumo. Ignorano però il fatto che i territori abbiano una capacità di carico nella quale è necessario rientrare se si vuole raggiungere la vera e propria sostenibilità. Non ci dicono quindi nulla del fatto che il livello di consumi di una popolazione sia al di sopra di questa capacità di carico, cioè del sovra-consumo. Al contrario l'impronta ecologica ci mostra proprio il grado di sostenibilità dei consumi, per cui ci dice qualcosa sulla sostenibilità vera e propria, cioè sul rientro o meno nei limiti della capacità del pianeta di sostenere le attività umane. Rispetto agli altri indicatori, l'impronta ecologica ha l'ulteriore pregio di attribuire lo sfruttamento delle risorse agli effettivi consumatori finali dei beni e servizi prodotti con queste risorse. Questo è molto importante per quanto riguarda le valutazioni sulla sostenibilità ambientale nei paesi “poveri”: se le risorse di un paese vengono sfruttate da compagnie straniere, e destinate ai mercati

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dei paesi “ricchi”, il conseguente degrado ambientale viene attribuito agli eccessivi consumi dei paesi “ricchi”, non a quelli (presumibilmente già bassi) del paese in cui le risorse sono state prelevate, la cui popolazione è in realtà esclusa dall'usufruirne. C'è quindi una maggiore giustizia nell'allocare le “responsabilità” del degrado ambientale.

3.7 Le statistiche sull'impiego del tempo

Per quanto riguarda la raccolta di dati sulla qualità della vita, un importante campo di ricerca suscettibile di essere sviluppato sempre di più nei prossimi anni, al fine di definire delle misure concrete e comparabili, è quello delle statistiche sulle attività personali e sull'impiego del tempo. Come indicato anche dalla Commissione Stiglitz-Sen, servono indicatori sul tempo lavorativo pagato (oltre che ovviamente sulla qualità del lavoro), sul tempo speso in attività lavorative non-pagate (quelle effettuate all'interno della famiglia), e sul tempo libero. Sarebbe molto utile anche poter misurare le diseguaglianze tra gruppi sociali nella quantità di tempo libero a disposizione e nell'impiego di questo.Il problema è quello di trovare delle definizioni comuni, e di realizzare inchieste affidabili al riguardo.Questo è un esempio di stima, basata sui dati Ocse, sull’impiego del tempo in alcuni paesi europei e negli Usa:

Fonte: Draft summary della Commissione Stiglitz-Sen, 2009

3.8 Il capitale sociale

Quello di capitale sociale è un concetto nato nell'ambito sociologico, e sta ad indicare l'insieme delle risorse (materiali ed immateriali) che gli individui traggono dalla partecipazione ad una serie di relazioni interpersonali e di reti informali, basate su reciprocità e mutuo riconoscimento.Si tratta, usando le parole di Robert Putnam [1993, pag. 196], di “fiducia, norme che regolano la convivenza, associazionismo civico, elementi che migliorano l'efficienza dell'organizzazione sociale promuovendo iniziative prese di comune accordo”.

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L'esistenza di un tessuto sociale forte, nel quale gli individui si sentano legati tra loro da una intensa struttura di relazioni e da valori e valori condivisi, è un elemento fondamentale per il benessere individuale. Inoltre mette le persone che partecipano a queste reti nella condizione di “agire più efficacemente nel perseguimento di obiettivi condivisi” [Putnam, 1996, pag.34]. Ciò comporta una maggiore efficienza del sistema economico (dovuta anche ad una più facile trasmissione dell'informazione e delle conoscenze), un miglior funzionamento dell'amministrazione pubblica e una maggiore qualità dei servizi da essa offerti, un minore tasso di criminalità e un minore livello di insicurezza sociale ed economica.Si può quindi parlare di capitale sociale come di un elemento che aumenta in modo sia diretto che indiretto i “funzionamenti” a cui le persone possono accedere, e quindi amplia le loro “accessibilità”, utilizzando lo schema interpretativo di Amartya Sen del quale si è parlato nel secondo capitolo di questa tesi.Come osservato da Solow [1999] per inserire il capitale sociale nell'analisi economica è necessario sviluppare delle tecniche di misurazione appropriate. Ridurre un concetto sociologico ad una definizione applicativa sulla cui base effettuare statistiche implica inevitabilmente una semplificazione ed in un certo senso un impoverimento del concetto. D'altro canto senza questo passaggio sarebbe impossibile riconoscere al capitale sociale il ruolo che occupa nel funzionamento di un'economia.

“Dilatare l'orizzonte della ricerca fino a includervi il valore di legame è oggi una grande sfida intellettuale per l'economia, e ciò per la fondamentale ragione che la relazione tra le persone è di per se un bene che, in quanto tale, genera valore” [Zamagni, 2007].

Riguardo le evidenze empiriche secondo le quali le relazioni tra le persone sono un fattore propulsivo necessario per il successo economico e sociale di un territorio esiste una nutrita bibliografia. Dal punto di vista della ricerca di nuovi indicatori che è argomento di questo capitolo è interessante invece chiedersi a che punto è la ricerca statistica nell'elaborazione di tecniche di misurazione del capitale sociale, e in quali criticità questi tentativi di misurazione tendono ad incorrere.In genere questo tipo di misurazioni utilizza come variabili proxy il numero di associazioni alle quali le persone appartengono, la frequenza dei comportamenti pro-sociali e delle attività derivanti da reti sociali.Anche in questo caso ci si può trovare di fronte ad un trade-off tra esaustività e precisione, che si configura nel modo seguente. Se ci si basa su interviste ad individui, si rischia una sopravvalutazione del capitale sociale dovuta a possibili “effetti di desiderabilità sociale ” [Micucci e Nuzzo, 2003, pag.8]. In altre parole l'intervistato tenderebbe a dare risposte che lo mettano in buona luce, per una sorta di istinto che lo porta a cercare di apparire più desiderabile socialmente. Questo avviene sopratutto per quanto riguarda la rilevazione dei comportamenti pro-sociali. D'altro canto se per raggiungere una maggiore precisione ci si basa su dati più puntuali come quelli amministrativi e censuari, si rinuncia a cogliere le reti non istituzionalizzate, cioè quelle relazioni informali e non ufficializzate che costituiscono la base del concetto stesso di capitale sociale. Probabilmente in questo caso è meglio rischiare un certo grado di imprecisione ma salvaguardare una definizione coerente. Meglio quindi utilizzare interviste, ed è questa la direzione in cui stanno andando gli istituiti di statistica nazionali dei paesi industrializzati [Commissione Stiglitz-Sen, 2009]. Del resto variabili come la fiducia nelle istituzioni, fondamentali per la misura del capitale sociale, hanno una soggettività intrinseca che rende imprescindibile l'utilizzo del metodo dell'intervista. A ben vedere anche i conti nazionali tradizionali fanno ampio uso di dati derivati da interviste dirette, ad esempio nel case della stima della disoccupazione.Ad esempio negli Stati Uniti, all'interno dell'inchiesta sulle forze-lavoro, sono state inserite domande riguardo l'impegno civico e politico, l'appartenenza ad associazioni, l'attività di volontariato, le relazioni con i vicini e con la famiglia, e anche riguardo le modalità nella quale si accede solitamente alle informazioni [Commissione Stiglitz-Sen, 2009].

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Per quanto riguarda i paesi del Sud del mondo, nei quali la ricerca statistica incontra difficoltà infinitamente maggiori per quanto riguarda la fase di raccolta dei dati, la World Bank ha elaborato degli indici per la misurazione del capitale sociale.Si tratta del Social Capital Assessment Tool (SOCAT) e del Social Capital Integrated Questionnaire. (SOCAP IQ), entrambi basati su interviste alle famiglie riguardanti l'associazionismo e la fiducia nelle istituzioni. Il SOCAP IQ rispetto al SOCAT ha un più ampio raggio di misurazione, cerca di cogliere più aspetti del capitale sociale, ma per ora è stato sperimentato soltanto in Albania e in Nigeria.In Italia l'Istat calcola il peso delle società cooperative e la capacità di sviluppo dell'attività di volontariato come elementi da ricondurre all'ammontare di capitale sociale.

3.9 Gli indici basati sull'autovalutazione del benessere da parte degli individui

Nel tentativo di cogliere con misurazioni statistiche elementi correlabili alla qualità della vita, assume importanza in modo nel quale le persone valutano la propria condizione, in generale e relativamente ai diversi aspetti che hanno influenza sul benessere. Essendo il benessere un concetto che implica elementi di soggettività, la percezione che le persone hanno della qualità della propria vita è un aspetto che va preso seriamente in considerazione, anche a livello statistico.Anche in questo campo, come nel campo delle statistiche sull'impiego del tempo e sulle attività personali, la ricerca è in atto ma non ha ancora trovato delle definizioni comuni e dei metodi di intervista formalizzati, che possano originare delle stime complete e comparabili nel tempo e nello spazio. L'istituto di ricerca inglese “New Economic Foundation” ha fatto un tentativo empirico di formalizzare dei “Conti Nazionali del Benessere” (“National Accounts of Wellbeing”) nelle nazioni europee, basandosi su questionari approntati dalla stessa Nef in collaborazione con l'Università di Cambridge ed altri istituti. Le interviste sono state effettuate tra il 2006 e il 2007 su campioni di cittadini di ogni paese europeo, e sono composte da 47 domande, riguardanti elementi soggettivi del benessere, a livello personale e a livello sociale. Raggruppando le domande per tematiche, vengono misurati gli stati emozionali dichiarati dagli intervistati, il grado di autostima e di ottimismo, la forza e l'integrazione delle reti amicali e familiari, la fiducia e il senso di appartenenza. I diversi indici sono presentati sia separatamente, che riassunti in una misura aggregata. Il risultato è la matrice riportata nella seguente pagina, che ricorda nella forma la matrice dei conti nazionali tradizionali.

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CONCLUSIONI

Alla luce di quanto esposto in questa tesi, si può osservare come la critica all'utilizzo del Pil come indicatore di benessere e di sviluppo abbia ormai una storia relativamente antica e ricca di argomentazioni. In essa differenti spunti - corrispondenti ai diversi punti di vista dai quali proviene - si completano tra loro e convergono verso un'unica conclusione: una valutazione dello stato dell'economia e del livello di benessere basata sui dati del Pil è decisamente fuorviante. La bibliografia al riguardo è ormai imponente e continua ad infittirsi ogni anno, se non ogni mese.Sia le istituzioni internazionali che quelle nazionali in ogni parte del mondo sembrano aver ormai accolto questa critica, e proclamano la necessità di elaborare nuovi indicatori, capaci di cogliere aspetti che abbiano una maggiore connessione con la vita reale delle persone. Il discorso nel quale Robert Kennedy dichiarò che il Pil misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta non ha mai ricevuto tante citazioni.Nel terzo capitolo si è tentata un'analisi sintetica volta a stabilire se ad una così forte e diffusa consapevolezza sia corrisposto un altrettanto deciso scostamento dal Pil verso nuovi indicatori nella pratica statistica e nell'analisi economica e politica. Al momento, la risposta sembra essere negativa. Molti indicatori sono stati elaborati. Quello che ha ottenuto più visibilità, l'indice di sviluppo umano (HDI) dell'Onu, rappresenta un importante passo avanti nel metro di valutazione dello sviluppo. Ma resta un indicatore incentrato per un terzo su di una misura logaritmica del Pil pro-capite, ed esclude gli aspetti ambientali e distributivi. Per l'HDI un aumento di un anno nell'aspettativa di vita dei cittadini statunitensi vale 20 volte lo stesso aumento per la popolazione indiana [Commissione Stiglitz-Sen, 2009].Analisi basate sul calcolo del reddito reale disponibile dei diversi gruppi sociali, affiancato da statistiche sul capitale umano e sociale e dal calcolo dell'impronta ecologica, darebbero sicuramente una visione più realistica della condizione delle persone.La ricerca di nuovi indicatori è sicuramente in atto, ma il cammino da percorrere sembra essere ancora molto lungo, dal punto di vista dell'elaborazione di indicatori ma sopratutto dal punto di vista comunicativo. Basta leggere un giornale, guardare un telegiornale, sentire la radio o navigare tra i siti internet più visitati per rendersi conto che il Pil è ancora trattato come un “feticcio”, misura della ricchezza di una società. I dati trimestrali ed annuali sulla variazione del Pil pro-capite sono ancora attesi in un modo che ricorda quasi l'attesa per il responso di un oracolo. I governi e le istituzioni internazionali continuano ad utilizzare il Pil come indicatore principale dello stato dell'economia e del livello di sviluppo. Considerano ancora una sua massimizzazione il proprio principale compito. Soltanto che ora lo fanno con la consapevolezza che esso non è realmente indicativo della condizione delle persone né dello stato dell'economia.Le istituzioni che, come evidenziato nei precedenti capitoli, si affannano nel tentativo di andare “oltre il Pil”, sono guidate dagli stessi uomini politici che nei loro programmi di governo, così come nei programmi elettorali dei propri partiti, mettono la crescita del Pil al primo posto tra le priorità nazionali.Per uscire da una crisi che ha messo in luce le evidenti criticità di un modello di sviluppo basato sulla crescita economica, l'unico antidoto che viene proposto è la “ripresa economica”. Cioè la crescita.Qual è il motivo di questa incoerenza, di questa discrepanza tra ciò che viene proclamato e la prassi che si continua ad applicare?Sono convinto che non si tratti soltanto della necessità per le istituzioni politiche di ulteriore tempo nel quale metabolizzare il cambiamento teorico ed incorporarlo nella propria azione, o per la statistica di selezionare indicatori in grado di raccogliere sufficiente consenso e credibilità.Credo invece che la spiegazione di questa apparente illogicità sia da ricercare nell'analisi delle caratteristiche strutturali della società nella quale viviamo, nella forma di integrazione con l'economia che questa società presenta.Bisogna, in altre parole, interrogarsi sul posto che l'economia occupa nella società. Nelle economie di mercato, così come si configurano oggi, l'economia è “scorporata” dal sociale, sono le relazioni

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economiche a plasmare i rapporti sociali, e non viceversa [Polanyi, 1977].Viviamo infatti in quella che Latouche chiama la “società della crescita”,una società “ridotta a mero strumento e mezzo della meccanica produttiva” [Latouche, 2008, pag.17]. La sfera economica ha invaso gli ambiti sociali indebolendo i rapporti interpersonali. Il mercato ha inglobato e mercificato una frazione sempre maggiore dell'attività umana. I processi di accumulazione di capitale e di aumento dei profitti sono alla base del sistema economico, che senza di essi perderebbe gli stimoli che gli permettono di auto perpetuarsi.La crescita è diventata una “camicia di forza” dal momento che “la nostra società ha legato il suo destino ad un'organizzazione fondata sull'accumulazione illimitata” [Latouche, 2008, pag.49]. In una società organizzata in questo modo, la crescita del Pil è necessaria per sostenere l'occupazione, concedere aumenti di reddito, pagare le pensioni, offrire servizi pubblici. Quando essa viene a mancare, il sistema va in crisi. La parola recessione provoca giustamente ansia.Questo perché i movimenti di risorse sono determinati quasi totalmente dai meccanismi di mercato, mentre le transazioni basate su reciprocità, economia domestica e redistribuzione sono state ridotte ai minimi termini.Si tratta di un sistema nel quale l'uomo non ha una posizione centrale, il suo benessere non è il fine ultimo dell'attività economica.Ciò non toglie nulla alla giustezza delle analisi che criticano l'identificazione della crescita col benessere. Al contrario le avvalora dal momento che la “società della crescita” non è la società della qualità della vita, ma la società del profitto, della mercificazione. Una società incapace di affrontare efficacemente la crisi energetica ed ambientale e di soddisfare i bisogni fondamentali dei suoi membri. Per ridurre l'impronta ecologica e l'utilizzo di risorse non-rinnovabili bisognerebbe abbassare il livello dei consumi, ridurre gli sprechi e le inefficienze. Ma questo non può essere fatto senza mettere in discussione il fondamento della “società della crescita”, cioè la crescita stessa.Allo stesso modo ridistribuire le risorse, garantire a tutti accesso ai funzionamenti di cui hanno bisogno, tramite il mercato o fuori da esso, non è possibile senza intaccare il processo di accumulazione di capitale. Come osservato nel primo capitolo, la crescita ha bisogno di convogliare le risorse verso le grandi concentrazioni di capitale che le reinvestono più efficacemente, e di manodopera al prezzo più basso possibile.Per questo credo che la critica al Pil come indicatore di benessere, se vuole davvero essere funzionale all'affermazione di un nuovo concetto di sviluppo misurato da nuove unità di misura e basato sulla qualità della vita, non possa rinunciare ad affrontare il nodo di una riforma del sistema economico. Questa riforma non dovrebbe riguardare un cambio delle proporzioni in cui Stato e libero mercato si dividono il controllo sul sistema produttivo, ma una riduzione della sfera dell'economico in favore di quella del sociale e di quella ecologica, una inversione del processo di mercificazione. Bisogna elaborare nuovi modelli che indichino come realizzare questa “utopia concreta”, e definire compiutamente le riforme che sarebbero necessarie a creare un sistema realmente incentrato sull'uomo e su un rapporto armonico con l'ecosistema.Si tratta chiaramente di un compito estremamente arduo, che richiede anche una buona dose di immaginazione e la volontà di guardare oltre il breve periodo, per avventurarsi in una nuova comprensione del reale.Se non vengono inserite una visione di ampio respiro come quella qui accennata, credo che analisi come quella che si è provato a fare in questa tesi siano destinate a rimanere per la maggior parte fini a sé stesse. Se non accompagnata dal coraggio di proporre una profonda riforma dell'organizzazione economica attuale, la critica del Pil e la ricerca di nuovi indicatori rischia di diventare un esercizio velleitario, che non può portare a molto più che alla definizione di nuovi conti satellite che la politica non si sente in dovere di tenere in gran conto.D'altro canto, se non supportata da analisi puntuali e basate su dati oggettivi, la visione di ampio respiro rischia a sua volta di diventare un'utopia poco concreta, per cui queste riflessioni non vogliono togliere nulla all'importanza del lavoro di chi cerca di andare “oltre il Pil”.Del resto il discorso sul Pil di Kennedy, indubbiamente apprezzabile e sintomatico di una sensibilità

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all'avanguardia rispetto all'epoca in cui è stato pronunciato, da solo non ha distolto gli Stati Uniti dal sentiero della crescita illimitata dei consumi. Ci potrebbero riuscire, forse in modo catastrofico, le crisi ambientale, energetica, finanziaria ed economica che il modello di sviluppo basato sulla crescita ha provocato.

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COMPLEMENTO APPLICATIVO

Analisi comparata sul livello di benessere di cinque nazioni utilizzando diversi indicatori: Italia, Francia, Stati Uniti, Finlandia, Irlanda.

1 - Raffronto basato sul Pil

Il raffronto basato sul Pil pro-capite a parità di potere d'acquisto ci suggerisce un quadro secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero il livello di ricchezza più alto tra i paesi presi in considerazione, seguiti a poca distanza dall'Irlanda. Finlandia, Francia e Italia, in questo ordine, si situerebbero ad un livello significativamente più basso da Usa e Irlanda, mentre la distanza tra i tre è inferiore. Si potrebbe quindi dividere il gruppo in due sottogruppi, uno composto da Stati Uniti ed Irlanda, a reddito più alto, e un altro composto da Finlandia, Francia e Irlanda, a reddito relativamente più basso.

GDP per capita (2006)4

US dollars, current prices and PPPs

Country GDP per capita 2006United States 43839

Ireland 41803

Finland 32586

France 31055

Italy 29356

2 – 4 Sono stati presi i dati del 2006 a causa dell'indisponibilità per anni più recenti dei dati su alcuni degli indicatori

diversi dal Pil. Inoltre i dati sul Gdp 2006 sono maggiormente consolidati statisticamente di quelli più recenti.

40

0

5000

10000

15000

20000

25000

30000

35000

40000

45000

50000

Gdp per capita (2006)US dollars, current prices, PPP

United StatesIrelandFinlandFranceItaly

Fonte: OECD Factbook, 2008

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Raffronto basato su un set di indicatori alternativi al Pil tra quelli attualmente esistenti.

Tramite un secondo raffronto, quello basato su sei indicatori diversi dal Pil, si cercherà di entrare più nello specifico dei fattori che influenzano il livello di ricchezza e la qualità della vita, per verificare in che misura il quadro risultante dal raffronto tra i livelli di Pil pro-capite rispecchi sufficientemente la realtà. In questo modo si tenterà anche di testare l'effettiva fungibilità, significatività e completezza degli indicatori al momento disponibili. Sono stati scelti quelli più adatti a paesi ad alto livello di sviluppo economico come i cinque presi in considerazione.

2.1 Valore complessivo dell'Indice di Sviluppo Umano (HDI)

L'indice di sviluppo umano, pur basato per un terzo su di una misura logaritmica del Pil, è già in grado di dare una prima smentita al confronto basato sul livello di reddito pro-capite. Gli Stati Uniti infatti, il paese a maggiore reddito pro-capite tra i cinque considerati, scendono al quarto posto nella graduatoria basata sull'Hdi. Gli Usa presentano il valore più basso in quanto ad aspettativa di vita, e sono solo al quarto posto per quanto riguarda la scolarizzazione.L'altra differenza, rispetto alla graduatoria basata sul Pil, è il sorpasso della Francia rispetto alla Finlandia, anche se il valore dell'Hdi dei due paesi è molto vicino, mentre la differenza nel reddito pro-capite era di 1531 $ PPPs, un divario non molto forte ma nemmeno insignificante.

Country HDI 2006Ireland 0.960France 0.955Finland 0.954

United States 0.950Italy 0.945

41

0.935

0.94

0.945

0.95

0.955

0.96

0.965

Human Development Index

2006

IrelandItalyFranceFinlandUnited States

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2.1.2 Aspettativa di vita alla nascita

Country Life expectancy at birth (in

years) (2006)

Italy 80.04France 80.04Finland 79.1Ireland 78.6United States

78

Fonte: United Nations Human Development Report 2008

2.1.3 Tasso combinato lordo di iscrizioni scolastiche5

Country Tasso di iscrizioni

scolasticheFinland 101.4

Ireland 97.6

France 95.4

United States

92.4

Italy 91.8

5 Il tasso di alfabetizzazione degli adulti, altro parametro con cui si determina la componente riguardante l'istruzione dell'HDI, è stato calcolato al 98.8% per l'Italia, mentre negli altri paesi in esame è stato applicato un valore del 99.0%

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86

88

90

92

94

96

98

100

102

104

Ireland Italy FranceFinland United States

76.5

77

77.5

78

78.5

79

79.5

80

80.5

81

Ireland Italy France Finland United States

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2.2 Risparmio Netto Corretto (Adjusted Net Saving – ANS)

Al primato degli Stati Uniti nel reddito non corrisponde ad un altrettanto alto livello di risparmi reali: al contrario, come è noto, il paese presenta un tasso di risparmio molto basso, e gli Usa risultano ultimi, e con un divario notevole, nel confronto tra i tassi di risparmio reale corretto.Questo aspetto ci dà indicazioni sia sulle possibilità future di creare ricchezza, sia sulla condizione del capitale umano, in questo caso misurato in modo sommario dalla spesa per istruzione e del capitale naturale, anch'esso misurato in modo piuttosto incompleto ma comunque significativo.Inoltre il fatto che il tasso di risparmio, anche nella sua misura lorda, sia molto basso, è indicativo del fatto che le famiglie non abbiano possibilità di risparmiare molto, cioè che i redditi reali della maggior parte di loro non siano abbastanza alti da dare una certa sicurezza economica.Un indicatore del genere, se preso in debita considerazione, avrebbe dovuto mettere in guardia riguardo la troppo alta propensione al consumo degli Stati Uniti, e la conseguente tendenza all'indebitamento delle famiglie, che è stata una delle cause scatenanti la crisi finanziaria ed economica tuttora in corso.Tra gli altri paesi, viene invece confermata la forza dell'economia irlandese, che ha un tasso di ANS del 28,1%, quasi 12 punti percentuali sopra alla Finlandia. L'Italia, nonostante la alta propensione al risparmio delle famiglie, che la porta ad avere un tasso di risparmio lordo più alto di quello francese, è penalizzata da un alto tasso di ammortamento, bassa spesa per l'istruzione, e dati sulla sostenibilità ambientale peggiori di quelli francesi. Il livello totale di ANS francese risulta infatti superiore di quasi due punti percentuali.

Year:2006

GrossNationalSaving

Cons. of fixed

capital

Net National Saving

Education Expenditure

Energy Depletion

Mineral Depletion

CO2damage

PM10damage

ADJUSTEDNET

SAVING

IRL 37,68 10,73 26,96 5,29 3,43 0,37 0,19 0,05 28,21FIN 26,53 15,75 10,78 6,02 0,03 0,17 0,22 0,08 16,30FRA 18,77 12,46 6,31 5,27 0,03 0,00 0,12 0,03 11,40ITA 19,28 13,42 5,86 4,48 0,28 0,00 0,17 0,19 9,71USA 14,07 12,20 1,87 4,79 1,76 0,11 0,34 0,34 4,11

2.3 Impronta Ecologica

43

0.00

5.00

10.00

15.00

20.00

25.00

30.00

Adjusted Net Saving

(2006)

IRLUSAITAFINFRA

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I dati sulla sostenibilità del livello di consumi, misurata tramite l'impronta ecologica, mostrano come l'alto livello di reddito degli Stati Uniti abbia un fortissimo impatto ambientale. Confrontando i dati del consumo di terreno produttivo con quelli sulla biocapacità, cioè sulla disponibilità di terreno produttivo e risorse, si osserva come soltanto la Finlandia, tra i cinque paesi esaminati, abbia un livello di consumi compatibile con la capacità del proprio territorio di fornire e riprodurre risorse. Incide sicuramente in questo la scarsa densità di popolazione.Italia e Francia hanno rispetto agli altri tre paesi una bassa impronta ecologica assoluta, dovuta al livello più basso di reddito e di consumo. Tuttavia, tenendo in considerazione la biocapacità del territorio che occupano, l'Italia scende al quarto posto con un deficit ambientale di 3,5 ettari pro-capite, mentre la Francia ha un disavanzo più contenuto di 1,9 ettari pro-capite.Il disavanzo ambientale degli Stati Uniti è il più evidente, e ammonta a 4,4 ettari pro-capite.

Impronta ecologica, biocapacità e saldo ecologico (dati riferiti al 2005)

Fonte: Footprint Network, National Footprints Account, 2008

Impronta Saldo Ecologico

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ecologica

Italy 4,8 Finlandia + 6,5France 4,9 Francia - 1,9Finland 5,2 Irlanda - 2,0Ireland 6,3 Italia - 3,5

United States 9,4 Stati Uniti - 4,4

(unità di misura: global hectares per capita)

2.4 Coefficiente di Gini dell'ineguaglianza dei redditi

La Finlandia si rivela il paese più virtuoso anche per quanto riguarda la sperequazione dei redditi, con un valore del coefficiente di Gini di poco inferiore a quello della Francia. Il reddito degli Usa è invece quello peggio distribuito tra i cinque, seguono Italia e Irlanda.

Gini indexFinland 0,269France 0,281Ireland 0,328Italy 0,352

United States 0,381

Fonte: OECD, Society at Glance, 2009.

2.5 Percezione soggettiva della qualità della vita

I dati basati su auto-valutazione del benessere da parte degli individui, per quanto poco indicativi a causa della scarsità di risorse dedicate a questo tipo di indagini, sono anch'essi discostanti da quelli sul Pil, infatti in prima posizione si trova la Finlandia, terza nel calcolo del Pil, mentre gli Usa sono al terzo posto. L'Italia, ultima per Pil, diventa quarta nel grado di soddisfazione dei cittadini, mentre il quinto posto è occupato dalla Francia, a più di due punti (su dieci) di distanza dalla Finlandia.

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0.000

0.050

0.100

0.150

0.200

0.250

0.300

0.350

0.400

0.450Coefficiente di Gini (2005)

USAITAIRLFRAFIN

Page 46: Limiti del prodotto interno lordo come misura del benessere e ricerca di indicatori alternativi

Satisfaction with life (scale 0-10) (2006)

Finland 7,8Ireland 7,5

United States 7,0Italy 6,8

France 6,5Fonte: World Database of

Happiness da indagine Gallup

2.6 Utilizzo del tempo

I dati sull'utilizzo del tempo confermano il buon livello di qualità della vita in Finlandia, dove il tempo libero risulta maggiore. Negli Usa si passano più ore sul posto di lavoro che negli altri quattro paesi.

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5.5

6

6.5

7

7.5

8

Satisfaction with life

(scale 1-10)

FinlandIrelandUnited StatesItalyFrance

Year: 2006

United States Italy Finland France0

10

20

30

40

50

60

70

80

Use of Time

(% of an average day)

Paid work or studyUnpaid workLeisure + Personal CareFonte: OECD, Society at

glance, 2009. (Non disponibili dati sull'uso del tempo in Irlanda)

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3 – Considerazioni finali riguardo le due analisi comparate

Dei sei indicatori alternativi al Pil presi in esame, due servono a valutare il livello oggettivo di benessere attuale: l'Indice di Sviluppo Umano dell'Onu (HDI), e le statistiche OCSE sulla ripartizione del tempo in una giornata media. La componente soggettiva del benessere è stata invece analizzata tramite dati derivanti da inchieste sul livello di soddisfazione delle persone rispetto alla propria vita. La misura del risparmio netto, corretto per tenere conto di danni ambientali e investimenti in capitale umano, così come calcolata dalla World Bank, è stata presa a indice della capacità di investire in capitale, e quindi di creare ricchezza nel futuro (ANS, Adjusted Net Savings). Per misurare la sostenibilità ambientale del livello dei consumi è stata utilizzata l'impronta ecologica. Come variabile proxy della sostenibilità sociale dello sviluppo è stata preso l'indice di Gini della diseguaglianza tra i redditi.La prima conclusione che possiamo trarre è quella riguardo allo stato della ricerca di indicatori alternativi. La disponibilità attuale appare infatti insufficiente e gli indicatori esistenti suscettibili di essere migliorati, a causa dei difetti analizzati nel terzo capitolo. Manca una misura del valore mediano del reddito netto disponibile, possibilmente corretta nel modo proposto dalla commissione Stiglitz-Sen e riportato nel terzo capitolo di questa tesi. Mancano inoltre misure comparabili e sintetiche del capitale sociale. Non sono ancora disponibili indicatori sintetici sull'offerta pubblica di istruzione e sanità basati sull'output, e neanche dati affidabili sull'auto-valutazione della qualità della vita. Nonostante queste mancanze, gli indicatori a disposizione ci danno un quadro dell'affidabilità (o meglio dell'inaffidabilità) del Pil come indicatore sintetico del tenore di vita.Dal raffronto basato su sei indicatori alternativi emerge un quadro molto diverso, oltre che più completo, di quello emerso in base ai livelli di Pil pro-capite. Scompare il divario tra i due sotto-gruppi che si era osservato dalle statistiche sul Pil. Emerge invece che l'alto livello di produzione degli Stati Uniti è stato ottenuto ad alti costi sociali ed ecologici. La crescita Usa non è stata indirizzata verso i servizi fondamentali, come sanità e istruzione, i cui livelli sono inferiori a quelli degli altri paesi economicamente sviluppati.L'indicatore dei risparmi netti, dei quali abbiamo preso i valori del 2006 come per tutte le altre misure, ci indicano che anche la sostenibilità economica della crescita degli Stati Uniti non è soddisfacente, con un livello estremamente basso di risparmio. La crisi finanziaria ed economica scoppiata proprio negli Stati Uniti e generata anche da un eccessivo indebitamento delle famiglie ci dimostra, a posteriori, la bontà delle indicazioni fornite da un indicatore del genere, e l'inconsistenza di quella che il Pil misurava come crescita economica e che si è rivelata per buona parte essere una bolla speculativa sul prezzo degli immobili.L'Irlanda al contrario si presenta come un paese che è stato capace più degli Usa di far corrispondere all'alto livello di reddito pro-capite un buon livello di reale benessere.La crescita economica si accompagna ad un alto livello di risparmio netto reale. La crescita appare economicamente sostenibile. Da questo punto di vista però un'analisi più approfondita ed incentrata sugli aspetti economici evidenzierebbe una notevole vulnerabilità agli shock esterni, a causa del forte orientamento alle esportazioni e dell'incidenza degli investimenti esteri.Dal punto di vista ambientale il livello dei consumi irlandesi è lontano dalla sostenibilità, ma con un “deficit ecologico” sensibilmente meno grande di quello statunitense. Riguardo le realizzazioni fondamentali l'Irlanda ha dei valori abbastanza alti di aspettativa di vita e scolarizzazione, anche se l'aspettativa di vita è di circa un anno e mezzo più bassa di quella di Francia e Italia, ed entrambi i dati sono meno buoni di quelli della Finlandia. Quest'ultimo paese, nonostante un livello di reddito piuttosto inferiore a quello di Usa e Irlanda, si presenta come quello in cui la durata media della vita è più lunga, il sistema scolastico più accessibile, i redditi meno diseguali e l'ecosistema in migliori condizioni. Inoltre tra questi cinque è il paese i cui cittadini hanno più tempo libero, e una più positiva percezione di sé stessi e della propria vita.

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Riguardo la Francia e l'Italia gli indicatori alternativi confermano solo in parte la graduatoria basata sul Pil. Tre gli scostamenti rilevanti: gli Stati Uniti sono meno virtuosi di Francia e Italia per quanto riguarda quasi tutti gli indicatori presi in esame; l'aspettativa di vita nei due paesi è maggiore che nei tre paesi a reddito più alto; la sperequazione dei redditi in Francia è minore che in Usa ed Irlanda.In conclusione i sei indicatori alternativi, riguardanti alcuni aspetti specifici del benessere e della sostenibilità, hanno messo in luce anche dal punto di vista empirico l'inadeguatezza del Pil nel misurare il benessere nel caso in questione. Non solo dal punto di vista della sostenibilità, ma anche del benessere attuale, il paese con reddito più alto non risulta affatto presentare il maggiore livello di qualità della vita. Al contrario la Finlandia, terza tra questi cinque rispetto al livello di Pil, in base agli aspetti presi in considerazione sembra offrire ai suoi cittadini il più alto livello di benessere.

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Conclusioni

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Polanyi K. (1977), La sussistenza dell'uomo, Torino, Einaudi. Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Bari, Laterza.RINGRAZIAMENTI

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I miei ringraziamenti, per avermi sostenuto ed ispirato, vanno:Ai miei genitori, a Laura, a Osvaldo, a mia nonna Ada che prima di ogni mio esame è andata diligentemente a rivolgere una preghiera al protettore degli studenti S.Giuseppe da Cupertino. Ringrazio anche lui.Al Lab 6B e a tutti coloro che insieme a me ne fanno parte, ai componenti del circolo romano del Movimento per la Decrescita Felice, alla città dell’Utopia e a coloro che la abitano.Alla mia compagnia teatrale Casabasile, che ho temporaneamente abbandonato per dedicarmi agli ultimi esami e a questa tesi, ma che mi sono stati comunque vicini.Ai miei amici storici, anche qui senza stare a fare i nomi perché non ce ne è bisogno.

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