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LILLUMINISMO GIURIDICO IN EUROPAPROF. FRANCESCO MASTROBERTI

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Università Telematica Pegaso L’Illuminismo giuridico in Europa

Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente

vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore

(L. 22.04.1941/n. 633)

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Indice

1 L’ILLUMINISMO ------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3

2 FASI E AREE DELL’ILLUMINISMO EUROPEO -------------------------------------------------------------------- 5

3 MONTESQUIEU --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 8

4 IL TEORICO DEL COSTITUZIONALISMO MODERNO: JEAN-JACQUES ROUSSEAU ---------------- 12

5 ILLUMINISMO E CODIFICAZIONE DEL DIRITTO --------------------------------------------------------------- 16

BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 18

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1 L’Illuminismo

Secondo Immanuel Kant: L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale

è da imputare a lui stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di

un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di

intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza

esser guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza - è

dunque il motto dell'illuminismo (da Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo, 1784). La

definizione Kantiana descrive perfettamente ed in maniera chiara la natura e lo spirito

dell’Illuminismo che, durante tutto il Settecento, non rappresentò soltanto una filosofia ma un modo

di essere e di pensare per milioni di individui che riconobbero nella ragione l’unica fonte del vero.

Da un punto di vista filosofico l’Illuminismo rappresenta l’incontro tra le due correnti di pensiero

che avevano dominato la scena durante il Seicento: l’empirismo e il razionalismo. Il primo si

fondava sul giudizio sintetico a posteriori e riconosceva nell’esperienza e nel metodo empirico le

basi per di ogni processo gnoseologico; il secondo invece fondava la conoscenza sul giudizio

analitico a priori, ossia sulle idee e sull’intuizione. L’Illuminismo, con Kant, riuscì a conciliare

queste due filosofie mettendo d’accordo ragione ed esperienza.

L’ illuminismo, come si è detto, permeò di sé tutto un secolo caratterizzando anche la

politica e il diritto del Settecento che, sotto la spinta dei philosophes, si indirizzarono verso una

riforma su basi razionali dello stato e dei sistemi giuridici d’antico regime. Sotto questo profilo la

corrente di pensiero cui l’Illuminismo appare più legato è senza dubbio il giusnaturalismo. Proprio i

maggiori esponenti del giusnaturalismo – Grozio, Hobbes e Locke - avevano fondato su basi

razionali una nuova teoria dello stato e del diritto individuando nel contratto sociale l’origine della

società e il fondamento del diritto. L’assolutismo di Hobbes e il liberalismo di Locke

rappresenteranno le due anime dell’Illuminismo: il primo influenzerà la stagione del cosiddetto

“Assolutismo Illuminato” mentre il secondo influenzerà l’Illuminismo liberale e democratico. Da

queste brevi premesse appare chiaro che gli Illuministi si occuparono e molto di stato e di diritto

proponendo un vasto piano di riforme che avrebbe trovato molti riscontri nella legislazione del

periodo rivoluzionario. Tuttavia parte della storiografia giuridica italiana ha negato all’Illuminismo

il carattere giuridico sostenendo la mancanza di elaborazioni dottrinali e l’insistenza della polemica

su aspetti politici ed istituzionali (cfr. G. Astuti). Tuttavia, come tra breve si vedrà, il carattere

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giuridico dell’Illuminismo sarà evidente soprattutto in Italia dove spiccano figure come Cesare

Beccaria, Gaetano Filangieri e Francesco Mario Pagano che con le loro conosciutissime opere

approfondirono aspetti e problemi della crisi del diritto nel Settecento ed indicarono un organico

piano di riforme. Bisogna anche dire che l’Illuminismo è stato oggetto di critiche serrate a partire

dall’Ottocento: dalla critica storicistica di F. C. von Savigny a quella marxista che vedeva nel

movimento dei Lumi l’espressione dell’ideologia borghese fino alla critica idealistica crociana. La

storiografia giuridica italiana degli ultimi decenni ha invece rivalutato l’Illuminismo dedicando ad

essi numerosi studi: in particolare Raffaele Ajello ha insistito sulla rivolta contro il formalismo di

cui si resero protagonisti gli Illuministi.

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2 Fasi e aree dell’Illuminismo europeo

E’ possibile individuare una periodizzazione dell’Illuminismo europeo.

La prima fase va dal 1700 – 1750. In questo periodo troviamo una decisa influenza di

Newton in tutti gli ambienti culturali europei che si traduce in una fiducia nella scienze esatte e nel

metodo scientifico. Si tendono ad escludere indagini metafisiche mentre vi è una particolare

attenzione per l’economia vista quale scienza in grado di elaborare soluzioni in grado di

raggiungere la felicità comune, il benessere per il maggior numero. Si può in proposito considerare

la diffusione della fisiocrazia e delle teorie utilitariste. Sotto il profilo giuridico-istituzione la prima

fase si caratterizza per la critica alle istituzioni e al diritto che tuttavia è «interna al sistema»: gli

autori criticano alcuni aspetti del sistema istituzionale e giuridico – in particolare gli abusi della

chiesa e della feudalità, l’arbitrio giudiziario, l’incertezza del diritto, la venalità delle cariche

giudiziarie e propongono una razionalizzazione di cui si deve rendere protagonista il sovrano ed

indicano le opportune soluzioni. In alcuni autori è molto forte in cd. Antiromanesimo, la critica

serrata al diritto romano che, riprendendo argomenti umanistici, dai pratici risale fino ai

commentatori e ai glossatori ed investe lo stesso Giustiniano accusato di essere stato il primo

“corruttore” del diritto romano classico.

Il 1748 può considerarsi un anno fondamentale nella storia dell’Illuminismo ed in

particolare dell’Illuminismo giuridico: è l’anno della pubblicazione dell’opera di C. L. Secondat de

Montesquieu, Esprit des lois. L’evento rappresenta un vero e proprio spartiacque tra la prima e la

seconda fase dell’Illuminismo poiché l’Esprit fissando una griglia interpretativa di tutte le questioni

di tipo istituzionale e giuridico stabilisce le linee fondamentali del dibattito dei decenni successivi.

Dopo il 1748 tutti gli Illuministi si confronteranno con il maestro Montesquieu per condividerne le

tesi o per criticarle: in ogni caso l’opera divenne la “pietra miliare” dell’Illuminismo giuridico.

La seconda fase dell’Illuminismo è quella che va dal 1750 alla fine del secolo ed è

caratterizzata, sotto il profilo filosofico, dal “sistema” di Immanuel Kant. Sul piano giuridico

istituzionale, mentre in Germania e in Italia si sperimenta una collaborazione degli Illuministi con le

corti europee (assolutismo illuminato), in Francia si sviluppa un forte orientamento di rottura col

passato che, soprattutto grazie alle opere di Voltaire e di Rousseau, assumerà un deciso carattere

rivoluzionario.

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L’Illuminismo non ebbe dovunque la stessa fisionomia: in Europa possiamo considerare

quattro aree: Germanica (Austria, Prussia e Baviera), Francese, Italiana, Inglese. Nel paesi dell’area

germanica prevalse l’aspetto filosofico che ebbe la sua massima espressione nella figura e

nell’opera di Kant. Molto importante fu il razionalismo che, grazie a Leibeniz, Wolf e Pufendorf e

ai loro allievi esercitò una grande influenza sull’Illuminismo. Nell’area germanica troviamo le

migliori espressioni del cd. Assolutismo illuminato: sovrani come Federico II di Prussia – amico e

corrispondente di Voltaire – sono convinti illuministi e si impegnano a realizzare riforme all’altezza

dei tempi e della ragione. In questo clima vedrà la luce la prima grande codificazione l’ALR, il

codice civile prussiano del 1794. In Austria riscontriamo una situazione simile: Giuseppe II e

Leopoldo II avviano una intensa collaborazione con intellettuali riformatori di formazione

giusnaturalistica e razionalistica (Martini e Zeiller) per realizzare una moderna codificazione.

Comune è l’idea che le leggi devono tendere a garantire la felicità dei sudditi (eudemonismo etico)

che rappresenta il bene comune. Questi generosi tentativi saranno poi superati, anzi travolti, dalle

grandi riforme della rivoluzione francese che Napoleone esporterà in tutte Europa grazie alle sue

vittoriose campagne militari.

L’area francese manifesta caratteri profondamente diversi da quella germanica.

L’Illuminismo è pressoché rifiutato dai sovrani e nasce e si sviluppa come un movimento di fronda,

fortemente polemico nei confronti della società, del diritto e delle istituzioni d’antico regime: è

l’Illuminismo dei libertini o dei philosophes, dell’Enciclopedia, di Voltaire, sul quale, grazie anche

alla mediazione di Montesquieu esercita una forte influenza il pensiero di Locke ed Hobbes. Da

questo punto di vista uno degli aspetti maggiormente rilevanti dell’Illuminismo francese si deve

ravvisare negli sviluppi del pensiero costituzionale che con il Contrat social di Jean-Jacques

Rousseau arriva ad una compiuta elaborazione teorica che influenzerà tutto il costituzionalismo

moderno.

L’area Italiana non denota un connotato specifico ma una confluenza di diverse

suggestioni provenienti in particolare dalla Francia. Significativa la prima fase illuministica dove

troviamo le importanti opere di Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli, di Ludovico

Antonio Muratori (Dei difetti della giurisprudenza) e altre figure di primo piano come Paolo Mattia

Doria, Carlo Antonio Pilati, Antonio Genovesi. A partire dalla seconda metà del secolo Milano e

Napoli assurgono a centri propulsori dell’Illuminismo giuridico, per merito di Cesare Beccaria (Del

delitti e delle pene) e di Gaetano Filangieri (La scienza della Legislazione). Anche in Italia

troviamo una collaborazione tra regnanti e illuministi per realizzare riforme considerate ormai

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improcrastinabili: il granduca Leopoldo in Toscana col codice penale Leopoldino recepisce alcune

riforme suggerite dal Beccaria (abolizione della pena di morte), in Piemonte Vittorio Amedeo II

promulga le sue costituzioni (con il divieto di citazioni dottrinali ma la possibilità di riferimento agli

usus fori, référé legislatif ma solo nell’ed. del 1770), a Modena Francesco III pubblica il Codice

estense ( che contiene il divieto delle citazioni nei tribunali e l’obbligo del référé legislatif), a

Napoli Bernardo Tanucci progetta la realizzazione di un codice e nel 1774 emana due importanti

dispacci con i quali si impone ai magistrati di motivare le sentenze sulla base della “legge espressa e

manifesta del regno” e si impone l’obbligo di pubblicare le sentenze.

Nell’Area inglese prevale l’utilitarismo e la figura di J. Bentham che critica il sistema della

common law (proponendo una codificazione), la costituzione inglese e il contrattualismo di Locke

(il contratto sociale è una fola priva di riscontro nella storia, il diritto di resistenza non si deve

basare su di esso ma solo sull’utilità).

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3 Montesquieu

Con Charles Louis de Secondat de Montesquieu (1689-1755) e la sua opera principale

L’esprit des lois si confronta tutta la cultura giuridica europea. L’Esprit è un’opera maestosa con la

quale l’Autore abbandona suo seggio di presidente del parlamento di Bordeaux per diventare

presidente del tribunale della regione: egli si propone di indagare sulla ratio di tutte le leggi, ovvero

di spiegarne il loro fondamento razionale. Punto di partenza è il concetto che leggi e istituzioni non

rappresentano qualcosa di arbitrario ma esprimono una naturale razionalità. E’ possibile dunque per

Montesqueu individuare questa razionalità considerando che: «Le leggi sono i rapporti necessari

che derivano dalla natura delle cose». Le leggi possono essere sia naturali, sia positive. Le leggi

naturali sono: sentimento della debolezza, sentimento dei propri bisogni corporali, ricerca di Dio e

ricerca della società. Queste leggi naturali cessano di essere tali quando inizia la società, dove

possono riconoscersi tre tipi di leggi positive: diritto delle genti, diritto pubblico e diritto civile. Ma

tutte le leggi positive devono esprimere una razionalità: «La legge in generale è la ragione umana,

in quanto governa tutti i popoli della terra, e le leggi politiche e le leggi civili di ogni nazione non

devono costituire che i casi particolari ai quali si applica questa ragione umana. Devono essere

talmente adatte ai popoli per i quali sono state istituite, che è incertissimo se quelle di una nazione

possano convenire ad un’altra». Per Montesquieu la Legge deve essere chiara, semplice, concisa

(Esprit, T.II, lib. XXIX dove si indicano questi elementi nella «maniera di comporre le leggi»).

La parte più nota dell’opera di Montesqueu è quella relativa alla separazione dei poteri.

Partendo dalla considerazione che “Il potere assoluto corrompe assolutamente” Montesquieu

afferma che per assicurare la libertà del cittadino è necessario che i tre poteri fondamentali dello

stato restino assolutamente divisi: il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario. La

separazione dei poteri è propria delle repubbliche che si fondano sul principio della virtù; le altre

forme di governo, monarchia e dispotismo, si fondano invece rispettivamente sul principio

dell’onore e della paura. Sempre con riguardo alla divisione dei poteri Montesquieu, riferendosi al

potere giudiziario, afferma che si tratta di un potere “nullo” in quanto i giudici e i tribunali altro non

devono essere che la “Bouche qui prononce les paroles de la lois”. E’ una teoria importante che

caratterizzerà tutto l’illuminismo e le riforme rivoluzionarie e napoleoniche. La legge, chiara

semplice, concisa, espressione del potere legislativo, non può e non deve essere interpretata:

l’interpretazione di giuristi e tribunali che nel medioevo e in età moderna era stato il cuore del

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diritto, viene considerata in modo assolutamente negativo come un elemento di corruzione e

snaturamento della legge. Durante tutto il Settecento una serie di provvedimenti di sovrani assoluti

(ad esempio a Napoli di dispacci di Tanucci del 1774 o l’obbligo del référé legislatif previsto dal

codice estense) cercheranno di sottrarre ai tribunali l’interpretazione della legge. Il meccanicismo

giudiziario ipotizzato da Montesqueieu rappresenterà un topos illuministico, anche se non

mancarono voci contrarie: se Pietro Verri si esprime chiaramente a favore di Montesquieu nel

saggio Sull’interpretazione delle leggi, pubblicato sul Caffè, Rousseau concede un margine di

intervento interpretativo ai giudici in ordine alla legge e Antonio Genovesi sostiene che i giudici

necessariamente debbano operare un’interpretazione equitativa e non meccanica della legge.

Filangieri nella Scienza individua anche un significato nuovo e neutro di interpretazione come di

esame letterale, ma poi segue gli altri illuministi nella considerare il significato negativo di

interpretazione. La posizione di Montesqueu condizionò la legge del 16-24 agosto 1790 che

introdusse il référé legislatif facoltativo ed è alla base del Tribunal de Cassation, organo istituito

con la 27 novembre-1 dicembre 1790 con il compito di valutare la corretta applicazione della legge

in ultimo grado. Montesquieu (XI, 6), richiamandosi al modello ateniese, ritiene che in un governo

che ha di mira la libertà del cittadino il potere giudiziario deve essere affidato ad un organo non

permanente formato da persone «tratte dal grosso del popolo». Prevede altresì la possibilità di una

ricusazione dei giudici da parte dell’imputato nel caso di accuse gravi. Con questa

Da quanto si è detto emerge un altro aspetto importante di Montesquieu: egli afferma la

centralità del diritto pubblico (diversamente da Domat che riteneva immutabili e naturali solo le

leggi civili) e offre la griglia interpretativa per la questione costituzionale, che rappresenterà il

“cuore” della Rivoluzione.

Montesquieu affronta anche il “problema penale” che sarà sviluppato soprattutto in Italia,

grazie alla famosa opera di Cesare Beccaria. Le questioni fondamentali ruotavano intorno a queste

domande: Perché punire? Come punire? Inoltre c’era la consapevolezza dell’assoluta necessità di

riformare i giudizi penali, che – in virtù di sistemi fortemente inquisitori – erano diventati luoghi di

arbitrio e di abusi. Il sistema delle prove legali – che vincolava il giudice alle prove raccolte, spesso

con la tortura, nella fase inquisitoria – di frequente determinava condanne ingiuste che suscitavano

sdegno e clamore. Perciò gli illuministi iniziarono a guardare al modello accusatorio romano e a

quello inglese nel quale accusa e difesa erano sullo stesso piano e le prove si discutevano davanti al

giudice in dibattimento. Con riferimento al fondamento della pena Montesquieu aderisce alla

posizione utilitarista, secondo la quale la pena è necessaria perché utile alla società e fa propria la

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teoria proporzionalistica che afferma l’esigenza di graduare la pena a seconda del reato commesso.

Con riguardo alla procedura Montesquieu mostra una preferenza per il processo accusatorio

connettendolo alla forma repubblicana poiché in una monarchia poteva rivelarsi pernicioso. E’

Montesquieu a fissare le linee del dibattito in un famoso passo de L’Esprit des Lois: «A Roma era

permesso a un cittadino di accusare un altro. Ciò era stabilito secondo lo spirito della repubblica,

in cui ogni cittadino deve avere uno zelo illimitato per il bene pubblico; in cui ogni cittadino è

tenuto a conservare nelle proprie mani tutti i diritti della patria. Si seguirono, sotto gli imperatori, i

sistemi della repubblica; e subito si vide comparire una genia di uomini funesti, una schiera di

delatori. Chiunque aveva in copia vizi e talento, un animo veramente vile e uno spirito ambizioso,

cercava un criminale la cui condanna potesse riuscir grata al principe; era la via per arrivare agli

onori e alla ricchezza, cosa che non vediamo fra noi. Noi abbiamo oggi una legge ammirevole: è

quella che vuole che il principe, creato per far eseguire le leggi, proponga un funzionario in ogni

tribunale affinché indaghi, a suo nome, tutti i reati, di modo che la funzione del delatore è

sconosciuta fra noi; e se queto pubblico delatore fosse sospetto di abuso di potere, lo si

obbligherebbe a nominare il suo informatore. Nelle leggi di Platone, quelli che trascurano

d’avvertire i magistrati o di aiutarli, devono essere puniti. Oggi ciò non converrebbe. La parte

pubblica veglia per tutti i cittadini; quella agisce, e questi se ne stanno tranquilli». Montesquieu

traccia dunque le linee generali del rapporto tra i due modelli e tra ciascuno di essi e le forme di

governo: il sistema accusatorio sarebbe idoneo in uno stato repubblicano, mentre quello inquisitorio

meglio si adatterebbe al regime monarchico e a quello dispotico. Ciò non solo per la più estesa

possibilità di delazioni infondate in queste ultime due forme di governo ma anche per la posizione

passiva che i cittadini (o, meglio, sudditi) ricoprono in esse.

Montesquieu (XI, 6,) afferma la necessità di giudici temporanei tratti «dal grosso del

popolo», ma non specifica se questi debbano decidere tutta la causa oppure solo il fatto: Tale

vaghezza condizionerà tutto l’illuminismo penale con riferimento al problema delle giurie. E’

tuttavia chiaro che il modello di riferimento di Montesquieu sia quello del giudizio dei pari recepito

dalla tradizione inglese. Su questa linea infatti la voce «pairs» dell’Encyclopédie (de Jaucourt) ed

anche Voltaire. Non così Rousseau che invece indica chiaramente giudici non togati estratti a sorte

e competenti sia sul fatto che sul diritto (quando questo sarebbe stato riformato). Beccaria, nel XIV

capitolo aggiunto nella terza edizione della sua famosa opera, elogia le giurie ma non supera

l’ambiguità di Montesquieu. La traduzione in francese e la diffusione in tutta Europa dopo il 1776

dei Commentarii di Blackstone contribuirono al favore degli illuministi verso la giuria penale

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secondo il modello inglese. Ma in Francia negli anni ’70 e ’90 del ‘700, come ha sottolineato A.

Padoa Schioppa ( La giuria penale in Francia : dai philosophes alla Costituente. Milano 1994), il

dibattito fu intenso ed investì l’opportunità di affidare al popolo la giustizia penale, la sfera di

competenza (solo il fatto o fatto e diritto) delle giurie e le modalità di scelta dei giurati (per censo o

per elezione). Filangieri esaminò compiutamente la questione distinguendo giudici di fatto (scelti

tra i proprietari residenti nelle province) e giudici di diritto togati. Le giurie furono introdotte in

Francia durante la Rivoluzione e recepite nel codice di procedura penale napoleonico nonostante il

malcelato dissenso dello stesso Napoleone, ma la loro attività fu esclusa nelle ipotesi di reati gravi e

turbativi dell’ordine pubblico (per questi c’erano le corti speciali.

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4 Il teorico del costituzionalismo moderno: Jean-Jacques Rousseau

Il pensiero cui è maggiormente debitore il costituzionalismo moderno è quello di Jean-

Jacques Rousseau. Discusso e contrastato dagli stessi illuministi Rousseau è il teorico della frattura

con l’antico regime cui giunge portando alle estreme conseguenze il pensiero giusnaturalistico.

Secondo Giovanni Tarello il Contrat social (1762) è «una delle opere più cospicue e più influenti

della letteratura politica e giuridica dell’Occidente e dal quale derivano in modo diretto o indiretto

la maggior parte delle idee costituzionalistiche moderne». Dello stesso parere anche Gianni Ferrara

per il quale non è possibile pensare alle costituzioni moderne senza considerare Rousseau. In genere

si parla della forte influenza del ginevrino sull’acte consitutionnel del 1793, varato dalla

costituzione montagnarda: questa ineccepibile considerazione non può e non deve “confinare”

Rousseau al 1793 in quanto tutta la rivoluzione e tutto il moderno costituzionalismo sono a lui

strettamente legati. L’Idea della sovranità popolare – che come si è visto trae origine dalle idee dei

giusnaturalisti e che abbiamo considerato l’aspetto caratterizzante del costituzionalismo moderno in

senso stretto – arriva alla sua più compiuta elaborazione nel Contrat social:

Se si scarta dal patto sociale tutto ciò che non è essenziale, si troverà che esso si riduce ai

termini seguenti: “Ognuno di noi mette in comune la sua persona e ogni suo potere sotto la suprema

direzione della volontà generale; e inoltre riceviamo ogni membro come parte indivisibile del tutto”.

Subito al posto della persona fisica di ogni contraente, questo atto di associazione produce un corpo

morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea, ed esso riceve da

quell’atto stesso la sua unità, il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona pubblica,

che si forma così con l’unione di tutte le altre, prendeva in altri tempi il nome di città, ed ora prende

quello di repubblica o corpo politico, il quale dai suoi membri è chiamato Stato come passività,

sovrano come attività, potenza nei confronti dei suoi simili. Per quanto riguarda gli associati, essi

prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano cittadini, in quanto partecipano

all’attività sovrana, e sudditi in quanto sono sottoposti alle leggi dello Stato. Ma sovente questi

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termini si confondono e si scambiano l’uno con l’altro: basta però saperli distinguere quando sono

adoperati in tutta la loro precisione1.

Per Rousseau lo stato di natura è caratterizzato dall’illimitata libertà degli uomini che nel

momento in cui addivengono al contratto sociale formano un tutt’uno con lo Stato-sovrano: il corpo

morale che ne nasce è un io collettivo che prende forma, vita e volontà da tutti. Il popolo, o meglio,

tutti i cittadini, sono lo Stato: le individualità che lo formano si disperdono in esso. Con il contratto

– che rappresenta una necessità - l’uomo perde «la sua libertà naturale ed il diritto illimitato a tutto

ciò che tenta e che può essere da lui raggiunto» ma guadagna «la libertà civile e la proprietà di tutto

ciò che possiede». Si tratta dell’asse portante della nuova stagione costituzionale che si ritrova nelle

costituzioni americane e delle costituzioni francesi del periodo rivoluzionario. La sovranità per

Rousseau è «l’esercizio della volontà generale» ed è necessariamente diretta «secondo il fine della

propria istituzione, che è il bene comune». Tale bene comune è l’oggetto della costituzione dello

Stato e non è in alcun modo legato ad uno o a tutti gli interessi particolari: esso è «l’interesse

comune» che ha portato gli uomini al contratto sociale e, come categoria ideale, deve dirigere

l’attività dello Stato. Tuttavia Rousseau non si mantiene nel vago e indica gli obiettivi cui deve

pervenire ogni sistema di legislazione: la libertà e l’uguaglianza. Sull’uguaglianza il ginevrino

aveva già esposto le sue idee nel Saggio sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli

uomini (1755); egli, dando per certa un uguaglianza formale tra gli individui che consenta a tutti di

partecipare alla formazione della volontà generale, si pone il problema dell’uguaglianza sostanziale:

«per quanto riguarda l’uguaglianza non bisogna intendere con questa parola che i gradi di potenza e

di ricchezza siano assolutamente gli stessi: ma che, quanto alla potenza ella sia al di sopra di ogni

violenza, e non si eserciti mai se non in virtù del grado e delle leggi: e quanto alla ricchezza che

nessun cittadino sia tanto opulento da poterne comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere

costretto a vendersi». La legislazione, perseguendo il bene comune, doveva porre rimedio alle

ineguaglianze intervenendo con saggezza.

La Sovranità per Rousseau è inalienabile e indivisibile: «Poiché la volontà è generale o non

lo è; essa è quella del corpo del popolo, o solamente di una parte di esso. Nel primo caso, questa

volontà dichiarata è un atto di sovranità e costituisce legge; nel secondo caso è solo una volontà

1 G. G. Rousseau, Il contratto sociale, traduzione con introduzione e commento di Giuseppe Saitta, Bologna 1947, p.

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particolare, o un atto di magistratura; è tutt’al più un decreto». Contro Aristotele e Montesquieu,

Rousseau afferma a chiare lettere il carattere indivisibile della sovranità che può volere solo

attraverso la legge che è la volontà generale: a suo giudizio coloro che sostenevano la necessità di

separare i poteri dividevano non la sovranità ma l’oggetto di essa, facendo «del sovrano un essere

fantastico e formato di pezzi messi insieme; come se componessero l’uomo di parecchi corpi, dei

quali uno avesse gli occhi, l’altro le braccia, l’altro ancora i piedi e nulla più». Pertanto chi credeva

nella divisione dei poteri si ingannava: «che i diritti che si prendono per parti di questa sovranità

sono a lei subordinati tutti, e suppongono sempre delle volontà supreme di cui questi diritti non

danno che l’esecuzione».

La sovranità si esprime solo ed esclusivamente attraverso la legge che essendo la volontà

generale garantisce tutti ed assicura il perseguimento del bene comune. Molto si è detto sul

legicentrismo di Rousseau e sul carattere assoluto della legge: si è parlato anche di legolatria e

considerando la parte del Contrat relativa alla Religione civile il termine non appare fuori luogo. La

legge per Rousseau è l’essenza dello Stato e della sovranità e se ben formata è sempre retta e tende

al pubblico bene. Per il formarsi di questa volontà non è necessario che ci sia unanimità ma è

necessario che tutti i voti siano contati poiché ogni esclusione rompe la generalità. Ma questa non è

l’unica condizione per evitare l’errore della volontà generale: «è necessario, dunque, per ottenere

l’espressione vera della volontà generale, che non vi sia nessuna società parziale dello Stato, e che

ogni cittadino non pensi che secondo il suo giudizio». Troviamo qui una compiuta espressione

dell’individualismo: le associazioni, i partiti, le consorterie ed anche le famiglie interferiscono con

la formazione della volontà generale poiché gli individui devono far confluire liberamente e senza

condizionamenti la loro volontà nella volontà generale. La famosa legge Le Chapelier del 14

giugno 1789 che abolì corporazioni, società benefiche ed educative, organizzazioni di lavoratori,

società artigiane, organizzazioni politiche e di fatto rappresenta l’esatta applicazione di questo

principio. La libera formazione della volontà generale – secondo Rousseau – entra in contrasto con

il sistema rappresentativo: il sistema rappresentativo, ereditato dalla feudalità, non può esprimere la

volontà generale e deve essere bandito.

Con Rousseau la legge – volontà generale diventa il fulcro dello stato e della società. Essa

solo assicura la sovranità al popolo: «ma quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo, egli non

considera che se stesso; e se esso forma allora una relazione, questa è dall’oggetto intero sotto un

punto di vista all’oggetto intero sotto un altro punto di vista, senza alcuna divisione del tutto. Allora

la materia sulla quale si delibera è generale come la volontà che delibera. E’ questo atto che io

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chiamo legge». Per tali ragioni la legge non può essere che generale ed astratta e non può essere

contaminata da riferimenti nominativi: «In una parola, ogni funzione che si riferisca a un oggetto

individuale non appartiene al potere legislativo». Proprio con riferimento a questo aspetto

Rousseau “decreta” la fine del costituzionalismo antico con queste ispirate parole:

Con questa idea, si vede subito che non bisogna più domandare a chi appartenga fare le leggi,

poiché esse sono atti della volontà generale; né se il principe sia al di sopra delle leggi, poiché

è membro dello Stato; né se la legge può essere ingiusta, poiché nessuno è ingiusto verso se

stesso; né come si sia liberi e sottomessi alle leggi, poiché esse non sono se non i registri delle

nostre volontà2.

Per Rousseau ogni stato retto da leggi è una Repubblica, qualsiasi sia la sua forma di

amministrazione, monarchica, aristocratica o democratica. Ma chi deve predisporre le leggi? Chi

può fare da legislatore? Rousseau immagina un ufficio che «non è magistratura, non è sovranità»:

colui che redige le leggi «non ha dunque e non deve avere alcun diritto legislativo»; si limita a

proporre le leggi al popolo che, non potendo in alcun modo spogliarsi del diritto di legiferare

conferitogli con il patto fondamentale, delibera. E’ chiaro che non tutti i popoli sono in grado, per il

ginevrino, di reggere un sistema siffatto. Non tutte le nazioni, per il carattere del popolo e per la

loro estensione territoriale, potevano costituire repubbliche fondate sulle leggi. Sotto questo aspetto

il pessimismo di Rousseau è grande poiché i danni fatti dalla storia sono immensi: «Ciò che rende

penosa l’opera della legislazione non è tanto ciò che bisogna instaurare, quanto ciò che bisogna

distruggere; e ciò che rende il successo così raro, è l’impossibilità di trovare la semplicità della

natura accoppiata ai bisogni della società. Tutte queste condizioni, è vero, si trovano difficilmente

riunite: quindi si vedono pochi Stati ben costituiti». Il riferimento alla distruzione si lega ad un

momento rivoluzionario, necessario per costruire una società nuova, fondata sulle leggi. L’esempio

della Corsica – come si è detto esplicitamente citato dal Rousseau - venne presto seguito da altri

popoli che dopo la «distruzione» edificarono lo stato su una costituzione voluta dal popolo: prima

gli Stati Uniti e poi la Francia prendono la strada indicata dal filosofo ginevrino.

2 Rousseau, Il contratto sociale, p. 75.

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5 Illuminismo e codificazione del diritto

L’Illuminismo apre la strada alla codificazione del diritto sulla base della centralità ed

esclusività della legge intesa – a partire da Rousseau - come espressione della volontà generale.

L’Illuminismo costruisce una teoria della legislazione che contribuirà alla formazione dei codici:

generalità, astrattezza e chiarezza della legge.

In nome della centralità della legge l’Illuminismo spinge i sovrani a realizzare delle

consolidazioni o avviare dei tentativi di codificazione. Da questo punto di vista i progetti più

importanti vengono avviati in Prussia e in Austria e porteranno rispettivamente al Codice Civile

Prussiano (ALR) e al Codice Austriaco del 1811 (ma i lavori sono avviati dall’imperatrice Maria

Teresa nel 1750). Il Codice Prussiano può considerarsi il prodotto più importante dell’Illuminismo

conseguito senza una rivoluzione e espressione più alta dell’assolutismo illuminato. Esaltato per

qualche anno, fu poi largamente superato come modello di codificazione dal codice civile

napoleonico. In ogni caso le grandi codificazioni europee a cavallo tra Settecento e Ottocento

rappresentano la fine di un’epoca e l’avvio dell’età dell’Assolutismo giuridico. In merito possiamo

considerare quanto afferma Paolo Grossi:

Dietro la foglia di fico della “ragione naturale” e della “volontà generale” sta la

consegna nelle mani del potere politico della intiera produzione del diritto. Al vecchio caotico

pluralismo giuridico si va sostituendo un rigidissimo monismo giuridico: la dimensione

giuridica è ormai vincolata all’apparato di potere dello Stato e tende a immedesimarsi in una

dimensione legislativa. E comincia un lungo periodo non solo di legalismo ma di autentica

legolatria: la legge come tale, come emanazione di una volontà sovrana, diviene oggetto di

culto prescindendo dai suoi contenuti. Atteggiamento greve di rischi, che un’onda

lunghissima porterà fino alle nostre spalle e di cui ci stiamo faticosamente liberando proprio

in questi ultimi decennii. Dal Settecento illuminista in poi, sul continente europeo, si farà i

conti unicamente con la volontà del legislatore, poiché solo a lui spetterà la capacità di

trasformare in giuridica una generica regola sociale. Una conclusione finale si deve trarre: la

civiltà del liberalismo economico, nel suo tentativo di operare un completo controllo di quel

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prezioso cemento sociale che è il diritto, si è rivestita della corazza ferrea di un autentico

assolutismo giuridico3.

3 P. Grossi, L’Europa del diritto, Roma-Bari 2007, pp. 112-113.

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G. De Tiberiis, L’Illuminista oscurato. Giacinto Dragonetti per una normativa premiale

delle virtù sociali, in «Frontiera d’Europa», anno XVI (2010) – n. 1, pp. 183-270.