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© Angelo Mascherpa L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO 1 Il contesto storico-culturale Negli ultimi decenni del ‘700, mentre in Inghilterra si stava affermando una rivoluzione economica e in Francia una rivoluzione politica (che nei due secoli successivi avrebbero cambiato il mondo), in Germania venivano poste le basi per una “rivoluzione filosofica”. Infatti in Germania, tra la metà del ‘700 e i primi dell’800, sembra preclusa ogni possibilità di rinnovamento delle strutture economiche e politiche. Il paese è ancora sostanzialmente medievale e l’assolutismo è il sistema politico dei suoi trecento piccoli stati. Il settore produttivo dominante è l’agricoltura tradizionale, con una proprietà terriera di grandi dimensioni, in cui persiste la servitù della gleba e l’utilizzo di mezzi di produzione arcaici. Anche il sistema dei dazi e delle gabelle contribuisce a rendere impossibile la formazione di un “mercato” nel senso capitalistico del termine. Nei pochi centri urbani esiste un capitale mercantile con una corrispettiva borghesia di commercianti, bottegai, artigiani, che non pone richieste di tipo politico e non è portatrice di nuovi valori sociali. In questo contesto i filosofi tedeschi, provenienti da famiglie di origine piccolo e medio- borghese (in gran parte figli di artigiani, impiegati, insegnanti e pastori protestanti) trovano nell’insegnamento universitario una professione che conferisce loro sicurezza economica, prestigio e un pubblico di altri intellettuali. Le Università tedesche sono però Università dello stato che non fruiscono di una reale autonomia e indipendenza, poiché i docenti sono selezionati e controllati dal potere politico. Essi sono destinati ad essere fautori di un rinnovamento che si pone interamente su di un piano ideale. <<La libertà di insegnamento, che è un tema centrale dei professori tedeschi, deriva dalla stessa natura ideale della filosofia come spazio autonomo. E’ un aspetto di quella libertà all’ombra del potere che fu detto essere una condizione specifica della cultura tedesca. Si a nel momento della sua formazione, quando avviene la costituzione di un tipo di intelligenza e la focalizzazione degli oggetti del pensare, sia nel momento del suo lavoro sociale, che avviene in un clima di controlli che la stessa organizzazione rigida della vita sociale suggerisce, l’intellettuale tedesco, che non sia anche Territorio della Germania nel 1789, diviso in circa trecento “patrie”

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L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO

1 – Il contesto storico-culturale

Negli ultimi decenni del ‘700, mentre in Inghilterra si stava affermando una rivoluzione economica e in Francia una rivoluzione politica (che nei due secoli successivi avrebbero cambiato il mondo), in Germania venivano poste le basi per una “rivoluzione filosofica”. Infatti in Germania, tra la metà del ‘700 e i primi dell’800, sembra preclusa ogni possibilità di rinnovamento delle strutture economiche e politiche. Il paese è ancora sostanzialmente medievale e l’assolutismo è il sistema politico dei suoi trecento piccoli stati. Il settore produttivo dominante è l’agricoltura tradizionale, con una proprietà terriera di grandi dimensioni, in cui persiste la servitù della gleba e l’utilizzo di mezzi di produzione arcaici. Anche il sistema dei dazi e delle gabelle contribuisce a rendere impossibile la formazione di un “mercato” nel senso capitalistico del termine. Nei pochi centri urbani esiste un capitale mercantile con una corrispettiva borghesia di commercianti, bottegai, artigiani, che non pone richieste di tipo politico e non è portatrice di nuovi valori sociali. In questo contesto i filosofi tedeschi, provenienti da famiglie di origine piccolo e medio-borghese (in gran parte figli di artigiani, impiegati, insegnanti e pastori protestanti) trovano nell’insegnamento universitario una professione che conferisce loro sicurezza economica, prestigio e un pubblico di altri intellettuali. Le Università tedesche sono però Università dello stato che non fruiscono di una reale autonomia e indipendenza, poiché i docenti sono selezionati e controllati dal potere politico. Essi sono destinati ad essere fautori di un rinnovamento che si pone interamente su di un piano ideale. <<La libertà di insegnamento, che è un tema centrale dei professori tedeschi, deriva dalla stessa natura ideale della filosofia come spazio autonomo. E’ un aspetto di quella libertà all’ombra del potere che fu detto essere una condizione specifica della cultura tedesca. Sia nel momento della sua formazione, quando avviene la costituzione di un tipo di intelligenza e la focalizzazione degli oggetti del pensare, sia nel momento del suo lavoro sociale, che avviene in un clima di controlli che la stessa organizzazione rigida della vita sociale suggerisce, l’intellettuale tedesco, che non sia anche

Territorio della Germania nel 1789, diviso in circa trecento “patrie”

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inconsciamente un intellettuale cortigiano, si trova sempre in una posizione dominata da un potere che gli appare come una presenza e un limite invalicabile. Il potere ha contemporaneamente l’aspetto di una regola autoritaria e di una protezione paternalistica….. Il tema della libertà, dominante nel giovane Schiller, è senz’altro un elemento di trasfigurazione ideologica della situazione dell’intellettuale tedesco>>

1.

1.1 – I filosofi tedeschi e l’università

Mentre in Francia, nel ‘700, i philosophes operavano coscientemente e volontariamente al di fuori delle università, ritenute un baluardo della tradizione, preferendo incontrarsi e confrontarsi nei caffè e nei salons, i filosofi tedeschi dell’800 sono completamente integrati nelle istituzioni universitarie. Nelle prestigiose università di Jena, Königsberg, Tubinga, Heidelberg e Berlino i professori di filosofia si propongono come fautori di un rinnovamento culturale o “spirituale” (come si diceva nel linguaggio idealistico dell’epoca) e di una rigenerazione morale della gioventù e del popolo tedesco. Interpretando se stessi come depositari di una capacità di interpretazione del mondo e della storia superiore, sia all’esperienza comune, sia ai dispersivi saperi particolari, essi si incaricano della missione di guidare ed educare il popolo ai principi della ragione e della libertà. In particolare, trascendendo l’ambito gnoseologico in cui Kant aveva circoscritto il compito della filosofia, i filosofi tedeschi di fine ‘700 e dei primi anni dell’800 elevano la disciplina a “sapere assoluto”, capace quindi di ricondurre la molteplicità dei fenomeni naturali, i momenti della storia e della società ad un principio unitario fondante di cui essi sono manifestazioni. Godendo di questo punto di vista privilegiato su mondo e sulle vicende umane, i filosofi rivendicano un ruolo preminente all’interno dell’Università, ponendosi come guida superiore alle singole discipline scientifiche. Invece di perdersi in un’astratta descrizione e interpretazione dei fenomeni particolari, il sistema razionale e organico delle conoscenze proposto dalla filosofia può trasformarsi in un piano educativo per l’umanità, l’università si trasforma in un “tempio laico” e l’aula universitaria diventa il luogo in cui il filosofo incontra “idealmente” l’intera umanità. Emblematici sono certamente i casi di Fichte ed Hegel. Del primo ricordiamo le lezioni domenicali tenute all’Accademia di Berlino per stimolare il popolo tedesco a liberarsi dal dominio napoleonico, utilizzando proprio il concetto di “libertà” come impulso interiore verso obiettivi ideali; del secondo la costruzione di una enciclopedia delle scienze filosofiche, come ideale unitario contro la frammentazione delle scienze che minaccia di dissolvere l’università. Sennonché questa “libertà” si rivela quasi sempre, come si è detto, una “libertà all’ombra del potere”, un potere statale o, meglio, tante autorità statali che, da un lato promuovono una riorganizzazione delle istituzioni universitarie e scolastiche (vengono accolte, per esempio, alcune proposte di Hegel sull’insegnamento della filosofia nei licei e nelle università), dall’altro mantengono e rafforzano il controllo sull’insegnamento e sulla stampa, il principale strumento di diffusione dell’ideologia presso la piccola e media borghesia.

1.2 – I filosofi tedeschi, la Rivoluzione francese e l’Illuminismo.

La tendenza dei filosofi tedeschi ad idealizzare i loro rapporti con la società e la storia coinvolge anche il loro giudizio sulla Rivoluzione francese; infatti quest’ultima non è vissuta come un evento essenzialmente pratico, ma come la realizzazione di quell’arco di valori ideali (ragione, libertà, eticità...) che costituivano proprio la loro ideologia. La Rivoluzione francese acquistava così l’aspetto di uno “spettacolo filosofico”, i cui protagonisti non sono gli uomini concreti che hanno fatto la storia, ma gli stessi ideali di ragione, libertà, ecc. Questo spiega perché, quando nel 1793 (con la decapitazione di Luigi XVI e il “Terrore”) la rivoluzione entrò nel suo momento più drammatico, i filosofi tedeschi si convinsero che la “libertà” non poteva essere perseguita nella dimensione socio-politica, bensì solo in quella filosofica; ovvero la libertà andava ricercata nell’ideale, operando una rivoluzione nell’arte, nella letteratura e nella filosofia, le principali manifestazioni dello Spirito, come si dirà nel linguaggio dell’idealismo tedesco. L’aspetto filosoficamente più rilevante di tutta questa vicenda storico-politica (l’esito tragico della rivoluzione francese e la successiva fase napoleonica, vissuta dai tedeschi come imposizione di un dominio straniero) è certamente il giudizio critico sull’Illuminismo con cui decolla lo spirito romantico. La delusione per il fallimento della Rivoluzione francese e il conseguente dominio napoleonico, trascina con sé la cultura illuministica, ritenuta la matrice culturale della Rivoluzione e, quindi, anche dei suoi tragici “errori”. Se la Rivoluzione, il Terrore e il dominio napoleonico sono stati gli effetti, Illuminismo, con i suoi philosophes, ne è stato la causa. <<E’ l’Illuminismo, sostengono i romantici, che caratterizza la crisi del mondo moderno. La cultura illuministica ha costruito un sistema spirituale in cui l’uomo moderno trova gli elementi costitutivi della propria

1 Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, Zanichelli, BO, 1982, p. 117

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crisi. L’Illuminismo è considerato come intellettualismo, sopravvalutazione dell’analisi scientifica, quantificazione dell’esperienza, perdita della dimensione religiosa, riduzione della natura a legge matematica e a causalità deterministica, caduta della fantasia creatrice, superficialità morale ed edonismo, banalità utilitaristica, dispersione e perdita di un’idea organica dell’esistenza umana>>

2.

1.3 – Il Romanticismo e il tema dell’infinito.

La rivoluzione romantica nasce proprio come opposizione a quella presunta decadenza spirituale di cui sarebbe responsabile la cultura illuministica. Le sue origini sembrano da attribuirsi al cosiddetto circolo di Jena, un gruppo di intellettuali (Friedrich e Wilhelm Schlegel, il poeta Tieck e lo scrittore Novalis) formatosi verso il 1796 nella città di Jena, dove è particolarmente vivo il dibattito sugli sviluppi della filosofia kantiana, in particolare ad opera del filosofo Fichte. Nella costruzione del pensiero romantico, in antitesi all’Illuminismo, vengono recuperati i temi essenziali dello Sturm und Drang (“impeto tempestoso”), il precoce fermento giovanile anti-illuministico, manifestatosi in Germania tra il 1770 e il 1775, che vedeva impegnati il giovane Goethe, Herder e Klinger. Il principale bersaglio polemico del movimento romantico (così come lo era stato dello Sturm und Drang) è proprio la ragione finita, che aveva chiuso all’uomo la possibilità della metafisica, e della quale Kant aveva stabilito limiti e possibilità nella Critica della ragion pura. Alla ragione finita, empirica, scientifica, il movimento contrappone il sentimento, la passione, la libertà da ogni regola e la fantasia creatrice, proprio perché costituirebbero nuove vie d’accesso all’Assoluto, all’essenza profonda delle cose. Il sentimento, nelle due principali forme del sentimento artistico e religioso, diventa la facoltà umana capace di condurci nel cuore della realtà, ovvero di cogliere intuitivamente la “cosa in sé”, la realtà noumenica, proprio quella realtà che era preclusa all’intelletto kantiano. E’ così che, nel momento di trapasso dei due secoli, poesia e filosofia si incontrano, tra esse vi è una circolazione di concetti tra i quali gioca un ruolo dominante quello di infinito. Il sentimento (la sensibilità artistica in particolare) ci fa avvertire l’infinito sia nella natura che nell’uomo. La natura è spesso avvertita dai romantici come una Totalità infinita, percorsa da un dinamismo immanente che perennemente struttura la realtà. Si tratta di una concezione organicistica e finalistica della natura (di stampo neoplatonico-rinascimentale) contrapposta alla concezione meccanicistica (newtoniana). Così, come per Goethe la natura è “l’abito vivente della divinità” (intesa come forza immanente che continuamente trasforma la natura stessa), per il filosofo idealista Schelling “la natura deve essere Spirito visibile, lo Spirito la natura invisibile”. Nell’uomo l’infinito si manifesta invece come streben, sforzo, tensione, aspirazione verso l’infinito e, quindi, tendenza inesauribile a superare i limiti della propria finitudine. Si tratta di un’aspirazione che dà luogo ad una ricerca senza fine, poiché al finito non è dato, costitutivamente, di appropriarsi dell’infinito: ogni mèta raggiunta, manifestando il suo carattere limitato, rinvia ad un’altra mèta, in uno sforzo infinito e destinato all’insuccesso.

2 Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., pp. 128-129

Nel quadro l’uomo (un monaco,) nella sua finitezza e solitudine, è posto di fronte ad un paesaggio sconfinato. La minuscola figura verticale appare completamente estraniata dal mondo che la circonda; il suo sguardo è perso verso il mare agitato, sotto un cielo grigiastro che non rende ben visibile l’orizzonte. L’essere umano, solo e ridotto a una figura infinitesimale, non può che perdersi e “naufragare” in tale immensità. Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare (1808-1810)

Alte Nationalgalerie Berlino

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Questa incessante tensione verso l’Assoluto genera nei romantici uno stato d’animo caratteristico espresso dal termine tedesco Sehnsucht, una “brama appassionata”, un’aspirazione struggente verso mete senza confini (l’infinito, la libertà, la felicità...) che continuamente sfuggono. Come sostiene Nicola Abbagnano: <<La Sehnsucht si identifica infatti con quell’aspirazione verso “il più e l’oltre” che, non trovando confini né mete precise, si risolve inevitabilmente ... in un “desiderio di avere l’impossibile, di conoscere il non conoscibile, di sentire il soprasensibile”. Tant’è vero che la Sehnsucht

- secondo l’etimologia della parola, la quale deriva dal verbo sehnen, cioè “desiderare”, e dal

sostantivo Sucht, che significa a sua volta “desiderio” – finisce per configurarsi come “un desiderio innalzato alla seconda potenza, un desiderio del desiderio e quindi un desiderare che si esaurisce in sé per il piacere del desiderio”>>

3.

Artisti e poeti romantici esprimono questa inappagata brama di infinito (e di indefinito) nei loro rispettivi codici, inducendo nello spettatore, o nel lettore, il sentimento del sublime. Questo sentimento era stato definito da Kant (nella Critica del giudizio) come il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura, sia nel suo aspetto pacifico (sublime matematico), sia nel momento della sua terribilità (sublime dinamico), allorché ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, cosciente di ciò, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi.

Così possiamo notare le sorprendenti analogie tra il quadro del pittore romantico Friedrich (1818) e la celebre poesia di Leopardi (1819). Le bianche scogliere di Rugen e le fronde degli alberi, nella parte superiore del quadro, in parte nascondono e in parte “svelano” quell’infinito che non si riesce proprio a raggiungere. Il sentimento della sublime distanza tra la finitudine dell’uomo e l’immensità della natura viene mirabilmente espresso dal contrasto tra l’atteggiamento dei tre personaggi e la calma solennità del mare con l’orizzonte indistinto in uno sfumato rosa pallido. La donna manifesta paura per il precipizio antistante;

3 Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, Paravia, MI-TO, 2010, p. 341

L’infinito [Giacomo Leopardi, 1819]

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo, ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo mare.

Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rugen (1818) Museum Oskar Reinhart, Winterthur

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l’uomo al centro si inchina a baciare la terra, in sacra adorazione dello spettacolo che la natura gli offre; l’uomo a destra, con la schiena appoggiata all’albero, sembra in estatica contemplazione del mare infinito. La funzione svolta dalle scogliere nel quadro di Friedrich è identica a quella svolta dalla siepe ne L’infinito di Leopardi. Proprio perché la siepe impedisce di vedere tutto l’orizzonte, il poeta, stimolato da quell’”oltre” che essa gli suggerisce, può immaginare spazi infiniti e silenzi che un uomo non può empiricamente percepire. Non solo, ma, confrontando lo stormire delle foglie provocato del vento a quella profondissima quiete, al poeta sovviene anche l’infinito temporale, ovvero l’eternità, provando un dolce senso di vertigine. L’inesauribile tensione verso l’infinito, che divora gli intellettuali romantici, si manifesta nel “titanismo”, un atteggiamento di sfida e ribellione (nei confronti della società, del destino, della natura…) accompagnato sempre, però, dal sentimento della sconfitta di chi è consapevole dell’impossibilità di trascendere completamente le barriere del finito, di chi intraprende una lotta impari contro i condizionamenti umani con dolorosa autoironia. Come ci ricorda N. Abbagnano: <<Il titanismo è detto anche “prometeismo” perché i romantici lo personificano nel mitico titano greco Prometeo, il quale, avendo rotto l’ordine fatale del mondo per donare agli uomini il fuoco, viene condannato da Zeus ad avere perennemente il fegato divorato da un’aquila. Mettendo tra parentesi i possibili significati umanistico-illuministici del mito, i romantici tendono a vedere in Prometeo il simbolo della ribellione in quanto tale (si pensi ad esempio alla lirica Prometheus di Goethe e al dramma Prometheus Unbound di Percy Bisshe Shelley)>>

4.

L’incessante tentativo di superare i limiti della propria finitezza, nello slancio verso l’infinito, si traduce anche nel rifiuto della banalità quotidiana, in una tendenza verso l’evasione, <<alla ricerca di qualcosa che si è perduto, o che appare collocato in una mitica lontananza. Questa evasione è, ad esempio, ricerca di un

4 Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. p. 342

La tortura di Prometeo (1819) di Jean-Louis-Cesar Lair – Museé Crozatier, Le Pui-en Velay – France

Nel quadro di Cesar Lair il titano affronta con sublime slancio il sacrificio impostogli da Zeus. Egli è ritratto proprio all’alba (i raggi del sole filtrano da uno squarcio tra le nubi) ovvero quando inizia l’atroce pasto del rapace divino. Prometeo si tende (dal greco titainein, tendersi) com’è nella natura della sua stirpe che si è tesa temerariamente in una impresa che l’ha vista sconfitta e punita. Nella rappresentazione del pittore romantico, la postura di Prometeo, che porge stoicamente il fegato all’aquila, con il volto di straordinaria dolcezza, gli occhi chiusi, la bocca lievemente piegata in una smorfia di contenuto dolore, sembrano alludere a quell’atteggiamento eroico e perdente insito nello

streben e nella Sehnsucht dei romantici.

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passato idealizzato... oppure si manifesta come irresistibile attrazione verso altre civiltà... L’ideale dell’evasione si trasforma nel mito del viandante, colui che senza posa, incessantemente, va errabondo. Ma il viaggio non giunge mai alla méta: non c’è un’Itaca verso la quale sperare di tornare. Il viaggiatore è un navigante naufrago, che non spera e, forse, non cerca un approdo>>

5.

Così il poeta Novalis, negli Inni della notte (1800), una delle opere più significative del romanticismo, esprime il sentimento dominante della nostalgia derivante dall’amore per l’Assoluto che, pur non potendosi realizzare, emancipa l’uomo dalle miserie della vita terrena. In questa composizione poetica l’esistenza umana è rappresentata come il travagliato cammino di un viandante solitario che si muove su un percorso impervio, in una terra straniera, perennemente in viaggio verso la sua “vera patria”: la realizzazione della propria umanità, ovvero della propria essenza spirituale, nel rapporto con Dio, l’Assoluto, l’Infinito. E’ certamente questo il significato filosofico del romanticissimo quadro di Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, del 1818 (Amburgo, Kunsthalle):

Di fronte al viandante (ripreso di spalle, per consentire allo spettatore di identificarsi con il suo sguardo) si apre un’affascinante e minaccioso spettacolo della natura che toglie il respiro: un orizzonte infinito, un paesaggio che mette i brividi e genera nell’osservatore un sublime senso di inadeguatezza rispetto all'universo; la nebbia fluttuante, che lascia avvolto nel mistero ciò che ricopre, trasmette un senso di smarrimento di fronte all’intuizione della profondità abissale; al di là dell’orizzonte visibile (segnato dal

5 De Bartolomeo-Magni, I sentieri della ragione, vol. 2°, ATLAS, Bergamo, 2006, pp. 393-394

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profilo sempre più sfumato delle montagne) si possono immaginare nuove terre sconosciute, nuovi orizzonti, nuove mete che, una volta raggiunte, dovranno a loro volta essere superate in un perenne vagabondare.

1.4 – Il Romanticismo e la genesi dell’Idealismo tedesco.

Sul piano filosofico, l’artefice di questa svolta è Fichte, che opera la metamorfosi dell’Io penso kantiano in “Io puro infinito” o “Soggettività assoluta”; ovvero trasforma l’Io penso da fondamento universale della conoscenza umana a principio della realtà, trapassando dal piano gnoseologico (di esplicazione dei limiti e delle possibilità della conoscenza) al piano ontologico-metafisico. Raccogliendo e rielaborando il dibattito critico post-kantiano sulla “cosa in sé” (un “paralogismo” per Schulze; un concetto-limite in senso idealistico leibniziano per Maimon, un concetto inessenziale del criticismo per Beck…), Fichte elimina il “fantasma” della cosa in sé, ovvero di una realtà noumenica esterna all’io, il quale, in questo modo, diventa tutta la realtà: <<tutto è spirito>>, ecco la tesi fondamentale dell’idealismo tedesco. La metamorfosi del Soggetto trascendentale kantiano, operata da Fichte, avviene grazie alla coniugazione del concetto di Io penso della Critica della ragion pura con quello di libertà della Critica della ragion pratica. Com’è noto l’Io penso rappresenta solo una funzione trascendentale, non una realtà metafisica; al tempo stesso la “libertà”, nella prima Critica, si trova solo all’interno di un rapporto antinomico con la causalità naturale ( terza antinomia cosmologica). Tuttavia nella seconda Critica si postula la possibilità che il soggetto, per agire eticamente, possa trascendere la dimensione fenomenica e autodeterminarsi, ovvero fondandosi nella libertà. Forzando questo aspetto del criticismo kantiano Fichte sostiene che è sbagliato cercare il principio della filosofia kantiana in un fatto di coscienza, bensì esso deve essere cercato in un atto libero. Egli crede così di poter dedurre sia l’attività conoscitiva che l’attività pratica (morale) da un unico principio: l’attività di un Io infinito e incondizionato che si accorda perfettamente con l’aspirazione dei romantici a trascendere i limiti del mondo fenomenico, per accedere all’Assoluto. In questo modo Fichte capovolge totalmente la prospettiva delle filosofie naturalistiche e materialistiche che avevano concepito la natura come “causa” dello spirito, affermando che è invece lo spirito la causa della natura, la quale ormai esiste solo in funzione dell’io, fungendo da polo dialettico, da “materiale”, per l’esplicarsi dell’azione del Soggetto assoluto. Queste tesi di fondo dell’intuizione idealistica del mondo, come ci fa notare Nicola Abbagnano: <<trovano una sorta di esemplificazione artistica nel romanzo I discepoli di Sais del poeta romantico Novalis (.....) dove, nelle aggiunte finali, si dice che:

Accadde ad uno di alzare il velo della dea di Sais. Ma cosa vide? Egli vide – meraviglia delle meraviglie – se stesso.

Secondo l’interpretazione idealistica, la dea velata sarebbe il simbolo del mistero dell’universo; quell’”uno” che giunge a scoprirla è il filosofo idealista, che dopo una lunga ricerca si rende conto che la chiave di spiegazione di ciò che esiste, vanamente cercata dai filosofi fuori dell’uomo, ad esempio in un Dio trascendente o nella natura, si trova invece nell’uomo stesso, ovvero nello spirito..... Per queste ragioni, con l'idealismo, ci troviamo di fronte, per la prima volta nella storia del pensiero, a una forma di panteismo spiritualistico (Dio è lo spirito operante nel mondo, cioè l'uomo) che si distingue sia dal panteismo naturalistico (Dio è la natura), sia dal trascendentismo di tipo ebraico-cristiano (Dio è una Persona esistente fuori dell'universo). Come tale, l'idealismo è anche una forma di monismo dialettico (esiste un'unica sostanza: lo spirito) che si contrappone a tutti i dualismi metafisici e gnoseologici della storia del pensiero, dai Greci a Kant (spirito e natura, Dio e mondo, soggetto e oggetto, libertà e necessità, fenomeno e cosa in sé...)>>

6.

I filosofi idealisti (Fichte, Schelling e Hegel), pur essendo d’accordo nell’interpretare la realtà mediante le categorie di spirito e di infinito, si differenziano tra loro, come vedremo, per lo specifico modo di intendere l’infinito e i suoi rapporti con il finito (i fenomeni naturali e i fatti storico-sociali).

2 – Fichte: l’idealismo etico

6 Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. pp. 372-373

2.1 – Vita e opere Johann Gottlieb Fichte nacque a Rammenau, in Prussia, nel 1762, da una famiglia povera. Grazie però alle sue capacità intellettuali e al mecenatismo del barone Miltitz, poté studiare teologia a Jena e a Lipsia. Visse con entusiasmo lo scoppio della Rivoluzione francese e pervenne, negli stessi anni, alla conoscenza degli scritti di Kant, aderendo pienamente alle tesi delle Critiche. Il risultato di questi studi fu la pubblicazione anonima (a causa della censura del governo prussiano) del Saggio di una critica di ogni rivelazione (1792), originariamente attribuito a Kant e che, una volta chiarito l’equivoco dallo stesso filosofo di Königsberg, decretò la fama di Fichte.

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2.2 – I princípi della Dottrina della scienza.

Nei Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, del 1794, Fichte intende fornire un fondamento logico incontrovertibile alla sua filosofia; infatti i tre principi individuati non sono altro che l’articolazione di un principio unico.

- Primo principio: <<L’Io pone se stesso>> - Secondo principio: <<L’Io pone il non-io>> - Terzo principio: <<L’Io oppone nell’Io all’io divisibile un non-io divisibile>>

Premesso che questi tre principi vanno interpretati in senso logico e non cronologico (in quanto non esiste prima L’Io infinito, poi l’Io che pone il non-io e, infine, l’io finito, ma un Io che, per poter essere tale, deve presupporre di fronte a sé un non-io, trovandosi così ad esistere concretamente come io empirico), vediamo dettagliatamente il significato dei tre principi e le loro reciproche implicazioni.

1. <<L’Io pone se stesso>>

Il primo principio consiste in un approfondimento “idealistico” del criticismo kantiano. Infatti, mentre Kant aveva operato una deduzione trascendentale o gnoseologica, volta a giustificare le condizioni soggettive della conoscenza (“Io penso” e categorie), Fichte effettua una deduzione assoluta o metafisica, facendo derivare a sua volta l’Io penso da un principio ulteriore che ne costituisce il fondamento:

<<Noi dobbiamo ricercare il principio assolutamente primo, assolutamente incondizionato, di tutto l’umano sapere.

Dovendo essere un principio assolutamente primo, esso non si può dimostrare né determinare.

Esso deve esprimere quell’atto che non si presenta, né può presentarsi, tra le determinazioni empiriche della nostra coscienza, ma sta piuttosto alla base di ogni coscienza, e solo la rende possibile.....

Poniamo dunque un fatto qualsiasi della coscienza empirica e da esso separiamo, l’una dopo l’altra, tutte le

determinazioni empiriche, fino a che rimanga solo ciò che non si può assolutamente escludere, e dal quale non si può

separare più nulla.

Ciascuno ammette la proposizione: A è A (altrettanto che A = A, poiché questo è il significato della copula logica); ed

invero senza menomamente pensarci su: la si riconosce per pienamente certa e indubitabile.....

Affermando che la proposizione precedente è certa in sé, non si pone che A sia. La proposizione: A è A, non è per nulla

equivalente a quest’altra: A è, ovvero: c’è un A... Ma si ponga: se A è, allora A è. Non si tratta qui del contenuto della

proposizione, ma solamente della sua forma; non di ciò, di cui si sa qualcosa, ma di ciò che si sa, di qualunque oggetto,

qual che esso possa essere.

Quindi con l’affermazione che la proposizione precedente è assolutamente certa, è posto questo: che tra quel se e questo allora c’è un rapporto necessario; ed è il rapporto necessario tra i due, che vien posto assolutamente e senza alcun

fondamento. Io chiamo provvisoriamente questo rapporto necessario = X.

Ma riguardo alla questione se A medesimo sia o no, con ciò nulla ancora è stato posto. Sorge dunque la domanda: sotto

qual condizione dunque A è?

Dal 1794 al 1799 svolge l’attività accademica a Jena, dove pubblica la sua opera principale, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), con la quale viene “superato” il criticismo kantiano, vengono poste le fondamenta dell’idealismo tedesco e viene dato un forte impulso al movimento romantico. L’opera verrà continuamente rielaborata fino al 1804. L’applicazione della “dottrina della scienza” agli ambiti dell’etica e del diritto lo porta alla pubblicazione di: Lezioni sulla missione del dotto (1794), Fondamenti del diritto naturale (1796) e Sistema della dottrina morale (1798). Nel 1799 Fichte si trova coinvolto nella cosiddetta “polemica sull’ateismo”, a causa di un articolo (Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo) nel quale Dio era identificato con l’ordine morale del mondo. L’accusa di ateismo procurò a Fichte l’allontanamento dalla cattedra di Jena. Dal 1800 al 1814 Fichte si trasferisce quindi a Berlino, dove viene introdotto negli ambienti culturali dall’amicizia con Friedrich von Schlegel. Professore per breve tempo a Erlagen (1805), al momento dell’invasione napoleonica ritornò a Berlino mentre la città era occupata dai francesi. Qui pronunciò i famosi Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808), che divennero il manifesto politico della riscossa nazionale prussiana, nei quali additava, quale mezzo di emancipazione politica della Germania, una nuova forma di educazione e affermava il primato del popolo tedesco. Fu quindi professore e, dal 1810, rettore dell’Università di Berlino. Nel 1811 pubblicò Sulla missione del dotto. Morì il 29 gennaio 1814, durante un’epidemia di tifo, contagiato dalla moglie che la contrasse l’infezione mentre curava i soldati feriti.

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a) X almeno è posto nell’Io e dall’Io, poiché è l’Io che giudica nella proposizione precedente.....

b) Se e come A in generale sia posto, noi non sappiamo; ma poiché X deve indicare un rapporto tra una posizione

sconosciuta di A ed una posizione assoluta del medesimo A, condizionata dalla prima, così, almeno in quanto vien

posto quel rapporto, A è posto nell’Io e dall’Io, come lo è X......

c) ... La precedente proposizione si può dunque esprimere anche così: Se A è posto nell’Io, allora esso è posto; ovvero –

allora è.

... Ciò vuol dire: è posto che nell’Io – sia esso in particolare ponente o giudicante o che altro sia – vi è qualcosa che è

sempre uguale a sé, sempre uno e identico; e l’X assolutamente posto si può anche esprimere così: Io = Io; Io sono Io.

... Ma la proposizione: Io sono Io ha un significato tutto diverso dalla proposizione: A è A. Infatti, quest’ultima ha un contenuto solo ad una certa condizione. Se A è posto, esso è certamente posto come A, col predicato A. Ma con quella

proposizione non è ancora per nulla deciso se esso in generale sia posto e quindi se sia posto con un qualunque

predicato. La proposizione: Io sono Io vale invece incondizionatamente ed assolutamente... In essa l’Io è posto, non

sotto condizione, ma assolutamente, col predicato di eguaglianza con se stesso; esso è dunque posto; e la proposizione

si può anche esprimere così: Io sono.

... L’espressione immediata dell’atto ora sviluppato sarebbe la formula seguente: Io sono assolutamente; cioè: io sono

assolutamente perché sono; sono assolutamente ciò che sono; e l’una e l’altra cosa per l’Io. Pensando la descrizione di

quest’atto al vertice della dottrina della scienza, essa dovrebbe essere espressa press’a poco nel modo seguente: L’Io

originariamente pone assolutamente il suo proprio essere>>7.

Il principio supremo della conoscenza, quindi, non può essere A = A, posto dall’Io, ma l’Io stesso che, ponendo se stesso, pone anche il principio d’identità. La caratteristica fondamentale dell’Io consiste allora in un’attività auto-creatrice libera e infinita. Infatti l’auto-creazione coincide con l’intuizione intellettuale che l’Io ha di se stesso, in quanto il “conoscersi” si identifica con il “prodursi”: l’Io è in quanto si fa. Ovvero, mentre la metafisica tradizionale sosteneva che operari sequitur esse (l’agire degli individui è conforme alla loro natura), per la metafisica idealistica fichtiana esse sequitur operari, in quanto l’essere dell’Io è il frutto della sua stessa attività e il prodotto della sua libertà. Questa peculiare caratteristica dell’Io viene definita da Fichte Tathandlung, parola composta che indica un Io, al tempo stesso, come agente (Tat) e prodotto dell’attività stessa (Handlung).

2. <<L’Io pone il non-io>>

Per potersi realizzare l’Io ha bisogno di un non-io. Ovvero, per essere soggetto deve avere un oggetto, per essere libertà deve avere degli ostacoli, dei limiti da superare, per essere attività creatrice deve avere un materiale su cui agire: il non-io = mondo o natura. In quanto opposto all’Io, il non-io si caratterizza in modo ad esso antitetico: se l’Io è libertà il non-io è necessità; se l’Io è attività il non-io è passività; se l’Io è unità il non-io è molteplicità; se l’io è spirito il non-io è materia, se l’io è Infinito il non-io è finito. Quindi il non-io o natura, in Fichte, conserva ancora tutti i caratteri (necessità, passività, molteplicità, materialità, finitezza) della concezione meccanicistica settecentesca. In che modo l’Io pone il non-io? La risposta a questa domanda fondamentale non può essere che di ordine metafisico: l’Io pone il non-io attraverso una “immaginazione produttiva” inconscia. Mentre in Kant questa era concepita come la facoltà mediante la quale l’intelletto schematizza il tempo secondo le categorie, in Fichte diventa l’atto attraverso cui l’Io produce i materiali stessi della conoscenza, ovvero l’atto mediante cui l’Io “crea” il mondo. Il fatto che la produzione del non-io sia inconscia spiega perché alla coscienza comune la natura appare come “altro”, come oggetto estraneo posto dinnanzi all’io. Sennonché tale non-io, posto dall’Io, e quindi nell’Io, implica automaticamente un terzo principio.

3. << L’Io oppone, nell’Io, all’io divisibile un non-io divisibile >>

L’Io, avendo opposto a se stesso, in se stesso, un non-io, si trova da esso limitato (così come quest’ultimo è limitato dall’Io), quindi non è più infinito, ma finito (= divisibile). Con il terzo principio ci troviamo quindi di fronte alla concreta situazione del nostro mondo, caratterizzata da una molteplicità di io empirici che si trovano di fronte a sé una molteplicità di oggetti finiti e limitanti. Ma Fichte, con tutta questa deduzione ha voluto mettere in luce come il “mondo” degli oggetti e dei fenomeni naturali non sia una realtà autonoma, separata dallo spirito, ma la polarità dialettica dell’Io, che esiste soltanto per l’Io e nell’Io, dando in questo modo una giustificazione logico-ontologica della nuova metafisica idealistica del Soggetto e dello Spirito.

2.3 – La teoria della conoscenza

Dall’azione reciproca di io e non-io nascono sia la conoscenza che l’azione morale.

7 J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1971, pp. 73-76, 78

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Per quanto riguarda la gnoseologia, Fichte si proclama “realista” e “idealista” al tempo stesso (Ideal-Realismo), poiché, come sostiene il realismo dogmatico, la rappresentazione deriva dall’azione delle cose esterne sull’io empirico; sennonché le cose esterne, in quanto non-io, sono state poste inconsciamente dall’Io tramite l’”immaginazione produttiva” (2° principio della Dottrina della scienza), per cui l’attività del non-io sull’io empirico deriva, in ultima istanza, dall’Io stesso.

Come per Narciso che osservando uno specchio d’acqua vede se stesso, innamorandosi di sé, l’attività conoscitiva, per Fichte, è come se fosse un’attività riflessa da uno specchio (non-io) che, ricevuta l’immagine dall’Io, rimbalza sull’io empirico. Ovvero, quando noi (io finiti) entriamo in rapporto con il mondo esterno (insieme dei non-io finiti) non entriamo in rapporto con qualcosa che ci è totalmente estraneo, ma con qualcosa che noi stessi, in quanto parte dell’Io puro infinito, abbiamo posto. In tal modo Fichte fornisce anche una giustificazione metafisica dell’a-priorismo kantiano. Infatti, se il mondo esterno (presunta “cosa in sé”) si adegua alle forme a-priori del soggetto è proprio perché, in quanto non-io, è stato inconsciamente prodotto dall’Io puro infinito mediante l’immaginazione produttiva.

Ovviamente la coscienza comune considera il mondo (non-io) come “altro”, qualcosa che non dipende da noi; ma proprio perché viene avvertito come limite, il non-io suscita l’attività dell’Io. Nella Dottrina della scienza Fichte ci mostra come, a partire dalla semplice sensazione ( in cui l’io empirico avverte fuori di sé l’oggetto come qualcosa che gli si oppone), attraverso i successivi gradi dell’intuizione, dell’intelletto, del giudizio e della ragione, l’Io arrivi alla piena coscienza di sé e del mondo come suo prodotto. Questo processo di progressiva interiorizzazione dell’oggetto da parte del soggetto, denominato da Fichte “storia prammatica dello spirito umano”, rappresenta il percorso compiuto da un io empirico che, a partire dal senso comune, raggiunge le vette della filosofia, o meglio, della filosofia idealistica tedesca.

2.4 – L’agire morale e il primato della ragion pratica

Riflettendo sul significato “logico”, e non “cronologico”, dei tre principi della Dottrina della scienza (significato teso a chiarire che l’essenza della natura e degli uomini è “spirituale”), scopriamo che l’Io “puro” infinito fichtiano non è qualcosa di diverso dalla totalità degli io finiti, così come l’umanità non qualcosa di diverso dall’insieme degli individui che la compongono (anche se i singoli individui nascono e muoiono, mentre l’umanità, o l’Io infinito, perdura nel tempo). Allora l’Io infinito non è da considerarsi tanto come la sostanza metafisica degli io finiti, ma il loro telos, la loro meta ideale. Ovvero gli io empirici, gli esseri umani finiti, “sono” l’Io puro infinito solo in quanto tendono ad esserlo. L’infinito, invece di costituire una realtà metafisica già data, è per l’uomo un dovere essere, una missione da realizzare. Infatti, gli aggettivi “puro” e “infinito” che accompagnano l’Io vogliono rimarcarne la caratteristica fondamentale della libertà, la libertà dello spirito che vince sui propri ostacoli e supera i propri limiti. Ovviamente una simile situazione per l’uomo, essere finito e limitato, rappresenta solo un ideale. Fichte, nel Sistema della dottrina morale (1798), affermando che l’Io puro infinito è la “missione” dell’io empirico finito, intende semplicemente dire che la vita umana è un incessante sforzo (Streben) verso la libertà, una lotta impari ed inesauribile contro i limiti esterni posti dalle cose e quelli interni dell’egoismo e degli istinti in generale. Detto con le parole di Nicola Abbagnano: <<il compito proprio dell’uomo è l’umanizzazione del mondo, ossia il tentativo incessante di “spiritualizzare” le cose e noi stessi, dando

Narciso (1597-1599) di Caravaggio

- Galleria Nazionale d’Arte Antica - Palazzo Barberini, Roma

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origine, da un lato, a una natura plasmata secondo i nostri scopi e, dall’altro, a una società di esseri liberi e razionali>>

8.

Allora l’idealismo di Fichte si caratterizza come idealismo etico, poiché la realtà metafisica (l’Io) non è “essere”, ma “dover essere” (Sollen), dovere etico, o “imperativo categorico”, di trasformazione della realtà per elevarla gradualmente dal piano empirico a quello della ragione e della libertà. Ma tale azione trasformatrice, pur affermando sempre di più la signoria della ragione sulla natura e sugli istinti egoistici, non potrà mai realizzarsi definitivamente, non potendo mai l’uomo farsi “Dio”. D’altronde, come aveva già teorizzato Kant, non ci sarebbe moralità senza sforzo e non c’è sforzo senza ostacoli da superare; quindi l’Io non è mai dato, ma è un infinito tendere (Streben) per auto-realizzarsi e la libertà non è mai assoluta, ma un infinito processo di liberazione.

In tal modo Fichte fonda filosoficamente il primato della ragion pratica sulla ragione teoretica (già enunciato da Kant): noi esseri umani esistiamo solo per agire, per imporre al non-io la legge dell’Io, e il mondo esiste come “teatro” per la nostra azione. L’infinità dell’Io non è già data, ma si rende tale in un

8 Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, cit. p. 381

Friedrich, Il naufragio della “Speranza” (1822) – Amburgo, Kunsthalle

Questo quadro, ispirato a un disastro realmente avvenuto nel corso di una spedizione scientifica attraverso lo stretto di Bering, esprime molto bene lo Streben fichtiano e, in generale, romantico. Infatti il pittore mette in primo piano lastroni di ghiaccio enormi, taglienti e spinti ad accavallarsi in forma piramidale dalla “titanica” forza della natura. Sullo sfondo si perde l’immensa e inospitale distesa del pack, sulla quale grava un cielo di piombo. In questo contesto troviamo sulla destra, piccola e insignificante, la presenza dell’uomo, sotto le sembianze di una nave (la “Speranza”) adagiata su un fianco e travolta dalla forza irresistibile del ghiaccio. Ma, per quanto insignificante appaia la presenza dell’uomo al cospetto della natura, essa testimonia, al tempo stesso, la sublime grandezza delle sue imprese, il suo eterno desiderio di conoscenza e di dominio della natura, anche quando gli ostacoli da superare appaiono, e spesso sono, insormontabili, destinando gli esseri umani alla sconfitta nella lotta impari e infinita contro tutti i vincoli e le forze esterne superiori che li circondano.

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processo infinito di emancipazione dai vincoli che lo stesso Io ha posto, poiché senza di essi non potrebbe realizzarsi come attività e libertà. L’inesauribile azione di avvicinamento a questo telos è supportata dall’azione “pedagogica” di quegli uomini, i “dotti”, che ne possiedono in maggior misura la consapevolezza teorica, ma che possiedono anche una specifica abilità, la “cultura”, strumento indispensabile per la modificazione del mondo secondo i concetti dell’Io puro. Così leggiamo nelle lezioni, pubblicate nel 1794, sulla Missione del dotto:

<<Il fine ultimo di ogni essere ragionevole è dunque l’unità assoluta, l’identità costante, il pieno accordo con se stesso.

Questa assoluta identità è la sola forma dell’Io puro… l’Io deve sempre tendere alla propria unità e perciò cercar di

reagire immediatamente alle cose dalle quali invece dipendono la sensibilità e la rappresentazione; nel modificare le

cose deve cercare di accordarle colla pura forma del suo Io, e di conseguenza deve cercare di accordare con questa

forma anche la rappresentazione delle cose la quale da esse dipende. Questa modificazione delle cose secondo i concetti

che ne abbiamo, non è possibile mediante il semplice volere ma occorre anche un’abilità che si acquista con l’esercizio… Io chiamo cultura l’acquisto di un grado determinato di tale abilità che è, in parte capacità di dominare e

distruggere le cattive inclinazioni sorte prima del dispiegamento della ragione e del senso della nostra medesimezza; in

parte capacità di modificare le cose fuori di noi e di cambiarle secondo i nostri concetti. La cultura ha diversi gradi e ne

può avere infiniti. Essa è l’ultimo e supremo mezzo per raggiungere il vero fine umano cioè il pieno accordo con se

stesso, se s’intende l’uomo come essere sensibile e razionale… Il risultato di quanto abbiamo detto è che l’ultimo e

supremo fine dell’uomo è il pieno accordo con se stesso, per ottenere il quale occorre il pieno accordo di tutte le cose

esterne coi necessari concetti pratici che ne abbiamo cioè con quei concetti i quali determinano come esse devono

essere. Questo accordo è quel che Kant chiama il sommo bene; il quale sommo bene non ha affatto due parti ma è uno

essendo nient’altro che la piena armonia di un essere ragionevole con se stesso… Il fine ultimo dell’uomo è quello di

sottomettere ogni cosa irrazionale e dominare libero secondo la sola sua legge, fine che non è affatto raggiungibile e tale

deve eternamente rimanere se l’uomo non deve cessare di essere uomo per diventare Dio. Dallo stesso concetto di uomo

ricaviamo che il suo fine è irraggiungibile e la via che porta ad esso, infinita. Non è dunque il raggiungimento di questo fine, la missione dell’uomo. Ma egli può e deve perpetuamente avvicinarsi ad esso e questo infinito avvicinarsi al fine è

la sua missione di uomo, cioè di essere razionale eppur finito, sensibile eppur libero. Quel pieno accordo con se stesso si

chiama perfezione nel più alto significato della parola; la perfezione è dunque il più alto e irraggiungibile fine

dell’uomo e il perfezionamento all’infinito è la sua missione. Egli esiste per divenire sempre migliore e per rendere tale

tutto ciò che materialmente e moralmente lo circonda; di conseguenza per divenire sempre più felice>>9.

L’uomo persegue il fine del perfezionamento all’infinito solo insieme ad altri uomini, nella società. Fichte arriva persino a “dedurre” l’esistenza degli altri io empirici, in base al concetto del dovere morale che può essere sollecitato solo dalla presenza, vincolante e stimolante, di altri esseri razionali fuori di noi. Quindi il perfezionamento dell’uomo implica come fine ultimo la “società perfetta”, per realizzare la quale gli uomini si servono dello Stato. Quest’ultimo però non è esso stesso il fine, ma soltanto un mezzo:

<<Il vivere nello Stato no rientra nei fini assoluti del’uomo, ma è soltanto un mezzo, sottoposto a certe condizioni, di

realizzare una società perfetta. Lo Stato con tutte le umane istituzioni che sono soltanto mezzi, tende al proprio

annullamento; è fine di ogni governo di rendere superfluo il governo… Allora in luogo della forza e dell’astuzia, gli

uomini riconosceranno come loro più alta guida soltanto la ragione… Finché questo momento non sarà venuto non

potremo dire di essere veri uomini>>10.

Sia l’idea-limite dell’”estinzione dello Stato”, sia quella sottintesa che gli uomini non abbiano ancora vissuto veramente la loro “storia”, ma si trovino ancora in una sorta di “preistoria”, verranno riprese e approfondite, in un diverso sistema concettuale, dal giovane Marx.

2.5 – La “missione civilizzatrice” della Germania

Con la battaglia di Jena del 14 ottobre 1806 e la successiva occupazione di Berlino da parte delle truppe napoleoniche, la filosofia politica di Fichte si trasforma in senso nazionalistico, dando luogo ai celebri Discorsi alla nazione tedesca (inverno 1807-1808). Si tratta di un capolavoro della letteratura tedesca che ha un intento “pedagogico” (educare alla ragione la maggioranza

9 J. G. Fichte, La missione del dotto, a cura di N. Cappelletti, Le Monnier, Firenze, 1969, pp. 8-12

10 J. G. Fichte, La missione del dotto, cit., pp. 20-21

Horace Vernet, Battaglia di Jena. 14 ottobre 1806 (1836) – Reggia di Versailles

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del popolo tedesco), ma che si sposta ben presto dal piano educativo a quello “nazionalistico”. Infatti, come scrive Fulvio Papi: <<L’atteggiamento di Fichte è sempre quello dell’educatore e la sua missione è più che mai quella di suscitare l’universale. Ma l’universale ora non è il sogno cosmopolitico di una società di ragione. L’universale ora è un popolo: è infatti nel popolo tedesco, come entità etnico-culturale irriducibile ad altre, che deposita in questo tempo, e totalmente, la creatività dello spirito divino. Ed è ai Tedeschi che spetta di iniziare “il periodo dello svolgimento libero e riflesso del genere umano”>>

11.

La nazione tedesca (sulla scia della filosofia della storia e dalla lingua di Herder) viene vista da Fichte come l’unica nazione ad aver mantenuto la propria natura originaria, conservando intatta, e quindi incontaminata, la propria lingua, nella quale si esprime lo spirito e la vitalità del popolo. Il popolo tedesco è quindi un popolo naturalmente spirituale, costituente una vera unità organica, sotto il segno di valori comuni, e non un semplice aggregato di individui. Inoltre, avendo la sconfitta di Jena ridotto i tedeschi al livello più basso, in essi si è estinto di fatto l’interesse per il “benessere materiale”, che rappresenta per Fichte il peccato dell’illuminismo. Quindi la rinascita tedesca non potrà che essere una rinascita spirituale, idealistica, romantica e anti-materialistica. Da qui il progetto educativo nazionalistico portato avanti da Fichte con i Discorsi tenuti nell’anfiteatro dell’Accademia delle scienze di Berlino tra il 1807 e il 1808. Proprio perché i tedeschi sono rimasti con il sangue “puro”, essi rappresentano l’incarnazione dell’Urvolk, un popolo “primitivo”, quindi “il popolo” per eccellenza che, in quanto tale, risulta spiritualmente “eletto” a realizzare “l’umanità tra gli uomini”, diventando modello e forza trainante per gli altri popoli. Questa missione civilizzatrice della Germania è così importante che Fichte, alla fine dell’opera, conclude che, se essa fallisse, perirebbe l’intera umanità.

Ora, anche se nei Discorsi alla nazione tedesca il primato assegnato da Fichte alla nazione germanica non è di tipo politico-militare, ma culturale; anche se il popolo tedesco deve avere come fine ultimo la civilizzazione dell’umanità intera; anche se questa civilizzazione concerne i valori etici della ragione e della libertà, è innegabile che l’influenza storica dei Discorsi si sia esercitata soprattutto nel senso dello sciovinismo tedesco. I concetti di “primato”, “missione”, “popolo integro”, ecc. costituirono, ben al di là dell’idea di “supremazia spirituale” e delle intenzioni patriottiche di Fichte, il repertorio ideologico del razzismo e della politica di potenza del nazismo del Terzo Reich.

3 – Schelling: l’idealismo estetico

11 Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 146

Charles Meynier, Napoleone a Berlino (1810) – Reggia di Versailles

3.1 – Vita e opere Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nacque nel 1775 a Leonberg, nel Würtemberg. Frequentò la scuola teologica di Tübingen, avendo come compagni Hegel e il poeta Hölderlin. Si dedica inizialmente, tra il 1792 e il 1794, agli studi mitologici e di storia delle religioni, mentre, dal punto di vista filosofico, è un fichtiano. Infatti, tra il 1794 e il 1796, pubblica tre opere interpretative e divulgative della filosofia di Fichte: Sull’Io come principio della filosofia, Sulla forma della filosofia in generale e Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo. Rispetto a Fichte, però, Schelling cerca quasi subito di applicare il principio metafisico dell’idealismo alla natura con le opere: Idee per una filosofia della natura (1797) e L’anima del mondo (1798).

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3.1 – La critica del concetto fichtiano di “natura” e l’Assoluto Le origini filosofiche di Schelling sono fichtiane, proprio il Fichte della Dottrina della scienza, che cercava di “completare” il criticismo kantiano dotandolo di quel fondamento che in Kant mancava, ovvero dell’attività libera e creatrice di un Io puro metafisico originario. Schelling, come Fichte, ritiene che i giudizi e le categorie non possano essere pensati se non in relazione all’unità fondante dell’Io, nel quale il giovane Schelling vede una riedizione della sostanza spinoziana passata attraverso la rielaborazione critica del kantismo. La stessa azione morale del soggetto è radicata nell’Io puro che, per renderla possibile, oppone a se stesso un limite, un ostacolo da superare, il non-io o “natura”. Questo schema teorico fichtiano implicava però la necessità di concepire la natura come materialità senza vita, estensione inerte, res extensa che costituiva il necessario polo dialettico dell’Io (res cogitans) e che era coerente con l’implicita filosofia della fisica derivante dalla pratica scientifica in atto nel corso del ‘700: una fisica meccanicistica e una natura matematizzata, codificate dall’epistemologia kantiana. Schelling abbandonerà questo schema teorico fichtiano quando i suoi studi di scienze naturali, in particolare di chimica, gli riveleranno l’inadeguatezza del modello meccanicistico nella comprensione dei fenomeni della natura. L’isolamento dell’ossigeno operato nella nuova chimica dei gas, con Priestley e Lavoisier, forniva una teoria globale delle trasformazioni chimiche. Inoltre, quando nel 1783 Lavoisier mostrò come l’idrogeno e l’ossigeno si combinavano per produrre l’acqua, ritenuta fino ad allora un elemento semplice, riemerse su nuove basi scientifiche il concetto vitalistico di trasformazione. Con la nuova chimica non era più possibile pensare la natura solo in termini di estensione e meccanicismo; riassumeva invece dignità, su nuove basi epistemologiche, una filosofia della natura di tipo neoplatonico-rinascimentale, della natura come totalità organica e vivente, animata da un’intelligenza immanente alla materia e alle diverse forme di vita che da essa si producono. E’ quell’immagine romantica della natura, radicalmente opposta all’immagine meccanicistica di stampo illuminista, tanto cara a Goethe che si servirà di essa come quadro teorico per il repertorio magico, alchemico e occultistico utilizzato nel suo Faust.

Nelle Idee per una filosofia della natura (1797) Schelling tenta un’interpretazione dei risultati scientifici della sua epoca sulla base del criterio dell’unità organica: così come la natura ha una struttura organica, le scienze devono essere ripensate in una sorta di enciclopedia che risponde ad un principio di unificazione.

Tra il 1798 e il 1803, grazie all’appoggio di Goethe, diventa insegnante a Jena; in un primo tempo come coadiutore di Fichte, poi (dal 1799) subentra allo stesso Fichte, costretto alle dimissioni per la polemica sull’ateismo. A Jena Schelling, grazie anche alle frequentazioni con i romantici (Goethe, Schiller, Novalis, i fratelli Schlegel), visse gli anni più fecondi della sua vita intellettuale, dedicandosi alla filosofia della natura e dell’arte, e alla revisione della filosofia trascendentale che doveva essere sussunta nella nuova “filosofia dell’identità” che egli stava elaborando. L’opera fondamentale in cui si condensano queste riflessioni è il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), cui seguono: Esposizione del mio sistema filosofico (1801), Bruno (1802), Filosofia dell’arte (1802). In questi anni collabora con Hegel al “Giornale critico della filosofia”, in polemica con gli avversari dell’idealismo trascendentale, e si distacca definitivamente da Fichte proprio sul concetto di “natura”, considerata semplice “non-io” e teatro dell’azione morale dal fondatore dell’idealismo, dotata invece dello stesso principio che spiega il mondo della ragione e dell’io per Schelling. Dal 1803 al 1806 passò ad insegnare a Würzburg, pubblicando, nel 1804, Filosofia e religione. Quando, nel 1806, la città fu assegnata ad un principe austriaco, dovette abbandonarla e recarsi a Monaco, poiché non fu più possibile la permanenza dei professori protestanti all’Università. A Monaco Schelling abbandona l’insegnamento universitario e diventa prima segretario dell’Accademia di Belle Arti, poi segretario della classe filosofica dell’Accademia delle Scienze. Nel frattempo ruppe anche l’amicizia con Hegel, dopo essere stato attaccato da quest’ultimo nella famosa “Prefazione” alla Fenomenologia dello spirito (1807). Schelling dovette anche assistere, negli anni successivi, al trionfo della filosofia hegeliana e al proprio concomitante declino filosofico. Nonostante il diradarsi della sua attività editoriale, nel 1809 pubblica le Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, divenute ben presto famose. Successivamente i suoi studi si orientano in senso teologico e morale. Tra il 1820 e il 1827 insegna a Erlagen e intraprende un’ampia riflessione filosofica sulla mitologia. Dal 1827 riprende l’insegnamento universitario a Monaco, dove rimane fino al 1841. Nello stesso anno viene chiamato a succedere a Hegel nella cattedra di Berlino, proprio quando si andava profilando in Germania la reazione contro l’hegelismo. Schelling stesso si pose a capo di questa reazione, attraverso l’elaborazione di una “filosofia positiva”, o “empirismo filosofico”, contrapposta ala “filosofia negativa” dell’età moderna, culminata nelle figure di Kant e Hegel. Le sue lezioni di Berlino sono frequentate, tra l’altro da intellettuali come Kierkegaard, Feuerbach e Engels. Morì il 20 agosto 1854 a Bad Ragaz, in Svizzera, dove si era recato per motivi di salute.

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Così i concetti andranno dall’inorganico all’organico, proprio come la stessa legge immanente che opera nella natura:

NATURA INORGANICA: - magnetismo (reciproca gravitazione, e quindi coesione, tra le masse corporee dell’universo) - elettricità (opposizione di forze, polo positivo e negativo, alla base di tutti i processi naturali) - chimismo (processo che fonda, tramite il variare delle proporzioni, la metamorfosi dei corpi)

NATURA ORGANICA: - sensibilità (polarità di piacere e dolore) - irritabilità (reattività agli stimoli esterni) - riproduzione (metamorfosi continua di vita e morte)

Come si può notare, a tutti i livelli della natura opera un unico principio che Schelling individua nella polarità originaria di attrazione e repulsione, elevata a legge universale del cosmo. Però, ciò che a livello fenomenico appare come polarità e opposizione, a livello di intelligibilità unitaria di tutta la natura, come un unico essere vivente, quel principio si manifesta come “anima del mondo”, capace di comprendere in sé tutti gli opposti (polo positivo/polo negativo, equilibrio/squilibrio, vita/morte…) di una natura dinamica e in continua metamorfosi. La rinascimentale e neoplatonica anima mundi diventa, nell’idealismo schellinghiano, un’intelligenza inconscia che percorre tutti i gradi del processo naturale, fino a diventare consapevole di sé nell’uomo. Questo è forse l’aspetto più interessante della filosofia della natura di Schelling che tenta di ricostruire razionalmente un duplice processo: - da un lato, in che modo la vita, latente nella materia inorganica, percorrendo gli innumerevoli gradi della realtà naturale (tramite magnetismo, elettricità e chimismo), si manifesta nei vegetali e negli animali; - dall’altro, come lo spirito, percorrendo inconsciamente, come “addormentato”, i gradi inferiori della natura, si “svegli” nel suo più complesso prodotto, l’uomo, rendendosi presente a se stesso. Così possiamo dire, con Schelling, che <<la natura è spirito visibile, lo spirito natura invisibile>>; ovvero che l’Io fichtiano (spirito) non deve assolutamente essere concepito come contrapposto alla natura, ma che natura e spirito sono i poli di una profonda unità che Schelling chiama anche Identità o Assoluto, dove si risolvono tutte le opposizioni tra soggetto e oggetto, spirito e materia, io e natura.

L’io diventa pienamente consapevole di sé solo al termine del processo di trasformazione della natura, in cui si trova l’uomo, nel quale assume la forma di quell’intelligenza che consente di assumere, nella conoscenza, la natura (e quindi se stesso) a proprio oggetto di studio e di contemplazione.

Questo processo è mirabilmente rappresentato nell’opera di Philipp Otto Runge, in cui il busto della madre, che apparentemente si distacca dal viluppo di fronde, acqua e fiori della sorgente, tiene in braccio un bambino che si riflette nella fonte. Continuando ad osservare il quadro, però, si ha sempre più la percezione che la sorgente altro non sia che la madre stessa (la mitologica “madre-natura”),

dalla quale l’uomo-bambino sorge e nella quale si “rispecchia”.

Philipp Otto Runge Madre e bambino

alla sorgente (1804)

Hamburger

Kunsthalle

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Così, in proposito, si esprime Schelling nell’Introduzione alle idee per una filosofia della natura:

<<Se racchiudiamo la natura in una totalità, si trovano di fronte il meccanismo, cioè una serie di cause ed effetti che

scorre dall’alto in basso, e il finalismo, cioè l’indipendenza dal meccanismo, la contemporaneità di cause ed effetti. Se

raccogliamo insieme anche questi estremi, sorge in noi l’idea di una finalità del Tutto: la natura diviene un circolo che

scorre su se stesso, un sistema chiuso in se stesso. La serie delle cause e degli effetti scompare completamente e genera

una relazione reciproca di mezzo e fine: il singolo non potrebbe esistere senza il tutto, né il tutto potrebbe divenire

effettivamente reale senza il singolo.

Ora, questo assoluto finalismo della totalità della natura è un’idea che pensiamo non arbitrariamente, ma

necessariamente. Ci sentiamo spinti a riferire ogni singolo a tale finalità del tutto; quando troviamo nella natura

qualcosa che sembra essere senza scopo o addirittura contrario ai fini, crediamo che sia rotta l’intera economia delle

cose, e non ci diamo pace finché l’apparente mancanza di finalità non ci appaia conforme a scopi da altri punti di vista. È dunque una massima necessaria della ragione riflettente che nella natura si debba dovunque presupporre un rapporto

di fine e mezzo... E appunto perciò procediamo, con piena fiducia nell’accordo della natura con le massime della nostra

ragione riflettente, dalle leggi speciali e subordinate alle leggi universali e più elevate...

Che è dunque quel legame segreto che unisce il nostro spirito con la natura, o quell’organo nascosto in virtù del quale la

Natura parla al nostro spirito o il nostro spirito alla Natura?... lo spiegare questa finalità dicendo che un intelletto divino

ne è l’autore non è filosofare, ma fare pie considerazioni. Con ciò ci avete spiegato tanto come niente: perché noi non

vogliamo sapere come sia nata tale natura fuori di noi, ma come anche l’idea di tale natura sia venuta in noi; e non come

l’abbiamo arbitrariamente prodotta, ma come e perché essa originariamente e necessariamente stia a fondamento di

tutto ciò che la nostra specie ha sempre pensato sulla natura. Infatti l’esistenza di tale natura fuori di me non ne spiega

l’esistenza in me: e se ammettete che fra l’una e l’altra ci sia un’armonia prestabilita – è proprio questo l’oggetto del

nostro problema… La natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito la Natura invisibile [grassetto

dell’autore]>>12.

Io e natura sono dunque i poli di una Unità originaria. <<Ma, dato che nel processo della conoscenza soggetto e oggetto debbono necessariamente essere contrapposti, una cattiva filosofia ne fa due entità opposte. Nasce così un falso idealismo che coglie la soggettività dell’io al di fuori dell’unità metafisica da cui emerge. Vi è un falso materialismo che coglie la materia al di fuori del processo spirituale che la costituisce. Entrambe sono forme della riflessione che atrofizzano il pensiero e gli impediscono l’accesso al luogo dove ogni opposizione (…) viene risolta come una forma di polarità dell’Identità, dell’Assoluto>>

13.

3.2 – Analisi trascendentale e filosofia dell’identità

Nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) Schelling si propone di delineare una filosofia dello spirito che avrebbe dovuto costituire la controparte della filosofia della natura nel quadro del suo sistema. Se la filosofia della natura partiva dall’oggetto per risalire al soggetto, dalla materia per risalire alla forma (dove le leggi dell’oggetto si ritrovano nel soggetto), la filosofia trascendentale parte dal soggetto per derivare il mondo oggettivo, dalla forma alla materia (in cui si ritrovano le stesse leggi del soggetto), ovvero il farsi natura dello spirito. Il compito della filosofia trascendentale di Schelling è quindi analogo a quello affrontato da Fichte nella Dottrina della scienza, ovvero la “deduzione” della materia dall’io. Il punto di partenza è l’autocoscienza, articolantesi in attività reale (in cui l’Io, ponendosi, incontra il limite e risulta pertanto limitabile) e attività ideale (in cui l’Io, autoproducendosi, supera ogni limite, risultando illimitabile). Queste due attività sono alla base del divenire dell’Io attraverso tre “epoche”:

- Prima epoca: dalla sensazione all’intuizione produttiva (dove l’io si avverte come senziente) - Seconda epoca: dall’intuizione produttiva alla riflessione (intelligenza di sé) - Terza epoca: dalla riflessione alla volontà (intelligenza che si autodetermina)

Schelling si sforza continuamente di mostrare come, nelle varie epoche, alle categorie dell’Io corrispondano le varie forze della natura, le categorie della fisica in particolare. Ma come è possibile che nella sensazione e nella coscienza comune l’oggetto, prodotto dal soggetto, appare provenire da un mondo esterno all’io, come “cosa in sé”? Anche in questo caso la risposta di Schelling è analoga a quella di Fichte: attraverso una “produzione inconscia” (corrispondente all’”immaginazione produttiva” di Fichte) l’Io genera i propri oggetti che, in seguito, pensa come delle cose in sé. Al di là di Fichte è invece la soluzione a quello che Schelling ritiene <<il più elevato compito della filosofia trascendentale>>: in che modo (secondo la prospettiva gnoseologica) le rappresentazioni possono essere

12

F. W. J. Schelling, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in L’empirismo filosofico e altri scritti, a cura

di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1967, pp. 45-47 13 Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 152

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pensate come determinate dagli oggetti e, al tempo stesso (secondo la prospettiva pratica) gli oggetti come determinati dalle rappresentazioni del soggetto? Per Schelling non è possibile pensare in che modo in mondo oggettivo può accomodarsi alle forme del soggetto e queste al mondo oggettivo, senza supporre che tra i due mondi esista una leibniziana <<armonia prestabilita>>, ovvero un parallelismo tra strutture dell’io e strutture della natura. Un parallelismo che diventa essenziale per poter pensare i fenomeni biologici, caratterizzati (contrariamente ai fenomeni oggetto della fisica) dal “finalismo”. Mentre nei fenomeni puramente fisici il collegamento tra le parti avviene attraverso una serie temporale pensata secondo rapporti di causa-effetto, nei fenomeni biologici le parti si relazionano in rapporto al tutto, all’organismo che si auto-organizza. <<L’idea di finalità è rappresentabile in un intelletto, ma il finalismo è oggettivo: una pianta, per esempio, non è un’unità logica, ma reale. L’idea di una finalità dell’organismo è nel soggetto ma deve essere rappresentata come esterna al soggetto, come inerente ad una realtà oggettiva. Ciò è possibile solo in quanto nell’io stesso si riproduce tutta la struttura della natura. La finalità, categoria di una scienza come la biologia, fonda questa scienza proprio in quanto è contemporaneamente soggettiva ed oggettiva>>

14.

Tutto ciò è possibile perché, come abbiamo già visto, l’Io o Spirito, pur essendo sempre (idealisticamente) attività libera, nella “creazione” del mondo oggettivo è produttivo in modo inconscio, mentre nell’agire morale è produttivo in modo conscio. La consapevolezza dell’identità tra produttività conscia e produttività inconscia è la consapevolezza dell’Identità o Assoluto, di cui Io e natura costituiscono le polarità. Questa consapevolezza, però, non può essere oggetto di una conoscenza analitica, ovvero di un sapere di tipo scientifico, capace solo di riprodurre la situazione dicotomica di un soggetto che descrive un oggetto. L’unica forma di sapere di questa Identità è l’”intuizione intellettuale” (già utilizzata da Kant nella Critica del giudizio, a proposito dell’idea di un finalismo della natura). Così come la riflessione coglie la parte, l’intuizione afferra il tutto, l’Assoluto.

3.3 – L’arte come “organo” della filosofia

L’intuizione però, pur fornendoci un’immagine intellettuale dell’Assoluto, non può produrre una sintesi di soggetto e oggetto. Una sintesi finita di soggetto e oggetto, di conscio e inconscio, di spontaneità e tecnica è data dall’arte: organo di rivelazione dell’Assoluto. Infatti l’artista, non solo produce in un oggetto ciò che il filosofo pensa nella forma del concetto, ma nella creazione estetica egli agisce in preda ad un impulso e ad un entusiasmo inconsapevoli, facendo sì che la sua opera risulti come la sintesi di un momento conscio e riflessivo (l’esecuzione tecnica) e di un momento inconscio e spontaneo (l’ispirazione).

14 Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, cit., p. 154

Caspar David Friedrich, La grande riserva (1832) - Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda

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Nel dipinto di Friedrich, le calme acque dell’Elba, straripate nella palude di Ostra, gli ampi prati verdi sullo sfondo, interrotti qua e là dalla presenza di alberi, il basso orizzonte sopra il quale si staglia un cielo dai colori tenui del crepuscolo, trasmettono, al tempo stesso, un senso di armonia e nostalgia. L’armonia insita nel finalismo della natura e la nostalgia dell’infinito, espressa dalla linea di luce dell’orizzonte che, insieme alla disposizione delle nuvole, conduce l’occhio ad allontanarsi al di là dell’orizzonte stesso. La flebile presenza umana (segnalata da una piccola vela accostata alla riva) sembra volersi inserire delicatamente nel contesto del quadro, senza disturbare quel senso di “materna serenità” che la natura offre all’individuo disposto a nutrirsene. Così l’artista riesce, con grande perizia tecnica (momento conscio), ad esprimere sentimenti profondi (momento inconscio) non completamente analizzabili con l’intelletto, come la nostalgia, la malinconia e un sentimento panico di fusione con la pace e l’armonia della natura. Al tempo stesso, con una materia finita e sensibile, l’artista riesce ad esprimere il sentimento dell’infinito.

L’arte è l’organo della filosofia poiché il prodotto artistico è una rappresentazione finita e sensibile dell’infinito e la bellezza è <<l’infinito espresso in modo finito>>. Nella parte conclusiva del Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) possiamo leggere che:

<<Se l’intuizione estetica non è se non la intellettuale divenuta obbiettiva, s’intende di per sé che l’arte sia l’unico vero

ed eterno organo e documento insieme della filosofia, il quale sempre e con novità incessante attesta quel che la filosofia non può rappresentare esternamente, cioè l’inconscio nell’operare e nel produrre, e la sua originaria identità col

cosciente. Appunto per ciò l’arte è per l filosofo quanto vi ha di più alto, perché essa gli apre quasi il santuario, dove in

eterna ed originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato, e quello che nella

vita e nell’azione, come nel pensiero, deve fuggire sé eternamente. La veduta, che artificiosamente si fa della natura il

filosofo, è per l’arte la originaria e naturale. Ciò che noi chiamiamo natura, è un poema, chiuso in caratteri misteriosi e

mirabili. Ma se l’enigma si potesse svelare, noi vi conosceremmo l’odissea dello spirito, il quale, per mirabile illusione,

cercando se stesso, fugge se stesso; infatti si mostra attraverso il mondo sensibile solo come il senso attraverso le parole,

solo come, attraverso una nebbia sottile, quella terra della fantasia, alla quale miriamo. Ogni splendido quadro nasce

quasi per il fatto che si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale dall’ideale, e non è se non l’apertura,

attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le regioni di quel mondo della fantasia, il quale traluce

solo imperfettamente attraverso quello reale. La natura per l’artista è non più di quello che è per il filosofo, cioè solo il

mondo ideale che apparisce tra continue limitazioni, o solo il riflesso imperfetto di un mondo che esiste, non fuori di lui, ma in lui>>15.

Inoltre questo mondo ideale, che il “genio” oggettiva tecnicamente in forme finite, essendo il risultato di un’ispirazione infinita e in gran parte inconscia, è portatore di un’infinità di significati, e quindi di possibili interpretazioni che trascendono l’intenzione stessa dell’artista.

<<L’opera d’arte ci riflette l’identità dell’attività cosciente e dell’inconscia. Ma l’antitesi tra queste due attività è

infinita, e vien volta senza il minimo concorso della libertà. Il carattere fondamentale dell’opera d’arte è dunque una

infinità inconscia [sintesi di natura e libertà]. Sembra che l’artista abbia nell’opera sua, all’infuori di quanto vi ha messo con palese intenzione, rappresentata istintivamente quasi un’infinità, che nessun intelletto finito è capace di

sviluppare interamente. Per render chiaro il nostro pensiero con un solo esempio, la mitologia greca, la quale è

innegabile che racchiuda in sé un senso infinito e simboli per tutte le idee, è nata in mezzo a un popolo e in una

maniera, che rendono ambedue impossibile il supporre una generale intenzionalità nell’invenzione e nell’armonia, con

cui ogni cosa è riunita in un grande insieme. Così è di ogni vera opera d’arte, in quanto ciascuna, come se vi fosse

un’infinità d’intenzioni, è capace di un’interpretazione infinita, dove non si può ben dire se questa infinità si sia trovata

nell’artista medesimo, o si trovi soltanto nell’opera d’arte>>16.

Così come l’“Artista cosmico” (l’Assoluto) genera le innumerevoli cose finite con forza infinita e in modo conscio/inconscio al tempo stesso, l’artista umano, generando consciamente/inconsciamente opere finite con infiniti significati, si configura come il più riuscito rappresentante dell’Assoluto su questa Terra. E’ per questo motivo che l’idealismo di Schelling, costituendo la miglior giustificazione filosofica dell’esaltazione romantica del valore dell’arte, può essere definito, a ragione, “idealismo estetico”.

15 F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari, 1965, p. 301 16 F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, op. cit., p. 293

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L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO

PAROLE CHIAVE

Assoluto: principio metafisico della realtà nell’Idealismo di Schelling, consistente in una profonda unità di

natura e spirito, che il filosofo chiama anche Identità, dove si risolvono tutte le opposizioni tra soggetto e oggetto, spirito e materia, io e non-io.

Finito: singoli fenomeni naturali, singoli fatti storici, singoli individui.

Identità: vedi Assoluto

Immaginazione produttiva: l’atto attraverso cui (secondo Fichte) l’Io produce inconsciamente il non-

io, ovvero i materiali stessi della conoscenza, il mondo fenomenico.

“Intuizione intellettuale”: per Schelling, l’unica forma di sapere dell’Identità (già utilizzata da Kant

nella Critica del giudizio, a proposito dell’idea di un finalismo della natura): così come la riflessione coglie la parte, l’intuizione afferra il tutto, l’Assoluto.

“Io puro infinito”: principio metafisico della realtà, per il fondatore dell’idealismo tedesco (Fichte), inteso

come “Soggettività assoluta”, spirituale e libera, derivante dalla metamorfosi dell’Io penso kantiano, che trapassa dal piano gnoseologico al piano ontologico.

“non-io”: mondo (o natura) posto dall’Io puro infinito (Fichte) e opposto all’Io, caratterizzantesi in modo ad

esso antitetico: necessità, passività, molteplicità, materialità, finitezza e “meccanicismo”.

“Prometeismo”: vedi “Titanismo”

Sehnsucht : stato d’animo caratteristico dei romantici, caratterizzato da una “brama appassionata”,

un’aspirazione struggente verso mete senza confini (l’infinito, la libertà, la felicità...) che continuamente sfuggono.

Sollen : “dover essere”, dovere etico, “imperativo categorico” di trasformazione della realtà per elevarla

gradualmente dal piano empirico a quello della ragione e della libertà.

Streben : sforzo, tensione, aspirazione verso l’infinito, tendenza inesauribile a superare i limiti della

propria finitudine. Si tratta di un’aspirazione che dà luogo ad una ricerca senza fine, poiché al finito non è dato strutturalmente di appropriarsi dell’infinito.

“Titanismo”: atteggiamento di sfida e ribellione (nei confronti della società, del destino, della natura…)

accompagnato sempre, però, dal sentimento della sconfitta di chi è consapevole dell’impossibilità di trascendere completamente le barriere del finito. È detto anche “prometeismo” perché i romantici lo

personificano nel mitico titano greco Prometeo, il quale, avendo rotto l’ordine fatale del mondo per donare

agli uomini il fuoco, viene condannato da Zeus ad avere perennemente il fegato divorato da un’aquila.

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L’IDEALISMO ROMANTICO TEDESCO

BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA

Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Vol. 3, Zanichelli, BO, 1982

Abbagnano-Fornero, La filosofia, vol. 2B, Paravia, MI-TO, 2010

De Bartolomeo-Magni, I sentieri della ragione, vol. 2°, ATLAS, Bergamo, 2006

J. G. Fichte, Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, trad. di A. Tilgher, Laterza, Bari, 1971

J. G. Fichte, La missione del dotto, a cura di N. Cappelletti, Le Monnier, Firenze, 1969

F. W. J. Schelling, Introduzione alle idee per una filosofia della natura, in L’empirismo filosofico e

altri scritti, a cura di G. Preti, La Nuova Italia, Firenze, 1967

F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di G. Semerari, Laterza, Bari, 1965