Colli - Filosofi Sovrumani

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PICCOLA BIBLIOTECA ADELPHI 584 DELLO STESSO AUTORE: Dopo Nietzsche Filosofia dell'espressione Gorgia e Parmenide La nascita della filosofia La natura ama nascondersi La ragione errabonda La sapienza greca, I La sapienza greca, II La sapienza greca III Una enciclopedia di autori classici Platone politico Scritti su Nietzsche Zenone di Elea Giorgio Colli FILOSOFI SOVRUMANI ADELPHI EDIZIONI A cura di Enrico Colli 2009 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.IT ISBN 978-88-459-2365-4 «Nel VI secolo interviene un fattore nuovo a trasformare in modo decisivo la vita spirituale della Grecia, cioè il fenomeno cosiddetto dionisiaco ... il fenomeno dionisiaco è stato prevalentemente studiato nel suo aspetto artistico e religioso, e quasi mai si è analizzata la sua relazione sostanziale con l’intera evoluzione spirituale greca, e soprattutto con la filosofia. Con un termine più filosofico si può chiamare misticismo questo movimento; mentre sin qui l’uomo aveva guardato il mondo e in questo aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità, e ricercando in se stesso vi trova il mondo e la divinità. Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni del mondo antitetiche, una politica e una mistica: dall’urto di queste forze nasce il miracolo della filosofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fondamentale, sviluppandola e giustificandola sui testi dei Presocratici e di Platone». Sarebbe difficile trovare parole migliori di quelle dello stesso Colli per presentare questo suo scritto, rimasto fino a oggi inedito. Un’opera che soltanto dal punto di vista meramente cronologico si può definire giovanile, poiché già contiene in forma compiuta e matura interpretazioni ricorrenti in tutto il suo percorso filosofico. Interpretazioni che, esposte qui in forma più accessibile e diretta che altrove, sono ancora oggi tanto misconosciute quanto fondamentali per «comprendere nella sua essenza l’origine della filosofia greca». INDICE Nota del Curatore 9 FILOSOFI SOVRUMANI I PRESOCRATICI 21 i. Introduzione 23

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La tesi laurea di Giorgio Colli

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PICCOLA BIBLIOTECA ADELPHI584

DELLO STESSO AUTORE: Dopo Nietzsche Filosofia dell'espressioneGorgia e Parmenide La nascita della filosofia La natura ama nascondersi La ragione errabonda La sapienza greca, I La sapienza greca, IILa sapienza greca IIIUna enciclopedia di autori classici Platone politico Scritti su Nietzsche Zenone di Elea

Giorgio Colli FILOSOFI SOVRUMANIADELPHI EDIZIONIA cura di Enrico Colli

2009 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO WWW.ADELPHI.ITISBN 978-88-459-2365-4

«Nel VI secolo interviene un fattore nuovo a trasformare in modo decisivo la vita spirituale della Grecia, cioè il fenomeno cosiddetto dionisiaco ... ilfenomeno dionisiaco è stato prevalentemente studiato nel suo aspetto artistico e religioso, e quasi mai si è analizzata la sua relazione sostanziale conl’intera evoluzione spirituale greca, e soprattutto con la filosofia. Con un termine più filosofico si può chiamare misticismo questo movimento; mentresin qui l’uomo aveva guardato il mondo e in questo aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità, e ricercandoin se stesso vi trova il mondo e la divinità. Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni del mondo antitetiche, una politica e una mistica:dall’urto di queste forze nasce il miracolo della filosofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fondamentale, sviluppandolae giustificandola sui testi dei Presocratici e di Platone». Sarebbe difficile trovare parole migliori di quelle dello stesso Colli per presentare questosuo scritto, rimasto fino a oggi inedito. Un’opera che soltanto dal punto di vista meramente cronologico si può definire giovanile, poiché già contienein forma compiuta e matura interpretazioni ricorrenti in tutto il suo percorso filosofico. Interpretazioni che, esposte qui in forma più accessibile ediretta che altrove, sono ancora oggi tanto misconosciute quanto fondamentali per «comprendere nella sua essenza l’origine della filosofia greca».

INDICE

Nota del Curatore 9

FILOSOFI SOVRUMANI

I PRESOCRATICI 21i. Introduzione 23

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II. Anassimandro 33III Eraclito 36IV. Parmenide 53V. Empedocle 71

LA FORMAZIONE GIOVANILE DI PLATONE 91I. Socrate 94II. La nascita del mondo delle idee 103III. Il Fedro 119IV. Il Simposio 133V. Trionfo della politicità 140

Note 151Sigle e abbreviazioni 161Indice dei nomi e delle fonti 167

NOTA DEL CURATORE

Prosegue la pubblicazione degli scritti giovanili di Giorgio Colli (1917-1979) con questo secondo lavoro, sinora inedito, dal titolo originale di Filosofi sovrumani. Scritto nella primavera del 1939 andò a costituire la prima parte della Tesi di laurea di Colli, discussa a Torino con Gioele Solari l'11 luglio 1939. La seconda parte della Tesi era il testo scritto due anni prima, nel 1937, e pubblicato nella «Nuova rivista storica» nei fascicoli III e IV del 1939 - Lo sviluppo del pensiero politico di Platone -, che ho ripubblicato nel 2007 sempre presso Adelphi col titolo sintetico Platone politico. La Tesi era poi completata da una terza parte, Il problema della cronologia platonica, anch'essa inclusa all'interno del dattiloscritto di Filosofi sovrumani come appendice. La presente edizione, che non comprende l'appendice sulla cronologia platonica, è basata sul materiale che descrivo in dettaglio alla fine di questa nota e che è conservato nell'Archivio Giorgio Colli di Firenze. Come ho già detto nella nota a Platone politico, mi è sembrato preferibile pubblicare separatamente i due scritti principali poi confluiti nella Tesi sia perché composti a due anni di distanza, sia per l'oggettivo diverso carattere dei testi. A partire dall'estate 1937, terminato il Platone politico, Colli rielabora i suoi pensieri: continua lo studio di Platone e si dedica a quello dei Preso- 9cratici sulla base dei testi e della letteratura specialistica, ma filtra gli antichi Greci attraverso la lettura di Nietzsche e di Schopenhauer - e per suo tramite delle Upanishad. Questo allargamento e approfondimento dei temi del primo lavoro trova riscontro nel secondo piano-sommario (C 1.3), che ho già pubblicato in appendice a Platone politico, e che documenta l'organizzazione del suo pensiero di quegli anni; e precisamente nel punto II: «Lato mistico e lato politico nei Presocratici», e nel punto III: «La formazione della filosofia di Platone dal suo impulso politico». In questo secondo piano-sommario Colli vede nei pensatori greci arcaici «il contrasto tra pura interiorità che li spinge al misticismo ed impulso ad esprimersi politicamente che fa loro creare i loro sistemi filosofici... La logica di Parmenide è un tentativo politico, un modo di esprimere in modo comprensibile il contenuto mistico della sua dottrina in sé incomunicabile». D'altro lato sente rispecchiata questa duplicità nella «contrapposizione tra apollineo e dionisiaco posta da Nietzsche nello studio dell'arte greca», anche se si distacca dal filosofo tedesco non solo nell'interpretazione dell'apollineo come impulso politico di cui si è detto sopra, ma soprattutto del dionisiaco, che nella sua espressione massima resta riservato ai conoscitori e non agli artisti. Anche in Platone trova, in particolare nel Fedone e nella Lettera VII, il «lato mistico ... che costituisce la sua parte più intima - parte che egli tiene però al massimo nascosta perché non potrebbe neppure esprimere e non sarebbe comunicabile», contrapposto alla sua filosofia, che dell'interiorità è l'espressione razionale «con cui può es-

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10sere fondato uno Stato in cui tutti vivano filosoficamente».Questi studi ulteriori - ne rimangono soltanto pochi fogli di appunti (C 1.4) - inizialmente erano concepiti come base di un testo da integrare nel Platone politico sulla falsariga del secondo piano, ma acquistano col tempo una propria autonomia, si differenziano, nel tono e nei risultati, ma anche nello stile, dal lavoro precedente, e vanno a costituire il suo secondo lavoro: Filosofi sovrumani. La prima stesura manoscritta di Filosofi sovrumani è datata 8-10 marzo - 24 maggio 1939, la seconda stesura dattiloscritta non è datata, ma è sicuramente di poco successiva, dato che, come si è detto, Colli discusse la sua Tesi l'11 luglio.Filosofi sovrumani - il cui titolo richiama Nietzsche, ma risente forse anche della suggestione del passo aristotelico della Metafisica in cui il possesso della scienza dei princìpi, della sapienza, viene detto sovrumano (Metafisica, 982 b 29-30) è, rispetto a Platone politico, un testo rivolto all'interiorità: si assiste all'irruzione del pensiero mistico (Upanishad, Böhme, Giordano Bruno) e della prospettiva nietzscheana di La nascita della tragedia - sia pure rivisitata -, ma soprattutto all'affermazione della necessità di retrodatare l'akmé del pensiero greco all'età dei Presocratici (fra cui, in questo scritto, fa rientrare anche Platone nel suo aspetto esoterico), dei pensatori «sovrumani» che molti anni dopo chiamerà «sapienti». L'opera tratta alcuni degli argomenti di La natura ama nascondersi, posteriore di nove anni, e anzi, come preciso oltre, certi passi su Platone ne costituiscono una prima stesura. E' tuttavia più 11accessibile, più diretta, anche più scoperta e sicuramente molto meno tecnica dell'opera successiva. E ancora: pur nel suo essere così giovanile, contiene molte idee, molte interpretazioni che ritroveremo in seguito in tutta l'opera di Colli. Nelle mie note ho cercato di esplicitare questo aspetto con rimandi, su temi o spunti specifici, alle opere posteriori. Ne sottolineo qui uno per tutti: in Filosofi sovrumani il misticismo è rivendicato come il raggiungimento conoscitivo massimo; ancora molti anni più tardi, nel Dopo Nietzsche, Colli tornerà a insistere su questa posizione, nell'aforisma dal titolo Una parola malfamata: «Oggi, come ieri, la parola "mistico" ha un brutto suono: si arrossisce o ci si adombra nel ricevere questa designazione. La buona società dei filosofi non ammette tra i suoi membri chi porta tale nome, per una ragione di etichetta, lo proscrive. Anche i più liberi, come Nietzsche e Schopenhauer, respingevano questo nome. Eppure "mistico" significa soltanto "iniziato", colui che è stato introdotto da altri o da se stesso in un'esperienza, in una conoscenza che non è quella quotidiana, non è alla portata di tutti. E' pacifico che non tutti possono essere artisti, non si trova nulla di strano in questo. E perché tutti potrebbero essere filosofi? La stessa comunicabilità universale, come carattere della ragione, è un pregiudizio, un'illusione. I meandri più sottili, tortuosi e penetranti della ragione, in Aristotele, non sono ancora stati esplorati, afferrati dopo ventiquattro secoli. Anche il razionalismo è mistico. E in genere "mistico" va rivendicato come epiteto onorifico».12In dettaglio, ho tenuto conto dei seguenti materiali, classificati nella sezione 1 dell'Archivio:C I Materiale preparatorio manoscritto (utilizzato anche per Ppol) :1.3: 1 foglio doppio ripiegato, ms. a lapis fronte-retro, con un secondo piano-sommario (1938).1.4: 2 fogli doppi ripiegati, ms. a lapis fronte-retro con appunti sul Simposio e sul Fedro. 1 foglio ms. a lapis fronte-retro con un lungo appunto su Presocratici-Socrate-Platone (1938).D I Manoscritto di Filosofi sovrumani:1.1: gruppo di 25 fogli doppi ripiegati, ms. a lapis fronte-retro: 1 foglio con frontespizio generale: Filosofi sovrumani, datato 8-10 marzo 24 maggio 1939 + 1 foglio con frontespizio parte prima: Mistica e politica nei Presocratici e 9 fogli con pagine numerate da 1 a 33 + 7 fogli con pagine numerate da 1 a 28 costituenti la parte seconda + 3 fogli con pagine numerate da 1 a 12 costituenti l'Appendice:

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Il problema della cronologia platonica + 4 fogli con le note. 1.2: 1 foglio piccolo, ms. a lapis con passi della Lettera VII di Platone.DII Dattiloscritti:II. 1: dattiloscritto in copia carbone del successivo D II.2, solo fronte, con rilegatura originale: 1 frontespizio +140 fogli numerati + Indice, non datato. Con greco autografo a penna e correzioni a lapis. I 140 fogli contengono: da 2 a 120, il testo definitivo di Filosofi sovrumani; da 121 a 140 il testo dell'Appendice Il problema della cronologia platonica. 13II.2: dattiloscritto in prima battitura, con rilegatura originale, identico al precedente tranne per l'Indice, che manca. Con greco autografo a penna. Questo dattiloscritto, per la parte riguardante il Fedone, il Fedro e il Simposio, da p. 77 a p. 110, integrato da molte aggiunte, correzioni, vaste integrazioni e cancellature, tutte databili al 1946-47, costituisce una sorta di prima stesura della parte corrispondente di PHK I pochi passi originali del 1939 che confluirono in PHK sono segnalati nelle note.E Tesi di laurea: dattiloscritto in copia carbone solo fronte, rilegato successivamente. Tre frontespizi + 307 fogli numerati da 1 a 307 + 2 fogli con l'Indice. Raccoglie Filosofi sovrumani, Lo sviluppo del pensiero politico di Platone con le correzioni di cui al dattiloscritto C III e II problema della cronologia platonica.Il testo su cui si basa la presente edizione è quello del dattiloscritto D 1.1. E' stato confrontato col manoscritto preparatorio, con il dattiloscritto D 1.2 e con quello della Tesi di laurea. Le poche varianti significative rispetto al manoscritto e agli altri dattiloscritti sono riportate in nota. La suddivisione in capitoli, così come i relativi titoli, è quella originale. Non ho ritenuto utile pubblicare anche l'appendice // problema della cronologia platonica perché espone, sia pure in forma meno compiuta, i risultati che saranno poi riportati nel cap. VIII di PHK «Sulla composizione degli scritti platonici», cui si rimanda. Ho adottato due tipi di notazioni: quelle a pie di 14pagina, segnalate da lettere, sono originali dell'autore; quelle al termine del volume, segnalate da numeri, sono mie note di edizione. Ho traslitterato i pochi passi in greco in testo ove non lo fossero già nell'originale, mentre li ho mantenuti nelle note. Le traduzioni dal greco sono originali di Colli. Ho aggiornato i rimandi bibliografici e corredato il volume di Sigle e abbreviazioni e di Indice dei nomi e delle fonti. 15

FILOSOFI SOVRUMANI

«ma i più non si accorgono che è possedutoda un dio»PLATONE, Fedro, 249 d (1)

I PRESOCRATICI 21Introduzione

Quando in uno studio sull'Ellenismo si voglia parlare di politica, bisogna anzitutto mettere in chiaro cosa si vuol dire con questa espressione. (2) Attività politica per il Greco non è semplicemente l'occuparsi direttamente degli affari dello Stato, ma significa in senso amplissimo ogni forma di espressione, ogni estrinsecazione nella pòlis della propria personalità. Politico non è solo l'uomo che partecipa all'amministrazione pubblica, ma ogni cittadino libero che in un modo o nell'altro ha una sua funzione nella vita della pòlis, e sopra ogni altro lo è colui che agisce come educatore dei giovani nella città, come il poeta o il filosofo, i quali più di tutti influiscono profondamente sulla formazione della

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spiritualità della pòlis. Politiche diventano quindi tutte le attività spirituali dell'uomo; arte, religione e filosofia: non è concepibile nel mondo greco (3) un religioso che dalla sua vita interiore sia condotto all'ascetismo, in modo da abbandonare completamente ogni convivenza con altri, come pure non esistono poeti che scrivano i loro versi per la posterità, senza curarsi di influire sulla pòlis o tutt'al più sui contemporanei.La religione olimpica, per esempio, nasce proprio da questa interpretazione politica di tutte le cose. Il Greco, uscendo dalla limitazione della sua città, vede altre città greche e barbare e poi, 23abbracciando tutto con un sol colpo d'occhio, vede il mondo intero; ma allo stesso momento che lo intuisce come unità, non può concepire che non sia esso pure una pòlis. Questa però non può essere una pòlis formata di uomini, poiché egli non vorrebbe neppur vivere in uno Stato (4) che occupi un territorio esteso quanto la terra, dal momento che quivi la vita in comune, condizione politica indispensabile, non esisterebbe più, e d'altra parte egli è convinto che l'uomo, per sua natura limitato, non può vivere che in una pòlis limitata. Il mondo sarà quindi una città formata da dèi, che non sono altro per la religione omerica che uomini infinitamente più potenti, i quali realizzano le loro individualità nel cielo o su tutta la terra, invece che nella pòlis. Quasi tutta la poesia, alla sua volta, rientra in questo vasto concetto di politica: Omero era considerato dai Greci, sino a Platone e ad Alessandro Magno, come l'educatore per eccellenza, Callino, Tirteo e Solone esortavano con i loro versi alla virtù politica, Alcmane educava le vergini spartane al canto e alla danza, e tutta l'attività poetica di Aristofane è una lotta contro la democrazia. Lo Stato stesso riconosceva all'arte questa funzione politica: Atene pagava i suoi cittadini perché assistessero alle tragedie e si educassero. Per il moderno è difficile cogliere questo significato di politica, poiché al giorno d'oggi lo Stato è una cosa completamente diversa dalla pòlis greca, e la sfera d'azione politica è quindi ora per l'individuo ben distinta da quella morale. La pòlis greca ha un'ampiezza tale che sino ai suoi confini ogni cittadino può esplicare concretamente la sua vita morale, può entrare in rappor-24to con gran parte dei suoi concittadini, può conoscere la sua patria nella sua immediatezza, abbracciarla tutta insomma con i suoi occhi. Morale e politica vengono così a coincidere, tanto più che tra individuo e pòlis non esistono campi d'azione veramente importanti: la famiglia fu sempre svalutata in Grecia, e il diritto privato in genere manca di un'autonomia sufficiente. Questo carattere di politicità è quello che salta agli occhi di tutti quanti si accostano alla grecità; questo lato fece parlare Goethe e Winkelmann della famosa serenità greca. Eppure esso non basta a spiegare nella sua essenza il fenomeno spirituale ellenico, e soprattutto non spiega di per sé solo la creazione massima della grecità, la filosofia. E' vero che questa visione politica del mondo aveva creato ad esempio il «tipo», (*) ossia il modello visibile cui tende ogni forma di espressione umana, e «tipi» in questo senso sono già gli eroi di Omero, come pure è vero che questo concetto di tipo è il primo passo sulla via che conduce all'idea di Platone. Se non che, a considerar meglio, tra il principio e la fine di questo cammino vi è un abisso enorme, perché l'idea di Platone è la creazione di un mondo opposto a questo nostro terreno, e questa sussistenza di una realtà divina antitetica ad una empirica non si spiega affatto con una visione puramente politica. Nel VI secolo interviene un fattore nuovo a trasformare in modo decisivo la vita spirituale della Grecia, cioè il fenomeno cosiddetto dionisiaco. Il concetto del dionisiaco è stato analizzato a fondo da Nietzsche e da Rohde, e nel suo significato * Joèl GPH, 138. 25generico è universalmente conosciuto perché ci si debba ancora soffermare; senonché sinora il fenomeno dionisiaco è stato prevalentemente studiato nel suo aspetto artistico e religioso, e quasi mai si è analizzata la sua relazione sostanziale con l'intera evoluzione spirituale greca, e soprattutto con la filosofia. Con un

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termine più filosofico si può chiamare misticismo questo movimento; mentre sino qui l'uomo aveva guardato il mondo e in questo aveva inserito come parte se stesso, ora si stacca da tutto, si volge alla propria interiorità, e ricercando in se stesso vi trova il mondo e la divinità. Vediamo così coesistere nel VI secolo in Grecia due visioni del mondo antitetiche, una politica e una mistica: dall'urto di queste forze nasce il miracolo della filosofia greca. Nel nostro studio seguiremo costantemente questa distinzione fondamentale, sviluppandola e giustificandola sui testi dei Presocratici e di Platone; è questo un metodo che nel campo estetico ha già dato dei risultati grandiosi nella contrapposizione parallela di Nietzsche, ed è tale che più di ogni altro, come cercherò di mostrare, permette di penetrare la personalità del filosofo greco e la genesi intima delle sue dottrine. E' un'impostazione del problema questa cui si giunge seguendo una visione strettamente storica, ossia studiando le origini stesse della spiritualità greca: in quanto tale è senza dubbio migliore del metodo diffuso di imporre alla filosofia greca un'evoluzione prefissata da concetti filosofici moderni, dopo una lettura esteriore e non veramente filologica dei testi greci. (5) Ingiustificata in questo senso, tanto per dare un esempio, è la solita distinzione netta che si fa tra Presocratici e26Platone in base all'affermazione che per i primi il punto di partenza (6) filosofico è la natura, mentre a cominciare da Protagora e da Socrate questo posto è preso dall'uomo; seguendo invece una via di ricerca più strettamente storica risulta come dall'uomo partano egualmente anche i Presocratici. Il mio metodo di ricerca, che considera un fenomeno spirituale nella sua complessità e nella sua massima ampiezza, cioè guarda in questo caso sotto un identico punto di vista filosofia, arte, religione greca, trovando dapprima gli elementi essenziali che formano questa stessa complessità, e studiando poi come questi elementi agiscano vitalmente in un campo spirituale determinato, la filosofia, porta a risultati più concreti e più vivi dal punto di vista storico. Si potrebbe dire che neppure questo metodo conduce ad afferrare nella sua piena vita la concretezza spirituale dei filosofi greci, quale è nata nella loro anima; ma questo è un compito impossibile, dal momento che noi ignoriamo, né mai potremo conoscere nella sua immediatezza come si evolse il loro spirito. Evidentemente sia i Presocratici che Platone non avevano una coscienza netta di questa antitesi che v'era in loro tra lato politico e lato mistico, perché la vita spirituale è un qualcosa di unitario e di continuo, che non ammette in sé nessuna separazione avente un carattere così assoluto. Senonché noi non possiamo partire dalla loro vita interna e possiamo solo giudicarli dal generico che le loro opere offrono; si deve andare verso la concretezza con divisioni e limitazioni, ma una certa astrattezza che è insita in ogni ricerca scientifica è ineliminabile. E' questo un metodo scientifico pretta- 27mente greco, è in fondo la diairesis, ossia la divisione del Platone dialettico; esso non giunge a cogliere l'individualità nella sua immediatezza, ma arrivando ad uno stadio sia pure ancora generico, può vedere però il lato essenziale comune a più individualità.Cominciamo dunque col mettere ben in chiaro questi due aspetti fondamentali dello spirito filosofico greco. Il misticismo dei Presocratici nasce direttamente dal movimento religioso dionisiaco, movimento che, entrato nella vita greca del VI secolo come fattore assolutamente nuovo, assume immediatamente delle manifestazioni collettive, ossia in fondo politiche. Una religiosità così violenta nasce in Grecia in quanto le sue condizioni di vita diventano sempre più complesse, dall'Oriente viene diffondendosi il lusso, le lotte politiche si fanno atroci, in quanto insomma il dolore dell'umanità viene sentito più crudelmente. Sorge così il pessimismo greco, pessimismo dionisiaco poiché aspira ad uscire dalle passioni umane, dalle lotte egoistiche, dall'agitarsi vano e convulso di questo mondo. Anche di fronte a questo fenomeno nuovo il carattere politico del Greco non si smentisce: vediamo immediatamente formarsi delle comunità, quelle dei misteri orfici e dei misteri dionisiaci, che in quanto associazioni dirette ad uno scopo morale, avevano nella mentalità greca pur sempre un significato politico. Senonché mentre l'aspetto

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politico dello spirito greco è un movimento centrifugo, nel senso che tende ad esprimere sempre maggiormente l'individuo nel mondo, il dionisiaco è invece una forza centripeta che spinge l'uomo ad entrare vieppiù in se stesso. Il28fenomeno s'inizia bensì collettivamente, cioè nell'orgia dionisiaca e nel coro tragico, ed è questo soprattutto l'aspetto del dionisiaco studiato da Nietzsche nella Nascita della tragedia, ma i grandi spiriti del secolo non tardano a sentire l'insufficienza del tentativo di superare il dolore del mondo nella religione nuova. Gli uomini che si erano riuniti nei misteri avevano ancora una coscienza filosofica molto imperfetta; avevano intuito che la concezione della vita politica ed apollinea che sino allora aveva dominato in Grecia portava con sé una quantità di dolore enorme, basata com'era sull'agonismo e sulla volontà di ogni individuo di esprimere se stesso nella pòlis contro tutti, ed avevano anche intravisto uno stato di vita migliore, che per gli orfici era l'aldilà, e per i dionisiaci l'ebbrezza e l'estasi orgiastica, ma con questo non era in loro chiara l'antitesi tra unità e molteplicità, quale troviamo per la prima volta in Anassimandro, e che è l'inizio della filosofia. Gli spiriti più schiettamente filosofici andarono oltre questo stato dionisiaco collettivo. Che importava infine il momento transitorio dell'ebbrezza orgiastica, se lasciava sussistere la vita con le sue contraddizioni? Qual era poi la sublimità della tragedia, se anch'essa era costretta a trattare le passioni umane? Essi videro in sostanza che l'uomo dionisiaco voleva superare la sua passionalità e non faceva altro che annegarla in una passionalità suprema, tanto forte che gli faceva perdere il senso della personalità. Di qui si capisce anche, tra parentesi, come il giovane Nietzsche, fervente schopenhaueriano, si sia tanto entusiasmato di questo fenomeno, di questa passionalità cosmica, che tanta affinità aveva per 29lui con la «volontà di vivere» di Schopenhauer. Ma i Presocratici non si fermarono a questo pessimismo, e ricercarono il principio del mondo, l'arché, principio buono che dà la felicità, superiore ad ogni passionalità umana, cui ci si accosta indagando se stessi ed abbandonando gli uomini. Tutti disprezzano profondamente l'umanità, e la loro ascesa solitaria verso la verità è la perfetta antitesi al generale carattere politico greco che esaminavo in principio. Possiamo quindi ora definire l'aspetto mistico, o se si vuole dionisiaco, della filosofia greca l'impulso a superare tutto ciò che è umano, come interiorità del grande individuo. Nella vita eroica che essi hanno scelto per sé, nella critica instancabile di tutti i valori umani, essi giungono alle loro intuizioni mistiche. A questo punto la loro aspirazione dovrebbe appagarsi nella serenità della conoscenza raggiunta, nella perfezione della loro estrema solitudine. Questo non succede, e per un motivo che è fondamentale a comprendere nella sua essenza l'origine della filosofia greca. Essi non si placano nel raggiungimento delle loro aspirazioni teoretiche, e quando queste sono realizzate risorge prepotente il loro istinto pratico e politico, che avevano un tempo superato. Come la mistica greca è il superamento dell'umano, così la politica del filosofo greco è l'espressione per gli uomini. Questo è inoltre il punto che distingue il fenomeno mistico greco da ogni altro nella storia dello spirito ad esso affine: nel mistico indiano, nell'asceta cristiano del Medio Evo, in Giordano Bruno o in Schopenhauer il lato conoscitivo puramente interiore sovrasta in modo quasi completo l'impulso ad agire praticamente sugli altri30uomini. I Greci sentono invece come insopprimibile il bisogno di esprimere la loro intima vissutezza (7) in modo talmente chiaro e definitivo che gli uomini siano costretti ad accettarlo e quindi a comportarsi politicamente nella vita in base a queste nuove conoscenze. Nella solitudine essi sono giunti a dei sentimenti supremi nudi di immagini e di razionalità, e talmente lontani dai sentimenti e dalle idee comuni dell'umanità che essi neppure saprebbero tradurli in parole, e quand'anche vi riuscissero, mai li renderebbero accessibili all'intelligenza umana. Ma giunti a questa nuova fase in cui sentono di doversi espandere dall'interiorità nel mondo, di dover creare, essi trovano la loro via di espressione nel rivolgersi all'universo e nel dire le loro verità non parlando in modo immediato delle loro

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intuizioni, ma servendosi di simboli cosmici che tutti hanno davanti agli occhi, e dando origine alla scienza della natura ed alla razionalità. Il loro impulso politico soffocato in gioventù, non potendo essi né limitarsi a tenere una magistratura nella loro città né abbassarsi a tentare la tirannide, si realizza ora nelle dottrine che sono come una legislazione che danno non alla loro città, ma all'universo, e che vengono a prendere il posto della religione olimpica per l'aristocrazia greca. Questa suprema politicità essi la hanno però solo raggiunta in virtù della loro interiorità dionisiaca, che li ha fatti un primo tempo uscire dalla realtà limitata della pòlis e li ha spinti ad indagare la realtà universale attraverso un disumanamento. Per altro essi sono perfettamente coscienti che se vogliono riaccostarsi agli uomini, non possono parlare di ciò che sta nascosto nelle 31loro anime e che nessuno, se già non l'ha lui stesso sentito, può capire, ma devono in un certo senso rinunciare ad esprimere in modo immediato quanto di più prezioso ha loro dato la solitudine, alla gioia di dire le loro intuizioni divine, e sono invece costretti ad oggettivarsi e ad esprimersi in modo chiaro e visivo. Questo non seppero fare i mistici moderni, che non avevano l'educazione a vivere politicamente dei Greci; Giordano Bruno negli Eroici furori e Nietzsche nello Zarathustra ad esempio vogliono esprimere direttamente le loro intuizioni e per questo mai riescono a liberarsi dalla loro aspirazione eroica nella pace apollinea e nella serenità visiva della creazione oggettiva.32

IIAnassimandro

Si tratta ora di vedere la formazione di questo misticismo politico in alcuni Presocratici, giungendo così sino a cogliere nella sua origine il pensiero di Platone. (8)La prima personalità emergente che troviamo è Anassimandro. Già dal poco che di lui sappiamo si ricava una conferma alla mia idea sull'origine della filosofia greca. Se si considera infatti la sua interiorità, non la si trova gran che diversa dal pessimismo religioso dei misteri orfici e dionisiaci: ogni individuazione è male, la vita terrena è stortura rispetto alla divinità, che è una ed infinita. Egli è ancora lontano dal misticismo dei più grandi Presocratici, che superano questa fase pessimistica in una nuova forma dionisiaca e individualistica che li porta alla gioia della conoscenza solitaria e all'affermazione della vita. In che cosa dunque egli si distingue da questi religiosi e in nome di che è chiamato, insieme a Talete, fondatore della filosofia e della scienza? Per il suo impulso politico ad esprimersi, che i religiosi non avevano più da quando avevano annegato in Dio la loro personalità, e che gli fa interpretare la realtà metafisica, da lui scoperta per la prima volta, come una sfera superiore di politicità, di cui egli deve ritrovare e stabilire la legislazione. Il sentimento interno unitario ed infinito che lo aveva salvato dalla sofferenza e dalla limi- 33tatezza delle cose umane viene da lui espresso e comunicato agli uomini col nome di arché del mondo, che significa in greco «signoria, predominio politico». Poiché egli non poteva far sentire agli uomini quest'intuizione nella concretezza immediata con cui egli stesso la sentiva, impose loro l'àpeiron, l'«infinito», concetto che oltre ad essere metafisico includeva altresì tutto un comportamento morale rispetto alla vita, e l'impose loro come un principio assoluto cui dovevano sottomettersi, allo stesso modo che nella loro città dovevano ubbidire ai governanti. Già gli orfici ad esempio erano giunti ad esprimere la loro religiosità in simboli cosmici, ma le loro allegorie erano ancora confuse, caotiche: per giungere alla filosofia bisognava cogliere la realtà come un'unità, come un principio politico, un'arché, una legge insomma. Si capisce altresì come da questo punto di partenza avesse origine insieme alla metafisica anche la scienza della natura, che viene ad essere una ricerca più dettagliata di questo grande organismo

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politico che è il mondo, ricerca che deve scoprire le singole leggi di questo grande Stato.Nel suo frammento (9) Anassimandro parla di un'ingiustizia che commettono tutte le cose vivendo, ingiustizia che esse pagano con la loro morte; giustizia è il riassorbimento nell'àpeiron, il cessare dell'individuazione. Si viene ora per la prima volta a formare un concetto filosofico di giustizia, come espressione di una legge cosmica, mentre sino a quel momento la parola dike aveva avuto un significato puramente giuridico, di carattere penale. Senonché Anassimandro non giunge a questa concezione di giustizia, come di-34cono coloro che interpretano i Presocratici da un lato puramente naturalistico, guardando anzitutto all'universo e ritrovandovi un ordinamento parallelo a quello dello Stato: contro questa interpretazione sta la stessa definizione di Anassimandro per cui giustizia è il rientrare delle cose nell'àpeiron. L'àpeiron è in sé un principio che annulla ogni ordine, ogni individuo, è l'infinito, l'indeterminato, mentre l'idea di politicità nel suo originario senso ellenico implica necessariamente un limite. Anassimandro non può aver contemplato ad un tempo lo Stato ed il mondo trovandovi un ordine o una legge comune, che in quanto tale mai avrebbe potuto chiamare àpeiron; chiarissimo diventa invece il suo sviluppo se ammettiamo che egli giunga alla verità con un processo mistico antipolitico che solo spiega per un Greco un'arché che sia un àpeiron, e che poi in una fase creativa e politica egli proietti nel mondo la sua interiorità mistica e la trasformi in un principio supremo di politicità. Con questo egli stabilisce per gli uomini una politica che ha contenuto mistico, ossia dice all'uomo che nel suo comportamento morale rispetto alla vita egli non deve accontentarsi di un concetto giuridico e ristretto di giustizia, ma deve guardare ad una suprema giustizia per la quale ogni atto dell'uomo non deve compiersi rispetto alla sua sfera limitata e individuale, ma con la coscienza ed il sentimento di dover agire seguendo una realtà superiore ed infinita. 35

III

Eraclito

Eraclito è forse la più completa personalità dionisiaca della Grecia: (10) da lui per la prima volta vengono intuite le verità ultime del misticismo. Senonché in lui, e qui sta la sua posizione anomala rispetto agli altri filosofi greci e il suo punto di contatto coi mistici di altri tempi e di altri paesi, l'interiorità mistica prende un tale sopravvento che la politicità greca ne viene quasi completamente soffocata. Quello che scrisse, ossia il suo parziale riavvicinamento agli uomini, tradisce questa posizione; infatti egli non riuscì e non volle trasformare la sua interiorità mistica in oggettività politica, ed espose le sue vissutezze a casaccio, lasciandole nelle contraddizioni proprie di ciò che è pura interiorità, per nulla curandosi di renderle chiare ed accessibili agli uomini. In questo senso soprattutto la personalità di Eraclito è utile al mio studio, per la ragione cioè che proprio attraverso le sue dottrine si può nella sua immediatezza scoprire il misticismo filosofico greco che gli altri pensatori così bene occultarono attraverso la trasfigurazione politica. Per questo motivo appunto gli studiosi moderni sono piuttosto propensi, superando l'antica interpretazione di Eraclito come logico di Hegel e Lassalle, ad ammettere un fondamentale misticismo di Eraclito: prima di tut-36ti lo Joèl, e poi anche lo Pfleiderer, il Macchione il Bignone. (*)Quel poco della vita di Eraclito che conosciamo rivela in lui una quasi totale mancanza di evoluzione e un comportamento rispetto all'esistenza assolutamente anti-greco. Nato da una famiglia sacerdotale che senza dubbio doveva avere una notevole influenza politica in Efeso, subito egli abbandona al fratello le pretese che gli derivavano da questa posizione e si ritira nella solitudine da cui più non

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uscirà. Questa rinuncia alla politica attiva è unica nella filosofia greca sino ad Aristotele: unico parallelo che si può riscontrare è Democrito, il quale però giunge all'isolamento per altri motivi, per lo scopo cioè di dedicarsi esclusivamente alla scienza. Vediamo infatti Talete e Anassimandro avere delle cariche a Mileto, Parmenide dare leggi ad Elea, Melisso esser navarca di Samo, Empedocle capo del partito democratico a Agrigento, e i Pitagorici fondatori di una setta politica. Questa partecipazione attiva alla politica, sia detto tra parentesi, è un fenomeno che non si ripete in tutta la storia della filosofia se non in casi sporadici: è dunque un punto importante a favore della mia tesi che la filosofia greca abbia le sue radici in un impulso politico. Eraclito è l'unico che si sottragga a questa politicità ma non si creda che egli arrivi ad una tale conquista con facilità: anch'egli è in fondo all'anima un Greco e il distacco definitivo dagli uomini è per lui il massimo eroismo e la massima tragedia. Giunge così a una tale tensione interna * Cfr. Joèl GPH e Joél Ursprung; Pfleiderer Heraklit; Macchione Eraclito; Bignone Empedocle. 37che alla fine non si sente più di resistere del tutto e deve dire qualcosa per i suoi simili, pur vendicandosi con lo scherno e l'oscurità. (11) Questa sorta di rabbia che gli rimane per aver ceduto si tradisce del resto chiaramente nei suoi frammenti: una percentuale molto notevole di questi non è altro che una continua invettiva verso la mediocrità degli uomini. La cosa si ripete allo stesso modo nello Zarathustra di Nietzsche, ed a noi può recare stupore il fatto che due uomini come Eraclito e Nietzsche, dopo di aver esperimentato la perfezione della solitudine, sentano il bisogno di abbassarsi ad ingiuriare gli uomini che hanno lasciato dietro di sé. Un tale fenomeno si può capire solo se si pensa che l'ira che sfogano sugli uomini è causata dalle delusioni terribili che il loro amore per essi ha ricevuto. Le loro esplosioni di odio sono nate dalla rinuncia ad una vita di amore, a una comunità che fosse la trasfigurazione della politica.Tale è l'anima di Eraclito, e se più a fondo vogliamo chiarire questa interiorità, non abbiamo che da guardare alle sue dottrine, che non sono altro, come per tutti i mistici, che un'espressione ed un simbolo delle sue vissutezze. Del resto lo dice anch'egli chiaramente per quale via sia giunto alla verità:«Ho ricercato fin nel profondo me stesso». (a)Si tratta quindi di mettere in luce attraverso i suoi frammenti le verità mistiche cui è giunto Eraclito, per vedere poi come si comportino ri-

a. 22B101 DK= SG III 14[A37]: 38spetto al lato politico e come questo ne resti quasi del tutto soffocato.La coincidenza mistica dei tre termini di dio, mondo ed anima è evidentemente raggiunta da Eraclito, e questo già disse lo Joèl, che ebbe però il torto di non dimostrare le sue affermazioni con i frammenti stessi del filosofo. Io seguo un metodo più filologico, che seppure è più pesante, non lascia però sospettare come arbitrario quanto si afferma. Si legga il fr. 36:«Morte per le anime è diventar acqua, morte per l'acqua diventar terra; dalla terra nasce l'acqua e dall'acqua l'anima», (a) e si confronti col fr. 31:«Mutamenti del fuoco: in primo luogo il mare (ossia l'acqua), poi una metà del mare diventa terra, l'altra metà soffio infuocato» (b)e col fr. 76.c. (12) Da questo confronto risulta in modo inequivocabile l'eguaglianza tra anima e fuoco, e poiché per Eraclito fuoco significa principio di tutte le cose, questa eguaglianza vuol dire coincidenza tra interiorità dell'uomo e il mondo esterno. Una tale coincidenza non è altro che il principio primo di ogni misticismo, quale si manifesta ad esempio in India, dove il pensiero filo- a. 22B36 DK = SG III 14[A53] : b. 22B31 DK = SG III 14[A31a] Il fr. 76 è costituito da tre passi dossografici che

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parlano delle trasformazioni del fuoco in acqua e in terra. 39sofico fondamentale è appunto la coincidenza dell'àtman (interiorità) col brahman (mondo esterno). Del resto lo dice chiaramente anche Aristotele, (13) (a) che per Eraclito l'anima è l'arché, ed allo stesso modo dev'essere interpretato il fr. 118:«Un secco fulgore (cioè il fuoco) è l'anima migliore e più sapiente». (b)Un altro insegnamento basilare del misticismo è l'eguaglianza cui può giungere l'uomo superiore con dio, ed Eraclito, sebbene non lo dichiari così espressamente come Empedocle, lo lascia capire in modo abbastanza chiaro dai suoi frammenti. Nel fr. 1 egli dichiara di poter dire qual è la realtà delle cose:«... io spiego analizzando ogni cosa secondo la sua natura e dicendo la sua vera essenza» (c) e nel fr. 41 afferma che la saggezza consiste in una cosa sola, nel conoscere la ragione (gnòme) che governa tutte le cose:«Una sola è la saggezza: conoscere la ragione che governa tutte le cose attraverso tutte le cose». (d)Con ciò viene chiaramente ad attribuirsi la saggezza, e quando dice nel fr. 78:

a. Aristotele, De anima, 405 a 25-26.b. 22B118 DK = SG III 14[A52]: c. 22B1 DK = SG III 14[A9]: d. 22B41 DK = SG III 14[A73]: 40«L'individualità umana non possiede ragione (gnome), ma quella divina la possiede» (a)si assume con ciò senz'altro un'individualità divina. Eraclito viene a porre una distinzione fondamentale tra uomini mediocri e uomini che per la conoscenza diventano dèi. Non che egli ne faccia due classi separate che non ammettono passaggi tra loro; fedele alla sua concezione della continuità (xunón) universale, per cui gli opposti si trasformano l'uno nell'altro, concede anzi che tutti gli uomini possano diventare dèi nel fr. 113:«A tutti è comune il pensare»,precisato dal fr. 116:«A tutti gli uomini è possibile conoscere se stessi e pensare la verità» (b).Ad ogni modo però egli osserva come in natura esiste realmente una separazione netta tra gli uomini, basata sulla conoscenza. (c) Questa conclusione naturale del misticismo può avere un'importanza politica, ad esempio in India, dove si forma una casta suprema di uomini

a. 22B78 DK = SG III 14[A40b. 22B113 DK = SG III 14[A14]: c. Si veda anche Eraclito fr. 79: un'apposizione, e traduce kindisch: la costruzione mi sembra più regolare considerando vf|7iioc; attributo, e traducendolo con «sciocco». «Un uomo sciocco è rispetto a dio quello che è un fanciullo rispetto a un uomo» (22B79 DK = SG III 14[A41]). 41che conoscono la verità, i brahmano,. Un tale fenomeno è oltremodo interessante, soprattutto per noi che ricerchiamo l'origine della concezione politica in Platone: un punto fondamentale della sua teoria dello Stato è la divisione in classi degli uomini basata sulla conoscenza. L'idea dunque ha le sue radici nel misticismo greco quale si rivela per la prima volta in Eraclito. Torniamo ancora, per chiarire la nostra interpretazione sul testo, all'eguaglianza posta da Eraclito tra uomo e dio. Evidentemente in questo senso è il fr. 119:«L'individualità (ethos) è per l'uomo un dio». (a)Se si confronta col fr. 78 già citato (b) dove si contrappone ad un ethos umano un ethos conoscitivo divino, si capisce facilmente che qui si allude a questo secondo tipo di individualità e che appunto per la conoscenza l'uomo diventa uguale a dio. La stessa cosa dice anche il fr. 62:«I mortali sono immortali, gli immortali sono mortali, gli uni vivendo la morte

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degli altri, gli altri morendo per la vita dei primi».cDi qui potrebbe apparire che gli uomini solo con la morte diventino dèi, senonché bisogna tener presente che thànatos per Eraclito non significa morte nel senso comune della parola, ma qua-

a. 22B119 DK= SG III 14[A112]: r\Qoq àv6pókcoi 5ai|icov.b. «L'individualità umana non possiede ragione, ma quella divina la possiede».c. 22B62 DK = SG III 14[A43]: àeàvaxoi evTycoi, 9vTycoì àedvaxoi, £à>vT£<; TÒV èiceivcDv 0àvaxov, TÒV 8è èiceivcov piov xe0V£C5T£(;.42lunque cessazione di uno stato. Un uomo può durante la sua vita morire come uomo e nascere dio, e viceversa. Basta infatti confrontare il fr. 77 che dice:«Per le anime diventare umide significa godimento o morte», (a)e soggiunge:«Noi viviamo alla loro morte e quelle vivono per la nostra morte» (b)con il fr. 118. (c) Da questi due frammenti risulta come l'esistenza dell'uomo possa avere due stati; il primo con l'anima umida (si veda anche il fr. 117)/ posizione generale, tanto che egli dice nel fr. 77: «noi viviamo la morte dell'anima», e nel «noi» viene compreso anche Eraclito in quanto uomo mediocre; il secondo con l'anima secca, lo stato cioè del sapiente che diventa dio.Anche la terza fondamentale affermazione del misticismo, la coincidenza del mondo con dio, si trova in Eraclito. Nel fr. 67 egli dice infatti che il dio è l'unità degli opposti, allo stesso modo del fuoco:

a. 22B77 DK = SG III 14[A49] a. b. 22B77 DK = SG III 14[A49] b. c. «Un secco fulgore è l'anima migliore e più sapiente». Abbiamo visto sopra che Eraclito attribuisce a se stesso vivo questa sapienza.d. Il fr. 117 (22B117 DK= SG III 14[A51]) dice che l'uomo quando è ubriaco, ha l'anima umida. 43«Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e si altera allo stesso modo del fuoco». (a)E' da notarsi però che Eraclito di rado parla espressamente del dio (theós), sia perché questa è la parte più segreta della sua dottrina, sia perché dei due termini mistici di dio e mondo, quasi esclusivamente il secondo interessa il filosofo greco.A questo proposito si noti la diversità della sua posizione da quella del misticismo del Rinascimento, che prende le mosse dall'idea cristiana di dio e la porta poi a coincidere con il mondo e con l'anima. Il processo di Eraclito è differente: egli parte dalla sua anima, vi trova il mondo, e annega la propria personalità nello xunón, in ciò che è comune a tutte le cose, nel continuo, nella realtà universale. Giunti a questa spersonalizzazione, che è un superamento filosofico del primitivo individualismo politico ellenico, gli altri filosofi mistici greci si fermano e tornano agli uomini per dar loro una nuova politica filosofica, basata sullo xunón. In Eraclito invece l'individualismo da cui era partito e che aveva superato nel misticismo, torna ora trasformato in super-individualismo, in un vedere il mondo come la somma personalità. Per questo egli ricorre al theós. L'equazione dio-mondo non è altro che una tinta di personalizzazione data al mondo, che viene concepito come l'individuo-dio conoscitivo che ha la suprema coscienza degli opposti. Questo lato di

a. 22B67 DK = SG III 14[A91]: 44Eraclito si manifesta anche nella sua determinazione dell'arché come fuoco. Mentre gli altri mistici scelgono per il loro principio metafisico un termine astratto, gli Indiani lo chiamano àtman, Anassimandro àpeiron, Parmenide ón, Platone óntos ón, auto kath'hautó, Eraclito ricorre invece ad un simbolo concreto, pùr. (14) Egli chiama fuoco il mondo, perché a questa immagine semplicissima egli riduce l'essenza

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delle cose, concepita come principio supremo di personalità, priva di ogni determinazione contingente, caratterizzata in modo generale e semplice come individualità che distrugge e riunisce. Egli ha trovato nella sua anima, accanto all'umido che la tiene legata agli interessi umani, del fuoco che la fa salire in alto, ha trovato qualcosa che egli chiama fuoco, perché è più violento di ogni altro impulso, perché annulla la limitazione e tende ad allargarsi e ad innalzarsi nel tutto, ed è puro e luminoso. Questa è la sua più vera individualità e deve essere anche la più vera in senso assoluto, l'individualità del dio. Per questo egli chiama divino nell'uomo l'ethos, che è questa individualità più profonda. Questa personalità superiore ha per natura la conoscenza, ed egli la chiama tò sophón, ciò che è sapiente. Questa espressione significa per lui sia la conoscenza che l'oggetto della conoscenza, la realtà delle cose, e questa indistinzione, come la parallela che troveremo in Parmenide, è in lui voluta, non incosciente. Nel fr. 32:«Ciò che solo è saggio vuole e non vuole esser chiamato con il nome di Zeus», (a)

a. 22B32 DK = SG III 14[A84]. 45tò sophón significa piuttosto l'arché, nel fr. 50 vuol dire invece conoscenza:«Dopo aver udito non me, ma il lògos, è saggio ammettere che tutto è uno». (a)nel fr. 108 indica sinteticamente il mondo come super-individualità. Il fr. 108 è particolarmente interessante perché ci mostra il punto estremo cui è giunto l'individualismo eracliteo:«Di quanti discorsi ho udito, nessuno è giunto a conoscere che ciò che è sapiente è separato da tutto». (b)Con ciò egli dice che la somma personalità tende ad allontanarsi da tutto, a sfuggire ogni forma di comunanza, il che nel suo caso particolare di uomo-Eraclito che tende ad adeguarsi quanto più può alla divinità e a diventare fuoco sempre più puro, significa la necessità suprema di abbandonare ogni contatto con gli uomini e di rinunciare ad ogni politicità.Nella storia del pensiero troviamo un solo parallelo a questa posizione di Eraclito: quella di Nietzsche. Entrambi pongono all'uomo un ideale che essi ritengono si possa raggiungere, l'uno il dio, il fuoco, ciò che è sapiente, l'altro il superuomo, ma in realtà nella loro vita non lo realizzano. Questo ideale ultimo è un superamento, un'unificazione di tutte le antitesi, ma mentre i

a. 22B50 DK = SG III 14[A3]. b. 22B108 DK = SG III 14[A17].46mistici greci concepiscono individualità infinite che coincidono col mondo infinito, e nella beatitudine di questa intuizione si riposano di tutta la loro aspirazione per poi volgersi agli altri uomini ed insegnare loro come si realizzi politicamente questa intuizione, Eraclito e Nietzsche, che sono partiti da un'unica individualità, non arrivano mai al riposo (15) e la loro aspirazione è una fiamma che non ha pace, perché non riescono a superare l'estrema antitesi, quella tra l'individualità separata da tutti e da tutto e la realtà che è comune a tutte le cose, è xunón, è universale. Il theós o il superuomo arrivano anche all'unificazione di quest'ultima antitesi, ma essi non ci riescono nella loro vita: hanno seguito troppo il pólemos, che li ha allontanati dal mondo e manca loro la forza di giungere all'armonia che riunisce ciò che è separato.Dal breve esame fatto sopra delle dottrine di Eraclito mi sembra risulti abbastanza evidente il suo misticismo. A chiarire meglio quest'ultimo sarebbe utile un suo confronto coi mistici di altri tempi: lo Joel per esempio ha fatto notare una sua affinità con Böhme (a) e il Bignone l'ha riaccostato al Bruno. (b) Essi però accennano molto (16) brevemente a queste parentele spirituali, e sarebbe interessante e più convincente seguire più profondamente queste affinità: per parte mia mi accontento di fare osservare alcune analogie con la filosofia indiana delle Upanishad. (17) Si parla ad esempio nella filosofia indiana di un periodo del

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a. Cfr. Joel Ursprung, 48.b. Cfr. Bignone Empedocle, 174-76. 47kalpa in cui tutto rientra nel brahmani concezione questa comune anche ad Empedocle, ed anche, in senso più specificamente eracliteo, di un fuoco che porta alla distruzione del mondo. (a) (18) Nel periodo pre-buddistico la redenzione non conduce ad un annientamento, ma ad un'elevazione (b) il che trova un parallelo in Eraclito, per il quale sia la redenzione del mondo attraverso un incendio universale sia la redenzione del singolo che si trasforma in «secco fulgore», in puro fuoco, conduce non al nulla, ma alla vera realtà. Per gli Indiani la redenzione non è causata dalla conoscenza e non è rimandata ad un aldilà, ma consiste nella conoscenza stessa. (c) lo stesso abbiamo trovato in Eraclito, per il quale si può diventare un sapiente e un dio anche durante la vita. Vi sono poi dei passi indiani che ricordano da vicino dei frammenti eraclitei; si confronti il fr. 75:«I dormienti sono artefici e collaboratori di ciò che avviene nel mondo». (d)con un tratto delle Upanishad secondo il quale quando si dorme si prende il materiale dal mondo e si costruisce con il proprio splendore; il passo indiano continua: «quando egli così dorme diventa allora questo spirito a se stesso come una luce», (e) il che richiama l'inizio del fr. 26:

a. Cfr. Bhagavad Gita, IX, 7.b. Cfr. Upanishad, Atharvacikhà, 1 (ed. Deussen, Leipzig, 1897).c. Cfr. Deussen AGPH, 2, 307.d. Cfr. Deussen AGPH, 2, 311.e. 22B75 DK = SG III 14[A98]. 48«L'uomo nella notte accende a se stesso una luce morendo...». (a)Una frase indiana come questa: «io sono il sapiente e all'infuori di me non ve n'è alcun altro nell'eternità del tempo» (b) potrebbe essere scambiata per un frammento del filosofo ionico. Infine, anche la concezione eraclitea che riduce il mondo ad una super-individualità trova un suo riscontro nel fatto che le Upanishad chiamano talvolta il principio metafìsico purusha, ossia uomo, spirito; esse dicono ad esempio: «l'uomo che si vede nell'occhio, è l'àtman, è l'immortale, colui che non ha timore, è il brahman», (c) oppure: «l'uomo, che non è come un uomo, fa unire l'anima al brahman». (d) (19) Mi rimane da esaminare la politicità di Eraclito. Ho detto sopra che in lui l'interiorità mistica tende a soffocare il lato politico; pure il bisogno di esprimersi politicamente non poteva essere represso del tutto in un Greco, e non lo fu neppure in Eraclito. In quanto si decide a comunicare le sue idee egli compie, come ogni Greco, un'azione politica. E' vero che egli conosce già, ancor prima di compierla, l'insuccesso che avrà quest'azione, e quasi si vendica di aver ceduto alla tentazione con la frammentarietà e l'oscurità un po' voluta, ma non c'è dubbio che qua e là dalla sua opera si tradisce la serietà del suo intento politico. Egli vuole parlare (léghein) agli uomini, dice al-

a. 22B26 DK = SG III 14[A57]. b Upanishad, Kaivalya, 21.c- Upanishad, Chàndogya, 4, 15, 1; cfr. anche 8, 7, 4. d. Upanishad, Chàndogya, 4, 15, 5 e 5, 10, 2. 49l'inizio del suo scritto che comunica loro un lògos, ossia un'espressione oggettiva e universalmente valida delle sue vissutezze. La sua anti-grecità si manifesta quando vuole ad ogni costo dire la sua interiorità, ma allora egli è oscuro, perché sa già di non essere capito: la sua politicità si mostra quando parla del logos, ossia della verità nel suo aspetto razionale, come di una legge suprema che egli non fa entrare nell'anima degli uomini, ma impone loro dal di fuori. Tutta la sua costruzione del mondo, la ciclicità ferrea di creazione e di distruzione, (a) la trasformazione secondo una legge del fuoco in acqua e in terra non nascono da necessità mistiche, ma rispondono all'aspetto politico della verità che egli vuole

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imporre. Il suo misticismo gli fa dire che la vita non è altro che lo scherzo di un fanciullo che gioca ai dadi, (b) la sua politicità gli fa vedere nel mondo un principio incrollabile di necessità. (c) Egli costruisce, come già aveva fatto Anassimandro, un sistema politico del mondo, che ha nel fuoco un principio mistico e anti-politico di infinità, principio che «governa», «regna» e «guida» il cosmo, (d) nasce così la filosofia politica nel contrapporre alla polis limitata una pòlis infinita che serva agli uomini come di modello per la prima. (e) Eraclito procede oltre Anassimandro nel determinare l'organizzazione di questa pòlis universale: in questa vi è da un lato il fuoco come individualità suprema, come uo-

a. 22B30 DK = SG III 14[A30].b. 22B52 DK = SG III 14 [Al 8].c. 22B80; 94; 105 DK= SG III 14[A7; 81; B7].d. 22B41; 52; 53; 64 DK = SG III 14[A73; 18; 19; 82].e. 22B114 DK = SG III 14 [Al 1 ].50mo-dio sapiente, dall'altro ci sono le trasformazioni del fuoco, che costituiscono la vita terrena e sono determinate necessariamente dalla volontà del dio. Con questa contrapposizione Eraclito risolve il problema della libertà, e come lui lo risolverà pure Empedocle: l'individuo non sapiente che non arriva allo xunón e vive con una personalità ristretta viene in quanto essere limitato ad essere sottomesso alla legge di necessità e come suddito della pòlis universale a non avere libertà; il sapiente coincide invece con il principio delle cose, e in quanto tale non è soggetto alla necessità, ma è la volontà libera che pone la legge, è il fanciullo che può nel suo arbitrio volere il mondo in una maniera o in un'altra. Il sistema politico dell'universo che risulta da questa concezione, sistema cui deve adeguarsi la città terrena, è qualcosa che assomiglia stranamente allo Stato platonico del Politico. Si veda infatti il fr. 33:«È legge anche l'ubbidire alla volontà di uno solo». (a)Il dio vuole liberamente, e la sua volontà diventa legge di necessità per il mondo. Una tale costruzione politica però, lo si noti bene, è ben lontana dalla tirannide, che fece sempre inorridire i filosofi greci, come la massima manifestazione dell'ignoranza e della violenza. Si metta infatti di fronte al fr. 33 il fr. 43:«Bisogna spegnere l'hybris (tracotanza del tiranno) più di un incendio». (b)

a. 22B33 DK = SG III 14[A85]. b. 22B43 DK = SG III 14[A75]. 14[A13]. 51e risulterà chiaro che con la volontà di uno solo Eraclito intende la volontà di chi è sapiente. Capo politico dev'essere colui che conosce la verità, questo prelude alla Repubblica; un'unica individualità può essere veramente sapiente, questo prelude al Politico.L'attuazione quaggiù sulla terra della legge voluta dal dio è la Dike, la giustizia. Il fr. 23 dice:«Se la realtà terrena non esistesse, non si conoscerebbe il nome di giustizia». (a)Il concetto di giustizia esiste in quanto contrapposto all'ingiustizia, in quanto nel mondo il fuoco non è puro, ma trasformato in acqua e terra: è quindi la tendenza del fuoco a ricostituirsi nella sua unità con la distruzione del mondo. E' così chiaro perché la giustizia venga a coincidere con éris, la discordia. (b) La giustizia in sostanza non è altro che l'arché in quanto lògos, razionalità, legge, (c) vista nella sua realizzazione nella vita terrena: qui si manifesta, e lo stesso in fondo aveva detto Anassimandro, come distruzione delle cose singole, (d) come lotta che annienta e dà luogo a nuove creature; il fine cui aspira è l'annullamento del tutto nel fuoco universale.

a. 22B23 DK = SG III 14[A65]. b 22B80 DK = SG III 14[A7]. «Occorre sapere che la guerra è ciò che è comune, e la giustizia è la discordia...».c. 22B94 DK= SG III 14[A81].

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d. 22B28 DK= SG III 14[A80].52

IVParmenide

Con Parmenide ci troviamo di fronte al tipico pensatore (20) greco, le cui dottrine sono un'opera schiettamente politica. In Eraclito il misticismo trapela ed è relativamente facile a svelarsi, in Parmenide è nascosto in modo perfetto. Di qui la natura enigmatica della sua personalità, simile a quella di Platone. Egli si cela perfettamente dietro alla sua opera, che sola può essere chiara ed oggettiva, e in quanto tale apollinea e politica, che sola quindi può essere comunicata agli uomini. Il problema politico non è per lui la creazione di uno Stato perfetto, perché lo Stato aristocratico dorico gli sembra sufficiente, è invece l'educazione alla verità di un'aristocrazia, che guidi la pòlis secondo conoscenza. Per questo egli è il fondatore della logica, per mettere cioè alla portata di una classe di persone una verità che non avrebbe potuto comunicare attraverso l'espressione immediata della sua interiorità mistica. Vediamo in breve lo sviluppo di questa personalità, per noi molto interessante, perché profondamente affine a quella di Platone. Parmenide nasce da famiglia nobile e potente, e respira fin dall'infanzia nell'ambiente aristocratico. Più di Senofane (a) senza dubbio lo attrasse Anassimandro (b) (21) che

a. Cfr. Reinhardt Parmenides, 89-154.b. La notizia in Diogene, IX, 21 deriva da Teofrasto ed è quindi più che attendibile. 53lo iniziò al pessimismo (a) cui era propensa la sua natura dionisiaca. Ma la sua personalità non si arresta al pessimismo di Anassimandro: vi è in lui qualcosa che si ribella alla condanna della vita del filosofo ionico, al suo rifugiarsi in un aldilà, al suo abbandonarsi ad una mobile infinità, ad un elemento acqueo di oblio. Egli ha in se stesso una volontà di affermare questo mondo, di scoprirlo come buono, e questa volontà di conoscenza s'impone a costo di distruggere quanto trova sul suo cammino. Una tale via porta con sé la rinuncia alla vita con gli altri uomini, porta alla rinuncia per la vita politica, sacrificio questo immenso per un Greco, ripagato solo dal pensiero che la conoscenza dev'essere per lui il mezzo ad un'azione più forte di ogni altra. Questa posizione giovanile rivela già la sua profonda affinità con Platone: per questo Parmenide è il preferito tra i Presocratici per Platone. Lo stesso entusiasmo porta alla verità in gioventù Parmenide che ha lasciato tutti i maestri ed è rimasto solo con se stesso, e Platone che dopo la morte di Socrate rinuncia alla politica e giunge all'eroismo del Fedone ed all'allargamento creativo (22) del Fedro e del Simposio. Rimangono entrambi con il loro sentimento dionisiaco, con il loro èros, che li porta lontano dagli uomini e li guida alla luce dell'estasi. Questo eroismo giovanile, che è poi un impulso mistico, ci risulta chiaro dal proemio del suo poema, in cui fa un tentativo per esprimere la sua interiorità dionisiaca. Egli stesso ha la coscienza dell'impossibilità di questa espressione; perciò appunto non si è mai esercitato nel-

a. Parmenide 28B12, 4 DK. «la nascita sventurata».54la poesia, e in questi versi egli ricorre ad una specie di retorica poetica, che in cuor suo profondamente disprezza. Ma qua e là affiora, per chi sappia leggere, la sua natura dionisiaca. Si veda il fr. 1, verso 1:«I cavalli mi portano dove spinge il mio cuore,il mio thymós» (a),in cui thymós è lo slancio a salire in alto, come il fumo: è la stessa parola che è tanto cara a Platone (Fedro, Simposio), ed è la più vicina alla «volontà» di Nietzsche. L'immagine del cocchio che corre nella notte è l'unico simbolo che possa

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per lui esprimere l'aspirazione eroica, ed è lo stesso simbolo che Platone userà nel Fedro: guidano il carro delle fanciulle, le figlie del Sole - la bellezza fa sopportare l'aspirazione. E giungono alle porte della luce, allo scopo che sempre Parmenide ha presente e che solo gli fa sopportare la notte: eisphàos, «alla luce» sta in principio del verso 10, messo in rilievo. E Dike, è la «Giustizia» colei che tiene le chiavi della porta che separa le tenebre dalla luce: solo il superuomo, quegli cui il destino lo permette, colui che ha meritato la vittoria con la sua aspirazione, può varcare quella soglia. (23) Parmenide dice qui agli uomini orgogliosamente il privilegio che lo innalza sopra tutti: nulla gli importa dell'inadeguatezza dell'espressione e del loro eventuale riconoscimento. Che cosa ha visto al di là della porta? Su questo egli non si sofferma neppure, non si degna di parlarne agli uomini: ha visto la luce. Gli bastano due

a. 28B1, 1 DK. 55parole: chàsm'achanés, «voragine immensa», a dire la sua verità (a).Giunto a questo punto egli abbandona l'espressione poetica, poiché si accorge che in tal modo, invece di rendere onore alla sua interiorità dionisiaca, le reca soltanto del danno: meglio tacere completamente. Eppure questa felicità estatica, questa immobilità cui l'ha condotto la conoscenza, egli vuol darla in qualche modo agli uomini, vuol realizzarla in questo mondo, in questa vita. Si rifugia allora nella gelida astrazione, che non porta difficoltà di espressione: con la logica, con il pensiero razionale egli potrà forse convincere gli uomini della verità, e farli vivere morali e felici. Anche in questo il suo sviluppo è strettamente parallelo a quello di Platone, (24) che passa attraverso lo stesso processo dall'espressione immediata della sua interiorità nel Fedro e nel Simposio ad un metodo più politico e razionale nella Repubblica, per finire alla logica fredda dei dialoghi dialettici. Questo processo di astrazione è quello che dà forma sistematica e razionale alle loro intuizioni, è l'unico preso in considerazione, perché il più evidente, dagli interpreti moderni, e non è dovuto ad altro in fondo che al loro impulso politico. La verità raggiunta non è per essi un risultato finale, bisogna realizzarla: Platone vuole uno Stato per attuarla, Parmenide dà le leggi ad Elea. Ormai la loro vita non è più dedicata che a questo ed essi non ne avranno che amarezza. Platone si rovina la vecchiaia nel tentativo di vedere vivente nel mondo il suo ideale politico, Parmenide vuol dimostrare la sua dottrina, vuol costrin-

a. 28B1, 18 DK56gere ad accettarla ed educare con essa gli uomini, e si sceglie un allievo, Zenone, che non lo capisce nella sua profondità, ma deve continuare quest'opera pratica. La Lettera VII di Platone e il proemio allo scritto dell'Eleata lasciano scorgere il rimpianto della gioventù eroica e solitaria: la loro vecchiaia è piena di delusione e di rinuncia. Il Platone che ci appare dalle Leggi ha una profonda affinità con Parmenide, quale ci è presentato da Platone nel dialogo che gli dedica, un vecchio sapiente che passa attraverso le città della Grecia, e che assiste alle battaglie per lui combattute da Zenone, silenzioso e venerabile. (25) Si tratta ora di mettere alla prova la fondatezza di questa mia interpretazione, mettendola di fronte alle parole stesse di Parmenide. L'interpretazione moderna di Parmenide come logico non è affatto priva di fondamento: il suo poema venne appunto scritto a questo scopo, e così egli voleva essere inteso. A noi spetta però il compito di ritrovare il misticismo dell'Eleata, perché soltanto alla luce di questo il suo scritto acquista il suo vero valore. (26) Come Platone educava (27) l'aristocrazia del suo Stato solo mediante la scienza, e lasciava che pochissimi veramente filosofi arrivassero da soli alla suprema intuizione, così Parmenide imponeva la sua verità come un dogma, mettendola sotto forma logica. Essi conoscevano troppo bene gli uomini ed avevano troppo poca fiducia in loro per dire chiaramente ciò che stava nella loro anima, con il rischio di essere dileggiati o di vedere della gente mediocre pavoneggiarsi di una conoscenza che non possedeva. Di qui nascono, come

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unico metodo possibile ed utile di educazione, le loro opere, in cui il più importan- 57te è taciuto, ed è detto solo ciò che può essere accostato da molti, nel cui ambito possano quindi essere duri ed inflessibili come degli educatori greci: tale è il valore che dalla scoperta di Parmenide come mistico ricade sul suo scritto. Tutto il segreto più intimo di questi primi filosofi greci sta in fondo in questa caratteristica psicologica di vergognarsi della propria interiorità, in questa suprema saggezza educativa. E' decisivo in questo senso un passo della Lettera VII di Platone, passato inosservato ai moderni, in cui egli, alla fine della sua vita, si toglie per un momento la maschera, passo che si adatta benissimo a Parmenide, sua anima gemella: «ma io non ritengo neppure un bene per gli uomini un tentativo di parlare intorno a queste cose (la suprema verità), se non ad alcuni pochi, che sono capaci a scoprirle da soli attraverso un piccolo accenno; quanto agli altri, o li riempirebbe in modo affatto inopportuno di un disprezzo non giusto, oppure di un'alta e vana speranza, come se avessero imparato qualcosa di grande». (a) (28) Senonché noi, per capire veramente questi filosofi dobbiamo scoprirne contro la loro stessa volontà il misticismo, e questo attraverso il «piccolo accenno», dia smikràs endeixeos, che soltanto ci hanno dato. Lo scritto dell'Eleata tende solo a dimostrare che l'essere è: la natura di questo essere è in certo modo presupposta, e Parmenide dà degli attributi all'essere solo per poterli dimostrare razionalmente, e cavarne una riprova della sua tesi. Ma appunto da queste fuggevoli attribuzioni e determinazioni date all'essere cercherò di de-

a. Platone, Lettera VII, 341 e-342 a.58durre il suo misticismo, esaminando alcuni passidei suoi frammenti.Nel fr. 1 egli chiama l'essere:«Il cuore che non trema della ben rotondaverità» (a) (29).Come può un principio logico ed astratto avere un «cuore»? L'essere di Parmenide è interpretato solitamente come una forma vuota; egli lo chiama qui invece «cuore», come ciò che vi è di essenzialmente vivo, come il principio di vita stesso - così il cuore è il principio della vita dell'uomo. Il dare all'essere un'apposizione come «cuore» richiama quello speciale parallelismo tra l'uomo e la natura che è proprio della mistica. In generale tutti i mistici ci dicono che la verità sta nel cuore, è il cuore stesso: così le Upanishad, Giordano Bruno, Böhme, e lo stesso Goethe; (b) si noti poi che il chiamare l'essere Aletheia, «la verità», significa in fondo l'identificazione della conoscenza vera con l'oggetto della conoscenza stessa, che è un insegnamento del misticismo. Sintomatici sono ancora gli aggettivi usati qui: eukykléos, «ben rotonda», ci richiama ad una visività plastica lontana da una astrazione puramente logica, e atremés, «che non trema», è un'espressione dell'interiorità di chi ha raggiunto la verità estatica in una pace e in una serenità intangibili.

a. 28B1, 29 DK.b. E' questo un pensiero comune del misticismo: si vedano ad esempio le Upanishad (Brihadarànyaka, 4, 4, 22; Chàndogya, 3, 12, 7-9), gli Eroici furori di Giordano Bruno (I, 4, Bruno ed. Gentile, 354), l'Aurora e Vom Dreifache Leben des Menschen di Bóhme. Goethe dice: «Die Kern der Natur wohnt Menschen im Herzen». 59Molto significativo per la dimostrazione della nostra tesi su Parmenide è il fr. 5, la cui interpretazione è particolarmente difficile:«Qualcosa di comune, di continuo (xunós)è ciò da cui parto, poiché là tornerò di nuovo». (30) (a)A me sembra che un senso chiarissimo e conforme all'impostazione generale della filosofia dell'Eleata data sopra acquisti il frammento quando lo si riaccosti ad un pensiero di Plotino e ad uno di Platone. (31) Plotino espone questo pensiero nel

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libro III delle Enneadi, e dice ad esempio in un passo: «l'anima desidera aumentare la sua istruzione e la sua contemplazione, e abbandona allora la contemplazione e circola attraverso la diversità delle cose; poi essa torna indietro e contempla con questa sua parte superiore che aveva abbandonato...». (b) Egli distingue quindi dal momento mistico il momento razionale che è un uscire dell'anima dalla sua solitudine ed un «circolare» attraverso il mondo. Questa conoscenza razionale si ottiene con una parte dell'anima inferiore a quella che porta al misticismo ed è quindi da lui, che è un puro teoretico, posta in secondo piano; Parmenide invece, al quale allo stesso modo, come risulta dal frammento, ciò che più importa è lo stadio intuitivo iniziale e il ritornarvi il più spesso possibile, parla nel suo poema unicamente di una posizione razionale, che è allontanamento da quel primo stadio, e ciò può essere spiegato soltanto ricorrendo alla sua

a. 28B5 DK. b. Plotino, Enneadi, III, 8, 6.60politicità. Possono però rimanere dei dubbi che il frammento di Parmenide accenni proprio a questa distinzione tra conoscenza mistica e razionale, e che ci sia un perfetto parallelismo tra di esso e il passo di Plotino; per dissiparli citerò un passo del Parmenide di Platone, dove Zenone invita a parlare il maestro riluttante, dicendogli che non deve aver timore, essendovi poche persone ad ascoltare: «la moltitudine infatti ignora che senza esser passati ed aver errato attraverso tutte le cose (accenno alla ricerca razionale), è impossibile a colui che ha incontrato la verità possedere intelletto». (a) Dal modo con cui è introdotto qui Zenone a parlare e dalle pagine precedenti del dialogo risulta chiaramente come qui Platone riporti e faccia suo un pensiero realmente eleatico. (32) Nel fr. 5 Parmenide parla di una conoscenza iniziale fondamentale che si abbandona e a cui si ritorna, ma non dice qual è la natura del momento in cui se ne è distanti; nel passo di Platone accenna invece a questo stato di allontanamento dalla solitudine, stato razionale e politico, in cui si erra attraverso tutte le cose, dia pànton diéxodos te kaì piane, e adopera a esprimere questa attività spirituale quasi letteralmente le parole che userà Plotino. Come segno definitivo della natura intuitiva e mistica della conoscenza in Parmenide, e quindi del perfetto parallelismo del suo frammento e del passo di Plotino, ricordiamo che Platone nel luogo sopra citato del Parmenide ritiene necessaria ad «avere intelletto», noun échein, la ricerca razionale per chi già «ha incontrato la verità», entychónta tó alethe. E chiaro

a. Platone, Parmenide, 136 d-e. 61quindi ormai che gli Eleati, quando iniziavano la ricerca razionale già possedevano la verità, che era stata raggiunta prima in modo non razionale, e quindi mistico. Tutto questo risulta dal fr. 5, il cui scopo specifico è però di dare all'essere l'attributo di xunón, di «comune, continuo», attributo dedotto per Parmenide dal fatto che, per quanto egli possa esser privato dell'intuizione suprema della verità, vi potrà poi giungere nuovamente: da vero mistico egli dà all'essere delle qualità ricavate dalle proprie esperienze conoscitive.Osserviamo ancora alcuni attributi della sostanza metafisica nel fr. 8: (33) al verso 4 ad esempio l'essere è detto atéleston, «infinito», il che è in aperta contraddizione con la ripetuta affermazione nello scritto parmenideo di una limitazione e finitezza dell'essere. Questa contraddizione è soltanto spiegabile con la mia tesi per la quale l'essere sentito come intuizione infinita nella conoscenza mistica viene nell'espressione razionale limitato e costretto dai vincoli ferrei dell'Anànke. Così al verso 18 troviamo l'attributo etétymon, che oltre al significato di «vero, reale», vuol anche dire «chiaro, visibile», e al verso 48 àsylon «inviolabile, intangibile»; tutti questi sono aggettivi che non aiutano certo a concepire l'essere come un'astrazione logica, ma gli danno al contrario una forza enorme di vita, e sono il risultato (34) di tutta un'interiorità poetica. Il verso 49 dice che il centro dell'essere «tende ugualmente all'infuori, verso i suoi limiti». (a) L'essere immobile ha in sé un

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fremito infinito

a. Parmenide 28B8, 49 DK.62di vitalità, è la fonte stessa della vita che aspira ad allargarsi, a creare: sembra che qui Parmenide voglia velatamente esprimere la sua estasi suprema che era a un tempo stesso una pace inviolabile e un desiderio immenso di allargarsi. Lo stesso sentimento troviamo negli Eroici furori di Giordano Bruno, quando egli dice che la divina sapienza è mobilissima e contemporaneamente stabilissima. (a)Per completare la prova del misticismo di Parmenide esamineremo ora i termini noein, nóos, phronein ecc. e vedremo che in lui, come in generale nei Presocratici, questi non hanno ancora il senso specifico di pensiero razionale che acquisteranno nello stadio ulteriore della filosofia greca, e significano invece conoscenza intuitiva. (35) Notiamo anzitutto che Eraclito, la cui natura di mistico perfetto abbiamo dimostrato sopra, per indicare il mezzo con cui si arriva alla conoscenza, usa la parola nóos e soprattutto phronein; lo stesso avviene in Parmenide, che usa di preferenza i termini noein, nóos: o egli lascia a nóos un significato indeterminato tra opinione, pensiero razionale (che pure è il senso prevalente), sentimento, come al fr. 6:«la sconsideratezza spingenei loro petti il lor pensiero vagante» (b)in cui plaktòn nóon vuol dire «opinione vagante» degli uomini ignoranti, significato che rimane anche modernamente al vocabolo «pensare» nel

a. Bruno ed. Gentile, 379.b. 28B6, 5-6 DK. 63suo uso non filosofico, oppure quando lo determina gli dà un senso di conoscenza mistica. Teofrasto ci dice che per Parmenide l'anima e il noùs sono la stessa cosa, (a) e quindi noùs non indica affatto la pura attività raziocinante, ma altresì volontà, sentimento, l'anima umana intera. D'altra parte Parmenide proclama la distinzione tra conoscenza vera e conoscenza falsa, e poiché non può portare questa distinzione alla diversità dei mezzi conoscitivi, avendo per lui tutti gli uomini un solo mezzo di conoscere, l'anima presa nella sua unità, la conoscenza vera sarà quella dell'anima più perfetta e più pura. E' una purezza morale quella che fa giungere alla verità, ed egli condanna i sensi perché impediscono all'anima di rimanere sola con se stessa, di essere veramente una e continua, di scoprire in sé la realtà ultima di tutte le cose: e questa non è altro che il processo conoscitivo mistico. Dopo questo grado più alto di conoscenza egli salva quello razionale, come mezzo di dimostrazione e di educazione, perché anch'esso possiede una sua purezza ed è distaccato dai sensi, pur essendo in esso l'anima meno alta moralmente, in quanto non ha perduto il principio di individuazione, si sente estranea al mondo, lo contempla come oggetto, e rimane in essa una dualità insuperabile che le impedisce di essere continua (xunechés). Tutto ciò lo troviamo espresso da Parmenide nel fr. 16:«secondo la fusione in ognuno delle membrache errano distanti

a. Si veda la notizia di Teofrasto (fonte attendibile) in Diogene, IX, 22.64varia il nóos degli uomini (ossia il loro grado diconoscenza)». (a)Si osservi di sfuggita la materialità dell'anima, o meglio l'indistinzione tra materia e spirito, che ha fatto interpretare da alcuni studiosi Parmenide come un materialista (b) e che è invece una caratteristica del misticismo, per esempio indiano. La parola kràsis significa qui più che «mescolanza», «unificazione» o «fusione»: (36) la perfetta conoscenza consiste nell'eliminare ogni discontinuità, nel sentire che l'essenza vera del mondo è ciò che unisce, che fonde le cose distanti (in «membra che errano distanti» è implicita tutta la distanza del mondo

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empirico dall'essere, la sua tendenza a disgregarsi). L'intuizione coincide così nello stesso frammento con il «pieno»:«... il pieno infatti è il pensiero» (c) (37)ossia con il concreto per eccellenza, l'esuberanza di vita, lo stato di perfezione che esclude ogni

a. 28B16, 1-2 DK.b. Cfr. Burnet GPH (trad. francese), 210. Windelband GPH, 46.c 28B16, 4 DK. Il Diels considera nXéo\ comparativo di TIOAAK; e traduce das Mehrere. Senonché non vi è difficoltà a interpretare nkÉov «il pieno» sia per l'esistenza nel fr. 8 di un vocabolo affine (si veda 28B8, 24 DK: TKXV 8' EJLUEXEÓV ÉAXIV éóvxoc;), sia per la possibilità in linguaggio epico di usare TÙJÉOG,, sia infine perché il frammento acquista solo così un significato chiaro, mentre la traduzione del Diels porterebbe ad un risultato ridicolo. Se il vóinfatti volesse dire «il molteplice», poiché d'altra parte coincide con l'elvai (cfr. Parmenide 28B3 e 28B8, 34 DK), il quale è uno, avremmo in Parmenide una contraddizione in termini. 65squilibrio, ogni coesistenza di vuoto e di pieno, ogni movimento come tendere del pieno verso il vuoto: una simile conoscenza è una pace viva e vera che non ha in sé disuguaglianze, e appunto per questo è diversa dal pensiero razionale che pone sempre un'opposizione tra soggetto e oggetto. Le Upanishad dicono che lo spazio che sta nella parte più intima del cuore è il pieno, l'immutabile; (a) Plotino dice che nell'estasi l'anima è piena. (b)Dopo il chiarimento del significato di nóema, noein per intuizione, possiamo ora per ultima cosa esaminare la più esplicita dichiarazione di misticismo di Parmenide, quella dell'uguaglianza tra noein e essere, che troviamo nel fr. 3:«... lo stesso è pensare ed essere». (c)e nel fr. 8:«ma la stessa cosa è pensare e lo scopodel pensare». (d)Con questa affermazione, per Parmenide importantissima, tanto che la vediamo ripetuta in due frammenti diversi, egli viene ad enunciare il principio capitale della conoscenza mistica, la coincidenza del soggetto intuente con l'oggetto della sua intuizione. (38) Gli interpreti di Parmenide come logico, per i quali il pensiero è il processo che astrae l'essere come forma comune a tutti

a. Upanishad, Chàndogya, 3, 12, 7-9.b. Plotino, Enneadi, III, 8, 5.c. 28B3 DK.d. 28B8, 34 DK.66gli «è» contenuti nelle affermazioni empiriche, superano l'imbarazzo che dovrebbero loro dare questi frammenti vedendovi semplicemente l'indistinzione originaria tra l'essere logico-linguistico e l'essere reale: sembra loro inammissibile il misticismo di sciogliere il pensiero nell'essere per una speculazione che non ha mai diviso i due termini. Questi interpreti non tengono conto che Parmenide nei due frammenti in esame dà a noein il senso specifico di intuizione, e non il significato logico da loro ritenuto l'unico, perché riscontrato in genere nel resto del poema. Come prova di ciò basta leggere il seguito del frammento 8:«senza l'essere in cui viene espressa, si realizza, non troverai l'intuizione. (39) (a)dove cioè si descrive il processo mistico per il quale l'essere è scoperto nella propria interiorità, e si giunge al punto in cui il proprio interno è sentito uno con la sostanza metafisica, e in essa trova un allargamento felice. Si noti che qui per la prima volta si dice tò noein, «il pensare», l'articolo è quindi usato a determinare qual è il vero pensare; si noti anche come al v. 34 si dica: «la stessa cosa è il pensiero e lo scopo del pensiero»: più che sull'essere egli insiste qui sul noein, non già perché voglia dire che l'essere è in certo modo creato

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dall'intuizione, in quanto è invece la sostanza che esiste ab aeterno, ma per il fatto che egli parla qui come mistico e quindi si sofferma sull'interiorità più che sull'oggettivo. (40) In tutto il a 28B8, 35-36 DK. 67resto del poema, dove noein ha un significato razionale, troviamo semplicemente il rapporto inverso: l'essere è il presupposto, e il noein è il puro mezzo di dimostrazione che l'essere è. Basta leggere l'inizio del fr. 8: «... rimane ancora una via, che l'essere è; a dimostrare ciò stanno molti segni: che cioè l'essere è senza principio e senza fine, è un tutto, unico, impassibile ed infinito». (a)Il fatto che l'essere ha questi determinati attributi serve a dimostrare la (41) verità dell'affermazione che l'essere esiste. Quindi gli attributi non si deducono da questa affermazione, ma se mai è il contrario - cioè la dimostrazione logica riceve un aiuto dall'appartenenza di certi attributi all'essere. Questi attributi vengono dati intuitivamente all'essere nella conoscenza mistica, e non sono ottenuti dall'indagine razionale: questa tutt'al più dimostrerà per assurdo che non possono toccare all'essere gli attributi contrari, ma ciò non è un risultato logico bensì un presupposto intuitivo provato razionalmente. All'interpretazione logica si può altresì obbiettare che mai Parmenide avrebbe potuto ammettere un'eguaglianza tra essere e pensiero razionale. La primordiale intuizione mistica da cui era partito Parmenide si confondeva nell'unità dell'essere, (42) ma quando egli sente la necessità di parlare, si accorge che il pensiero razionale con

a. 28B8, 1-4 DK.68cui si esprime presuppone per procedere almeno due termini. Egli vuole convincere gli uomini, e per far ciò deve loro dire che quello che essi credono reale non è tale, deve insomma introdurre accanto all'essere il non essere. E vero che egli dice che«il non essere...non si può neppure nominare». (a)ma egli lo nomina invece nella sua ricerca razionale, e giunge anche a determinarne il rapporto con l'essere, quando nega il divenire dall'uno all'altro. Il pensiero razionale parla quindi di ciò che non è nominabile, ed appartiene esso pure quindi alla dóxa, al non essere. Parmenide era quindi ben cosciente che il noein nel suo senso logico è distinto dall'essere, perché in caso contrario avrebbe almeno evitato l'incoerenza di pretendere che il non essere non si possa nominare. Infine, ammettendo per un istante che il noeìn nei due frammenti in esame significasse pensiero razionale, l'affermazione sarebbe incomprensibile e non si potrebbe neppure spiegarla con l'indistinzione ingenua tra essere logico-linguistico e essere ontologico: se così fosse stato Parmenide avrebbe dovuto esserne completamente incosciente; invece è proprio lui che afferma l'uguaglianza di questi due termini diversi, è egli stesso che la vuole questa uguaglianza. Il solo fatto che ponga l'uguaglianza presuppone la coscienza di un'eventuale antitesi. Parmenide aveva ben visto che dal significato razionale nel suo poema di noein, questo sarebbe apparso di-

a. 28B2, 7-8 DK. 69verso dall'essere, e ci sarebbe quindi stata una scissione nella perfetta unità del suo sistema e un tradimento verso la verità mistica raggiunta. D'altra parte non poteva dire quale era il vero noein, quello sopra-razionale: egli risolve la questione imponendo alla fine della prima parte del poema, quando la ricerca razionale è terminata, quest'ultima verità come un dogma, anche qui comportandosi come un legislatore. Vi è un dé avversativo, «ma», al principio di 28B8, 34 DK: «ma il pensiero e l'essere sono la stessa cosa»: nonostante che agli uomini possa apparire diversamente, essi gli devono credere perché egli è più sapiente.

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Nella seconda parte del suo poema Parmenide dà una spiegazione della realtà secondo la dóxa, secondo l'opinione umana, e tratteggia un sistema naturalistico sul tipo ionico in cui l'arché è duplice, la luce e le tenebre. Abbiamo già visto che anche il pensiero razionale poteva considerarsi in certo senso una dóxa, in quanto inadeguato rispetto al noein più alto, dóxa di cui Parmenide si era servito come espressione politica del proprio misticismo: questa seconda dóxa, molto più imperfetta della prima, è un ulteriore suo tentativo di comunicarsi agli uomini, nel caso che l'espressione razionale fallisse al suo scopo, in quanto può esser loro più comprensibile ed accessibile ed è anche per lui uno sfogo di tutta la vissutezza artistica dell'esperienza di mistico, una parziale concessione all'impulso che ha sin qui dolorosamente costretto nelle gelide astrazioni della sua logica.70

VEmpedocle

È interessante ora, prima di passare a Platone, fermare l'attenzione su Empedocle, il più politico tra i Presocratici che abbiamo sin qui esaminato. La fondamentale distinzione da me posta tra aspetto politico e aspetto mistico è in lui più difficile a vedersi, in quanto che la sua vita è tutta politica, è una continua espressione dell'interiorità mistica, è uno sforzo ininterrotto di fondere ciò che gli sta dentro con ciò che lo circonda. Il mio compito era più facile con Eraclito e Parmenide, che nella loro stessa vita lasciavano scorgere un contrasto tra la solitudine e il riaccostamento agli uomini con i loro scritti; in Empedocle invece il misticismo tende fin da principio ad essere politico, e non si avverte più un trapasso spirituale da una prima a una seconda fase. Quell'incontrarsi di religione e politica, che dà origine alla filosofia greca e di essa costituisce l'inconfondibile individualità, diventa fusione in Empedocle e sarà unificazione totale per Platone, il cui misticismo non servirà che a trasfigurare e a porre in un piano ideale la politica. Il punto da cui parte Empedocle è l'individualismo politico greco, l'impulso cioè ad affermare la propria personalità nella vita, che però non lo porta ad esplicare un'attività e una funzione limitata nella pòlis, ma è sentito come slancio infinito ad agire che non ammette costrizioni. Fin dall'inizio 71egli sente l'abisso che corre tra lui e gli uomini, e fin dall'inizio egli pone se stesso a vivere in una sfera di esistenza superiore a quella umana: la constatazione della propria divinità è un presupposto di partenza da cui egli muove (a) non un risultato conoscitivo come per Eraclito. Questa posizione lo porta ad una critica di tutti gli ordinamenti politici esistenti e soprattutto di quello che egli vedeva vivo e trionfante dinanzi a sé in Sicilia: la tirannia. Per lui esisteva una sola distinzione tra gli uomini, quella tra gli uomini mediocri e i divini; la tirannia era invece il porsi di un uomo mediocre al di sopra di tutti i suoi uguali, con il pericolo per di più che soggiogato a lui rimanesse un uomo divino. La disordinata vita politica siciliana, fatta di ambizioni e di stragi, e la miseria dell'umanità che poteva esserci in una metropoli qual era allora Agrigento gli fecero vedere la quantità enorme di sofferenza che stava sotto la magnifica plasticità greca: gli sembrò allora che in questo mondo la forza che domina è l'Odio, il Neikos, e i suoi probabili contatti con le dottrine di Anassimandro e coi circoli orfici dell'Italia meridionale non fecero che accrescere questo suo pessimismo giovanile. Se così terribile era la realtà, gli rimaneva però ancora un compito nella vita, quello che gli comandava il suo istinto politico: convincere gli uomini, che si agitavano incoscienti nella loro miseria, a purificarsi e a vivere in vista di un'esistenza migliore. Conobbe anche i Pitagorici, che lo interessavano per la risoluzione politica data a questo pessimi-

a. Cfr. l'inizio delle Purificazioni: 31B112, 4 DK. «io sono per voi un dio immortale, non un mortale».

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72smo. Non poteva però bastare alla sua natura dionisiaca e assoluta il sistema politico pitagorico, che era pur sempre un compromesso tra realtà e ideale, era ancora alla fin fine un trionfo dell'originaria politicità ellenica, intesa come apollineità e misura. D'altra parte una formidabile personalità di legislatore e di capo politico come la sua non poteva ridursi a divenire un semplice membro di una classe, sia pure di una classe aristocratica quale era la comunità pitagorica. Decide allora di attuare in Agrigento una sua pòlis di purificazione, una pòlis in cui l'odio venga eliminato per quanto si può su questa terra, e parla ai cittadini, accentua l'ascetismo pitagorico, proibendo loro di nutrirsi di vegetali (a) li ama come un dio ama gli uomini, guarisce le loro malattie perché il dolore dell'umanità diminuisca e scrive per loro I canti della purificazione. (b) Non si arresta però a questo stadio pessimistico e a trarnelo fuori contribuisce molto la conoscenza che egli fa con Parmenide. Che Empedocle sia stato suo allievo ed amico lo testimonia Teofrasto, fonte più che attendibile, risulta dai molti punti di contatto tra le loro dottrine, e lo dice infine nel modo più chiaro la lode entusiastica che egli fa in un suo frammento di Parmenide, come modello dell'uomo superiore. (b) (43) Parmeni-

a. Cfr. Rostagni Pitagora, 201-202.b. Bidez Empedocle, 161-74 suppone giovanili le Purificazioni e opera matura invece il poema Sulla natura, dando una dimostrazione esauriente.c Cfr. Diogene, VIII, 55 = 31A1 DK.«Teofrasto poi dice che Empedocle fu acceso ammiratore di Parmenide e suo imitatore nella poesia». Per i con- 73de gli ridiede la fiducia nella vita, gli insegnò che l'eternità si può raggiungere anche qui su questa terra, e non è necessario aspettarla dopo la morte, gli aprì nuovamente la strada a una vera politica, che fosse una rivalutazione dell'esistenza terrena e l'espressione più bella del proprio interno, e non più soltanto una purificazione per l'aldilà. Ad Agrigento egli viene meno come capo religioso e diventa uno speciale capo politico. La democrazia gli parve la soluzione politica più perfetta, perché attuava tra gli uomini una eguaglianza che nelle sue speranze avrebbe portato a un prevalere della sua dea Afrodite, ossia dell'amore, e quindi a una maggiore felicità degli uomini. Di questa democrazia però egli non entrava direttamente a far parte, dal momento che

tatti tra le loro dottrine si veda il fr. 12 di Empedocle, che riassume la dimostrazione di Parmenide dell'eternità dell'essere: Empedocle presuppone qui le dottrine del maestro, e usa lo stesso suo termine (eón) a indicare la sostanza metafisica. Reinhardt Parmenides, 15-16 osserva una stretta affinità tra la seconda parte del poema di Parmenide e la costruzione del cosmo in Empedocle. Il fr. 129 di Empedocle poi, che parla di un uomo straordinario, dalle doti soprannaturali, senza peraltro dirne il nome, è riportato da Diogene (VIII, 54), il quale aggiunge che secondo Timeo si riferisce a Pitagora, secondo altri a Parmenide. Si noti anzitutto che Timeo è uno storico che si occupa in modo speciale dei Pitagorici ed è quindi naturale che ad essi tenti di riallacciare Empedocle. Se si legge avanti in Diogene, si vede poi che egli continua a usufruire le fonti pitagoriche, riportando la notizia di Neante sul furto da parte di Empedocle delle dottrine pitagoriche; dopo di che dice che, secondo Teofrasto, Empedocle fu allievo di Parmenide. Mi sembra quindi che anche il riferimento fatto poco sopra da Diogene del fr. 129 a Parmenide derivi da Teofrasto, e sia quindi da ritenersi dedotto da fonte più attendibile.74egli apparteneva a una natura diversa da quella umana, si sentiva un dio; come tale non poteva quindi entrare nella pòlis come semplice cittadino, a pari diritto con gli altri, né d'altra parte poteva in essa porsi come capo immediato, perché allora la pòlis non sarebbe più stata una democrazia. Per questo egli rifiuta di regnare, quando gli Agrigentini lo pregano di ciò: (a) nel vestire, nell'incedere,

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nell'atteggiamento egli si comporta come un re, ma in pratica egli non vuole diventarlo. Egli sta di fronte alla sua città come un dio protettore, che la guida dal di fuori sulla via della felicità: la sua funzione politica si esaurisce per lui in questo presentarsi dinanzi ai cittadini come il modello ideale di uomo e non consiste nell'occuparsi proprio materialmente degli affari politici della città, compito non degno di un dio. L'uomo superiore secondo Empedocle non si interessa direttamente alla politica: Platone invece fa dirigere dal filosofo il suo Stato, e giunge così ad una costruzione aristocratica. Empedocle va in seguito staccandosi lentamente dagli uomini ed arriva alla vera conoscenza mistica solo ora, nella sua maturità: il poema Sulla natura è l'ultimo riaccostamento, è la realizzazione politica del suo misticismo, è la legislazione cosmica che egli dà all'umanità prima di porre termine alla sua vita.La fine di Empedocle è ben nota: egli si uccide gettandosi nel cratere dell'Etna. (b) Ci possiamo

a. Cfr. Diogene, VIII, 63 = 31A1 DK.b. Diogene, VIII, 67-69 = 31Al DK riporta il racconto di Eraclide Pontico sulla morte di Empedocle: dopo un sacrificio notturno di ringraziamento agli dèi, egli era scomparso ed 75chiedere com'egli sia giunto al suicidio, ad un atto cioè tanto scandaloso per la mentalità ellenica. Ad una soluzione tragica della vita egli è portato dalla sua natura artistica, eccessiva, assoluta, sensibilissima ad un tempo al dolore dell'esistenza e all'entusiasmo per la bellezza: non per niente in gioventù egli scrisse delle tragedie. Lo dice egli stesso nelle Purificazioni tutto il suo giovanile senso tragico, in una delle tante meravigliose espressioni sintetiche presocratiche:«(La Bellezza) ... odia l'Anànke terribilea sopportarsi». (a)

era salito all'Etna. Timeo si oppone a questa notizia (Diogene, VIII, 71-72), dicendo anzitutto che il proprietario del campo in cui Eraclide racconta sia avvenuto il sacrificio era un siracusano, Pisianatte, che non aveva quindi terreni ad Agrigento, ed aggiungendo in secondo luogo che se Empedocle fosse morto in Sicilia, Pausania non avrebbe mancato di erigergli un sepolcro. Noi osserviamo che Eraclide, essendo di una quarantina d'anni anteriore a Timeo, può ritenersi meglio di lui informato sul fatto: si noti poi che Timeo non ha da nessuna fonte una versione diversa della fine del filosofo, e si limita a dedurre dalla critica del racconto di Eraclide che Empedocle non possa esser morto che nel Peloponneso. Questo senza contare l'infondatezza della critica basata sul fatto che il sacrifìcio non potè aver luogo in Agrigento: nulla impedisce che egli fosse in territorio siracusano, tanto più se si ammette come vera la notizia della sua cacciata dalla città; la cosa era anzi più logica essendo la località senza dubbio più vicina all'Etna. L'opporsi al racconto è comprensibile in Timeo, storico favorevole ai Pitagorici (e tra i Pitagorici poneva anche Empedocle): Eraclide infatti interpretava il suicidio di Empedocle come una prova della sua folle ambizione, che lo aveva infine spinto a scomparire dal mondo, per far credere agli uomini di esser salito in cielo come dio, e Timeo non trova altro mezzo per salvare la fama del filosofo che contrastare la possibilità del suo suicidio, a. 3IBI 16 DK. 76Tutta la sua filosofia è schiettamente tragica, è il mondo visto come lotta degli opposti - egli sente i contrari in modo talmente violento che gli riesce impossibile comporli con il mezzo apollineo della misura. La misura è per lui una maschera, una maschera tragica: a passi misurati egli cammina verso il suo abisso. Egli si presenta sin dall'inizio come un dio, e questa posizione richiede uno sforzo di moralità spaventevole ed incessante che la volontà di un uomo non può resistere. La sua vita non è che una lotta continua tra l'amore per gli uomini e la sua vera divinità, che lo spinge al distacco. Alla fine vince quest'ultimo impulso perché troppo egli ama una vita di grandezza. Egli si uccide per salvare la sua

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maschera apollinea, perché lo spirito non gli schianti il corpo, e la sua morte non è che l'affermazione di una forma di vita più alta, di una vita infinita e dionisiaca: egli muore nella bellezza, per diventare più perfetto. (44)Anche Empedocle è un mistico. Per convincersene basta vedere come si esprime quando parla del modo di conoscere la verità. Il nóema anche per lui, successore di Parmenide, significa intuizione e non pensiero razionale. Si veda il fr. 105:«il sangue che sta attorno al cuore è il pensierodegli uomini». (a)Questo verso di per sé, pur non negando espressamente che il nóema sia il pensiero razionale, dice però qual è la natura e la causa di questo «pensiero». Ora, perché Empedocle per spiega-

a. 31B105, 3 DK. 77re cosa sia il «pensiero» parla del sangue che sta attorno al cuore? Evidentemente perché quando «pensa» egli sente in modo particolare questo sangue dei precordi. Il pensiero razionale è un fatto puramente cerebrale, non dà nessuna sensazione al petto: ciò che dà questa sensazione è, oltre che pensiero, sentimento ed intuizione. Qui si parla però ancora di un «pensare» generico, comune a tutti gli uomini; più specifico ad indicare la vera conoscenza, e più esplicito, è l'inizio delfr. 110:«Se infatti piomberai sulla verità con il tuo cuoreincrollabile,e pieno di bontà la contemplerai con una puraansia» (a).Tutto qui sta ad indicare una conoscenza mistica: prapides, originariamente «diaframma», qui nel senso di «cuore», è il luogo dove nasce per tutti i mistici l'intuizione; il verbo ereido, il cui significato è «piombare su una cosa e stabilirvisi in modo definitivo» esprime lo slancio entusiastico e al tempo stesso la sicurezza di questo genere di conoscenza; epopteúo è il termine tecnico ad indicare la contemplazione sopra-razionale. Questi termini ritornano ancora in altri frammenti, quando egli parla di grandi intuizioni: il fr. 129 che dice di Parmenide: (45)«quando egli si protendeva alla verità con tuttele forze del suo cuore». (b)

a. 31B110, 1-2 D.b. 3IBI29, 4 DK.78dove prapides ha lo stesso significato; così ancora il fr. 12, che parla dell'essere:«l'essere infatti sarà sempre là, dove uno ognivolta vi piombi sopra». (a)verso in cui il verbo ereido allo stesso modo è usato ad esprimere la conoscenza mistica. Notevoli sono altresì questi due ultimi passi in quanto lasciano scorgere come strettamente siano vicini Empedocle e Parmenide, e come sia per loro identico il modo di accostarsi alla verità. Anche Empedocle è dunque un mistico, ma la caratteristica che lo distingue dagli altri Presocratici è la natura più artistica e politica del suo misticismo, tratto questo che lo avvicina invece a Platone. Conviene anzi esaminarlo, questo lato artistico, per il fatto che in quasi tutti i pensatori greci sino a Platone, e particolarmente in Empedocle, esso è talmente legato alle dottrine filosofiche che queste senza di esso non possono essere comprese a fondo. In Empedocle vediamo il primo artista greco veramente dionisiaco, e l'unico forse che abbia saputo realizzare artisticamente nella sua pienezza e nella sua totalità la visione dionisiaca del mondo. Questo si spiega con i presupposti filosofici, sia pure visti attraverso la religione, da cui parte il fenomeno dionisiaco: nessun artista puro, e quindi privo di senso filosofico, potè essere un vero dionisiaco, e sbaglia Nietzsche a trovare nella tragedia greca la massima espressione di questa visione del mondo; questa massima espressione fu

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raggiunta soltan-

a. 31B12, 3 DK. 79to da un poeta quale Empedocle, che fu al tempo stesso un filosofo. Sopra abbiamo definito, in una interpretazione del fenomeno più ampia di quella nietzscheana, il misticismo greco, ossia la visione dionisiaca del mondo, come interiorità pura, come impulso a superare tutto ciò che è umano; apollineità è invece ogni forma di espressione, ossia per i Greci attività politica in senso largo. L'arte apollinea è quindi quella in cui l'espressione coincide con il sentimento-intuizione, in cui l'espressione è l'unica cosa importante e manca un'antecedente interiorità, è visione pura, oggettività. L'oggetto finito è in certo senso ciò che precede, ed è la causa del sentimento: il sentimento poi si esprime, si realizza attraverso la cosa, si adagia nella cosa, trova in essa un soddisfatto riposo e un limite alla sua infinità. Il contrario avviene per il vero artista dionisiaco, che parte dal di dentro, senza stimoli esterni e senza l'impressione di cose particolari: quando la sua solitudine trabocca di vissutezza, egli sente il bisogno di agire, di comunicarsi agli uomini, di creare, e cerca affannosamente simboli visivi che esprimano il suo interno. Il suo sentimento è infinito e ricerca l'infinità, non può fermarsi su cose determinate che diano pace perché è un'aspirazione eterna, e vuole quindi esprimersi nel generale, nell'indeterminato, in ciò che mantiene il suo strazio, perché di esso egli non può fare a meno, ma in un generico che non sia astratto, che sia l'essenza della vita, da cui rampollano, sono comprese e rappresentate le cose singole. La creazione dionisiaca, che soltanto in Empedocle, come ho detto, si realizza compiutamente, è quindi una forma tutta particolare80di arte, che si riscontra in alcune opere di mistici, e in musica. Dico la musica, perché soltanto nel motivo musicale, come ha osservato Schopenhauer nel III libro del Mondo come volontà e rappresentazione, si trova una genericità che sia concreta, requisito necessario della creazione dionisiaca. Senonché questa coincidenza di genericità e concretezza, che Schopenhauer riscontra largamente in musica, va secondo me limitata ai musicisti dionisiaci, ossia a pochi tra di essi. Il musicista dionisiaco si distingue però dal poeta-filosofo dionisiaco per la sua mancanza di senso filosofico e politico. Un dionisiaco come Empedocle crea alcuni motivi fondamentali, i quattro elementi, l'Amore e l'Odio, li stabilisce come princìpi filosofici immutabili e li impone agli uomini come la propria legislazione: Beethoven invece, che può considerarsi un tipico musicista dionisiaco, non intuendo la necessità filosofica di raggiungere la massima genericità in una creazione unica ed immutabile, ricorre per esempio ad un'inesauribile varietà di motivi eroici per esprimere un'unica sua vissutezza interiore di eroismo, sia pure ripetutasi molte volte. (46) La filosofia naturalistica di Empedocle nasce da questa ricerca artistica di creazione e di espressione; egli giunge a simboli cosmici perché questi sono i più generali e i più gravidi di vita. Le sue creazioni artistiche e filosofiche, i suoi «motivi», l'aria, la terra, il fuoco, l'acqua, l'Amore, l'Odio, cui può aggiungersi lo Sphairos, non sono che l'espressione delle sue vissutezze fondamentali, delle sue intuizioni mistiche. Cerchiamo ora di penetrare nel significato di alcuni di questi «motivi», nel tesoro di vita che es- 81si contengono. Empedocle per esempio esprime con «acqua» una delle sue intuizioni. Egli non dice agli uomini tutta la ricchezza che per lui è contenuta in quella parola, perché essi intanto non lo capirebbero, e si accontenta di imporre a loro la sua verità. Tutt'al più fa qua e là un accenno a ciò che vi è racchiuso, rinunciando alla genericità per farsi capire un po' di più. Così al fr. 6, dove l'acqua è impersonificata in una ninfa:«Nestis, che lascia cadere le sue lacrime nellafonte degli uomini». (a)Da un solo verso saltano già fuori tante immagini e sentimenti, contenuti tutti nella sua unica intuizione: egli vede una ninfa presso una fonte, vede delle

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lacrime cadere in un'altra acqua, sente il dolore che è la causa di quelle lacrime, immagina la vita degli uomini come una fonte che scorre, pensa che una stessa cosa è l'acqua dolorosa delle lacrime e l'acqua gioconda della sorgente, e pensa ad infinite altre cose in un unico sentimento infinito. Plutarco ci riferisce che per Empedocle l'acqua è l'elemento dell'amore: (b) con ciò egli non vuole certo identificare l'acqua con l'amore perché altrimenti non ne avrebbe fatto due princìpi diversi del mondo, ma cerca semplicemente di far capire in parte agli uomini che egli, quando parla dell'acqua, esprime un suo sentimento. Quanto naturale sia questo spe-

a. 31B6, 3 DK.b. Cfr. Plutarco, De primo frigore, 16, 952 B, dove è riportato il frammento 31B19 DK: 82ciale sentimento in un poeta mistico lo dice la piena concordanza con un passo di Novalis: «L'acqua ... si mostra come elemento dell'amore e della mescolanza, dominando sulla terra» (a) Vediamo ora un altro dei «motivi»: Philótes o Aphrodite, l'Amore. Questo termine significa non l'amore che hanno tutti gli uomini, ma esprime il suo amore, l'amore più alto incomprensibile ai mortali. (b) La Philótes è l'aspirazione della sua vita, è il suo eroismo, è in un primo tempo amore per gli uomini, ed è in seguito la brama di una grandezza maggiore che spinge alla solitudine, l'amore cioè, più ancora che degli uomini, della conoscenza e della vita. In parte questa natura della Philótes risulta dal fr. 35:«il divino slancio pieno di bontà dell'Amoreimmacolato». (c)dove in epióphron, «pieno di bontà», affiora il suo amore per gli uomini, in àmbrotos hormé, «divino slancio», vi è tutta l'aspirazione eroica, e in amemphéos, «immacolato», la purezza suprema di tale amore.Esaminiamo infine lo Sphairos, ossia lo stato di perfezione del mondo, in cui l'Amore ha la meglio sull'Odio, e unifica gli elementi confondendoli in una immobile sfera. Questo Sphairos non è altro che l'espressione della suprema conoscenza mistica, della coincidenza del soggetto col

a. Novalis, Die Lehrlinge zu Sais, in Ausgewählte Werke, Leipzig, 1903, vol. I, p. 160.b. 31B17, 25-26 DK.c 31B35, 13 DK. 83mondo, è la stessa cosa dell'essere di Parmenide. L'aspirazione eroica dell'Amore ha trovato la sua pace: è questo il momento paradisiaco in cui tutte le contraddizioni del mondo sono superate in una luminosa ed immobile beatitudine, è lo stato che i mistici chiamano estasi. Vediamo il fr. 27, dove Empedocle parla dello Sphaìros:«Colà non si vedono le veloci membra del sole, né la potenza villosa della terra, né il mare: così sta irrigidito nel denso segreto dell'Armonia lo Sfero rotondo, superbamente felice dellasolitudine che regna all'intorno». (a)Qui tutte le parole degli ultimi due versi sono l'espressione di una fortissima esperienza spirituale vissuta. L'aggettivo pykinós, «denso», sarebbe assolutamente incomprensibile se non avesse un senso affine al pléon, «pieno», di Parmenide, e non significasse la riboccante ricchezza dell'ultima conoscenza; kryphos, «segretezza», allude senza dubbio all'inaccessibilità ed alla lontananza dagli uomini di questo stato di beatitudine, nascosto a tutti fuorché a colui che aspira alla conoscenza; Harmonia è la pace suprema, la bellezza, la perfezione, l'immobilità, e già Eraclito l'usava in questo senso; estériktai, «s'irrigidisce», ha un significato complesso, indica qualcosa che si ferma dopo un movimento, come un respiro sospeso, indica l'anima che, al termine della sua aspirazione eroica, giunge ad un'immobile visio-

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a. 31B27 DK.84ne della verità e della bellezza, e trova in essa una tale felicità da essere ripagata di tutto il dolore sopportato per arrivarvi. Questo stato beato è immobile, plastico, non vi è in esso né divenire, né tempo, e si può quindi ugualmente chiamare attimo o eternità: ma l'Odio ritorna ad infrangere questa perfezione, e ricomincia la sofferenza. Tutto questo è lasciato intravedere dal verso 29, (47) e possiamo dire che Empedocle riesce a comunicare la sua interiorità meglio di quanto lo faccia Goethe, massimo poeta dell'espressione, quando vuol dire questa stessa intuizione. Nel Trionfo di Galatea egli tenta di esprimere questo momento paradisiaco: Nereo trova un compenso a tutto il dolore di un anno nella contemplazione della bellezza di sua figlia Galatea, che passa per un istante dinanzi a lui, su una conchiglia tirata dai delfini. Questo attimo supremo di felicità egli non sa esprimere altrimenti che così: «Nereo: Sei tu, mia adorata! Galatea: O padre, o felicità! Fermatevi delfini, quello sguardo mi incatena! Nereo: Già passate, essi passano oltre, nel muovere ciclico del loro slancio...». (a) (48) Il verso 4 del frammento in esame (49) non fa che confermare la mia interpretazione: ci parla finalmente di gioia, della gioia superba del superuomo, fiero della propria solitudine, della gioia unica di un dio, che supera ogni altra felicità e che rimane sola, senza nulla all'infuori. L'individuo che basta a se stesso coin-

a. W. Goethe, Faust II, Klassische Walpurgisnacht: «Nereus: Du bist es, mein Liebchen! Galatee: O Vater! das Glück! / Delphine, verweilet! mich fesselt der Blick. / Nereus: Vorüber schon, sie ziehen vorüber / in kreisenden Schwunges Bewegung...». 85cide qui con il mondo: la sua anima abbraccia tutta la realtà, e ad essa nulla può aggiungere un'altra anima.Questi ultimi due «motivi» di Empedocle, la Philótes e lo Sphairos, ossia l'eroismo e il momento paradisiaco, bastano da soli ad esprimere tutta la sua vita spirituale, e sono quindi per lui anche i princìpi fondamentali del mondo: lo stesso avviene per tutti i mistici e i poeti dionisiaci che sono dei veri affermatori della vita e non svalutano il tendere eroico dell'individuo di fronte al fine di questo eroismo, l'immobile conoscenza mistica. Così ad esempio Böhme, nel suo duplice aspetto della divinità, il Dio padre che è «felicità chiara e luminosa», «una pace eterna», e la seconda persona della Trinità, che è il «cuore e la forza di Dio», la sua volontà, (a) così Goethe nel suo contrasto tra lo Streben e l'Augenblick, così ancora Beethoven, la cui musica non è che una dialettica tra motivi eroici e motivi estatici e contemplativi. Abbiamo sin qui visto come la filosofia di Empedocle possa essere considerata come una creazione artistica: vediamola ora, a conclusione del nostro esame, come espressione politica. Politicità è per il Greco apollineità, sistemazione armonica di individualità, limitazione in una vita equilibrata di ciò che tende a espandersi all'infinito, riduzione ad un'esistenza pacifica di ciò che sarebbe naturalmente in guerra. Ora il processo di creazione artistica per cui Empedocle tenta di racchiudere in simboli visivi e comprensibili l'infinità del suo interno, è appunto un impulso a trovare qualcosa di limitato in cui riposarsi, è un'ansia

a. Böhme, Vom Dreifachen Leben des Menschen.86verso una superiore vita politica in cui la sua individualità trovi finalmente un equilibrio, è, come dice Platone nel Simposio, un desiderio di un figlio in cui esso possa contemplarsi e vedersi realizzato. Le sue creazioni artistico-filosofiche, i suoi «motivi», i suoi elementi rivelano la loro natura politica nell'essere concepiti come individualità: fuoco, aria, terra, acqua, Amore, Odio, Sphairos, sono tutti personalizzati, sono degli dèi, Nèstis, Era, Zeus, Neìkos ecc. (50) A queste poche individualità supreme, che sono i cittadini della pòlis del mondo, egli ne aggiunge ancora una, la propria individualità in quanto divina, che

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ha dominato il mondo, lo ha completato e gli ha dato un senso nella sua conoscenza, che è, a dirla con Nietzsche, «la coscienza sovrumana del mondo», e che può quindi entrare nella pòlis sublime come un nuovo dio, il dio conoscitivo. (51) Ora, in che cosa si differenzia questa pòlis divina dalla pòlis degli uomini, ossia in che cosa risiede per gli uomini il valore ideale di questa somma politica, che deve essere per loro il modello costante cui adeguare la propria vita? Una politica reale e non filosofica è una semplice armonizzazione di individualità che sono sin dal principio limitate: quando si vuol trovare una risoluzione filosofica all'organizzazione politica di queste individualità, basata sul diverso valore reale di questi individui, si scopre che l'individualità dionisiaca, religiosa e conoscitiva è invece infinita e rifugge dall'essere inserita nella pòlis come membro limitato. Eraclito risolve il problema politico con un'individualità divina separata da tutto, che è al tem-

a. 31B134DK. 87po stesso la legge e l'arché dominante politicamente nel mondo: egli non giunge però mai ad una soluzione personale del problema, in quanto la sua esistenza di uomo limitato non può mai arrivare a coincidere perfettamente con il dio che è separato dal mondo e al tempo stesso lo tiene soggiogato, ed egli si tormenta durante tutta la sua vita per superare un'antitesi insuperabile, senza poter giungere alla serenità. Per Empedocle invece la risoluzione è completa in quanto che, pur comprendendo che la sua individualità dionisiaca non può essere limitata in una pòlis umana, crea per se stesso una forma di politica superiore che gli permetta di vivere un'esistenza limitata pur nella sua infinità dionisiaca, gli dia quindi una serenità plastica ed apollinea, e che sia al tempo stesso un modello per la politica umana. Gli elementi, i suoi «motivi», sono gli individui e i cittadini di questa pòlis divina che è il mondo, e formano una perfetta democrazia: gli uomini non hanno che da imitare questa costituzione ideale per vivere felici. Il mondo è quindi concepito come una ristretta democrazia di grandi individualità, ognuna delle quali ha un dominio infinito e può quindi completamente appagare il suo cosmico desiderio di dominazione, ma al tempo stesso, per il fatto che coesiste con altre individualità, è limitata. (a) (52)

a. Così l'aria è infinita in 31B17, 18 DK, ma quando viene chiamata Aidonéus (B6, 2) è limitata (Aidonéus è una individualità divina, ma è uno di quegli dèi che sono detti al frammento B21, 12 «dalla lunga vita», che sono cioè limitati nel tempo); così l'Amore è limitato in B17, 20 ed infinito in B35, 13; così lo Sphairosè detto al tempo stesso88In questa costruzione democratica del mondo viene superata l'antitesi tra dionisiaco e apollineo, tra infinito e finito, in quanto ogni individuo trova un limite alla propria infinità dovendo vivere su un piede di uguaglianza assieme ad altre individualità, ma ritorna eternamente nel corso ciclico del mondo ad ottenere la supremazia sui suoi concittadini; come in una perfetta democrazia il potere è tenuto secondo un turno prefissato da tutti i suoi membri/ In questa pòlis divina regna una giustizia perfetta, una legge suprema, una razionalità che muove tutte le cose secondo il ciclo dell'Anànke: essa si «espande in modo continuo» (a) attraverso gli elementi, attraverso i cittadini della pòlis; è come un fluido, un vincolo, una loro comune volontà di vivere apollineamente una perfetta esistenza politica.

limitato ed infinito in B28; infine Empedocle è limitato in quanto uomo, e illimitato come «dio immortale» (B112, 4).a. I versi 27-29 del frammento 31B17 DK che contengono gli elementi da cui ho dedotto questa costruzione democratica del mondo, si riferiscono a tutti gli elementi oltre che ad Afrodite e al Neikos.b. Empedocle 3IBI35 DK «la legge universale si espande in modo continuo attraverso l'etere dall'ampio regno, ed il fulgore infinito».

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LA FORMAZIONE GIOVANILE DI PLATONE

Venendo a parlare ora di Platone vediamo, seguendo l'impostazione generale del problema che ho fissato sopra, come la formazione del suo pensiero abbia le sue radici nel misticismo presocratico, e come il suo sistema filosofico sia un grande trionfo della politicità ellenica, sia l'espressione politica di questa interiorità mistica. (53) Naturalmente uno studio sulla formazione di Platone porta con sé un complesso di problemi filologici, in modo particolare sulla cronologia dei dialoghi; per non interrompere lo svolgersi della mia trattazione con una minuta analisi filologica, confinerò questa a un ultimo capitolo rimandando tacitamente a questa appendice filologica in ogni occasione che nel corso dell'esposizione vi sia un'affermazione anche implicita sulla vita o sulla posizione degli scritti di Platone. (54) 91

ISocrate

Anche per me, che pur faccio risalire ai Presocratici l'origine più intima del pensiero platonico, la figura del maestro diretto, di Socrate, rimane sempre qualcosa di essenziale e di determinante su tutta la sua evoluzione. Ciò che è straordinario in Socrate non è il sistema delle sue dottrine, che alla fin fine non si sa neppure se esista, e che è stato ricercato con tanta fatica dagli storici, senza che mai si sia giunti a un risultato sicuro, dagli uni nei Memorabili di Senofonte, dagli altri nei dialoghi platonici, oppure ancora nelle testimonianze di Aristotele: il meraviglioso è in lui la personalità filosofica, ed è proprio essa che ha esercitato un influsso decisivo sulla vita di Platone, questa sfingea individualità, come ci appare nell'Apologia, in parte del Fedone, nel discorso di Alcibiade del Simposio. Solo cercando di penetrare ciò che di lui dice Platone in questi dialoghi possiamo accostarci a questa figura enigmatica, e comprendere l'attrattiva e il fascino che egli esercitava sui suoi contemporanei. Socrate è il vero spirito ellenico originario, (a)che guarda alla vita come a un campo di azione politica (b) non

a. Meyer GA, IV, 453.b. Un'interpretazione prevalentemente politica di Socrate dà anche Doering Sokrates. Mentre però io mi baso sulle testimonianze di Platone, egli si volge in preferenza a quelle di Senofonte.94sconvolto dal tormento dionisiaco. Nonostante ciò è un filosofo: di qui la sua posizione stranissima nella spiritualità greca, dal momento che la filosofia, come abbiamo visto, nasce direttamente dal fenomeno dionisiaco. In che cosa consiste allora la sua filosofia? Nel teorizzare la concezione politica ed apollinea del mondo, nel determinare con la ragione il modo di vivere nella sua pòlis di un vero Greco. Ma questo suo stesso punto di partenza contiene già la tendenza a porre dei problemi universali e assoluti; egli non si limita a criticare la moralità dell'Ateniese, ma ricerca il perfetto comportamento politico di ogni uomo. C'è quindi qualcosa di dionisiaco nella sua impostazione del problema, in questo voler giungere a qualcosa di universalmente valido: anch'egli come i mistici si volge al proprio interno, e da se stesso comincia la ricerca. Senonché la sua posizione unica tra i filosofi greci sta nel fatto che sin da principio il dionisiaco entra in lui come qualcosa di secondario, che di rado riesce ad oscurargli seriamente la serena visione apollinea del mondo. Socrate aveva per natura, come ci dice una notizia dossografica, un carattere passionale e molto sensuale: a migliorare questo la tradizione greca poneva come rimedio la sophrosyne, la virtù della moderazione, che faceva buono e nobile l'uomo e lo rendeva atto alla vita politica. Ora

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l'impulso dionisiaco in Socrate si manifesta nel non appagarsi di questa concezione tradizionale della virtù, e a ricercare instancabilmente una forma perfetta ed universale di sophrosyne. Platone nei suoi dialoghi socratici, nel Carmide ad esempio, a proposito della sophrosyne riferisce fedelmente questa ricerca del maestro tesa a 95fissare razionalmente la virtù, a vederla in una forma plastica e definitiva. Al termine di questa | ricerca razionale Socrate non giunge mai, e in questa inconcludenza teorica sta tutta l'insoddisfazione cui doveva necessariamente condurlo lo spunto dionisiaco, assunto nella sua anima come momento secondario.Ma nulla di questa incertezza teorica rimane nella sua vita, nel suo comportamento morale: in questo egli realizza pienamente e plasticamente quella virtù perfetta che non era riuscito ad esprimere razionalmente. Questa virtù non è altro che la tradizionale areté greca, spinta ad un livello più ideale, e privata delle sue contraddizioni. La sophrosyne della morale aristocratica ellenica è il dominio delle passioni, l'essere «più forte di se stesso», come dice il Carmide: Socrate spinge questa virtù ad un maggiore eroismo, la sua sophrosyne non è un armonico compromesso con le passioni, ma un elevarsi ad una libertà e ad un'indipendenza assoluta rispetto alla sensibilità. Con tutto ciò, la sua sophrosyne non ha niente di ascetico, o di religioso in senso cristiano, non è astensione dai sensi, ma il loro superamento: la moderazione di Socrate, come ci è descritta nel Simposio, consiste anche nel fatto che egli era superiore ad ogni altro uomo nel bere, senza che nessuno potesse mai dire di averlo veduto ebbro. Ad una assolutezza maggiore egli porta anche la concezione comune dei Greci sulla giustizia, secondo Platone espressa tipicamente nella definizione di Simonide: dare il dovuto ad ognuno, fare cioè il bene agli amici ed il male ai nemici. (a)

a. Platone, Repubblica, 331 e.96Socrate critica questa definizione dicendo che il male non si deve fare a nessuno: a questa affermazione egli giunge non per amore cristiano degli uomini, ma partendo da un punto di vista esclusivamente ellenico e politico. Il far del male a qualcuno, dice Socrate, non rende migliore questo individuo, anzi al contrario, ed è quindi un comportamento anti-educativo ed anti-politico. Egli è sempre sul terreno della moralità greca, ma arriva ad una visione politica molto più vasta di quella tradizionale: il suo sguardo si spinge al di là dei limiti della pòlis, e gli uomini che stanno al di fuori di essa non sono dei nemici cui si può fare del male, ma individui meritevoli come i concittadini di essere educati, e quando siano degli ottimi e dei sapienti, capaci di costituire una sfera di politicità superiore a quella della pòlis.A questo approfondimento della concezione politica ed apollinea della vita egli giunge in virtù di un impulso che in un certo senso possiamo chiamare dionisiaco, impulso che agiva su di lui come una forza misteriosa, di cui era quasi incosciente, e che per uno spirito schiettamente e tradizionalmente ellenico come il suo non poteva non apparire come qualcosa di estraneo, di divino, che s'imponeva dal di fuori alla sua personalità umana. Egli lo chiamò daimónion, il suo «demone». Ma questo slancio dionisiaco, che nei Presocratici diveniva assorbente di tutta la vita spirituale e faceva giungere l'anima, dopo averle fatto superare tutto ciò che è umano, a qualcosa di positivo che la portava alla beatitudine mistica, si limita in Socrate ad una funzione negativa, a un freno ed a una razionalizzazione 97delle passioni, ad un portare l'umano ad uno stadio idealizzato, non a superarlo. Si noti ad esempio questo atteggiamento di Socrate nella sua concezione dell'amore: mentre per Platone l'eros è la via che conduce direttamente alla conoscenza mistica, per Socrate non è altro che l'educazione perenne a vincere in se stesso gli istinti più bassi (a) al fine di poter giungere ad una sfera di serena apollineità, in cui la vita in comune è senza contraddizioni e la passionalità è completamente eliminata. Nell'eros platonico vi è un superamento di ogni passionalità terrena in un'altissima passionalità sovrumana, nell'amore di Socrate

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c'è calma, educazione serena, riposo in una felicità duratura. Questa è la posizione di Socrate dinanzi alla vita, posizione che non è uguale né alla originaria politicità greca, ali'apollineità omerica, né d'altra parte al misticismo dionisiaco dei Presocratici, che è dunque una creazione originalissima della sua strana personalità. La figura di Socrate è un fenomeno che non ha riscontro in tutta la storia della grecità, e sotto questo punto di vista possiamo capire benissimo come Platone nel Simposio faccia dire di lui da Alcibiade: «E' degno di ogni stupore il fatto che egli non sia simile a nessuno degli uomini, né degli antichi, né dei contemporanei». (b)Questo atteggiamento di Socrate doveva però trovare ostacoli fortissimi nella realtà politica: egli si presentava bensì nella sua città come tipi-

a. Si veda ad esempio il racconto di Alcibiade in Platone, Simposio, 218 c-219 d.b. Platone, Simposio, 221 c.98co assertore della classica politicità ellenica, ma non poteva tardare ad apparire chiara la sua natura intransigente di riformatore. Egli lasciava sussistere lo Stato con le sue leggi e le sue istituzioni e non aveva da imporre alcuna costruzione di uno Stato ideale, ma esigeva una tale trasformazione morale del cittadino che già sarebbe parsa dura all'originaria pòlis greca e poteva quindi tanto meno esser vista di buon occhio dalla decadente democrazia ateniese. I Presocratici avevano potuto esplicare un'attività politica nelle loro città perché erano vissuti in un ambiente ben diverso da quello ateniese della fine del V secolo, perché tutti derivavano, a differenza di Socrate, da famiglie aristocratiche e potentissime, perché infine essi apparivano di fronte ai loro concittadini come degli esseri mandati dal cielo, come degli uomini divini appartenenti ad una sfera superiore. Socrate era un plebeo e si presentava modestamente nella sua città: dapprima incontrò l'indifferenza, poi quando cominciò ad essere considerato qualcuno nella vita d'Atene non come magistrato e attraverso la carriera politica, ma semplicemente per il fascino della propria personalità, parlando con l'uno e con l'altro, non sfuggì ad una aperta ostilità. La diretta azione politica, il sogno di ogni Greco, non potè così venire per Socrate, e per il suo spirito, ellenico soprattutto sotto questo punto di vista, la rinuncia rappresentò un dolore immenso. Pienamente sereno egli rimane all'apparenza, ma l'equilibrio apollineo del suo animo è in parte rotto.L'impulso dionisiaco l'aveva portato ad una posizione di estremismo che non si poteva più conci- 99liare con la realtà pratica. Con tutto ciò egli non cedette mai completamente a quanto di dionisiaco aveva in sé e non si rifugiò nella solitudine, ma visse sempre in mezzo agli uomini esplicando tutta la politicità che gli era consentita. Gli rimane però un desiderio inappagato, quello di vedere vivere dinanzi ai suoi occhi una città formata da uomini perfetti: la coscienza dell'inadeguatezza e dell'insufficienza dell'umanità di fronte a questo ideale, e dell'impotenza sua a dargli realizzazione accumula nel suo animo un pessimismo finale riguardo alla possibilità di una vita collettiva felice, un pessimismo forse anche generale sul valore dell'esistenza umana, che grecamente egli si guarda bene dal manifestare, ma che resta in fondo alla sua anima. Solo le ultime parole che egli pronunzia prima di morire tradiscono questa sofferenza e questo suo sconforto: «Critone, dobbiamo un gallo ad Esculapio; datelo e non dimenticatevi» (a) Il dio della medicina l'ha guarito dalla malattia della vita: anche nelle sue parole più sacrileghe Socrate rimane sereno, pio e greco. (55) Ma tutto il suo muoversi nella vita, le sue parole, i suoi pensieri non lasciano scorgere nulla di questo pessimismo e mostrano invece un uomo ideale della grecità omerica. Nel Critone la legge è qualcosa di superiore che l'uomo non deve tentar di cambiare, che impone un limite e un dovere sacro alla sua azione, ed è per Socrate un sentimento apollineo e santo come quello che secondo Sofocle anima Antigone. L'Apologia si chiude con una sottomissione alla divinità (b) sotto-

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a. Platone, Fedone, 118 a.b. Platone, Apologia, 42 a.100missione che sola può dare la vera serenità al giusto: la divinità è per Socrate ciò che pone la più essenziale limitazione all'uomo, è ciò che è necessario affinché questi non aspiri troppo all'alto. Anche l'aldilà è visto da Socrate, come è detto nelle ultime pagine dell'Apologia, allo stesso modo di un greco omerico. Dopo la morte egli troverà un sonno eterno, che gli parrà una sola notte senza sogni, molto simile alla concezione omerica dell'aldilà, oppure andrà in un luogo felice dove stanno riuniti tutti gli eroi e tutti i saggi, ad una specie di isola dei beati della tradizione greca, ad una pòlis perfetta in cui tutti i giusti convivono in serenità. (a)Peraltro vi è ancora qualcosa, oltre il già detto, che distingue profondamente Socrate dal greco omerico ed apollineo e dai pensatori dionisiaci che l'hanno preceduto: il suo carattere prosaico, la mancanza di senso poetico. Platone non manca di far notare questo suo carattere, quando gli fa dire, all'inizio del Fedro: «i paesaggi e gli alberi non mi vogliono insegnare nulla, non così gli uomini che stanno nella città». (b) A questo l'ha portato la sua politicità assoluta, che gli fa ritenere più efficace la razionalità della poesia a convincere gli uomini. Lo Stenzel parla sì di un senso mistico, e quindi poetico, di Socrate riportando un passo dell'Apologia in cui egli esorta a prendersi cura in primo luogo di se stessi, poi della città, e infine di tutte le altre cose (c) Senonché il terzo

a. Platone, Apologia, 40 c-41 c.b. Platone, Fedro, 230 d.c Cfr. Stenzel Studien, 195-96, che si richiama a Platone, Apologia, 36 c. 101punto, se non è un'aggiunta di Platone, che amava attribuire al maestro quanto era a lui caro, è evidentemente il meno importante per Socrate e rivela quindi il suo istinto a rivolgersi alla natura dopo di essersi occupato di se stesso e della città, istinto certo non mistico. Nemmeno l'indagare se stesso ha il medesimo valore per Socrate e per i pensatori mistici greci, in quanto che quest'indagine è per lui strettamente collegata a quella della città, ed è dovuta quindi in modo esclusivo ad un interesse politico, interesse che non è mai esaurito e non gli permette mai di occuparsi del terzo punto, delle cose e della natura. Ma quel tanto di dionisiaco e di mistico che abbiamo notato in lui fa sì che qualcosa di poetico spunti proprio negli ultimi giorni della sua vita. (a) Platone ci dice nel Fedone che durante la sua prigionia egli aveva scritto delle poesie (a) (56) E poi non si può negare che egli durante il processo e al momento di morire abbia la coscienza artistica di rappresentare un personaggio tragico, come aveva potuto esserlo Empedocle: mentre muore egli i sente un individuo dionisiaco che domina il mondo con la bellezza della sua fine.

a Platone, Fedone, 60 d-61 b.102

IILa nascita del mondo delle idee

Platone passò quasi tutta la sua gioventù vicino a questa straordinaria personalità, e l'influsso che ne derivò gli fu decisivo per tutta quanta la vita. La sua natura era inizialmente identica a quella di un Presocratico, egli tendeva istintivamente più alla pazzia eroica che alla sophrosyne e alla politicità ellenica. Quando a vent'anni conobbe Socrate si era già abbandonato alla prima pazzia, quella poetica: scriveva versi tragici e ditirambi.. (a) (57) Ma l'ideale uomo politico che egli solo seppe vedere in Socrate mutò quasi, si può dire, la sua sensibilità, e gli fece odiare la poesia. Passando la giovinezza accanto a Socrate gli parve che solo in quel modo si potesse vivere degnamente su questa terra, gli

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sembrò che dinanzi a quella compostezza, a quella serenità perfetta, ogni violenta aspirazione, ogni entusiasmo, sia pure di alta passionalità, dovesse venir superato. Si formò allora la convinzione incrollabile che nulla e poi nulla mai gli avrebbe fatto dimenticare che la più alta attività dell'uomo è quella educativa e politica, e che a questo tipo superiore di esistenza deve essere subordinata ogni altra forma di spiritualità. Questa convinzione, se per qualche tempo gli venne meno, come vedremo tra poco, al culmine del suo misticismo, rappresenta per

a. Wilamowitz Platon, I, 86-89. 103noi la luce che tutto spiega della sua vita e del suo pensiero filosofico: ad essa egli rimane fedele sino alla sua morte a costo di tutte le rinunce e di tutte le disillusioni. La morte di Socrate è per lui un colpo terribile: egli si trova a ventotto anni, solo, a dover combattere quella battaglia tremenda. I discepoli di Socrate si sbandano ed egli rimane contro i trionfanti sofisti che precludono inesorabilmente ogni attività: non gli resta che difendere appassionatamente la memoria del maestro e continuare la sua opera facendo rivivere nei dialoghi i suoi insegnamenti. Questo tentativo non deve aver ottenuto alcun effetto nel disastroso ambiente politico ateniese di quegli anni: peggio fu, tosto che l'affascinante figura di Socrate fu dimenticata, che nessuno s'accorse neppur più che rimaneva un giovane discepolo a gridare in sua difesa.S'iniziò per Platone una trasformazione e si risvegliò in lui la natura presocratica e dionisiaca. Anche Socrate aveva ai suoi tempi trovato suppergiù gli stessi ostacoli, ma l'accoglienza degli uomini non l'aveva fatto retrocedere di un passo dalla sua posizione, né aveva mutato in qualche modo il suo giudizio su di loro. Platone è più simile ai Presocratici, è più portato naturalmente ad essere cosciente della propria superiorità sugli uomini, ed è quindi più propenso al disprezzo. Si veda il disgusto di Eraclito verso l'umanità e si legga poi con quale passionalità Platone si scagli contro i sofisti nel Gorgia, il dialogo che segna l'inizio di questa crisi. (58) Nel Gorgia è contenuto un dolore di rinuncia molto più forte di quello che potevano aver sofferto i Presocratici nel momento eroico di ritirarsi nella solitudine,104abbandonando ogni speranza di attività politica. Platone doveva rinunciare alla convinzione che si era formato attraverso dieci anni di convivenza assieme a Socrate, doveva dare un addio a quello che era per lui l'unico vero ideale di felicità, ideale che aveva per tanti anni coltivato e che aveva sperato realizzabile. Il Socrate che parla nel Gorgia non è più il Socrate storico, è Platone stesso, è un uomo che pretende di avere solo delle idee giuste, e che prima di abbandonare il campo politico vuole gridare tutto il suo sdegno contro gli uomini che vi dominano. Eppure questa crisi è in fondo benefica per lui, poiché di colpo lo fa uscire dall'orbita socratica e gli fa ritrovare la sua natura originaria, che è dionisiaca: solo ora egli può sentire e pensare in modo completamente suo, e quando dall'isolamento ritornerà alla politicità socratica, che è entrata nel suo animo e mai potrà rinnegare, vi tornerà con un atteggiamento del tutto originale, e la sua politica sarà un risultato dell'esperienza mistica. Egli viaggia attraverso alla Grecia e conosce le dottrine dei Presocratici. Vede il vano agitarsi dell'umanità e sempre più si convince che essa non può essere educata a nessun ideale politico: l'unica cosa che lo salvi dallo sconforto della rinuncia è l'ammirazione di quelle grandi personalità del passato. Sente ora profondamente che la solitudine è per lui la sola via che lo possa portare, se non alla felicità completa, alla più alta conoscenza, ed ha il coraggio per questo eroismo. A questa conoscenza, che è mistica, egli giunge veramente, seguendo il suo impulso dionisiaco; vediamo quindi in che cosa le sue intuizioni si accostino a quelle presocrati- 105che e in che cosa rivelino invece inconfondibilmente la sua personalità.Un tale processo verso la verità compare nel suo primo scritto veramente dionisiaco, il Fedone, sebbene non sia espresso con piena chiarezza, per la

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vergogna e la riluttanza particolari del Greco a dire quanto avviene nel proprio interno. L'anima abbandona tutto quanto la circonda e si volge ad indagare se stessa. Anche Socrate esortava a conoscere se stessi ma si trattava di un processo spirituale completamente diverso: conoscere se stessi voleva dire per lui, in un senso del resto completamente tradizionale ed apollineo, porsi dei limiti, inserire la propria personalità nel complesso degli altri individui e farle assumere una posizione di equilibrio nella vita della pòlis. (59) Per il Platone del Fedone il significato è semplicemente opposto, molto simile invece alla dichiarazione di Eraclito: «ho ricercato bramosamente me stesso». (60) Per Socrate si trattava di un atto politico per cui l'individuo cercava i propri limiti, al fine di comportarsi in modo giusto nella vita della città, per Eraclito e Platone l'indagine della propria interiorità era uno slancio verso l'infinito, un rinnegare tutte le limitazioni e le possibilità di convivenza, era un allargamento senza fine della propria anima, sino a che questa avesse accolto in sé tutto quanto il mondo. Questo isolamento svuota l'anima di ogni contenuto immaginativo e razionale: è questo il vero stato dionisiaco, in cui la vita spirituale giunge ad essere pura interiorità, pura aspirazione. L'anima si libera così da tutti i limiti, più nessun interesse umano la ferma, essa si acquista la piena indipendenza da tutto il mondo, dalla legge del dive-106 nire, diviene ora per la prima volta veramente libera, autè kath'hautén, «essa stessa per se stessa». Appunto qui, al principio del Fedone, Platone introduce questa espressione auto kath'hautó (prima a proposito dell'anima, poi, e parallelamente, delle idee), che gli servirà poi sempre ad indicare la realtà vera, l'essenza ultima di tutte le cose, e l'introduce proprio parlando del cammino dell'anima verso la solitudine. (a) (61) In queste pagine del Fedone sta già racchiusa quasi tutta la conoscenza di Platone, e tutto il mio esame non farà in seguito che dimostrarne e chiarirne i singoli punti; l'anima, quando sia giunta ad essere veramente autè kath 'hautén, intuisce soltanto più se stessa come essenza, e contempla le essenze di tutte le altre cose che sono della sua stessa natura e costituiscono insieme a lei la realtà vera ed universale. Questo processo conoscitivo che compie l'anima giungendo ad essere autè kath'hautén, synethroisméne, «raccolta in se stessa», è schiettamente mistico: lo stesso cammino percorre Giordano Bruno, il quale dichiara negli Eroici furori: «se aspira allo splendor alto, ritiresi quanto può all'unità, contraasi quanto è possibile in se stesso». (b) La scelta stessa del termine, auto kath'hautógli viene da un mistico, da Parmenide; già questi, parlando dell'essere, ossia della realtà vera, indipendente e lontana da tutto l'empirico, aveva detto kath'heautò keìtai, «sta per se stesso». (c) (62) Per un altro verso ancora l'espressione

a. Platone, Fedone, 64 c-65 c.b. Bruno, Eroici furori, II, 1 (Bruno ed. Gentile, 412). La stessa cosa è ripetuta più volte nel Fedone (83 a).c. Parmenide 28B8, 29 DK. 107suddetta ci richiama al misticismo, per la sua astrattezza.Il dionisiaco, quando è portato al suo estremo, non ha più nessun limite, è infinità pura - i mistici, quando vogliono esprimere la loro conoscenza, se intendono far ciò filosoficamente, non possono usare immagini o pensieri, che sono sempre un qualcosa di limitato, o se li usano da un punto di vista poetico li considerano puramente come simboli; per questo essi dicono sempre che le loro intuizioni sono inesprimibili. Platone usa il termine più astratto e più immediato, senza diffondersi oltre, cosciente dell'inutilità di ogni spiegazione, auto kath'hautó; così gli Indiani avevano chiamato àtman la verità mistica scoperta dal soggetto in se stesso, e questo termine ha il preciso significato astratto del greco autós, vuol dire cioè «stesso». Quando l'anima è in questo stato di assoluta indipendenza e distacco dall'umano, conosce oltre che se stessa, anche le essenze di tutte le altre cose (a) in quanto che da quella posizione privilegiata è in grado di indagarle dionisiacamente nella loro realtà più intima, spogliandole di

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tutte le determinazioni e cogliendole nella loro verità universale: questo può fare poiché la sua natura è sugghenés a quella delle idee, è «della medesima stirpe». (b) Platone è straordinariamente greco nella sua costruzione metafisica: la sua teoria delle idee nasce ora come traduzione metafisica dell'esperienza morale

a. Si noti lo stretto passaggio da 64 e-65 c, dove si parla dell'anima per se stessa, a 65 d-66 a, dove si parla delle idee per se stesse.b. Platone, Fedone, 79 d.108dionisiaca che l'ha portato alla solitudine. (63) È questo un processo che ho già indagato nei Presocratici, ed è secondo me il punto essenziale di tutta la filosofia greca: tutti questi pensatori realizzano quanto sentono misticamente nella loro anima in una forma plastica e politica, non si arrestano al puro lato mistico, ma tendono ad oggettivarsi. Platone ha espresso il suo cammino dionisiaco di isolamento dicendo che l'anima diventa in questo modo ante kath'hautén, e questa sua condotta di vita è per lui ciò che vi è di più schiettamente morale, e in genere ciò che è vero e reale; in conseguenza anche tutto quanto non è la sua essenza individuale e soggettiva, anche la realtà di quello che lo circonda deve comportarsi allo stesso modo, deve essere costituita da delle essenze autà kath'hautà, ossia da individualità perfettamente indipendenti, prive di ogni limitazione sensibile, pure verità dionisiache, tutte formate da una stessa essenza, ma tutte isolate e viventi una vita solitaria. (64)Vediamo ora un po' più da vicino questo processo conoscitivo attraverso le parole stesse di Platone. Nel Fedone egli parla dell'anima come di un'unità, e quindi ancora completamente nel senso di Parmenide. Le differenze che in essa riscontriamo, dovute alla sensibilità e alla passionalità, sono qualcosa di estraneo, che offusca la sua purezza originaria; quando l'uomo se ne libera (a) giunge ad intuire la sua anima come una perfetta unità, che non ha in sé alcuna opposizione, come il principio originario di vita. Questa idea, di considerare come fonte di conoscen-

a. Platone, Fedone, 65 c. 109za l'anima nella sua purezza, è mistica: nella conoscenza razionale è una parte dell'anima che conosce, in quella mistica è tutta quanta l'anima presa nella sua essenza. Non deve ingannare il fatto che egli ad indicare questa attività conoscitiva usi talvolta dei termini che più tardi, quando per primo egli avrà fissato la terminologia filosofica greca, adopererà in senso razionalistico. Abbiamo già visto a proposito dei Presocratici come questi termini, noein, phronein, logos ecc., non fossero ancora usati in senso tecnico, e lo stesso avviene in queste pagine del Fedone: (a) per sapere quale significato qui dia loro, dobbiamo vedere in che modo si esprime quando vuole dare delle spiegazioni più dettagliate e concrete. Così ad esempio il termine dianoia, che più tardi significherà per Platone «intelletto», è qui usato come perfetto sinonimo di «anima»: dopo infatti aver detto che la contemplazione della verità si raggiunge con l'anima ante kath'hautén, ripete con un altro giro di frasi lo stesso pensiero, com'egli ama fare quando è animato da uno slancio lirico, e sostituisce dianoia a psyché; le idee si colgono autèi kath 'hautèn eilikrinei tèi dianoiai, «con lo spirito puro per se stesso» (b) (65). Così ancora per indicare il processo conoscitivo usa il verbo loghizomai, (c) che tecnicamente significa «ragionare»; se

a. Questi termini mantennero sempre in Grecia un fondo intuitivo: si noti il significato di noùs in questa frase dell'uomo più schiettamente razionale della grecità, Aristotele: «l'energia dell'intelletto è vita» {Metafisica, 1072 b 27).b. Platone, Fedone, 66 a.c. Platone, Fedone, 65 c.110poi andiamo a vedere cosa egli intenda dire con questo verbo, e in che cosa consista concretamente questo processo, non troviamo nessuna enunciazione di un

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metodo razionalistico di conoscenza, ma anzitutto una determinazione negativa nell'esigenza del distacco assoluto dalla sensibilità e dal superamento di tutto ciò che è umano, e in un secondo tempo, come unica spiegazione concreta, la semplice espressione oréghetai toù óntos, «egli brama l'essenza». Questa conoscenza in sostanza non consiste che in una pura aspirazione dionisiaca, in un desiderio e in una passionalità trasfigurata, che non hanno più nulla di umano.Dopo alcune pagine troviamo un altro passo altamente significativo in questo senso. (a) Si parla della virtù e si dice che la giustizia, la sophrosyne, il coraggio sono tutti riconducibili alla phrónesis, che per il più tardo Platone, quello delle Leggi ad esempio, vorrà dire saggezza e prudenza, e quindi un complesso di razionalità e di esperienza della vita. Qui nel Fedone la phrónesis, la «saggezza», e con lei tutte le altre virtù, non è altro che il modo dionisiaco di vita del filosofo: è katharmós, kátharsis, cioè «purificazione». Con questo si dice qualcosa che è a un tempo schiettamente greco e mistico; la sapienza del filosofo, la sua phrónesis, la sua conoscenza, è una cosa sola con il suo atteggiamento morale di purificazione e di superamento. Platone stesso fa qui un'aperta dichiarazione di misticismo paragonando i propri insegnamenti a quelli dei misteri dionisiaci, in quanto entrambi non esigono dall'uomo altro

a. Platone, Fedone, 69 a-d. 111che un katharmós, una «purificazione». (a) Senonché Platone fa una differenza tra le dottrine dei misteri e le sue, che sono qualcosa di più di un semplice misticismo; egli dice: «molti sono i portatori di tirso, ma i baccanti son pochi, e questi secondo il mio parere sono soltanto coloro che passano la vita veramente filosofando». (66) Questa frase di Platone non fa che confermare la distinzione posta al principio di queste pagine tra misticismo collettivo, quello cioè dei misteri, e la trasformazione filosofica di questo misticismo da parte dell'uomo superiore, cioè la vera visione dionisiaca della vita. Si noti ancora che Platone, riparlando poco sotto di questo processo conoscitivo di purificazione, dice che questo pàthema dell'animo si chiama phrónesis. (b) La saggezza è quindi un moto affettivo dell'anima, una sua passione trasumanata. (67)Un altro passo del Fedone ci spiega forse la più vera, la più intima (68) origine di questo particolare impulso conoscitivo, dicendo che qualunque cosa di questo mondo il filosofo veda, s'accorge che essa tende ad una perfezione, senza per altro mai poterla raggiungere. Questa constatazione, che è del resto usata anche a fondamento (69) della teoria della reminiscenza, spinge qualsiasi spirito idealista a cercare di elevarsi al di sopra di questa sfera contingente di vita, dove nulla di eterno si raggiunge. Dopo che egli ha vissuto molto nel mondo, dopo che egli ha veduto che qui tutto è insufficiente, che nulla si realizza, nulla è assoluta-

a Platone, Fedone, 69 od; un altro accenno ai misteri si trova in 81 a.b. Platone, Fedone, 79 d.112tamente vero, nasce in lui lo slancio della liberazione. Platone insiste qui sul fatto che il conoscitore deve partire dalle sensazioni, deve cioè avere molta esperienza, e questa è un'esigenza mistica: il mistico, prima di decidersi a staccarsi dal mondo, cerca in tutti i modi di amarlo com'è, di trovarlo buono, di realizzarsi in qualche modo in esso, politicamente ed artisticamente, e solo dopo di essersi convinto che nulla di tutto ciò si può raggiungere, tende a un gradino superiore di perfezione, ricco di tutte le sensazioni e di tutte le vissutezze artistiche che anche in seguito gli potranno servire come simboli delle verità inesprimibili. «Partendo dai sensi si deve pensare che ogni cosa sensibile desidera ciò che è uguale (si sta parlando dell'idea dell'uguale), ma non è in grado di raggiungerlo». (a) Il Natorp, che interpreta Platone da un lato strettamente teoretico, si trova a questo punto non poco imbarazzato, in quanto che in uno stesso passo si parla di anàmnesis, ossia di «reminiscenza», che è per lui la scoperta dell' a priori, e si fa poi questa dichiarazione che la conoscenza parte dai sensi. (b) Per me invece, che vedo anche la teoria delle idee sorta da un

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atteggiamento morale, non rappresenta alcuna contraddizione il fatto che Platone esiga un completo superamento morale della sensibilità e non rifiuti poi l'apporto dei sensi sotto il punto di vista del metodo conoscitivo. Abbiamo sin qui esaminato questa conoscenza

a. Platone, Fedone, 75 a-b. La frase può però far pensare che vi sia anche un rimaneggiamento posteriore di Platone.b. Natorp Platos Ideenlehre, 137-40. 113nel suo aspetto soggettivo; e vediamo ora brevemente il suo oggetto, le idee. L'anima, quando giunge ad essere ante kath'hautén e intuisce se stessa come essenza, tende ad espandersi nell'universale, perché quell'essenza che essa ha scoperto in sé è qualcosa che non ha limiti, è infinita, è in fondo la stessa cosa dell'essere di Parmenide, cioè «continua». Tutto ciò che essa sinora aveva visto come oggetto, come esterno, diventa un'unica ousia, un'unica «essenza», la stessa che sta in noi: «l'essenza universale ... che è nostra» (a) ossia l'essere oggettivo, il brahman, si rivela ora uno con l'essere soggettivo, l'àtman e viene in quest'ultimo ritrovato. E poco oltre riafferma espressamente questa coincidenza: «la nostra anima prima della nostra nascita e l'essenza sono uguali». (b) Quando poi dopo parecchie pagine è ricordato questo punto della discussione, si ripete la medesima dichiarazione: «la nostra anima anche prima di giungere nel corpo è la stessa cosa della sua essenza universale». (c) Il Natorp si vale di alcuni di questi passi a riprova della sua interpretazione di Platone nel senso dell'idealismo kantiano, vedendovi l'affermazione che l'essere delle idee è ritrovato nella coscienza del soggetto. (d) Senonché con questa interpretazione ri-

a. Platone, Fedone, 76 d-e.b. Platone, Fedone, 77 a. Anche Stenzel Metaphysik, 113, dà a questa frase la mia interpretazione.c. Platone, Fedone, 92 d. d. Natorp Platos Ideenlehre, 138.114mane incomprensibile quello che è il vero nocciolo del Fedone, il superamento morale del sensibile e dell'umano, l'aspirazione al distacco e alla separazione che permea tutto il dialogo: seguendo invece nell'indagine un criterio storico, e tenendo presente il modo di manifestarsi delle personalità filosofiche in Grecia, come abbiamo sin qui fatto, risulta chiaro come questi passi non possano avere che un'interpretazione mistica. (a) Rimane ora da domandarci per quale motivo Platone non si sia accontentato di un'unica essenza universale, come avevano fatto Eraclito e Parmenide, ed abbia invece pensato ad una pluralità di essenze, pur ammettendo che l'insieme di esse costituisce quella universale. (b) A ciò lo conduce anzitutto la sua natura altamente artistica. In quanto poeta egli è portato ad amare profondamente ogni cosa di questo mondo che cada sotto i suoi occhi, a scoprire una bellezza in ogni oggetto visibile, a trasfigurare liricamente ogni realtà prosaica. Un tale temperamento nel suo entusiasmo artistico non si arresta alle sensazioni che egli ha delle singole cose, ma vuole viverle più profondamente, queste cose, vuole entrare in esse e scoprirne la vera realtà, l'essenza; egli conosce (70) la ragione eterna di essere di ogni cosa, non più in un'immagine o comunque sotto una qualche forma sensibile, ma in un'intuizione e in un sentimento essenziale. Quando Platone si allontana da tutta questa realtà terrena, gli riman-

a. Anche Stenzel Studien, 21-22 rileva l'imbarazzo del Natorp.b. Platone, Fedone, 76 d. 115gono tuttavia nell'animo le intuizioni poetiche per cui le cose debbono la loro ragione vitale di esistere a molte essenze che stanno nascoste dietro a loro, e sulle prime gli è abbastanza estranea l'idea più schiettamente mistica di una sostanza infinita che non ammette in sé alcuna pluralità e alcuna differenza. In secondo luogo lo porta a questa concezione il suo istinto politico, che dopo dieci

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anni di convivenza con Socrate mai può essere completamente cancellato, neanche in quest'epoca, la più anti-politica di Platone; ogni concezione pluralistica ha infatti in sé qualcosa di politico e di apollineo, le idee in fondo non sono che un complesso di individualità irriducibili l'una all'altra, ognuna delle quali ha un valore eterno ed indistruttibile. Anche la scelta di queste individualità tradisce il fondo politico; le prime idee che compaiono nel Fedone, il giusto, il buono, il bello, sono di contenuto morale-politico, risentono molto delle discussioni socratiche. (71) Questa attitudine di Platone non è che una ulteriore elaborazione della tendenza al pluralismo, nata con Empedocle e da me studiata quando parlai di lui, tendenza dovuta all'affermarsi dei motivi artistici e politici sul lato puramente dionisiaco. Platone è riluttante anche nel Fedone a parlare del suo misticismo, che anche qui non salta subito all'occhio e ha bisogno di essere ricercato tra le righe, ed accenna già a porre in primo piano l'oggettivazione, la realizzazione di questo misticismo, mettendoci di fronte un mondo delle idee come costruzione politica. Il tentativo non può però dirsi riuscito nel Fedone, poiché quest'epoca, come ho già detto, è l'unica nella vita di Platone prettamente dionisiaca; di116politicità ve n'è ben poca nel Fedone, dal momento che in questo mondo delle idee manca sia un'idea suprema che funga da arché, sia un principio di gerarchia e di subordinazione tra le idee stesse. Qui le idee sono delle individualità anti-politiche, che vivono in una solitudine e in un'indipendenza perfette, sono degli anta kath 'hautà.Questa tendenza artistica e politica alla pluralità lo fa tuttavia già nel Fedone deviare da una visione strettamente mistica che lo porterebbe a concepire un'unica essenza universale, quale l'essere di Parmenide o il brahman degli Indiani: anch'egli, è vero, parla di una ousia, anch'egli ha un brahman, ma questo non è una perfetta unità, è soltanto l'insieme delle singole essenze, delle idee. Ciò è anche dovuto al fatto che in questo dialogo l'essenza è scoperta dapprima sotto un punto di vista soggettivo, nell'anima ante kath'hautén, e cioè piuttosto come àtman, e che anche per la ricerca dell'essenza degli altri oggetti si parte dal chorismós, dalla «separazione» del mondo sensibile, per giungere ad ottenere ogni oggetto come auto kath'hautó: si ritrovano così tante individualità essenziali, tanti àtman per così dire, e la sostanza universale che è comune a tutte queste essenze singole passa in certo modo in secondo ordine.Per chiudere l'esame del Fedone tengo a far osservare che la visione del mondo di questo dialogo è ben differente da quella cristiana, cui a torto è stata da alcuni avvicinata. Il superamento dionisiaco dell'umano è molto lontano da un ascetismo in senso cristiano, l'elevazione sopra la sensibilità non è una mortificazione della carne, ma 117è dovuta ad un impulso morale-conoscitivo che sente l'insufficienza, non il male, di ciò che è terreno e tende ad una forma di vita superiore, che si realizza non soltanto dopo la morte, ma anche in questa stessa vita (a) quando si raggiunga la vera conoscenza. (72)

a Cfr. Natorp Platos Ideenlehre, 127.118

IIIIl «Fedro»

Con il Fedone Platone giunge ad una posizione morale e conoscitiva elevatissima, molto simile a quella terminale di un Eraclito o di un Nietzsche. Ma la sua personalità è in fondo diversa dalla loro, ed egli non si ferma qui, perché la solitudine è per lui, che ha vissuto vicino a Socrate, qualcosa di estremamente insopportabile. E' vero che egli deve alla solitudine la massima conoscenza e che grazie ad essa è venuto in possesso della sua più vera personalità, ma basta vedere attraverso il Fedone tutto il dolore che essa gli costa, e basta porre la rinuncia

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e il pessimismo che sono contenuti in questo dialogo di fronte all'entusiasmo con cui la stessa vita è esaltata da Nietzsche nello Zarathustra, per comprendere quanto diverse siano le due individualità. Per Platone, il chorismós, ossia la «separazione» dell'anima come essenza da ciò che è vita sensibile e politica, non è qualcosa di definitivo, è ciò che momentaneamente si pone come necessario, ma che egli spera sempre di poter eliminare: egli è convinto che la solitudine è sì la vera via alla perfezione ed alla conoscenza, ma non è l'unica, e se ne può trovare un'altra meno dolorosa. Questa nuova via, che egli scopre nel Fedro, è l'amore. (73) Già Empedocle aveva, nella realizzazione politica del suo misticismo, considerato l'amore come impulso che tende alla perfezione: è vero che il 119trionfo di questo impulso porta allo Sphairos ossia alla solitudine, ma questo punto di arrivo è raggiunto non con il distacco, ma con l'unione, ossia la verità si coglie attraverso la gioia della bellezza, e non attraverso il dolore del dionisiaco puro, dell'interiorità che scava in se stessa. Per Eraclito, che è un puro dionisiaco, il principio primo è il pólemos, il distacco, per Empedocle è l'amore: il primo si ferma così ad un individualismo esasperato, che non trova pace nell'universale, ad un àtman che non riesce a coincidere con il suo brahmán, il secondo è condotto invece da Afrodite a fondere perfettamente il soggetto con il mondo. Platone, sdegnoso e pessimista come Eraclito nel Fedone, diventa nel Fedro entusiasta e creatore, al pari di Empedocle. L'aspirazione conoscitiva è nel Fedone un eroismo unicamente doloroso, è una lotta interiore continua per liberarsi da ciò che è umano, lotta che non ha termine poiché sino alla morte rimane sempre qualche residuo ineliminabile di umanità, è un processo ininterrotto che non conosce pace poiché tende a superare ogni limite offertogli dalla sensibilità in un'astrazione assoluta da qualunque oggetto, in un'indagine in profondità dell'anima, che sola può mantenersi perennemente infinita. L'amore è trovato da Platone nel Fedro come un sollievo per questo strazio. Esso non è altro che un limite dato a questa aspirazione infinita, un oggetto, un'immagine che dà un certo riposo al dionisiaco inesauribile, un prendere un ultimo residuo di cosa sensibile, in cambio di tutto il resto che si è gettato via, ma un prenderlo come pura forma, riempita di tutta l'interiorità vissuta nel precedente superamento120eroico. L'oggetto amato è causa di un arresto per il conoscitore dionisiaco, è qualcosa che egli si ferma a contemplare, che nella visione gli dà gioia, ed è appunto questa stasi che lo attira nell'amore. Ogni mistico tende ad una perfezione che è in fondo staticità, e nell'amore questa staticità gli compare improvvisamente dinanzi agli occhi. L'immagine che egli ama è in certo modo un'espressione, una realizzazione della verità suprema, (74) un simbolo reale di ciò che è perfetto, e il conoscitore attraverso di essa intuisce che anche la sua aspirazione dionisiaca può avere un termine, può raggiungere cioè il contenuto della verità e placarsi in una pace interiore definitiva, dal momento che per mezzo di un oggetto visibile la forma di questa verità gli si è rivelata d'un tratto, in modo immediato.Qualcosa di simile a questo processo abbiamo già trovato nella creazione filosofica di Empedocle, il quale per trovare un riposo alla sua aspirazione mistica cerca di concretizzarla attraverso l'apparenza, attraverso oggetti visibili. Egli segue però sempre la sua vita dionisiaca in questo tentativo di realizzarsi, e crea quindi dei simboli cosmici ed universali, dando luogo alla sua filosofia naturalistica. Platone è nell'amore più schiettamente poetico, in quanto che l'oggetto amato non è scoperto con nessun processo filosofico, ma gli è dato immediatamente dalla realtà, è una persona bella e viva, è quanto vi è di più concreto e limitato nel visibile. Egli ha il dono, proprio dell'artista, di racchiudere l'universale nella cosa singola, e già abbiamo visto come sia anche questa sua caratteristica che l'ha portato alla teoria delle idee. Gli oggetti sensibili, benché siano da 121lui così spesso rinnegati, hanno in fondo per Platone sempre la loro importanza essenziale in quanto mezzi propulsivi della conoscenza: lo dice espressamente anche il Fedro che bisogna partire dalle sensazioni per giungere alla verità. (a) (75) lI passo ha dato da fare allo Stenzel (b) in quanto vi si dice subito dopo che questo

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cammino gnoseologico è dovuto alla reminiscenza, considerata invece dagli studiosi come conoscenza aprioristica: questa contraddizione non esiste invece in una interpretazione mistica, poiché per un mistico realtà sensibile e metafisica, per quanto siano separate, hanno un'unione e un collegamento essenziali. Nell'oggetto dell'amore si concentra tutto lo slancio dionisiaco del conoscitore; tutto ciò che stava dolorosamente in fondo alla sua anima, quello che era andato disperso o era divenuto astratto nel tormento dell'indagine interiore, viene ora unito e posto come contenuto nella bellezza che egli contempla. Il distacco dal mondo sensibile non è più sentito come doloroso, da quando egli è giunto ad un'unificazione in una sfera superiore, il suo ideale ha avuto un principio di realizzazione perché possiede ora un punto fisso e concreto di riferimento, ed egli è molto più entusiasta e felice, è pieno di vita compressa e concentrata. (76) Tutta l'infinita passionalità dionisiaca si indirizza verso l'oggetto amato: il conoscitore che ha superato tutto l'umano è ora meno filosofo che mai, e diviene pazzo per un'unica immagine in cui il caso l'ha fatto imbattere. Non

a. Platone, Fedro, 249 b. La stessa difficoltà abbiamo già incontrato nel Fedone.b. Cfr. Stenzel Studien, 106-107.122solo, ma egli la esalta, questa pazzia, come quello che vi è di più divino nell'uomo: il principio del discorso centrale del Fedro è una lode della follia dionisiaca, nei suoi vari aspetti. (a) E' questa la più ardita dichiarazione anti-socratica di Platone: la mania, la «pazzia» è espressamente riconosciuta superiore alla sophrosyne, alla «moderazione», virtù caratteristica di Socrate lo spunto anzi dell'intero dialogo è una polemica contro Lisia, che proclamava la necessità di un amore moderato. (77) Con questo Platone si mette in una posizione nettamente anti-politica, nel senso della visione greco-apollinea nella vita: noi riscontreremo, è vero, nel Fedro una maggior politicità che nel Fedone, ma questa sarà la forma di politicità che abbiamo osservato nei Presocratici, cioè la creazione di uno Stato fondato dall'intero universo e i cui cittadini non sono uomini, ma enti ideali. In questo Stato regna una valutazione della virtù diversa da quella umana, e un miglioramento della politica umana non può avvenire che con un adeguarsi della virtù del cittadino terreno a quella del cittadino celeste; la pazzia viene così ad essere la nuova virtù, la virtù dionisiaca. Ma Platone e i Presocratici vedevano nella pazzia, oltre che uno stato privilegiato dell'uomo, anche qualcosa come una loro particolare saggezza pratica e politica. Richiamiamo in proposito un'osservazione molto interessante di Nietzsche: egli sostiene che i Greci davano un grande valore alla pazzia in quanto questa era qualcosa di involontario e di terrificante, dietro al quale si poteva credere più facilmente alla ri-

a. Platone, Fedro, 244-245. 123velazione divina. Per questo si diffusero le idee più ardite: i grandi uomini, quando non erano veramente pazzi, fingevano di esserlo. (a) (78) Quello che Platone chiama follia significa l'entrare in possesso del lato più intimo della propria personalità. Accanto alla nuova mania amorosa, rimane la mania di purificazione, che era stata introdotta nel Fedone, e viene inoltre proclamata per la prima volta come divina la follia poetica. Con l'amore egli si accosta di nuovo alla realtà visibile, sia pure considerandola come simbolo, e gli si riaffaccia ora l'impulso poetico che sta sempre in fondo alla sua anima, e che ha adesso la possibilità di esprimersi non più nella forma passionale ed umana della tragedia che in gioventù aveva finito per disgustarlo, ma attraverso un'arte divina che parli con immagini della verità. Per questo troviamo il Fedro riboccante di immagini, pieno di amore per la natura e di slanci lirici, mentre l'esaltazione e la tragicità del Fedone era espressa in un linguaggio trattenuto e volutamente freddo. (79) Le verità mistiche sono inesprimibili e il poter ricorrere a delle immagini poetiche, in quanto simboli, è un sollievo per il bisogno di espressione: così Platone, che segue anche in questo genere poetico l'esempio di Empedocle, descrive l'arrivo

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dell'anima nella pianura della verità, dove vi è la prateria che offre il solo pascolo a lei conveniente (b). Queste tre pazzie sono nel Platone del Fedro tutte

a. Che questa idea fosse cara a Nietzsche lo dice Salomé Nietzsche, 282-84. Si veda anche F. Nietzsche, Aurora, parr. 14 e 312 (in Nietzsche Opere, X, 17-19 e 187).b. Platone, Fedro, 248 b-c.124collegate e coesistenti: anche la mania di purificazione e quella amorosa sussistono nello stesso tempo. Di qui nasce quel fenomeno specialissimo che è l'amor platonico: tutta la passionalità dionisiaca si volge verso la persona amata, ma è una passione completamente trasumanata, per la quale ciò che di sensibile rimane nell'amore non è che pura forma, pura visione che aiuta a salire, e mai viene concepito come contenuto terreno. L'origine di questo amore sta nella contemplazione dell'oggetto amato, nello sguardo. Ad indicare questo momento complesso Platone usa la parola greca ópsis, che vuol dire a un tempo «atto del vedere, visione, occhio e sguardo». Attraverso l'ópsis ciò che è immateriale, l'anima, l'essenza, diventa reale e visibile; essa è come il punto di unione tra l'umano e il divino. L'apollineo ama la figura nel suo complesso, nella sua finitezza, nella sua armonia, il dionisiaco ama gli occhi perché solo attraverso ad essi egli può giungere all'anima; tutti coloro che hanno considerato l'amore come una redenzione, Dante, Goethe, Wagner, ci parlano dello sguardo, e anche Platone ci parla nel Fedro dell'«occhio pieno d'amore» e dell'«optis rifulgente dell'amato». (a) Egli stesso ci dice questo vantaggio dell'amore per chi vuol conoscere la verità, questa possibilità di concedere una maggior felicità, avendo esso un punto di contatto con il mondo sensibile attraverso lo sguardo. Se la phrónesis potesse vedersi, egli dice, procurerebbe agli uomini degli amori smisurati. (b) Ora la phró-

a. Platone, Fedro, 253 e-254 b. Si veda anche Empedocle 31B64 DK.b. Platone, Fedro, 250 d. 125nesis, nel senso che ha qui la parola, è la virtù dionisiaca del Fedone: essa è dolorosa, non ha contatti con ciò che è visibile, ed è quindi meno amata dagli uomini.L'amante però dopo un poco che guarda gli occhi dell'amato si accorge che in quegli occhi vi è un'anima diversa dalla sua e poiché è proprio quell'immagine divina e l'anima che sta dietro quell'immagine che lo fa salire in alto egli si sente spinto ad amare non soltanto quello sguardo, ma anche l'anima che ha quello sguardo, ed a cercare quindi di far salire anch'essa verso la verità. (a) Questo istante è un punto cruciale nell'evoluzione platonica: egli abbandona ora l'indirizzo fondamentale di vita dei Presocratici, che si erano mantenuti nella solitudine, dal momento che non soltanto più la propria, ma anche l'anima di un altro lo interessa. Diventa adesso per lui importante il problema dell'educazione, che sarà il punto essenziale della sua politica. Nonostante che in fondo il suo animo rimanga dionisiaco, quello che nell'aspetto contemplativo dell'amore era un tenue contatto con la realtà visibile, che serviva soltanto a spingerlo con maggior forza alla verità, diventa nel lato attivo ed educativo dell'amore un po' una concessione a ciò che è terreno. (80)Tutta questa evoluzione complessa è contenuta

a. Sul testo del Fedro si può notare una distinzione ed un passaggio dall'amore contemplativo a quello attivo. In 250 b-252 c l'amore è contemplativo e diviene attivo in 252 c253 c; è nuovamente contemplativo da 253 c a 254 e, e da 255 a alla fine è inteso invece come rapporto reale tra amante e amato.126nel Fedro, ma tocca a noi chiarirla nei suoi elementi, perché la parte centrale del dialogo fu scritta di getto, mentre Platone era in preda all'ispirazione artistica, e il pensiero non potè quindi essere svolto sistematicamente. Dopo l'elogio della

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pazzia e dopo una nuova dimostrazione dell'immortalità dell'anima, egli viene a parlare della conoscenza estatica: questa conoscenza ha qualcosa di diverso da quella del Fedone, poiché là la virtù che ad essa conduceva era la phrónesis, in quanto aspirazione al distacco ed alla purificazione e qui invece è un concetto molto più vasto, la mania, la «pazzia» che, oltre alla solitudine, implica anche arte e amore. Non è soltanto l'amore che porta a questa nuova conoscenza del Fedro, perché lo stato d'animo dionisiaco del Fedone permane: infatti egli nel Fedro parla prima del luogo iperuranio e della visione dell'essenza suprema, e poi viene a trattare in modo completo dell'amore - egli sa già che l'amore di per sé, seguito sino in fondo, conduce ad un abbandono della solitudine. Soltanto sino a che l'amore è contemplativo può sussistere la pazzia dionisiaca nella sua complessità, quando invece esso diventa educativo si ha un conflitto insanabile, (81) in quanto non possono certo sussistere contemporaneamente comunanza di vita e solitudine: vediamo infatti che Platone, per quanto nel Fedro non sia del tutto cosciente di questo duplice aspetto dell'amore, e nel suo entusiasmo creatore non si accorga delle contraddizioni cui non può sfuggire, quando parla dell'amore attivo, ossia della concreta vita amorosa di due persone, nonostante proclami una comune ascesa verso la verità non arriva 127ad affermare un arrivo di entrambi alla «pianura» dell'essenza. (82)Si tratta ora di vedere attraverso le stesse parole del Fedro il contenuto della nuova conoscenza e il suo rapporto con l'amore. Cominciamo da un passo che distingue chiaramente questo stato conoscitivo dall'esclusiva vita d'amore, quale sarà da lui svolta in seguito: «ogni anima si prende cura di tutto ciò che non ha anima ... essendo perfetta ... essa regge tutto il mondo» (a) Il punto di vista è ancora qui del tutto presocratico e dionisiaco: l'anima superiore non deve amare nulla di ciò che sia vivente, altrimenti abbandona la solitudine e perde il dominio del mondo. Se uno invece di amare soltanto un'immagine, come simbolo di ciò che è immutabile, si volge all'essere vivente che sta dietro quell'immagine e si interessa di lui nella sua esistenza limitata, si accosta fatalmente al mondo terreno lasciando la sfera divina; lo stesso dice Nietzsche nello Zarathustra: «L'amore è il pericolo del più solitario, l'amore a tutto ciò che vive». (b) L'interessarsi dell'inanimato, dell' àpsychon è invece schiettamente presocratico: solo così essi giungono a racchiudere in sé l'universale ed a signoreggiare sul mondo intero. Questa è una forma superiore di politicità: l'anima perfetta, nel Fedro, dioikei sul mondo intero, ossia «si prende cura» di lui in senso politico, lo

a. Platone, Fedro, 246 b-c. Qui si parla dell'anima prima di nascere, ma questo stato è identico a quello della conoscenza descritto in 249 c (l'anima è caratterizzata in entrambi i passi dall'aggettivo télea, «perfetta»).b. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, III, «Il viandante»: «Die Liebe ist die Gefahr des Einsamsten, die Liebe zu allem, wenn es nur lebt!» (in Nietzsche, Opere, XII, 180).128amministra», e così fa l'individualità divina di Eraclito che oiakizei, «signoreggia» su tutte le cose (a) come pure quella di Empedocle, che «si precipita attraverso tutto il mondo». (b) Sotto questo punto di vista la posizione dionisiaca del Fedone è qui ancora più spinta: egli giunge nel Fedro al limite estremo cui erano arrivati Eraclito ed Empedocle. Soltanto qui egli dice che l'uomo può nella vita divinizzarsi: nella conoscenza, theòs ón, theiós estin, «essendo dio, egli è divino». (c) In questo stato l'uomo diventa assolutamente perfetto, e Platone che più tardi negherà sempre la possibilità di essere perfetto all'uomo, qui per accentuare questo concetto fa addirittura un bisticcio di parole su téleos, che significa «perfetto» in greco. Egli dice: teléous epì teletàs teloùmenos, téleos óntos mónos ghighnetai, «dopo di aver sempre condotto a termine dei misteri perfetti, diviene egli solo realmente perfetto». Quest'uomo ha superato tutta la scala del dionisiaco, e giunge solo al vertice, dove si fa dio. Lassù nella sua solitudine è disprezzato dagli uomini che sono rimasti in basso: «nel suo

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entusiasmo è rimasto nascosto ai molti». (d) (83)A questo punto dobbiamo di nuovo constatare la complessità e la stranezza del Fedro: vista la persistenza dell'individualismo sovrumano del Fedone dovremmo trovare un approfondimento della teoria delle idee, magari trattate alla maniera del

a. Eraclito, 22B64 DK= SG III 14[A82].b. Empedocle, 31B134 DK. c Platone, Fedro, 249 c.d. Platone, Fedro, 249 d. 129pluralismo empedocleo, mentre invece nel Fedro si parla piuttosto di un'essenza unica e universale. Questo si spiega con il carattere poetico e poco rigoroso del Fedro: in esso sono radunate tutte le esperienze mistiche di Platone, anche contraddittorie, senza che si dia loro una forma sistematica. Questa essenzauniversale, su cui non ci si fermava molto nel Fedone, viene qui messa in primo piano: la pazzia poetica ed amorosa porta il conoscitore ad andare oltre la tormentosa ricerca in se stesso, a sentire la propria essenza una con l'essenza suprema. Quest'ultima non è che il brahman indiano, e la sua coincidenza con l'essenza individuale, con l'àtman, viene nuovamente proclamata nel Fedro: «l'essenza (che occupa il luogo iperuranio) che non ha colore, non ha forma e non si può toccare, ed è veramente la stessa dell'anima». (a) Nel Fedone si insisteva di più sul momento eroico di ascesa verso la verità, sull'essenza individuale che lotta per liberarsi nella sua purezza, nel Fedro invece si parla dell'estasi, del punto di arrivo, del momento paradisiaco in cui l'anima non si sente più solitaria o contrapposta ad altre individualità, ma in una staticità perfetta (b) e una con l'essenza universale. Questo punto estremo del misticismo è espresso da Platone nella frase che ho poco sopra riportato: theòs ón, theiós estin, «essendo un dio», ossia la suprema individualità, l'àtman, «è divino», ossia è unito alla sostanza universale divina, al brahman.

a. Platone, Fedro, 247 c.b. Platone, Fedro, 247 b-c. Le anime immortali «uscite fuori rimasero immobili sul dorso del cielo». 130In questa attitudine mistica egli si stacca un po' da Empedocle per avvicinarsi invece a Parmenide: dei contatti vi sono nel carattere estatico ed unitario della conoscenza, nel fatto che più volte si parla dell' ón, dell'essere (a) che la verità è caratterizzata, secondo lo spirito luminoso parmenideo, da una auge kathará, da un «puro fulgore». (b) In questo splendore appaiono delle immagini, che sono le idee: la luce è il mezzo che le congiunge, le tiene unite. (c) Nel Fedone le idee erano delle individualità viventi ciascuna in una perfetta solitudine, nel Fedro il mondo ideale si organizza politicamente alla maniera presocratica e nasce una pòlis divina, formata di dèi e di idee, unificata dall'ousia, dalla «sostanza» universale. Basta leggere la sua descrizione piena di gioia della vita del charos, del «coro danzante» degli dèi, (d) per vedere che in lui l'istinto politico non è spento. Solo in una comunità simile, che non esiste sulla terra, egli può adattarsi a vivere politicamente, dove cioè ogni cittadino è un perfetto dionisiaco, ed è quindi privo dello phthónos, dell'«invidia» e dell'egoismo che sono alla base di ogni politica umana. Questa città di conoscitori, che passa la vita nella contemplazione mistica della verità, è l'unica in cui l'ideale politico si realizzi completamente, è l'unica in cui vi sia una misura ed un'apollineità perfetta, ma è lassù nel

a. Platone, Fedro, 247 d; 249 c. Anche il Natorp Platos Ideenlehre, 71-72, sia pure dal suo punto di vista, osserva in queste pagine l'influsso eleatico.b. Platone, Fedro, 250 c.c. Platone, Repubblica, 508.d. Platone, Fedro, 246 d-247 c.

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131cielo e non può scendere su questa terra. Essi vanno a contemplare l'essenza su un cocchio che avanza senza sforzo, tengono «la posizione secondo cui ciascuno fu ordinato», «compiendo ognuno di essi ciò che è a lui proprio», pràtton hékastos autóri tò hautoù: in quest'ultima formula apollinea consisterà più tardi, nella Repubblica, la giustizia, ma qui nel Fedro giusti sono soltanto gli dèi, perché solo essi fanno ciò che a loro spetta. Questa città è qui ancora completamente staccata dal mondo terreno, ma già dopo poche pagine si affaccia la speranza di potervela realizzare. Il sorgere di questa speranza coincide con il passaggio all'amore educativo: quando Platone pensa di poter fare di un altro uomo un dio, aspira già a stabilire sulla terra una comunità di dèi. Questo punto essenziale della sua evoluzione mette in certo modo uno scompiglio nelle sue idee. Nelle ultime pagine del discorso salta fuori una palese contraddizione: quando parla dell'amore in fase contemplativa egli afferma che la parte appetitiva dell'anima è nella follia amorosa completamente annientata da quella più nobile, mentre quando subito dopo (84) l'amore si trasforma in attivo ed educativo molto più si concede alla sensibilità. (a) In questa ammissione è evidente lo scopo politico di Platone: egli cessa quindi di essere puramente dionisiaco.

a. Si confronti Platone, Fedro, 254 e, con 255 e, 256 e.132

IVIl «Simposio»

Con il Simposio il misticismo di Platone inizia decisamente la sua realizzazione politica attraverso un sistema filosofico. (85)Nel Fedone e nel Fedro il misticismo era assorbente, in essi erano raccontate delle esperienze spirituali dell'autore che non avevano ancora trovato un'espressione abbastanza oggettiva per poter agire educativamente sugli uomini, per questo i due dialoghi furono probabilmente pubblicati più tardi in una seconda redazione, come vedremo nella parte filologica. (86) Uno spirito greco che avesse scelto la solitudine ed avesse raggiunto una conoscenza inesprimibile, riteneva inutile qualsiasi comunicazione agli uomini: il Simposio segna invece un riaccostamento politico, è la formazione di un sistema educativo ed è quindi per Platone la prima opera veramente utile e quindi degna di essere pubblicata. Il Simposio è l'unica delle grandi opere di Platone veramente organica: il Fedone, il Fedro, la Repubblica, il Teeteto sono scritti a più riprese, rivelano delle contraddizioni, lasciano scorgere che la loro composizione è dovuta ad un travaglio prolungato. Il Simposio è invece unitario, scritto nel periodo di massima creatività, in cui l'anima di Platone tornava ad essere umana, si espandeva piena d'amore verso gli uomini - nel periodo più felice della sua vita. (87) Il punto fondamentale del Simposio è pertan- 133to il venir meno del chorismós, del «distacco». Chorismós è comunemente considerato come il termine platonico che indica la separazione del mondo ideale da quello terreno, senonché faccio osservare - e questo risultava già dalla mia precedente disamina - che nel Fedone le parole chorismós, chorìzein sono da principio usate ad indicare non una distinzione oggettiva della realtà, ma il processo individuale di liberazione dell'anima da ogni sensibilità." L'essere ante hath'hautén dell'anima, che è il risultato del chorismós, viene poi esteso, per il bisogno di oggettivarsi che già esiste nel Fedone, a tutta la realtà del mondo: nascono così le idee, complesso di individualità separate, tra cui manca quindi un principio di convivenza politica. Questo è introdotto invece nel Fedro, dove l'essenza suprema è la coordinatrice delle idee in una sfera superiore di politicità. (88) Nel Fedro vi è quindi ancora un chorismós fondamentale tra idealità e sensibilità, ma nel mondo ideale non regna più un principio individualistico spinto come nel Fedone, ed è possibile una superiore convivenza. L'individuo superiore non può vivere

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politicamente che assieme agli dèi e alle idee nella pòlis iperurania; quando però vuole con l'amore far salire un altro uomo lassù, vede invece se stesso costretto a ridiscendere sulla terra. E' questo il passaggio che si fa nel finale del discorso del Fedro, e nel Simposio troviamo già avvenuta una trasformazione completa. Venendo meno il dionisiaco, ossia il chorismós dell'anima, vien meno di conseguenza anche quello delle idee che, come abbiamo visto, non ne era che l'esten-

a Di questo si accorse già Natorp Platos Ideenlehre, 137.134sione. Si forma quindi in Platone una concezione metafisica e politica notevolmente diversa. Mentre sin qui la rinuncia dionisiaca alla politica umana aveva portato ad una netta distinzione tra vita terrena e vita ideale, in cui soltanto è possibile un'esistenza politica, ad una conclusione cioè nettamente presocratica e soprattutto empedoclea, nel Simposio si sostituisce una scala di perfezione che sale dal terreno sino al divino. (89) Con questa nuova concezione ritorna possibile una politica umana: l'eros che nel Fedro accennava già a mutarsi da contemplativo in educativo, è inteso chiaramente nel Simposio come mezzo politico di educazione, e diventa soltanto più rapporto tra due persone, ma sentimento che tiene unita la comunità. (90) Anche la posizione di Platone rispetto all'immortalità dell'uomo risulta mutata nel Simposio: la tesi dell'immortalità dell'individuo cade qui e non ritornerà più in seguito in modo deciso, se è vero che la seconda parte del X libro della Repubblica, dove viene ripresa, è un brano giovanile interpolato. Nel Fedone l'eroismo dionisiaco e nel Fedro l'amore contemplativo portavano l'anima ad essere autè kath'hautén, la riducevano ad una pura essenza, pari alle idee, che come tale non poteva essere se non immortale; nel Simposio invece l'amore che non è più sentimento chiuso in un'anima singola, ma contatto reale tra uomini, tende prima che alla pura conoscenza ad una creazione nella comunità, ad una concreta vita politica. Si forma ora un nuovo concetto di immortalità: Platone non parla più dell'immortalità raggiunta attraverso la conoscenza mistica dell'individuo sovrumano (questa sussiste tuttavia sempre nel suo in- 135timo, altrimenti non si spiegherebbe come venga ripresa nella Repubblica), ma nel suo nuovo interessarsi per il terreno concede agli uomini che non possono elevarsi a quell'eternità suprema una forma di immortalità cui tutti sono in grado di partecipare con la procreazione fisica e spirituale nella comunità. Questo è un altro punto fondamentale nell'evoluzione platonica: egli non addita più agli uomini come scopo dell'esistenza la via dionisiaca che può essere percorsa sino in fondo solo da qualche individuo divino che di tanto in tanto compare sulla terra, ma la via dell'eros, o, com'egli la definisce, la «creazione» e la «generazione nel bello», tókos en kaló. Con questa nuova concezione dell'amore e con questa definizione egli viene a giustificare appieno la distinzione, da me posta come basilare per la comprensione di tutta la prima fase della filosofia greca, tra lato mistico e lato politico, o se si vuole tra dionisiaco e apollineo. Nel Fedone trionfa il momento dionisiaco nella sua purezza: non altro infatti è il processo di purificazione che porta l'anima ad essere solitaria ed indipendente, autè kath'hautén. Nel Simposio invece ha la meglio il momento apollineo e politico, ricco di tutta la precedente esperienza mistica. Platone considera in questo dialogo l'amore come l'elemento che dà la felicità alla vita dello Stato, come il principio di perfetta politicità, e lo definisce «creazione nel bello»: questa definizione si può comprendere a fondo se confrontata con tutta la nostra indagine precedente, la quale parte da un concetto generico di politicità greca comprendente qualunque forma di espressione e di creazione, e determina poi la politicità filosofica co-136me espressione dell'universale mistico. Il dionisiaco è un movimento centripeto, che tende ad una interiorizzazione e ad un individualismo supremo, individualismo che in questa esasperazione cessa di essere tale in quanto non si trova più di fronte ad altri oggetti ed individui finiti, ma coincide con la realtà universale; l'apollineo è un movimento centrifugo, che tende nella sua forma originaria ad

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affermare in senso strettamente politico la personalità singola contro altri individui, e nella sua fase evoluta e filosofica parte da un'anteriore vissutezza dionisiaca per esprimere ed oggettivare la personalità in una creazione bella, per armonizzarla quindi in una superiore esistenza politica con altre personalità. In questa altissima politicità non viene quindi meno la conoscenza mistica, che ne è anzi il principio determinante e il presupposto essenziale: la sostanza dionisiaca diventa la causa vivificatrice ed elevatrice della comunità, ora che non è più nascosta ed incomunicabile interiorità, ma ha trovato un modo di espressione e di oggettivazione, è stata cioè chiamata bellezza. Questo processo per cui il dionisiaco trova un'espressione ed una realizzazione è artistico e politico, e come tale è già stato da me analizzato a proposito di Empedocle. Le intuizioni mistiche di Empedocle si erano trasformate in virtù di questo processo in simboli visivi ed umani: a questo stesso risultato arriva nel Simposio la conoscenza mistica di Platone, la quale dopo di essere stata nel Fedone e nel Fedro inespressa, ed aver ricevuto, come è logico in uno stadio puramente dionisiaco, delle denominazioni astratte e lontane da qualsiasi immagine sensibile, ousia, óntos ón, auto kath'hautó, trova 137finalmente qui un'espressione e una determinazione creativa nella Bellezza. Con questo Platone compie una grande opera politica, poiché anche gli uomini più bassi possono comprendere ed attuare, sia pure in un ambito molto ristretto, la bellezza, e poiché quest'ultima è l'unica cosa che può fare intuire in modo immediato il sopra-sensibile attraverso il sensibile: egli è inoltre artista ed esaltatore dell'arte, poiché è l'arte che più di ogni altra attività umana sa scorgere il mondo ideale attraverso la bellezza dell'immagine e della cosa singola. (a)Tuttavia la conoscenza del filosofo è ancor sempre l'antica dionisiaca, la bellezza che egli vede non ha né viso, né mani, né alcunché di sensibile, non è quindi neppur più bellezza. La determinazione di kalón, di «Bello», che egli ha dato alla verità cade non appena tenta di descriverla, e ritorna l'astrazione mistica dal sensibile: «esso, per se stesso, con se stesso, uno nell'aspetto, eterno». (b) (91) Questa conoscenza è schiettamente mistica: lo dimostrano i dubbi di Diotima che Socrate possa seguirla sino in fondo, per l'incomunicabilità delle sue dottrine: «cerca di seguirmi, se sei capace» (c) e lo dimostra la subitaneità attribuita alla visione suprema, (d) lo dice infine espressamente Platone,

a. Questo significato artistico dell'amore si ritrova ad esempio in Simposio, 210 d. «volgendosi attraverso il grande mare del bello».b. Platone, Simposio, 211 b.c. Platone, Simposio, 210 a.d. Platone, Simposio, 210 e, «in un istante». Per la subitaneità della conoscenza cfr. ad esempio Bruno (in Bruno ed. Gentile, 469).138ricusando alla conoscenza del bello ogni carattere razionale: (92) «esso non è né un ragionamento, né una scienza».0 Ritorna ancora la politicità presocratica, quando Platone - preso dall'entusiasmo artistico - va oltre le proprie intenzioni e dice che chi ha visto il Bello in sé, desidera «contemplarlo soltanto e vivere assieme a lui». (a) Ma a queste affermazioni egli giunge soltanto nel punto culminante del dialogo, trasportato dal suo slancio lirico, e il Simposio rimane nel suo complesso molto meno dionisiaco dei dialoghi precedenti. Questo risulta già dalla definizione di Eros, che non è un dio, ma qualcosa di mezzo tra il divino e l'umano, un demone; (b) faccio poi osservare che non si parla più dell'identità di natura tra l'anima e l'essenza universale. Considerando il dialogo nel suo complesso, si può dire che nel Simposio il punto di gravità si sposta dal dionisiaco all'apollineo. Non si può spiegare altrimenti che con la preponderanza dell'intento educativo il fatto che il processo conoscitivo viene spiegato come un'ascensione al misticismo attraverso l'amore e la vita politica, mentre abbiamo visto che la concreta vita spirituale di Platone seguì il cammino opposto. Per costruire un sistema educativo valido per tutti, Platone non espone il proprio processo interiore, ma ne fonda uno oggettivo, basato non sullo slancio

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individuale, ma sulla razionalità. (c)

a. Platone, Simposio, 211 a.b. Platone, Simposio, 211 d. c. Platone, Simposio, 202 d-e.d. La stessa astrazione razionale nel metodo educativo si nota in Simposio 210 a-b, dove si esorta ad amare prima un corpo, poi più corpi, e in seguito le anime. 139

VTrionfo della politicità

Dopo il Simposio, ossia dopo il 385, Platone diventa sempre più decisamente politico. Egli aveva colto per conto suo la verità: il suo compito sulla terra consisteva ormai per lui nell'aiutare gli altri uomini a raggiungerla, nei limiti delle loro possibilità. Questo problema educativo è al tempo stesso per lui il massimo problema politico, poiché la felicità e la perfezione dello Stato dipende dalla possibilità in esso esistente di educare dei conoscitori. La sua attività si sviluppò quindi da un lato nella composizione della Repubblica, ossia nella costruzione dello Stato ideale e dall'altro nell'insegnamento all'Accademia, dove cercò di esprimere in modo oggettivo le sue dottrine. Ora, per chiudere la mia indagine sulla politicità in senso lato di Platone esaminerò brevemente le trasformazioni che subiscono le sue intuizioni e le sue dottrine, per la necessità educativa di essere comunicate ad una larga cerchia di persone. Se Platone avesse raccontato all'Accademia le sue esperienze mistiche non avrebbe potuto convincere i suoi allievi che quelle racchiudevano una vera realtà e non dei sentimenti soggettivi: egli si vide costretto a dimostrare ed oggettivare il suo misticismo, a costruire un sistema razionale accettabile da tutti. È questo il periodo in cui egli completa il Fedone e il Fedro, dando loro una veste razionale, per quanto era compatibile con il contenuto mistico. (93)140Questa lotta razionale per dimostrare la verità dura per quindici anni e si chiude con una sconfitta. La conoscenza dionisiaca portava all'idea certi attributi, come ad esempio la trascendenza, la cui dimostrazione razionale risultava impossibile, il che del resto è più che naturale se si pensa che questi stessi attributi erano stati determinati per via mistica, e quindi anti-razionale. Platone è cosciente che questi presupposti mistici dell'idea debbono essere mantenuti in un'educazione che voglia veramente accostare gli uomini al mondo ideale, ma la razionalità è un'arma poco maneggevole ed alla fine minaccia di annientargli la teoria delle idee anziché dimostrarla. Egli si trova così, prima del secondo viaggio in Italia, di fronte a una nuova crisi e ad un nuovo bivio: o cedere completamente all'impulso educativo e politico ed abbandonare del tutto il misticismo, riducendo le idee a concetti, oppure lasciare nuovamente gli uomini e ritornare alla solitudine. Partendo per la Sicilia egli si decide per la politica: a testimonianza del travaglio sofferto pubblica un dialogo dedicato a Parmenide, in memoria della medesima battaglia combattuta ai suoi tempi dall'Eleata.Un'analisi sia pure sommaria della prima parte del Parmenide è per noi assai interessante, poiché nell'esame che vi si fa della teoria delle idee, queste mostrano ancora da un lato le antiche caratteristiche del misticismo giovanile e rivelano invece dall'altro l'iniziato processo di razionalizzazione. Parmenide chiede a Socrate se esistono anche le idee dei peli, del fango ecc. Socrate risponde di no: «quelle cose esistono così come noi le vediamo, e temo sia troppo assurdo pensa- 141re che anche di esse vi sia un'idea». (a) Già lo Stenzel ha fatto osservare che qui l'idea non è ancora un concetto, poiché altrimenti si ammetterebbe anche per queste cose, (b) e lo stesso Parmenide, che nel dialogo sostiene la parte del razionalista, preconizza a Socrate che un giorno egli non disprezzerà più questi oggetti. Socrate invece, che rappresenta la giovanile conoscenza mistica di

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Platone, è riluttante a fare questa ammissione, perché l'idea è fondata per lui su di un'intuizione di bellezza e di perfezione, che non può estendere a delle cose brutte come i peli o il fango. Posta poi la questione del rapporto tra l'idea e le cose, Socrate sostiene che può esistere una partecipazione totale, che cioè l'idea può passare intera nell'oggetto, e porta come esempio il giorno, che esiste contemporaneamente nella sua totalità in più siti, senza essere diviso. (c) Con questo egli non fa che affermare la presenza dell'universale nell'individuale, idea schiettamente mistica (d) che Parmenide non ha alcuna difficoltà ad abbattere razionalmente. Platone cerca allora di basarsi su di una maggiore razionalità, e dà una definizione dell'idea già molto vicina al concetto. (e) Ma anche qui non sa rinunciare al mistici-

a. Platone, Parmenide, 130 d.b. Stenzel Studien, 28.c. Platone, Parmenide, 131 a-b.d. Si veda ad esempio Anassagora 59B6 DK, «in ogni cosa vi è tutto».e. Platone, Parmenide, 132 a. («non ti sembrerà che vi sia un solo grande, per cui è necessario che tutte queste cose siano grandi?»).142smo: l'idea è sempre un'entità sostanziale che non si comprende con il ragionamento ma si «vede con l'anima», (a) di guisa che Parmenide ha buon gioco con l'obiezione del «terzo uomo». Socrate si difende ponendo l'ipotesi che l'idea sia un pensiero, un nóema. (b) Neppur ora però si tratta di concetto: si noti anzitutto il vocabolo nóema, caratteristico di Parmenide, presso il quale, come abbiamo visto, aveva un significato mistico, e si osservi inoltre l'espressione: «nascere ed esistere nell'anima» (c) identica a quella usata per la conoscenza mistica nella Lettera VII: «nasce nell'anima». (d) (94) L'idea dunque, anche se chiamata «pensiero», è ancora, nello spirito del misticismo, qualcosa di sostanziale esistente nell'anima, e appunto per questo Parmenide può esercitare anche adesso la forza distruttiva della sua razionalità. Da un punto di vista logico è più che naturale, e poco dopo lo dice espressamente Parmenide (e) che nessuna essenza in sé e per sé esiste in noi, appunto perché è in sé e per sé. Platone aveva invece ammesso questo da giovane, poiché la sua concezione dell'essenza in sé e per sé, dell' auto kath'hautó, aveva avuto un'origine mistica e non razionale.Concludendo il suo esame Parmenide giunge all'annientamento totale della teoria delle idee, nella formulazione che questa aveva ricevuto nel-

a. Platone, Parmenide, 132 a.b. Platone, Parmenide, 132 b-c.c Platone, Parmenide, 132 b.d. Platone, Lettera VII, 341 d.e. Platone, Parmenide, 133 c. 143la fase dionisiaca. (a) Le idee sono separate dalle cose ed incomunicabili ad esse, quindi sono inconoscibili. Se sono inconoscibili nasce il dubbio supremo della loro esistenza. (b) Ma Platone non si lascia minimamente scuotere da questo dubbio. Di una cosa egli fa essere sicuro il Socrate di questo dialogo, sin da quando questi comincia a discutere la sua teoria: le idee esistono e sono ben diverse dalle cose - questa coscienza di una profonda scissione nella realtà è in lui incrollabile, e non gli può derivare che dalla fede nella sua intuizione mistica. Gli interessa quindi di vedere se razionalmente è proprio così e non gli importa, riguardo per esempio al rapporto tra idee e cose, di cambiare facilmente tesi sostenendo ora la partecipazione, ora la somiglianza. La razionalità non è per lui che un mezzo dimostrativo, e quindi educativo. E alla fine, quando la sua tesi è abbattuta, egli crede sempre alle idee - se esse fossero un puro frutto razionale sarebbero andate in fumo, scalzate da una più perfetta razionalità. Non solo, ma anche Parmenide e Zenone, che l'esortano a perseverare, ci credono. Dice Parmenide: «ci vuole uno spirito nobilissimo, per imparare che d'ogni oggetto vi sono un genere e un'essenza in sé e per sé, ed è necessario un altro ancor più meraviglioso di quello che ha

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scoperto l'idea perché sia capace ad insegnare ad altri tutto ciò, avendolo chiarito e provato completamente» (c) Nel modo più chiaro è qui posta la distinzione tra momento conoscitivo, che rimane

a. Platone, Parmenide, 133 b-135 a.b. Platone, Parmenide, 135 a; si veda anche 130 d.c. Platone, Parmenide, 135 a-b.144chiuso nell'individuo, e momento espressivo ed educativo, per il quale soltanto è necessaria la razionalità. Gli Eleati ammirano Socrate perché è in possesso della conoscenza, ma lo criticano perché non sa imporla agli altri. La prima parte del Parmenide ha messo in chiaro che la teoria delle idee non regge ad un esame razionale, la seconda estende questo esame alla teoria parmenidea dell'essere: neppure essa resiste. Il dialogo nel suo complesso è una confessione dell'impossibilità di esprimere oggettivamente la verità più alta in modo che venga accettata da tutti. La posizione di Platone è qui la stessa di Kant: la verità suprema non può essere attinta razionalmente. Ma Platone non può più ormai abbandonare la via politica che si è scelta, e se la conoscenza mistica non può essere in alcun modo dimostrata e comunicata, egli la terrà chiusa nel suo animo, e costruirà per gli uomini una teoria delle idee basata scientificamente, e come tale resistente a qualsiasi esame razionale. Il primo fondamento di questa scienza risale alla seconda parte del Parmenide. Dopo che l'originaria dottrina dell'Eleata è stata annientata dall'esame di Parmenide stesso che ha tolto all'Uno ogni attributo sino a negargli anche l'esistenza, la discussione viene ripresa da capo e si ammette una diade, l'Uno e l'essere, uniti insieme ma pur formanti una duplicità. Lo stesso processo abbiamo già osservato nel poema del Parmenide reale, dove nella ricerca razionale vengono introdotti l'essere e il non essere, ciò che lo porta a concedere una certa realtà al mondo della dóxa: senza almeno due termini non si può fare alcuna costruzione razionale. Posta invece questa scis- 145sione iniziale, si hanno le idee di unità e molteplicità, di essere e non essere e vengono poi dedotte quelle di diversità e di uguaglianza, e del movimento.Da questo momento il divino Platone diventa terreno, e la teoria mistica delle idee si trasforma definitivamente in scienza: per lo studio di questa ultima fase platonica, che non interessa più il mio problema, rimando ai lavori esaurienti del Natorp e dello Stenzel. (a) Sembra così che la trascendenza sia definitivamente tramontata, e che subentri un completo sistema immanentistico; egli si volge alla logica, alla scienza della natura, si accosta a Democrito, (b) e si dedica soprattutto agli studi politici. Ora che ha perduto la speranza di far salire gli uomini alla verità attraverso la politica, anch'essa diventa terrena e perde man mano ogni idealità: le Leggi costituiscono una semplice legislazione, un po' migliore delle altre, su basi del tutto empiriche. Ma l'antica scissione della realtà, la fede in un mondo ideale non si è spenta, soltanto rimane adesso inconfessata, chiusa nel suo intimo. Di qui l'amarezza della vecchiaia di Platone, il dissidio che rode il suo animo: l'uomo ha dei momenti di gioia nella sua gioventù quando scopre la verità, ed è poi condannato per tutta la vita a soffrire nel tentativo di comunicarla e nella delusione che tiene dietro a questo tentativo. La sua esperienza dolorosa gli ha insegnato se mai ad occuparsi degli uomini per un puro dovere, senza voler pre-

a. Natorp Platos Ideenlehre; Stenzel Studien; Robin Platon ecc.b. Stenzel Studien, 112-19, dedica un capitolo ai rapporti tra Platone e Democrito.146tendere nulla di eccezionale da essi, ed a tener nascosta nel modo più segreto la verità. Questa verità però, che non ha nulla di razionale, esiste sempre in lui, è il suo possesso più prezioso, molto più prezioso delle dottrine scientifiche che egli dà ora agli uomini, e ciò risulta nel modo più chiaro dal disprezzo con cui egli tratta tutto quanto può essere contenuto nei suoi dialoghi. Già nel Fedro egli

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dichiara che quello che si scrive è un gioco (paidià) (a) e nella Lettera VII poi la sua opinione in proposito è spiegata in modo ancora più evidente. Un passo della Lettera su questo argomento è già stato riportato precedentemente, quando si parlava di Parmenide; cito ora un altro brano, altrettanto significativo: «ogni uomo veramente serio si tratterrà quindi dal trattare per iscritto delle questioni serie, e di esporre così i suoi pensieri all'invidia e all'inintelligenza della folla», e se vediamo uno scritto «dobbiamo dire che l'autore non l'ha preso seriamente se è lui stesso serio, e che il suo pensiero rimane chiuso nella parte più preziosa dello scrittore. Se effettivamente avesse scritto dei pensieri ch'egli pretende essere seri, bisognerebbe dire che non gli dèi, ma gli uomini gli hanno fatto perdere la testa». (b) Il segreto di Platone va ricercato oltre ai suoi dialoghi: per comprenderlo bisogna afferrare qualche frase o qualche parola essenziale che egli si lascia sfuggire di tanto in tanto per aiutarci, e metterle in relazione con altre parole dei Presocratici e con gli avvenimenti della sua vita. Questa conoscenza che egli nasconde tanto è ancora

a. Platone, Fedro, 276 d.b. Platone, Lettera VII, 344 c-d; si veda anche 343 a. 147sempre la giovanile verità mistica: per convincersene basta vedere gli unici scritti dove se ne fa un accenno, la Repubblica e la Lettera VII. La Repubblica è stata scritta prima del Parmenide, e quindi Platone aveva allora ancora la speranza di far arrivare la comunità al mondo ideale. La verità mistica, nell'oggettivazione che le dà qui Platone per metterla a contatto con la sfera umana, viene espressa come principio politico, come Bene. Il Bene, nella sua funzione di suprema arché, di suprema ragione politica dell'universo, è molto vicino da un lato alla Giustizia cosmica dei Presocratici, e dall'altro al Bello del Simposio. La differenza da quest'ultimo consiste nel fatto che il Bello è il principio politico che regna in una comunità comprendente tutti gli amanti, gli entusiasti e i mistici, ed il Bene è l'arché che domina su di una pòlis limitata ed ellenica, in cui più che slancio vi è ragione e scienza: tra le due concezioni stanno dieci anni di crescente razionalismo. In questo ambiente più freddo vi è anche una riluttanza molto maggiore che nel Simposio a parlare dell'intuizione più alta. Della conoscenza del Bene non si dice nulla: si accenna soltanto in modo chiarissimo, ma anche abbastanza prosaico, alla sua natura mistica e sopra-razionale dicendo che quello che è il «discendente» del Bene (ékgonos, e quindi già ad esso inferiore) rispetto all'intelletto e agli intelligibili, corrisponde a ciò che è il sole rispetto allo sguardo ed agli oggetti visibili. <(a)Ancora una volta si parla della suprema cono-

a. Platone, Repubblica, 508 b-c. Sulla natura sopra-razionale del Bene si insiste anche in 508 e-509 a.148scenza nella Lettera VII; (95) anche qui i segni di misticismo saltano all'occhio, (a) non può essere che tale una conoscenza che non si può esprimere, che nasce nell'anima in modo subitaneo, e che è paragonata, con un'immagine tanto cara ai mistici di tutti i tempi, allo splendore di una luce. Non solo, ma anche l'idea individuale ritorna nella Lettera VII ad essere intesa misticamente. (b) In quest'ultimo passo si parla di quattro gradini di conoscenza, di cui il quarto è costituito dalla scienza e dall'intelletto (episteme kaì noùs): all'essenza nella sua purezza si giunge però soltanto in un quinto stadio, che è quindi necessariamente sopra-razionale, e si manifesta infatti come un lampeggiare improvviso. (96) La trasformazione dell'idea-intuizione in idea-concetto era quindi sempre rimasta un mezzo educativo che per nulla aveva mutato la sua anima: l'idea come individualità auto katWhautò è ancora nella Lettera VII quello che era nel Fedone.Sino alla fine Platone si diverte a mutare aspetto, lasciando sconcertato il lettore. Ma il lettore doveva aspettarselo: i suoi dialoghi sono delle paidiai, degli scherzi. (97)

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a. Platone, Lettera VII, 341 c-d.b. Platone, Lettera VII, 342 a-344 b. 149

Note1. Il motto, nei dattiloscritti D ILI e D II.2, è solo in greco; nel ms. manca, mentre segue la data: «8-10 marzo - 24 maggio 1939». Sempre nel ms. in una pagina successiva compare il sottotitolo del primo capitolo: «Mistica e politica nei Presocratici», che sarà sostituito da: «I Presocratici». Nella Tesi, dal titolo generale: «Politicità ellenica e Platone», il frontespizio della prima parte (equivalente a Filosofi sovrumani) porta il sottotitolo: «L'origine mistica e politica della filosofia greca», mentre quello della seconda parte (equivalente a Platone politico) ha il sottotitolo: «Lo sviluppo del pensiero politico di Platone». Per il passo del Fedro, si vedano il testo a p. 129 e PHK 285.2. questa espressione] nel ms. corregge il precedente: «questo vocabolo».3. greco] nel ms. corregge il precedente: «omerico».4. egli ... Stato] nel ms. corregge il precedente: «essi non sono in grado di costituire una città».5. Sul tema del metodo di studio della filosofia antica, si vedano Ppol 22, 131, 133; PHK 17 sgg.; SGI 9-10.6. punto di partenza nel ms. corregge il precedente: «centro dell'attenzione».7. la ... vissutezza] nel ms. corregge il precedente: «ciò che hanno intimamente intuito».8. Si tratta ... Platone] nel ms. corregge il precedente: «Si tratta ora, per cogliere l'origine del pensiero di Platone, di vedere la formazione di questo mistici- 151smo politico in alcuni Presocratici, e soprattutto in Parmenide, che di Platone può considerarsi il vero precursore».9. Cfr. 12B1 DK= SG II 11 [A 1]: «Le cose fuori da cui è il nascimento alle cose che sono, peraltro, sono quelle verso cui si sviluppa anche la rovina, secondo ciò che dev'essere: le cose che sono, difatti, subiscono l'una dall'altra punizione e vendetta per la loro ingiustìzia, secondo il decreto del Tempo» e il commento relativo, SG II, 297-99. Per l'interpretazione politica, si veda anche SG II 32-33.10. Eraclito ... Grecia] nel ms. corregge il precedente: «Con Eraclito ci troviamo dinanzi ad una personalità che interessa la nostra tesi solo da un punto di vista indiretto. Egli è il primo mistico completo che troviamo in Grecia».11. Sulla necessità di comunicare il lògos in Eraclito, e sul modo di questa comunicazione, si veda anche FE 178-79.12. 22B76 DK: «Il fuoco vive la morte della terra e l'aria vive la morte del fuoco; l'acqua vive la morte dell'aria e la terra la morte dell'acqua [Maxim. Tyr. XLI 4 p. 481]»; «La morte del fuoco è nascita per l'aria e la morte dell'aria è nascita per l'acqua [Plutarch. De E18. 392 e]»; «La morte della terra è acqua, la morte dell'acqua è aria e quella dell'aria è fuoco, e così di nuovo [Marc. Anton. IV 46]». Il frammento non è accettato in SG.13. Cfr. 22A15 DK= SG III 14[A437]: «Ed Eraclito afferma che l'anima è il principio, se essa è appunto l'esalazione da cui egli fa costituire le altre cose».14. Sulla copia di Colli dei Vorsokratiker di Diels, vi è una nota autografa molto posteriore: «fuoco come simbolo» (DKI, 165).15. Sul tema del «riposo» in Eraclito e in Nietzsche si152veda l'interpretazione data successivamente in DN 107 e SG III 14[A62] e nota relativa.16. molto] nel ms. corregge il precedente: «troppo».17. Nel ms. segue, poi cancellato: «ciò che non è ancora stato fatto sinora».18. Aggiunta autografa a fianco della nota nel dattiloscritto D III: «tarda Upanishad. Costituisce la quarta parte in cui si divide OM - parte suprema - è anche detta blitzartig, "folgorante", e ha il purusha come divinità».

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19. Aggiunta autografa a margine nel dattiloscritto D II.2: «Cfr. anche l'accostamento del purusha (autoritratto di Durer) con il passo aristotelico: "l'essere per Eraclito è un uomo solo" (Fisica 185 a 7)».20. pensatore] nel ms. corregge il precedente: «filosofo».21. Cfr. ??? 40 sgg. e SG II 309.22. giunge ... creativo] nel ms. corregge il precedente: «supera il pessimismo del Fedone nell'affermazione».23. Nel ms., a margine: «fr. 1, 27».24. Per questo sviluppo platonico, si veda in generale Ppol.25. Cfr. ??? 167.26. perché ... valore] nel ms. corregge il precedente: «per vedere alla luce di questo il valore e il fine del suo scritto».27. educava] nel ms. corregge il precedente: «insegnava le sue verità all'».28. Questo passo, e quanto immediatamente precede e segue nel testo platonico, è un punto su cui Colli tornerà molto, anche negli anni a seguire. Si veda, più avanti, pp. 146-47 e si confronti Ppol 19 (motto) e 96; ??? 313 nota; Pparm 38; RE [392; 400]; PEAC 29-32.16. 29. Cfr. ??? 167; RE [200; 240]; FE 179; NF 89; GP 130-34, 144, 147-48.30. Cfr. ??? 174 sgg.; RE [240a]; GP 186-88, 198-99.31. I due passi che seguono sono richiamati anche in ??? 169 nota.32. Cfr. Pparm 135-36.33. Gli attributi dell'essere saranno esaminati in dettaglio in GP 145 sgg.34. e... risultato] nel ms. corregge il precedente: «che è l'espressione».35. Cfr. GP 153,188-90.36. Cfr. ??? 176-77.37. Cfr. GP 190 sgg., 198.38. Si veda in contrario GP 203 e l'analisi dei passi parmenidei qui trattati. 15339. l'intuizione] nel ms. corregge il precedente: «il pensiero».40. sull'oggettivo] nel ms. corregge il precedente: «sulla manifestazione».41. serve a dimostrare la] nel ms. corregge il precedente: «è un segno della».42. era partito ... essere] nel ms. corregge il precedente: «Parmenide parte era sentita come una con l'essere».43. Sull'argomento si vedano anche ??? 78-79 e SG II TH[PHD 8] e la nota relativa.44. Cfr. per questa parte introduttiva ??? 213-17 e la nota 1, la nota ???. 225, e Emp. 77-90. Negli anni in cui lavorava a Filosofi sovrumani Colli scrisse anche una tragedia su Empedocle, per ora inedita, in cui la morte del filosofo è la parte saliente.45. Per un'analisi più approfondita si veda ??? 22539. nota, Emp. 110 nota. A margine della copia del DK nella Biblioteca Colli, si legge un appunto molto posteriore (anni Sessanta circa), in corrispondenza a 31B129; riferito a prapides: «sede del desiderio»; riferito a oréxaito (ereidó): «assalire, afferrare, tendersi in fuori, bramare, desiderare».46. In dattiloscritto D ILI autografo a margine: «Forse non è casuale che Rolland, grande studioso di Beethoven, abbia scritto su Empedocle».47. Il successivo paragone con Goethe mi fa pensare al v. 29 di 31B17 DK: «a turno comandano, nel ciclico svolgersi del tempo» («nel muovere ciclico del loro slancio» in Goethe), per cui si veda anche PHK 234; oppure al fr. 29, che parla dello Sphairos.48. Il passo goethiano è citato anche in PHK 277 nota in relazione però alla concezione dello sguardo nel Fedro platonico. Si veda anche DN 68, 124.49. Nel dattiloscritto e nel ms : «il verso 30»; ma il verso B17, 30 (il fr. 17 è l'unico ad arrivare a 30 versi) non si adatta assolutamente all'osservazione che segue, mentre si adatta bene B27, 4, e B27 è il frammento in esame. Si tratta forse di un errore materiale dovuto alla precedente citazione del verso 29 del fr. 17.50. Cfr. Empedocle 31B6 DK51. Nel ms. a margine: «v. Plotino III, 8-9».

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52. Per gli dèi «dalla lunga vita», di cui si parla nella nota a pie di pagina, cfr. DN 99.53. Nel ms. e nella Tesi segue una breve frase di ricucitura con la seconda parte, che era stata scritta però due anni prima, nel 1937, e che ho già pubblicato col titolo Platone politico: «In una seconda parte del nostro lavoro studieremo, restringendo il nostro campo d'indagine, lo sviluppo delle idee politiche concrete di Platone».54. Non ho ritenuto opportuno pubblicare in questo L 15746. volume l'appendice II problema della cronologia platonica perché espone, sia pure in forma più scolastica, i risultati che saranno poi riportati nel cap. VIII di PHK: «Sulla composizione degli scritti platonici», cui si rimanda.55. Cfr. NF 55.56. Cfr. anche F. Nietzsche, La nascita della tragedia, par. 14 (in Nietzsche Opere, II, 97-98).57. Nel dattiloscritto D II.2, nota a margine: «Dolore dell'arte».58. Sul Gorgia platonico si veda anche Ppol 43-47.59. L'anima ... pòlis] prima stesura di PHK 262.60. Cfr. Eraclito 22B101 DK= SGIII 14[A37].61. Questo isolamento ... solitudine] prima stesura di PHK 262.62. La scelta ...se stesso»] prima stesura di PHK 262-63.63. Platone usa... solitudine] prima stesura di PHK 263-64.64. deve essere ... solitaria] prima stesura di PHK 264.65. Cosi ad esempio ...se stesso»] prima stesura di PHK 264.66. Platone, Fedone, 69 c-d. Cfr. NF 54 e SG I 7[A21] e la nota relativa.67. Si parla della virtù ... trasumanata] prima stesura di PHK 266-68.68. forse ... intima] nel ms. corregge il precedente: «sotto un diverso punto di vista 1'».69. che è ...fondamento] nel ms. corregge il precedente: «qui è introdotta a conferma».70. conosce] nel ms. corregge il precedente: «vive».71. A ciò lo conduce ... socratiche] prima stesura di PHK 271-72.62. 72. Nel dattiloscritto D II.2, nota a margine: «Pessimismo-ascetismo del Fedone. Decadentismo».73. egli è convinto ... l'amore] prima stesura di PHK 273.74. suprema] nel ms. segue, poi cancellato: «che in questo caso è il Bello».75. L'aspirazione conoscitiva ... verità] prima stesura di PHK 273-74.76. Nell'oggetto ... concentrata] prima stesura di PHK 274.77. la mania ... moderato] prima stesura di PHK 274. Sulla marnasi veda anche NF 19-21, SGI 25-26, 2[A11; 12] e3[All].78. Ma Platone ... esserlo] prima stesura di PHK 274-75 nota 7.79. Accanto alla ...freddo] prima stesura di PHK 274-75.80. si sente spinto ad amare ... terreno] prima stesura di PHK 278-79.81. Soltanto ... insanabile] prima stesura di PHK 279.82. quando parla ... dell'essenza] prima stesura di PHK 279.83. Cfr. PHK 276, 283 nota, 285; FE 157, dove viene data la traduzione: «ma i più non si accorgono che è posseduto da un dio», che riporto nel motto; SG I 3[A14] e RE [400; 460].84. Nel ms. segue, poi cancellato: «, con il crescere in età dell'amato,».85. politica ...filosofico] nel ms. corregge il precedente: «filosofica attraverso un sistema politico».86. L'appendice a Filosofi sovrumani che, come ho già avvisato, non viene pubblicata in questa edizione e per cui si rimanda al cap. vili di PHK «Sulla composizione degli scritti platonici».62. 87. // Simposio ... vita] prima stesura di ??? 290.88. nel Fedone le parole ... politicità] prima stesura di ??? 290.89. L'individuo superiore ... divino] prima, stesura di ??? 290-91.

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90. l'èros ... comunità] prima stesura di ??? 291. Nel ms. e nella Tesi segue: «Nel capitolo successivo parleremo anzi più a lungo dell' èros e dell'importanza che ha, da un punto di vista più strettamente politico, nella struttura dello Stato», con riferimento a Ppol.91. A margine della copia di Platone nell'edizione oxoniana di J. Burnet, nella Biblioteca Colli, si leggono due appunti molto posteriori (probabilmente 1960) in corrispondenza dei passi riportati: riferito a 211 b: «indiano»; riferito a 211 a, citato poco oltre: «non sensazione né ragione».92. Questa conoscenza ... razionale] prima stesura di ??? 297-98.93. E questo ... mistico] nel ms. corregge il precedente: «La razionalità di Socrate ritorna adesso ed egli sviluppa una dottrina organica della logica e della scienza».94. Cfr. Ppol, motto a p. 19 e p. 96.95. Nella Tesi segue: «in un passo che riporteremo più tardi». Il passo è Lettera VII, 341 c-d, e il rimando è a Ppol 19, 96.96. Nel ms. soprascritto: «344 b»; a margine: «343 c-e è la stessa spiegazione del Parmenide; 344 a: ?????? ??? rcpàyuaxoq, "(né la facilità di apprendere, né la memoria potrebbero dare la vista) a chi non ha la natura affine all'oggetto"».97. Cfr. DN 149.93.

SIGLE E ABBREVIAZIONI

Bidez Empedocle J. Bidez, La biographie d'Empedocle, Gand, 1894.Bignone Empedocle E. Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle testimonianze e dei frammenti, Roma, 1963 (Torino, 1916).Bruno ed. Gentile G. Bruno, De gli eroici furori, in Opere italiane, vol. II: Dialoghi morali, con note di G. Gentile, Bari, 1908 (2a ediz., Bari, 1927).Burnet GPHJ. Burnet, Greek Philosophy. Part. I. Thaies to Plato, London, 1914; trad. fr. di A. Reymond, L'aurore de la Philosophie grecque, Paris, 1919.Deussen AGPH P. Deussen, Allgemeine Geschichte der Philosophie, vol. I, Leipzig, 1894.DKDie Fragmente der Vorsokratiker, von H. Diels, hrsg. von W. Kranz, 3 voll., Berlin, 1934-1937.Doering Sokrates A. Doering, Die Lehre des Sokrates als sociales Reformsystem, München, 1895.Joel GPHK Joel, Geschichte der antiken Philosophie, vol. I, Tübingen, 1921.Joel UrsprungK Joel, Der Ursprung der Naturphilosophie aus dem Geiste der Mystik, Basel, 1903.Macchioro Eraclito V. Macchioro, Eraclito. Nuovi studi suU'orfismo, Bari, 1922.Meyer GAE. Meyer, Geschichte des Altertums, voll. IV e V, Stuttgart-Berlin, 1901-1902.Natorp Piatos Ideenlehre P. Natorp, Piatos Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Leipzig, 1903.Nietzsche OpereF. Nietzsche, Opere, edizione italiana diretta da G. Colli e M. Montinari, 19 voli., Milano, 1992.Pfleiderer Heraklit E. Pfleiderer, Die Philosophie des Heraklit von Ephesus im Lichte der Mysterienidee, Berlin, 1886.Reinhardt Parmenides K. Reinhardt, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, Bonn, 1916.Robin Piaton L. Robin, Piaton, Paris, 1935.Rostagni Pitagora A. Rostagni, /7 verbo di Pitagora, Torino, 1924.Salome Nietzsche L. Andreas-Salomé, Friedrich Nietzsche in seinen Werken, Wien, 1894; trad. fr. di J. Benoist-Méchin, Frédéric Nietzsche, Paris, 1932.Stenzel Metaphysik J. Stenzel, Metaphysik des Altertums, in Handbuch des

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Philosophie I, München und Berlin, 1934.Stenzel Studien J. Stenzel, Studien zur Entwicklung der platonischen Dialektik von Sokrates zu Aristoteles, 2a ediz. ampliata, Leipzig, 1931.Wilamowitz Piaton U. von Wilamowitz-Moellendorff, Piaton, 2 voll., Berlin, 1919.Windelband GPH W. Windelband, Geschichte der antiken Philosophie, 3a ediz. rivista, München, 1912.OPERE DI G. COLLI G. Colli, Dopo Nietzsche, Milano, 1974. EmpG. Colli, Lezioni di storia della filosofia antica. Empedocle. Parte prima. A. A. 1948-49, Pisa, s.d. ma 1949. G. Colli, Filosofia dell'espressione, Milano, 1969. GP G. Colli, Gorgia e Parmenide, Milano, 2003. NF G. Colli, La nasata della filosofia, Milano, 1975. ???G. Colli, La natura ama nascondersi, Milano, 1988 (la ediz., Milano, 1948).G. Colli, Per una enciclopedia di autori classici, Milano, 1983.G. Colli, Lezioni di storia della filosofia antica. Il «Parmenide» platonico. A. A. 1949-50, Pisa, s.d. ma 1950.G. Colli, Platone politico, Milano, 2007 (la ediz. in «Nuova rivista storica», XXIII, fase. Ili e IV, Genova-Roma-Napoli-Città di Castello, 1939).G. Colli, La ragione errabonda. Quaderni postumi, Milano, 1983.G. Colli, La sapienza greca, 3 voli., Milano, 19771980.G. Colli, Zenone di Elea, Milano, 1998.

INDICE DEI NOMI E DELLE FONTI

I numeri in corsivo si riferiscono alle note.

Alcibiade, 94, 98 Alcmane, 24 Alessandro Magno, 24 Anassagora, 142- B6 DK, 142 Anassimandro, 29, 33-35,37, 45, 50, 52-54, 72- B1DK=SG11[A1], 154 Aristofane, 24 Aristotele, 37, 40, 94,110- De anima, 405 a 25-26, 40- Fisica, 185 a 7, 155- Metafisica, 1072 b 27, 110Beethoven, L. van, 81, 86, 157Bhagavad Gita, IX, 7, 48 BidezJ., 73 Bignone, E., 37, 47 Böhme,]., 47, 59, 86 Bruno, Giordano, 30, 32, 47, 59, 63,107, 138Callino, 24Dante, 125Democrito, 37,146Diels, H., 41, 65Diogene Laerzio, Vili, 54, 74; Vm,55, 73;Vm,63, 75; Vffl, 67-69, 75; VUOL, 71-72, 76; IX, 21, 53Doering, A., 94Dürer, A., 155Empedocle, 37, 40, 48, 51, 71-89,102,116,119-21, 124,129-31,135,137, 157- Al DK, 73, 75- B6, 2 DK, 88; B6, 3 DK, 82- B12, 74; B12, 3 DK, 79- B17,18 DK, 88; B17, 20 DK, 88; B17, 25-26 DK, 83; B17, 27-29 DK, 89; B17, 29 DK, 85; B17, 30, 157- B19 DK, 82- B21,12 DK, 88- B27 DK, 84; B27, 4 DK, 85- B28 DK, 89- B35,13 DK, 83, 88- B105,3DK,77- B110,1-2DK,78- B112,4DK, 72, 89

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- B116DK,76- B129, 74; B129, 4 DK, 78- B134 DK, 87,129- B135 DK, 89 Eraclito, 36-52, 53, 63, 71-72, 84, 87,104,106,115, 119-20,129, 154, 155- B1DK = SG14[A9],40- B2DK=SG14[A13], 51- B23 DK= SG 14[A65],52 B26 DK= SG 14[A57],4849B28 DK= SG 14[A80], 52 B30 DK= SG 14[A30],50 B31 DK = SG 14[A31a],39B32 DK= SG 14[A84],45 B33 DK= SG 14[A85],51 B36 DK= SG 14[A53],39 B41 DK= SG 14[A73],40,50B43 DK= SG 14[A75],51 B50 DK= SG 14[A3],46 B52 DK= SG 14[A18],50 B53 DK= SG 14[A19],50 B62 DK= SG 14[A43],42 B64DK=SG 14[A82],50, 129B67 DK= SG 14[A91],43-44B75 DK= SG 14[A98],48 B76 DK, 39B77 DK= SG 14[A49],43 B78 DK=SG 14[A40],40-42B79 DK = SG 14[A41], 41 B80 DK = SG 14[A7], 50,52B94 DK= SG 14[A81],50,52B101 DK = SG 14[A37],38,106B105 DK= SG 14[B7],50 B108 DK = SG 14[A17],46B113 DK = SG 14[A14],41B114 DK = SG 14[A11],50Hegel, G.W.F., 36 Hermann, J.G.J., 114Joel, K, 37, 39, 47Kant, L, 114,145Lassalle, F., 36 Lisia, 123Macchioro, V., 37 Melisso, 37Natorp, R, 113-14, 115, 118, 131, 134,146 Neante, 74Nietzsche, E, 25-26, 29, 32, 38, 4647, 55, 79, 80, 87, 119,123, 724,128Novalis, 83Omero, 24, 25Parmenide, 37, 45, 53-70, 71, 73-74, 77-79, 84,107, 109,114-15,117,131, 141-45,147,154,156- Bl, 1 DK, 55; Bl, 10 DK,

55; Bl, 18 DK, 56;B1,29 DK,59- B2,7-8DK,69- B3 DK, 65, 66- B5DK, 60-62- B6,5-6DK,63- B8, 1-4 DK, 68; B8, 4 DK, 62; B8, 18 DK, 62; B8, 24 DK, 65; B8, 29 DK, 107; B8, 34 DK, 65, 66-67, 70; B8, 35-36 DK, 67; B8, 48 DK, 62; B8, 49 DK, 62- B12, 4 DK, 54- B16, 1-2 DK, 64-65; B16, 4 DK, 65Pausania, 76 Pfleiderer, E., 37 Pisianatte, 76Platone, 19, 24-28, 33, 42, 45, 53-58, 60-61, 71, 75, 79,87,91-149,153-54,157- Apologia, 36 c, 101, 40 c41 c, 101; 42 a, 100

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- Fedone, 60 d-61 b, 102; 64 c-65 c, 107; 64 e-65 c, 108; 65 c, 109, 110; 65d-66 a, 108; 66 a, 110; 69 a-d, 111; 69 c-d, 112; 75 a-b, 113; 76 d, 115; 76 d-e, 114; 77 a, 114; 79 d, 108, 112; 81 a, 112; 83 a, 107; 92 d, 114; 118 a, 100- Fedro, 230 d, 101; 244-245, 123; 246 bc, 128; 246 d247 c, 131; 247 b~c, 130; 247 c, 30; 247 d, 131; 248 b-c, 124; 249 b, 722; 249 c, 128, 129, 757; 249 d, 19, 129; 250 c, 131; 250 d, 725; 250 b-252 c, 126; 252 c-253 c, 126; 253 c-254 e, 126; 253 e-254 b, 725; 254 e, 732; 255 a alla fine, 126; 255 e, 732; 256 e, 732; 276 d, 747- Lettera VII, 341 c-d, 149; 341 d, 143; 341 e-342 a, 58; 342 a-344 b, 149; 343 a, 747;343c-e, 160; 344 a, 160; 344 b, 160; 344 c-d, 147- Parmenide, 130 d, 141-42, 744; 131 a-b, 742; 132 a, 742, 143; 132 b, 143; 132 b-c, 743;133b-135 a, 744; 133 c, 743; 135 a, 744; 135 a-b, 144; 136 d-e, 61- Repubblica, 331 e, 96; 508, 737; 508 b-c, 148; 508 e509 a, 148- Simposio, 202 d-e, 139; 210 a, 138; 210 a-b, 739;

210 d, 138; 210 e, 138;211 a, 139; 211 b, 138; 211 d, 139;218c-219 d, 98; 221 c, 98Plotino, 60-61, 66, 757- Enneadi, III, 8, 5, 66; III, 8, 6, 60Plutarco, 82- Deprìmo /rigore, 16, 952 B, 82Protagora, 27Reinhardt, IL, 53, 74 Robin, L., 146 Rohde, E., 25 Rolland, R., 757 Rostagni, A., 73Salomé, L. Andreas, 724 Schopenhauer, A., 30, 81

Senofane, 53 Senofonte, 94 Simonide, 96Socrate, 27, 54, 94-102,10S106,116,119,123,138, 141-45, 160Sofocle, 100Solone, 24StenzelJ., 101, 114, 115, 122,142,146Talete, 33, 37 Teofrasto, 53, 64, 73, 74 Timeo, 74, 76 Tirteo, 24Upanishad, 48, 59- Atharvacikhà, 1, 48- Brihadàranyaka, 4, 3, 914, 48; 4, 4, 22, 59- Chàndogya,3, 12, 7-9, 59, 66; 4, 15, 1, 49; 4, 15, 5, 49; 5,10, 2, 49; 8, 7,4, 49- Kaivalya, 21, 48Wagner, R., 125 Wilamowitz, U. von, 103 Winkelmann, J.J., 25Zenone, l'Eleata, 57-58, 6061, 141,144-45