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219 L’INDUSTRIA / n.s., a. XXVI, n. 2, aprile-giugno 2005 1. EPIFANIE DI FINE MILLENNIO All’inizio degli anni Ottanta la formula su cui si basava il successo dei di- stretti industriali (una combinazione di flessibilità, basso costo del lavoro e ri- dotti costi di transazione e informazione derivanti dallo stretto collegamento tra il sistema produttivo e l’ambito sociale di riferimento) non accennava a perdere di efficacia. La sostenevano una favorevole congiuntura di mercato, sia all’interno che all’estero, cui non era sicuramente estranea la persistente svalutazione della lira che fungeva da sostegno delle esportazioni dei settori caratterizzanti il cosiddetto «Made in Italy». Tale situazione consentiva alle piccole imprese italiane di fronteggiare vigorosamente la concorrenza dei produttori esteri, in particolare di quelli nei paesi in via di sviluppo i quali continuavano ancora ad insistere sulle fasce più basse del mercato di consu- mo. Ne risultava un successo duraturo per un modello (il «modello italia- no» 1 ) che si proponeva quale valida alternativa alle forme di industrializza- zione nei settori ad elevata intensità di capitale – e anche di ricerca scientifica e tecnologica – in cui più pervasiva era stata peraltro la presenza, ora in via di smobilitazione, dello stato imprenditore. La situazione appena descritta iniziò a mostrare qualche incrinatura al- l’inizio del decennio successivo, con conseguenze non trascurabili sul sistema delle piccole imprese e dei distretti, che da quel momento manifestavano se- gnali frequenti di trasformazione. Nell’oggettiva confusione del quadro com- I modelli di governance delle medie imprese italiane/2 Il quarto capitalismo Andrea Colli Università Bocconi di Milano Classificazione JEL: L21, L22, L23, M13, N84 Questo lavoro riprende e approfondisce alcune idee che ho sviluppato in precedenza nel volu- metto Colli (2003), Il Quarto Capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia, e in un artico- lo, Continuità e discontinuità nella storia recente dell’industria italiana. Alcuni spunti di rifles- sione, pubblicato negli «Annali di Storia dell’Impresa», n. 14/2003. 1 È il titolo del volumetto di Saba (1995).

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219L’INDUSTRIA / n.s., a. XXVI, n. 2, aprile-giugno 2005

1. EPIFANIE DI FINE MILLENNIO

All’inizio degli anni Ottanta la formula su cui si basava il successo dei di-stretti industriali (una combinazione di flessibilità, basso costo del lavoro e ri-dotti costi di transazione e informazione derivanti dallo stretto collegamentotra il sistema produttivo e l’ambito sociale di riferimento) non accennava aperdere di efficacia. La sostenevano una favorevole congiuntura di mercato,sia all’interno che all’estero, cui non era sicuramente estranea la persistentesvalutazione della lira che fungeva da sostegno delle esportazioni dei settoricaratterizzanti il cosiddetto «Made in Italy». Tale situazione consentiva allepiccole imprese italiane di fronteggiare vigorosamente la concorrenza deiproduttori esteri, in particolare di quelli nei paesi in via di sviluppo i qualicontinuavano ancora ad insistere sulle fasce più basse del mercato di consu-mo. Ne risultava un successo duraturo per un modello (il «modello italia-no» 1) che si proponeva quale valida alternativa alle forme di industrializza-zione nei settori ad elevata intensità di capitale – e anche di ricerca scientificae tecnologica – in cui più pervasiva era stata peraltro la presenza, ora in viadi smobilitazione, dello stato imprenditore.

La situazione appena descritta iniziò a mostrare qualche incrinatura al-l’inizio del decennio successivo, con conseguenze non trascurabili sul sistemadelle piccole imprese e dei distretti, che da quel momento manifestavano se-gnali frequenti di trasformazione. Nell’oggettiva confusione del quadro com-

I modelli di governance delle medie imprese italiane/2

Il quarto capitalismo

Andrea Colli

Università Bocconi di Milano

Classificazione JEL: L21, L22, L23, M13, N84

Questo lavoro riprende e approfondisce alcune idee che ho sviluppato in precedenza nel volu-metto Colli (2003), Il Quarto Capitalismo. Un profilo italiano, Marsilio, Venezia, e in un artico-lo, Continuità e discontinuità nella storia recente dell’industria italiana. Alcuni spunti di rifles-sione, pubblicato negli «Annali di Storia dell’Impresa», n. 14/2003.

1 È il titolo del volumetto di Saba (1995).

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plessivo è possibile rintracciare alcuni trend generali. Ad esempio, lo sposta-mento di alcuni produttori sulle fasce alte del mercato di consumo, e l’inten-sificarsi di strategie di integrazione, soprattutto a valle, nella distribuzione.Parimenti, l’emergere di strutture gerarchiche (gruppi, holdings, «costellazio-ni», networks di varia natura) in seno, ma non solo, ai distretti il cui panora-ma tendenzialmente egualitario e polverizzato si andava popolando di sogget-ti che, «irrigidendo» rapporti in precedenza informali, riuscivano a esercitareun controllo più stretto sui costi e sulla qualità dei prodotti 2.

A ben vedere, tuttavia, la trasformazione delle strutture distrettuali era inatto da tempo; sin dai primi anni Ottanta alcuni studiosi avevano notato fe-nomeni di gerarchizzazione in seno al vasto universo dell’impresa minore 3,identificabili con soggetti che solo con qualche forzatura potevano essere eti-chettati come «piccole imprese famigliari distrettuali».

I gruppi e le imprese di media taglia 4 hanno, nel corso degli anni Novan-ta, acquisito un sempre maggior rilievo economico (suscitando di conseguen-za una crescente attenzione da parte degli studiosi), anche grazie alla crisi in-cipiente dei grandi gruppi privati e allo smantellamento delle maggiori con-glomerate pubbliche a seguito del processo di privatizzazione.

Su questa sezione del capitalismo italiano, che nel corso degli ultimi anniha fatto registrare i risultati più interessanti in termini di redditività, di assor-bimento di mano d’opera, di affermazioni sui mercati internazionali 5, si vaconcentrando l’attenzione degli studiosi, soprattutto di quelli che alla diffusaidea di declino industriale 6 oppongono concetti di metamorfosi, evoluzione,trasformazione (Berta, 2004). Perno dell’analisi sono i caratteri positivi di unnucleo sempre più consistente di imprese di medie dimensioni attive in posi-zione di leadership sui mercati internazionali e appartenenti in prevalenza asettori comunemente definiti tradizionali e ad offerta specializzata; quelli in-somma del cosiddetto Made in Italy. Di sfuggita è interessante notare come sistia parlando di qualcosa di sostanzialmente nuovo rispetto alle tradizionali

2 Il fenomeno dei gruppi di imprese minori, operanti in seno a sistemi locali, è stato ana-lizzato tra gli altri da Carone e Iacobucci (1999).

3 Fra i primi (Lorenzoni, 1990).4 Allo stato attuale della ricerca, la definizione delle soglie «quantitative» del fenomeno è

del tutto soggettiva. Tanto per fare qualche esempio, per rintracciare un universo di riferimen-to il sottoscritto, nel citato volumetto Il quarto capitalismo, aveva individuato una soglia supe-riore rappresentata dal fatturato (2,5 miliardi di euro) e una inferiore (minimo 500 addetti).Molto più contenuta la definizione che dà di media impresa Mediobanca (2004), che considerale società di capitale con fatturati tra i 13 e i 260 milioni di euro e con un numero di addetticompreso tra 50 e 499. Sulle problematiche di definizione, si veda comunque Corbetta (2000).

5 Sulla tendenza della redditività, si veda ad esempio il citato studio di Mediobanca,Unioncamere (2004).

6 Tra i molti pamphlet pubblicati sul tema, si veda Gallino (2003).

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letture, in particolare di matrice storiografica, del percorso evolutivo del capi-talismo italiano, solitamente indagato nella prospettiva di una forte polarizza-zione tra gli estremi della grande e della piccola dimensione 7.

2. IPOTESI DI RILETTURA

La sensibilità dello storico, tuttavia, non può esimersi dal notare che nondi rado all’origine di successi talvolta clamorosi stanno modelli imprendito-riali originali, saldamente radicati nella storia dei sistemi locali, da cui i nuoviprotagonisti del capitalismo italiano traggono indubbi elementi di forza maanche tutta una serie di irrisolte debolezze e fragilità. A livello generale, lungidall’essere un fenomeno del tutto nuovo questo capitalismo, insieme indu-striale e commerciale – che nella storia d’Italia emerge quarto (non tanto cro-nologicamente, quanto all’attenzione degli studiosi) dopo quello pubblico equello privato di grande impresa, e dopo la grande stagione dei distretti edelle piccole imprese – si radica nel profondo dell’intera storia industriale delpaese (Turani, 1996; Bonomi, 1997).

L’ipotesi che si vuole qui avanzare è che il dinamismo del «quarto capita-lismo» – per molti aspetti non dissimile dallo storicamente consolidato Mit-telstand germanico – consegue da spinte che si innestano su un tessuto di im-prenditorialità già vitale, radicato in larghissima parte negli anni del miracoloeconomico, se non addirittura nei decenni precedenti.

La fascia dimensionale intermedia ha oggi assunto una rilevanza non tra-scurabile e decisamente maggiore che nel passato. Come accaduto nel casodei distretti industriali alla metà degli anni Settanta, tuttavia, l’accorgersi daparte degli studiosi della rilevanza dell’oggetto non coincide con la sua nasci-ta. L’ipotesi «forte» (e molto affascinante per gli storici dell’impresa e dell’in-dustria) è che un certo nucleo di Mittelstand sia, con dimensioni magari ri-dotte, storicamente attivo in seno al capitalismo italiano, con tratti morfologi-ci che, in tutto o in parte, si possono ritrovare nel neocapitalismo oggi emer-gente.

Non è, forse, azzardato ipotizzare una rilettura più complessiva del feno-meno dell’industrializzazione nazionale degli ultimi settant’anni che pongauna enfasi maggiore che in passato sulla presenza di una popolazione, nume-ricamente variabile nel tempo, di imprese che stabilmente mantengono di-

7 Tanto per fare un esempio, si pensi all’Annale 15 della Storia d’Italia Einaudi, L’indu-stria (a cura di Franco Amatori, Duccio Bigazzi, Renato Riannetti e Luciano Segreto), Torino(1998), cui ha contribuito anche il sottoscritto con un saggio sulle piccole imprese sino al1945, in cui è sostanzialmente accolta e sancita l’idea della polarizzazione. Analoga è l’imposta-zione del volume a cura di Barca (Barca, 1997).

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mensioni medie, manifestando i «comportamenti» (in termini di cultura im-prenditoriale, specializzazione, differenziazione, innovazione, anche interna-zionalizzazione) che oggi rintracciamo negli esponenti più noti del capitali-smo «di mezzo». Un Mittelstand, quindi, caratterizzato da una propria identi-tà storica, e non una occasionale escrescenza o, peggio, una categoria transi-toria, di passaggio tra piccola e grande dimensione 8. È su questa base che lecategorie caratteristiche della business history possono contribuire all’indivi-duazione di stilizzazioni utili a comprendere più approfonditamente un feno-meno di per sé articolato e ancora in divenire.

2.1. Genesi

Un primo dato significativo che emerge da uno sguardo anche superficia-le alle storie delle «piccole multinazionali italiane» 9 è l’origine. In un lavoroprecedente (Colli, 2002; cit.) ho parlato di pionieri, baby boomers e latecomersprovando a disaggregare la pattuglia di punta delle medie imprese italiane inbase al loro anno di nascita, riuscendo così ad identificare tre fasi chiave (ilperiodo fra le due guerre, quello del miracolo economico e quello post-crisidegli anni Settanta). Particolarmente affollato, anche a un’occhiata superficia-le, è il gruppo delle imprese la cui genesi è da collocarsi nel bel mezzo dellegrandi trasformazioni che caratterizzano gli anni Cinquanta e Sessanta, muta-menti che talora hanno un impatto diretto su esperienze imprenditoriali chedatano dal periodo fra le due guerre, quando non prima, quelle di coloro cheho definito come pionieri (cfr. Colli, 2002 cit.; pp. 32 e ss.). Ciò è evidente,ad esempio, nel caso del comparto degli elettrodomestici. Significativa al pro-posito la storia della Candy, il cui nucleo originario si rintraccia nelle OfficineMeccaniche Eden Fumagalli – OMEF di Monza, un’impresa di discrete dimen-sioni (arriva a contare un centinaio di addetti) che negli anni Trenta si dedicaalla produzione di macchine utensili, ma anche della Merloni, nata dal geniodi un tecnico che fabbricava bilance e stadere, oppure della Mivar di Abbia-tegrasso, il cui fondatore svolge prima del conflitto e immediatamente dopola guerra una modesta attività di assemblatore e riparatore di apparecchi ra-diofonici. Non diversamente avviene per quanti producono apparecchi per ri-

8 Su quest’ipotesi si sviluppa una parte di una ricerca cofinanziata dal ministero dell’Uni-versità e della ricerca scientifica che vede coinvolte più sedi universitarie, il cui coordinatorenazionale è Franco Amatori (Istituto di Storia Economica, Università Bocconi), dal titolo Mo-delli di impresa nel capitalismo italiano del Novecento. Il progetto specifico che riguarda la«media impresa» è verificare consistenza, persistenza e morfologia di quello che potrebbe esse-re definito «mittelstand all’italiana».

9 Prendo qui a prestito il titolo di un saggio di Mutinelli (Mutinelli, 1997).

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scaldamento. Negli anni Cinquanta si consolidano botteghe poco più che ar-tigiane come le veronesi Riello (cfr. Roverato, 1996; pp. 360 e ss.) – che, gra-zie al miglioramento della distribuzione dei prodotti petroliferi e della naftain particolare, a partire dalla fase del «miracolo» può contare su un mercatosempre più diffuso per i propri bruciatori (ibidem; pp. 369 e ss.) – e Ferroli,che da officina meccanica si specializza nella produzione di caldaie a gas. Intutti i casi, si tratta di imprese che condividono un percorso comune: permolto tempo non sono altro, o poco più, che botteghe artigiane in bilico sul-la «soglia» di una trasformazione in senso industriale delle proprie strutture,e che seguono sin dal principio una accentuata filosofia di focalizzazione suben individuate nicchie di mercato.

Nella fase del «miracolo economico» queste esperienze schumpeterianead ogni modo fanno registrare radicali trasformazioni bruciando rapidamentele tappe della crescita. In quasi tutti i principali comparti del cosiddettoMade in Italy è possibile rintracciare esponenti di un capitalismo dalle basifortemente imprenditoriali e artigianali, irrobustitosi negli anni del boom inseguito alle dinamiche di cui si è fatto in precedenza cenno. L’intensificazionedella domanda sia di beni intermedi che finali si traduce per questi produtto-ri non tanto in incrementi di volumi quanto in ulteriore specializzazione. Uncaso significativo è quello dei principali produttori emiliani di ceramiche epiastrelle (Marazzi, Iris, Ricchetti), che – a partire dai primi anni Cinquanta,sull’onda del boom edilizio e di una evoluzione nelle tecnologie che permet-tono consistenti risparmi di costo al crescere delle dimensioni d’esercizio –avviano percorsi di crescita sostenuta che sfociano nella costituzione di im-prese contraddistinte da un elevato grado di integrazione e focalizzazioneproduttiva (Russo, 1996) 10. Anche nell’alimentare non mancano casi di rapi-dissimo sviluppo, basati su specializzazione e differenziazione. Esemplare è ilcaso della Star, che nasce immediatamente dopo la guerra per iniziativa di uncommerciante di carne, Regolo Fossati. La società brianzola si espande nelbreve spazio di qualche anno soprattutto per iniziativa del figlio di Fossati,Danilo, grazie alla costruzione di un’efficiente organizzazione di vendita e aintensi sforzi in campo pubblicitario, raggiungendo nel 1969 i 70 miliardi difatturato e il trentacinquesimo posto tra i principali gruppi nazionali (Pavan,1973; pp. 247 e ss; Baldrighi, 1999; Piluso, 1999). L’aumento nei consumi ali-mentari è alla base della trasformazione di attività tradizionali, ad esempiodella produzione e commercializzazione di carne; negli anni Sessanta nasce inEmilia il nucleo originario del gruppo Cremonini (l’Inalca SRL), e si integra avalle l’azienda di Apollinare Veronesi, attiva in precedenza nella fabbricazio-

10 Sulla genesi del distretto ceramico modenese, si veda la sintesi contenuta in Rinaldi(2000; pp. 129 e ss.).

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ne di mangimi ad uso zootecnico, con la nascita del marchio AIA, nonché laParmalat di Calisto Tanzi.

L’espansione dei settori di base (edilizia, alimentare, beni per la casa e perla persona) traina sulla base di consistenti interdipendenze settoriali quelladei produttori di beni strumentali e di componentistica, come nel caso dellaSAES Getters, un’impresa milanese che, nata nell’immediato secondo dopo-guerra dal genio di un neolaureato ingegnere, inizia proprio in quegli anniun’ascesa inarrestabile, grazie anche alle vaste applicazioni del suo prodottoprincipale (il getter, un piccolo apparecchio indispensabile nella purificazionedegli ambienti sottovuoto) che dai tubi catodici passa ai computer e ai semi-conduttori.

Analoghi percorsi interessano la chimica. Alle spalle dei grandi gruppi na-zionali ed esteri negli anni Cinquanta sorge all’interno di ben precise nicchieuna vastissima schiera di imprese, fondate da ex tecnici, agenti commerciali,ricercatori, attive nei comparti più disparati, dagli intermedi per farmaci alpoliuretano alle vernici, dai fitofarmaci ai cosmetici, ai collanti per l’edilizia.Non poche di queste aziende crescono e si sviluppano sino a raggiungere di-mensioni non trascurabili proprio sull’onda dell’espansione dei settori di baseche richiedono prodotti chimici altamente specifici: l’edilizia, le calzature, illegno-arredo, la meccanica, come si vedrà più nel dettaglio tra breve 11. An-che in questo caso, e sin dalle origini, la focalizzazione e la specializzazionespinta sono percepiti come l’unica chance di sopravvivenza per chi opera inun settore dove è forte la concorrenza dei produttori maggiori.

Grazie alle intense interdipendenze settoriali che attivano, anche i settoripesanti, che trionfano negli anni del miracolo economico, stimolano la nascitadi imprese specializzate che si collocano rapidamente su fasce dimensionaliintermedie. La Pininfarina nasce negli anni tra le due guerre, ma è con glianni Cinquanta che inizia la sua vera e propria espansione, trasformandosi inuna azienda industriale; la Brembo, una piccola azienda contoterzista di lavo-razioni meccaniche fondata da una famiglia di veneti immigrati nella berga-masca (Castelli, 2000; p. 80), sviluppa, a partire dagli anni Sessanta, la produ-zione di componenti frenanti avviando stretti rapporti con le maggiori caseautomobilistiche. Il gruppo Fontana di Veduggio, oggi il maggior produttoreitaliano di viteria e bulloneria con un fatturato consolidato non lontano dalmiliardo di euro, inizia a specializzarsi negli anni Cinquanta con la produzio-ne di bulloneria speciale per produttori di automobili e mezzi pesanti.

Per la fornitura di macchinari per il settore siderurgico si sviluppano especializzano, all’indomani del conflitto, aziende come la Danieli, già attiva

11 Sul caso della chimica rimando più specificamente alla ricerca promossa da Federchi-mica (2004), disponibile anche sul sito www.federchimica.it. Si veda anche il saggio a firmaColli, Maglia in questo fascicolo.

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nella fase fra le due guerre nella produzione di macchinari per laminatoi. LaSOL (Società Ossigeno Lombardo) nasce alla fine degli anni Venti dall’iniziati-va di due famiglie monzesi, Annoni e Fumagalli e si rivolge da subito allaproduzione e commercializzazione di ossigeno liquido e acetilene ad uso pre-valentemente industriale. È però con gli anni Cinquanta che l’attività siespande e radica definitivamente in abito extraregionale: l’azienda monzese,che fornisce l’ossigeno liquido alle acciaierie, fonda la propria rapida crescitasul rapido sviluppo di queste ultime. Come già accennato, il settore siderurgi-co si muove all’unisono con quello edilizio. È il momento dei «tondinari»(Balconi, 1991; Pedrocco, 2000), ma anche di quanti, a fronte del crescentepredominio pubblico nel settore, scelgono la via della marcata specializzazio-ne, come nel caso delle Acciaierie Valbruna (Roverato, 1996; pp. 299-300),dell’impresa di Steno Marcegaglia (Zunica, 1998), della brianzola Rodacciai(Colombo, 1998; 1999).

Per venire al gruppo dei latecomers, cruciale sembra essere invece la fasedegli anni Ottanta. Sono in questo caso sostanzialmente i settori caratteristicidel Made in Italy (il tessile-abbigliamento, le calzature, l’arredamento), in cuipiù intensa è l’esperienza dei distretti industriali a registrare l’affermazione diesperienze imprenditoriali riconducibili all’ambito del Mittelstand nazionale.Nel comparto dell’abbigliamento la formula consolidata del franchising asso-ciata all’ampio uso del terzismo ha sostenuto lo sviluppo di Benetton, di Ste-fanel tra gli anni Settanta e Ottanta, la crescita sbalorditiva della Diesel diMolvena, che passa dai 7 miliardi di fatturato del 1985 ai 450 del 1993, aglioltre 520 del 1997, ai 615 del 1999 (Roverato, 1996 cit.; p. 329), e l’afferma-zione dei produttori di biancheria intima di qualità, come ad esempio i grup-pi La Perla e San Pellegrino. Nel settore calzaturiero l’esempio più interes-sante è quello del gruppo Della Valle, nell’arredamento emerge Natuzzi, Safi-lo, De Rigo (Dal Zot, 2003) e Luxottica (Brunetti, Camuffo 2000) nell’oc-chialeria.

2.2. Omogeneità

Al di là delle specifiche fasi di sviluppo, una caratteristica significativa diqueste imprese, che si pongono in una posizione intermedia tra il vasto mon-do dell’impresa minore e quello delle aziende maggiori, è l’insistenza su seg-menti specifici e ben definiti di mercato. Si tratta di veri e propri oligopolistiall’interno di quelli che gli economisti industriali definirebbero «gruppi stra-tegici», sottoinsiemi omogenei di più ampi ambiti settoriali, caratterizzati daspecifiche barriere all’entrata, regole competitive, comportamenti e cicli d’in-vestimento (Porter, 1979). All’interno del gruppo strategico le imprese in esa-me occupano quasi sempre una posizione di leadership incontrastata. Le idee

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imprenditoriali si concretizzano in formule molto precise, innestandosi susegmenti relativamente ristretti di domanda contraddistinti però da elevatacrescita, evitando per quanto possibile le lusinghe della produzione di massaoppure dell’eccessiva diversificazione. In non pochi casi la motivazione ditale atteggiamento va rintracciata nella strategia difensiva che sin dalle originiqueste imprese scelgono di adottare, ovvero di focalizzazione e «customizza-zione» per poter competere con successo con gruppi di maggiore dimensio-ne, magari di respiro multinazionale.

2.3. Fasi di crescita

Un ulteriore elemento comune paiono essere le tappe che cadenzano ilprocesso di sviluppo di queste imprese. La prima è quella della crescita rapi-da e spesso disordinata, dominata da una logica di matrice produttivista, ilcui protagonista è il fondatore che esercita un controllo indiscusso sull’orga-nizzazione in tutte le sue parti e sulle direttrici commerciali, che però rara-mente si distaccano qui dall’ambito locale o regionale. Si tratta, peraltro, diuna fase che in alcuni casi pare prolungarsi nel tempo, per giungere sino adoggi. Non di rado ciò coincide con la permanenza alla guida dell’impresa delfondatore, che tende a riprodurre nel tempo la formula imprenditoriale origi-naria basata sull’efficienza produttiva. Si consideri ad esempio il caso emble-matico della Mivar, l’azienda lombarda produttrice di televisori che conservauna posizione di preminenza nel mercato nazionale degli apparecchi a bassocosto. Sin dalle prime origini nella produzione di apparecchi radiofonici, lafilosofia del fondatore si incentra su una spasmodica ricerca della standardiz-zazione, sulla massimizzazione dell’efficienza, sulla riduzione dei costi e deglisprechi.

A questa segue quella del consolidamento, che non di rado prende avvioin occasione di un primo cambio generazionale. All’enfasi sugli aspetti legatialla produzione si affianca, e talvolta sostituisce, quella sugli aspetti commer-ciali e di servizio, giocati ora non più esclusivamente in ambito locale ma na-zionale. È questo il trampolino di lancio da cui prende avvio il processo diinternazionalizzazione commerciale, in una fase che ha in genere avvio tra lafine degli anni Ottanta ed il decennio successivo, quando in non pochi casi siassiste anche ad una vera e propria multinazionalizzazione dell’attività.

2.4. Contesti

Un altro punto cruciale è dato dal fatto che la stragrande maggioranza diqueste imprese affondano radici profonde nell’humus fertile dei sistemi pro-

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duttivi locali (Bonomi, 1997; Fortis et al., 2000) 12. I distretti sono sotto moltiaspetti un ambito privilegiato in grado di comunicare dinamismo ulteriore adiniziative imprenditoriali già di per sé feconde. Costituiscono sovente il mer-cato «originario»; sono, cosa ben più rilevante, fonte di competenze, know-how, imprenditorialità, innovazione di prodotto e di processo. Le spinte digerarchizzazione in atto in numerosi distretti italiani (per tutti, si veda il casodella meccanica modenese) portano alcune imprese, secondo pratiche peral-tro già presenti in passato, ad organizzare stabilmente ampie reti di piccoliproduttori (Lorenzoni, 1990; Sancetta, 1997; Previtali, Aversa 2000). I distret-ti di seconda generazione costituiscono un mercato privilegiato per impresespecializzate che da tale base possono partire alla conquista dei mercati na-zionali e internazionali, come si incaricano di testimoniare le vicende già ri-cordate della riminese SCM, della Danieli di Udine, e la storia della imoleseSACMI, una cooperativa fondata nell’immediato primo dopoguerra da alcunimeccanici disoccupati che sviluppa a partire dall’inizio degli anni Cinquantala produzione di impianti per il locale comparto ceramico. Da notare è poi ilfatto che non poche fra le principali imprese della chimica specializzata italia-na, oggi leader in alcune nicchie specifiche nonostante il persistente deficitsettoriale, sono strettamente legate al mondo distrettuale, seppur ad esso, ma-gari, geograficamente estranee. Significativo a questo proposito il caso dellaMapei che nasce nel periodo fra le due guerre come laboratorio poco più cheartigianale per la produzione di collanti impiegati nella posa di pavimenti esoprattutto di linoleum. È però durante il boom economico che avviene unprimo, decisivo salto di qualità con la fabbricazione di colla per piastrelle –in stretta collaborazione con produttori sassolesi (Bonfanti, 2000). Già men-zionato è anche il caso della cremonese COIM, che sviluppa a partire daglianni Sessanta tecnologie innovative nella produzione di suole poliuretanicheper i produttori di scarpe e scarponi sparsi per i numerosi distretti calzaturie-ri nazionali. La toscana Colorobbia dalla tradizione ceramica di Monteluposviluppa una competenza a livello mondiale nella produzione di intermediper la produzione industriale di ceramiche. Si pensi anche al caso dei mag-giori produttori nazionali di vernici: per tutti vale l’esempio della Inver,azienda bolognese che dal secondo dopoguerra produce coatings specifici permacchine utensili e meccanica, proprio all’interno del principale distretto ita-liano del settore.

Localizzate o meno all’interno di un distretto, le imprese «di mezzo» mo-strano di saper sfruttare le risorse disponibili su base territoriale, soprattuttoquelle di know-how, capacità progettuale e innovativa. Aziende di questo

12 Sull’emergere dei gruppi in seno alle aree distrettuali si vedano i saggi di Brioschi eCainelli, e di Balloni e Iacobucci (rispettivamente su Emilia Romagna e Marche) raccolti in(Brioschi, Cainelli 2001).

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tipo affollano il settore tessile, in cui rispetto ad altri sono storicamente piùdiffuse politiche di terzismo e di decentramento. Un caso indicativo è quellodel setificio comasco, ove gruppi come Ratti e Mantero per molto tempohanno replicato il ruolo molto antico dei mercanti-imprenditori. Il rilievo delsistema produttivo locale è forte anche in settori ove in apparenza meno ov-vio è l’impiego del subcontracting. La modenese IMA, leader a livello interna-zionale nel ristretto comparto delle macchine per l’imbustaggio del the e deimedicinali svolge, sin dalle sue origini negli anni Sessanta, in proprio preva-lentemente attività di progettazione, lasciando a un’ampia coorte di terzisti,concentrati nel florido distretto meccanico emiliano, il compito di produrrela componentistica necessaria (Previtali, Aversa cit.; p. 72).

Ciò è vero anche nel caso di quanti si sono ormai da tempo distaccati dal-le logiche strategiche, competitive, finanziarie e dimensionali caratteristichedei distretti, in generale in seguito all’introduzione di tecnologie che privile-giano l’intensificazione della scala produttiva e l’ampliamento dei volumi, conil conseguente impatto sulle reti distributive e sui costi generali d’esercizio;tecnologie che talvolta mettono in forse la stessa esistenza dei sistemi distret-tuali nella loro forma marshalliana. Si pensi a quanto è accaduto al sistemadell’occhialeria cadorina, con l’emergere dei produttori di taglia medio-gran-de come Luxottica, Safilo, De Rigo, o a quello del calzificio mantovano.

2.5. Morfologie

Sotto il profilo morfologico, le imprese di media taglia mostrano, oggi,una marcata tendenza a strutturarsi nella forma di gruppo, in generale costi-tuito da una holding – sovente la società originaria – a capo di numerose so-cietà operative e commerciali. Le motivazioni di natura fiscale mantengonooggi una certa rilevanza, anche se non sembrano essere le determinanti prin-cipali del ricorso frequente alla struttura a gruppo. Né è, d’altra parte, la ne-cessità di «allungare» le catene di controllo con finalità di leva a determinarela formazione di grappoli di aziende, dato che la capogruppo, tranne rarissi-mi casi, controlla la totalità delle azioni delle imprese che da essa dipendono.La struttura a holding, insomma, discende da una serie di altre motivazioni,tra cui le inerzie e le convenienze immediate hanno un ruolo tutt’altro che se-condario, ma in cui sembrano avere un peso non irrilevante il passato e leconsuetudini gestionali di questa imprenditorialità.

Innanzitutto la casualità. I gruppi non di rado si costituiscono sull’ondadi una strategia di acquisizioni assolutamente non preordinata, ma che pren-de le mosse dalle occasioni che di volta in volta emergono e consentono ainuclei originari una espansione progressiva tramite l’acquisizione di impreseconcorrenti, o attive in settori limitrofi, in difficoltà finanziarie oppure di

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transizione generazionale. Si tratta dell’acquisizione di imprese spesso benfunzionanti sotto il profilo tecnico e organizzativo, che vengono aggregate alnucleo originario in genere senza stravolgerne caratteristiche, mercati di rife-rimento, e soprattutto il management.

Una seconda direttrice strategica nella costituzione dei gruppi è quellache si potrebbe definire come «specializzazione funzionale». L’impresa siespande, nel corso del percorso di crescita, per «specializzazioni», di volta involta enfatizzate dal ciclo produttivo principale; in genere la più comune èquella che vede aggiungere all’attività principale una funzione di progettazio-ne impiantistica e di engineering. In generale la specializzazione funzionaleorigina iniziative imprenditoriali autonome, che raggruppano competenze inprecedenza sparse all’interno dell’organizzazione. Un caso significativo e rap-presentativo (ma si tratta di una strategia che non sembra avere barriere set-toriali) è quello della mantovana Sadepan. L’attività originaria, intrapresa dalfondatore Mauro Saviola a inizio anni Sessanta è quella della produzione dipannelli in truciolato pressato e incollato, un prodotto soggetto ad una do-manda crescente soprattutto per uso privato (arredamento e cucine). La ne-cessità di colle, resine e vernici provoca una prima integrazione a monte, conla costituzione della Sadepan chimica, oggi tra le principali imprese del setto-re. L’espansione prosegue nella produzione di impianti chimici e di lavorazio-ne del legno; nei trasporti; nella raccolta di legno da riciclare, il tutto attra-verso una espansione progressiva che vede il gruppo contare oggi su una de-cina di società con un fatturato complessivo intorno al mezzo miliardo dieuro (cfr. www.grupposaviola.com). Un altro caso interessante è quello delgruppo Radici, che dall’antico nucleo laniero sviluppa una netta diversifica-zione orizzontale, fra le altre cose nell’ingegneria di produzione a partire dal-l’inizio degli anni Ottanta, mettendo a frutto una serie di competenze matu-rate sia nel meccanotessile che nella fabbricazione dei filati polimerici e poli-propilenici, oltre ad una serie di attività «di risulta» destinate a crescere di ri-lievo nel fatturato consolidato, come plastiche e imballaggi.

La terza spinta alla formazione di gruppi si connette, storicamente, alladisponibilità di risorse umane e alle caratteristiche di gestione imprenditorial-famigliare. Garantire la formazione autonoma delle nuove generazioni, forni-re un «banco di prova» per esperienze imprenditoriali nuove, garantire i suc-cessori con una «dote» concreta, sono motivazioni che non di rado guidanol’espansione di imprese «imprenditoriali» nella forma di holding ramificata.Si tratta, tuttavia, di strategie per cui anche dal punto di vista storico esisteuna evidenza empirica piuttosto disomogenea, ed in cui è necessario svilup-pare una ricerca ulteriore.

Un ultimo tassello che permette di spiegare il ricorso frequente al grupposi identifica con le direttrici di espansione internazionale, non di rado realiz-zate obbligatoriamente attraverso la costituzione di società nuove che forma-

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lizzano accordi di joint-venture e collaborazione, talvolta con partner locali.Uno sguardo alle dinamiche di sviluppo degli agglomerati di società che co-stituiscono questi gruppi mostrano una intensificazione di questa dinamicanel corso dell’ultimo decennio, in coincidenza con l’accelerazione delle dina-miche di internazionalizzazione, anche se, è bene ribadirlo, la norma è unapartecipazione di maggioranza assoluta da parte della capogruppo nelle con-trollate.

3. PROPRIETÀ, CONTROLLO, GESTIONE, FINANZA

Le continuità e i legami più solidi con i caratteri distintivi del capitalismoitaliano si ravvisano però ad un altro livello: nelle strutture proprietarie e inquelle di governo aziendale. Nonostante in generale ci si trovi di fronte agruppi di non trascurabili dimensioni, che manifestano una certa complessitàsotto il profilo organizzativo data la loro articolazione e l’elevato numero didipendenti, rarissimi sono i casi di modelli proprietario-gestionali alternativi aquello che vede la famiglia fondatrice, di gran lunga il maggiore azionista del-l’impresa, fornire le risorse umane necessarie per i ruoli chiave all’internodell’impresa, come confermano del resto sia analisi di carattere quantitativo(Barca et al., 1994) sia qualitativo (Corbetta, 2001; Guerci, 1998). I diritti diproprietà restano saldamente nelle mani della famiglia grazie ad artifici qualiholding di controllo che sovrastano a decine di controllate industriali e com-merciali e che assolvono a compiti di natura fiscale oltreché, soprattutto, aquello di agevolare i meccanismi di successione imprenditoriale (cfr., tra glialtri, Zattoni, 2000; p. 44). Una schiera nutrita di famiglie detengono in que-sto modo, saldamente, le redini delle fasce dimensionali medie del capitali-smo privato italiano. Un carattere che si riflette direttamente, come è logico,sui modelli gestionali. La proprietà famigliare coincide con lo stretto control-lo sulle funzioni strategiche dell’azienda esercitato dai componenti della fami-glia, sovente affiancati da consulenti tecnico-amministrativi che rapporti dilungo periodo legano solidamente alla proprietà. I manager esterni alla fami-glia sono, insomma, formati e cresciuti nell’azienda, in generale a stretto con-tatto con il fondatore di cui condividono visione imprenditoriale e spesso fi-losofia di vita.

Storicamente, il problema della formazione del top management è risoltocoinvolgendo direttamente gli eredi nella gestione quotidiana, anche se più direcente i meccanismi di formazione del capitale umano hanno assunto sfuma-ture di maggiore sofisticazione, dato che alla formazione pratica, in azienda,si sono affiancati periodi di formazione esterna che sovente richiamano allamemoria i viaggi d’istruzione dei rampolli della borghesia industriale ottocen-tesca. Tratto comune è il lungo affiancamento, sia al fondatore sia ai manager

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di fiducia di cui egli si circonda. Ma non è raro il caso che sia proprio unodegli eredi, in possesso di una formazione in genere tecnica di livello superio-re a quello presente in azienda sino a quel momento, a consentire il salto diqualità. È questa per esempio la storia della Candy, dove le competenze tec-niche del fondatore nella costruzione di macchine utensili e torni a revolvertrovano una prosecuzione sostanziale nelle abilità tecnico-progettuali di unodei figli, che sviluppa i primi modelli di lavabiancheria. Alla riminese SCM leprime macchine utensili per la lavorazione del legno vengono costruite suprogetto del figlio di uno dei due soci fondatori, mentre alla Mapei è solodopo l’ingresso a fianco del fondatore Rodolfo Squinzi del figlio Giorgio, lau-reato in chimica, che la società intraprende un rapido percorso di moderniz-zazione.

Nelle «storie» di queste aziende non mancano quasi mai figure (tecnici,ma anche professionisti, operai venuti «dalla gavetta», ex-agenti, e così via)che sin dalle origini, in posizione «defilata», affiancano l’imprenditore conruoli manageriali non definiti in alcun mansionario. Gli esempi abbondanoovunque. Nel gruppo ERG della famiglia Garrone, alla morte del fondatoreEdoardo, alcuni dei suoi più stretti collaboratori sono chiamati a gestirel’azienda in attesa che l’erede designato sia in grado di prendere il posto delgenitore (Falduto, 1999; 2000). Abbastanza comune è, poi, una gestione «bici-pite» nel caso delle aziende del settore moda, ove ai creativi si affiancano sindalle origini soggetti che si incaricano di gestire gli aspetti organizzativi, am-ministrativi e finanziari. L’evidenza disponibile suggerisce, comunque, che lelogiche di clan si spingono persino a basarsi sull’antico metodo di cooptazionemanageriale attraverso il matrimonio. La struttura dei consigli d’amministra-zione, a prevalente composizione famigliare, è lo specchio più evidente di unasituazione in cui, tranne rarissimi casi, lento è il processo di delega e di decen-tramento delle responsabilità.

È difficile, insomma, sfuggire all’impressione che, almeno sotto questoprofilo, si tratti di un capitalismo ancora a metà del guado; ciò che colpiscealla luce dell’analisi storica è la persistenza tenace di un modello di controllofamigliare che si presenta tanto più complesso quanto più si considera la na-tura in generale moderna della maggior parte di queste organizzazioni, pro-iettate alla conquista di mercati internazionali, ramificate ed estese geografi-camente, multinazionali con fatturati non trascurabili e dotate di un numerodi dipendenti piuttosto elevato.

È tuttavia difficile dire se la persistenza di tali forme di controllo sia diostacolo all’espansione dell’attività, oppure se le dimensioni raggiunte dagruppi che in effetti operano sovente in nicchie, seppure di dimensioni inter-nazionali, siano perfettamente coerenti con un modello che mantiene intattitutti i pregi di dedizione, continuità, proiezione sul lungo periodo, creativitàtipici dell’impresa famigliare.

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Da ultimo, non è possibile non accennare al tema complesso dei rapportiche legano questi gruppi dinamici ai delicati equilibri che si vengono storica-mente a stabilire all’interno dei circuiti finanziari locali. Per queste imprese,molte delle quali si muovono con estrema disinvoltura sui mercati finanziariinternazionali, la base locale costituisce un elemento funzionale allo sviluppoe all’espansione nei momenti critici della vita dell’impresa. In altre parole, an-che quando le dimensioni aumentano oltre una soglia critica, e le esigenze difinanziamento dell’attività si espandono unitamente all’articolazione dellefonti di riferimento, mantengono la loro piena validità le considerazioni daaltri efficacemente espresse relativamente alla funzione chiave rivestita dalleistituzioni finanziarie di matrice locale nel promuovere e sostenere l’azioneimprenditoriale diffusa (Conti, cit.; pp. 483 e ss.). La struttura finanziaria diquesti gruppi non concede molto spazio all’esterno. Nonostante non manchi-no esempi di dinamismo e aggressività – lo testimoniano le quotazioni sullepiazze borsistiche anglosassoni di imprese come Benetton, Luxottica, Natuzzi– prevale, in fondo, ancora la logica dell’utilizzo prevalente delle risorse inter-ne prodotte dall’impresa (l’autofinanziamento, che deriva, come accennatopiù sopra) da una redditività abbondantemente sopra la media) che sostienela maggior parte delle decisioni di crescita e di investimento, il che si traduce,com’è noto e in linea con la tradizione storica del capitalismo italiano, in unapproccio cauto ai mercati borsistici, e nell’assenza di qualsiasi traccia di di-battito interno su strategie e successione manageriale.

4. CONCLUSIONI

I nuovi attori che occupano la scena industriale nazionale sono insommal’espressione più immediata della specializzazione produttiva caratteristica datempo dell’economia italiana. La loro presenza nei settori del Made in Italy,delle produzioni specializzate e custom oriented e la posizione di preminenzaconseguita sui mercati internazionali costituisce un asset formidabile che faconsiderare queste realtà imprenditoriali come una nuova, ennesima concre-tizzazione di un modello di sviluppo in grado di adeguarsi alle trasformazionie ai cambiamenti imposti dalla fase di internazionalizzazione dei mercati e diglobalizzazione delle produzioni. Simboleggia peraltro tale vivacità l’assaltoche le componenti più dinamiche del nuovo capitalismo danno alle parti sanedella sfera pubblica in via di privatizzazione: alla Luxottica di Del Vecchio,affiancato dalla famiglia Benetton, finì parte della Generale Supermercati (poiceduta al gruppo francese Carrefour), a Lucchini le Acciaierie e Ferriere diPiombino, mentre a Emilio Riva sono pervenuti i brandelli di quello che fu ilprincipale gruppo siderurgico pubblico italiano, la Finsider. Nel 1996 laMontefibre entra a far parte del gruppo tessile controllato dalla famiglia Or-

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landi. La Savio Macchine Tessili (ex ENI) viene acquisita dal gruppo bergama-sco Radici, la Vinavil dalla Mapei.

La rapidità con cui le «piccole multinazionali» sono arrivate a dominareinteri rami della produzione sui mercati di tutto il mondo si è riflessa diretta-mente sull’adeguatezza della loro struttura organizzativa, ancora legata a dop-pio filo a modalità e mentalità proprie del capitalismo personale, famigliare,imprenditoriale. Da ciò conseguono molti dei nodi problematici che affliggo-no imprese altrimenti floride: ad esempio, una certa difficoltà nella delegadelle responsabilità, un elemento di difficile gestione soprattutto in coinci-denza di delicati passaggi intergenerazionali in cui la leadership dei fondatoriè soggetta a revisione. Si tratta di imprese che giungono a operare in posizio-ni di leadership di nicchia sui mercati internazionali, in una fase di competi-zione accentuata, con le strutture antiche e consolidate imperniate sulla stret-ta coincidenza tra la proprietà e il controllo dell’impresa.

È possibile che queste nuove forme di capitalismo «personal-multinazio-nale» suggeriscano, in fondo, l’esistenza di una sorta di «modello italiano» dimanagement, anche per le imprese di medie dimensioni. Ne sarebbero garan-ti una solida cultura d’imprenditorialità famigliare, una struttura dei mercatiborsistico-finanziari ancora arretrata, la stessa natura dei settori di riferimen-to, che consente dimensioni aziendali ottime minime ancora gestibili con suc-cesso dalle famiglie proprietarie.

Il fenomeno della «media impresa di successo» mostra insomma tratti diforte continuità con la storia pregressa del capitalismo italiano, fatta di spe-cializzazioni di nicchia, creative, in un ambito settoriale in cui la scala pro-duttiva non riveste un ruolo rilevante, attuate non di rado grazie all’ambienteconfortevole e protetto del sistema locale; di accentramento proprietario e ri-dotta delega manageriale, di strumenti finanziari tradizionali e spiccata ten-denza all’autofinanziamento. Una continuità che si rintraccia anche nella for-mulazione delle scelte strategiche, prudenti, incrementali, quasi mai azzardatee rischiose, che tuttavia portano le imprese ad acquisire progressivamente laleadership di nicchia che ne determina il successo duraturo. Non mancano,tuttavia, gli elementi di discontinuità; di matrice dimensionale, innanzitutto.Le imprese del quarto capitalismo non sono piccole, e le nicchie su cui ope-rano di dimensioni quantomeno sopranazionali. Inoltre manifestano gradi no-tevoli di internazionalizzazione, sia commerciale che produttiva, proiettandosui mercati esterni competenze consolidate prima in ambito domestico. Mani-festano tendenze innovative sopra la media, sia sviluppando ricerca al pro-prio interno che talvolta in collegamento a istituzioni pubbliche e private diricerca. Continuità e discontinuità, insomma, si mescolano in soggetti chesembrano da un lato presentare oggettivi sintomi di cambiamento rispetto alpanorama tradizionale del capitalismo italiano, ma allo stesso tempo mostra-no forti omogeneità, non sempre positive, con caratteri morfologici cristalliz-zati nel tempo.

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Incontestabile è ad ogni buon conto il fatto che l’Italia va affrontando lasfida della modernizzazione e della globalizzazione guidata da una classe diri-gente siffatta, vitale e aggressiva ma non esente da debolezze e contraddizio-ni. Ne riesce ancora una volta confermata la ben nota vitalità del capitalismoitaliano. Ne risulta, però, anche ribadita una oramai ben precisa collocazionedel paese nell’ambito della divisione internazionale del lavoro, a cui pare almomento difficile intravedere realistiche alternative.

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