6. Capitalismo Personale

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Il capitalism o personale Sergio Remi Trentino Sviluppo Master sviluppo territoriale, Rovereto 2009

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Il capitalismo personale

Sergio Remi

Trentino Sviluppo

Master sviluppo territoriale, Rovereto 2009

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Il termine “capitalismo personale” (1) è un ossimoro, ossia una proposizione che mette insieme due termini contraddittori. Due termini (Capitale e Persona) che in passato si cercava di dividere, assegnando ciascuno a uno spazio differente.

Tutto quello che riguardava il capitale era assegnato allo spazio proprio dell’azienda, con la sua organizzazione gerarchica, le sue regole formali, e con il denaro come misura del valore. La natura impersonale del capitale era sinonimo di modernità.

La persona era invece assegnata allo spazio proprio della vita privata, ricca di connotazioni emotive e semantiche, ma nettamente distinta dal lavoro e dalla produzione.

Descrivere il sistema economico reale col temine “capitalismo personale” vuol dire riconoscere che questa separazione, in Italia e in moltissime imprese (di piccola dimensione, ma non solo) finora non è stata fatta. E che non deve essere fatta.

Becattini sostiene che le imprese in Italia sono “storie di vita” dell’imprenditore, della sua famiglia, delle sue relazioni sociali, e come tali vanno analizzate.

Il capitalismo personale è un capitalismo animato dalle persone, che impegnano in azienda, sul lavoro, la propria intelligenza, la propria passione, la propria disponibilità, per investire su se stesse, assumendo i rischi corrispondenti.

(1) A. Bonomi E. Rullani “ Il capitalismo personale: vite al lavoro” Einaudi 2005

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L’imprenditorialità come valore sociale

• In Italia la piccola dimensione di impresa non identifica una categoria particolare, ma una condizione tipica del produrre, del lavorare, del vivere. Una condizione, cioè, che riguarda la maggior parte delle persone che sono, a vario titolo, coinvolte in attività produttive.

• In Italia fanno impresa più di sei milioni di persone. La maggior parte di queste imprese, piccole o grandi che siano, hanno dietro una famiglia. Se ne deduce che circa venti milioni di persone vivono del “fare impresa”.

• Il tasso di natalità delle imprese è un record italiano, decine di migliaia ogni anno, i dati sulla diffusione a livello nazionale contano un’impresa ogni dieci abitanti.

• Questi dati ci dicono che le imprese sono un grande laboratorio di integrazione, appartenenza e mobilità sociale. A tale proposito basterebbe citare i crescenti numeri di imprese dirette da donne o avviate da immigrati extracomunitari.

• Il “fare impresa” è un bacino di importanti virtù civiche che non creano solo ricchezza, ma anche valori socialmente condivisi.

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Le trasformazioni del lavoro a cui ci troviamo di fronte sono caratterizzate da due processi: andiamo verso a forme di lavoro cognitivo, ossia lavoro speso nella produzione di qualche forma di conoscenza, o comunque servizio di tipo immateriale. andiamo verso forme di lavoro condotto in forma imprenditoriale.

Questa transizione dal lavoro dipendente a quello indipendente, a differenza di altri paesi, nello sviluppo socio economico italiano non rappresenta una discontinuità. E’, invece, il risultato di un percorso di lungo periodo: l’evoluzione del capitalismo molecolare, dei distretti, delle reti di subfornitura, del decentramento della produzione fuori dalle mura delle fabbriche.

La figura dell’artigiano e del piccolo imprenditore dei distretti che mescola casa e lavoro, vita privata e vita lavorativa, famiglia e impresa, è sembrata finora - nel fordismo – una sorta di residuo preindustriale, sinonimo di pre-modernità e spesso di autosfuttamento.

Non è più così nel post fordismo dove, la figura dell’artigiano, imprenditore di se stesso che mette al lavoro: le proprie competenze, la capacità di assumere il rischio, le proprie reti di relazione, in primis quelle familiari, rappresenta, per certi versi, l’archetipo delle nuove forme del lavoro.

Dal capitalismo molecolare al capitalismo personale

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Nel contesto produttivo italiano caratterizzato dai distretti e dai sistemi di piccola impresa:

• l’elevato turn over dei lavoratori e la propensione di molti di questi a “mettersi in proprio” è sempre stata la regola

• così come è stata una regola la capacita di lavorare in rete (distretti, filiere, catene di subfornitua) e la dipendenza dal lavoro di altri (fornitori, distributori, centri di servizio)

L’esistenza di un’area di crescita di lavoro autonomo e indipendente - comunque di lavoro condotto in forma individuale - sembra oggi condurre il capitalismo molecolare alle sue conseguenze di individualizzazione e di reticolarità:

• di individualizzazione, perché alla produzione di valore economico partecipano ormai in misura assolutamente rilevante le competenze di singoli lavoratori che forniscono le proprie prestazioni nelle diverse forme in cui si articola il lavoro indipendente;

• di reticolarità, perché il lavoro individuale non nega, anzi al contrario richiede la crescita delle connessioni tra segmenti del ciclo produttivo, tra diverse funzioni, tra singole competenze. In sintesi potremo dire che nel postfordismo si lavora principalmente comunicando

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Il concetto di lavoro dipendente e di mercato del lavoro nel caso italiano, deve essere fortemente relativizzato:

• nei distretti e nei sistemi di piccola impresa il lavoro si presenta strutturalmente come lavoro auto-organizzato

• l’impresa lavora metterendo in rete i lavori che non dipendono – più di tanto – dal suo potere direttivo, anche perchè i lavoratori possono passare ad altre imprese, o mettersi in proprio.

Il capitalismo italiano di piccola impresa è tradizionalmente attrezzato per:

• distribuire gli investimenti e il rischio tra una pluralità di soggetti, che vengono ad assumere ruoli imprenditoriali o che, comunque, investono sulle proprie idee e capacità;

• mobilitare le intelligenze personali, ossia le energie e capacità intellettive delle persone, che sono l’unica risorsa in grado di governare la complessità in ascesa;

• creare legami di condivisione e fiducia, consentendo alle persone e imprese che lavorano in rete di specializzarsi in un campo ristretto di competenze e attività, potendo contare su un retroterra molto più vasto offerto da altri specialisti collegati.

Potremmo dire che il capitalismo di piccola impresa anticipa, per così dire, questo uso postfordista della conoscenza che avviene a rischio, in condizioni di complessità crescente e lavorando a rete. La piccola impresa e il suo modo di lavorare, dunque, non appartengono al passato, ma al futuro.

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Chi sono i capitalisti personali ?

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Capitalista personale è la persona che, per utilizzare al meglio le proprie capacità, si dota di un’organizzazione, impara ad utilizzare linguaggi formali, si attrezza per operare sul mercato utilizzando reti lunghe di relazione e comunicazione:

• usa con creatività e iniziativa personale la conoscenza posseduta;

• fonde insieme conoscenza, pratica e comunicazione;• è consapevole della propria identità e dei propri

obiettivi strategici;• valuta le situazioni interpretandole in base al suo

“piano di vita” di lungo periodo;• usa una rete di legami e di relazioni fiduciarie per

muoversi nell’incertezza.

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Capitalismo personale significa che ormai le logiche del fare impresa istruiscono i comportamenti degli individui. Oggi siamo tutti sotto sforzo:

• per aggiornare le nostre competenze, non basta più conoscere un mestiere. Come le imprese dobbiamo produrre innovazione, aggiornarci, trovare nuovi business;

• per ampliare le nostre reti di relazioni, nuovi clienti, nuovi fornitori, collaboratori, reti all’interno delle quali poter lavorare;

• è saltata la separazione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Quando uno fa il lavoratore autonomo non stacca alla 6 di sera, spesso non stacca neanche il sabato e la domenica.

• appena possiamo, facciamo tutti microfinanza, investiamo i nostri risparmi per garantirci quella pensione e quelle tutele che ormai il welfare pubblico non è più in grado di garantirci.

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La focalizzazione sull’individuo - sulle sue competenze, responsabilità, autostima, diritti, reti di relazione, capacità di assumere il rischio – interessa oggi una gamma sempre più estesa di condizioni lavorative. Sono sempre più “i lavori” che si devono confrontare con livelli crescenti di rischio, di autonomia, di conoscenza e di reticolarità. Si tratta di un articolato mondo in cui possiamo riconoscere vecchie e nuove collocazioni professionali ed in cui possiamo comprendere:

• i lavori imprenditoriali tradizionali che riguardano il piccolo imprenditore, l’artigiano, il commerciante, l’agricoltore, tutte le volte che queste figure contribuiscono direttamente, col proprio lavoro all’attività di impresa;

• i lavori professionali del cosiddetto “terziario avanzato” che elaborano e forniscono risorse immateriali (conoscenze e relazioni) alle imprese e ai consumatori che ne hanno bisogno;

• i lavori atipici che rientrano nel campo del lavoro dipendente (part time, interinale, ecc.) o dell’avviamento al lavoro (formazione/lavoro, borse di lavoro, stage);

• i lavori autonomi di seconda generazione che sono svolti utilizzando la partita IVA ma al di fuori di albi e ordini professionali, oppure attraverso rapporti di lavoro coordinato continuativo, o con rapporti di lavoro occasionale;

• i knowledge workers (managers, professionisti, tecnici, quadri, specialisti), ossia tutti quei lavoratori, magari anche inquadrati in un rapporto di lavoro dipendente, che svolgono mansioni di responsabilità con un certo grado di autonomia, che investono sulla propria professionalità, che hanno retribuzioni dipendenti dal risultato, che costruiscono nel tempo un proprio percorso di promozione professionale;

• gli operatori del “terzo settore” che operano in compiti richiedenti un forte coinvolgimento etico ed emotivo;

• fino ad arrivare ai lavoratori immigrati che cercano meccanismi di integrazione attraverso forme di lavoro autonomo.

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A prescindere dall'inquadramento professionale il blocco sociale a cui fare riferimento comprende tutti coloro che si propongono di essere, per così dire, "imprenditori di se stessi".

Il dato importante è riferito alla crescita del numero di soggetti che si mettono al lavoro in forma autoimprenditoriale, investendo su due risorse peculiari:

• il proprio capitale umano, che è costituito dalle proprie competenze, abilità, dalla conoscenza di un mestiere, dalla capacità di assumersi il rischio di un attività autonoma

• ed il proprio capitale sociale, che è fatto dalle relazioni che ciascuno è in grado di mobilitare per fini produttivi.

I capitalisti personali sono una classe di soggetti per i quali il possesso di “qualità personali” come le abilità e le competenze professionali, la creatività e lo spirito di iniziativa, l’autostima e la consapevolezza di sé, la capacità di assumersi dei rischi, il possesso di reti di relazioni conta in misura maggiore che la disponibilità di capitale finanziario e di potere politico che erano le risorse tipiche della vecchia borghesia industriale.

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I LAVORATORI ATIPICI

Qualcuno obietta che non è corretto considerare come “imprenditore di se stessi” i lavoratori atipici che, sostanzialmente, aspirano ad un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato.

Purtroppo, i dati elaborati a livello nazionale[1] evidenziano come soltanto il 10% dei lavoratori dipendenti a termine riesce a trasformare il proprio contratto in un posto a tempo indeterminato. La stessa probabilità scende al 5% nel caso dei lavoratori a progetto.

Inoltre, questo mercato e questi tipi di contratto corrispondono a circa il 50% delle nuove assunzioni per i lavoratori più giovani.

In altre parole, il lavoro atipico rappresenta una porta di entrata per i lavoratori più giovani. Da qui, tuttavia, è molto difficile uscire. Più che una porta di entrata, il lavoro atipico diventa un vero e proprio mercato del lavoro parallelo o “ duale”, come viene spesso definito dagli economisti.

Oggi i giovani si caratterizzano già, nei fatti, come lavoratori autonomi nella misura in cui sono al “lavoro” per ampliare le proprie reti di competenze, di relazioni e di opportunità occupazionali all’interno di un ciclo di precariato continuato.

I lavoratori atipici sono i primi a dover sviluppare una cultura dell’auto-imprenditorialità che gli consenta di muoversi in un mercato del lavoro caratterizzato da un’elevata mobilità e incertezza e dall’alternarsi di periodi di occupazione e disoccupazione.

[1] Dati elaborati dall’INPS e disponibili presso il Laboratorio Revelli del Collegio Carlo Albero e la Fondazione Rodolfo De Benedetti, riportati in: T. Boeri e P Garibaldi “ Un nuovo contratto per tutti” ed. Chiarelettere 2008.

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Il Popolo delle partite IVA

• La definizione “Popolo delle partite IVA” è nata intorno agli anni ’70 per indicare una tipologia di lavoratori autonomi che già allora appariva in forte crescita a seguito delle esigenze di flessibilizzazione delle aziende, ma che non erano identificabili dall’appartenenza ad un Albo Professionale, ne dall’iscrizione al Registro delle imprese (come ad esempio artigiani e commercianti) ma solo dal possesso della partita IVA.

• In particolare, è venuto alla ribalta nel 1996, dopo l’introduzione del regime separato INPS per i lavoratori che non erano coperti da previdenza, ovvero per coloro che non erano ne dipendenti, ne autonomi con una cassa previdenziale

• In teoria, il popolo delle partite IVA non dovrebbe quindi includere tutti coloro che hanno la partita IVA, ma tutti coloro che hanno SOLO una partita IVA.

• E’ cioè una definizione in negativo, una tipologia residuale, individuata per differenza, come spesso succede per le categorie più nuove, non ancora inquadrate nei sistemi statistici e di classificazione

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A fine marzo 2009 risultavano aperte in Italia 8,8 milioni di partite Iva. Poco meno dell’intera popolazione della Lombardia, anziani e bambini inclusi.

Un esercito che non si è fatto mettere in fuga nemmeno dalla Grande Crisi.

Le ultime stime provenienti dall’Agenzia delle Entrate ci dicono infatti che nei soli primi quattro mesi del 2009 c’è stato un ulteriore saldo positivo, le aperture hanno nettamente superato le cessazioni d’attività: più 177 mila.

Il ministro Giulio Tremonti parlandone nei giorni scorsi a Milano l’ha catalogato come un indice di vitalità, un altro segno della capacità di reazione dimostrata dal sistema Italia.

Una curiosità:

La Rai è tra i principali datori di lavoro delle partite Iva. Ogni anno regola pagamenti a 380 mila partite IVA, si va dall’impresa terzista che fornisce telecamere o arredi alla tv di Stato fino ai coreografi e persino alle comparse che se vogliono apparire in una fiction devono tenere il loro registro.

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Individualizzazione del lavoro

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Individualizzazione del lavoro significa che il rapporto di lavoro normale (normato, salariato, garantito “a vita”) viene meno sia per quanto riguarda la biografia lavorativa dell’individuo, sia per quanto riguarda il punto di vista aziendale.

L’individualizzazione del lavoro può anche assumere diverse forme “tecniche” come ad esempio “l’outsourcing o esternalizzazione”, la possibilità per le aziende di stabilire dei rapporti di lavoro senza vincoli, quindi informali, il “franchising” che riguarda la possibilità per un affiliato, che non è né un imprenditore né un dipendente, di acquistare denominazioni di aziende, marchi o tipologie merceologiche.

Un elemento importante che ha condotto all’individualizzazione del lavoro è sicuramente da ricercare nelle nuove possibilità offerte dallo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche che permettono il contemporaneo decentramento delle funzioni lavorative e il loro coordinamento in tempo reale all’interno di reti interattive che possono coprire tutto il mondo.

All’interno di questo “scenario individualizzato”, si colloca la nascita del termine “Muddling Trough” che descrive una nuova società di lavoratori autonomi, aziende costituite da un unico uomo o da un’ unica donna che hanno poco in comune con l’idea tradizionale d’impresa.

L’obiettivo imprenditoriale non è tanto la conquista del mercato, ma lo sviluppo di una propria biografia, ma una cosa accomuna queste singole esistenze: tutte si collocano al di fuori di qualsiasi ipotesi di rapporto di lavoro regolato da contratti collettivi, trattative sindacali e relative forme strutturate di previdenza.

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Negli Stati Uniti le microaziende senza dipendenti sono più di venti milioni secondo l’analisi della Small Business Administration (Agenzia Federale per le piccole imprese), condotta in collaborazione col quotidiano Usa Today.

L’America ha grandi gruppi che spendono miliardi di dollari per la ricerca, al cui fianco sono cresciute mille attività autonome; professionisti, artigiani e commercianti, la cui vetrina ora è un personal computer.

Gente che ha imparato a vendere prodotti di qualsiasi tipo ondine e consegnare in seguito la merce utilizzando spedizionieri.

Una moltitudine di microimprese che riescono a concepire, produrre e consegnare un prodotto senza dipendenti: il trionfo dell’outsourcing.

Il fenomeno è stato chiamato “modello Hollywood” perchè l’organizzazione del lavoro ricalca quella di produzione cinematografica. Chi produce un film mette assieme una squadra di attori, sceneggiatori, tecnici indipendenti che si scioglie quando la pellicola è pronta per le sale cinematografiche.

Corriere della Sera 14/12/2006

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La persona diventa impresa

• il lavoro sta diventando sempre di più connotato da elementi di professionalismo e di autonomia e di responsabilità verso i destinatari dei beni/servizi, anche se svolto sotto forme di impiego dipendente;

• i nuovi lavori che nascono sono strutturalmente sempre più autonomi e concentrati nel settore terziario, ad alta densità tecnologica e relazionale;

• questo processo oggettivo sta inducendo anche una nuova antropologia del lavoro che consiste nello sviluppare un orientamento a vivere la propria posizione lavorativa secondo modi e logiche del tutto individualizzate;

• le persone sono sempre più spesso centro di imputazione di più impegni lavorativi, a valere comunque delle stesse competenze e degli stessi patrimoni professionali.

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Già nel 2001 una ricerca del Censis sul fenomeno dell’individualizzazione del lavoro evidenziava come in Italia quasi 13 milioni di lavoratori svolgessero una attività autonoma (pari alla metà della popolazione attiva).

Di questi • il 57,6% svolge un lavoro effettivamente autonomo• Il 42,4% lavora con forme di subordinazione più o meno marcate

I dati del Censis evidenziavano:• i liberi professionisti - comprese le professioni non regolamentate, quelle cioè prive di albi e

ordini professionali - con oltre 4 milioni e 200 mila lavoratori, rappresentavano il 30,2% del lavoro individuale;

• i commercianti, artigiani ed affini con oltre 3 milioni e 200 mila occupati, erano pari ad un quarto del totale.

• i cosiddetti co.co.co. e parasubordinati, con o senza partita iva: nel 2001 avevano raggiunto quota 1.890.000, pari al 16,2% del lavoro individuale.

• gli imprenditori rappresentavano il 4,2%.• i lavoratori sommersi autonomi il 7,8%• i coadiuvanti, il 6,9% • la ricerca comprendeva anche quei lavoratori, formalmente dipendenti, che svolgono attività

che comportano autonomia di azione e responsabilità: parliamo di dirigenti (2,6%), lavoratori interinali (4,8%) e lavoratori in conto terzi (0,2%). 

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Le imprese senza lavoratori dipendenti

Vista la struttura del sistema produttivo italiano, caratterizzato dalla presenza preponderante di microimprese, un segmento di particolare importanza da analizzare è quello delle imprese senza lavoratori dipendenti, il cui input di lavoro è costituito esclusivamente da lavoratori indipendenti.

Le imprese senza lavoratori dipendenti in Italia ammontano a circa 2 mln e 923 mila

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Le imprese senza dipendenti in Italia sono presenti in tutti i settori e mediamente costituiscono più di tre quarti del numero totale di imprese, esattamente il 76,2%.

L’incidenza minore è riscontrata in tutto il settore industriale, ove rappresentano non più del 50% del totale, con una probabile prevalenza di attività artigianali produttive (49,8% nell’industria tessile, 32,8% nell’editoria e stampa, 33% nell’industria chimica, 42,3% nella fabbricazione dei mezzi di trasporto,ecc.);

Il peso maggiore è all’interno di due categorie composite, ossia nella “agricoltura, pesca, istruzione, sanità e servizi sociali”, un misto di primario e terziario, ove le imprese senza dipendenti rappresentano ben l’81,8%, e nei “servizi”, con esclusione (abbastanza logica e prevedibile) delle “attività d’intermediazione finanziaria e delle assicurazioni”;

All’interno dei “servizi” il peso maggiore si registra in cinque comparti: • nel commercio all’ingrosso e intermediari del commercio, ove le imprese

senza dipendenti rappresentano l’82,4% del totale, • nel commercio al dettaglio, ove rappresentano l’84,2%, • nei servizi immobiliari, di noleggio e di ricerca, ove rappresentano il 92,3%, • nei servizi alle imprese, ove rappresentano l’85,4% e • nelle attività ricreative, culturali e sportive, ove rappresentano l’83,9%.

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Andamento delle imprese attive nel settore “attività ricreative, culturali e sportive” secondo la forma societaria in Italia (valori assoluti, giugno 2004)

Elaborazione AASTER su dati MOVIMPRESE

4000

6000

8000

10000

12000

14000

16000

18000

20000

22000

24000

1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004

imprese indiv iduali società di persone società di capitale altre forme

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La fluidità del mercato del lavoro

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• Il principale dato di cui oggi bisogna prendere coscienza è che la posizione lavorativa delle persone si è fatta più fluida: caratterizzata da frequenti cambiamenti di contesti lavorativi e aziendali, dal passaggio da forme di lavoro dipendente a forme di lavoro autonomo, e viceversa.

• Non è più come una volta, quando da giovani si imparava un mestiere che rimaneva, più o meno, lo stesso per tutta la vita e spesso veniva svolto in un unico contesto lavorativo.

• Oggi il mantenimento - o il miglioramento - della propria collocazione professionale richiede un costante aggiornamento - e a volte una radicale riconversione - delle proprie competenze per stare al passo con l’evoluzione del mercato, l’innovazione tecnologica, l’ingresso sul mercato di nuovi competitori.

• Il lavoro oggi si è fatto non solo flessibile, ma anche più fluido. Se il concetto di flessibilità rimanda alla capacità di adeguarsi ai mutamenti della domanda e dell’organizzazione produttiva (decisa da altri), il concetto di fluidità rimanda alla capacità di essere nomadi e multi-attivi, assumendo in prima persona la responsabilità ed il rischio delle proprie scelte professionali.

• Il concetto di fluidità fa riferimento a strutture, situazioni, mondi di vita, professionalità che sono mobili e devono esserlo per essere capaci di aggiustarsi alle congiunture più diverse, al mutare continuo della situazione.

• Questa fluidità, dunque, non è solo riferita a prevenire il rischio di disoccupazione, è anche capacità di esplorare il nuovo, le opportunità che si aprono, dal punto di vista delle nuove tecnologie, delle nuove professioni, dei nuovi settori produttivi e di business.

• Il lavoro si imprenditorializza, nel senso che il lavoro - come l’impresa - deve oggi rapportarsi a mercati e contesti competitivi sempre più articolati e complessi, in cui bisogna prevenire minacce e cogliere opportunità.

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La dotazione di capitale umano e capitale sociale come discriminante

L’investimento a rischio sulle proprie capacità professionali è oggi una pratica necessaria per accedere al mercato del lavoro e di conseguenza sempre diffusa a tutti i livelli e in tutti i ruoli dell’organizzazione sociale.

Ad imprenditorializzarsi non sono solo i lavoratori con alti skills professionali, ma anche lavoratori a basso profilo professionale o che, tradizionalmente trovavano collocazione nelle funzioni esecutive del lavoro dipendente.

Cio’ che veramente conta nel processo di imprenditorializzazione del lavoro non è tanto (o solo) la disponibilità di capitale finanziario, molto più importante è la disponibilità di capitale umano (competenze) e capitale sociale (relazioni).

Se si analizza il fenomeno del lavoro autonomo attraverso le categorie del capitale umano e del capitale sociale si evidenziano, in prima approssimazione, tre tipologie di individualità al lavoro.

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Le individualità al lavoro

L’individualità radicale: riguarda le posizioni di lavoro ad alta qualificazione che attivano “reti lunghe” in termini di relazioni, e attraverso queste sviluppano capacità di competere. Qui troviamo molti giovani “lavoratori della conoscenza” che operano nel campo dei nuovi servizi terziari, giovani che si imprenditorializzano sulla base di un’idea originale o sull’individuazione di un segmento di mercato non ancora coperto, ma troviamo anche l’impresa artigiana che ha saputo inserirsi in nicchie di elevata specializzazione e in circuiti commerciali e produttivi di livello internazionale.

L’individualità tradizionale, rappresentata soprattutto da quanti, artigiani, commercianti, agricoltori, dispongono di “reti lente”, cioè attagliate su attività e rapporti di tipo consuetudinario. Qui troviamo forme di lavoro autonomo “schiacciate” sulla dimensione produttiva, spesso impossibilitate ad investire in termini di competenze e di nuove reti di relazioni (al di la dei servizi offerti dalle rispettive associazioni di categoria) e che, altrettanto spesso, vedono ridursi i tradizionali spazi di competizione;

L’individualità precaria, cioè soggetti che si imprenditorializzano (spesso più per condizione che per scelta) in contesti di elevata precarietà di lavoro e con posizioni di mercato caratterizzate da “reti corte” di territorio, di famiglia, di parentela, di vicinato. Qui troviamo le forme di lavoro autonomo a basso profilo professionale che operano nei servizi a scarso valore aggiunto, nelle reti solidaristiche della cooperazione sociale, nell’outsourcing dell’ente pubblico, nei lavori stagionali in agricoltura e nel turismo, nelle funzioni di manovalanza del ciclo dell’edilizia. Ma qui troviamo anche i tanti giovani scolarizzati che cominciano a lavorare con contratti a termine o aprendo la Partita Iva pur operando in contesti di sostanziale monocommittenza.

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La linea di demarcazione che separa il “vecchio” lavoro dal “nuovo” lavoro è tracciata dalle dimensioni del rischio, dell’autonomia e della conoscenza.

• Il rischio chiama in causa l’incertezza riguardo alle conseguenze delle proprie azioni in un ambiente ad alta turbolenza.

• La conoscenza riguarda i saperi che sono richiesti per lo svolgimento dell’attività lavorativa.

• L’autonomia descrive la condizione di “potere” circa i modi, i tempi, la qualità della propria prestazione professionale.

Al contempo, proprio il peso sempre maggiore che rivestono i contenuti comunicazionali del lavoro pongono un limite a questa tendenza individualizzante: non si può essere da soli a fornire “quel” servizio, o meglio, il servizio, anche il più individualizzato, può essere fornito solo a condizione di avvalersi di relazioni, contatti, “reti” che non fanno parte direttamente del “ciclo di produzione”, ma che, nondimeno, forniscono gli input necessari a confezionare il prodotto

RISCHIO, AUTONOMIA, CONOSCENZA E RETI

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LA DIMENSIONE DEL RISCHIO

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La dimensione del rischio è un elemento imprescindibile dal fare impresa in cui le variabili in gioco, all’interno e all’esterno dell’azienda, sono in parte imprevedibili.

Il concetto del rischio, non è solo connesso agli investimenti di impresa, ma che è anche un aspetto immanente nella vita professionale degli individui che svolgono il proprio lavoro in forma indipendente.

La dimensione del rischio è anche correlata alla mancanza di garanzie sociali, di tutele, di forme previdenziali adeguate che va affrontata con il ricorso ad assicurazioni, fondi di investimento, fondi pensione personali, che costituiscono costi vivi dell’attività di impresa.

Ma prima ancora che nelle forme di autotutela finanziaria, il rischio va affrontato incrementando il proprio patrimonio di competenze e di relazioni sociali. Il successo di un’attività autonoma dipende sempre più dalla capacità di incrementare le proprie competenze e dalla capacità di entrare in rete, in relazione, in collaborazione, con altri soggetti.

E’ fondamentale essere attenti al cambiamento e flessibili, essere consapevoli di operare in un contesto legislativo complesso e in un contesto fiscale e previdenziale non favorevole, anche in termini burocratici, alle forme di lavoro autonomo.

E’, inoltre, importante essere capaci di reggere l’incertezza e lo stress che deriva dalla condizione di solitudine in cui molto spesso ci si trova ad operare.

“Se un tempo si studiavano gli effetti del lavoro ripetitivo, monotono e routinario ovvero il disadattamento, la demotivazione, l’insoddisfazione dei lavoratori, oggi si studiano gli effetti dell’incertezza, della variabilità, della flessibilità spinta e cioè l’ansia e lo stress” [Accornero, 2001].

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LA DIMENSIONE DELL’AUTONOMIA

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Lo status di lavoratore autonomo implica lo sviluppo di una dimensione di autonomia; la consapevolezza - in gran parte psicologica e legata all’identità dell’individuo- del mutato ruolo produttivo e della necessità di attivarsi per la ricerca di commesse e per il mantenimento e lo sviluppo delle proprie professionalità.

Il tema dell’autonomia assume particolare rilevanza all’interno degli attuali modelli di riorganizzazione del

mercato del lavoro, dove le forme di lavoro autonomo spesso nascondono rapporti di subordinazione e monocommittenza.

Essere imprenditori di se stessi significa non avere un “datore di lavoro”, ma dei “clienti”, non venire pagati per il tempo della prestazione, ma per i risultati che si producono in relazione a obiettivi prefissati, non avere un potere di rivalsa contrattuale, ma un potere negoziale.

Lavorare e continuare a cercare - mentre si lavora - più committenti dà la possibilità di avere più alternative e quindi di scegliere quale lavoro conviene fare.

Autonomia significa anche la capacità di intervenire sulla dimensione progettuale e non solo su quella produttiva.

Altrettanto importante è considerare il contributo che il lavoro può dare in termini di apprendimento, di apertura di nuovi mercati, di conquista di un nuovo cliente o di fidelizzazione di un cliente già acquisito.

Quando si accetta la condizione di autonomo, ci si abitua ad organizzare la propria attività professionale senza lasciare al caso o ad altri il compito di farlo.

E’ strategico considerare la propria attività come il momento presente di un progetto professionale in via di sviluppo e investire sulle competenze e sulle relazioni, evitando di farsi guidare dagli eventi o da commesse occasionali che arrivano senza essere scelte in base a precisi criteri.

Oltre ad essere bravi nel proprio lavoro è necessario essere in grado di dare il giusto valore alla propria attività.

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La dimensione della conoscenza

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La dimensione della conoscenza rappresenta una determinante fondamentale delle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro. Sempre di più andiamo verso forme di lavoro cognitivo, ossia lavoro speso nella produzione di qualche forma di conoscenza.

L’aggiornamento delle proprie competenze è il prerequisito che permette di rinnovare le forme di creatività e propositività da immettere nel proprio lavoro.

L’investimento in conoscenza rappresenta una condizione essenziale per far fronte a

modelli di produzione sempre più flessibili e smaterializzati. L’inserimento al lavoro e la competitività sui mercati richiede oggi professionalità e bagagli di esperienza che possono formarsi solo con un costo di apprendimento non marginale. La possibilità di essere competitivi sul mercato è dettata dalla capacità che i singoli soggetti (persone e imprese) hanno di percepire le trasformazioni e di rispondere in modo dinamico a problemi nuovi con soluzioni nuove.

L’assenza di una rete vasta di acquisizione di competenze costringe il capitalista personale entro i confini del mercato locale, spesso circoscritto ai clienti conosciuti in modo diretto e a modalità di apprendimento di tipo consuetudinario e poco formalizzato.

La dimensione della conoscenza è la risorsa strategica per acquisire una posizione di forza di fronte a un committente che richiede competenze specialistiche, per migliorare le proprie condizioni lavorative, per ridurre la dimensione del rischio e aumentare gli spazi di autonomia.

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LA DIMENSIONE DELLE RETI

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• Le dimensioni del rischio, della conoscenza e dell’autonomia possono trovare un importante elemento di compensazione e di crescita nella dimensione delle reti di relazione che consentono di trovare nuovi clienti e di aggiornare le proprie competenze.

• La possibilità di entrare in relazione con persone che si occupano dell’attività o del settore in cui si opera è un elemento significativo dal punto di vista delle conoscenze degli scenari: consente il passaggio di informazioni, dati ed elementi conoscitivi che costituiscono una forma di aggiornamento rispetto a prodotti, processi, alleanze e concorrenza.

• Nella emergente società della conoscenza, la forza produttiva primaria è, infatti, l’intelligenza delle persone: la loro capacità di innovare creativamente, di imparare dagli altri, di gestire relazioni complesse, di produrre reputazione e convincimenti, di generare fiducia e di scambiare quanto si sa e quanto si sa fare con altri.

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L’INDIVIDUO IN RETE (O L’IMPRESA IN RETE) E’ UN SOGGETTO AUTO-ORGANIZZATORE, ossia:

• capace di interpretare e regolare il contesto delle relazioni con altre persone e con l’ambiente

• capace di rigenerare il collante che mantiene stabili e affidabili le relazioni

• capace di gestire i flussi di conoscenza che connettono i nodi della rete (perchè ha capacità di comunicazione, logistica e garanzia)

IL NUOVO CONSUMO, WELFARE, LAVORO E’ PRODUTTIVO PERCHE’ DE-COSTRUISCE E RI-

COSTRUISCE LE RETI A CUI APPARTIENE RENDENDOLE FLESSIBILI E ADATTE

ALL’INNOVAZIONE

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Tipologie di Reti

• Reti verticali di fornitura: insiemi di imprese che operano in filiera con rapporti di fornitura stabili nel tempo e un impresa capo filiera che governa la rete.

• Reti orizzontali di condivisione: imprese che operano nello stesso stadio della supply chain che si aggregano attorno a specifiche opportunità di mercato.

• Reti professionali: professionisti e knowledge workers che mettono assieme competenze complementari, scambiano conoscenze, promuovono attività e progetti comuni.

• Reti associative: nascono su iniziativa di associazioni imprenditoriali con l’obiettivo di creare e sviluppare servizi per i propri associati.

• Reti distrettuali estese: nascono dall’estensione delle reti distrettuali verso il mercato globale.

• Reti territoriali: promosse da enti territoriali che organizzano sistemi stabili di relazione per creare infrastrutture, organizzare servizi per lo sviluppo del territorio e la competitività delle imprese locali.

• Reti per l’innovazione: reti promosse da imprese, università, centri di ricerca direttamente finalizzate all’innovazione tecnologica

• Reti epistemiche e culturali: reti di imprese, professionisti, consumatori che si aggregano attorno a significati (es. Slow Food)

• Reti generatrici di eventi: reti che si aggregano attorno all’organizzazione/fruizione periodica di eventi (es. festival della letteratura, dell’economia, Webbit, ecc.)

Le tipologie di reti saranno oggetto di una prossima lezione

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I fattori generativi di lavoro autonomo

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La modernizzazione del sistema economico sia accompagnata da un processo di imprenditorializzazione del lavoro, conseguenza delle strategie attivate dalle imprese nella ricerca di sempre nuovi fattori di competitività.

Il ricorso sempre più frequente a forme di lavoro autonomo costituisce un tratto rivelatore della ricerca da parte delle imprese di maggiore flessibilità, di adattabilità ai rapidi mutamenti della domanda, di competitività non solo dal lato dei costi, ma anche da quello della qualità delle produzioni.

Le imprese cercano di ridurre le proprio rigidità allentando i vincoli di stabilità che le legano ai propri dipendenti, e ricorrono sempre più spesso a servizi acquistati in outsourcing (da altre imprese, spesso subfornitrici), in modo da trasformare i costi fissi in costi variabili, e da spostare l’investimento e il rischio della formazione delle competenze su altri (Enrietti 2001).

In prima approssimazione, possiamo dire che i meccanismi generativi di nuovo lavoro autonomo sono da ricondursi: • all’affermarsi di una nuova divisione sociale del lavoro correlata anche a una redistribuzione del rischio e dei carichi; • alla ristrutturazione del sistema produttivo e alle nuove interdipendenze che consentono le tecnologie della comunicazione, con il mutamento “morfologico" del mondo dei servizi; • a una ricerca di qualificazione che spesso si esaurisce nell’utilizzo di un servizio specialistico “a termine”, discontinuo o non replicabile;• al diverso contenuto del lavoro, aderente a modelli cognitivi più ricchi e sofisticati che in passato.

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In Italia il lavoro a tempo indeterminato ha un turnover medio del 25% che vuol dire che si può passare da una decina di imprese diverse nel corso della propria vita professionale.

Nello mondo del lavoro dipendente gli avanzamenti di carriera e la sicurezza della propria posizione lavorativa dipendono sempre meno da automatismi e meccanismi di garanzia, e sempre più dalle competenze dei singoli individui, dalla loro capacita di raggiungere obiettivi e sviluppare qualità, lavorando in contesti organizzativi complessi.

“…i collaboratori dell’impresa fanno parte del suo capitale, il loro comportamento, come le loro capacità sociali ed emotive svolgono un ruolo importante nella valutazione del loro grado di qualificazione. Le loro motivazioni, il loro know how, la loro flessibilità, la loro creatività e la preoccupazione di accontentare la clientela costituiscono la materia prima dei servizi innovativi. Il loro lavoro non si misura in ore ma in base ai risultati ottenuti e alla loro qualità. Essi sono degli imprenditori”.

Norbert Bendel, direttore delle risorse umane della Daimler Chrysler

“…se i gruppi di lavoro hanno una larga autonomia nel pianificare, organizzare e controllare il processo di produzione, i flussi materiali e le competenze, siamo di fronte a una grande azienda fatta di piccoli imprenditori autonomi”.

Peter Hesse. direttore della formazione della Volkswagen

Anche il lavoro dipendente si “imprenditorializza”

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Sarebbe comunque riduttivo ricondurre il processo alla semplice frammentazione del tessuto produttivo o alla pura esternalizzazione di fasi lavorative da parte delle imprese leader.

Si tratta di un processo ben più vasto che coinvolge anche il tessuto delle imprese artigiane, (sia in termini di domanda che di offerta di lavoro), il settore dei servizi e le stesse istituzioni pubbliche.

A cambiare sono i modi di organizzazione del lavoro, le relazioni tra i diversi segmenti del ciclo produttivo e di conseguenza, i profili professionali coinvolti, i rapporti contrattuali e le stesse modalità di accesso al lavoro.

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La grande trasformazione delle società capitalistiche su scala mondiale, avvenuta a partire dalla metà degli anni ’70, può essere raccontata in molti modi e sono disponibili numerosi schemi di sintesi, ognuno dei quali ritiene essenziale l’uno o l’altro dei numerosi mutamenti avvenuti.

Una delle tante versioni di quanto è avvenuto, ma orientata a comprendere la situazione italiana, può essere sintetizzata nei seguenti punti:

1. Dalle economie di scala alle economie di scopo2. Le nuove forme di organizzazione del lavoro3. La diffusione dell’ ICT che consente di lavorare in rete4. Dalla produzione ai servizi5. Economia della conoscenza6. Nuovo equilibrio capitale – lavoro7. I modelli di new public management

QUALI SONO I CAMBIAMENTI STRUTTURALI

DELLA DIVISIONE DEL LAVORO ?

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1. Dalle economie di scala alle economie di scopo

• Dalla mass production si passa allora alla learn production ovvero alla produzione snella, dalla economie di scala alle economie di scopo, rispondendo alle richieste di prodotti, sempre più personalizzati e di qualità, di un mercato oramai saturo.

• L’azienda perde “grasso”, diventa agile, leggera, duttile, alla ricerca di flessibilità dal punto di vista della produzione, della logistica e più in generale dell’organizzazione. Seguendo i principi del just in time, ovvero della produzione in base alle richieste provenienti dal mercato, è in grado di divenire più reattiva, di operare apprendendo dall’esterno, per rispondere alle sfide dei mercati e alla concorrenza.

• Si passa dalla produzione per il magazzino alla produzione su commessa, in base agli ordini dei clienti. La produzione è cioè “tirata dal basso” anziché dall’alto ovvero secondo stime stabilite e programmate a tavolino.

• Flessibilità e incertezza diventano le parole chiave della nuova sfida economica. Flessibilità operativa che viene ricercata snellendo gli organici all’interno delle grandi aziende, diminuendo il capitale fisso e riducendo le dimensioni strutturali. La grande impresa dimagrisce perdendo lavoratori che vengono recuperati dall’indotto formato da piccole e medie imprese, satelliti delle grandi. Questo fenomeno chiamato anche downsizing é alla base del nuovo “corso”

Sono cambiate le modalità della produzione che non può più basarsi solo su economie di scala ma deve coniugarle con economie di scopo ed una forte differenziazione di prodotti con una conseguente riduzione del volume di lotti produttivi.

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Smaterializzare delle produzioni

Le imprese devono attrezzarsi per produrre e vendere significati, invece che prodotti materiali. E’ arrivato il momento di produrre e vendere idee, mettendo i prodotti al loro traino.

Si tratta di investire in design, comunicazione, moda, controllo di qualità, rete di vendita, alleanze strategiche, servizi al cliente, significati, stili di vita, modelli estetici e, ovviamente, nell’organizzazione di un retroterra manifatturiero e di servizi capace di rispondere rapidamente o di anticipare la nuova domanda.

I prodotti possono essere dei moltiplicatori delle idee in essi contenuti ma solo se sono innovativi.• Le idee diventano business se si de-verticalizza, si esternalizzano i servizi innovativi e se si

fanno nascere nuove imprese che fabbricano idee e non prodotti• Le idee si vendono prima di tutto nella filiera (condivisione dell’innovazione, organizzazione

logistica e informatica, reti che specializzano dei ruoli)• Il problema chiave dell’industria intelligente è il capitale umano, la rete di relazioni, la

creatività di filiera (con gli specialisti e i servizi collegati)

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I servizi alle imprese sono un settore chiave peraccumulare capitale intellettuale e relazionale

• In Italia il capitale intellettuale e relazionale non può accumularsi in forma captive (proprietaria) presso le singole imprese che sono mediamente troppo piccole per farli crescere in modo vigoroso.

• Deve collocarsi in imprese specializzate di servizi, che operano sul mercato aperto, vendendo le loro prestazioni ad una pluralità di utilizzatori.

• L’industria intelligente ha bisogno di far crescere nel suo retroterra di filiera o di territorio un sistema di servizi che offrano conoscenze e relazioni in forma multi-client

• Sul territorio è fondamentale alimentare la crescita di comunità epistemiche transnazionali nel campo della scienza, della tecnologia, dell’estetica, del design, del management, del diritto ecc.

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Le imprese si attrezzano per utilizzare il “capitale sociale” in rete

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Crowd sourcing

• Il termine Crowdsourcing (crowd + outsourcing) è un neologismo che definisce un modello di business nel quale un’azienda o un’istituzione richiede lo sviluppo di un progetto, di un servizio o di un prodotto ad un insieme distribuito di persone non già organizzate in un team. Tale processo avviene attraverso degli strumenti webt.

• Inizialmente il crowdsourcing si basava sul lavoro di volontari ed appassionati che dedicavano il loro tempo libero a creare contenuti e risolvere problemi. La community open source è stata la prima a trovarne beneficio. (Linus, Wiki, ecc.)

• Oggi il crowdsourcing rappresenta per le aziende un nuovo modello di open enterprise, per i freelance la possibilità di offrire i propri servizi su un mercato globale. Il desiderio di evitare oneri finanziari e burocratici legati alla gestione di una forza lavoro, spinge molte imprese verso le nuove tecnologie della rete.

• Zero dipendenti, significa delegare le principali funzioni aziendali a professionisti rintracciati attraverso siti specializzati e sempre attraverso il web, raggiungere i potenziali acquirenti.

• Le grandi imprese beneficiano anch’esse dei contributi della rete nella forma definita crowdsourcing, o “intelligenza collettiva” disponibile su internet, che aiuta a sviluppare nuovi prodotti e risolvere problemi, ma pian piano che quest’intelligenza matura, il rapporto cambia fino a capovolgersi.

• Lo sanno bene i grandi gruppi, che con le loro tecnologie hanno dato origine ad una “polverizzazione democratica delle conoscenze”, ma ora subiscono l’attacco di queste fiorenti “microaziende di nuova cultura”, che utilizzando sistemi operativi gratuiti, sottraggono lembi di mercato ai giganti.

• Un’evoluzione questa, che affianca quella delle imprese individuali in forte crescita. Non è male quindi scegliere la filosofia del “working solo”, lavoro basato su iniziativa individuale, con un unico dipendente, se stesso e una clientela potenziale vasta come il mondo!

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2. Nuove forme di organizzazione del lavoro (Nfwo)

La flessibilità diviene elemento chiave delle nuove pratiche operative. Il vecchio modello taylorista-fordista di produzione, ed il suo corrispettivo nel lavoro burocratico sarebbe finito o ridotto a posizione marginale.

Questi cambiamenti spingerebbero verso l’adozione di Nuove forme di organizzazione del lavoro (nella letteratura internazionale con l’acronimo inglese Nfwo), cioè di un insieme di pratiche basate sul coordinamento interfunzionale delle attività e su una gestione delle risorse umane coerente con la domanda di maggiore flessibilità, competenze professionali maggiori ed un coinvolgimento di una rete di collaboratori nella realizzazione delle prestazioni dell’impresa.

La natura “turbolenta”, cioè imprevedibile e non pianificabile dei mercati e più in generale del contesto socio-economico delle attività lavorative, infatti, richiedono tali e tante variazioni improvvise che è necessaria un intrinseca flessibilità organizzativa che può scaturire solo dalla mobilitazione del potenziale creativo e flessibile del lavoro umano.

Tale potenziale può liberarsi solo se si premia l’imprenditività del singolo, cioè la sua autonomia e responsabilità. Su questa base si possono introdurre, poi, modalità nuove di co-operazione lavorativa.

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Il lavoro assume caratteristiche nettamente diverse

Enterprise 1.0 Enterprise 2.0

Lavoro dipendente Lavoro autonomo (imprese e collaboratori organizzati in rete)

Lavoro (relativamente) privo di rischio Lavoro a rischio (richiede investimenti e assunzione di rischio)

Lavoro esecutivo (privo di autonomia) Lavoro auto-organizzato

Lavoro ripetitivo (capace di eseguire solo prestazioni e procedure prestabilite)

Lavoro intelligente (competente nella gestione del proprio problema e del proprio rischio)

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Si è sviluppata, affermata e diffusa una nuova tecnologia orizzontale e la possibilità attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione di accedere ai benefici di agglomerazione, tipici di economie locali, su scala prima impensabile.

• Dalla crisi del fordismo e dallo sviluppo delle nuove tecnologie (web 2.0) nasce l’impresa-rete ossia un’impresa che realizza una estesa divisione del lavoro che scavalca i confini proprietari

• L’impresa-rete è aperta a monte (verso i fornitori di tecnologia, di componenti, di servizi e di lavorazioni), a valle (verso clienti, distributori) e adotta forme organizzative a rete al proprio interno

• La forma a rete non si caratterizza per la proprietà ma per le risorse connettive (COMUNICAZIONE, LOGISTICA, GARANZIA) su cui i partner della rete investono o che comunque condividono (sul territorio)

3. La diffusione ICT che consente di lavorare in rete

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I SERVIZI CONNETTIVI

Per allargare le reti sono sempre più utilizzati servizi che connettono a distanza produttori e utilizzatori di conoscenza:

• a) Comunicazione (linguaggi formali, ricerca diffusa, sistemi ICT)

• b) Logistica = strade ma non solo strade (trasporti globali, intermodalità, piccoli lotti, servizi metropolitani)

• c) Garanzia (accreditamento mediante comunità professionali, reciproco riconoscimento, o assunzione di rischi condivisi)

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Connettori artificiali

Quando la rete produttiva comincia ad essere una rete di processo estesa, magari a livello internazionale, c’è bisogno di sviluppare connettori artificiali che rendano efficace la comunicazione tra imprese, tra i diversi segmenti della produzione, e questo ha costretto le piccole imprese a sviluppare linguaggi, codici, competenze, che sono diventati parte preponderante della produzione.

Lo sviluppo di connettori artificiali investe diversi aspetti della produzione:• i sistemi di qualità che specificano le caratteristiche dei prodotti e dei processi e ne garantiscano

il rispetto;• i linguaggi scientifici, tecnici, manageriali condivisi, che riducono l’ambiguità della comunicazione;• gli standard e norme che rendono facile e affidabile lo scambio tra i diversi operatori di rete;• i laboratori di prova e misura, che rendono oggettive le caratteristiche tecniche dei prodotti e dei

processi;• i codici CAD e oggetti virtuali costruiti secondo metodologie condivise a livello internazionale;• i servizi e i canali logistici che spostano merci e persone da un punto all’altro della rete (spesso

sono le stesse imprese artigiane svolgono questa funzione di connessione, basta pensare ai trasportatori, alla logistica, ai corrieri)

• i sistemi di assicurazione, assistenza tecnica, garanzia e pagamento;• i media della comunicazione a distanza (internet, web 2.0, ecc);• i canali di accreditamento presso i clienti e gli altri operatori della rete (le catene di franchising, le

griffes, i marchi ecc.)

Questi sono tutti fattori produttivi che ormai sono entrati con forza nella quotidianità della produzione. E’ proprio sulla capacità di internalizzare o meno questi linguaggi che le piccole imprese operanti nei cicli della subfornitura hanno dovuto subire una feroce selezione attuata dai loro committenti.

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La PMI nella rete

Oggi l'impresa è innovativa e competitiva non in base alle sue dimensioni e alle sue capacità di investimento, ma in base all'estensione e articolazione delle sue reti: di mercato, di collaborazione, di supporto alle nuove funzioni.

Più le imprese sono piccole e più devono economizzare lo scarso capitale di cui dispongono, facendo leva sull’outsourcing, ossia sul capitale degli altri.

In tal senso le nostre piccole imprese hanno saputo inventarsi forme originali di innovazione dei loro cicli produttivi, che non passano per forti investimenti di capitali (che non potrebbero fare), ma per alleanze, collaborazioni, specializzazioni, focalizzazioni su nicchie produttive ad elevata sostenibilità.

Il gioco dell'innovazione si basa sullo scambio delle conoscenze. Dallo scambio di informazioni ed esperienze tra diverse unità produttive spesso si realizzano innovazioni pari - e probabilmente anche migliori - di quelle che nascono nei laboratori di ricerca.

Le politiche a sostegno delle imprese non devono solo, o necessariamente, intervenire sulla crescita dimensionale del nostro apparato produttivo, curandolo dall’endemica malattia del nanismo, ma incrementare il capitale relazionale che serve per produrre in un’epoca di globalizzazione ed il capitale intellettuale che è assolutamente necessario per passare dalla produzione materiale a quella immateriale.

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Differenti tecnologie

Enterprise 1.0 Enterprise 2.0

La grande fabbrica programmata dall’alto e strandardizzata

La rete formata da molti specialisti autonomi (imprese professionisti) che si coordinano tra loro

Il MAINFRAME che alimenta il centro EDP della grande impresa e della grande banca

Il personal computer in rete (internet) collegato ad un insieme potenzialmente infinito di altri

I MASS MEDIA che portano al consumo prodotti standard in grandi volumi

il TELEFONINO, il lavoro MOBILE, il consumo AUTO-ORGANIZZATORE

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La rete coinvolge i consumatoriI consumatori dimostrano una

crescente attenzione per gli elementi di natura immateriale del prodotto (Rullani, 2004).

Enterprise 1.0 Enterprise 2.0

Il consumatore è passivo, eterodiretto, fedele

Il consumatore è attivo, autonomo, curioso

Il consumatore è isolato decidendo individualmente

Il consumatore è in rete con altri consumatori

Il consumatore non possiede conoscenze rilevanti per il suo consumo

Il consumatore ha accesso a conoscenze rilevanti ( comunità virtuali,o di scopo)

Il consumatore ha una finta sovranità (viene previsto dalle indagini di marketing)

Il consumatore può essere creativo contribuendo a creare stili di vita che indirizzano la produzione

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Due frontiere di innovazione sono fondamentali per i modelli di business del futuro:

TECNOLOGIE DELLA COMPLESSITA’ che mettono al lavoro le

molte intelligenze umane e organizzative connesse nella rete (Web 2.0, co-progettazione a distanza, lavoro mobile, consumo intelligente, media di comunicazione interattivi, comunità virtuali)

COMUNITA’ EPISTEMICHE che, condividendo le stesse visioni del mondo e le stesse metodologie cognitive, possono esplorare insieme il mondo del possibile e dargli valore (culture imprenditoriali, linguaggi formali, creazioni artistiche ed estetiche, stili di vita e di consumo, comunità professionali)

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4. Dalla produzione ai servizi

Si è determinato un massiccio spostamento dell’occupazione dalla produzione ai servizi; Si riprodurrebbe quindi lo stesso schema che ha presieduto alla trasformazione da società agricole a società industriali.

In Italia, la nuova occupazione da metà anni '90 è quasi tutta concentrata nell'area del lavoro non manuale e per lo più ad alta qualificazione.

Crescono soprattutto:

• dirigenti e professionisti nei servizi alle imprese, nella distribuzione commerciale e nei servizi personali;

• le nuove professioni legate allo sviluppo dei mercati finanziari, dell'informatica, della gestione delle risorse umane;

• le professioni tecniche con un livello medioalto di qualificazione;• le occupazioni amministrative e connesse alla vendita.

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Secondo la classificazione Isco (International Standard Classification of Occupation)

Non manuali qualificate: Dirigenti e imprenditori, professioni intellettuali, professioni tecniche

Non manuali non qualidicate: Impiegati esecutivi, Addetti vendite e addetti ai servizi personali

Attività manuali qualificate: operai specializzati

Attività manuali: operai non specializzati

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Dove lavorano ora gli operai?

Il processo di terziarizzazione, oltre alla crescita del lavoro non manuale e dei

knowledge workers , provoca anche quella dell'operaio dei servizi

• 40% nel terziario;

• 38% nell'industria manifatturiera (PMI);

• 14% in edilizia.

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Il fenomeno dei working poors: chi sono ?

Uomini e donne occupati in settori a bassa qualificazione professionale (pulizie, ristorazione, servizi alla persona, call centers etc.) che percepiscono un reddito inadeguato.

L’Eurostat definisce i working poors come “quegli individui che sono occupati e il cui nucleo familiare ha un reddito inferiore al 60% di quello medio nazionale”.

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5. Economia della conoscenza

L’economia della conoscenza nasce innanzitutto dalle enormi possibilità di riuso delle conoscenze che sono rese accessibili dalla connessione in rete di milioni di persone e di operatori, ciascuno dei quali può accedere al sapere degli altri e può vendere il proprio sapere agli altri.

I nuovi lavori e le nuove modalità di svolgimento dei vecchi sono caratterizzati da un alto contenuto e domanda di conoscenza.

La capacità di manipolare simboli diventa il valore guida dei nuovi lavoratori specializzati:i lavoratori della conoscenza, coloro che, organizzeranno e gestiranno i processi lavorativi e costituiranno la nuova elite, basata sul merito e non sul censo o sul controllo del capitale.

La domanda di conoscenza non può più essere soddisfatta dal classico ciclo sequenziale “scuola – lavoro – pensione” ma richiede un costante aggiornamento.

Vengono quindi discriminati e marginalizzati coloro che non sono adeguatamente istruiti e non hanno accesso a momenti continui di formazione ed aggiornamento.

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La conoscenza non è scarsa, ma moltiplicabile: non si tratta di allocarla in modo ottimale, ma di propagarne l’uso in un bacino di impiego più ampio e durevole possibile

• la conoscenza non è divisibile, ma condivisibile: la sua produzione e propagazione non può essere affidata ai rapporti anonimi del mercato, ma richiede la costruzione sistema di regole socialmente condivise

• La conoscenza non è soltanto un mezzo, ma è una risorsa auto-generativa: la sua produzione e il suo uso cambiano i fini, creano identità, sviluppano legami, modificando il mondo in cui si opera

La conoscenza è una risorsa che non si consuma con l’uso ma anzi che cresce e si arricchisce man mano che viene usata

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Il fordismo

CAPITALISMO DELLE PIRAMIDI

La conoscenza è solida: si

accumula entro il perimetro

proprietario della piramide. La

crescita orizzontale serve ad aumentare in

verticale l’altezza della piramide

Il postfordismo

CAPITALISMO DELLE RETI

La conoscenza è liquida: si propaga

da un nodo all’altro della

rete, sviluppandosi in

orizzontale più di quanto faccia in

verticale

1970

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new/net/knowledge economy La transizione verso il nuovo paradigma postfordista si presenta come la

stratificazione a tre livelli di:

• una rivoluzione settoriale (new economy); la rivoluzione tecnologica in corso riguarda prima di tutto uno specifico settore: il settore che produce mezzi di calcolo (computers) e di comunicazione (Internet e dintorni).

• una rivoluzione relazionale (net economy); il valore viene prodotto dall’interazione tra produttori e consumatori, facendo crescere le contaminazioni, i dialoghi e le esperienze condivise che allacciano i diversi attori presenti nella rete.

• una rivoluzione cognitiva (knowledge economy). Le economie di replicazione che si accompagnano al lavorare in rete generano dei moltiplicatori del valore che assegnano ad ogni idea, ad ogni informazione utile un valore pari alla somma del valore di tutti i possibili usi.

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Categorie Capacità comprese

Comunicative Comunicazione diretta, comunicazione interattiva, trasferimento delle informazioni

Relazionali Negoziazione, persuasione, attitudine al confronto, flessibilità decisionale

Di problem solving

Prendere decisioni, intraprendenza, orientamento allo scopo, analiticità, pianificazione organizzata, gestione del rischio

Innovative Disponibilità al cambiamento, creatività

Knowledge workers

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VALUTAZIONE DEI POTENZIALI COMPETITIVI: INNOVAZIONE, ECONOMIA DELLA CONOSCENZA, CAPITALE UMANO

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Incidenza degli addetti al design ogni 100 imprese del made in Italy

Sul piano nazionale tra 1991 e 2001 gli addetti al design e styling aumentano da 6860 a 9721 con un incremento del 41,7 %

In termini percentuali, nel 1991 in Italia ogni cento imprese del made in Italy vi erano 1,80 addetti al design; dieci anni dopo (nel 2001) questa percentuale era salita a 2,77.

Accanto al permanere del ruolo delle capitali della grande industria Milano e Torino, tende a profilarsi una fascia di province corrispondenti ai territori di radicamento delle economie di distretto in cui prevalgono storicamente le produzioni del made in Italy.

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Valore assoluto laureati/diplomati in design dal 1991 al 2005 su scala nazionale.

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6. Rapporto Capitale - Lavoro

Cambia il rapporto di potere tra Lavoro e Capitale perché il Capitale non avrebbe più bisogno di forza lavoro sostanzialmente infinitamente intercambiabile – con la eccezione di pochi “capi” o superspecialisti – ma di un’intelligenza diffusa che avrebbe reso il rapporto di lavoro a tal punto individualizzato da rendere obsoleti vecchi sistemi di inquadramento e retribuzione.

Sarebbero divenuti quindi prevalenti sistemi di relazioni industriali ad alta “individualizzazione” o addirittura si sarebbero superati i classici strumenti del sistema di relazioni industriali – contratto collettivo, rappresentanza sindacale, ecc - per forme di contrattazione individuale.

Il riequilibrio infatti del rapporto di potere tra il singolo lavoratore e l’impresa avrebbe consentito di superare la rappresentanza e la contrattazione collettiva, nata per compensare il preesistente squilibrio di potere;

Le persistenti differenze tra chi lavora sarebbero divenute una misura oggettivadelle differenze di capacità in termini di autonomia, creatività e responsabilità.

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7. New public management

A partire dalla fine degli anni ‘80, si è sviluppato e poi diffuso un nuovo concetto per il settore pubblico, il cosiddetto New public management (Npm) che introduceva accanto a vecchi dei nuovi strumenti perla gestione dei servizi pubblici.

La crisi del welfare State attiva una serie di processi generatori di reti e lavoro esternalizzato. Si possono citare a titolo di esempio:

Graduale riduzione dell’apparato burocratico e della spesa pubblica con progressiva riduzione dell’intervento pubblico e rivalutazione dell’iniziativa privata in campo economico e sociale

Restituzione alla persona, alla famiglia, alla società delle funzioni di prevenzione del rischio di cui lo Stato si era in precedenza (nel fordismo) appropriato

Diffusione del principio di responsabilità manageriale (accountability) per il raggiungimento dei risultati in condizioni di efficacia ed efficienza

Incentivazione alla collaborazione, aggregazione e alla costruzione di reti tra enti locali (e con i privati) per la gestione dei servizi pubblici

In tutti i sistemi di welfare la riforma dell’intervento pubblico avviene tramite l’integrazione con il terzo settore

Il welfare mix e frutto di una pluralità di soggetti pubblici e privati: soggetti responsabili delle politiche, soggetti attuatori, assetti organizzativi, modelli di relazione tra i soggetti

Ecc.

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QUALI POLITICHE PER IL CAPITALISMO PERSONALE

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Dalla società senza rischio…….,

Durante la lunga stagione fordista l’organizzazione sociale è stata garantita dalle capacità di integrazione della grande impresa e della pubblica amministrazione (welfare).

• La grande impresa fordista assumeva su di se il rischio, forte delle sue capacità di controllo e di negoziazione e schermava dal rischio i suoi contraenti: esentava dal rischio il lavoratore dipendente cui era garantito un posto di lavoro, una professionalità, una vita remunerata al servizio dell’azienda; toglieva le castagne dal fuoco allo Stato, cui era garantito un flusso crescente di entrate per alimentare i servizi di welfare. Il welfare era pubblico, garantito, universale: un diritto soggettivo.

• Il lavoro dipendente si proponeva come “classe generale” e dunque rappresentante anche di quel lavoro autonomo, indipendente, atipico che - in quanto lavoro - poteva essere differente solo in superficie, ma doveva avere, si supponeva, gli stessi bisogni, le stesse capacità, le stesse tutele del lavoro dipendente.

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…..alla società del rischio Poi qualcosa è saltato: le grandi organizzazioni fordiste si sono spogliate dei rischi

assunti in precedenza, riportandoli sulla sovietà, ovvero sulle personeOggi l’economia va avanti in modo tale che nessuno è più in grado di garantire

niente a nessuno:

• le imprese, per quanto grandi, non sono più in grado di fatto (anche se lo scrivono su un contratto) di esentare dai rischi chicchessia (i dipendenti, i fornitori, le banche ecc.) visto che non sono in grado di difendere sè stesse da un’economia e una concorrenza che stanno fuori del loro controllo (lo Stato nazionale, per conto suo, non riesce nemmeno più a venire in soccorso);

• i produttori non riescono più ad esentare dai rischi i consumatori, perchè la complessità dei prodotti e dei circuiti di consumo è oggi non controllabile e può dare luogo ad esiti imprevedibili;

• i servizi del welfare pubblico non riescono più a garantire i cittadini dai rischi nei campi maggiormente complessi, come la salute, la qualità della vita urbana, la tutela dell’ambiente, l’istruzione, i trasporti, la ricerca, ma hanno qualche defaillance anche su questioni puramente distributive come la previdenza.

La politica crede ancora di poter decidere la ripartizione del rischio tra imprese e lavoratori come se fosse nelle sue mani questa possibilità. Non lo è più: il rischio è già sulle spalle dei lavoratori, e far finta che non lo sia serve solo a non fare quegli adeguamenti e a non prendere quelle misure che potrebbero consentire una più equa distribuzione/condivisione dei rischi e una gestione intelligente degli stessi.

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• Tramontate o in via di dismissione le tutele della contrattazione e del welfare fordista, oggi la vita sociale non trova sponde su cui appoggiarsi per assorbire il rischio diffuso, che ciascuno avverte come proprio e personale.

• Lavoratori, consumatori, imprenditori, risparmiatori, cittadini si trovano sempre meno “protetti” dai sistemi esperti (tecnostrutture pubbliche e private) e comprendono che bisogna diventare più autonomi e più intelligenti per gestire i propri rischi, senza delegare troppo.

• Riemerge con forza una domanda di autorganizzazione, di condivisione che può e deve trovare risposta nella crescita di forme autorganizzate di mutualismo, tutela, rappresentanza dei bisogni sociali.

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• La scena politica si divide oggi tra un neofordismo conservatore che cerca di difendere tutto il difendibile ed un postfordismo fondamentalista, che usa la clava del mercato, della deregulation e della tecnologia per scompaginare l’ordine fordista, però senza preoccuparsi di ricostruire un nuovo ordine, dotato di senso, al posto della casa fordista demolita.

• La discussione che si è avuta sulla flessibilità del lavoro in termini di maggiore o minore tutela (dall’art. 18 in poi) andrebbe rimessa sui giusti binari se si cominciasse a dire che il problema non è quello di “liberare” l’impresa da un ruolo di esenzione del rischio che grava sul lavoratore, che essa non vuole più, e che non è comunque, anche volendo, in grado di esercitare.

• Il vero problema è quello di attrezzare il lavoratore a sostenere questo rischio, acquisendo l’autonomia e l’intelligenza professionale che gli consentono di gestirlo senza troppi problemi ed, eventualmente, condividendolo con altri in forme di auto-organizzazione dal basso.

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Servono:

• politiche capaci di accompagnare la fluidità che caratterizza oggi il mercato del lavoro, che consentano la modularizzazione del tempo di lavoro e di superare le difficoltà che soprattutto le donne incontrano nel mondo del lavoro; che evitino forme di precarizzazione, proponendo anche forme originali di compatibilità tra diverse occupazioni di carattere dipendente e indipendente; che pongano maggiore attenzione, e meno vincoli, ai reali processi attraverso cui il lavoro si imprenditorializza; che favoriscano le attività di integrazione del reddito e la multifunzionalità delle imprese in diversi settori di attività;

• processi di semplificazione amministrativa e procedurale, già in corso, ma da intensificare in ragione della necessita di consentire tempi rapidi di start-up per nuove iniziative imprenditoriali, soprattutto per i settori più innovativi, fortemente esposti alla competitività;

• azioni volte a garantire l’accessibilità ai mercati e a liberalizzare alcuni settori, per dare opportunità (in particolare ai giovani) di inserirsi in ambiti di mercato oggi eccessivamente protetti;

• azioni volte a favorire l’accessibilità a servizi e la creazione di reti e comunità professionali capaci di incrementare il patrimonio di competenze e relazione dei soggetti;

• politiche volte a definire nuovi modelli di rappresentanza e di welfare, capaci di estendere le reti di protezione sociale alle forme di lavoro attualmente non tutelate, valorizzando le forme di nuovo mutualismo dal basso ed il ruolo delle imprese del terzo settore.