LICEOSCIENTIFICO E.RENZI – DISEGNO E STORIA DELL’ARTE … · del Dizionario Storico di...

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LICEOSCIENTIFICO E.RENZI – DISEGNO E STORIA DELL’ARTE Prof. Romeo Pauselli 1 liceo scientifico paritario renzi Disegno e storia dell’arte Disegno e storia dell’arte Disegno e storia dell’arte Disegno e storia dell’arte prof. arch. romeo pauselli dispensa v

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L I C E O S C I E N T I F I C O E . R E N Z I – D I S E G N O E S T O R I A D E L L ’ AR T E P r o f . R o m e o P a u s e l l i

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l i c eo s c i e n t i f i co p a r i t a r io r e n z i

Disegno e storia dell’arteDisegno e storia dell’arteDisegno e storia dell’arteDisegno e storia dell’arte p r o f . a r c h . r o m e o p a u s e l l i

dispensa v

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Le dispute si sono moltiplicate, come se tutto fosse incerto, e queste dispute vengono condotte col massimo calore, come se tutto fosse certo. In tutto questo scompiglio, non è la ragione che conquista il

successo, bensì l'eloquenza; e nessuno deve disperare di guadagnar proseliti all'ipotesi più stravagante, se ha arte bastante per rappresentarla sotto colori favorevoli. La vittoria non viene

ottenuta dagli uomini armati, i quali maneggiano la picca e la spada; ma dai trombettieri, dai tamburini, dai musicanti dell'esercito.

(David Hume)

Il solo triglifo rimasto visibile del tempio di Giove Olimpico ad Agrigento, prima delle scoperte recenti, ci ha fatto ritrovare la misura dell'intero monumento (...) Un solo dentello

d'una cornice manifesta la grandezza di tutto il cornicione; conosciuto il cornicione, rileviamo il genere, l'ordine e per conseguenza la dimensione delle colonne (...) E' questa somiglianza colla

costituzione de' corpi organizzati che dà all'architettura classica una superiorità decisa su tutti gli altri metodi del fabbricare.

(Antoine-Chrisostome Quatremere de Quincy, dalla voce Proporzione

del Dizionario Storico di Architettura, Mantova 1842-1844; I ediz., Parigi 1832)

Io ero presente, quando Egli disponeva i cieli e poneva un cerchio sulla superficie dell'abisso... (Proverbi, 8,27)

LA DEFINIZIONE DELL’ARTE, GLI OBIETTIVI DISCIPLINARI ED IL METODO PROPOSTO La terra è l’ambiente naturale, selvaggio ed ostile, che attraverso la scoperta del linguaggio viene trasformata in mondo. Nel mondo ogni oggetto ha un nome ed una sua collocazione, le regole del linguaggio costituiscono la tecnica dell’artista, le regole della composizione. Dalla composizione con intenzionalità estetica degli oggetti che formano il mondo scaturisce l’opera d’arte. L’opera è, dunque, il risultato di un processo formativo composto da due momenti distinti: la tecnica (la parte trasmissibile, scientifica, dell’arte), e l’invenzione (l’ambito dell’immaginazione che si applica alle cose note). L’articolazione dei due momenti avviene all’interno della poetica (il momento autobiografico, la sintesi), peculiare di ogni artista. La realtà dello spazio antropico - intesa come opera continuamente in corso, come portato di infiniti contributi individuali che si concretano in un ambito collettivo - è oggetto di uno studio tendente non ad una mera descrizione, ma ad una ipotesi di trasformazione, ad un progetto. La cultura moderna si è cullata nella illusione che la tecnica1, (nel riduttivo significato attribuitole di: sviluppo tecnologico o tecnico-scientifico) potesse bastare a sé stessa auspicando una separazione sempre più netta tra cultura umanistica e sapere scientifico, ed infine favorendo il superamento della prima nel secondo. In realtà non c’é possibilità alcuna di progresso - umano, civile, scientifico, tecnico - al di fuori di un orizzonte umanistico, della unità del sapere (che, nel caso della nostra scuola, si concreta nel più vasto orizzonte dell’occidente giudaico-cristiano) capace di dare senso al nostro sapere, al nostro operare, e questo indipendentemente dal nostro campo di studi. La disciplina di Disegno e storia dell’arte, chiedendo agli studenti - secondo tempi e metodi differenziati nell’ambito del percorso liceale, e riferiti alle singole attitudini e capacità di ognuno - di elaborare autonomamente i contenuti e gli apporti appresi anche nelle altre discipline, si offre come un efficace strumento didattico e formativo per superare la presunta antinomia tra cultura umanistica e cultura scientifica. Attraverso la identificazione e formalizzazione dei problemi, lo studio delle regole della rappresentazione, la conoscenza del patrimonio artistico, delle opere del passato e contemporanee, la costruzione di percorsi tematici, lo sviluppo della capacità di utilizzo di strumenti operativi espressivi e progettuali, si favorisce negli studenti l’elaborazione di un metodo razionale, e si offre loro un invito all’allargamento del sapere.

“Io prendevo interesse sopra tutto alle matematiche a causa della certezza e dell’evidenza delle loro ragioni,

ma non ne rilevavo ancora il vero uso, e, pensando che esse non servissero che alle arti meccaniche, mi

stupivo che, essendo i loro fondamenti così stabili e solidi, non si fosse costruito su di essi niente di più elevato.”

(Descartes, Il discorso sul metodo, 1637)

1 « Tècnica 1. complesso di norme che regolano l’esecuzione pratica e strumentale di un’arte, di una scienza, di un attività professionale: la t. del disegno, dell’acquerello; la t. pianistica, del violino; t. militare; t. chirurgica. (...) Metodo personale seguito con l’impiego particolari mezzi | Anche di una attività puramente intellettuale, in quanto applica rigorosi procedimenti: la t. delle

argomentazioni, del ragionamento. 2. Ogni attività che, sulla base delle conoscenze scientifiche, progetta strumenti, apparecchi, macchine, (...) destinati al soddisfacimento delle esigenze pratiche della vita.[ Dal greco techné: arte, complesso di leggi e regole]. (G.Devoto G.C.Oli Dizionario della lingua italiana)».

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“Le formule magiche non sono decisamente per gli uomini. Niente è fatto di niente e niente si compra da

niente. Tutto ha un prezzo. Può capitare a molti di sognare di sognare di svegliarsi un mattino con una

improvvisa e irrefrenabile necessità di accostarsi alla tastiera di un pianoforte e di, incredibile a dirsi, riuscire a

farne uscire i suoni più convincenti del mondo (...) non è vero, non è mai capitato.” (Arduino Cantafora)

Colui che ragiona è anche in grado di inventare, e chi vuole inventare deve essere capace di ragionare e solo credono separabile l’una cosa dall’altra coloro che sono incapaci di entrambe. Queste considerazioni denotano un atteggiamento ricorrente nella storia dell’arte, questo atteggiamento coincide con il Classicismo. La fiducia nella possibilità di una costruzione logica dell’arte, nella metafora di un ordine capace di spiegare il mondo, in un ordine che derivi la propria autorità dalla continuità e dal carattere permanente di poche questioni fondamentali, nel contributo paziente di ogni artista, nelle deroghe che acquistano valore e significato solo nell’ambito della Regola che intenzionalmente contraddicono la fiducia in tutto questo ci conduce alla classicità senza obbligarci ad essere neoclassici. L’opera d’arte è spiegata agli studenti come artefatto comunicativo, messaggio estetico che comunica sé stesso, la propria forma, le proprie leggi compositive. In quanto linguaggio, l’arte si può ridurre alla propria struttura, se ne possono dedurre le regole compositive, formative; un approccio di questo tipo conduce a conoscenze curricolari, ma anche a competenze compositive, creative. "L'uomo strutturale prende il reale, lo

scompone, poi lo ricompone; in apparenza è ben poco... eppure questo poco è decisivo; perché fra i due

tempi dell'attività strutturalista si produce qualcosa di nuovo, e questo qualcosa di nuovo è nientemeno che

l'intellegibile generale" (Roland Barthes).

“Nelle scuole e all'Università, l'universo dell'arte viene spezzato in tanti frammenti esaminabili separatemente,

che ci si aspetta vengano studiati in modo approfondito. Ci si può specializzare, ad esempio, nello studio dell'

"autunno", compresi il mercato della frutta e le feste popolari per il raccolto; ma in tal caso non si tenuti a

sapere nulla degli uccelli che cantano in primavera. Uno studio che passasse in rassegna l'intero ciclo

annuale sarebbe considerato un esempio di superficialità, perché c'è un diffuso pregiudizio contro le indagini

generali. Poiché sono convinto che la nostra mente progredisce spesso dal generale al particolare,

dall'approssimativo all'esatto, credo che una rozza mappa sia sempre preferibile a nessuna mappa”( Ernst

Gombrich).

L ’ A R C H I T E T T U R A , A R T E E S C I E N Z A Romeo Pauselli (da: LA COSTRUZIONE DELLA CITTÀ IDEALE, Edizioni IMP, Bologna, 2001)

In modi diversi è possibile parlare dell’architettura civile; questo antico o antiquato termine

dei trattatisti e dei politecnici può prestarsi ad una lezione dotta come alla pratica professionale. Ma chi lo usa è comunque propenso alla ricerca di un principio, di un luogo

dove la tolleranza del privato sia ridotta al minimo: perché l’architettura civile è essenzialmente pubblica e si occupa degli edifici privati solo quando questi assumono

importanza urbana o, appunto, civile; e questi edifici si ritrovano nella confusi con la vita delle persone.

(Aldo Rossi)

architettura, intesa come fatto concreto e necessario, costituisce la risposta che l’uomo ha dato nel tempo a precise concrete istanze che nel tempo non sono sostanzialmente mutate. E’ la creazione umana di un ambiente artificiale per vivere, abitare, lavorare, riunirsi, celebrare i propri riti,

rappresentarsi. Nell’architettura l’uomo riconosce se stesso proprio per l’immutabilità delle questioni che essa affronta, di questi caratteri stabili ed indissolubilmente legati. La storia dell’architettura ci appare così come l’ostinato tentativo nel tempo di risolvere in modo sempre migliore un arco definito ( e definitivo ) di problemi. L'architettura è il risultato dialettico di un processo artistico che comprende da una parte la massima autonomia del sistema, la chiarezza delle proposizioni (scienza); dall'altra la singolarità autobiografica dell'esperienza, l'elemento soggettivo (arte). L'architettura dunque appare sospesa tra regola e non senso, poiché l'applicazione ingenua di regole semplici toglie all'invenzione ogni mistero, mentre l'affidarsi romantico al raptus artistico ed alla tensione creativa produce, paradossalmente, una monotonia maldestramente nascosta dall'iperbole. Il mondo classico, il mondo delle forme possibili ci mostra, attraverso gli edifici nel tempo, i suoi innumerevoli legami con il passato. Maestri moderni come Loos, Tessenow, Hannes Meyer, Taut,

Mies, Hilberseimer, Asplund, Berlage, May, così come gli architetti del passato, parlano dell’architettura

come di qualcosa di chiaramente delimitato e definito, ne parlano con la familiarità di cui si parla del

proprio lavoro e non c’è un distacco rilevabile fra gli scritti e le opere costruite. Questi maestri - avendo tutti in

modo diverso avuto occasione di lavorare concretamente alla costruzione della città ed al progresso della

L’

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disciplina -, ci mostrano come la costruzione della città, anche di fronte alle radicali prese di posizione

interne al Movimento Moderno , non si sia mai allontanata dalla tradizione. La composizione della città ha,

cioè, compiuto un cammino molto più chiaro e lineare di quello della architettura degli stili e delle tendenze,

o dell’ornamento degli edifici. La consuetudine che dimostrano questi artisti consentiva, e crediamo

consenta ancora, di parlare, così come per i momenti di grande unità stilistica delle città, di un lessico

prestabilito, ma qui oltre il tempo, oltre i luoghi e fondato anzitutto su un principio di non-contraddizione.

Dove ogni soluzione è sì adeguata, ma nello stesso tempo destinata ad evocare adeguatezza dove un tetto

è anzitutto un tetto e il grado d’inclinazione delle sue falde un fatto indiscusso e così un pilastro, la sezione del

quale sarà sempre un rettangolo prossimo al quadrato (una casa sostenuta su qualcosa di difforme non

evoca forse figure ben più sofisticate di un portico?); dove una porta è una porta e così una finestra, e ciò

che dà forma ad ogni singolo elemento è un principio di chiarezza e di persuasione rispetto alla riconoscibilità

dell’elemento stesso (Giorgio Grassi). La costruzione della città contemporanea, nei suoi momenti migliori, si rifà alla sua propria vicenda storica; tale vicenda è fatta di poche scelte fondamentali, gli obiettivi formali relativi a queste scelte vengono perseguiti in tempi molto lunghi, e le forme in questi lunghi intervalli mutano di poco. Dalla storia dell’architettura, dunque anche dal contributo di quanti cronologicamente ci sono più vicini, noi riceviamo una serie di esperienze e tutte ci mostrano il rapporto con alcune tipologie architettoniche fondamentali e con le questioni che da sempre l’architettura pone a sé stessa: la casa il luogo pubblico, l’edificio collettivo, etc... Le formule magiche non sono decisamente per gli uomini. Niente è fatto di niente e niente si compra

da niente. Tutto ha un prezzo. Può capitare a molti di sognare di svegliarsi un mattino con una improvvisa e

irrefrenabile necessità di accostarsi alla tastiera di un pianoforte e di, incredibile a dirsi, riuscire a farne uscire i

suoni più convincenti del mondo (...) non è vero, non è mai capitato. (Arduino Cantafora). Ed ora vorremmo fare una osservazione banale: perché la città antica è bella (o perlomeno un centro storico risulta sempre leggibile nelle sue parti), mentre le espansioni periferiche di cui ciascuno di noi ha esperienza sono così brutte (o perlomeno incomprensibili) ? Una domanda così, posta in modo ingenuo e semplicistico, forse è utile perché ci obbliga ad esprimere razionalmente un giudizio di valore. Anticipando le conclusioni, potremmo affermare che gran parte delle nostre espansioni urbane, dagli anni ’50 e ’60 in poi, siano semplicemente il risultato di una colossale perdita della memoria; pare che la città abbia cessato di essere un bene collettivo, un patrimonio civile e artistico in cui ci si riconosce ed al cui mantenimento tutti sono interessati. Un centro storico, anche il più modesto, ci appare come segno di una continuità. Anche le svolte improvvise e rivoluzionarie noi le riconosciamo come tali proprio per gli scarti misurati e intenzionali rispetto alla tradizione, al patrimonio architettonico esistente. L'architettura è dunque, nel tempo, un fatto unitario. Nella città europea l'emergenza, il capolavoro, l'opera che segna svolta è tale proprio perché dà e trae, al tempo stesso, il proprio significato dall'intorno, da quel condensato di residenze, edifici minori e monumenti, tessuti storici, storia civile, che è la città. L'architettura della città vede i suoi monumenti, le sue architetture, i suoi fatti urbani, tutte le sue parti legate da una relazione di reciproca necessità. L'impronta individuale, l'accento poetico di ogni artista hanno senso solo se rivolti alla città, in un obiettivo unitario di chiarezza. Le città si dovrebbero poter leggere con chiarezza: nei loro confini, nel loro disegno di strade, piazze, gallerie, nella loro gerarchia di edifici importanti o minori. Le residenze, gli edifici specialistici, dovrebbero avere fisionomie familiari, che ci parlino della loro tradizione costruttiva e tipologica. All'opposto, nella vulgata corrente, l'architetto, nella costruzione della città, per qualche oscuro motivo è tenuto ad affidarsi romanticamente al raptus artistico ed alla tensione creativa. E' l'eroe romantico che comincia daccapo ogni volta con l'opera pretesa ogni volta nuova ed irripetibile. Il punto di vista corrente insegue senza sosta la novità che stupisce, la stranezza inaspettata, la trasgressione. Insomma viviamo, noi, la committenza non illuminata, gli abitanti delle città, in una specie di romanticismo perenne. Invece l'architettura del raptus-artistico come i revival stilistici, proprio nella misura in cui rinunciano ad un preciso atteggiamento rispetto al presente per rifugiarsi in realtà inventate o incontrollabili, non solo rappresentano una rinuncia sul piano disciplinare, ma esprimono ideologicamente una posizione retriva e conservatrice proprio perché priva di prospettive. Tutto questo è il portato di un pensiero1 che ci ha spiegato come

1 Per approfondire questo punto sarebbe necessario un discorso storiografico sul Movimento Moderno in architettura di più ampio

respiro, che esulerebbe dai fini di questo lavoro. Per completezza riporto stralci da uno scritto redatto per altra occasione: - Se guardiamo la

storia dell’architettura degli ultimi cento anni, e la guardiamo attraverso gli esempi concreti, progetti e realizzazioni, risulta evidente il contrasto

tra la ricerca affannosa di un nuovo linguaggio architettonico e la composizione degli edifici della città, risulta in altre parole evidente la

permanenza delle questioni che gli architetti migliori, ed assolutamente moderni, continuano a porsi. La costruzione della città

contemporanea, nei suoi momenti migliori, si rifà alla sua propria vicenda storica; tale vicenda è fatta di poche scelte fondamentali, gli

obiettivi formali relativi a queste scelte hanno tempi molto lunghi, e le forme in questi lunghi intervalli mutano di poco. (...) L’attribuzione di un

connotato strumentale all’architettura, questo proporsi come mezzo adeguato al perseguimento di una finalità, mette in risalto il suo carattere

di tecnica, o meglio di forma tecnica. Essa tuttavia non si identifica con la tecnica: l’architettura proprio in quanto creazione umana

comprende aspetti logici e irrazionali, collettivi ed autobiografici, ed ogni tentativo di studio serio deve necessariamente partire dal

riconoscimento della sua complessità. Tale riconoscimento, lungi dal costituire ostacolo ad un tentativo di conoscenza sistematica, è

all’opposto proprio ciò che rende irrinunciabile la formulazione di un impianto teorico, la definizione di una struttura che ordini, in una serie di

proposizioni esprimibili razionalmente, una certa idea di architettura. E’ l’ambizione ad un ordine necessario, è quell’ansia di certezza che

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l'architettura moderna, e quindi la città moderna, dovesse essere necessariamente qualcosa di diverso da ciò che era sempre stato, e ci ha mostrato come insopprimibile l'urgenza di costrutti teorici sempre più articolati ed aperti ai contributi delle più svariate discipline, per fronteggiare la, pretesa, irrevocabilmente crescente complessità urbana. Come colui che non veda il bosco per colpa degli alberi, l'architetto veramente

moderno si è condannato ad inseguire la novità, il particolare, lo specialismo, insomma a confermare e rassicurare sé stesso nella propria modernità… perdendo di vista l'architettura, l'arte, il senso più profondo del proprio operare.

La crisi della cultura architettonica, ( la sua riduzione a serie di slogan, di luoghi comuni), lungi dal portare ad un ripensamento della pratica corrente, ha indotto a riempire affannosamente la disciplina di contenuti e concetti sempre diversi, balbettando puerilmente di tempi che cambiano e di nuove sfide della modernità, fino a dissolvere ed a svuotare di significato civile la figura dell'architetto, riempendo di monumenti alla stupidità, e dormitori informi, le periferie delle nostre città. La riflessione sui caratteri fisici e costruttivi dell'architettura ha abbandonato quanto un sapere millenario ci aveva consegnato, ripiegandosi nella frequentazione manualistica di colorati menù ricchi degli ultimi progressi tecnologici per far scaturire da questi - in un perverso ribaltamento concettuale - l'architettura; oppure, e forse ancora peggio, nel recupero triviale di timpani e colonne. Così, per esempio, la tipologia architettonica (una questione affrontata con profitto dagli allievi, ed illustrata nella seconda parte di questo libro) si è ridotta ad abaco delle aggregazioni dei componenti per i sistemi di prefabbricazione, od al mero taglio degli alloggi. Per troppi villa a schiera è un termine corretto, e non un comico involontario ossimoro.

Ciascuno per la sua parte ha contribuito, in nome del nuovo e della libertà, all'oblio ed alla rimozione del passato. Il risultato di questo processo degenerativo è sotto i nostri occhi, siamo circondati da milioni di metri cubi di costruzioni senza senso, desolanti monumenti alla miseria culturale, almeno per quanto riguarda l’architettura, della seconda metà di questo secolo. Appare utile quindi riproporre all'attenzione di chi

sempre ha accompagnato l’uomo e a cui dobbiamo ascrivere gran parte del nostro patrimonio conoscitivo. L'architettura, al pari delle altre

arti, si costruisce attraverso una tecnica. La tecnica è costituita dalla composizione architettonica. I princìpi del costruire, la distribuzione,

la decorazione, sono parti dell'architettura, necessarie ma non essenziali. Essenziali sono i princìpi costitutivi interni all'architettura, che ne

permettano una trattazione logica, una trasmissione, uno sviluppo. L'architettura è il risultato dialettico di un processo artistico che

comprende da una parte la massima autonomia del sistema, la chiarezza delle proposizioni (scienza); dall'altra la singolarità autobiografica

dell'esperienza, l'elemento soggettivo (arte). L'architettura dunque appare sospesa tra regola e non senso, poiché l'applicazione ingenua di

regole semplici toglie all'invenzione ogni mistero, mentre l'affidarsi romantico al raptus artistico ed alla tensione creativa produce,

paradossalmente, una monotonia nascosta dall'iperbole. Il mondo classico, il mondo delle forme possibili ci mostra, attraverso gli edifici nel

tempo, i suoi innumerevoli legami con il passato. In architettura il termine imitazione ha quindi un connotato positivo, non è la rievocazione

nostalgica, ma un processo conoscitivo finalizzato ad un superamento pur sempre in continuità ed unità con obiettivi che riconosciamo

generali e permanenti. Queste considerazioni denotano un atteggiamento ricorrente nella storia dell’architettura, questo atteggiamento

coincide con il Classicismo. La fiducia nella possibilità di una costruzione logica dell’architettura, nella metafora di un ordine capace di

spiegare il mondo, in un ordine che derivi la autorità dalla continuità e dal carattere permanente di poche questioni fondamentali, nel

contributo paziente di ogni artista, nelle deroghe che acquistano valore e significato solo nell’ambito della Regola che intenzionalmente

contraddicono la fiducia in tutto questo ci conduce alla classicità senza obbligarci ad essere neoclassici.. L’architettura è connaturata al

formarsi della civiltà e della cultura, dunque nella sua essenza non è direttamente, o non solo, la costruzione, ma piuttosto la

rappresentazione dell’atto costruttivo. Della grammatica degli ordini può commuoverci l’aspetto mitico della derivazione degli elementi

dall’archetipico sistema ligneo, ma soprattutto ci importa la volontà, in quel sistema retorico, di rappresentarne gli elementi. La vitruviana

ricerca delle forme convenienti rappresenta un aspetto permanente della nostra arte, e tale ricerca è propriamente la decorazione intesa

come applicazione del principio del decoro. Attraverso il decoro (per Vitruvio: il risultato finale, l’aspetto elegante, composto secondo

ragione in base a statio o collocazione dell’edificio, consuetudo o consolidata abitudine, natura o vincoli specifici del luogo scelto), gli

elementi assumono la loro forma rappresentativa, significante e soddisfacente nel modo migliore le esigenze economiche e funzionali,

diventano forme intelligibili. Un sostegno non è ancora una colonna od una superficie di tamponamento non ancora muro, è attraverso il

principio del decoro che quelle forme tecnologiche o costruttive, trasformando la materia bruta in artificio, diventano forme architettoniche.

La finestra, ad esempio, è un apparecchio che assolve nel mondo migliore, il più economico e pratico, al suo scopo, la sua forma è il risultato

a cui si è giunti attraverso approssimazioni successive, in secoli di storia della costruzione della casa dell’uomo. È una cosa precisa con una

sua forma definita, conveniente, riconoscibile e per molti versi definitiva. La finestra è anche un tipo. Ha senso scegliere tra finestra e curtain-

wall, e sarà una scelta squisitamente di poetica, ma non ha senso mettersi a progettare, inventare, una nuova finestra. (...) E continuando ad

argomentare su di un prima ed un dopo rispetto all’architettura moderna, non perpetuiamo un disegno storiografico ideologico che forse

rappresenta l’eredità più persistente e condizionante dell’ International Style ? Il recupero, o il dibattito, sul Movimento Moderno si può limitare

ad una serie di autori e sotto-movimenti, ad alcune opere paradigmatiche ed a vuoti slogans formali, tralasciando l’elaborazione teorica e

l’impegno civile e morale di tanti architetti della prima metà del secolo? Ci pare che la storiografia, gran parte della storiografia, abbia voluto

costringere il Movimento Moderno entro i limiti del puro sperimentalismo formale, identificando quel vasto e complesso ventaglio di interessi e

ricerche con un unica tendenza ed indicandoci alcuni esempi, la casa Schröder, Fallingwater, il padiglione di Barcellona, la villa Savoje,

etc..., come paradigmi indiscussi, ed indiscutibili, della architettura nuova - dando per scontato che questa dovesse essere qualcosa di

totalmente diverso da ciò che era sempre stato, e non importa che tale assunto sia poi sempre stato contraddetto dall’opera dei migliori... -. A

ben vedere, quei paradigmi, rappresentano soprattutto degli straordinari fatti plastici, sculture che possono essere abitate, ma che poco

hanno a che fare con l’architettura: anche la Statua della Libertà o la Torre Eiffel, se opportunamente tamponate, possono essere rese

abitabili. Sulla base delle considerazioni fin qui svolte possiamo giudicare come irrilevanti, rispetto al campo concreto dell’architettura, rispetto

alla storia della casa dell’uomo, tutte quelle esperienze basate sullo sperimentalismo formale, sulla ricerca personale che intende trasformare

l’edificio in fatto plastico, o sull’enfasi strutturale: proprio per il loro operare in maniera esclusiva sul piano della figurazione, o della firmitas, tali

atteggiamenti contraddicono il principio di unità dell’architettura e si pongono al di fuori della disciplina. ( Romeo Pauselli, Maurizio Bolelli: IL

GRANDE PROGETTO ANTICO.)

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costruisce le città il termine tradizione, riproporlo agli architetti dunque, ma soprattutto agli abitanti della città. Tradizione come dimensione etica del fare, col cui rispetto ed ascolto, se non altro per l'aspetto educativo del costruire, sono state edificate le nostre città. Tradizione è un termine che esprime ciò che l'architettura è stata da sempre, ovvero ragione, regola, utilità, decoro. È importante che fin dalla scuola media, a ragazzi che si stanno formando e che cominciano a costruire il proprio futuro siano offerte occasioni di conoscenza, perché possano maturare consapevolezza di quanto sia straordinariamente ricco ed importante quel patrimonio di arte, storia civile e cultura materiale che è la città.

Concludiamo con le parole di un grande maestro, purtroppo scomparso di recente, Aldo Rossi: ...della città noi viviamo l’architettura civile: ogni giorno come pedoni, come inquilini, come clienti, come

turisti. Ci consumiamo nella città come la città si consuma con noi. Anche di altre arti, come la pittura,

potremmo parlare di “un’arte civile”; perché sappiamo che ci riferiamo a quelle opere che sono vissute nel

tempo e vivono nel tempo quasi senza un sentimento proprio; tutto gli è per così dire attribuito e nell’insieme

tutto gli è indifferente.

Se percorriamo, o abbiamo percorso negli anni, più volte, un museo, esso ci appare come la città; magari la

nostra città o un altro luogo incontrato di eventi lontani. Anche del museo più ricco e denso di opere

conosciamo gli angoli, le strade, le piazze dove ci soffermiamo o acceleriamo il passo; siamo insofferenti se

troviamo opere nuove, rivalutazioni, qualcosa di criticamente alla moda. I buoni musei, come il Prado,

dovrebbero contenere solo capolavori, cioè quelle opere come i “grandi” edifici urbani sono al di fuori della

discussione; possiamo passare anche veloci o distratti attraverso i capolavori. E’ come attraversare una

grande città mentre si è indaffarati; sappiamo già tutto di questi “grandi” edifici ma essi continuano a

permetterci la nostra vita. Così sfocati appaiono i nomi degli architetti; non ci interessiamo di chi abbia

costruito l’Empire State Building o la cattedrale gotica così come ci è quasi indifferente che il Cristo del Prado

sia del Velasquez perché esso ci appartiene da conoscenze più antiche, dall’educazione religiosa o dai libri

di scuola o perché ha fermato, almeno per un paio di secoli, quale e come doveva essere l’immagine del

Cristo. Come si riassume questo quadro anche ridotto ad immagine, o “immaginetta”, l’architettura civile si

riassume nelle cartoline; ogni cartolina turistica suscita in noi interesse. Nell’architettura civile, la tecnica

dell’architetto dovrà in qualche modo tener conto dell’utilità; l’utilità che era intesa dall’Alberti come

significato dell’opera, ed un’opera senza possibilità di essere o divenire parte della storia di un uomo non ha

significato. (Aldo Rossi). Riferimenti e debiti: A. Cantafora Quindici stanze per una casa J.N.L. Durand Précis des Leçons d’architecture U. Eco La definizione dell’arte, Sugli specchi ed altri saggi P. Gennaro Le fabbriche tipo a Venezia: la Scuola Grande A. Gioli I momenti del progettare G. Grassi Un parere sulla scuola Domus 714, La costruzione logica dell’architettura A. Loos Ins Leere gesprochen, Trotzdem A. Monestiroli Questioni di metodo Domus 727 A. Rossi Scritti scelti, L’architettura della città, Architetture padane, La città analoga, Elogio dell’architettura civile, La città analoga, Architettura razionale K. Scheffler Verso uno stile Domus 725 L. Semerani Progetti per una città, Tipo-partito-metamorfosi nella citazione architettonica, Le regole della composizione.

S U L L ’ A R C H I T E T T U R A F A S C I S T A

Renato Nicolini

L'architettura fu forse la manifestazione artistica in cui il rapporto con il regime fascista fu più contraddittorio e meno lineare. Grandi edifici e complessi caratterizzarono il ventennio e Mussolini ne fece uno spietato uso propagandistico. Ma il contenuto architettonico delle opere di allora non può essere ridotto a questo. Il movimento culturale che circondava e attraversava i giovani architetti italiani degli anni Venti e Trenta era in aperta rottura con la tradizione conservatrice e totalmente interno alle correnti più moderne.

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Architetti italiani e fascismo: una relazione che non può più essere letta secondo il primo, sia pure fortunato e fecondo, schema di Bruno Zevi. Fortunato perché ha retto per quasi cinquant'anni, fecondo perché ha generato in Italia l'"architettura organica" - penso in particolare a Mario Ridolfi - che sarebbe ingeneroso liquidare con la sufficienza con cui fino a pochi anni fa si liquidava l'architettura "fascista" di Marcello Piacentini ed Enrico Del Debbio. Se l'equazione razionalismo-antifascismo, accademismo-fascismo è ormai assolutamente insostenibile di fronte all'evidenza della documentazione storica - e l'"antifascismo morale" di Pagano, Persico e Giolli assomiglia sempre di più al ripostiglio in cui si rinchiudono gli oggetti, dissimili tra di loro: non è possibile, però, sbarazzarsi dell'incomodo fascista relegandolo ad accidente, di manzoniana memoria, di fronte alla sostanza dell'autonomia dell'architettura rispetto al fascismo. Inoltre, se si evita questo rischio, si corre quello gravissimo di avallare la tesi che distinguerebbe tra qualità architettonica e devastazioni delle città e dell'ambiente tutte imputabili a "Mussolini urbanista". In questo modo si tornerebbe indietro rispetto persino a Bruno Zevi, in piena ortodossia apologetica del "movimento moderno" e della tesi, che accomuna Le Corbusier e Walter Gropius, del "primato dell'urbanistica". Anche in questo caso, vale l'evidenza della verità storica. Faccio per tutti l'esempio di Piero Della Seta, che incomincia a studiare l'urbanistica del ventennio soggiacendo totalmente alle note tesi di Antonio Cederna, e finisce per scoprire la verità rimossa che la legge urbanistica del ministro Bottai è basata sul principio [cancellato da una serie impressionante di sentenze del Consiglio di Stato nel dopoguerra tutte favorevoli alla difesa dei diritti della proprietà privata] dell'esproprio preventivo e generalizzato da parte dei Comuni della aree di espansione urbana. Anche per l'architettura, si presenta la difficoltà di una lettura non totalizzante, non manicheisticamente parodistica della dialettica hegeliana, del totalitarismo fascista. La ricerca storica deve essere animata dalla passione di conoscere "l'altro" rispetto al nostro tempo ed alle nostre convinzioni. Questo è ovviamente più difficile misurandosi con un periodo che esclude programmaticamente, aprioristicamente, e non tanto per motivi ideologici quanto brutalmente per interessi di classe, proprio "l'altro". Il totalitarismo tende ad informare di sé, magari surrettiziamente, ogni analisi prevenuta, che cerchi - piuttosto che scoprire la verità, anzi le verità parziali e provvisorie che ci è dato conoscere - di dimostrare tesi date a priori. Il meglio che probabilmente può dare un simile atteggiamento mentale è la tesi di Norberto Bobbio, che distingue tra destra individualista e sinistra collettivista, e fa di fascismo e comunismo categorie dello spirito che si generano reciprocamente, desunte non dalla storia ma dalla Necessità Storica. Bisogna, al contrario, avere il coraggio di entrare come nelle viscere di una vicenda molto più confusa, disordinata e vitale di quanto non la si sia rappresentata. Al lume di una sola fioca candela: le tante singole vicende culturali e di potere professionale ed accademico, nel loro insieme pongono la questione della condizione materiale dell'architetto, in una situazione di egemonia piena della cultura di destra e del potere politico fascista. Come diceva il "povero" Bertolt Brecht? "Infelice la terra che ha bisogno d'eroi". E perché chiederlo proprio agli architetti di esserlo... Dovrei a questo punto raccontare le tante diverse storie. Accomunate magari dalle categorie del disagio [Persico, Giolli, Ridolfi], della volontà politica di acquisire comunque potere [le vicende quasi simmetriche di Piacentini, che nel rapporto col fascismo mantiene ed anzi accresce il proprio ruolo centrale nell'architettura italiana, e di Pagano], dell'adesione "eccessiva" al fascismo [Libera, il giovane Rogers, Sironi], del disincanto e dell'ironia [Mario De Renzi]. Come è ovvio, lo spazio me lo impedisce. Tenterò di supplire accettando di rovesciare, per quanto è lecito, il mio stesso assunto, e periodizzando invece l'atteggiamento del fascismo nei confronti dell'architettura. Un risultato più interessante di quanto non possa sembrare ai maniaci delle eccezioni, perché rivelatore della centralità che la questione dell'architettura, sia pure soprattutto come grande mezzo di persuasione - forse il mezzo per eccellenza prima dell'avvento dei moderni mass media - quando questa modernità era rappresentata da Cinecittà, Topolino, Dick Fulmine e "l'Avventuroso", assumeva per il regime. Il giorno dopo la prima vittoria della Coppa Rimet da parte degli azzurri di Pozzo [giugno 1934], il "Messaggero" di Roma uscì dedicando l'intera prima pagina a questa notizia. Unica eccezione, una riquadro in neretto che annunciava il ricevimento a Palazzo Venezia degli architetti di Sabaudia e della Stazione di Firenze, significativo riconoscimento che poneva fine alle polemiche contro l'architettura moderna con una decisa presa di posizione di Mussolini in persona: "Tengo a precisare in modo inequivocabile che io sono per l'architettura moderna... Sarebbe assurdo pensare che noi oggi non potessimo avere il nostro pensiero architettonico e assurdo il non volere un'architettura razionale e funzionale per il nostro tempo. Ogni epoca ha dato una sua architettura funzionale. Anche i monumenti di Roma che noi oggi stiamo che noi oggi stiamo riscavando rispondevano a una loro funzione. Il Colosseo, un tondo, dei buchi e in mezzo l'arena per gli spettacoli". Fino al 1926, e cioè all'anno della "svolta di Pesaro", della lira a "quota novanta", nell'arresto di Gramsci e dei tribunali speciali, il fascismo aveva rivendicato per l'architettura - ed in genere per l'arte - continuità con l'età giolittiana.

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Mussolini afferma a Milano, nel 1923, in occasione dell'esposizione del gruppo dei pittori del Novecento organizzato da Margherita Sarfatti, che si attendeva ben altro: "... E' lungi da me l'idea di incoraggiare qualcosa che possa assomigliare all'arte di Stato". Non si tratta solo di parole. Basterà l'esempio di quello che avviene a Roma, dove l'Istituto Case Popolari realizza a ritmi accelerati progetti - per Trionfale, per San Saba, per la Garbatella, per Montesacro - pensati prima della guerra mondiale ed in qualche caso risalienti addirittura all'amministrazione Nathan. Dopo il 1926, registriamo una duplice tendenza. Da un lato, quella della semplificazione autoritaria delle istituzioni. Gli Istituti Case Popolari ed il "sindacato" degli architetti aggiungono alle loro sigle l'aggettivo "fascista". Il Comune di Roma viene sostituito dal Governatorato. Dall'altro, cresce il numero di coloro che chiedono "in architettura ed in urbanistica" una svolta che corrisponda alla svolta politica. Contrariamente all'opinione più diffusa, però, non è Piacentini [faccio questo nome perché è finito per assurgere a simbolo] a chiedere maggiori spazi di potere. Sono i giovani laureati appena usciti, più o meno a partire dal 26, dalle Facoltà di Architettura istituite a Milano ed a Roma all'inizio degli Anni Venti, ad invocare a gran voce il cambiamento. La volontà polemica è trasparente fin dalla prima serie di articoli del "Gruppo 7", con la loro insistenza sulla "necessità d'ordine" e sulla "rinuncia all'individualismo". I giovani Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers teorizzano, dal primo numero di "Quadrante" [1931] la "città corporativa" ed il "piano regolatore nazionale". Le vittime dell'invocato "squadrismo dell'architettura", insomma, non sono niente affatto razionalisti e funzionalisti, ma proprio gli accademici Piacentini, Brasini, Giovannoni. A quel punto non è ovviamente più possibile evitare lo scontro "tra" gli architetti. Sarebbe inesatto parlare di uno scontro "tra" architetti e regime fascista, perché tutti i contendenti cercano di dimostrare di rappresentare "più dell'altro" la natura e le finalità del regime. Lo scontro decisivo avviene tra il gruppo di "Quadrante", secondo una strategia che coinvolge il più prestigioso architetto funzionalista e moderno dell'epoca, le Corbusier; e la capacità di mediazione e di recupero di Marcello Piacentini. Piacentini che svolge un ruolo decisivo nel fare assegnare, da giurie perplesse se non riluttanti, la vittoria al gruppo toscano di Michelucci nel concorso per la stazione di Firenze, ed al gruppo di Piccinato e Montuori nel concorso per la città di fondazione di Sabaudia. Pier Maria Bardi lavora per oltre un anno al fine di ottenere per quest'ultimo un invito ufficiale a Roma da parte del Sindacato Fascista degli Architetti. La ragione dichiarata sarà quella di due conferenze sull'architettura e sulle città. Lo scopo vero sarebbe quello di far ricevere Le Corbusier da Mussolini, di candidarlo alla realizzazione della terza "città di fondazione" dopo Littoria e Sabaudia: Pontinia. E' bene tenere presente la polemica che "Quadrante" muove nello stesso tempo contro le camicie brune di Hitler, "imitazione barbarica del fascismo", assieme al noto atteggiamento "contro" l'architettura moderna, simboleggiata dal Bauhaus di Walter Gropius e Mies van der Rohe [autore del monumento a Rosa Luxemburg] e dei "comunisti" Hannes Mewer ed Ernst May che il nazismo assume fin dall'inizio. E' necessario non dimenticare che proprio il 33 è l'anno del verdetto del concorso per il Palazzo dei Soviet che assegna la vittoria al progetto monumentalista e figurativo, coronato da una gigantesca statua di Lenin, di Boris Jofan, contro il progetto "razionalista" che esprime l'articolazione dei volumi e la distinzione delle funzioni di Le Corbusier. L'Urss di Stalin volge definitivamente le spalle all'architettura moderna. Nel resto d'Europa, dal contestato verdetto per il concorso del Palazzo della Società delle Nazioni a Ginevra, il clima dominante è quello della restaurazione accademica. L'eccezione Spagna - o più precisamente Barcellona - è prossima ad essere travolta dalla guerra civile. Si può concludere che, in modo del tutto rovesciato rispetto alle convinzioni più diffuse, nel 1934 l'Italia di Mussolini rimane l'unico paese che sceglie per l'architettura moderna. L'accostamento tra Italia e modernità è confermato dal Nobel a Pirandello. Dietro la scelta, esplicitamente compiuta da Mussolini rovesciando la sua posizione, del razionalismo come "arte di Stato" c'è, ovviamente, la complessità e l'ambiguità del razionalismo italiano, che, con il ricevimento degli architetti di Sabaudia e della Stazione di Firenze, ai quali viene presentato come esempio Marcello Piacentini e la sua chiesa di Cristo Re, viene preferito e distinto dal razionalismo "internazionalista". Bisogna però dire che questo, se scoraggia "Quadrante", [chiuderà dopo pochi mesi con un ultimo numero monografico dedicato alla Casa del Fascio di Como di Terragni], non scoraggia Le Corbusier, che seguiterà a scrivere lettere a Mussolini, per candidarsi a progettista di Addis Abeba imperiale, ed allo stesso Piacentini quando questi coordinerà l'E 42, l'Eur. Questo per dire che la svolta successiva, che dal razionalismo ritorna verso "gli archi e le colonne" sotto l'influsso di Albert Speer e dell'architettura ipermonumentale del Terzo Reich, viene da qualcuno intesa non come un ritorno al passato, ma come una legittima evoluzione del carattere "mediterraneo" del razionalismo italiano. Naturalmente per noi, avvantaggiati dalla distanza storica, questo è più facile. Anche se, ancora nel 37. alle soglie delle leggi razziali, dell'Asse e della Seconda Guerra Mondiale, il padiglione italiano all'Esposizione di Parigi testimonia che la collaborazione tra Piacentini e Pagano non può essere liquidato semplicisticamente come un compromesso.

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MICHEL FOUCAULT (Da Les mots et les choses, edizione italiana (Le parole e le cose ),

trad. E. Panaitescu, Ed. Rizzoli, Milano 1967, pp. 17-30).

Le damigelle d’onore (VELÁZQUEZ, Diego Rodriguez de Silva)

Las Meninas or The Family of Philip IV - 1656-57 Oil on canvas, 318 x 276 cm

Museo del Prado, Madrid

Il pittore si tiene leggermente discosto dal quadro. Dà un’occhiata al modello; si tratta forse di aggiungere un ultimo tocco, ma può anche darsi che non sia stata ancora stesa la prima pennellata. Il braccio che tiene il pennello è ripiegato sulla sinistra, in direzione della tavolozza; è, per un istante, immobile fra la tela e i colori. L’abile mano è legata allo sguardo; e lo sguardo, a sua volta, poggia sul gesto sospeso. Tra la sottile punta del pennello e l’acciaio dello sguardo lo spettacolo libererà il suo volume. Non senza un sistema sottile di finte. Indietreggiando un po’, il pittore si è posto di fianco all’opera cui lavora. Per lo spettatore che attualmente lo guarda egli si trova cioè a destra del suo quadro, che, invece, occupa tutta l’estrema sinistra. Al medesimo spettatore il quadro volge il retro; non ne è percepibile che il rovescio, con l’immensa impalcatura che lo sostiene. Il pittore, in compenso, è perfettamente visibile in tutta la sua statura; non è ad ogni modo nascosto dall’alta tela che, forse, di lì a poco lo assorbirà, quando facendo un passo verso di essa si rimetterà all’opera; probabilmente si è appena offerto in questo stesso istante agli occhi dello spettatore,

sorgendo da quella specie di grande gabbia virtuale che proietta all’indietro la superficie che sta dipingendo. Possiamo vederlo adesso, in un istante di sosta, nel centro neutro di questa oscillazione. La sua scura sagoma, il suo volto chiaro, segnano uno spartiacque tra il visibile e l’invisibile: uscendo dalla tela che ci sfugge, egli emerge ai nostri occhi; ma quando fra poco farà un passo verso destra, sottraendosi ai nostri sguardi, si troverà collocato proprio di fronte alla tela che sta dipingendo; entrerà nella regione in cui il quadro, trascurato per un attimo, ridiventerà per lui visibile senza ombra né reticenza. Quasi che il pittore non potesse ad un tempo essere veduto sul quadro in cui è rappresentato e vedere quello su cui si adopera a rappresentare qualcosa. Egli regna sul limitare di queste due visibilità incompatibili. Il pittore guarda, col volto leggermente girato e con la testa china sulla spalla. Fissa un punto invisibile, ma che noi, spettatori, possiamo agevolmente individuare poiché questo punto siamo noi stessi: il nostro corpo, il nostro volto, i nostri occhi. Lo spettacolo che egli osserva è quindi due volte invisibile: non essendo rappresentato nello spazio del quadro e situandosi esattamente nel punto cieco, nel nascondiglio essenziale ove il nostro sguardo sfugge a noi stessi nel momento in cui guardiamo. E tuttavia come potremmo fare a meno di vederla, questa invisibilità, se essa ha proprio nel quadro il suo equivalente sensibile, la propria figura compiuta? Sarebbe infatti possibile indovinare ciò che il pittore guarda, se si potesse gettare lo sguardo sulla tela cui è intento; ma di questa non si scorge che l’ordito, i sostegni orizzontali e, verticalmente, la linea obliqua del cavalletto. L’alto rettangolo monotono che occupa tutta la parte sinistra del quadro reale, e che raffigura il rovescio della tela rappresentata, restituisce sotto l’aspetto di una superficie l’invisibilità tridimensionale di ciò che l’artista contempla: lo spazio in cui siamo, che siamo. Dagli occhi del pittore a ciò che egli guarda è tracciata una linea imperiosa che noi osservatori non potremmo evitare: attraversa il quadro reale e raggiunge, di qua dalla sua superficie, il luogo da cui vediamo il pittore che ci osserva; questa linea tratteggiata ci raggiunge immancabilmente e ci lega alla rappresentazione del quadro. In apparenza, questo luogo è semplice; è di pura reciprocità: guardiamo un quadro da cui un pittore a sua volta ci contempla. Null’altro che un faccia a faccia, occhi che si sorprendono, sguardi dritti che incrociandosi

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si sovrappongono. E tuttavia questa linea sottile di visibilità avvolge a ritroso tutta una trama complessa d’incertezze, di scambi, di finte. Il pittore dirige gli occhi verso di noi solo nella misura in cui ci troviamo al posto del suo soggetto. Noi altri spettatori siamo di troppo. Accolti sotto questo sguardo, siamo da esso respinti, sostituiti da ciò che da sempre si è trovato là prima di noi: dal modello stesso. Ma a sua volta lo sguardo del pittore diretto, fuori del quadro, verso il vuoto che lo fronteggia, accetta altrettanti modelli quanti sono gli spettatori che gli si offrono; in questo luogo esatto, ma indifferente, il guardante e il guardato si sostituiscono incessantemente l’uno all’altro. Nessuno sguardo è stabile o piuttosto, nel solco neutro dello sguardo, che trafigge perpendicolarmente la tela, soggetto e oggetto, spettatore e modello invertono le loro parti all’infinito. E il rovescio della grande tela all’estrema sinistra del quadro esercita a questo punto la sua seconda funzione: ostinatamente invisibile, impedisce che possa mai essere reperito e definitivamente fissato il rapporto tra egli sguardi. La fissità opaca che regna da un lato, rende per sempre instabile il gioco delle metamorfosi che al centro si stabilisce tra spettatore e modello. Per il fatto che vediamo soltanto questo rovescio, non sappiamo chi siamo, né ciò che facciamo. Veduti o in atto di vedere? Il pittore fissa attualmente un luogo che di attimo in attimo non cessa di cambiare contenuto, forma, aspetto, identità. Ma l’attenta immobilità dei suoi occhi rinvia ad un’altra direzione da essi già sovente seguita e che ben presto, è certo, riprenderanno: quella della tela immobile su cui si sta tracciando, è forse tracciato da tempo e per sempre, un ritratto che più non si cancellerà. Cosicché lo sguardo sovrano del pittore ordina un triangolo virtuale, che definisce nel suo percorso il quadro di un quadro: al vertice - solo punto visibile - gli occhi dell’artista; alla base da un lato la sede invisibile del modello, dall’altro la figura probabilmente abbozzata sulla tela vista dal rovescio. Nell’istante in cui pongono lo spettatore nel campo del loro sguardo, gli occhi del pittore lo afferrano, lo costringono ad entrare nel suo quadro, gli assegnano un luogo privilegiato e insieme obbligatorio, prelevano da lui la sua luminosa e visibile essenza e la proiettano sulla superficie inaccessibile della tela voltata. Vede la sua invisibilità resa visibile al pittore e trasposta in una immagine definitivamente invisibile per lui. Sorpresa moltiplicata e resa più inevitabile da una astuzia marginale. All’estrema destra il quadro riceve la sua luce da una finestra rappresentata secondo una prospettiva molto scorciata; non se ne vede che il vano dal quale il flusso di luce che essa largamente diffonde impregna a un tempo, di identica generosità, due spazi vicini, compenetrati ma irriducibili: la superficie della tela con il volume da essa rappresentato (cioè lo studio del pittore, o la sala in cui ha collocato il suo cavalletto) e di qua da questa superficie il volume reale occupato dallo spettatore (o ancora la sede irreale del modello). Percorrendo la stanza da destra a sinistra, l’ampia luce dorata trascina lo spettatore verso il quadro e insieme il modello verso la tela; è sempre essa che, illuminando il pittore, lo rende visibile allo spettatore e fa brillare come altrettante linee d’oro agli occhi del modello il quadro della tela enigmatica ove la sua immagine, trasportatavi, si troverà rinchiusa. La finestra estrema, parziale, appena indicata, libera una luce intera e mista che serve da luogo comune alla rappresentazione. Essa equilibra, all’altro capo del quadro, la tela invisibile; questa, volgendo il retro agli spettatori, si chiude sul quadro che la rappresenta e forma, attraverso la sovrapposizione del suo rovescio, visibile sulla superficie del quadro portante, il luogo, per noi inaccessibile, ove scintilla l’Immagine per eccellenza; analogamente la finestra, pura apertura, instaura uno spazio tanto manifesto quanto l’altro è celato; tanto comune al pittore, ai personaggi, ai modelli, agli spettatori, quanto l’altro è solitario (nessuno infatti, nemmeno il pittore, lo guarda). Da destra si diffonde attraverso una finestra invisibile il puro volume d’una luce che rende visibile ogni rappresentazione; a sinistra si estende la superficie che evita, dall’altra parte del suo troppo visibile ordito, la rappresentazione da essa portata. La luce, inondando la scena (intendo la stanza non meno della tela, la stanza rappresentata sulla tela e la stanza in cui la tela è posta), avvolge personaggi e spettatori e li trascina, sotto lo sguardo del pittore, verso il luogo ove il suo pennello li rappresenterà. Ma questo luogo ci è sottratto. Ci guardiamo guardati dal pittore e resi visibili ai suoi occhi dalla stessa luce che ce lo fa vedere. E nell’istante in cui ci coglieremo trascritti dalla sua mano come in uno specchio, non potremo percepire, di quest’ultimo, che il rovescio oscuro. L’altro lato d’una psiche. Ora, esattamente dirimpetto agli spettatori - a noi stessi -, sul muro che costituisce il fondo della stanza, l’autore ha rappresentato una serie di quadri; ed ecco che fra tutte queste tele sospese una brilla di singolare fulgore. La sua cornice è più larga, più scura di quella degli altri; ma una sottile linea bianca la ripete verso l’interno diffondendo su tutta la sua superficie una luce ardua da collocare, poiché non emana da alcun luogo se non da uno spazio che ad essa sia interno. In questa luce strana si mostrano due figure e sopra di esse, leggermente arretrato, un greve sipario di porpora. Gli altri quadri lasciano vedere solo qualche macchia più pallida al margine d’una notte senza profondità. Questo al contrario si apre su uno spazio in fuga, in cui forme riconoscibili si scaglionano in un chiarore che appartiene soltanto ad esso. In mezzo a tutti questi elementi che sono destinati ad offrire rappresentazioni, ma che le rifiutano, le nascondono, le evitano grazie

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alla loro posizione o alla loro distanza, questo è l’unico che funziona in piena onestà offrendo alla vista ciò che deve mostrare. La sua lontananza, l’ombra che lo circonda. Ma non è un quadro: è uno specchio. Esso offre infine la magia del duplicato che rifiutavano i dipinti lontani non meno che la luce in primo piano con la tela ironica. Di tutte le rappresentazioni che il quadro rappresenta è la sola visibile; ma nessuno lo guarda. In piedi a lato della sua tela e intento unicamente al suo modello il pittore non può vedere questo specchio che brilla mite dietro di lui. Gli altri personaggi del quadro sono per lo più volti anch’essi verso ciò che deve aver luogo davanti - verso la chiara invisibilità che orla la tela, verso il balcone di luce ove i loro occhi possono vedere quelli che li vedono e non verso la cavità cupa che chiude la camera in cui sono rappresentati. Vi sono è vero alcune teste che si presentano di profilo: ma nessuna è girata abbastanza da guardare, in fondo alla sala, questo specchio desolato, piccolo rettangolo lucente, che altro non è se non visibilità, ma priva di sguardi che possano farsene padroni, renderla attuale e godere del frutto all’improvviso maturo del suo spettacolo. Occorre riconoscere che tale indifferenza non trova riscontro che in quella dello specchio. Esso infatti non riflette nulla di ciò che si trova nello stesso suo spazio; né il pittore che gli volta le spalle, né i personaggi al centro della stanza. Nella sua chiara profondità non accoglie il visibile. Nella pittura olandese era consuetudine che gli specchi svolgessero una funzione di duplicazione: ripetevano ciò che era dato una prima volta nel quadro, ma all’interno d’uno spazio irreale, modificato, ristretto, incurvato. Vi si vedeva la medesima cosa che nella prima istanza del quadro, ma decomposta e ricomposta secondo un’altra legge. Qui lo specchio non dice nulla di ciò che già è stato detto. Eppure la sua posizione è quasi centrale: il suo margine superiore coincide con la linea che divide in due l’altezza del quadro, occupa sul muro di fondo (o per lo meno sulla parte visibile di questo) una posizione mediana; dovrebbe pertanto essere attraversato dalle stesse linee prospettiche del quadro stesso; ci si potrebbe aspettare che uno stesso studio, uno stesso pittore, una stessa tela si disponessero in esso secondo uno spazio identico; potrebbe costituire il duplicato perfetto. Invece non fa vedere nulla di ciò che il quadro stesso rappresenta. Il suo sguardo immobile mira a cogliere oltre il quadro, nella regione necessariamente invisibile che ne forma la facciata esterna, i personaggi che vi sono disposti. Anziché indugiare presso gli oggetti visibili lo specchio traversa l’intero campo della rappresentazione trascurando ciò che potrebbe captarne, e restituisce la visibilità a ciò che si mantiene fuori da ogni sguardo. L’invisibilità che esso supera non è quella di ciò che è occultato: non aggira un ostacolo, non svia una prospettiva, si rivolge a quanto è reso invisibile sia dalla struttura del quadro sia dalla sua esistenza come dipinto. Ciò che in esso si riflette è ciò che tutti i personaggi della tela stanno fissando, lo sguardo dritto davanti a sé; è dunque ciò che potrebbe essere veduto se la tela si prolungasse anteriormente scendendo ancora fino ad avvolgere i personaggi che servono da modelli al pittore. Ma, poiché la tela si arresta a questo punto, mostrando il pittore e il suo studio, è anche quanto sta fuori del quadro, nella misura in cui è quadro, cioè frammento rettangolare di linee e colori demandato a rappresentare qualcosa agli occhi di un qualsiasi eventuale spettatore. In fondo alla stanza, da tutti ignorato, lo specchio inatteso fa splendere le figure cui guarda il pittore (il pittore nella sua realtà rappresentata, oggettiva, di pittore al lavoro); ma altresì le figure che al pittore guardano (nella realtà materiale che linee e colori hanno deposto sulla tela). Queste due figure sono inaccessibili entrambe ma in modo diverso: la prima in virtù di un effetto di composizione che è proprio del quadro; la seconda in virtù della legge che presiede all’esistenza stessa di un qualsiasi quadro in genere. Il gioco della rappresentazione consiste qui nel portare l’una al posto dell’altra, in una sovrapposizione instabile, queste due forme dell’invisibilità - e di restituirle all’istante stesso all’altra estremità del quadro - al polo che è il più intensamente rappresentato: il polo d’una profondità di riflesso nel cavo di una profondità di quadro. Lo specchio assicura una metatesi della visibilità che incide, a un tempo, nello spazio rappresentato nel quadro e nella sua natura di rappresentazione: mostra, al centro della tela, ciò che del quadro è due volte necessariamente invisibile. Strano modo di applicare letteralmente, ma capovolgendolo, il consiglio che il vecchio Pachero aveva dato, sembra, al suo discepolo, quando lavorava nello studio di Siviglia: «L’immagine deve uscire dal quadro». Ma è forse tempo di dare un nome infine a quest’immagine che appare in fondo allo specchio e che il pittore di qua dal quadro contempla. È forse meglio definire una buona volta l’identità dei personaggi presenti o indicati, al fine di non più trovarci intricati all’infinito in queste designazioni fluttuanti, un po’ astratte, sempre suscettibili di equivoci e di sdoppiamenti: "il pittore", "i personaggi", "i modelli", "gli spettatori", "le immagini". Invece di inseguire all’infinito un linguaggio fatalmente inadeguato al visibile basterebbe dire che Velazquez ha composto un quadro; che in questo quadro ha rappresentato se stesso nel suo studio o in una sala dell’Escoriale nell’atto di dipingere due personaggi che l’infanta Margherita si reca a contemplare, circondata di governanti, di damigelle d’onore, di cortigiani e di nani; che a questo gruppo si possono con grande precisione attribuire nomi: la tradizione riconosce qui doña Maria Augustina Sarmiente, là Nieto, in

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primo piano Nicola Pertusato, buffone italiano. Basterebbe aggiungere che i due personaggi che servono da modelli al pittore non sono visibili, perlomeno direttamente; ma che possono essere scorti in uno specchio; che si tratta indubbiamente del re Filippo IV e di sua moglie Marianna. Questi nomi propri costituirebbero utili punti di riferimento, eviterebbero designazioni ambigue; ci direbbero ad ogni modo ciò che il pittore guarda, e insieme con lui la maggior parte dei personaggi del quadro. Ma il rapporto da linguaggio a pittura è un rapporto infinito. Non che la parola sia imperfetta e, di fronte al visibile, in una carenza che si sforzerebbe invano di colmare. Essi sono irriducibili l’uno all’altra: vanamente si cercherà di dire ciò che si vede: ciò che si vede non sta mai in ciò che si dice; altrettanto vanamente si cercherà di far vedere, a mezzo di immagini, metafore, paragoni, ciò che si sta dicendo: il luogo in cui queste figure splendono non è quello dispiegato dagli occhi, ma è quello definito dalle successioni della sintassi. Il nome proprio, tuttavia, in questo gioco non è che un artificio: permette di additare, cioè di far passare furtivamente dallo spazio in cui si parla allo spazio in cui si guarda, cioè di farli combaciare comodamente l’uno sull’altro come se fossero congrui. Ma volendo mantenere aperto il rapporto tra il linguaggio e il visibile, volendo parlare a partire dalla loro incompatibilità e non viceversa, in modo da restare vicinissimi sia all’uno che all’altro, bisognerà allora cancellare i nomi propri e mantenersi nell’infinito di questo compito. È, forse attraverso la mediazione di questo linguaggio grigio, anonimo, sempre meticoloso e ripetitivo perché troppo comprensivo che il dipinto a poco a poco accenderà i suoi chiarori. Occorre dunque fingere di non sapere chi si rifletterà nel fondo dello specchio e interrogare il riflesso medesimo al livello della sua esistenza. Esso è anzitutto il rovescio della grande tela rappresentata a sinistra. Il rovescio o piuttosto il dritto poiché mostra frontalmente ciò che essa cela grazie alla sua posizione. Inoltre si oppone alla finestra e la rinforza. Non diversamente da questa, costituisce infatti uno spazio comune al quadro e a ciò che gli è esterno. Ma la finestra opera in virtù del movimento continuo di un’effusione che da destra a sinistra unisce ai personaggi attenti, al pittore, al quadro, lo spettacolo che contemplano; lo specchio invece, grazie a un movimento violento, istantaneo e di pura sorpresa cerca di qua dal quadro ciò che è guardato ma non visibile, al fine di restituirlo, sul fondo di questo spazio inventato, visibile ma indifferente a tutti gli sguardi. Il tratteggio imperioso che unisce il riflesso e ciò che in esso si riflette recide perpendicolarmente il flusso laterale della luce. Infine - ed è questa la terza funzione dello specchio -affianca una porta che si apre come esso nel muro di fondo. Anche questa ritaglia un rettangolo chiaro la cui luce opaca non s’irraggia nella stanza. Non sarebbe che un riquadro dorato se non fosse scavato verso l’esterno da un battente scolpito, dalla curva di una tenda e dall’ombra di alcuni scalini. Qui comincia un corridoio; ma invece di sprofondarsi nell’oscurità si disperde in uno sfolgorio giallo ove la luce senza entrare turbina su se stessa e riposa. Su questo sfondo vicino e illimitato a un tempo, un uomo si stacca nella sua alta figura; è di profilo; con una mano trattiene il peso di un tendaggio; i suoi piedi sono posti su due gradini diversi; ha il ginocchio piegato. Forse entrerà nella stanza; forse si limiterà a spiare ciò che in essa accade, contento di sorprendere senza essere osservato. Non diversamente dallo specchio egli fissa il rovescio della scena: e, al pari dello specchio, non gli si presta attenzione alcuna. Non si sa donde viene; si può supporre che seguendo malcerti corridoi abbia aggirato la stanza ove i personaggi sono riuniti e in cui lavora il pittore; anch’egli forse era, poco fa, sul davanti della scena nella regione invisibile che contemplano tutti gli occhi del quadro. Come le immagini che si scorgono nel fondo dello specchio è forse un emissario di questo spazio evidente e nascosto. Vi è tuttavia una differenza: è là in carne ed ossa; sorge dal di fuori, al limite dell’area rappresentata; è indubitabile - non riflesso probabile ma irruzione. Lo specchio facendo vedere, di là degli stessi muri dello studio, ciò che avviene di qua dal quadro, fa oscillare, nella sua dimensione sagittale, l’interno e l’esterno. Con un piede sullo scalino e il corpo interamente di profilo il visitatore ambiguo entra ed esce a un tempo, in un bilanciamento immobile. Ripete sul posto, ma nella realtà scura del suo corpo, il movimento istantaneo delle immagini che attraversano la stanza, penetrano lo specchio, vi si riflettono e ne rimbalzano, nuove e identiche, sotto l’aspetto di forme visibili. Pallide, minuscole, le figure nello specchio sono respinte dall’alta e solida statura dell’uomo che sorge nel vano della porta. Ma occorre ridiscendere dal fondo del quadro verso la parte anteriore della scena; occorre lasciare il circuito di cui abbiamo percorso la voluta. Partendo dallo sguardo del pittore che, a sinistra, costituisce come un centro spostato, si scorge anzitutto il rovescio della tela, poi i quadri esposti con nel centro lo specchio, poi la porta aperta, poi altri quadri, dei quali una prospettiva molto scorciata lascia vedere solo le cornici nel loro spessore, infine, all’estrema destra, la finestra, o piuttosto lo squarcio attraverso cui irrompe la luce. Questa conchiglia elicoidale offre l’intero ciclo della rappresentazione: lo sguardo, la tavolozza e il pennello, la tela innocente di segni (vale a dire gli strumenti materiali della rappresentazione), i quadri, i riflessi, l’uomo reale (vale a dire la rappresentazione ultimata ma come redenta dei suoi contenuti illusorio veri che le sono giustapposti); poi la rappresentazione si scioglie: ormai se ne vedono soltanto le cornici e la luce che dall’esterno impregna i quadri, ma che questi di rimando devono ricostituire nella loro natura propria come se venisse da un altro luogo attraversando le loro cornici di legno scuro.

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E questa luce è infatti visibile sul quadro che sembra sorgere nell’interstizio della cornice; e da lì raggiunge la fronte, gli zigomi, gli occhi, lo sguardo del pittore che tiene in una mano la tavolozza, nell’altra il sottile pennello... In tal modo si chiude la voluta o piuttosto, grazie a questa luce, si apre. Quest’apertura non è più, come sullo sfondo, una porta che è stata socchiusa: è l’ampiezza stessa del quadro, e gli sguardi che l’attraversano non sono quelli di un visitatore lontano. Il celetto che occupa il primo e il secondo piano del quadro rappresenta - se vi includiamo il pittore - otto personaggi. Cinque di essi, con la testa più o meno china, voltata o piegata, guardano in direzione perpendicolare al quadro. Il centro del gruppo è occupato dalla piccola infanta, con la sua ampia veste grigia e rosa. La principessa gira la testa verso la destra del quadro, mentre il suo busto e i grandi volanti della veste fuggono leggermente verso la sinistra; ma lo sguardo cade diritto sullo spettatore che si trova di fronte al quadro. Una linea mediana che dividesse la tela in due ante uguali passerebbe tra gli occhi della bambina. Il suo volto è a un terzo dell’altezza totale del quadro. Di modo che lì, senza alcun dubbio, risiede il tema principale della composizione; li, l’oggetto stesso di questo dipinto. Come per dimostrarlo e sottolinearlo ancor meglio l’autore è ricorso ad una figura tradizionale: vicino al personaggio centrale ne ha posto un altro inginocchiato e che lo sta guardando. Come il donatore in preghiera, come l’Angelo che saluta la Vergine, una governante in ginocchio tende le mani verso la principessa. Il suo volto si staglia secondo un perfetto profilo. È, all’altezza di quello della bambina. La governante guarda la bambina e non guarda che lei. Un po’ più verso destra c’è un’altra damigella, voltata anch’essa verso l’infanta, leggermente china su di lei, ma con gli occhi chiaramente volti in avanti, dove già guardano il pittore e la principessa. Infine due gruppi di due personaggi: l’uno è più indietro, l’altro, composto di nani, è in primissimo piano. In ognuna delle due coppie un personaggio guarda dritto davanti a sé, l’altro a destra o a sinistra. Per posizione e statura questi due gruppi si rispondono e si duplicano: in secondo piano i cortigiani (la donna a sinistra guarda verso destra); in primo piano i nani (il bambino che è all’estrema destra guarda verso l’interno del quadro). Questo insieme di personaggi, così disposti, può costituire due figure, a seconda dell’attenzione che si porta al quadro o del centro di riferimento che si sceglie. La prima sarebbe una grande X; al punto superiore sinistro vi sarebbe lo sguardo del pittore e a destra quello del cortigiano; all’estremità inferiore sinistra vi è l’angolo della tela vista dal retro (più esattamente, il piede del cavalletto); a destra il nano (più esattamente la sua scarpa posta sul dorso del cane). All’incrocio di queste due linee, nel centro della X, lo sguardo dell’infanta. L’altra figura sarebbe piuttosto una vasta curva; i suoi due punti estremi sarebbero determinati dal pittore a sinistra e dal cortigiano di destra - estremità alte e retrocesse; l’incavo, molto più ravvicinato, coinciderebbe con il volto della, principessa, e con lo sguardo che ad esso rivolge la governante. Questa linea leggera disegna una vasca, la quale a un tempo rinserra e libera in mezzo al quadro l’arca dello specchio. Due sono quindi i centri che possono organizzare il quadro, a seconda di come l’attenzione ondeggi e si fermi qui o là. La principessa è ritta in mezzo ad una croce di Sant’Andrea ruotante intorno a lei col turbine dei cortigiani, delle damigelle d’onore, degli animali e dei buffoni. Ma questo ruotare è bloccato. Bloccato da uno spettacolo che sarebbe assolutamente invisibile se questi stessi personaggi, improvvisamente immobili, non offrissero come nel cavo d’una coppa la possibilità di guardare nel fondo dello specchio il duplicato imprevisto della loro contemplazione. Nel senso della profondità la principessa si sovrappone allo specchio; in quello dell’altezza è il riflesso che si sovrappone al volto. Ma la prospettiva li rende vicinissimi l’uno all’altra. Ora, da ciascuno di essi scaturisce una linea inevitabile; l’una, spuntata dallo specchio, varca l’intero spessore rappresentato (e anche di più, dal momento che lo specchio fora il muro di fondo e fa nascere dietro di esso un altro spazio); l’altra è più breve; proviene dallo sguardo della bambina e attraversa solo il primo piano. Queste due linee sagittali sono convergenti secondo un angolo molto acuto e il punto del loro incontro, scaturendo fuori della tela, si fissa davanti al quadro press’a poco là da dove guardiamo. Punto incerto poiché non lo vediamo; punto inevitabile tuttavia e perfettamente definito, essendo imposto da queste due figure sovrane e confermato ulteriormente da altre tratteggiate adiacenti che nascono dal quadro e se ne scostano anch’esse. Cosa vi è infine in questo luogo perfettamente inaccessibile in quanto esterno al quadro, ma imposto da tutte le linee della sua composizione? Di quale spettacolo si tratta, a chi appartengono i volti che si riflettono dapprima nel fondo delle pupille dell’infanta, poi in quelle dei cortigiani e del pittore, e da ultimo nella luminosità lontana dello specchio? Ma la domanda immediatamente si sdoppia: il volto riflesso dallo specchio è al tempo stesso quello che lo contempla; ciò che guardano tutti i personaggi del quadro sono ancora i personaggi ai cui occhi essi vengono offerti come una scena da contemplare. Il quadro nella sua totalità guarda una scena per la quale esso a sua volta è una scena. Pura reciprocità che lo specchio guardante e guardato manifesta, e i cui due momenti sono risolti ai due angoli del quadro: a sinistra il rovescio della tela ad opera del quale il punto esterno diviene puro spettacolo; a destra il cane disteso, unico elemento del quadro che non guardi né si muova, essendo fatto, con la sua massa voluminosa e la luce che gioca nel pelo lucido, soltanto per essere un oggetto da guardare.

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La prima occhiata sul quadro ci ha insegnato di che cosa è fatto questo spettacolo-a-fronte. Si tratta dei sovrani. Possiamo già intuire la loro presenza nello sguardo rispettoso del gruppo, nello stupore della bambina e dei nani. Li riconosciamo all’estremità del quadro, nelle due figurine che lo specchio fa scintillare. In mezzo a tutti questi volti attenti, a tutti questi corpi addobbati, essi sono la più pallida, la più irreale, la più compromessa di tutte le immagini: un movimento, un po’ di luce basterebbero a farli svanire. Di tutti questi personaggi rappresentati essi sono inoltre i più trascurati, poiché nessuno presta attenzione al riflesso che s’insinua dietro tutti e s’introduce silenziosamente attraverso uno spazio insospettato; nella misura in cui sono visibili sono la forma più fragile e più lontana da ogni realtà. Inversamente, nella misura in cui, situandosi all’estremo del quadro, sono ritirati in una invisibilità essenziale, essi ordinano intorno a sé tutta la rappresentazione; è ad essi che si sta di fronte, è verso di essi che ci si volta, è ai loro occhi che viene presentata la principessa nel suo vestito di festa; dal rovescio della tela all’infanta e da questa al nano che gioca all’estrema destra, una curva si disegna (oppure, il tratto inferiore della X si apre) per ordinare al loro sguardo tutta la disposizione del quadro e fare apparire in tal modo il vero centro della composizione cui sono sottomessi in ultima analisi lo sguardo dell’infanta e l’immagine nello specchio. Questo centro è simbolicamente sovrano nell’aneddoto, essendo occupato dal re Filippo IV e da sua moglie. Ma lo è soprattutto in virtù della triplice funzione che occupa in rapporto al quadro. In esso si sovrappongono esattamente lo sguardo del modello nel momento in cui viene dipinto, quello dello spettatore che contempla la scena e quello del pittore nel momento in cui compone il suo quadro (non quello che è rappresentato ma quello che è davanti a noi e del quale parliamo). Queste tre funzioni "guardanti" si confondono in un punto esterno al quadro: cioè ideale in rapporto a ciò che è rappresentato ma perfettamente reale, giacché solo a partire da esso diviene possibile la rappresentazione. In questa medesima realtà esso non può non essere invisibile. Eppure questa realtà è proiettata all’interno del quadro -proiettata e diffratta in tre figure che corrispondono alle tre funzioni di quel punto ideale e reale. Esse sono: a sinistra il pittore con la tavolozza in mano (autoritratto dell’autore del quadro); a destra il visitatore, con un piede sullo scalino, pronto a entrare nella stanza: questi coglie a rovescio l’intera scena, ma vede frontalmente la coppia reale, che è lo spettacolo stesso; al centro infine il riflesso del re e della regina, addobbati, immobili, nell’atteggiamento di modelli pazienti. Riflesso che mostra ingenuamente e nell’ombra ciò che tutti guardano in primo piano. Restituisce come per magia ciò che manca ad ogni sguardo: a quello del pittore, il modello che il suo duplicato figurativo copia là sul quadro; a quello del re il suo ritratto che è in via di compimento sul versante della tela che egli non può percepire da dove si trova; a quello dello spettatore il centro reale della scena, di cui ha preso il posto come per effrazione. Ma questa generosità dello specchio è forse finta: esso forse nasconde altrettanto e più di quanto manifesti. Il posto in cui troneggia il re con sua moglie è anche quello dell’artista e quello dello spettatore: in fondo allo specchio potrebbero apparire - dovrebbero apparire - il volto anonimo del passante e quello di Velazquez. La funzione reale di questo riflesso è infatti di attirare all’interno del quadro ciò che gli è intimamente estraneo: lo sguardo che lo ha organizzato e quello verso il quale si offre. Ma essendo presenti nel quadro, a sinistra e a destra, l’artista e il visitatore non possono essere disposti nello specchio: viceversa il re appare in fondo allo specchio, in quanto appunto egli non appartiene al quadro. Nella grande voluta che percorreva il perimetro dello studio, dallo sguardo del pittore, con la tavolozza e la mano sospesa, fino ai quadri ultimati, la rappresentazione nasceva, si compiva per disfarsi di nuovo nella luce; il ciclo era perfetto. In compenso le linee che attraversano la profondità del quadro sono incomplete; a tutte manca una parte del loro tragitto. Questa lacuna è dovuta all’assenza del re - assenza che è un artificio del pittore. Ma questo artificio cela e indica un vuoto che è invece immediato: quello del pittore o dello spettatore nell’atto di guardare o comporre il quadro. Ciò accade forse perché in questo quadro come in ogni rappresentazione di cui, per così dire, esso costituisce l’essenza espressa, l’invisibilità profonda di ciò che è veduto partecipa dell’invisibilità di colui che vede - nonostante gli specchi, i riflessi, le imitazioni, i ritratti. Tutt’attorno alla scena sono deposti i segni e le forme successive della rappresentazione; ma il duplice rapporto che lega la rappresentazione al suo modello e al suo sovrano, al suo autore non meno che a colui cui ne viene fatta offerta, tale rapporto è necessariamente interrotto. Esso non può mai essere presente senza riserva, fosse pure in una rappresentazione che offra se stessa in spettacolo. Nella profondità che attraversa la tela, che illusoriamente la scava e la proietta di qua da essa medesima, non è possibile che la pura felicità dell’immagine dia mai in piena luce il maestro che rappresenta e il sovrano rappresentato. Vi è forse in questo quadro di Velazquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la definizione dello spazio che essa apre. Essa tende infatti a rappresentare se stessa in tutti i suoi elementi, con le sue immagini, gli sguardi cui si offre, i volti che rende visibili, i gesti che la fanno nascere. Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce - di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto - che è il medesimo - è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione.

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JO H A N N JOAQ U I M W I N C K E L M A N N

VITA E OPERE Johann Joaquim Winckelmann nacque a Stendal (Magdeburgo) nel 1717, da una famiglia modesta. Fece studi irregolari. Nel 1754 soggiornò a Dresda presso l'ambasciatore vaticano Albertino Archinto, che gli affidò la sua biblioteca. Nel 1755 dopo essersi convertito al cattolicesimo si trasferì a Roma dove entrò come bibliotecario al servizio del cardinale Alessandro Albani. Nel 1762 nel primo dei suoi viaggi a Napoli, visitò Pompei e Ercolano, spingendosi fino a Paestum, di cui fu il primo a svelarne l'importanza storico-archeologica. Nel 1764 divenne sovrintendente ai monumenti antichi di Roma. Morì assassinato (forse per una rapina) in una locanda di Trieste, nel 1768, di ritorno da un viaggio in Germania. Considerato il fondatore dell'archeologia scientifica, ebbe una fortissima influenza sulle posizioni artistiche letterarie e filosofiche del suo tempo. I suoi scritti Considerazioni sull'imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, 1755) e "Storia dell'arte nell'antichità (Geschichte der Kunst des Altertums, 1764) posero in primo piano l'arte greca, anche se solo conosciuta attraverso le copie romane: in essa, Winckelmann vide realizzato l'ideale della bellezza come specchio di una umanità autonoma, caratterizzata da una armonica fusione di corpo e di spirito, da un nobile dominio delle passioni. Le sue idee si inserirono nell'idealizzazione della grecità propria di tutto il XVIII secolo tedesco, fino al classicismo di Weimar e al primo romanticismo. Furono tra le fonti principali della poetica neoclassicista, e della visione della grecità come serena olimpica e superiore armonia: una visione che sarà poi aspramente criticata dal tardo romanticismo e da Nietzsche, che svelerà - in La nascita della tragedia (1871) - come i Greci avessero piena percezione della tragedia esistenziale . La sua immagine dell'arte greca ebbe larghissima risonanza. Nel campo della storia dell'arte, il suo contributo andò nella direzione di una storia oggettiva, incentrata sulle opere e sull'evoluzione degli stili. Sottolineando dal punto di vista artistico l'aspetto creativo e non puramente mimetico dell'opera d'arte. Winckelmann è il fondatore della moderna archeologia, che non diventa più un interesse di natura antiquaria, ma un vero e proprio programma d’indagine. E’ il primo che rintraccia una linea coerente, finalizzata a scoprire “l’essenza dell’arte” attraverso le opere classiche, quali esempi di perfezione assoluta e ideale estetico. Inoltre, è il primo ad analizzare le opere d’arte antica seguendo un criterio stilistico e formale. La fortuna delle sue teorie contribuisce a determinare una vera corrente di gusto, il neoclassicismo, anche perché con lui la storia dell’arte diventa anche il fine dell’acquisizione estetica. In questo periodo, le grandi scoperte di Pompei ed Ercolano, il vento esotico delle campagne napoleoniche in Egitto, che valsero la scoperta dell’importantissima Stele di Rosetta, l’interesse per l’arte e l’archeologia coinvolsero gli uomini di cultura, come, ad esempio Goethe e Mérimée. Questo interesse non poteva prescindere dall’eredità winckelmanniana. Winckelmman morì a Trieste, tra dolori atroci, nello squallore di una camera d’albergo, per mano di un popolano butterato, proprio lui, che aveva mitizzato la bellezza di Apollo, senza “tendini né vene”, sublime, incontaminata da sangue e umori. IL PENSIERO Celeberrima è la definizione di Winckelmann delle statue greche come espressione di "nobile semplicità e serena grandezza": semplicità nel senso di essenzialità, universalità e non esagerazione, naturalezza e spontaneità, naturale sviluppo di una forma verso la sua perfezione; grandezza, invece, nel senso di onnicomprensività, magnanimità, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui - egli nota - queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza gli uomini comuni; esse sono del tutto transumanizzate, raffigurano un'umanità che non è in lotta con le proprie passioni, ma che le ha già sopite. L’interruzione medievale – con il suo temporaneo smarrimento del mondo antico - non implica una frattura nella continuità che lega antichi e moderni grazie alla ragione di cui essi sono parimenti dotati; ed è per questo motivo che il neoclassicismo settecentesco condivide, per un verso, la concezione del ritorno agli antichi come riattualizzazione della ragione, ma, per un altro verso, presenta spiccate varianti nazionali: così in Francia e in Germania esso si rivela particolarmente interessato alla sfera etica, prendendo gli antichi a modello di comportamento. Ma – chiediamoci – da dove trae origine questo improvviso interesse per il mondo greco? Soprattutto dagli scavi di Ercolano e di Pompei che si stavano a quei tempi realizzando e che inducono a far cambiare radicalmente i gusti per quel che concerne l’arredo: dal barocco si passa rapidamente alla linea dritta, con un maniacale attaccamento allo

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stile greco. I Francesi, poi, guardano soprattutto alle virtù civili e repubblicane degli antichi, che sono una "scuola di costumi" (Diderot) da prendere come esempio per il proprio comportamento; così gli eroi di cui parla Plutarco nelle sue Vite parallele (Muzio Scevola, Attilio Regolo, ecc) assurgono ora – grazie soprattutto ai capolavori di David - a modelli comportamentali imprescindibili per i Francesi; è, in certo senso, la borghesia che rivendica i suoi diritti di contro ad un’aristocrazia sempre più antiquata e soffocante, che si ostina a conservare un ruolo che più non le compete, coprendosi sempre più spesso di ridicolo, come lascia trasparire Parini in Il giorno. Il proposito è dunque quello di edificare con l’arte il cittadino, ed è in questo clima che nasce e si sviluppa a dismisura il museo, come luogo di conservazione e di tesaurizzazione di questi modelli greci che non finiscono mai di istruirci. Sull’altro versante, il neoclassicismo tedesco non guarda tanto alle virtù civiche quanto piuttosto all’uomo greco in quanto tale, oggetto di ammirazione, imitazione e nostalgia: la bella umanità dei Greci suscita un profondo senso di nostalgia e di rimpianto, e ad attirare i Tedeschi non è la filosofia o l’arte greca in quanto tali, ma è l’uomo greco stesso, nella sua perfezione stupefacente, di contro al classicismo rinascimentale che invece si proponeva di riattualizzare innanzitutto la cultura antica. Ciò implica un’accesa polemica contro il cristianesimo in favore della cultura greca (o, meglio, dell’uomo greco), sfociante in un generalizzato tentativo di tornare ai greci imitando le loro opere: la cosa forse più interessante è che i Tedeschi imitano le opere greche in maniera funzionale, e, più precisamente, per cercar di essere Greci, quasi come se ciò fosse il tramite che conduce all’imitazione di quell’umanità. La stessa bellezza dell’arte greca è del tutto dovuta alla bellezza di cui gli uomini greci rifulgevano in modo abbagliante: un’arte che ci presenta in maniera sorprendente l’uomo quale deve essere, forse quale veramente è stato e, magari, quale potrebbe tornare ad essere. Là dove interviene la nostalgia, essa non fa che segnalare che c’è stata una frattura tra il presente ed il passato, a cui si vorrebbe tornare, consapevoli di quanto esso fosse diverso (e migliore): da ciò si evince come gli antichi fossero altri rispetto ai moderni; in particolare, la differenza è data da una diversa esperienza della finitezza. Infatti, quella greca è un’umanità capace, pur nei propri limiti, di una pienezza d’essere pressoché divina in cui trovare appagamento, sicchè a quell’umanità resta completamente estranea la percezione della propria finitezza come di un limite al raggiungimento della propria perfezione (cosa peraltro su cui Nietzsche avrà da ridire): ai Greci manca, dunque, quell’anelito all’infinito che caratterizza la dilacerata umanità dei moderni, consapevoli della propria limitatezza e, perciò, infelici. Ciò che ai greci manca è la consapevole distinzione tra finito e infinito, distinzione di cui solo la filosofia greca è conscia: ma la filosofia greca, per quanto importante, non può essere in alcun caso fatta coincidere con l’uomo greco in quanto tale, quale lo troviamo nell’epoV omerico. Si tratta in certo senso di un’autentica greco-mania dilagante nella Germania di quegli anni, in cui i più vivaci ingegni avvertono la propria finitezza di moderni come un doloroso limite al raggiungimento della perfezione, onde il loro anelito all’infinito. Così scrive Herder: "i greci non ammettevano nessuna sfrenatezza, si fosse anche trattato di indagini su Dio; ritenevano anzi che queste ultime fossero contrarie alla natura dell’uomo, alla misura delle sue forze, alla durata della sua vita […]. Ciò che s’aveva da fare era riconoscere la propria dimensione umana […]. Si direbbe che noi abbiamo alquanto perso di vista i placidi contorni di questa esistenza umana, giacché a quei limiti preferiamo di gran lunga l’infinito e crediamo che l’unica occupazione della Provvidenza debba essere di sottrarci a quei limiti". Nel 1805, Goethe scrive un saggio su Winckelmann e il suo secolo, in cui afferma: "mentre l’uomo, moderno quasi in ogni sua meditazione, si lancia verso l’infinito per poi far ritorno - quando gli riesce - ad un punto delimitato, gli antichi, senza perdersi in ulteriori deviazioni, si sentivano immediatamente e pienamente a proprio agio entro gli amabili confini di questo che era un mondo bello". Augusto Gustavo Schlegel così si esprime in merito: "presso i Greci, la natura umana era autosufficiente e non aspirava ad altra perfezione che non fosse quella realmente raggiungibile con le proprie forze […]. Nella prospettiva cristiana tutto si è capovolto […]. La poesia degli antichi era poesia del possesso, la nostra della nostalgia". Scrive ancora Federico Schlegel: "l’antichità è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto" e quindi da ogni tensione del finito verso l’infinito; nel mondo greco viene ravvisato un autentico teomorfismo in cui l’uomo, perfetto, può bearsi di se stesso, in quanto egli è, in primis, pieno e armonico sviluppo di tutte le parti umane, cosicchè "solo l’armonica temperanza di tutte le facoltà può produrre uomini felici e perfetti" (Schiller) ed è appunto in ciò che risiede la perfetta natura dei greci di cui parla Winckelmann. Federico Schlegel così si esprime: "come nell’animo del Diomede omerico tutte le forze si accordano perfettamente, così l’intera umanità si sviluppò in Grecia in maniera armonica e perfetta", poiché risultato dell’armonia di tutte le facoltà. In secundis, il prodursi di siffatta armonica perfezione non poteva che essere naturale, ossia immediato e irriflesso. "Il moderno ebbe assegnato dall’intelletto che tutto separa le proprie forme", nota Schiller, e di conseguenza "il moderno non sviluppa mai l’armonia del suo essere" a causa della riflessione, sicchè mentre il moderno è dominato dal nefasto intelletto, "l’individuo greco ebbe assegnate le sue forme dalla natura che tutto unisce". Federico Schlegel asserisce a tal proposito che "l’arte greca è libera dalla signoria dell’intelletto" e perciò non è impacciata dalla riflessione intellettuale e può

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svilupparsi liberamente alla stregua di un organismo; infatti – prosegue Schlegel - "in Grecia la bellezza crebbe senza cure artificiali e – per così dire – allo stato brado. Sotto questo cielo felice, l’arte figurativa non fu abilità appresa, ma natura originaria; la sua formazione non fu che il liberissimo sviluppo di una felicissima disposizione". La contrapposizione tra la cultura naturale degli antichi e quella artificiale dei moderni non può non richiamare alla memoria Rousseau e la sua tesi, seppur qui arricchita dal mondo greco. L’intelletto produce infatti indebite divisioni e mescolanze, cosicchè all’armonia dell’uomo greco doveva corrispondere una coscienza in cui la riflessione discorsiva ancora non spadroneggiava ed egli si trovava sospeso in una percezione beatifica della propria perfezione naturale, a tal punto che – per dirla con Schiller - "quell’uomo era uno con se stesso e felice nel sentimento della propria umanità", di contro alla riflessione che distingue e contrappone finito ed infinito, dando all’uomo la dolorosa percezione della propria limitatezza. Tale riflessione mancava ai greci e, quindi, presso di loro non vi era contrapposizione tra sensibilità e ragione né, di conseguenza, il prevalere dell’una sull’altra, come invece avviene ai moderni, divisi o per un unilaterale sviluppo del sensismo materialistico o per via di un unilaterale razionalismo sfociante nel rigorismo etico a cui era approdato Kant. I Greci di cui qui Winckelmann, Schiller, Schlegel e Goethe parlano non sono tuttavia quelli della filosofia – anch’essi già alle prese con la riflessione -, ma piuttosto quelli di Omero e della statuaria, cosicchè la filosofia greca subentra come un elemento di disturbo proveniente dall’Oriente, e non tanto come una componente che porta all’apice il mondo greco. Già nella tragedia e nella poesia lirica, del resto, si palesa la contrapposizione tra finito e infinito, quella contrapposizione che porterà alla morte dell’umanità greca. Per i filosofi greci – perfettamente consapevoli della distinzione tra finito e infinito – la perfezione dell’arte è già un ideale, e non qualcosa di realmente esistente nella natura, tant’è che l’artista è da essi concepito come colui che raffigura una perfezione fittizia, che mai potrà darsi in questo mondo. Secondo Winckelmann, invece, l’artista greco non faceva altro che cogliere l’umanità greca nella sua reale (e non ideale) bellezza, dando vita a statue raffiguranti un uomo perfetto che è tale perché non ancora signoreggiato da quella riflessione che, dove presente, rende insicuri e sofferenti. Merito storico di Winckelmann è soprattutto la scoperta e la rivelazione della grecità e della sua perfezione; egli intende se stesso, più che come archeologo o storico dell’arte, come pedagogo che rivela l’uomo greco e tale è lo scopo che affida alle sue veementi descrizioni delle opere greche; la grecità quale egli la concepisce non è un passato ineluttabilmente trascorso, ma è piuttosto una forza viva e presente, un modo d’esser uomini che può e che deve tornare ad essere operante, educando l’uomo a raggiunger la sua vera umanità. Nei suoi scritti – soprattutto in Storia dell’arte e dell’antichità (1764) -, Winckelmann attacca duramente il barocco e sostiene che l’arte greca racchiude in sé un’etica e una pedagogia, cosicchè all’opera d’arte spetta – in quanto veicolo dello spirito greco – uno statuto e una funzione sacramentale, e tale è l’esperienza personale che Winckelmann ha avuto, vivendo in sé l’accendersi di una interiore e latente grecità che torna a rivivere al contatto con quella esteriore delle opere d’arte greche; ed egli invita tutti a rivivere ciò che egli ha vissuto, giacchè la grecità è una possibilità perenne dell’uomo, innata e coltivabile: si tratta di assimilarsi all’uomo greco, facendo rivivere in sé ciò che si imita, cosa possibile appunto perché il greco è virtualmente presente in ciascuno di noi. Si tratta solo di risvegliarlo e, per far ciò, occorre entrare in intimo contatto con le opere greche e con il mondo che da esse trasuda: è, questa, una rivisitazione del concetto cristiano dell’imitazione di Cristo, secondo cui l’incontro col Cristo annunciato dalle Scritture ridesta in noi il Cristo, quella scintilla divina rimasta latente nell’uomo nonostante il peccato originale. Come il vero imitatore di Cristo è colui in cui Cristo rinasce e rivive, così il vero imitatore dei Greci è chi si trasmuta in essi, facendoli rivivere entro di sé, in tutta la loro bella umanità; e in Winckelmann l’imitazione dei greci non fa che scacciare e rimpiazzare quella di Cristo, cosicchè la salvezza dell’uomo è racchiusa nei greci stessi. Ma si tratta di una grecità aspaziale e atemporale (Winckelmann mai giunse in Grecia), che in realtà finisce per identificarsi con Roma; egli contrappone gli antichi e i moderni e, per di più, scalza il cristianesimo, sostituendolo con la grecità, accentuando al massimo l’immanentismo, di contro al trascendentismo a cui porta il cristianesimo: l’uomo è, grecamente, artefice e creatore di sé e della propria humanitas, e la paideia dell’arte antica mira appunto ad educare a questo ideale per cui l’uomo diventa veramente uomo e mito al tempo stesso, tramutandosi in essere prometeico. Nella lirica I segreti così scrive Goethe: "allorchè la sana natura dell’uomo agisce come un tutto, allorchè egli si sente nel mondo come in un grande tutto e allorchè l’armonico equilibrio produce in lui una pura e libera estasi, allora il cosmo, se mai potesse aver sentimento, esulterebbe perché avrebbe raggiunto il proprio fine". L’uomo greco, così inteso, appare come teofania del nuovo dio della religione umanistica quale appare nell’arte. Così si interroga Hölderlin: "perché son legato alle coste della Grecia e le amo più della mia stessa patria? Perché sono il paradiso e il regno di Dio". Così concepita, la grecità non è un mero passato, ma anzi si configura come un possibile futuro: significativamente, Quasimodo ha intitolato una sua raccolta di versi L’antichità come futuro, con un titolo che ben rispecchia la concezione di questi autori, per cui la nostalgia non è sterile, ma produttiva, tesa a ripartorire quell’uomo ideale che visse coi Greci. Un punto nodale del pensiero di Winckelmann è dato dalla sua dura critica ai danni del barocco, età in cui – egli

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nota amaramente – trionfano i due grandi errori condannati dal classicismo: l’eccessivo naturalismo e il dilagare incontrollato della soggettività dell’artista; nell’arte barocca – l’arte della controriforma, tendente dunque ad una serrata propaganda religiosa – l’uomo è raffigurato nella sua finitezza peccaminosa e, al contempo, nella sua redentrice relazione con Dio: in questo modo, egli è homo viator, colto in tutta la sua contraddittorietà derivantegli dalla sua finitezza, cosicchè ci si trova dinanzi ad un’umanità in lotta tra sensualità e ascesi, tra gioia di vivere e negazione del mondo, in costante tensione e in perenne sforzo. Non è un caso che la cifra dell’arte barocca sia la torsione: così, in torsione sono le statue (pensiamo all’Estasi di S. Teresa del Bernini) ed esse non fanno altro che raffigurare un’umanità contorcentesi in preda a lacerazioni irrisolte, mai in quiete (non a caso i personaggi sono spesso raffigurati col corpo voltato, in preda allo stupore, o col corpo perigliosamente poggiante su di un sol piede): Ninfe rapite e Santi martirizzati ben simboleggiano questo turbinio di movimento incessante di un’arte che è analoga all’umanità che raffigura. Winckelmann asserisce che quest’arte (ai suoi tempi divenuta rococò), lungi dal condurre l’uomo a se stesso, lo perde nel contraddittorio labirinto della sua finitezza, salvo poi predicare la redenzione divina (e qui sovvengono i dipinti barocchi dei cieli divini sulle volte affrescate). La seconda caratteristica deteriore del barocco è il suo soggettivismo, il narcisismo di cui l’autore si macchia, come ben sapeva il Marino quando predicava che "è dell’artista il fin, la meraviglia". Mentre l’artista classico è preso dalla contemplazione e dalla raffigurazione della bellezza, sgombrando l’opera dalla sua presenza, l’artista barocco visibilizza innanzitutto se stesso e non l’oggettiva bellezza, e, così facendo, mantiene il fruitore dell’opera d’arte nella sua soggettiva finitezza. La bella umanità dei Greci è tale perché totalità e armonia delle facoltà e ciò è stato possibile perché tale era realmente la natura greca: in questa maniera, Winckelmann fa proprie alcune notazioni di Montesquieu sull’influenza del clima nell’evolvere delle culture che in esso si sviluppano. Il clima greco è il clima dell’eterna primavera, ottimale per la nascita di una cultura strepitosa: di qui – secondo Winckelmann – i corpi snelli dei Greci che, sotto il loro cielo azzurro e terso, rispecchiante il loro beato stato d’animo, hanno raggiunto in pieno l’umanità. Beffardamente interrogato se tutti i Greci fossero belli quali li si osservano nelle statue, Winckelmann rispose causticamente che magari non tutti eran così belli, ma che comunque davanti a Troia vi era un solo Tersite. Winckelmann identifica di volta in volta la propria concezione dell’umanità greca in diversi topoi, uno dei quali è dato dall’Apollo adolescente, raffigurazione tipica dell’armonia, in quanto nell’adolescente è raffigurata la tipica totalità aurorale di chi è giovane; si tratta dello svelarsi di un cosmo virtuale, che fa sì che l’adolescente sia un plesso di possibilità ancora inespresse, giacchè è ancora un tutto non specializzato, si trova in uno stato di grazia scevro di scissioni e contrapposizioni. In questo senso, è colta l’eterna giovinezza di questa umanità eterna e priva di artificio, poiché la riflessione c’è, sì, ma non domina ancora incontrastata, senza comunque che vi siano eccessi di spontaneità. Tale condizione di puer aeternus appare sì come un dono di quel cielo azzurro e terso che risplende sulla Grecia, ma è un dono coltivato e sviluppato opportunamente, e tal bellezza è massima espressione di benessere; ne emerge quella che Winckelmann definisce come la nonchalance dei Greci, e che ancora Kierkegaard – quando parla di Socrate – battezza come "noncuranza" greca. "Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interiore" e – prosegue Winkelmann - "nella quiete e nella tranquillità del corpo si palesa la grandezza posata dell’animo, sublime e nobile immagine di una così perfetta natura"; quello che leggiamo sulle statue greche è l’atteggiamento di chi, lungi dal nuotare faticosamente contro corrente, si lascia portare dalla corrente, galleggiando con leggerezza perché è già compiutamente se stesso. Così, gli eroi greci son sempre colti in posa, stanno e sono se stessi, dunque in riposo, appoggiati, "gli dei e gli eroi sono rappresentati in piedi come nei luoghi sacri ove alberga la quiete, e non come nel gioco dei venti o in una sbandierata", come invece vengono tratteggiati nell’arte barocca (pensiamo ai suoi mantelli svolazzanti). Sono in pace con se stessi perché in loro essere e dover essere coincidono, sicchè siamo lontanissimi da una vita febbrile e fabbrile, con un evidente parallelismo con la polemica rousseauiana condotta contro il modus vivendi della borghesia. Quella dei Greci era una vita trascorsa in ozio (la scolh greca), una vita in cui non ci si occupava che della propria umanità e del resto Winckelmann, nel suo epistolario, ringrazia di continuo i suoi protettori, che gli han consentito l’ozio romano, quel dolce far niente italiano, senza scomposte agitazioni e sfociante nell’olimpica serenità del meridionale (non è un caso che Winckelmann viva in anni che costituiscono i prodromi della rivoluzione industriale). Quando egli parla dell'umanità dei meridionali, intende dire che essi son più uomini di quanto non lo siano i moderni suoi conterranei, sempre più integrati, come ingranaggi, nei ranghi della trionfante borghesia, sicchè il benessere di cui Winckelmann parla non è esente da coloriture epicuree. "A Roma sono vissuto", egli nota beatamente, e non diversamente Goethe dirà: "a Roma sono rinato". E’ infatti l’ozio – nella fattispecie quello vissuto a Roma – ad illuminare sul vero valore dell’esistenza, che deve essere coltivata e non sprecata. Nel paradiso dell’umanità si gioca e non si lavora, perché il gioco – in antitesi col lavoro – impegna e insieme non impegna tutte le facoltà dell’uomo, rendendo la sua vita un po’ come una festa giocosa. Ma le feste, come tutti sappiamo, son sempre minate dagli spettri del passato e da quelli del futuro,

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cosicchè il loro carattere peculiare è la costante delusione rispetto all’attesa (tematica brillantemente colta da Leopardi). Le feste risultano infatti perennemente insidiate dallo spauracchio del lavoro, di cui sono solo una vuota interruzione; si limitano a soppiantare temporaneamente l’angoscia con il vuoto. E tale vuoto della festa è un vano diversivo, astratto dal lavoro ma ad esso connesso, cosicchè nella festa il lavoratore si sente fuori luogo: l’autentica festa – nota Winckelmann – è l’ozio, reso possibile dalla pienezza e dalla compattezza che fan sì che si sia presenti a se stessi e non proiettati nel passato o nel futuro. Ciò avviene quando si contempla l’opera d’arte e, del resto, l’etimologia stessa di negotium (il termine latino che noi traduciamo con "lavoro", "impegno") è nec otium, il che rivela come il lavoro altro non sia se non la corruzione dell’ozio, quella condizione originaria dell’uomo celebrata anche da Federico Schlegel. Schiller, dal canto suo, cercherà una democratizzazione di quest’ozio elitariamente inteso da Winckelmann, che esalta sempre e di nuovo la libertà di Roma e della Svizzera, di contro al dispotismo nordico e francese. Si tratta della libertà non solo da mode, costumi, educazioni e morali soffocanti, ma anche dallo Stato e da una legislazione oppressiva, sicchè in questo senso Winckelmann apre veri e propri spiragli in direzione liberale; la libertà così intesa era a suo avviso presente presso i Greci, tant’è che la tunica greca non costringeva i corpi e così pure la nudità fisica era orientata ad un libero sviluppo psicologico. Dunque il contatto con quell’arte antica è di importanza vitale, e nell’Ottocento si darà vita ad una variante estetizzante del pensiero di Winckelmann, massimo esponente della quale fu Walter Pater col suo romanzo Mario l’epicureo. Schiller invece darà della visione di Winckelmann un approfondimento filosofico e soprattutto tenterà di coniugarla con la rigorosa prospettiva morale di Kant, fuggendo perciò agli estetismi.

Winckelmann e l'invenzione della storia dell'arte

Fausto Testa

Salutata da Herder, da Goethe, da Quatremère de Quincy quale atto di nascita di un nuovo modo di concepire la storia dell’arte, la Storia dell’arte nell’antichità di J.J. Winckelmann si inserisce tra i “grandi progetti d’ordine” elaborati dalla cultura europea nel corso del Secolo dei Lumi. Anticipando una rivoluzione epistemologica destinata a rimodellare, ormai alle soglie dell’Ottocento il quadro complessivo della cultura dell’Occidente, la Storia adotta la temporalizzazione come strumento atto ad organizzare in una nuova forma discorsiva il sapere relativo all’arte antica, abbandona la tassonomia a favore della storia trasformando il mero catalogo di oggetti canonico per la tradizione antiquaria, in una narrazione dei processi mutamento della forma nel tempo: nasce così la storia dell’arte come storia dello stile. Tutto accade però in un testo che appare per altro verso, adempimento dell’accorato appello a rinnovare la perfezione dell’arte ellenica lanciato da Winckelmann nei Pensieri sull’imitazione delle opere greche, il suo giovanile pamphlet antibarocco: “L’unica via per noi a farci grandi, anzi, ove possibil fosse, inimitabili, è l’imitazione degli antichi”. Nella successiva Storia accanto ad una spiegazione per “ragioni e cause” – informata ad un determinismo empirista alla Du Bos – dei caratteri peculiari alle diverse civiltà figurative dell’antichità, troviamo infatti una grandiosa celebrazione dell’ideale classico incarnato dall’arte greca nel momento del suo apogeo: anch’essa viene descritta come produzione storica, ma insieme proposta come modello di valore assoluto ed universale, l’imitazione del quale potrà salvare l’arte da quella alterazione patologica della forma che, agli occhi di Winckelmann si identifica con il Barocco. Attraverso una meticolosa rilettura critica dei testi dell’archeologo tedesco ed una loro raffinata contestualizzazione entro il quadro epistemico nel quale iniziano a svilupparsi, in seso alla cultura illuminista, l’estetica filosofica e le moderne scienze storiche, il volume di Fausto Testa – prima monografia dedicata a Winckelmann da uno studioso italiano – ricostruisce la complessa trama concettuale entro la quale, a partire da questo paradosso – recuperare al presente un modello estetico, il Classico, di cui la storia dimostra l’assoluta alterità – Winckelmann innalzò il suo grandioso edificio dottrinale. Produrre un’estetica in forma di storia appare esito necessario di tali presupposti, dai quali pure deriva la concezione dell’opera d’arte come immateriale e acromatico involucro disegnativo destinata ad informare di sé tanta parte della produzione figurativa neoclassica, ma in base ai quali è anche possibile cogliere, nell’inappagabile ansia di fondamenti che drammaticamente travaglia il pensiero di Winckelmann, il tratto di esso più autenticamente moderno. Un ricco apparato iconografico correda il volume, offrendo al lettore la possibilità di un viaggio per immagini nell’universo delle opere d’arte, antiche e moderne, a partire dalle quali, in un incessante confronto critico con le forme della creazione artistica, Winckelmann ha elaborato la propria concezione storiografica e la propria dottrina estetica.

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APPUNTI DI STORIA DELL’ARTE PROF.ARCH. FRANCESCO MORANTE

RINASCIMENTO

Il tema del ritorno all’antico nel rinascimento non ha un significato di restaurazione del passato, ma di ritorno a quella visione artistica, basata sul naturalismo, che già caratterizzava l’età classica, e che fu poi disattesa e modifica, in direzione fondamentalmente anti-naturalistica, dall’arte del periodo medievale. Ossia, gli artisti rinascimentali cercarono di imitare, negli antichi, il senso per l’osservazione della natura, della sua rappresentazione in senso oggettivo e non simbolico, la ricerca della perfezione delle forme, delle composizioni armoniose. E soprattutto cercarono di spostare il baricentro della volontà di rappresentazione (e quindi di conoscenza) da Dio all’uomo.

Nel medioevo, il senso dell’essere dell’uomo nel mondo era sempre mediato dalla teologia, dall’interpretazione delle sacre scritture, dalla mistica trascendentale. L’arte finiva, necessariamente, per rappresentare solo il tema del sacro, e il rapporto dell’uomo con il mondo divino. Temi questi, che, per il loro elevato tasso di spiritualità, portavano a rappresentazioni dove l’immagine era il simbolo: ossia le cose rappresentate seguivano una logica allusiva, che nulla aveva a ché vedere con la dinamica della realtà oggettiva, che i nostri sensi colgono.

L’arte bizantina, che notevole presenza ed influenza ebbe in Occidente durante il periodo medievale, si basava unicamente sull’«epifania del divino». Il divino era qualcosa di astratto, per sua natura, perché immateriale. Pertanto la sua rappresentazione non doveva seguire le leggi fisiche della nostra percezione sensoriale, ma quelle della visione interiore.

La cultura artistica italiana iniziò a reagire, contro l’arte medievale e bizantina, già nel XIII secolo, quando, uno studio più attento dell’eredità figurativa del tardo antico, portò a riavvicinare gli artisti del tempo ai valori dell’arte classica. Se una prima scintilla nacque già nella prima metà del secolo, nell’Italia meridionale, grazie al mecenatismo di Federico II di Svevia; lì dove il rinnovamento divenne più intenso fu nell’Italia centrale, ed in particolare in Toscana, nel periodo tra il 1250 e il 1348.

Tanti furono gli artefici, che dettero contributi a questo rinnovamento artistico: tra essi due impersonano più compiutamente la figura dell’artista nuovo: Giotto e Giovanni Pisano. Entrambi ebbero come obiettivo la rappresentazione tridimensionale. Il primo, Giotto, riportò in pittura l’uso del chiaroscuro, nella rappresentazione dei volumi, e si avviò a sperimentare, in maniera più intuitiva che non analitica, la tridimensionalità prospettica; il secondo, Giovanni Pisano, riscoprì, nei bassorilievi, la disposizione delle figure su più piani di rappresentazione, e ritornò ad una scultura a tutto tondo, praticamente scomparsa in occidente, dopo la caduta dell’impero romano.

Il rinnovamento artistico italiano avvenne in un momento in cui la cultura artistica europea era egemonizzata dal gotico. Questo nuovo stile, nato inizialmente in ambito architettonico, ben presto influenzò anche la pittura e la scultura. Nel gotico era del tutto ignorato il problema della tridimensionalità, mentre enorme attenzione veniva posto negli effetti preziosi, nella decorazione delle superfici, nell’intreccio delle linee curve, nella leziosità delle pose. Nella prima metà del Trecento, il gotico in Italia trovò la sua prima applicazione a Siena, ove massimo interprete di questo periodo fu Simone Martini.

Dopo la peste del 1348, che numerose vittime fece anche tra gli artisti, il cammino dell’arte italiana, sulla traccia di Giotto e Giovanni Pisano, sembrò interrompersi, per lasciare il campo alla tendenza gotica. Il secolo che va dalla metà del Trecento alla metà del Quattrocento, fu il secolo del tardo-gotico, anche detto gotico internazionale (per l’ampia diffusione che conobbe in tutta Europa), o gotico cortese (perché fu lo stile che meglio interpretò l’ideale cavalleresco e mondano delle corti europee).

In questo periodo, in contrasto con la egemonia del gotico, nacque l’arte rinascimentale. Essa nacque a Firenze, nei primi decenni del Quattrocento, grazie ad un genio indiscusso: Filippo Brunelleschi. Il Brunelleschi iniziò la sua attività come orafo (mestiere che, per tutto il periodo del basso medioevo, non differiva in nulla da quello dello scultore), e in tale veste partecipò al concorso, bandito nel 1401, per la realizzazione della seconda porta del Battistero di Firenze.

Tema del concorso era il Sacrificio di Isacco, da inserirsi in una formella di forma e dimensione analoga al compasso gotico, adottato da Andrea Pisano, nella realizzazione, nel 1330, della prima porta del Battistero. Il Brunelleschi presentò una formella di chiara impostazione volumetrica, dove le figure erano poste in uno spazio tridimensionale. Il concorso fu vinto, invece, da Lorenzo Ghiberti, che presentò una formella di stile tardo gotico, con figure non sovrapposte ma distanziate l’una dall’altra, e poste su un unico piano di rappresentazione.

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Ma l’importanza del Brunelleschi era ancora da venire. Nel secondo e terzo decennio del secolo, egli diede un contributo fondamentale alla pittura rinascimentale: scoprì la prospettiva. Si completava, così, il problema di tradurre le immagini, prese dalla realtà tridimensionale, in rappresentazioni bidimensionali. Se Giotto, con il chiaroscuro, aveva insegnato come rappresentare i volumi, Brunelleschi, con la prospettiva, insegnò come rappresentare lo spazio.

Dopo la scoperta del chiaroscuro, che sfruttava la luce per definire attraverso la differenza di tonalità la tridimensionalità dei volumi, la scoperta della prospettiva consentiva di rappresentare la tridimensionalità dello spazio, attraverso l’uso della geometria proiettiva. Da questo momento in poi, la tecnica pittorica del rinascimento italiano, andò ad affermarsi come la più avanzata e perfetta, conquistando un ruolo di egemonia in campo europeo, ed occidentale in genere, fino alla metà dell’Ottocento.

Le prime applicazioni della prospettiva avvennero a Firenze, nel terzo decennio del XV secolo, ad opera di Masaccio nel campo della pittura e di Donatello nel campo della scultura.

Intanto nuovi fronti di ricerca artistica venivano aperti in Olanda. Qui, lo sviluppo della pittura fiamminga, l’altra grande novità europea del XV secolo nel contesto egemone della cultura tardo-gotica, portò ad indagare con maggior attenzione la specificità della luce, nella formazione della visione, ma soprattutto portò all’invenzione della pittura ad olio, che, rispetto alla pittura a tempera, consentiva di ottenere colori più brillanti, più sfumati, e in genere più veritieri.

Fino alla fine del medioevo, la considerazione del ruolo dell’artista, nell’ambito della società, era pari a quella di un artigiano. Persone, cioè, la cui abilità era soprattutto manuale. E pertanto la pittura e la scultura venivano annoverate tra le cosiddette «arti meccaniche», e non tra le «arti liberali», quali la poesia, la cui invenzione non richiedeva abilità manuale (non comportava che le mani si sporcassero), ma solo ispirazione intellettiva.

In sostanza, all’artista non veniva riconosciuto il ruolo che, con termine moderno, definiamo di intellettuale. Ciò perché non si intendeva l’attività artistica come qualcosa di creativo, ma come qualcosa di prevalentemente tecnico. E questo era un atteggiamento antico: come noto, già al tempo degli antichi greci, in cui per la prima volta fu impostato il problema dell’autonomia dell’arte, ma non dell’invenzione creativa (l’arte era soprattutto mimesi), l’arte figurativa veniva definita col termine «techne».

In sostanza, sul piano delle scelte dei soggetti e dei contenuti, unico e vero arbitro era solo il committente. E quanto più il committente era espressione di un potere forte, politico o religioso, tanto più il ruolo dell’artista si limitava a quello di mero esecutore. Ed infatti, la grande evoluzione dell’arte greca fu anche conseguenza del regime democratico in cui poté svilupparsi. Ma un’evoluzione che, ripetiamo, non portò alla libertà creativa degli artista, in quanto, questi, restavano condizionati e subordinati alla creazione superiore della natura, di cui essi si facevano imitatori.

L’arte romana fu anch’essa imitazione, o della realtà o dei modelli greci. Così, anche nel mondo romano, l’artista svolse un ruolo prevalentemente tecnico. Nel medioevo, in cui si assiste ad un quasi monopolio artistico da parte delle gerarchie ecclesiastiche, l’aderenza al «dogma» divenne un vincolo ancora più inibitivo per qualsiasi libertà creativa personale. E difatti, il medioevo è percorso da numerosi artisti anonimi, la cui abilità artigianale non ne fece personaggi degni di ricordo postumo.

Con la nascita dell’umanesimo, e del rinascimento nelle arti figurative, gli artisti presero coscienza del

nuovo ruolo che andavano svolgendo nella società del loro tempo, e rivendicarono anche per loro il ruolo di artisti liberali, ossia di intellettuali. Ciò che consentiva la nuova rivendicazione, fu un’inedita articolazione del processo artistico, che portava a scindere concettualmente il momento della ideazione da quello della esecuzione.

In tal modo, la vera abilità, o professionalità, dell’artista veniva spostata sul piano dell’ideazione, e non più dell’esecuzione, che al limite poteva anche essere demandata ad altri. All’artista era di pertinenza il momento dell’invenzione. Ma perché l’invenzione si traducesse in progetto dell’opera d’arte, era necessario mettere a punto uno strumento progettuale, che verificasse la bontà dell’invenzione, prima della sua esecuzione definitiva. E tale strumento fu il disegno.

Da questo momento, infatti, il disegno assunse una considerazione ed una importanza nuova. Il disegno, infatti, delineando le figure, organizzando la loro distribuzione, sperimentando nuovi punti di vista e nuovi scorci, rendeva l’attività artistica una continua sperimentazione, dai connotati fortemente logici e razionali, che erano del tutto indipendenti dalla esecuzione definitiva delle opere. E la pratica del disegno divenne lo strumento fondamentale che unificava tutte le arti: possedere la capacità di disegnare significava saper progettare un dipinto, una scultura, un edificio, un gioiello, un mobile… praticamente tutto.

La nuova concezione artistica portava, come abbiamo visto, a privilegiare la razionalità del pensare e del

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fare, razionalità che divenne il termine di maggior differenziazione polemica con il mondo medievale, basata più sulla fede e sulla trascendenza, che non sulla razionalità umana.

E questo bisogno di organizzare razionalmente, in pittura e scultura, la rappresentazione dello spazio, ebbe come conseguenza la necessità di organizzare razionalmente anche lo spazio costruito: quello, cioè, dove operava l’architettura. Anche qui, primo protagonista del nuovo corso fu Filippo Brunelleschi. Il ritorno agli ordini architettonici classici ebbe, anche qui, più valore per la riscoperta di uno strumento progettuale, che non per il ritorno ad un fattore di gusto.

Gli ordini classici sono un sistema modulare, la cui validità estetica è stata sperimentata da secoli di architettura classica. La loro applicazione, fatta di norme precise e certe, consentiva di ritornare a princìpi di armonia, di simmetria, di distribuzione di masse e di pesi, di partizioni regolari e sequenziali, che risultavano più gradevoli allo spirito ordinatore dell’artista rinascimentale.

In questo grande ritorno alla razionalità, Leonardo da Vinci ha rappresentato l’uomo emblematico del Rinascimento. Colui che, con l’uso della sua mente, riesce a spaziare nei campi più disparati, da quelli artistici, a quelli ingegneristici, da quelli teorici, a quelli pratici. Suo grande rivale fu il Michelangelo Buonarroti. Anch’egli di formazione fiorentina, ma più suggestionato dall’ambiente neoplatonico della Firenze di Lorenzo de’ Medici, Michelangelo fu un genio più passionale ed irruento di Leonardo. Di temperamento caldo, quanto il primo era freddo, fu percorso, per tutta la sua attività artistica, da grandi ossessioni esistenziali, che egli sublimò in quella sua famosa «terribilità» di visione.

Dicevamo che la grande novità dell’arte rinascimentale fu la differenziazione tra ideazione ed esecuzione dell’opera d’arte. In questa dicotomia, il momento ideativo veniva affidato al disegno, mentre all’esecuzione veniva affidata la dipintura vera e propria, cioè la colorazione della immagini. Il primato del disegno era quindi assodato, costituendo il momento, potremmo dire, cerebrale della creazione artistica: il momento che rendeva la pratica artistica un’arte «liberale». E ciò è tanto più vero, quanto più gli artisti si sono formati nella cultura fiorentina del Quattrocento.

Il disegno, tuttavia, portava ad immagini ove la riconoscibilità delle forme era garantita dai tratti neri che ne delineavano i margini. Ciò era un’astrazione, in quanto le forme non finiscono con tratti neri, ma con variazioni di colori o di toni. Gli artisti veneziani, quindi, prediligendo la pittura al disegno, avevano l’obiettivo di giungere ad immagini più vere e naturali, e così finirono per abolire quasi del tutto il disegno, nella realizzazione dei loro quadri.

Nella seconda metà del Cinquecento, il Rinascimento vide una generale diffusione in tutta Europa. La scoperta della prospettiva, unita alle altre scoperte sulla luce e sul colore, aveva fornito un vocabolario completo di soluzioni formali, che per la sua validità tecnica ebbe il senso di una conquista astorica, non legata a fattori di gusto o di stile.

Intanto, alla metà del Cinquecento, in Italia il Rinascimento, ormai maturo, conobbe una stagione intensa, caratterizzata da tantissimi ottimi artisti, ma mancante delle personalità geniali della prima metà del secolo: Leonardo, Michelangelo, Raffaello. Ciò ha portato a considerare questo periodo, in rapporto al precedente, in maniera analoga al rapporto che ci fu tra ellenismo e arte greca classica: non più periodo di ricerca, ma di codificazione delle norme artistiche già acquisite, e di loro diffusione attraverso la pratica accademica.

E, per questo motivo, all’arte della seconda metà del Cinquecento è stato dato il nome di «manierismo», ove con il termine «maniera» (“fare arte alla maniera di…”) si denotava appunto la codificazione accademica del fare artistico, così come praticato dai grandi maestri precedenti. Da qui, poi, il termine «manierismo» ha acquisito una universalità astorica, indicando sempre quel momento della produzione artistica, riscontrabile in tutti i periodi storici, in cui si procedeva senza ulteriori sperimentazioni, ma applicando i princìpi artistici già di provata efficacia e successo. In seguito, dall’Ottocento in poi, il termine «manierismo» è stato generalmente sostituito da quello di «accademismo», indicando in sostanza il medesimo atteggiamento.

Ma l’evento che, nella seconda metà del Cinquecento, doveva maggiormente influenzare l’arte del periodo successivo, fu il Concilio di Trento e il clima controriformistico che ne seguì. L’arte manieristica, divenuta sempre più formale, era quasi del tutto indifferente ai contenuti, soprattutto etici. La controriforma volle invece richiamare gli artisti ad una maggior osservanza della serietà del compito loro affidato, soprattutto quando producevano opere di soggetto religioso. Ricordiamo che, il Rinascimento, dopo la fine dell’età classica, aveva riportato anche contenuti mitologici, o laici, all’interno della produzione artistica, spezzando di fatto quel monopolio che, la Chiesa e la religione, avevano avuto sulla produzione artistica per tutto il medioevo. Tuttavia, il numero di opere su soggetti religiosi, anche nel Rinascimento, costituivano la quota maggiore della produzione di un artista.

Il Concilio di Trento dettò norme precise sulla produzione artistica. Vietando l’uso del nudo, e l’ispirazione

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al mondo classico e alla mitologia pagana, di fatto chiudeva definitivamente il mondo figurativo del Rinascimento. I primi a farne le spese furono, da un lato, Paolo Veronese, per una sua ultima cena (nota come «Cena in casa Levi»), e, dall’altro, Michelangelo, per il suo Giudizio Universale nella Cappella Sistina. Paolo Veronese, a cui si contestava l’eccessiva liceità, fu costretto ad eliminare dal suo affresco le figure considerate blasfeme, e a cambiar titolo all’opera, che divenne, non più un’ultima cena, ma, appunto, una «Cena in casa Levi». Nel 1563, anno di conclusione del Concilio di Trento e anno di morte di Michelangelo, si iniziarono a coprire le nudità considerate più scandalose dal suo affresco nella Sistina.

Il Rinascimento era nato dalla polemica razionalista, nei confronti della trascendentalità medievale che riduceva tutto alla fede. Il Rinascimento, quindi, era alla ricerca del vero, di quel vero che era una caratteristica imprescindibile dal bello. E il suo naturalismo pittorico, basato sulla razionalizzazione delle immagini sulla base della prospettiva ottica umana, cercava il suo primato proprio nella verità della visione rappresentata. Il barocco, invece, aveva scisso l’apparenza dalla sostanza delle cose. E riusciva a rendere vere, o veritiere, anche immagini false: da qui uno dei grandi filoni dell’arte barocca, che potremmo definire dell’illusionismo.

Appare chiaro che, se si cerca il gioco delle apparenze, si crea l’ambiguità tra il vero e il falso, che tendono con facilità a confondersi tra loro. Ma perché il barocco gioca con il «falso»? Perché il «vero» in quegli anni, era divenuto di esclusivo dominio della scienza. Di quella scienza, che basandosi sul metodo sperimentale di Galileo Galilei, e sui nuovi metodi matematici di Isaac Newton, aveva ridotto la ricerca del vero a fredda razionalità. L’aveva condotta in un territorio dove la fantasia e l’immaginazione non avevano cittadinanza. Neoclassicismo

La vicenda del neoclassicismo inizia alla metà del XVIII secolo (1750), per concludersi con la fine dell’impero napoleonico nel 1815. Ciò che contraddistingue lo stile artistico di quegli anni fu l’adesione ai princìpi dell’arte classica. Quei principi di armonia, equilibrio, compostezza, proporzione, serenità, che erano presenti nell’arte degli antichi greci e degli antichi romani, che, proprio in questo periodo fu riscoperta e ristudiata con maggior attenzione ed interesse, grazie alle numerose scoperte archeologiche.

I caratteri principali del neoclassicismo sono diversi: 1. esprime il rifiuto dell’arte barocca e della sua eccessiva irregolarità; 2. fu un movimento teorico, grazie soprattutto al Winckelmann, che teorizzò il ritorno al principio classico

del «bello ideale»; 3. fu una riscoperta dei valori etici della romanità, e ciò soprattutto in David, e negli intellettuali della

Rivoluzione Francese; 4. fu l’immagine del potere imperiale di Napoleone, che ai segni della romanità affidava la consacrazione

dei suoi successi politico-militari; 5. fu un vasto movimento di gusto, che finì per riempire con i suoi segni anche gli oggetti d’uso e

d’arredamento. I principali protagonisti del neoclassicismo furono il pittore Anton Raphael Mengs (1728-1779), lo storico

dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768), che furono anche i teorici del neoclassicismo, gli scultori Antonio Canova (1757-1822) e Bertel Thorvaldsen (1770-1844), il pittore francese Jacques-Louis David (1748-1825), i pittori italiani Andrea Appiani (1754-1817) e Vincenzo Camuccini (1771-1844).

Winckelmann, Mengs, Canova, Thorvaldsen, operarono tutti a Roma, che divenne, nella seconda metà del Settecento, la capitale incontrastata del neoclassicismo, il baricentro dal quale questo nuovo gusto si irradiò per tutta Europa. A Roma, nello stesso periodo, operava un altro originale artista italiano, Giovan Battista Piranesi, che, con le sue incisioni a stampa, diffuse il gusto per le rovine e le antichità romane. L’Italia, nel Settecento, fu la destinazione obbligata di quel «Grand Tour», che rappresentava, per la nobiltà e gli intellettuali europei, una fondamentale esperienza di formazione del gusto e dell’estetica artistica. Roma, in particolare, ove si stabilirono scuole ed accademie di tutta Europa, divenne la città dove avveniva l’educazione artistica di intere generazioni di pittori e scultori. Tra questi vi fu anche il David, che rappresentò il pittore più ortodosso del nuovo gusto neoclassico.

Con l’opera del David, il neoclassicismo divenne lo stile della Rivoluzione Francese, ed ancor più divenne, in seguito, lo stile ufficiale dell’impero di Napoleone. E dalla fine del Settecento la nuova capitale del neoclassicismo non fu più Roma, ma Parigi.

Il neoclassicismo tende a scomparire subito dopo il 1815, con la sconfitta di Napoleone. Nei decenni successivi venne progressivamente sostituito dal Romanticismo che, al 1830, ha definitivamente soppiantato

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il neoclassicismo. Tuttavia, pur se non rappresenta più l’immagine di un’epoca, il neoclassicismo di fatto sopravvisse, come fatto stilistico, per quasi tutto l’Ottocento, soprattutto nella produzione aulica dell’arte ufficiale e di stato, e nelle Accademie di Belle Arti. E questa sopravvivenza stilistica, oltre ai consueti limiti cronologici, è riscontrabile soprattutto nella produzione di un artista come Ingres, la cui opera si è sempre attenuta ai canoni estetici della grazia e della perfezione, capisaldi di qualsiasi classicismo.

Il barocco è complesso, virtuosistico, sensuale; il neoclassicismo vuole essere semplice, genuino, razionale. Il barocco propone l’immagine delle cose, che può anche nascondere, nella sua bellezza esterna, le brutture interiori; il neoclassicismo non si accontenta della sola bellezza esteriore, vuole che questa corrisponda ad una razionalità interiore. Il barocco perseguiva effetti fantasiosi e bizzarri, il neoclassicismo cerca l’equilibrio e la simmetria; se il barocco si affidava alla immaginazione e all’estro, il neoclassicismo si affida alle norme e alle regole.

Il principio del razionalismo è una componente fondamentale del neoclassicismo. È da ricordare che il Settecento è stato il secolo dell’Illuminismo. Di una corrente filosofica che cerca di «rischiarare» la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza, della superstizione, dell’oscurantismo, attraverso la conoscenza e la scienza. E per far ciò bisogna innanzitutto liberarsi da tutto ciò che è illusorio. E l’arte barocca ha sempre perseguito l’illusionismo, come pratica artistica.

Il neoclassicismo ha diversi punti di similitudine con il Rinascimento: come questo fu un ritorno all’arte

antica e alla razionalità. Ma le differenze sono sostanziali: la razionalità rinascimentale era di matrice umanistica, e tendeva a liberare l’uomo dalla trascendenza medievale, la razionalità neoclassica è invece di matrice illuministica, e tendeva a liberare l’uomo dalla retorica, dalla ignoranza e dalla falsità barocca. Il ritorno all’antico, per l’artista rinascimentale era il ritorno ad un atteggiamento naturalistico nei confronti della rappresentazione, che lo liberasse dal simbolismo astratto del medioevo; per l’artista neoclassico fu invece la codificazione di una serie di norme e di regole, che servissero ad imbrigliare quella fantasia che, nell’età barocca, aveva agito con eccessiva licenza e sregolatezza. Infine, rispetto alla grande stagione dell’arte rinascimentale, quella neoclassica ha esiti ben modesti, ove si avverte una frigidità di sentimenti e di sensazioni, che la rende poco affascinante.

Massimo teorico del neoclassicismo fu il Winckelmann. Nel 1755 pubblicava le Considerazioni

sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, nel 1763 pubblicava la Storia dell’arte nell’antichità. In questi scritti egli affermava il primato dello stile classico (soprattutto greco, che lui idealizzava al di là della realtà storica), quale mezzo per ottenere la bellezza «ideale» contraddistinta da «nobile semplicità e calma grandezza». Winckelmann considerava l’arte come espressione di «un’idea concepita senza il soccorso dei sensi». Un’arte, quindi, tutta cerebrale e razionale, purificata dalle passioni, e fondata su canoni di bellezza astratta. Le sue teorie artistiche trovarono un riscontro immediato nell’attività scultorea di Antonio Canova e di Thorvaldsen. Romanticismo

Il romanticismo è un movimento artistico dai contorni meno definiti rispetto al neoclassicismo. Benché si affermi in Europa dopo che il neoclassicismo ha esaurito la sua vitalità, ossia intorno al 1830, in realtà era nato molto prima. Le prime tematiche che lo preannunciavano sorsero già verso la metà del XVIII secolo. Esse, tuttavia, rimasero in incubazione durante tutto lo sviluppo del neoclassicismo, per riapparire e consolidarsi solo nei primi decenni dell’Ottocento. Il romanticismo, ha poi cominciato ad affievolirsi verso la metà del XIX secolo, anche se alcune sue suggestioni e propaggini giungono fino alla fine del secolo.

Il romanticismo è un movimento che si definisce bene proprio confrontandolo con il neoclassicismo. In sostanza, mentre il neoclassicismo dà importanza alla razionalità umana, il romanticismo rivaluta la sfera del sentimento, della passione ed anche della irrazionalità. Il neoclassicismo è profondamente laico, e persino ateo; per contro il romanticismo è un movimento di grandi suggestioni religiose. Il neoclassicismo aveva preso come riferimento la storia classica; il romanticismo, invece, guarda alla storia del medioevo, rivalutando questo periodo che, fino ad allora, era stato considerato buio e barbarico. Infine, mentre il neoclassicismo impostava la pratica artistica sulle regole e sul metodo, il romanticismo rivalutava l’ispirazione ed il genio individuale.

È da considerare, inoltre, che, mentre il neoclassicismo è uno stile internazionale, ed in ciò rifiuta le espressioni locali considerandole folkloristiche, ossia di livello inferiore, il romanticismo si presenta con caratteristiche differenziate da nazione a nazione. Così, di fatto, risultano differenti il romanticismo inglese da quello francese, o il romanticismo italiano da quello tedesco, e così via.

Il romanticismo, in realtà, a differenza del neoclassicismo, non è uno stile, in quanto non si fonda su dei

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princìpi formali definiti. Esso può essere invece considerato una poetica, in quanto, più che alla omogeneità stilistica, tende alla omogeneità dei contenuti. Questi contenuti della poetica romantica sono sintetizzabili in quattro grandi categorie:

1. l’armonia dell’uomo nella natura 2. il sentimento della religione 3. la rivalutazione dei caratteri nazionali dei popoli 4. il riferimento alle storie del medioevo. La categoria estetica del neoclassicismo è stata sempre e solo una: il bello. Il bello è qualcosa che deve

ispirare sensazioni estetiche piacevoli, gradevoli, e per far ciò deve nascere dalla perfezione delle forme, dalla loro armonia, regolarità, equilibrio, eccetera. Il bello, già dalle sue prime formulazioni teoriche presso gli antichi greci, conserva al suo fondo una regolarità geometrica che è il frutto della capacità umana di immaginare e realizzare forme perfette. Pertanto, nella concezione propriamente neoclassica, il bello è la qualità specifica dell’operare umano. La natura non produce il bello, ma produce immagini che possono ispirare due sentimenti fondamentali: il pittoresco o il sublime.

Il sublime conosce la sua prima definizione teorica grazie a E. Burke, nel 1756, con un saggio dal titolo: Ricerca filosofica sulla origine delle idee del sublime e del bello. Burke considera il bello e il sublime tra loro opposti. Il sublime non nasce dal piacere della misura e della forma bella, né dalla contemplazione disinteressata dell’oggetto, ma ha la sua radice nei sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dalla dismisura, da «tutto ciò che è terribile o riguarda cose terribili» (per es. il vuoto, l’oscurità, la solitudine, il silenzio, ecc.; riprendendo questi esempi Kant dirà: sono sublimi le alte querce e belle le aiuole; la notte è sublime, il giorno è bello).

Immanuel Kant approfondisce il significato del sublime. Il sublime non deriva, come il bello, dal libero gioco tra sensibilità e intelletto, ma dal conflitto tra sensibilità e ragione. Si ha pertanto quel sentimento misto di sgomento e di piacere che è determinato sia dall’assolutamente grande e incommensurabile (la serie infinita dei numeri o l’illimitatezza del tempo e dello spazio: sublime matematico), sia dallo spettacolo dei grandi sconvolgimenti e fenomeni naturali che suscitano nell’uomo il senso della sua fragilità e finitezza (sublime dinamico).

Il pittoresco è una categoria estetica che trova la sua prima formulazione solo alla fine del Settecento grazie ad U. Price, che nel 1792 scrisse: Un saggio sul pittoresco, paragonato al sublime e al bello. Tuttavia la sua prima comparsa nel panorama artistico è rintracciabile già agli inizi del Settecento, soprattutto nella pittura inglese, e poi nel rococò francese. Il pittoresco rifiuta la precisione delle geometrie regolari, per ritrovare la sensazione gradevole nella irregolarità e nel disordine spontaneo della natura.

Il pittoresco è la categoria estetica dei paesaggi. Tutta la pittura romantica di paesaggio conserva questa caratteristica. Essa, nel corso del Settecento, ispirò anche il giardinaggio, facendo nascere il cosiddetto giardino «all’inglese». L’arte del giardinaggio, nel corso del rinascimento e del barocco, aveva prodotto il giardino «all’italiana», ossia una composizione di elementi vegetali (alberi, siepi, aiuole) e artificiali (vialetti, scalinate, panchine, padiglioni, gazebi) ordinati secondo figure geometriche e regolari. Il giardino «all’inglese» rifiuta invece la regolarità geometrica, e dispone ogni cosa in un’apparente casualità. Divengono elementi caratteristici, di questo tipo di giardino: i vialetti tortuosi, i dislivelli, le pendenze, la disposizione irregolare degli arbusti. Ed un altro elemento caratteristico del giardino «all’inglese» è la falsa rovina.

Il sentimento della rovina è tipico della poetica romantica. Le rovine ispirano la sensazione del disfacimento delle cose prodotte dall’uomo, dando allo spettatore la commozione del tempo che passa. Le testimonianze delle civiltà passate, pur se vengono aggredite dalla corrosione del tempo, rimangono comunque presenti in questi rovine del passato. E la rovina, per lo spirito romantico, è più emozionante e piacevole, di un edificio, o di un manufatto, intero. Ovviamente, nell’arte del giardinaggio, pur in mancanza di rovine autentiche, ci si accontentava di false rovine. Ossia di copie di edifici o statue del passato riprodotte allo stato cadente.

Uno dei tratti più caratteristici del romanticismo è la rivalutazione del lato passionale ed istintivo

dell’uomo. Questa tendenza porta a ricercare le atmosfere buie e tenebrose, il mistero, le sensazioni forti, l’orrido ed il pauroso. L’artista romantico ha un animo ipersensibile, sempre pronto a continui turbamenti. L’artista non si sente più un borghese, ma inizia a comportarsi sempre più in modo anticonvenzionale. In alcuni casi, sono decisamente asociali e amorali. Sono artisti disperati e maledetti, che alimentano il proprio genio di trasgressioni ed eccessi.

L’artista romantico è un personaggio fondamentalmente pessimista. Vive il proprio malessere psicologico con grande drammaticità. E il risultato di questo atteggiamento è un arte che, non di rado, ricerca l’orrore, come in alcuni quadri di Gericault che raffigurano teste di decapitati o nelle visioni allucinate di Goya quali

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«Saturno che divora i figli». L’arte romantica riscopre anche la sfera religiosa, dopo un secolo, il Settecento, che era stato fortemente

laico ed anticlericale. La riscoperta dei valori religiosi era iniziata già nel 1802 con la pubblicazione, da parte di Chateaubriand de Il genio del Cristianesimo. Negli stessi anni iniziava, soprattutto in Germania, grazie a von Schlegel e Schelling, una concezione mistica ed idealistica dell’arte, intesa come dono divino. L’arte deve scoprire l’anima delle cose, rivelando concetti quali il sentimento, il religioso, l’interiore. Il primo pittore a seguire queste indicazioni fu il tedesco C.D. Friedrich.

Questo interesse per la dimensione della interiorità e della spiritualità umana, portò, in realtà, il romanticismo a preferire linguaggi artisti non figurativi, come la musica e la letteratura o la poesia. Queste, infatti, sono le arti che, più di altre, incarnano lo spirito del romanticismo.

Sono diversi i motivi che portarono la cultura romantica a rivalutare il medioevo. Le motivazioni principali

sono fondamentalmente tre: 1. il medioevo è stato un periodo mistico e religioso 2. nel medioevo si sono formate le nazioni europee 3. nel medioevo il lavoro era soprattutto artigianale. Nel medioevo la religione aveva svolto un ruolo fondamentale per la società del tempo. Forniva le

coordinate non solo morali, ma anche esistenziali. Allo spirito della religione era improntata tutta l’esistenza umana. Questo aspetto fa sì che, nel romanticismo, si guardi al medioevo come ad un’epoca positiva, perché pervasa da un forte misticismo e spiritualità.

Inoltre, la rivalutazione del medioevo nasceva da un atteggiamento polemico sul piano politico. È da ricordare, infatti, che il neoclassicismo, nella sua ultima fase, era divenuto lo stile di Napoleone e del suo impero. Di una entità politica, cioè, che aveva cercato di eliminare le varie nazioni europee per fonderle in un unico stato. Il crollo dell’impero napoleonico aveva significato, nelle coscienze europee, soprattutto la rivalutazione delle diverse nazionalità che, nel nostro continente si erano formate proprio nel medioevo, con il crollo di un altro impero sovranazionale: quello romano. Il neoclassicismo, nella sua perfezione senza tempo, aveva cercato di sovrapporsi alle diversità locali. Il romanticismo, invece, vuole rivalutare la diversità dei vari popoli e delle varie nazioni, e quindi guarda positivamente a quell’epoca in cui la diversità culturale si era formata in Europa: il medioevo.

Il terzo motivo di rivalutazione del medioevo nasce da un atteggiamento polemico nei confronti della rivoluzione industriale. Alla metà del Settecento, le nuove conquiste scientifiche e tecnologiche avevano permesso di modificare sostanzialmente i mezzi della produzione, passando da una fase in cui i manufatti erano prodotti artigianalmenti, ad una fase in cui venivano prodotti meccanicamente con un ciclo industriale. La nascita delle industrie rivoluzionò molti aspetti della vita sociale ed economica. Permise di produrre una quantità di oggetti notevolmente superiore, ad un costo notevolmente inferiore. Tuttavia, soprattutto nella sua prima fase, la produzione industriale portò ad un peggioramente della qualità estetica degli oggetti prodotti.

Questa conseguenza fu avvertita soprattutto dagli intellettuali inglesi, che, verso la metà dell’Ottocento, proposero un rifiuto delle industrie, per un ritorno all’artigianato. Il lavoro artigianale, secondo questi intellettuali, consentiva la produzione di oggetti qualitativamente migliori, ed inoltre arricchiva il lavoratore del piacere del lavoro, che nelle industrie non era possibile. Le industrie, con il loro ciclo ripetitivo della catena di montaggio, non creavano le possibilità per un lavoratore di amare il proprio lavoro, con la conseguenza della sua alienazione e dell’impoverimento interiore. Impressionismo

Date fondamentali per seguire lo sviluppo dell’impressionismo sono: 1863: Edouard Manet espone «La colazione sull’erba» 1874: anno della prima mostra dei pittori impressionisti presso lo studio del fotografo Nadar 1886: anno dell’ottava e ultima mostra impressionista. L’impressionismo non nacque dal nulla. Esperienze fondamentali, per la sua nascita, sono da rintracciarsi

nelle esperienze pittoriche della prima metà del secolo: soprattutto nella pittura di Delacroix e dei pittori inglesi Constable e Turner. Tuttavia, la profonda opzione per una pittura legata alla realtà sensibile, portò gli impressionisti, e soprattutto il loro precursore Manet, a rimeditare tutta la pittura dei secoli precedenti che hanno esaltato il tonalismo coloristico: dai pittori veneziani del Cinquecento, ai fiamminghi del Seicento, all’esperienza degli spagnoli Velazquez e Goya.

Punti fondamentali per seguire le specificità dell’impressionismo sono: 1. il problema della luce e del colore 2. la pittura en plain air

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3. la esaltazione dell’attimo fuggente 4. i soggetti urbani. La grande specificità del linguaggio pittorico impressionista sta soprattutto nell’uso del colore e della luce.

Il colore e la luce sono gli elementi principali della visione: l’occhio umano percepisce inizialmente la luce e i colori, dopo di che, attraverso la sua capacità di elaborazione cerebrale distingue le forme e lo spazio in cui sono collocate. La maggior parte della esperienza pittorica occidentale, tranne alcune eccezioni, si è sempre basata sulla rappresentazione delle forme e dello spazio.

Il rinnovamento della tecnica pittorica, iniziata da Manet, parte proprio dalla scelta di rappresentare solo la realtà sensibile. Su questa scelta non poca influenza ebbero le scoperte scientifiche di quegli anni. Il meccanismo della visione umana divenne sempre più chiaro, e si capì meglio il procedimento ottico di percezione dei colori e della luce. L’occhio umano ha recettori sensibili soprattutto a tre colori: il rosso, il verde e il blu. La diversa stimolazione di questi tre recettori producono nell’occhio la visione dei diversi colori. Una stimolazione simultanea di tutti e tre i recettori, mediante tre luci pure (rossa, verde e blu), dà la luce bianca. Questo meccanismo è quello che viene definito sintesi additiva.

Il colore che percepiamo dagli oggetti è luce riflessa dagli oggetti stessi. In questo caso, l’oggetto di colore verde non riflette le onde di colore rosso e blu, ma solo quelle corrispondenti al verde. In pratica, l’oggetto, tra tutte le onde che costituiscono lo spettro visibile della luce, ne seleziona solo alcune. I colori, che l’artista pone su una tela bianca, seguono lo stesso meccanismo: selezionano solo alcune onde da riflette. In pratica, i colori sono dei filtri che non consentono la riflessione degli altri colori. In questo caso, sovrapponendo più colori, si ottiene, successivamente, la progressiva filtratura, e quindi soppressione, di varie colorazioni, fino a giungere al nero. In questo caso si ottiene quella che viene definita sintesi sottrattiva.

I colori posti su una tela agiscono sempre operando una sintesi sottrattiva: più i colori si mischiano e si sovrappongono, meno luce riflette il quadro. L’intento degli impressionisti è proprio evitare al minimo la perdita di luce riflessa, così da dare alle loro tele la stessa intensità visiva che si ottiene da una percezione diretta della realtà.

Per far ciò, adottano le seguenti tecniche: 1. utilizzano solo colori puri; 2. non diluiscono i colori per realizzare il chiaro-scuro, che nelle loro tele è del tutto assente; 3. per esaltare la sensazione luminosa, accostano colori complementari; 4. non usano mai il nero; 5. anche le ombre sono colorate. Ciò che distingue due atteggiamenti fondamentalmente diversi, tra i pittori impressionisti, è il risultato a

cui essi tendono: – da un lato ci sono pittori, come Monet, che propongono sensazioni visive pure, senza preoccuparsi delle

forme che producono queste sensazioni ottiche; – dall’altro ci sono pittori, come Cézanne e Degas, che utilizzano la tecnica impressionista per proporre la

visione di forme inserite in uno spazio. Monet fa evaporizzare le forme, dissolvendole nella luce; Cezanne ricostruisce le forme, ma utilizzando

solo la luce e il colore.

Che l’arte avesse per mezzo espressivo la riproduzione della realtà visibile, era un dato implicito e costante di tutta l’esperienza artistica occidentale. Solo nell’altomedioevo, dal VII al IX secolo, si era assistito ad una fase artistica aniconica. Ma, da ricordare, che l’altomedioevo fu il periodo di maggior decadenza della cultura occidentale in genere, periodo che vide l’affermazione della iconoclastia dei bizantini e dell’aniconismo delle culture arabe e barbariche.

In sostanza, tutta la cultura occidentale ha sempre inteso l’arte quale riproduzione del reale, avendo come obiettivo qualitativo finale il perfetto naturalismo. Questo atteggiamento culturale di fondo si rompe proprio nel corso del XIX secolo, quando le nuove scoperte scientifiche e tecnologiche portano alla nascita della fotografia e del cinema, perfezionando allo stesso tempo le tecniche della riproduzione a stampa. La civiltà occidentale diviene sempre più una civiltà delle immagini, ma, paradossalmente, la pittura in questo processo si trova a svolgere un ruolo sempre più marginale.

Competere con la fotografia sul piano del naturalismo sarebbe stato perdente, e perfettamente inutile. Alla pittura bisognava trovare un’altra specificità, che non fosse quella della riproduzione naturalistica. È quanto, sul piano tecnico, fanno i pittori dell’impressionismo, e quanto, sul piano dei contenuti, faranno i pittori della fase successiva. Agli inizi del Novecento, l’arte, ed in particolare la pittura, hanno completamento cambianto funzione: non riproducono, ma comunicano.

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Ovviamente anche l’arte precedente, da sempre, comunicava. Tutto ciò che rientra nell’ambito della creatività umana è anche comunicazione. Solo che nell’arte precedente questa comunicazione avveniva sempre per il tramite della riproduzione del visibile. Ora, dal postimpressionismo in poi, l’arte si pone solo ed unicamente l’obiettivo della comunicazione, senza più porsi il problema della riproduzione. Ovvero, l’arte serve a mettere in comunicazione due soggetti – l’artista e lo spettatore – utilizzando la forma che è, essa stessa, realtà, senza riprodurre la realtà visibile.

Nel breve volgere di pochi decenni, le premesse di questo nuovo atteggiamento porteranno a rivoluzioni totali nel campo dell’arte, dove, la nascita dell’astrattismo, intorno al 1910, sancisce definitivamente la rottura tra arte e rappresentazione del reale. Simbolismo

Il Simbolismo è una corrente artistica che si affermò in Francia a partire dal 1885 circa, come reazione al naturalismo e all’impressionismo. L’arte, in questo movimento, era concepita come espressione concreta e analogica dell’Idea, momento di incontro e di fusione di elementi della percezione sensoriale ed elementi spirituali. La pittura che ne derivava era estremamente raffinata, ricca di simbologie mitologiche-religiose, e si proponeva di esplorare quelle suggestive regioni della coscienza umana, all’affascinante confine tra realtà e sogno, che fino ad allora erano rimaste sempre escluse da qualsiasi indagine artistica. Il novecento

Mai come nel Novecento la cultura artistica ha conosciuto una tale velocità di evoluzione. Nel corso di questo secolo le novità e le sperimentazioni artistiche si sono susseguite con ritmo talmente incalzante da fornire un quadro molto disomogeneo in cui è difficile la organizzazione del tutto in pochi schemi interpretativi. Decine e decine di movimenti e di stili si sono succeduti, esaurendo la loro presenza, a volte, nel giro di pochi anni o al massimo di qualche decennio.

La storiografia di questo secolo, nella maggior parte dei casi, risulta un elenco, più o meno dettagliato, dei tanti movimenti e protagonisti apparsi alla ribalta della scena artistica. Ciò, tuttavia, fornisce scarsi riferimenti di catalogazione critica. Un diverso approccio all’interpretazione artistica del Novecento può ottenersi ricorrendo a categorie dell’àmbito culturale più generali. In particolare, con riferimento agli inizi del Novecento, le categorie critiche più agevoli risultano soprattutto tre:

1. la comunicazione 2. la psicologia 3. il relativismo. 1. La comunicazione La comunicazione è quell’atto mediante il quale si ottiene una trasmissione di informazioni da un soggetto

(emittente) ad un altro soggetto (ricevente). Il mezzo di trasmissione della comunicazione è il linguaggio. Affinché avvenga una comunicazione, condizione essenziale è che il linguaggio deve essere conosciuto da entrambi i soggetti: l’emittente ed il ricevente.

Nell’ambito dell’arte molti possono essere i linguaggi utilizzabili: dalle parole (poesia) alle immagini (pittura), dai suoni (musica) ai movimenti del corpo (danza) e così via. Alcuni linguaggi posseggono una universalità, quali la musica, che possono in genere essere compresi da tutti. Altri linguaggi richiedono una conoscenza specifica: per poter leggere una poesia bisogna conoscere la lingua in cui è stata scritta.

Le immagini possono essere considerate un linguaggio anch’esso universale, purché esse rimangano nell’ambito della rappresentazione naturalistica. Ricordiamo che definiamo «naturalistiche» quelle immagini che propongono una rappresentazione della realtà simile a quella che i nostri occhi propongono al cervello. Le immagini naturalistiche rispettano i meccanismi fondamentali della visione umana: la prospettiva, il senso della tridimensionalità, la colorazione tonale data dalla luce, e così via.

Il naturalismo è sempre rappresentazione della realtà in quanto ne segue le leggi fondamentali di strutturazione. La gran parte dell’arte occidentale ha sempre utilizzato il naturalismo per la rappresentazione artistica. Ciò ha permesso all’arte figurativa di essere un mezzo di comunicazione più popolare e diffuso che non la scrittura.

Nel corso dell’Ottocento, la nascita prima della fotografia e poi della cinematografia, ha permesso la riproduzione della realtà con strumenti tecnici pressoché perfetti. Ciò ha decisamente tolto alla pittura uno dei suoi scopi ritenuti specifici: quello di riprodurre in immagini la realtà. Se la cosa poteva apparire negativa, di fatto ha imposto alla pittura una diversa impostazione del suo fare. Abbandonato il terreno della rappresentazione, e quindi del naturalismo, l’arte figurativa ha cominciato ad esplorare i vasti ed inediti territori della comunicazione.

In sostanza, l’arte moderna non ha più interesse a «rappresentare» la realtà. L’arte moderna usa le forme

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per «comunicare» pensieri, idee, emozioni, ricordi e quanto altro può risultare significativo. Pertanto, nell’approccio all’arte moderna, non bisogna mai porsi l’interrogativo, guardando un’opera d’arte, cosa essa rappresenti ma cosa essa comunichi.

Tuttavia, la comunicazione richiede sempre un linguaggio che deve essere noto sia all’artista sia al fruitore dell’opera. Il naturalismo, abbiamo detto, è un linguaggio universale in quanto rispetta le regole universali della visione umana. L’arte moderna, abbandonando il naturalismo, di fatto abbandona il linguaggio comunicativo più diffuso e popolare. E così è costretta, ogni volta, ad inventarsi un nuovo linguaggio. Con il rischio che i linguaggi nuovi non vengono sempre assimilati e compresi, producendo di fatto l’incomprensibilità del messaggio che l’artista voleva trasmettere.

E ciò produce un singolare paradosso: l’arte moderna vuole solo comunicare ma per far ciò sceglie spesso la strada della incomunicabilità. O, per lo meno, impone, prima di capire il messaggio, la necessità di studiare il nuovo linguaggio utilizzato dall’artista. Ciò comporta che l’arte moderna necessita di un approccio «colto». Solo studiando da vicino le problematiche, connesse ai movimenti ed ai singoli artisti, diviene possibile comprendere il significato di un’opera d’arte.

2. La psicanalisi La nascita della psicanalisi, grazie a Sigmund Freud, ha rivoluzionato il concetto dell’interiorità umana. Se

prima l’articolazione della psiche veniva posta sul dualismo ragione-sentimento, ora viene spostata sul dualismo coscienza-inconscio.

L’inconscio è quella parte della nostra psiche in cui sono collocati pensieri ed emozioni nascoste, le quali, senza che l’individuo se ne renda conto, interagiscono con la sua coscienza orientando o influenzando le sue preferenze, motivazioni e scelte esistenziali.

L’aver individuato questo nuovo territorio dell’animo umano ha aperto notevoli possibilità all’arte moderna. Il linguaggio delle parole, essendo un linguaggio logico, consente la comunicazione più immediata e diretta con la coscienza delle persone, ove di fatto ha sede la razionalità umana. Il linguaggio delle immagini, data la sua natura di linguaggio analogico, si presta meglio ad esplorare, o a comunicare, con l’inconscio delle persone.

Alcuni movimenti artistici sono nati proprio con l’intenzione di tradurre in immagini ciò che ha sede nell’inconscio. Tra tutti, chi ha scelto con maggior impegno questa strada è stato soprattutto il Surrealismo. Ma tale interesse ha alimentato anche la poetica di altri movimenti avanguardistici dell’inizio secolo, quali l’Espressionismo e l’Astrattismo.

Tuttavia, rimane costante a tutti i movimenti del Novecento, la finalità di una comunicazione che sia «totale»: ossia, giunga anche ai territori più profondi e recessi della psiche umana.

3. Il relativismo Nel corso del Novecento si assiste ad una sempre maggiore frantumazione delle epistemologie forti.

Cadono le certezze, sia dovute alla religione, sia quelle riposte nella scienza, sia quelle della politica o della filosofia. L’uomo si sente sempre più immerso in un mondo incerto, dove tutto è relativo. A questa conclusione sembra giungere anche la scienza che, con la Teoria della Relatività di Einstein, porta a riconsiderare tutto l’impianto di certezze fisse su cui era costruito l’edificio della fisica.

Ad analoghe posizioni giungono gli scrittori, quali Luigi Pirandello, che con le sue opere letterarie e teatrali vuole dimostrare come la verità sia solo un «punto di vista» che varia da persona a persona. In campo filosofico la comparsa dell’esistenzialismo contribuisce a ridefinire la realtà solo in rapporto al singolo individuo.

Questo nuovo clima culturale non poteva non incidere sul panorama artistico. Venuta meno la certezza di una verità assoluta, ogni sperimentazione sembra muoversi nel campo di una preventiva ricerca di sé. Nasce l’esigenza di manifestare preventivamente le proprie intenzioni per dare le coordinate entro cui collocare la nuova esperienza estetica. E ne è la riprova il fatto che quasi tutti i movimenti avanguardistici dei primi anni del secolo nascono con dichiarazioni programmatiche, quali i manifesti, che servono proprio a questo scopo.

In seguito, la ulteriore frammentazione della ricerca artistica, rimette in gioco anche la partecipazione del fruitore dell’opera d’arte, al quale si chiede una partecipazione attiva alla significazione del fare artistico. In questo caso, l’arte, più che dare delle risposte, propone delle domande, lasciando il senso di quanto proposto alla libera, e a volte diversa, interpretazione del pubblico e dei critici. La necessità di un rapporto così problematico all’arte contribuisce in maniera, a volte decisiva, a rendere l’arte moderna sempre meno popolare e sempre più élitaria.

Il termine espressionismo indica, in senso molto generale, un’arte dove prevale la deformazione di alcuni aspetti della realtà, così da accentuarne i valori emozionali ed espressivi. In tal senso, il termine

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espressionismo prende una valenza molto universale. Al pari del termine «classico», che esprime sempre il concetto di misura ed armonia, o di «barocco» che caratterizza ogni manifestazione legata al fantasioso o all’irregolare, il termine «espressionismo» è sinonimo di deformazione.

Nell’ambito delle avanguardie storiche, con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale.

Alla nascita dell’Espressionismo contribuirono diversi artisti operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin, Munch ed Ensor. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti.

Il primo movimento che può essere considerato espressionistico, nacque in Francia nel 1905: i Fauves. Con questo termine vennero dispregiativamente indicati alcuni pittori, che esposero presso il Salon d’Automne quadri dall’impatto cromatico molto violento. Fauves, in francese, significa «belve». Di questo gruppo facevano parte Matisse, Vlaminck, Derain, Marquet ed altri. La loro caratteristica era il colore, steso in tonalità pure. Le immagini che loro ottenevano erano sempre autonome rispetto alla realtà. Il dato visibile veniva reinterpretato con molta libertà, traducendo il tutto in segni colorati che creavano una pittura molto decorativa. Alla definizione dello stile concorsero soprattutto la conoscenza della pittura di Van Gogh e Gauguin. Da questi due pittori, i fauves presero la sensibilità per il colore acceso, e la risoluzione dell’immagine solo sul piano bidimensionale.

Nello stesso anno, il 1905, che comparvero i Fauves si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità, che, ad esempio, nei Fauves non era presente. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento.

Alla definizione dell’espressionismo nordico fu determinante il contributo di pittori quali Munch ed Ensor. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo.

Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco, nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandiskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Nella pittura fauvista, o dei pittori del gruppo Die Brücke, la tecnica era di rendere «espressiva» la realtà esterna, così da farla coincidere con le risonanze interiori dell’artista. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista, che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti, fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale.

Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra, e Franz Marc, partito per il fronte, morì nel 1916. Alle attività del gruppo partecipò anche il pittore svizzero Paul Klee, che si sarebbe reincontrato con Wassilj Kandiskij nell’ambito della Bauhaus, la scuola d’arte applicata fondata nel 1919 dall’architetto Walter Gropius. All’interno di questa scuola, l’attività didattica di Kandiskij e Klee contribuì in maniera determinante a fondare i principi di una estetica moderna, trasformando l’espressionismo e l’astrattismo da un movimento di intonazione lirica ad un metodo di progettazione razionale di una nuova sensibilità estetica.

Il termine espressionismo nacque come alternativa alla definizione di impressionismo. Le differenze tra i

due movimenti sono sostanziali e profonde. L’impressionismo rimase sempre legato alla realtà esteriore. L’artista impressionista limitava la sua sfera di azione all’interazione che c’è tra la luce ed l’occhio. In tal modo, cercava di rappresentare la realtà con una nuova sensibilità, cogliendo solo quegli effetti luministici e coloristici che rendono piacevole ed interessante uno sguardo sul mondo esterno.

L’espressionismo, invece, rifiutava il concetto di una pittura sensuale (ossia di una pittura tesa al piacere del senso della vista), spostando la visione dall’occhio all’interiorità più profonda dell’animo umano. L’occhio, secondo l’espressionismo, è solo un mezzo per giungere all’interno, dove la visione interagisce con la nostra sensibilità psicologica. E la pittura che nasce in questo modo, non deve fermarsi all’occhio dell’osservatore, ma deve giungere al suo interno.

Un’altra profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia

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gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli, e vissuta quasi con spensieratezza.

Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta, con tanta enfasi, nella storia dell’arte occidentale.

Il Cubismo, a differenza degli altri movimenti avanguardistici, non nacque in un momento preciso, né con un intento preventivamente dichiarato. Il Cubismo non fu cercato, ma fu semplicemente trovato da Picasso, grazie al suo particolare atteggiamento di non darsi alcun limite, ma di sperimentare tutto ciò che era nelle sue possibilità.

Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano, che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica.

Questi princìpi, dal Rinascimento in poi, sono divenuti legge fondamentale del fare pittorico, istituendo quella prassi che, con termine corrente, viene definita «accademica». Dall’impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi princìpi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole.

Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro, su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso, nel suo periodo di attività che viene definito «cubista».

Picasso, meditando la lezione di Cezanne, portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri, le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse, e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale, la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso, l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista, così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto. Tuttavia, questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibiltà, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose.

E da ciò nacque anche il termine «Cubismo», dato a questo movimento, con intento denigratorio, in quanto i quadri di Picasso sembravano comporsi solo di sfaccettature di cubi. Il quadro che, convenzionalmente, viene indicato come l’inizio del Cubismo è «Les demoiselles d’Avignon», realizzato da Picasso tra il 1906 e il 1907. Subito dopo, nella ricerca sul Cubismo si inserì anche George Braque, che rappresenta l’altro grande protagonista di questo movimento, che negli anni antecedenti la prima guerra mondiale vide la partecipazione di altri artisti, quali Juan Gris, Fernand Léger e Robert Delaunay. I confini del Cubismo rimangono però incerti, proprio per questa sua particolarità, di non essersi mai costituito come un vero e proprio movimento.

L’immagine naturalistica ha un limite ben preciso: può rappresentare solo un istante della percezione. Avviene da un solo punto di vista, e coglie solo un momento. Quando il cubismo rompe la convenzione sull’unicità del punto di vista, di fatto introduce, nella rappresentazione pittorica, un nuovo elemento: il tempo.

Per poter vedere un oggetto da più punti di vista, è necessario che la percezione avvenga in un tempo prolungato, che non si limita ad un solo istante. È necessario che l’artista abbia il tempo di vedere l’oggetto, e quando passa alla rappresentazione porta nel quadro la conoscenza che egli ha acquisito dell’oggetto. La percezione, pertanto, non si limita al solo sguardo, ma implica l’indagine sulla struttura delle cose e sul loro funzionamento.

I quadri cubisti sconvolgono la visione, perché vi introducono quella che viene definita la «quarta dimensione»: il tempo. Negli stessi anni, la definizione di tempo, come quarta dimensione della realtà, veniva postulata in fisica dalla Teoria della Relatività di Albert Einstein. La contemporaneità dei due fenomeni rimane tuttavia casuale, senza un reale nesso di dipendenza reciproca.

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Il Futurismo è un’avanguardia storica di matrice totalmente italiana. Nato nel 1909, grazie al poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti, il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte.

Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità, contro l’antico, la velocità, contro la stasi, la violenza, contro la quiete, e così via.

In sostanza il futurismo si connota già al suo nascere come un movimento che ha due caratteri fondamentali:

- l’esaltazione della modernità - l’impeto irruento del fare artistico. Il futurismo ha una data di nascita precisa: il 20 febbraio 1909. In quel giorno, infatti, Marinetti pubblicò

sul «Figaro», giornale parigino, il Manifesto del Futurismo. In questo scritto sono già contenuti tutti i caratteri del nuovo movimento. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in undici punti i principi del nuovo movimento.

1. Noi vogliamo cantar l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il

movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della

velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.

5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e mugnificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.

7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.

8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.

9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica.

11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

In un altro suo scritto, Marinetti disse come doveva essere l’artista futurista. «Chi pensa e si esprime con originalità, forza, vivacità, entusiasmo, chiarezza, semplicità, agilità e sintesi.

Chi odia i ruderi, i musei, i cimiteri, le biblioteche, il culturismo, il professoralismo, l’accademismo, l’imitazione del passato, il purismo, le lungaggini e le meticolosità. Chi vuole svecchiare, rinvigorire e rallegrare l’arte italiana, liberandola dalle imitazioni del passato, dal tradizionalismo e dall’accademismo e incoraggiando tutte le creazioni audaci dei giovani».

Il fenomeno del Futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Oltre ciò, la tarda cultura ottocentesca si era anche caratterizzata per quel decadentismo, che proponeva un’arte fatta di estasi pensose, quale fuga dalla realtà nel mondo dei sogni. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo, per costruire un

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mondo nuovo basato su una nuova estetica.

La Metafisica è l’altro grande contributo all’arte europea che provenne dall’Italia, nel periodo delle avanguardie storiche. Per la sua palese figuratività, esente da qualsiasi innovazione del linguaggio pittorico, la Metafisica è da alcuni esclusa dal contesto vero e proprio delle avanguardie. Essa, tuttavia, fornì importanti elementi per la nascita di quella che viene considerata l’ultima tra le avanguardie: il Surrealismo.

Protagonista ed inventore di questo stile fu Giorgio De Chirico. Iniziò a fare pittura metafisica già nel 1909, anno di nascita del Futurismo. Ma rispetto a quest’ultimo movimento, la Metafisica si colloca decisamente agli antipodi. Nel Futurismo è tutto dinamismo e velocità; nella Metafisica predomina la stasi più immobile. Non solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Il Futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella Metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il Futurismo vuole totalmente rinnovare il linguaggio pittorico; la Metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: soprattutto la prospettiva.

Si potrebbe pensare che la Metafisica sia alla fine solo un movimento di retroguardia, fermo a posizioni accademiche. Ed invece riesce a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente. Le atmosfere magiche ed enigmatiche dei quadri di De Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che mostrano. Ed invece, le sue immagini mostrano una realtà che solo apparentemente assomiglia a quella che noi conosciamo dalla nostra esperienza. Uno sguardo più attento, ci mostra che la luce è irreale, e colora gli oggetti e il cielo di tinte innaturali. La prospettiva, che sembrava costruire uno spazio geometricamente plausibile, è invece quasi sempre volutamente deformata, così che lo spazio acquista un aspetto inedito. Le scene urbane, che sono protagoniste indiscusse di questi quadri, hanno un aspetto dilatato e vuoto. In esse predomina l’assenza di vita e il silenzio più assoluto. Le rappresentazioni di De Chirico superano la realtà, andando in qualche modo «oltre». Ci mostrano una nuova dimensione del reale. Da ciò il termine «metafisica» usata per definirla. Le immagini di De Chirico sono il contesto ultimo a cui può pervenire la realtà, creata dal nostro vivere.

Surrealismo. La nascita della psicologia moderna, grazie a Freud, ha fornito molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro settentrionale, le correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno ampiamente utilizzato il concetto di inconscio, per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo.

Sempre da Freud, i pittori, che dettero vita al Surrealismo, presero un altro elemento che diede loro la possibilità di scandagliare e far emergere l’inconscio: il sogno.

Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò L’interpretazione dei sogni. Secondo lo studioso, il sogno è la «via regia verso la scoperta dell’inconscio». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo, e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi.

Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge, quindi, secondo un linguaggio analogico. Di qui, spesso, la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La produzione figurativa può, dunque, risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed immediata del sogno. E da qui, nacque la teoria del Surrealismo.

Il Surrealismo, come movimento artistico, nacque nel 1924. Alla sua nascita contribuirono in maniera determinante sia il Dadaismo sia la pittura Metafisica.

Teorico del gruppo fu soprattutto lo scrittore André Breton. Fu egli, nel 1924, a redigere il Manifesto del Surrealismo. Egli mosse da Freud, per chiedersi come mai sul sogno, che rappresenta molta dell’attività di pensiero dell’uomo, visto che trascorriamo buona parte della nostra vita a dormire, ci si sia interessati così poco. Secondo Breton, bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà), in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno.

Il Surrealismo è dunque il processo mediante il quale si giunge a questa surrealtà. Sempre Breton così definisce il Surrealismo:

«Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato dal pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale».

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L’automatismo psichico è quindi un processo automatico che si realizza senza il controllo della ragione (il pensiero senza freni inibitori, siano essi morali o estetici, libro di vagare e raccogliere immagini, idee, parole, senza costrizioni o propositi precostituiti, senza scopi preordinati), e fa sì che l’inconscio, quella parte di noi che si fa viva nel sogno, emerga e si esprima divenendo operante mentre siamo svegli. È così raggiunta quella realtà superiore, la surrealtà, in cui si conciliano veglia e sogno.

Al Surrealismo aderirono diversi pittori europei, tra i quali Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Non vi aderì Giorgio De Chirico, che pure aveva fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio.

Il Surrealismo è un movimento che pratica una arte figurativa e non astratta. La sua figurazione non è

ovviamente naturalistica, anche se ha con il naturalismo un dialogo serrato. E ciò per l’ovvio motivo che vuol trasfigurare la realtà, ma non negarla.

L’approccio al Surrealismo è stato diverso da artista ad artista, per le ovvie ragioni delle diversità personali di chi lo ha interpretato. Ma, in sostanza, possiamo suddividere la tecnica surrealista in due grosse categorie: quella degli accostamenti inconsuenti e quella delle deformazioni irreali.

Gli accostamenti inconsueti sono stati spiegati da Max Ernst, pittore e scultore surrealista. Egli, partendo da una frase del poeta Comte de Lautréamont: «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse».

In sostanza, procedendo per libera associazione di idee, si uniscono cose e spazi tra loro apparentemente estranei, per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza surrealista nasce, allora, dal trovare due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, assieme in un luogo ugualmente estraneo ad entrambi. Tale situazione genera una inattesa visione che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze.

Le deformazioni irreali riguardano invece la categoria della metamorfosi. Le deformazioni espressionistiche nascevano dal procedimento della caricatura, ed erano tese alla accentuazione dei caratteri e delle sensazioni psicologiche. La metamorfosi è invece la trasformazione di un oggetto in un altro, come, ad esempio, delle donne che si trasformano in alberi (Delvaux) o delle foglie che hanno forma di uccelli (Magritte).

Entrambi questi procedimenti hanno un unico fine: lo spostamento del senso. Ossia la trasformazione delle immagini, che abitualmente siamo abituati a vedere in base al senso comune, in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.

Tra i surrealisti, chi più gioca con gli spostamenti del senso, è il pittore belga René Magritte (1898-1967). Dopo aver scoperto la pittura di De Chirico, si avvicinò nel 1927 al Surrealismo, divendone uno dei principali protagonisti. I suoi quadri sono realizzati in uno stile da illustratore, di evidenza quasi infantile.