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Liceo Ginnasio “Raimondo Franchetti” Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia

ARTEfatto Esposizione di falsi di opere d’arte contemporanea sequestrati dalla Guardia di Finanza di Venezia Venerdi 28 ottobre 2008 Aula Magna del Liceo Ginnasio “Raimondo Franchetti Corso del Popolo 82, Venezia Mestre

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Forse vi starete domandando PPerché abbiamo scelto di

allestire un’EEsposizione proprio sul tema dei falsi d’arte.

La RRisposta è semplice: innanzitutto ci permette di creare

Un’inconsueta CCollaborazione con istituzioni diverse, quali la

Guardia di Finanza, che ci HHa consentito di mettere in luce, che

la falsificazione È una realtà di cui si parla ancora troppo poco.

In secondo luogo, riteniamo che uno scopo IImportante sia quello

di esercitare l’occhio a individuare le FFalsificazioni attraverso

l’osservazione dal vivo dei dipinti e il confronto con l’AAutentico.

Infatti, solamente LLa consuetudine con le opere d’arte sviluppano

il SSenso critico e il discernimento del prodotto artistico.

Dice Cesare Brandi: “IIl falso non è falso, finché non viene

riconosciuto per tale, non potendosi, AA ragione, considerare

LLa falsità come proprietà inerente all’oggetto.”

FForse, dunque, vi starete chiedendo come mai ci

siamo RRivolti proprio all’arte contemporanea per

fornirvi un esempio AAccattivante del fenomeno.

Anche in tal caso, NNoi rispondiamo che la scelta

dell’arte contemporanea, che non è affatto CCasuale, ci

HHa offerto l’occasione per focalizzare la nostra attenzione,

ma soprattutto quella di voi EEgregi visitatori, su un’arte, che

non sempre viene accettata come TTale per la sua apparente

immediatezza nella realizzazione e la qualità TTrascurata,

ma che risulta un simbolo IInconfondibile della nostra epoca.

Cosa aspettate, dunque, a scoprire il falso??

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Posta quasi ad inaugurare l’anno scolastico, la mostra intitolata ARTEfatto ha aperto alla cittadinanza la monumentale aula magna del Liceo Ginnasio “Raimondo Franchetti” con un’iniziativa originale, che ha inteso promuovere la conoscenza sia dell’intensa attività svolta dalla Guardia di Finanza di Venezia in tema di repressione della frode a carattere artistico, sia della qualità dell’arte contemporanea, analizzata inaspettatamente attraverso la “lente d’ingrandimento” costituita dalla sua falsificazione. L’esposizione si è inscritta tra i diversi progetti che di anno in anno caratterizzano il Piano dell’Offerta Formativa dell’istituto e ne testimonia l’impegno nell’attivare costantemente solide relazioni di parternariato con Enti e Istituzioni che operano nel territorio. A titolo d’esempio, tali collaborazioni comprendono da un lato attività realizzate assieme all’Università, tese a promuovere l’eccellenza o a orientare nelle scelte universitarie, tra le quali meritano d’essere menzionate la pluriennale serie di convegni organizzata d’intesa con il Dipartimento di Filosofia e Teoria delle Scienze di Ca’ Foscari e le visite al Dipartimento di Scienze dei Materiali della stessa università; dall’altro, in direzione opposta, le iniziative rivolte alle scuole medie che mirano a creare un’osmosi tra i diversi livelli scolari, quali i corsi di introduzione alla lingua greca. Si tratta, come si vede, di attività dal forte impegno educativo, nel rispetto non solo delle novità introdotte dall’innalzamento dell’obbligo scolastico, ma anche dello spirito al quale da sempre è stata informata l’attività del corpo docente della scuola. Grazie all’impegno degli studenti e delle studenti del Franchetti, che per un giornata si sono trasformati in guide, la mostra ha riscosso un lusinghiero successo di pubblico e favorevoli consensi. Mi sia concesso perciò rivolgere un sentito ringraziamento al Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia, la cui disponibilità ha consentito di realizzare l’evento. Vorrei segnalare che anche l’Istituto Statale d’Arte di Venezia ha voluto testimoniare la sua adesione non solo formale all’iniziativa contribuendo fattivamente, con propri materiali, all’allestimento. Possiamo davvero dire che l’occasione si è dimostrata preziosa per avvicinare le complesse tematiche della tutela e, dunque, dell’educazione civica alla sensibilità delle nuove generazioni, ossia ai cittadini e alle cittadine di domani. prof. Gianfranco Rasia Dirigente Scolastico del Liceo Ginnasio “Raimondo Franchetti” di Venezia-Mestre

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Normalmente le indagini di polizia non sono “creative”; al contrario, sono “distruttive”, perché, anche se a fin di bene, si prefiggono lo scopo di smantellare organizzazioni e piani criminali, spesso costruiti con intelligenza e sagacia che sarebbero state senza alcun dubbio degne di miglior fine. Tutto questo, anche se encomiabile dal punto di vista sociale, non soddisfa quell’esigenza, quel bisogno di creazione che è insito nell’essere umano, quell’insopprimibile voglia di lasciare un “segno” del proprio passaggio su questa terra. È per questo che le nostre indagini a tutela del patrimonio artistico ed archeologico hanno per noi un valore ed un contenuto del tutto particolari; attraverso di esse contribuiamo affinchè il patrimonio intellettuale, culturale e storico della nazione non si disperda, e si mantengano in vita il valore della “creazione”, il significato intrinseco dell'opera d'arte. Ancor di più poi la nostra adesione ad un progetto educativo, di così elevata formazione culturale, soddisfa quell’urgenza, tutta umana, di costruire anziché solo distruggere. E' per questo che siamo grati ai docenti ed agli studenti del liceo"Franchetti", per averci permesso di esprimere questa esigenza con una mostra così splendidamente organizzata, e di aver così anche fatto conoscere - nel migliore dei modi possibili - questo nostro volto,magari meno noto ma per noi altrettanto importante. Importante proprio perché ci permette, in qualche modo, di tutelare un processo “creativo” e quindi altrettanto di sentircene parte, nonché, al contempo, di contribuire alla formazione ed alla preservazione di un tessuto culturale comune e condiviso. Anche a nome dei militari del Nucleo di polizia tributaria di Venezia, perciò, sono ancor di più grato per questo catalogo, che illustra i contenuti ed i significati della mostra, e li “perpetua” per le prossime generazioni di studenti. Col. t. ST Pier Luigi Pisano Comandante del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia

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Falsi d’arte contemporanea al Franchetti: come e perché A più di qualcuno potrebbe sembrare quantomeno diseducativo che una scuola pubblica esponga opere d’arte false, impegnando i suoi studenti ad illustrarle e quasi a valorizzarle. Non sarà perciò inopportuno spendere alcune parole per spiegare quest’apparente contraddizione, in cui sembra essere caduto il Liceo Franchetti. Aby Warburg, grande storico dell’arte e pioniere della moderna iconologia, soleva dire che “il buon Dio si nasconde nei dettagli”. Questa stessa convinzione (e il suo contrario, per cui nei dettagli si potrebbe celare invece il diavolo) ci ha spinto a organizzare una mostra tutta giocata sul valore dei particolari, quali un’inconfondibile stesura delle pennellate, un determinato accostamento di colori, un tratto deciso... Particolari rivelatori della maestria di un artista, oppure mancanti di questa stessa qualità nell’attività del suo falsario. A partire dal facile gioco di parole scelto per il titolo, la mostra ARTEfatto ha inteso sottolineare proprio questo. Talora, per ingannare un acquirente avido e incauto, è sufficiente evocare l’aspetto dell’originale di cui si spaccia la copia. Quest’ultima, se esaminata attentamente, rivelerà tuttavia la mancanza di quell’idea fondamentale che, in ogni sua opera, l’artista imitato persegue: cioè proprio della sua poetica, in quanto il falso si limita a riprodurre, talora egregiamente, solo i tratti più palesemente riconoscibili di uno stile. Per una sola giornata, l’aula magna del nostro liceo si è trasformata così in uno straordinario museo d’arte contemporanea. Un museo illusorio, però. Grazie al prestito concesso dal Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Venezia sono state esposte opere contraffatte, sequestrate sul mercato artistico e dunque spesso di notevole livello tecnico; imitazioni di quelle di famosi artisti delle avanguardie italiane del Novecento, da De Chirico e Guidi a Vedova e Schifano. Attraverso la loro analisi si è inteso far riscoprire l’inimitabilità e quindi la qualità degli originali. L’obiettivo era quindi, più generalmente, ridiscutere soprattutto sul piano tecnico e formale il valore dell’arte contemporanea, un’arte troppe volte sottovalutata anche nei suoi aspetti materiali. Siamo entrati quindi, per così dire, nel complesso edificio artistico della contemporaneità dalla “porta di servizio” costituita dalla falsificazione, utilizzando i falsi come altrettante cartine al tornasole per verificare in quale misura la qualità sia un dato comunque ineludibile in ogni vera opera d’arte: il che vale anche - e forse soprattutto - per le opere d’arte astratta. La mostra è stata preparata a partire dal precedente anno scolastico, con il corso intitolato I Beni Culturali oggi: aspetti giuridici, conservativi e materiali dell’arte, tenuto dai docenti di Storia dell’arte e incentrato su temi quali la disciplina giuridica dei beni storico-artistici, la loro museificazione e la falsificazione dei dipinti. Essa si è ricollegata inoltre alla mostra Veri, falsi e ritrovati, organizzata dalla Guardia di Finanza di Venezia assieme all’Università di Ca’ Foscari e tenutasi a Venezia nel corso dell’estate 2008 presso Ca’ Giustinian dei Vescovi. Grazie alla prestigiosa sede istituzionale ospitante, in quell’esposizione era stato posto in evidenza l’intenso e spesso misconosciuto operato della Guardia di Finanza nella regione Veneto in tema di repressione della frode artistica; al Franchetti si è voluto riprendere la stessa tematica e renderla, nei fatti, ancor più vicina alla sensibilità delle nuove generazioni, quelle che dovranno far propria la lezione civica costituita dall’impegno per la tutela. Questo impegno è stato testimoniato, in primo luogo, dal servizio di guide svolto da studenti del Liceo e messo a disposizione dei loro compagni/e, dei visitatori e delle altre scuole (alcuni/e tra loro si erano infatti preparati/e, in particolare, a illustrare la mostra agli/alle alunni/e delle scuole medie inferiori). Nell’organizzazione dell’evento sono stati coinvolti più di sessanta studenti di cinque classi del liceo, dei/delle quali la metà circa ha prodotto testi e grafica dei pieghevoli, dei pannelli e

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del catalogo, mentre l’altra metà è stata impegnata come guide, alternandosi in turni mattutini e pomeridiani per poter spiegare la mostra anche a più visitatori o a più gruppi simultaneamente. Come si vedrà nella prima parte del presente catalogo, le opere esposte erano state infatti suddivise in quattro sezioni - corrispondenti ad altrettanti movimenti, tendenze o aree geografiche storicamente determinati - affidate ciascuna ad un gruppo di guide; un quinto gruppo di studenti ha presentato la mostra, inquadrando criticamente il tema del falso. In mostra vi erano sempre, quindi, cinque guide a disposizione dei visitatori. La loro preparazione è avvenuta in modo esclusivamente extracurricolare, tramite ricerche e attività seminariali pomeridiane, senza interferire con il regolare svolgimento delle lezioni. Anche questo catalogo virtuale, scaricabile dal sito dell’Istituto, è stato redatto integralmente dagli/dalle studenti, con la sola supervisione dei docenti. Questo forse farà scusare alcune sviste e approssimazioni: va sottolineato che nessuno tra gli/le studenti coinvolti/e aveva alle spalle una conoscenza scolastica dei fenomeni artistici trattati. Il catalogo è diviso in due parti. La prima è una sorta di “guida rapida” alla mostra. Vi si trovano riprodotti gli stessi pannelli introduttivi visti nell’esposizione (alla fine del catalogo è stata inserita anche qualche testimonianza della grafica, dalle locandine alla segnaletica); una breve introduzione ad ogni gruppo; una scheda biografico-stilistica per ogni artista, con la riproduzione di uno dei falsi esposti in mostra, il testo dell’expertise che ne determina la falsità e alcune note sui dati formali che permettono di smascherare il falso. La seconda parte allinea alcuni saggi sul tema del falso, a formare una prima introduzione alle implicazioni che l’idea di falso comporta. Naturalmente vi sono brevi panoramiche storiche sul falso in età antica e moderna, ma anche puntualizzazioni sul significato del termine in ambito giuridico o filosofico. Si tratta ovviamente di analisi senza alcuna pretesa di esaustività, che riprendono e sviluppano le informazioni fornite ai visitatori dalle guide nell’introduzione alla mostra. Tra le molte persone che si sono prodigate per la buona riuscita dell’evento, vorrei innanzitutto ringraziare il colonnello Pierluigi Pisano, che non solo ha generosamente permesso ma anche sostenuto con convinzione l’iniziativa, assieme al personale del Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, un gruppo altamente motivato e professionale; il collega Marco Lorusso dell’Istituto d’Arte di Venezia, che con gentile disponibilità ha concesso, con l’avallo del suo Dirigente scolastico, alcuni cavalletti per allestire l’esposizione; e infine la dottoressa Patrizia Pizzinato, che ha voluto incontrare le nostre guide e discutere con loro la poetica e l’attività di suo padre Armando, appassionandole così ancor più al loro compito. Non ultimo, un ringraziamento particolare agli e alle studenti del Liceo Franchetti, che con il loro entusiasmo e il loro impegno mi hanno confermato una volta di più che non si potrà mai parlare di “morte dell’arte” finché questa saprà emozionarci, parlando alla nostra mente non meno che ai nostri cuori. prof. Umberto Daniele Docente di Storia dell’Arte Liceo Ginnasio “Raimondo Franchetti”

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PARTE PRIMA GUIDA BREVE ALLA MOSTRA Dove il cortese lettore o la gentile lettrice troverà le coordinate essenziali per muoversi nell’infido territorio della falsificazione, nonché alcune informazioni sugli artisti indegnamente rappresentati dai falsi esposti

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GRUPPO 1 CANDIANI LAURA, CANINI ROMUALDO, BOLZAN PIETRO, BORTOLUSSI MARTINA, BRUSCAGNIN CHIARA, SERAFINI MARTA, LAZZARI DANIELA, PAIANO JACOPO, VIANELLO ALICE, ZANCHETTIN ROBERTA, ZANDÒ GIULIA

INTRODUZIONE ALLA MOSTRA In questa sezione sono riproposti, con le medesime soluzioni grafiche, i manifesti presenti nell’esposzione. Ad alcune studenti di questo gruppo si devono anche i saggi brevi della seconda parte, che riprendono e sviluppano il tema del falso.

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LE RAGIONI DI UNA MOSTRA

Perché tutta questa attenzione per i falsi, quando sarebbe stato più semplice e magari di maggior successo mostrare

vere opere d’arte? Studenti e docenti del Franchetti rispondono così:

l’esposizione di falsificazioni d’arte moderna ha lo scopo precipuo di educare grandi e piccini all’osservazione delle immagini, dal momento che, come afferma Federico Zeri,

l’istruzione ad un’accurata osservazione sta alla base anche dello smascheramento dei falsi.

Ma se l’educazione passa attraverso l’osservazione e la comprensione di un’opera, come mai la scelta è caduta

proprio su un’arte apparentemente inspiegabile? Semplice: di fronte ad un Michelangelo l’osservatore

immagina l’impegno e la passione fuse dall’artista nell’opera, ma quanti, di fronte ad un Vedova o a un

Tancredi, sono propensi a riconoscere che quel prodotto sia davvero il frutto di una lunga e ragionata elaborazione?

Proprio per questo motivo il Franchetti ha deciso di proporre un’iniziativa nuova e originale, che apre un

dialogo non solo con la cittadinanza o con le altre scuole, ma anche con altre istituzioni, quali la Guardia di Finanza,

preposte anch’esse a garantire l’educazione etica e civica del nostro Paese.

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COSI’ FALSO... CHE SEMBRA VERO Cos’è un falso? E’ da intendersi come falso ogni oggetto realizzato con l’esplicito intento di ingannare, in quanto l’opera contraffatta viene collocata sul mercato, nonostante le sia stata conferita dal falsario un’identità che non le appartiene. In base al tipo di falsificazione si possono avere: 1) IL FALSO DA CONTRAFFAZIONE: riproduzione di un’opera preesistente o invenzione di un’opera imitando lo stile di un artista; 2) IL FALSO DA ALTERAZIONE: un’opera d’arte viene modificata al fine di impreziosirla o di attribuirla ad un artista con quotazioni di mercato superiori. Ogni opera d’arte del passato provoca in noi qualcosa di ineffabile: un insieme di sensazioni, dovute all’ “aura” di mistero ma anche di irripetibile originalità che la avvolge e nate dalla meditata e poetica riflessione dell’artista che ha le dato vita. Fino a che punto nella pratica della copia si può cogliere il senso, l’ aura dell’originale? É questo uno degli ostacoli difficilmente sormontabili cui va incontro il falsario. LEGITTIMITA’ DELLA COPIA E FALSO D’AUTORE Non va dimenticato che prima del mercato moderno dell’arte copiare l’opera di un maestro non era considerato una falsificazione, ma un omaggio. Si pensi alle botteghe rinascimentali, dove a volte gli allievi eseguivano numerose copie di un’opera d’arte del maestro dopo averne appreso la tecnica di composizione e lo stile. Fin dall’età moderna vige poi la pratica del cosiddetto d’après, quando ci si ispira al quadro di un artista famoso ma lo si realizza con lo stile e la poetica personali, propri dell’artista che imita l’originale. In questo caso si tratta dunque di opere sostanzialmente originali, quali i rifacimenti di Raffaello o Tiziano da parte di Rubens. Per contro è fenomeno tipico dell’età contemporanea eseguire i cosiddetti “falsi d’autore”, veri e propri falsi che non si vogliono spacciare per gli originali in quanto anch’essi recanti le tracce dello stile del maestro, spesso un grande artista, che gioca a “mascherarsi” da colui che imita e rendergli così omaggio.

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LA GUARDIA DI FINANZA E I FALSI ARTISTICI  “Il patrimonio artistico è un bene di  tutta  la collettività. Non può essere appannaggio  di  pochi  speculatori  senza  scrupoli,  o  di  sedicenti appassionati,  perché  rappresenta  la  fierezza  e  l’orgoglio  di  una  nazione capace  di  esprimere  una  storia  lunga  millenni,  attraverso  tutte  le popolazioni  che  si  sono  succedute  sul  suo  territorio,  affratellate  da  un comune sentire: l’amore per il bello e per tutte le forme d’arte”  (Col. t ST Pier Luigi Pisano, comandante Nucleo PT di Venezia)  Il  Veneto  è  una  regione  ricchissima  di  storia  e  di  espressioni artistiche.  Proprio  per  questo  è  anche  la  regione  nella  quale  si registra  il maggior numero di  sequestri di opere d’arte  falsificate: nel solo biennio 2006/2007, su un totale di 18.607 sequestri di reperti archeologici di varia natura ben 12.186 sono avvenuti in Veneto.  Per  far  fronte al problema della diffusione di un mercato del  falso d’arte, sessant’anni fa è nata una sezione speciale della Guardia di Finanza, un corpo di Polizia direttamente dipendente dal Ministero dell’Economia  e  delle  Finanze.  Il  suo  compito  è  tutelare  gli appassionati  d’arte  dalle  possibili  truffe  perpetrate  da  mercanti senza scrupoli, che commercializzano beni storico‐artistici sottratti clandestinamente  dai  siti  originari  ‐  con  grave  danno  anche  al patrimonio  di  conoscenze  loro  connesso  ‐  o  che  vendono  opere contraffatte  attribuendole  ai  più  noti  artisti  moderni  o contemporanei.  Il Nucleo Polizia Tributaria di Venezia  si è ormai  specializzato  in questo  settore,  con  finanzieri  dotati  ormai  di  un  solido  bagaglio culturale, conoscitivo e informativo che permette loro di affiancare l’operato di archeologi o quotati critici d’arte chiamati a stimare  le opere sequestrate. 

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Grazie  al  lavoro  congiunto  di  Ufficiali  e  Finanzieri,  di Sovrintendenti  e  Ispettori, molti  truffatori  sono  stati  denunciati  e moltissime pseudo‐opere d’arte sono state ufficialmente dichiarate false.  Queste operazioni sono rese più difficili dalla presenza, all’interno del mercato truffaldino, di fenomeni di evasione fiscale. I mercanti offrono  opere  contraffatte  quasi  sempre  corredate  di  un  falso certificato  d’autenticità;  gli  acquirenti,  acquistano  “in  nero”  per evitare di dichiarare  l’investimento patrimoniale e poi, scoperta  la truffa, evitano di denunciare  il  fatto alle autorità,  sapendo di non avere  la  coscienza  a  posto.   Compito  della Guardia  di  Finanza  è ricostruire  i  flussi  economici  sconosciuti  al  fisco  e  salvaguardare così  il  mercato  dai  falsari:  in  una  parola  proteggere  e  quindi valorizzare il nostro patrimonio artistico, bene comune prezioso per le generazioni presenti ma soprattutto future. 

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METODI SCIENTIFICI DI INDAGINE SUI FALSI Una domanda che potrebbe sorgere è la seguente: esiste un modo per individuare chiaramente le falsificazioni? Per rispondere correttamente bisognerebbe precisare che, essenzialmente, esistono due metodi: l’indagine estetica e critica, la quale si basa su criteri empirici, che implicano la capacità di riconoscere il tratto distintivo del falsario come summa di diversi stili, disarmonici tra loro; gli esperimenti chimici e fisici, che si prefiggono l’obiettivo di determinare le proprietà della materia, la struttura, l’età dell’oggetto di dubbia autenticità. I sistemi scientifici hanno un margine di errore minimo, rispetto al giudizio estetico, che necessita della presenza di esperti e critici d’arte onesti e competenti. Infatti, i metodi scientifici giovano a diverse componenti del campo artistico: tutelano i musei e i collezionisti dalla frode; garantiscono la certezza dei giudizi espressi alle le autorità doganali e di polizia, ma anche agli esperti d’arte. Inoltre, se questi metodi possono sembrare una minaccia per case d’aste, galleristi e antiquari, in realtà, nel caso di una certificazione attendibile, il valore dell’opera aumenta proficuamente. I principali sistemi sono la Spettrografia infrarossa (IR), il Radiocarbonio (14C), la termoluminescenza, la dendrocronologia, i metodi ottici, la luce UV e IR, la luce di Wood, i raggi Rötgen, la pigmentografia. IL RADIOCARBONIO (14C) Il metodo 14C permette di misurare l’età di materiali organici,che contengono carbonio: legno, avorio, stoffe, ecc. L’isotopo 14 del carbonio è radioattivo ed instabile, e si forma continuamente nell’atmosfera superiore, arrivando sulla Terra attraverso la pioggia. Pertanto, il 14C è assorbito da tutti gli organismi viventi. Quando questi muoiono, l’assorbimento cessa e, lentamente, il 14C si trasforma in 12C, un isotopo del carbonio non radioattivo. La velocità di decadimento è nota e fissata in tabelle dettagliate, per mezzo delle quali è possibile risalire all’età dell’oggetto preso in esame. Vi sono dei periodi incerti, però,che coprono due delle ere più importanti per l’arte: i secoli della civiltà greca e gli ultimi 350 anni della nostra storia. LA SPETTROGRAFIA IR Impiegata da decenni per analisi in aziende chimiche e farmaceutiche, ora viene applicata anche all’arte, soprattutto per la datazione di oggetti in legno. Si tratta di un metodo analitico, caratterizzato da affidabilità, precisione e facilità di applicazione, e si basa su due fattori:

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• tutti i materiali terrestri sono composti da un insieme di molecole specifiche; • alcune molecole subiscono delle alterazioni al trascorrere del tempo.

La sua particolare applicazione al legno è determinata dal fatto che la cellula vegetale, protetta da una parete di cellulosa, e quindi resistente all’acqua, conserva, generalmente, le stesse caratteristiche nel tempo. TIPI DI LEGNO DATABILI MOLTO ACCURATAMENTE( fino a 400 anni di età il margine di errore è minore del 10% )Conifere: Abete, pino, cirmolo e la maggior parte delle altre conifere.Latifoglie: Tiglio, pioppo, faggio, acero e molti legni simili di latifoglie.Legni orientali: Circa il 70 % delle essenze normalmente utilizzate per sculture cinesi; circa

l'85% delle essenze normalmente utilizzate per sculture di Buddha del Sud-Estasiatico.

Legni africani: Circa l'85 % delle essenze usate per sculture e maschere di tribù sub-sahariane. TIPI DI LEGNO DATABILI ACCURATAMENTE( fino a 400 anni di età il margine di errore è compreso tra il 10 ed il 20 %)Conifere: Larice.Latifoglie: Ciliegio, noce, rovere, farnia e altri tipi di quercia che crescono localmente.Legni orientali: Alcune essenze comunemente utilizzate per sculture di Buddha.Legni africani: Alcune essenze utilizzate per sculture e maschere africane. TIPI DI LEGNO DATABILI CON MINORE ACCURATEZZAConifere: Cedro.Latifoglie: Pero, salice.Legni indonesiani: Alcune essenze utilizzate per sculture e maschere di tribù dell'Oceania. TIPI DI LEGNO FIN ORA SCARSAMENTE O PER NULLA DATABILICastagno, ebano, mogano, palissandro, bosso, alcune essenze indonesiane ed alcuni legni di cuimancano ancora sufficienti comparazioni certe.

Confronto tra la Spettrografia IR e il Radiocarbonio 14C

Età presuntaPrecisione dei metodi

Anni Spettroscopia IR14C (radiocarbonio)

0 - 50 Buona Significativa, ma non certa *50 - 350 Buona per legni noti Inapplicabile con certezza350 - 800 Buona per legni noti Buona con le limitazioni note800 - 1000 Buona con > tolleranza Buona>1000 Finora solo indicativa Buona* La bomba atomica ha aumentato in modo significativo la formazione dell'isotopo 14C.

Dati riportati da http://www.copiesandfakesinart.com/index-ita.htm

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SUL FALSO Per raffinare la propria capacità di distinguere ciò che è autentico, il miglior esercizio è riconoscere ciò che è falso. Friedrich Winkler Si può dire che, tutto ciò che inganna, incanta. Platone Al giorno d’oggi la gente conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna. Oscar Wilde Oggettivamente lo studio dei materiali che in qualche modo vengono ritenuti falsi non può prescindere dal fatto che la falsificabilità non è che un caso, dimenticato e complesso, della serialità, dell’esemplarità, in una parola, della riproducibilità manuale dei prodotti artistici. Massimo Ferretti Le falsificazioni devono essere servite calde, così come escono dal forno. Max Jacob Friedländer Non compriamo più orologi, bibite o borsette, ma Rolex, Coca-Cola, Fendi […] La stessa cosa vale per i disegni e i dipinti […] Un’opera firmata da un artista famoso è un oggetto incantato e quell’incantesimo, di cui non è necessariamente responsabile l’autore, moltiplica il suo valore sul mercato. Eric Hebborn Il falso, in ogni senso, è la conseguenza di una possibilità di speculazione. è perfettamente inutile falsificare qualcosa se questa operazione non ci concede alcun lucro. Finché esistono i miti esisteranno sempre anche i falsi. Vincenzo Accame I capolavori non sono nascite singole e solitarie, ma il risultato di molti anni di pensiero della gente tutta, di modo che, dietro alla singola voce vi è l'esperienza di una massa. Virginia Woolf Nessuno deve imitare la maniera di un altro, perché egli non sarebbe che il nipote e non il figlio della natura, quanto all'arte. Leonardo da Vinci Non conosco niente di più bello che non sia vero. Victor Hugo

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L’AUTENTICITÀ DEL PENSIERO falso/autentico, essenziale/accessorio, morale/immorale

nelle riflessioni dei veri Maestri

EMILIO VEDOVA Sono un pittore… e mi è difficile esprimermi con altra lingua […] Nello studio mi ‘sento’. Quando non lavoro posso esser anche un altro – non respiro… non mi ritrovo… non mi sento. ARMANDO PIZZINATO Da quando ho incominciato a dipingere, da oltre trent’anni, ho sempre cercato la soluzione dello stesso problema: quello di dare concretamente volto ad una certa realtà. […] Amerei, a conclusione della mia vicenda, di poter venir definito: un «costruttivo» pittore della realtà. TANCREDI PARMEGGIANI Un uomo è tanto più grande quanto più universo ha in sé; un quadro è tanto più grande quanto più universo ha in sé. […] Arte è libertà; lo stile di un artista nasce con l’opera che è il risultato del suo equilibrio naturale. Quando un artista si costringe ad una forma diventa un conformista, quindi un mediocre. VIRGILIO GUIDI Luce, forma e colore sono e resteranno un trinomio inscindibile, i soli strumenti idonei a esprimere un’idea della pittura che è sostanzialmente necessità di una nitida misura mentale. GIORGIO DE CHIRICO Nella parola metafisica non ci vedo nulla di tenebroso; è la stessa tranquillità e insensata bellezza della materia che mi appare metafisica. ACHILLE PERILLI Io non credo che il quadro sia oggetto d’arte, credo che sia oggetto di ricerca. Credo alla sequenza di ricerca che si attua come serie di procedimenti e gesti che si compiono in un arco di tempo determinato. MASSIMO CAMPIGLI Vorrei che le mie tele offrissero una consolazione; che il quadro arrivasse ad una perfezione formale che appagasse sensi e spirito. RICCARDO LICATA Io lavoro per gli altri. Credo fortemente in questo: l’arte è un atto morale.

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GRUPPO 2 ANDREUTTO REBECCA, BRAMBILLA DAVIDE, DAL GIAN CRISTINA, DE ROSSI MARCO EMILIO, DE SABBATA GIOVANNA, LEVORATO IRENE, LIGI MARTINA, PICCINI FRANCESCA, SCHIOPPA ISABELLA, TREVISAN GIULIA

RITORNO ALLA FIGURAZIONE In questa sezione sono presentati artisti che, per gran parte del Novecento, si sono dedicati a riscoprire il fascino e le potenzialità di un’arte rappresentativa, talvolta in aperta polemica con le tendenze a loro contemporanee.

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RITORNO ALLA FIGURAZIONE Tendenza trasversale nel percorso dell’arte del Novecento e non riducibile quindi ad un solo movimento artistico, la figurazione ritorna ciclicamente nelle poetiche di molte avanguardie a mostrare nei dipinti soggetti riconoscibili, in contrapposizione a fasi nelle quali, in nome di istanze legate in vario modo all’astrazione, si rinuncia invece alla rappresentazione. Non è un caso che tendenze figurative si diffondano soprattutto nel periodo tra le due Guerre Mondiali, cioè tra il 1919 e il 1939, quando si sente la necessità di ritrovare delle certezze, rifacendosi a ciò che si conosce o che si può riconoscere, dopo i furori e gli eccessi creativi d’inizio secolo. É un ritorno sia ai valori dell’arte antica, della quale viene riscoperto il fascino e l’equilibrio formale, sia agli aspetti più dimessi e quotidiani dell’esistenza, caratterizzato tuttavia anche dalla cosciente assimilazione delle stilizzazioni e dei simbolismi tipici delle avanguardie. Gli artisti qui presentati non sono accomunati solo dalla dimensione lirica ed evocativa delle loro immagini, ma anche da scelte stilistiche antiretoriche, volutamente lontane da quelle ufficiali del regime fascista. Già negli anni della guerra De Chirico condivide la sua poetica con Carrà e inaugura il movimento della Metafisica, nel quale si fondono memoria e immagine; Campigli, invece, ripropone le immagini immobili un passato arcaico, quasi preellenico e ancestrale; anche Guidi tornerà all’arte classica, prediligendo però un’arte poeticamente sospesa, fatta di visioni incantate e quasi astratte; Music ritornerà, attraverso il filtro consolatorio della memoria, alle care immagini dell’Istria della sua infanzia, dopo aver conosciuto e raffigurato gli orrori dei campi di sterminio.

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Massimo CAMPIGLI Max Hilenfeld (poi noto con lo pseudonimo di Massimo Campigli) nasce a Berlino nel 1895 da una ragazza madre diciottenne. Allevato dalla nonna, che crede la vera madre, scoprirà casualmente la verità solo a quindici anni e la rivelazione lascia un forte segno nella psiche del futuro artista, che vedrà il mondo femminile con occhi particolari. Durante gli studi classici matura un forte interesse per la letteratura e per l'arte, che lo porta a frequentare l'ambiente futurista milanese e a conoscere Umberto Boccioni e Carlo Carrà. A Parigi dal 1921, espone le sue opere al Salon d'Automne. Nel 1927 Campigli entra a far parte del gruppo “I sette di Parigi” detto anche “Italiens de Paris”, assieme de Chirico, Tozzi, Severini, De Pisis, Paresce e Savinio, in un sodalizio durato fino al 1932. Campigli ricerca il rigore e la simmetria, l’armonia e l’equilibrio, ma anche la quiete interiore che traspare grazie alla purezza del segno. Pittore di sottile e ricchissima cultura, Campigli fa dell’apparente “facilità” di stile una cifra linguistica. Questo gli procura un immediato e persistente successo di pubblico ma circonda la sua figura di un alone di sospetto da parte dell’avanguardia “impegnata”. Nel 1928, in occasione di un viaggio a Roma, visita il Museo di Villa Giulia e rimane affascinato dall'arte etrusca. A partire dal 1929, il pittore partecipa alla Biennale di Venezia. La passione per l’affresco lo porta ad accettare la realizzazione di un affresco di trecento metri quadrati nell'atrio del “Liviano” all’Università di Padova. Negli anni della maturità l’artista sembra interrogarsi sempre più sulla possibilità o meno di trovare “la formula definitiva” per arrivare a cogliere e a rappresentare la donna nel suo aspetto eterno e immutabile; per questo egli compie, fin dall’inizio, un viaggio “a ritroso” nel tempo alla ricerca di una memoria di archetipi lontani, di forme ancestrali e arcaiche in cui poter ritrovare non solo l’evocazione di un paesaggio interiore a lui più congeniale, ma anche la sua stessa identità. In questi ultimi anni che lo vedono procedere spedito alla ricerca dell’archetipo il suo pensiero coerente e lineare lo porta a rintracciare l’origine della forma. La morte lo coglie a Saint Tropez nel 1971.

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Massimo CAMPIGLI, Figure di donna, 1959 Olio su tela, cm 75x55, firmato “CAMPIGLI” in basso a destra “Lo giudico NON AUTENTICO. L’abbinamento dei colori non è conforme e le facce delle figure principali che sono manifestamente non conformi alla produzione di Campigli. Composizione sbilanciata e firma non conforme.” Nicola Campigli - ARCHIVIO CAMPIGLI ROMA

Nel suo nomadismo culturale, Campigli ha esplorato il fascino degli Egizi e degli Etruschi, l’arte cretese e micenea, evocando quelle «cose antiche e lontane» con accuratezza nel definire le forme rispettosa della qualità dei modelli, forme qui ridotte a manichini sgraziati. Fondamentali sono anche l’equilibrio compositivo, che palesemente manca nel falso, nonché i colori tenui e armonici, qui stesi invece in modo molto più piatto e poco attento ai passaggi graduali.

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Giorgio DE CHIRICO Nato a Volos, in Grecia nel 1888 da genitori italiani, Giorgio de Chirico studiò a Monaco, dove si interessò alla filosofia. Nel 1910 si stabilì a Parigi, dove conobbe Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso ed elaborò la pittura metafisica. Al Salon d´Automne del 1912 de Chirico espose per la prima volta le proprie opere metafisiche. La sua migliore produzione pittorica si situa tra il 1909 e il 1919, nel periodo dell’invenzione della pittura metafisica. Mentre era ricoverato all’ospedale di Ferrara, nel 1917, conobbe Carlo Carrà, con cui iniziò a confrontarsi; a partire dal 1920 le loro teorie furono divulgate dalla rivista “Pittura metafisica”. Dirà de Chirico “i buoni artefici nuovi sono dei filosofi che hanno superato la filosofia”. Per lui la filosofia denuncia le situazioni, mentre l’arte le esprime: “Schopenhauer e Nietzsche inseguirono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venir tramutato in arte, anzi dovesse costituire l’intimo scheletro di un’arte veramente nuova, libera e profonda”. Le Piazze d’Italia sono il primo soggetto metafisico e apparentemente sono delle vedute urbane, ma rivelano anomalie nella costruzione prospettica che modificano la prima impressione, creando disagio nell’osservatore. Dal 1922 de Chirico si avvicinò al gruppo dei Surrealisti, dai quali però si distaccò ben presto, in primo luogo per ragioni estetiche (anche se nel 1929 pubblicò il romanzo Hebdomeros, un capolavoro della letteratura surrealista). Il “pictor classicus” - come si definisce in “Valori plastici” - era interessato alla ricerca delle radici figurative e non poteva essere d’accordo con chi voleva programmaticamente distruggere il passato. Impregnato di cultura rinascimentale e umanistica, De Chirico elabora una verità non verificabile mediante l'esperienza, ma senza giungere al dissidio, alla decontestualizzazione dell'oggetto propria del Surrealismo. Il manichino (tema caro alla pittura metafisica dell’artista) segue il pittore nel teatro della finzione della vita. La decisione di firmarsi “Pictor Optimus” testimonia quanto de Chirico attingesse alla tradizione, fino ad erigere una sorta di monumento al passato, e quanto fosse intimamente convinto del proprio lavoro. Nel 1944 si trasferì a Roma, dove visse fino al 1978, quando morì al termine di una lunga malattia.

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Giorgio DE CHIRICO, Piazza d’Italia, s. d. Litografia (acquerellata a mano) incollata su tela, cm 82x62 “Trattasi di litografia incollata su tela interamente coperta di pittura a tempera grassa riprendendo tutto lo schema della composizione con colori molto più netti che si estendono anche ai margini del foglio litografico in bianco. La litografia presenta delle aggiunte alla composizione soprattutto nei due margini laterali con un’arcata e una finestra in più e una maggiore estensione dell’ombra proiettata dell’architettura di destra ed anche sulla torre vi sono tracce di modifiche del disegno rispetto a quello originale. La firma posta in basso a destra non corrisponde a quella originale del maestro”. Prof. Mario URSINO - Consulente Tecnico per l’arte moderna e contemporanea presso il Tribunale di Roma, ROMA

Le opere metafisiche di de Chirico presentano un’accurata scelta nelle cromie, rafforzate da toni contrastanti e sostenute da contorni nettamente delineati. Non a caso l’artista esortava i pittori contemporanei a “tornare al mestiere”, tanto era per lui importante il piano esecutivo. Nel falso le linee sono deboli e incerte, mentre la stesura del colore appare spesso insufficiente e povera: la stessa composizione risulta nient’altro che un assemblaggio di vari soggetti dechirichiani.

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Virgilio GUIDI Nato a Roma nel 1891, da giovane Virgilio Guidi segue i corsi dell’Istituto Tecnico a Roma, appassionato di geometria e disegno; per coltivare quest’ultima vocazione frequenta anche i corsi serali della Scuola Libera di Pittura. Nel 1908 comincia a far pratica presso la bottega del restauratore e decoratore Giovanni Capeanesi. A distanza di pochi anni,per contrasti sulle tendenze della pittura moderna, abbandona lo studio di Capeanesi e si iscrive all’Accademia di Belle Arti a Roma. Compie uno studio approfondito su Giotto, Piero della Francesca, Chardin e Courbet. Sempre in questo periodo comincia a riflettere e a scrivere sulla luce, come determinante dei propri dipinti. Viene a diretto contatto con Cézanne e Matisse; in particolare lo studio della forma-colore di Cézanne lo aiuterà a superare gli strascichi della sua formazione pan-germanica. Mentre le sue riflessioni spaziano fra quest’ultimo e la tradizione quattrocentesca, egli non resta indifferente al cromatismo di Renoir. Fra il 1920 e il 1923 dipinge alcuni dei suoi più importanti quadri di figure; dopo averli esposti alla Biennale di Venezia nel 1922, comincia a venderli, frequentando la “terza saletta” del Caffè Aragno, dove entra in contatto con De Chirico e Ungaretti. Nel 1935, per l’ostilità dell’ambiente veneziano, decide di trasferirsi a Bologna dove insegna all’Accademia delle Belle Arti. Successivamente comincia ad individuare temi teorici-compositvi costanti, come l’apparizione della figura femminile. Nel 1950 prende parte al movimento spaziale animato da Lucio Fontana, mentre dal 1952-1955 la sua ricerca pittorica procede per cicli tematici-compositivi ricorrenti: figure, teste, marine. Nel 1967 il Poliedro pubblica a Roma la sua raccolta di poesia La ragione di essere, e nel biennio 1969-1970, suggestionato dalle foreste marchigiane, conosciute durante un viaggio a Recanati, dà inizio al primo ciclo sul tema dell’Albero. Nel 1983, ormai novantaduenne, lavora a Venezia, dove realizza un ciclo di dipinti sul tema L’uomo e il cielo e dove morirà all’inzio dell’anno seguente.

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Virgilio GUIDI, San Giorgio, s. d. Olio su tela, cm. 23,5 x 18, firmato “Virgilio GUIDI” “Si tratta di un San Giorgio, una delle tematiche più frequentate da Virgilio Guidi. L’opera risulta però palesemente falsa per l’opacità delle stesure, l’assenza di luce interna, tipica delle opere del maestro e soprattutto per l’incertezza delle pennellate. Ovviamente sul retro l’autentica appare falsa. Prof. Dino MARANGON – Co-Curatore Catalogo Generale Virgilio GUIDI - VENEZIA

La visionarietà delle opere della maturità di Guidi riassumono la sua concezione sintetica e poetica dello spazio e della luce. Sono visioni in cui le forme paiono semplici ricordi, consumati da una luce che non è solo fisica, ma piuttosto metafisica. Il falsario prende spunto dalla composizione di Guidi ma non riesce a giungere alla stessa sintesi: non rinucia a definire i dettagli delle architetture e uniforma le pennellate, stese lungo la medesima direzione orizzontale, fino a creare campiture inerti.

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Anton Zoran MUSIC Nato a Gorizia nel 1909, studia all’Accademia delle Belle Arti di Zagabria e completa la sua formazione con una lunga attività in Spagna, Francia, Austria e Svizzera. Durante un soggiorno a Venezia nel 1944, viene arrestato dalla Gestapo e trasportato a Trieste. Qui è imprigionato per quattro settimane in una strettissima cella del sottosuolo, inondata dall'acqua. Viene interrogato e torturato. Messo davanti alla scelta di entrare nei reparti speciali istriani associati alle S.S. o andare in Germania, Music sceglie la via di Dachau. Solo i disegni, eseguiti in condizioni disperate, gli permettono di sopportare l'esperienza del campo di sterminio. Scrive: "Ancora oggi mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti […]. Vivevo in un quotidiano paesaggio di morti, di moribondi, in apatica attesa. Stecchiti e come congelati, i morti mi fanno compagnia". L'orrore è tale che il suo solo pensiero è di poterlo testimoniare. I disegni sono eseguiti con rischio estremo, in condizioni impossibili: inchiostro nascosto e allungato con acqua per farlo durare, foglietti piegati nascosti sotto la camicia, carta e penne sottratte ai laboratori dove lavora con gli altri prigionieri. Dei duecento disegni eseguiti riesce a salvarne solamente trentacinque. Dopo essere stato liberato dagli americani nel 1948, espone alla Biennale ed è sostenuto da Massimo Campigli. Anche negli anni seguenti si esprime essenzialmente attraverso il valore lirico di un colore dalle sfumature raffinate, quasi monocromo; i soggetti, talora legati ai ricordi della terra natale, come la serie dei Cavallini, o di un riconquistato rapporto con la natura, come nella serie delle crete senesi, assumono essenzialmente valore di simbolo e notazione grafica. Muore a Venezia nel 2005.

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Anton Zoran MUSIC, Cavallini, 1966 olio su tela, cm 30x40 “La composizione del quadro risulta non conforme all’operato dell’artista, è svuotato di senso artistico, risulta una caricatura del lavoro di Music. Non c’è nessuna maestria nel tratto e nella comprensione della forma. La firma sul fronte e sul retro risulta apocrifa. Rappresenta un esempio banale di falso”. Ida Barbarigo Cadorin, Venezia

I Cavallini di Music, così come le sue vedute del Canale della Giudecca, sono in realtà visioni, come dimostra la loro raffinata tecnica esecutiva. Su un fondo uniforme dal tono caldo che evoca la terra, viene stesa una pittura povera e quasi monocroma, ma accuratissima nelle sfumature che consumano i profili delle forme e quasi cancellano le cose, annullandole nella dimensione della memoria. Il falsario fraintende completamente quest’ultimo dato, stendendo goffamente non delle velature, ma grossolane macchie nette.

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GRUPPO 3 BAGNARA MATTEO, CAMILLI FRANCESCO, DE VECCHI MICOL, DI MEO SILVIA, FINOTTO CAMILLA, GIUSTO VALENTINA, LO PICCOLO LUANA, MALTESE FABIO, MARCATO ANDREA, MINIO LETIZIA, PISANO PIER LORENZO, SABBADINI BEATRICE, VEDOVATO ALESSIA, ZAMENGO FRANCESCO

INFORMALE VENETO Gli artisti di questa sezione sono tutti accomunati dall’essere veneti e dall’essersi formati a Venezia; la loro opzione astratta è infatti legata indissolubilmente al valore fondamentale dell’arte veneziana, ossia la fusione tonale di colore e luce

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INFORMALE VENETO L’arte astratta nega la rappresentazione del mondo oggettivo in senso naturalistico e tende a sostituirla con un linguaggio visivo autonomo, dotato di significati propri, contrapponendosi perciò all’arte figurativa. Tale corrente, nata attorno al 1910 dalle ricerche di F. Kupka e W. Kandinskij, ha avuto enorme diffusione in tutte le nazioni e ha dato origine a numerose correnti d’avanguardia anche nel secondo dopoguerra: dall’arte informale di Wols all’action painting di Pollock, dall’espressionismo astratto di Kline e Gorky allo spazialismo di Fontana. In questa sezione sono presentati artisti veneti o friulani, particolarmente rappresentativi dell’evoluzione dell’astrazione in Italia. Sono accomunati non solo per la nascita o la formazione veneziana, ma soprattutto per aver saputo legare le loro scelte espressive, nate dal contatto con le migliori esperienze europee o statunitensi, a una riflessione sui tradizionali valori della pittura veneziana quali la luce o il colore. Vedova, Afro e Pizzinato fecero parte del “Fronte Nuovo delle Arti”, costituitosi nel 1946. Sul piano formale, lo stile del gruppo si inserì tra il realismo e l’astrattismo; Il Fronte fu aperto a tutti gli artisti che aspiravano a un deciso rinnovamento della cultura italiana, nel rispetto di posizioni personali anche contrastanti nel nome della massima libertà espressiva, diritto di ogni artista, ed accomunati da un forte impegno sociale e morale. Nel 1950 avvenne la scissione tra le due tendenze opposte: nacquero così il Gruppo degli Otto (cui parteciparono Vedova e Afro) formato dagli artisti uniti dal comune indirizzo astratto E sensibili al nuovo messaggio dell’Informale materico europeo o o all’action painting statunitense, e il Movimento Realista (al quale aderì Pizzinato), che proponeva un’arte impegnata nella figurazione vera e propria, dai soggetti di valore politico. Tancredi, di una generazione più giovane, fu invece seguace dello Spazialismo, un movimento d’avanguardia nato tra il 1947 e il 1948 e basato sulle idee di Lucio Fontana. Tramite nuove sperimentazioni formali, l’arte spazialista mirava alla ricerca dello spazio in sé e a raffigurare l’esperienza emotiva come impulso emozionale, che per Tancredi divenne pura sensibilità cromatica.

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Emilio VEDOVA Nato a Venezia nel 1919, Vedova iniziò la sua carriera pittorica come autodidatta. Nei suoi primi lavori la vitalità del segno si lega all’attenzione verso lo spazio architettonico, fonte di immagini visionarie. Dopo aver aderito al gruppo milanese di “Corrente” nel 1942, nato con il proposito di rinnovare l’arte italiana riconducendola ai suoi fondamentali impegni morali e civili, nel dopoguerra si orientò verso l’Astrattismo aderendo al Fronte Nuovo delle Arti. I quadri di Vedova sono legati al suo accanito senso etico, morale e politico, che lo ha portò a creare un’arte di protesta, accesa dalla partecipazione in prima fila alla resistenza partigiana durante la Seconda guerra mondiale. I suoi dipinti sono caratterizzati da grande forza espressiva e sono eseguiti con ampie pennellate: questo dà l’impressione di campiture stese con violenza, con poche sfumature, quasi come se un colpo di pennello ne sfregiasse un altro, che si impadroniscono della tela attraverso una disposizione quasi caotica anche se permanentemente ordinata. Così definiva il suo modo di dipingere: “La mia tensione è di non perdere il sentire — lo sprofondamento — la possibilità di registrare e di consegnare il captato. Nessuno stile imposto — nessun "rigore". La pratica dell'artista è tutto ciò — egli si addentra nei territori della temerarietà, si spinge, osa, si contraddice, — si tradisce.” Tra i colori prevale il segno nero, violento ed energico, nel quale si intravedono indignazione e passione intensa e sofferta, allegoria moderna di un difficile ambiente da costruire; ma i segni neri sono anche frammenti di oscurità. Proprio l’artista disse che la sua pittura è fatta di “geometrie nere” Sebbene il nero resti attraverso gli anni il suo colore, lo accosta però al bianco che è metafora di luce, opposta proprio al nero-tenebra e che vuole essere spettrale; all’interno di questo insieme bicromatico a volte appare anche un rosso simbolo di squarcio e ferita. Il suo stile riprende il senso dello spazio, della luce e dei volumi tipico di Rembrandt e Tintoretto ma anche la tradizione della pittura veneziana legata al Barocco di Tiziano e Guardi. Vedova scompare nel 2006, un mese dopo la moglie Annabianca, compagna d’arte e di vita.

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Emilio VEDOVA, Senza titolo, 1984 Tecnica mista su carta, cm. 42x59,5, firmata e datata in basso a destra “Lo giudico NON AUTENTICO. L’impostazione grafica può ricordare alcuni cicli di disegni di Emilio Vedova ma il segno è approssimativo, debole e scarabocchiato, non è preciso e radicale come quello che caratterizza le opere del maestro. Ci sono molte incertezze e ritengo possibile che il dipinto sia stato realizzato da un dipinto originale; reca firma apocrifa. Riscontro che sul retro vi sono vere e proprie parodie di scrittura del maestro tra cui la scritta “di umano”, celebre ciclo di opere di Vedova del 1984/85”. FONDAZIONE EMILIO E ANNABIANCA VEDOVA – VENEZIA

La passionale arte di Vedova si basa su un linguaggio gestuale dinamico, che definisce lo spazio in termini non solo esistenziali ma anche fisici. Esprime vitalità e libertà; La tensione che si crea sull’equilibrio degli opposti, che si pongono come alternative tra luce ed ombra ma anche tra segni e spazio, creano “geometrie nere” percepibili come eventi nelle tre dimensioni. Il falsario si preoccupa invece solo di equilibrare il peso dei neri rispetto al fondo bianco, tra l’altro non riuscendovi, fino a creare solo un tessuto di pennellate inesorabilmente piatto.

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Tancredi PARMEGGIANI Nato a Belluno nel 1946, Tancredi studia all’Accademia di Venezia assieme a Vedova ed è allievo di Pizzinato. Il primo decennio di attività lo vede sperimentare tecniche e supporti diversi, dall’olio al compensato, dall’acquerello al pastello, dalla china al carboncino su tela e carta. Le sue scelte figurative assumono un carattere deciso alla fine degli anni quaranta, quando si indirizza verso l’astrattismo di Kandinskij, accentuando la valenza materica delle sue superfici sotto l’influenza di Pollock e la tecnica del dripping facendo gocciolare sulla tela o addirittura schizzando il colore. In questo periodo aderisce allo Spazialismo e, sostenuto da Peggy Guggenheim e Virgilio Guidi, giunge ad un astrattismo in cui la geometria appare sfumata da una moderata action painting, riallacciandosi anche alle soluzioni formali delle avanguardie novecentesche. Gli anni cinquanta sono il suo momento più prolifico e felice, anche se allo stesso tempo inizia ad emergere il suo profondo malessere interiore, quasi esorcizzato da una pittura gestuale, fresca e briosa. Tancredi è capace di suggerire il dinamismo attraverso le sue pennellate vorticose; la forza dei colori, dai toni caldi, si congiunge ad un elegante decorativismo fatto di forme ripetute o di campiture inserite come tasselli, sulle quali si sovrappongono velature di piccoli punti. Anche se la sua pittura è inequivocabilmente astratta, Tancredi mantiene uno stretto contatto con la natura, evocandola attraverso atmosfere rarefatte e sognanti, forse simboliche; egli la considerava infatti come il punto di partenza per creare immagini dettate dalla fantasia e dall’emotività. Nel 1962, dopo un crisi nervosa a Monza, è ricoverato e gli viene diagnosticata la schizofrenia; nel 1964 si suicida a Roma, gettandosi nel Tevere.

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TANCREDI, Senza titolo, s. d. Olio su tela, cm 60x48 “Viene giudicato NON AUTENTICO. Si tratta di un lavoro che prende spunto da ciclo di opere dell’artista del ’54 e facenti parte di una famosa collezione veneziana. L’opera originale venne esposta nel 1987 al Palazzo Forti di Verona”. ARCHIVIO STORICO ARTISTI VENETI – TREVISO

Per Tancredi la rappresentazione non figurativa si configura come una ricerca tesa a dissolvere il colore nella luce, definendo una più complessa profondità dei piani, “spaziale” in quanto “pura immagine, aerea, universale, sospesa”. L’opera falsa è priva della libertà che caratterizzava ogni sperimentazione cromatica dell’artista, simile a una leggera scrittura musicale anche quando, come in questo caso, faceva convivere campiture colorate poste in contrasto, in un’espansione dinamica.

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Afro BASALDELLA Accanto ai fratelli scultori Mirko e Dino, Afro Libio Basaldella fu un importante esponente dell’arte italiana del secondo dopoguerra: divenne noto con il solo nome, col quale si firmava. La sua versione dell’astrazione ha saputo coniugare i valori dell’arte italiana alle novità dell’espressionismo astratto statunitense. Nato a Udine nel 1912, Afro si diploma in pittura a Venezia nel 1931, dopo aver stretto contatti a Roma, nel 1929, con Scipione, Mario Mafai e Corrado Cagli. A Milano nel 1932 conosce altri importanti artisti, come Arturo Martini, Birolli e Morlotti. Nel 1936 apre la sua prima mostra personale. Il suo linguaggio espressivo è influenzato dalla tradizione del colorismo veneto. Nel dopoguerra, con l’adesione al Fronte Nuovo delle Arti del 1946 lo stile di Afro diviene neocubista. Nel 1950, grazie alla presentazione di Cagli, Afro si reca a New York, dove subisce molto l’influenza dell’ambiente artistico e spinge il suo stile verso l'astrazione, in una personale versione capace di mediare la foga liberatoria dell’action painting americana con la ricerca di equilibrio compositivo di origine culturale europea. Nelle sue opere il piacere della materia e del colore predomina sulla radicalità dell’astrazione, giungendo a una sorta di astrattismo concreto. Dopo aver esposto a Documenta I, a Kassel alla metà degli anni Cinquanta è ormai conosciuto internazionalmente. Nel 1956 aderisce al Gruppo degli Otto, raccolto attorno al critico e storico dell'arte Lionello Venturi; nel 1958 ottenne la commissione per dipingere il murale per la sede dell’Unesco a Parigi, accanto ad opere di Picasso, Mirò, Appel, Arp, Calder. La sua fama cresce ed espone in importanti sedi internazionali, ottenendo prestigiosi riconoscimenti, tra i quali il premio italiano al Solomon R. Guggenheim Museum di New York: il museo acquistò un suo dipinto del 1957. Negli anni Settanta Afro inizia a soffrire problemi di salute e si spegne nel 1976.

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AFRO, Senza titolo, 1961 Tecnica mista su carta intelata, cm 50,5x37,5, firmata in basso a dx “AFRO 61” ”L’opera di cui trattasi risulta una composizione poco aderente alla produzione del pittore Afro. La composizione non risulta neanche aderente al periodo compositivo dell’artista. La firma è apocrifa”. Mario GRAZIONI – ARCHIVIO AFRO, ROMA

Il linguaggio espressivo di Afro è di impronta veneta, legato alla tradizione cromatica della pittura che ha risentito dei rapporti culturali con la civiltà bizantina. Esso si prefigge di definire in profondità i piani delle strutture geometriche, delineati dai forti segni strutturali, tramite un fine gioco di velature e di sfumature. Il falsario, pur abile tecnicamente, ne imita solo l’energia dinamica delle pennellate, che prendono il sopravvento sull’intera composizione.

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Armando PIZZINATO Nato a Maniago, in Friuli, nel 1910, nel corso dell’adolescenza Pizzinato apprezzò l’etica del lavoro e gli ideali socialisti, valori che guidarono la sua vita d’uomo e di artista. All’Accademia di Belle Arti di Venezia conobbe Guidi, Turcato e Viani. Nel 1936 vinse una borsa di studio e si recò a Roma, dove incontrò Renato Guttuso, col quale condivise in seguito l’orientamento verso il realismo sociale. Tornato a Venezia, divenne amico di Emilio Vedova col quale, durante la guerra, aderì al partito comunista clandestino. Nella sua pittura rielaborò spunti cubisti e futuristi (forte è l’influenza dell’opera di Gino Rossi e di Guernica di Picasso), aggiungendovi una spiccata propensione per i violenti contrasti cromatici, capaci di proiettare emozioni e dinamismo nelle opere. Nel primo dopoguerra aderisce al Fronte Nuovo delle Arti, producendo le serie dedicate ai Cantieri. Peggy Guggenheim acquisterà Primo Maggio (1948) per donarlo al MOMA di New York. Con la scissione del Fronte Nuovo, è tra i promotori del “Realismo italiano” con cui espone alla Biennale del 1950. Artista militante, crea opere di forte impegno civile, morale e politico, dal linguaggio pittorico illustrativo e quindi di immediata comprensibilità, dove traspare la maestria compositiva e coloristica della fase astratta. Nel lungo decennio del realismo sociale realizza opere fondamentali, quali la serie dei Costruttori (1961-1962), dedicata ad esaltare il lavoro degli operai edili, e soprattutto il grande ciclo di affreschi della sala del consiglio dell’Amministrazione provinciale di Parma (1953-1956) in stretta collaborazione con Carlo Scarpa, cui si deve l’intero arredamento della sala. A partire dagli anni sessanta, segnati da tragici eventi familiari, i soggetti e la stessa tecnica pittorica di Pizzinato si fanno più lirici e intimisti. Improntate a cromie più tenui e a raffinate velature, nuove vedute di Venezia si alternano ai boschi di betulle visti in Russia, alla serie dedicate al volo dei gabbiani, che segna i primi anni settanta. Scrive Pizzinato: “da quando ho incominciato a dipingere, da oltre trent’anni, ho sempre cercato la soluzione dello stesso problema: quello di dare concretamente volto ad una certa realtà”. L’artista si spegne a Venezia nel 2004.

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Armando PIZZINATO, Senza titolo, s. d. Olio su tela, cm 40x60 “NON AUTENTICO. Il tema dei “Gabbiani” è qui riproposto in una forma compositiva priva di logica, accumulando un numero esagerato di volatili assolutamente statici e innaturali, che nulla hanno a che vedere con il libero volo dei gabbiani nel cielo. Cromaticamente il cielo è reso attraverso campiture indifferenziate di color celestino, mentre nell’opera di Pizzinato varia con velature di diverso colore che emulano la mutevole atmosfera dei cieli veneziani. Oltre a quanto detto sopra, la firma è rozzamente contraffatta”. Dott.ssa Patrizia PIZZINATO - ARCHIVIO GENERALE ARMANDO PIZZINATO, VENEZIA

Nel 1962, l’improvvisa morte della moglie Zaira provoca una profonda crisi nell’artista, che torna ad una pittura intima, dal grande lirismo nell’evocare la natura. Le composizioni giungono quasi all’astrazione e si fanno anche dinamiche, ritrovando le matrici futuriste e costruttiviste del primo dopoguerra. In ogni dipinto vi è però sempre una tessitura del colore raffinata, di ascendenza veneziana, per cui i toni si sovrappongono sfumandosi: una sensiblità del tutto assente nel falsario, attento solo a rendere il dinamismo delle pennellate.

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GRUPPO 4 ANDRICH CHIARA, CONTÒ LORENZO, LACHIN FRANCESCA, PERINI BEATRICE, ROCCO CECILIA, RUSSO IRENE, VIAN FABIO

L’ASTRAZIONE TRA SEGNO E COLORE In questa sezione sono affiancati artisti italiani che hanno sviluppato poetiche astratte, legate soprattutto al valore del segno e del colore, che nelle loro opere diventano linguaggi autonomi e fortemente riconoscibili

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L’ASTRAZIONE TRA SEGNO E COLORE Attraverso linee, forme e colori, l’Astrattismo intende rappresentare la verità interiore dell’artista, al di fuori di qualsiasi rapporto con l’aspetto oggettivo della realtà. Non a caso questo movimento venne elaborato partendo da alcune premesse artistiche, costituite dalle esperienze del Fauvismo e dell’Espressionismo: movimenti dei quali fu annullata proprio la residua necessità di rappresentare il soggetto per far prevalere, sulla scorta dell’esperienza cubista, l’altra componente, quella della sua libera interpretazione. Poiché l’astrazione approfondisce la sperimentazione del colore di radice espressionista, concentrandosi su un’originale ricerca di ritmi cromatici e di fenomeni luminosi, nel dopoguerra in Italia si assisterà a un fiorire di ricerche formali, diversificate secondo le individuali propensioni culturali ma nella maggior parte dei casi legate al “neoespressionismo” dell’Informale europeo o dell’action painting statunitense. Gli artisti presentati in questa sezione offrono invece una campionatura degli altri sviluppi dell’arte astratta in Italia, secondo due tra le diverse direzioni di sviluppo dell’astrattismo in Europa: il lavoro sul segno, come immediata traccia espressiva (Scanavino) o come alfabeto arcaico e primario (Licata); la ricerca geometrica e cromatica (Dorazio, Perilli), che riprende e sviluppa alcuni caratteri dell’astrazione analitica del periodo tra le due guerre. Ciascuno dei quattro artisti si espresse in modi tanto soggettivi da non essere direttamente assimilabili ad alcun altro movimento europeo. Ciò che li accomuna (e che è generalizzabile a tutta la pittura astratta) è la connessione tra impegno artistico e impegno morale, la volontà di identificazione tra etica ed estetica, ossia tra vita e arte, sviluppando in modo rivoluzionario un linguaggio artistico che, forse utopisticamente, volle rinnovare anche la stessa condizione della società.

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Piero DORAZIO Artista romano, nato nel 1927, Dorazio studiò inizialmente architettura, ma sentì già da giovane la vocazione per il disegno e dell'arte astratta, che definirono la sua arte, fatta di costruzioni ispirate rigorosamente alla geometria. Già nel 1946 fece parte del “Gruppo Arte Sociale” con Perilli; nel 1947 partecipò alla redazione del manifesto e della mostra “Forma 1” insieme a Consagra, Turcato, Accardi e Sanfilippo. Altrettanto precoce fu l’interesse per le esperienze artistiche estere, sviluppato in lunghi soggiorni di studio e concretizzatosi nella partecipazione a diverse mostre. Il suo astrattismo è difficilmente riconducibile a una particolare corrente, in quanto, anche se i ritmi cromatici lo accomunano in parte all’informale statunitense, la sua cifra particolare, i reticoli di linee disposte lungo direzioni contrapposte per creare effetti ottici e quasi cinetici, lo avvicina allo spazialismo. Per Dorazio tema dominante della sua ricerca è “comporre delle progressioni di unità di colore o fasce in successione” per dare immagine agli “effetti della luce e del movimento sul nostro occhio e quindi sulla nostra psiche”. Nei suoi dipinti il disegno lascia il posto alle sensazioni cromatiche, per cui i colori non sono più semplici attributi delle forme, ma divengono elementi generatori dello spazio. Egli ha esposto più volte a Londra, a New York e con personali alle Biennali di Venezia del 1960, 1966 e 1988. Nel 1974 si stabilì a Todi e vi insegnò nella Scuola Atelier per la Ceramica moderna, continuando a ottenere prestigiosi riconoscimenti internazionali. Fra il 1993 ed il 1996 curò il progetto per l'esecuzione di cinquanta grandi mosaici di artisti internazionali nella metropolitana di Roma. Morì a Todi nel 2005.

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Piero DORAZIO, Alcatraz, 2002 olio su tela, cm 60x75, firmato “Piero DORAZIO” “Prendo visione del dipinto sopra descritto e posso affermare che l’opera non la reputo autentica. Rilevo infatti forti incongruenze nei colori, nelle tecniche di esecuzione e nel disegno stesso; la stessa tela è stata intelaiata con criteri assolutamente estranei alo studio del maestro. In conclusione, a mio parere trattasi di opera “non autentica””. Roberto REGINALDI, collaboratore del maestro Piero DORAZIO – TODI (PG)

Dorazio soleva affermare: “ piuttosto di correggere un quadro, lo butto”. Egli voleva che le sensazioni colpissero l’osservatore in modo immediato e vi riusciva soltanto con quadri fatti di getto. Per lui non esisteva un motivo ispiratore, ma una serie infinita di combinazioni fra tecnica, colori e composizione, per trasmettere emozioni attraverso i colori in movimento, che divengono forme. Nel falsario si sente invece il timore di sbilanciare la composizione, irrigidita in una sterile ricerca di equilibrio compositivo, estranea al sentire dell’artista.

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Riccardo LICATA “Per me dipingere è una necessità: ho scelto questo mezzo per esprimermi e per comunicare”. Licata ha sottolineato il rifiuto di ogni collegamento con la tradizione “inventando” una nuova arte informale, quasi una scrittura gestuale. Nato a Torino nel 1929, dal 1946 è a Venezia, dove inizia a cimentarsi con il mosaico e dove conosce Santomaso, Vedova, Viani e Turcato. Nel 1950 inizia ad esporre, aderendo a un gruppo di tendenza astratta. Partecipa con un grande mosaico alla Biennale di Venezia del 1952 e, l’anno successivo, alla Triennale di Milano. Diviene prima assistente di Gino Severini e poi docente alla cattedra di mosaico all’Accademia di Parigi e, dal 1970, di tecniche dell’incisione in quella di Venezia. Partecipa alle Biennali di Venezia del 1964, 1970 e 1972, oltre che a varie mostre internazionali. Il primo segno che Licata inventò, nel 1953, fu l’ “albero-totem” o “albero-nota musicale”, capace di evocare antichi pittogrammi arcaici. Da semplice soggetto esso diventa tecnica di stesura del colore e sarà destinato a divenire cifra inconfondibile nell'arco di tutto il percorso dell’artista. In tal modo egli si allontanò dagli sviluppi materici dell’informale, esplorando le possibili relazioni bidimensionali che si creano tra i segni raggruppandoli su registri di varia forma e importanza. Le relazioni così formate non sono lineari, ma simultanee e dinamiche. Licata ha esposto presso le più pretigiose mostre e istituzioni internazionali; attivo anche come scenografo, ha realizzato grandi mosaici in spazi pubblici di città italiane e francesi.

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Riccardo LICATA, Senza titolo, 1960, Tecnica mista su carta intelata, cm 76,5 x 94 “Ho visionato personalmente l’opera proposta. Posso affermare che trattasi di opere contraffatta non a me attribuibile. Rilevo che il disegno non corrisponde alla datazione cosi come non sono congrue né la tonalità e il tipo di colore né la tempera e la carta da me utilizzata per opere similari.” Prof. Riccardo LICATA

Licata ha eletto il suo segno-gesto a strumento per manipolare la materia informe e per equilibrare la superficie pittorica; in questo senso la percezione di ogni registro “scritto” delle sue opere avviene in modo simultaneo e non in successione spaziale. Se nei suoi dipinti l’alternanza dei segni forma un insieme complesso e dinamico, nel falso si nota la mancanza di contrasto tra le parti: anzi, il linguaggio pittorico si mostra fin troppo attento a calibrare i toni e le assonanze tra le parti.

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Emilio SCANAVINO Per la coerenza della ricerca e i rapporti maturati con la contemporanea arte informale europea, Scanavino costituisce una delle voci più alte dell’arte astratta italiana. Nato a Genova nel 1922, la sua prima formazione lo porta verso l’architettura, tanto che nel dopoguerra lavora come disegnatore tecnico presso l’amministrazione comunale di Genova. Frattanto coltiva la passione per la pittura e nel 1950 vi si dedica completamente, iniziando ad affermarsi nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale. Nel 1951 conosce Bacon, Fontana, e gli artisti Jorn, Appel, Corneille del gruppo Cobra. Nel 1953 gravita intorno al gruppo milanese degli spazialisti, senza mai aderirvi ufficialmente La poetica dell’informale si delinea nel segno e nella materia e il confronto del suo linguaggio pittorico con l’informale di matrice europea, in particolare con la lezione di Wols, di Mathieu e con le suggestioni di Bacon. Nascono in questo periodo i primi Rituali e gli Alfabeti senza fine, i temi ricorrenti nella sua pittura. Sulla tela i segni si alternano e si sovrappongono formando nodi e tensioni, ritmando pieni e vuoti in insiemi di notevole forza. Nel 1958 è invitato Biennale di Venezia; nel 1960 e nel 1966 vi avrà una sala personale. Lungo gli anni Settanta il segno di Scanavino si semplifica e si raccoglie in griglie o architetture geometriche, che formano immagini ossessive e dalla forza simbolica di una travagliata condizione esistenziale. un’arte in cui I colori predominanti sono il grigio ed il nero, alternati talora al rosso, fino a creare un’arte di forte drammaticità. Nel 1973 la Kunsthalle di Darmstadt gli dedica una vasta e approfondita antologica. Muore a Milano nel 1986.

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Emilio SCANAVINO, La Finestra, s. d. Acrilico su tela, cm 50x50 “Il dipinto si propone come riconducibile alla produzione degli anni settanta, tuttavia alcune caratteristiche rendono la tela anomala rispetto la produzione certa dell’artista. Innanzi tutto l’uso di colori acrilici anziché ad olio, le pennellate che costituiscono la sigla tipica dell’artista nella tela in questione non riesce ad assumere il rilievo prospettico che è tipico del pittore e che ne costituisce il precipuo linguaggio pittorico inoltre manca completamente della dinamica strutturale vi sono invece grovigli pasticciati e informi. Infine la firma non può essere giudicata come firma autentica”. Dott.ssa Mariastella MARGOZZI - Consulente Tecnico per l’arte moderna e contemporanea presso il Tribunale di ROMA

Anche se i tratti da cui nascono i dipinti di Scanavino sono veloci e decisi, per trasmettere un’alta intensità emotiva, essi nascono da una profonda riflessione compositiva. Ogni segno si collega agli altri definendo e valorizzando così la disposizione degli spazi vuoti e delle sfumature degli sfondi. I Si crea così un insieme teso e in equilibrio sospeso, concentrato sui nodi creati dalla convergenza dei segni. Anche se la sua tecnica può essere facilmente riprodotta, altrettanto facilmente il falsario rischia di trasformare l’opera in un oggetto decorativo, privo dell’originaria drammaticità.

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Achille PERILLI Perilli è noto per le composizioni dai colori forti, basati su forme somiglianti alla proiezione sul piano di parallelepipedi, ma che risultano alla fine inverosimili ed irregolari. L’artista nasce a Roma nel 1927 e, dopo aver frequentato il liceo classico, nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Lettere; diviene allievo di Lionello Venturi, con il quale prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di Giorgio De Chirico. Assieme a Dorazio, Guerrini, Vespignani, Buratti, Muccini e Maffioletti fonda il “Gruppo Arte Sociale” (GAS); Nel 1947 partecipa alla redazione del manifesto “Forma 1” (firmato anche da Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo e Turcato) ed espone alla prima mostra del gruppo omonimo. Nel 1950 fonda, con Dorazio e Guerrini, la Libreria-Galleria “Age d’Or”; che pubblica un Omaggio a V. Kandinskij e organizza inoltre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna la mostra Arte astratta e concreta in Italia, la prima rassegna completa dell’astrattismo italiano. Lucio Fontana invita l’ “Age d’Or” a collaborare alla Triennale di Milano: Perilli, Dorazio e Guerrini realizzano in collaborazione due grandi pitture murali, premiate con medaglia d’argento. Nel 1962 ha una personale alla Biennale di Venezia, e l’anno seguente aderisce al “Gruppo 63”. Negli anni Ottanta Perilli partecipa alla realizzazione della rivista “Retina”, nella quale pubblica il manifesto Teoria dell’irrazionale geometrico. Nelle opere degli anni Novanta il linguaggio di Perilli si rafforza ulteriormente in un cromatismo acceso: le forme si sviluppano in modo bidimensionale, espandendosi nello spazio della tela e suggerendo strutture fantastiche, eleganti e dinamiche.

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Achille PERILLI, Griz, 1999 tecnica mista su tela, cm 50x50 “Dipinto contraffatto recante sul retro la mia firma apocrifa. Aggiungo che il soggetto proposto in questo falso è copiato da una mia opera originale che però ha dimensioni diverse. Si tratta del dipinto “GRIZ 1999” di cm. 20x20 – tecnica mista su tela, pubblicato in un mio catalogo (“Achille Perilli”, Fotolito Udinese UD – pag. 35). Noto che l’opera è installata su un telaio assolutamente diverso da quelli da me utilizzati. Grossolana la stesura dei segni, anche se il falso è ben riuscito e potrebbe trarre in inganno il collezionista meno attento. Falsa la scritturazione e la firma apposte sul certificato di autenticità posto a corredo dell’opera.” Achille PERILLI

A partire da una figura geometrica, un parallelepipedo o un quadrato, Perilli genera quadrati, losanghe, triangoli, fino a creare strutture improbabili e sospese. Il collegamento tra le varie parti non segue però un ordine geometrico e razionale, ma è automatico e quindi irrazionale. Nelle sue opere si registra sempre una voluta contraddizione tra la presenza forte della figura e l’asimmetrica sequenza delle parti geometriche, che nel falso, appiattito e prevedibile, non si registra.

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GRUPPO 5 DAMIN FEDERICO, LAZZARI ANDREA, LÖBISCH BEATRICE, LOREFICE RITA, MANFREO EDOARDO, PELLIZZARI CHARLOTTE, PLOP DANIELA, SPONZA CAMILLA, TIRITICCO MATILDE

POP ART E OLTRE L’ultima sezione vede una selezione di artisti che possono a pieno titolo rappresentare sia il “versante europeo” del Pop statunitense, sia la sua contaminazione da parte di altri linguaggi, dall’arte povera all’informale

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POP ART E OLTRE Nei primi anni Cinquanta le esperienze dell’Informale in Europa e dell’Espressionismo astratto negli Stati Uniti si legano alle novità poste sotto la bandiera del New Dada. Se i colori impastati delle correnti informali riproducevano l’interiorità dell’artista, quelli del New Dada rivestono gli oggetti banali del vivere quotidiano. Il New Dada non vuole annullare il senso del reale, ma recuperarne la sostanza, a tal punto che le opere diventano spazio della presenza fisica della realtà quotidiana. I temi pop nascono da queste premesse. La vera Pop Art, infatti, si sviluppa nei circoli culturali inglesi del secondo dopoguerra, ma la sua consacrazione avviene nel 1956, in occasione della mostra This is Tomorrow alla Whitechapel Gallery di Londra. Nel 1958 un articolo sulla rivista “Architectural Design” fa il punto della situazione, identificando la nuova forma d’arte come un’arte fatta di immagini banali legate al consumismo di massa, di stereotipi, di semplificazioni, in cui le merci hanno più rilievo degli oggetti d’arte e i fumetti raccontano in modo più efficace dei romanzi. In scultura si esclude la figura umana, sostituita da oggetti quotidiani; le cose più semplici diventano ambigue, deperibili. La Pop Art definisce l’umanità in termini concreti e sociali; la condizione esistenziale non è più interiorizzata e subita, come nei movimenti precedenti, ma svelata e aggredita. La Pop Art americana soppianta quella inglese, spostando il centro del fermento artistico da Parigi e Londra a New York. L’Italia, che non resta indifferente ai movimenti dinamici della nuova tendenza, vede arrivare la Pop Art con la Biennale di Venezia del 1964. Gli artisti italiani si trovano di fronte ad un linguaggio già codificato, al quale devono in certo modo adattarsi, mentre quelli americani impongono uno stile che durerà fino agli anni Ottanta, quando per l’ultima volta si riconoscono i fermenti di una delle correnti più importanti della storia dell’arte americana e mondiale del Novecento. Il gruppo di artisti qui presentato allinea, accanto a forse il massimo esponente della tendenza in Italia, due esponenti europei che mostrano come le tendenze pop ben presto si contaminino con quelle di altri movimenti, dagli interessi materici dell’Informale al neodadaismo del Nouveau Réalisme.

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Mario SCHIFANO Appassionato studioso di nuove tecniche pittoriche, Schifano - nato ad Homs, in Libia, nel 1934 - fu tra i primi ad usare il computer per creare opere d‘arte. La sua fu un’arte bidimensionale, artificiale e macchinosa, che attingeva alle fonti più disparate, creando così immagini sempre nuove. Sebbene egli stesso preferisse non essere inquadrato in alcuna corrente artistica, non è errato considerarlo rappresentativo della cosiddetta “pop art”, anche se egli stesso distingueva: "Ho fatto i miei lavori contemporaneamente, e non successivamente, alla pop art. La pop art la facevano loro e la imponevano, quasi come un fatto politico". Nella sua opera l’estetica pop si unisce a tecniche realizzative sperimentali e a ricerche formali trasversali ai diversi ambiti espressivi: pittura, cinema, fotografia, musica, performance multimediali. Frammenti di marchi pubblicitari, oggetti di consumo della vita quotidiana, immagini della “nuova” comunicazione politica e commerciale e altri elementi compositivi che si riallacciavano alla cultura pop (come i fiori, in omaggio a quelli di Andy Warhol) iniziano in quel periodo ad assumere nella poetica pittorica dell’artista un rilievo centrale. Apparentemente semplice, umanamente complesso: così appare nella retrospettiva alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, inaugurata nel 2008, in occasione del decennale della morte. Pur nella linearità e nella compostezza della sua produzione artistica, Schifano è un artista dalla personalità tortuosa. La sua pittura stabilisce un contatto con la realtà esterna: essere artista moderno significa essere uomo moderno, non sottrarsi alle circostanze ma viverle e descriverle attraverso l’arte, magari accelerando il ritmo artigianale della pittura per portarlo a quello industriale della macchina. I monocromi degli anni sessanta, ad esempio, sono occasioni per estendere il colore su tutta superficie: espansione e concentrazione si trasformano in un atto delimitato spazialmente dal colore e temporalmente dal segno, in un’unità di spazio e tempo. In lui vita e arte viaggiano in parallelo, influenzandosi reciprocamente: come soleva dire, bisogna porre “un occhio all’arte e due alla vita!”. La sua esistenza è stata una parabola vertiginosa, che lo ha consacrato come uno degli artisti “maledetti” del XX secolo.

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Mario SCHIFANO, Palma e cuori, s. d. Acrilico su tela, cm. 194 x 130, firmata in centro “Schifano” “Lo giudico “NON AUTENTICO” per la tecnica di esecuzione adottata, nello specifico manca della gestualità di SCHIFANO, ripresa dal repertorio dell’artista ma eseguita in modo estremamente scadente. Vi è stato apposto del prodotto per simularne l’invecchiamento. Dei materiali adottati solo alcuni corrispondono a quelli comunemente usati dall’artista. Inoltre reca la firma apocrifa di SCHIFANO sul fronte” Renzo Colombo - “FONDAZIONE M.S. – ROMA

La gestualità nella stesura del colore, tipica dell’artista, sembra a prima vista la qualità più facile da imitare. Schifano partiva da immagini fotografiche, proiettate sulla tela e ripassate rapidamente sui contorni per lasciare spazio alla loro libera ricreazione operata dal colore, spesso industriale. Ma proprio la rapidità e la sicurezza dell’esecuzione risulta difficilmente ripetibile: il falsario si preoccupa infatti di “rimanere negli spazi” e non si mostra indifferente ai dettagli e invece attento all’effetto complessivo come l’artista.

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Raymond HAINS “L’artista è come un personaggio mitico, che si appropria del reale per farlo suo”. Con queste parole Hains, artista e fotografo, nato nel 1926 in Francia, si definiva in quanto artista. Con Hains l’arte entra nel quotidiano. La sua arte è fatta di oggetti trovati per strada, di cose tradizionalmente escluse dall’interesse degli artisti. Come nel caso di Arman, anche Hains intende protestare contro i falsi miti del consumismo, come dimostra la particolare scelta tecnica del décollage, che si potrebbe definire il contrario del collage, applicata alle spensierate immagini pubblicitarie. A partire dal 1946, Hains scopre infatti il fascino della strada e dei manifesti incollati ai muri e li fa propri, creando così opere d’arte: li strappa, staccandone delle parti e ne lascia solo alcuni frammenti, che, privi dell’originario significato, divengono inediti collage materici. In questo campo un suo predecessore è Mimmo Rotella che nel 1955, per primo, espose il “manifesto lacerato” a Roma. Hains è uno spirito libero e vagabondo: compie un viaggio in Italia negli anni sessanta, periodo al quale appartengono le sue opere migliori. Espone a Venezia i suoi primi fiammiferi giganti, ma non si limita a questo, “impossessandosi” dei manifesti italiani e creandone altri, più colorati e meno politicizzati. Nel ’68 presenta alla Biennale di Venezia, su pannelli in fibra di plastica, le copertine deformate, in quanto viste attraverso vetri scanalati, dei cataloghi di ogni padiglione nazionale della Biennale: la dissacrazione è infatti un’altra caratteristica peculiare della sua arte. Negli anni novanta ricorre anche a procedimenti informatici, realizzando stupende opere con immagini digitali. Muore a Parigi nel 2005, a 78 anni; tre anni prima, nel 2002, il Centre Pompidou di Parigi gli aveva reso onore, realizzando una sua grande retrospettiva.

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Raymond HAINS, Scatola di fiammiferi (4 fiammiferi), 2000 Tecnica mista, cm 70x141x31, firmata sul retro “R. HAINS” su etichetta “Le giudichiamo non autentiche. Il progetto della n. 25 non gli venne mai sottoposto. La n. 26 non fu approvata dall’artista in quanto non voleva che la foto di Picabia fosse apposta sulla scatola”. Liliale VINCY e Patrick Jean Charles ALTON MARQUES - COMITATO D’AUTENTICITÀ PER LE OPERE DI RAYMOND HAINS, PARIGI

La versatilità della ricerca di Hains e la sua tenica esecutiva sommaria sono state spesso sfruttate dai falsari per riprodurne lo stile. Se nel caso delle opere di dimensioni più notevoli, come questa, esiste una documentazione che guidava (oppure no, come in questo caso) l’esecuzione, nel caso dei décollage si nota senza difficoltà che del falsario si è preoccupato di togliere dell parti per creare una composizione equilibrata, partendo da parti precedentemente incollate in tal senso: niente di più lontano dal neodadaismo dell’artista.

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Arman FERNANDEZ Nasce a Nizza nel 1928, ma in seguito ottiene la cittadinanza americana. Internazionalmente noto come Arman, è tra i maggiori esponenti della corrente del Nouveau Réalisme. Questo movimento si richiama a quello dadaista, mettendolo in rapporto con l'evoluzione continua intervenuta nella società nel corso degli anni, e concentrando quindi la propria attenzione sull'oggetto. Le sue opere più note sono le Accumulazioni, che traggono il proprio nome dall’idea di ripetizione: raccolte quasi ossessive e feticiste di qualsiasi tipo di oggetto di utilità quotidiana, quali scarpe, chiavi inglesi, bottiglie, ecc., messe all'interno di vetrine che assumono il ruolo delle cornici nei quadri tradizionali. Moltissimi suoi lavori sono collocabili all'interno di serie che lui stesso definisce, appunto, "Accumulazioni", "Immondizie", "Tagli", "Collere". Già del '61 Arman scriveva: "questo processo lavorativo è correlato con i metodi attuali: automazione, catena di montaggio, ma anche produzione seriale di rifiuti, che crea strati su strati geologici, colmi di tutta la forza del reale." Con queste parole egli esplicita la volontà di farsi conoscere attraverso il confronto con la società del proprio tempo. Al contrario degli artisti della Pop Art, Arman lavora con i resti della società dei consumi, non sui prodotti che da essa provengono, e si pone in maniera esplicitamente critica di fronte ad essa; anche se è innegabile che un senso di fascinazione continui a promanare dall'oggetto in quanto tale, dalla sua forma e dalla sua esistenza come parte integrante dell'esperienza umana del mondo. Arman si spegne nel 2005, all'età di 76 anni.

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ARMAN, Scultura (scomposizione di violino), s. d. tecnica mista, cm 24x31,5x4,5, firmata “ARMAN” “L’opera sequestrata è da me giudicata non autentica, sia per la tipologia del lavoro, molto confuso ed eseguito con un accumulazione inventata, sia per il getto del colore non conforme alla tipologia del maestro, nonché per la tela e per il tipo di colore utilizzato. La firma del maestro ARMAN è sicuramente apocrifa sia sull’opera che sull’ expertise.” Sig. Dante VECCHIATO – VECCHIATO ART GALLERY – PADOVA (parere condiviso dall’archivio Denyse DURAND RUEL di PARIGI e dall’Archivio ARMAN di New York)

Nell’intera attività di Arman i falsari si sono contentrati soprattutto sulle opere di maggior impatto formale, dove gli inteventi pittorici rendono più vivace l’insieme e quindi più “appetibile” per i collezionisti. Arman tuttavia creava accumulazioni strutturate con la forza di sculture classiche, ossia secondo linee compositive sghembe o arcuate sempre riconoscibili. Il falsario invece getta alla rinfusa le parti di violini e poi le “condisce” con spruzzate di colore fin troppo preordinate e ripetute.

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PARTE SECONDA ATTORNO AL FALSO: SAGGI BREVI Dove il cortese lettore o la gentile lettrice potrà approfondire le tematiche inerenti l’idea di falsificazione, a partire dai solidi fondamenti della Storia per giungere alle vette della Filosofia e della Giurisprudenza

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L’antica arte della falsificazione Innnanzitutto la falsificazione di qualsiasi epoca o ambito è caratterizzata da due elementi essenziali: l’esecuzione e lo scopo fraudolento. Considerando questo secondo aspetto vanno escluse, dunque, tutte le imitazioni e gli esercizi “à l’antique”, realizzati per assecondare il gusto del committente o provare l’abilità dell’artista nel gareggiare con i modelli antichi. Un esempio è l’Amore dormiente di Michelangelo, che si dice lo stesso artista avesse sotterrato per conferirgli un aspetto “vissuto”. Solitamente, quando si inizia a tracciare una breve storia cronologica dello sviluppo della falsificazione artistica, si inizia dal Rinascimento, perché in quel periodo il ritrovato interesse per l’antichità e il formarsi del giudizio critico e di valore delle opere d’arte favorirono la produzione di falsi. La storia della falsificazione inizia tuttavia assai prima, in epoca classica e fin dai primordi della storia di Roma. Non si tratta certo di sporadici episodi, dato che ci sono pervenute molte testimonianze in merito: da orazioni giudiziarie a favole tutt’altro che fantastiche; da trattati sulla vita quotidiana ad aneddoti. Nell’antica Grecia venivano spesso falsificate epigrafi – anche se occorre ricordare che spesso in questo caso influivano motivi economici, allo scopo di aumentare il valore dell’oggetto - o monete, per le quali le pene erano severissime, benché spesso fossero commissionate dallo stato. Bisogna, tuttavia, precisare che in antichità e, in particolare, nel periodo anteriore all’ellenismo il concetto di falsificazione era legato soprattutto a quello di mistificazione della materia, ovvero era molto diffusa la pratica di imitare diversi materiali pregiati, addirittura oro e argento. Purtroppo per simili sostanze è arduo determinare se si tratti di una falsificazione: infatti l’oro non subisce quasi mai alterazioni e i depositi di origine organica, che talvolta vi si formano, sono facilmente imitabili. Allo stesso modo, l’argento assume facilmente patine, spesso imitate con l’impiego del solfuro d’argento, e per quanto questa pratica sia complessa e di difficile resa vi sono ancora alcuni casi di dubbia autenticità. Non si deve, però, pensare sempre che queste imitazioni avessero uno scopo doloso, perché di frequente si ricorreva a tali espedienti a causa della necessità di reperire facilmente materiali preziosi in grande quantità e a basso costo.

A tale proposito occorre citare due fonti importanti che illustrano in modo chiaro l’argomento. La prima si trova nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio e più precisamente nel libro XXXIII, dove si tratta della lavorazione e dell’impiego dei metalli più pregiati, l’oro e l’argento, e del mercurio. Oltre a menzionare l’esistenza di trattati didattici per la fabbricazione di gioielli falsi, Plinio ci lascia alcune testimonianze del fatto che fosse in uso produrre oggetti preziosi falsi. Ecco qui di seguito un esempio:

Miscuit denario triumvir Antonius ferrum. […] Igitur ars facta denarios provare. […] In hae artium sola vita discuntur et falsi denarii spectatur exemplar pluribusque veris denariis adulterinus emitur. (Naturalis Historia, XXXIII, 132)

Antonio il triumviro fece mescolare ferro all’argento dei denari. […] Ne è nata di conseguenza un’arte di saggiare i denari. […] Questa è l’unica fra le arti nella quale le falsificazioni sono oggetto di studio: si analizza attentamente un esemplare di denaro falso, e un denaro contraffatto si compra al prezzo di più denari veri.

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La seconda è un antico documento che fa parte della raccolta Papyri graeci Leidensis, contrassegnato con il numero X e custodito presso la biblioteca dell’Università di Leida, in Olanda. Questo papiro risale alla fine del III secolo d.C. e venne compilato in Egitto sulla scorta di ricette tratte da varie opere precedenti; qui la falsificazione della materia probabilmente si configura già come “alchimia”, cioè inganno teso al pubblico, o quantomeno non si può determinare con certezza l’uso che venisse fatto di questi consigli. Come già ricordato, le sostanze maggiormente imitate furono l’oro e l’argento. Riportatiamo qui alcune ricette che possono ben esemplificare questa pratica.

N°49: Doratura dell’argento. Per dorare un vaso d’argento senza impiegare foglia d’oro, sciogliete in acqua patron giallo e sale. Strofinatelo e apparirà dorato.

N°50: Scrittura con lettere d’oro. Dopo aver seccato alcune foglie [d’oro], macinatele con gomma [probabilmente arabica] e scrivete.

N°55: Colorazione in oro. Miscelate del cinabro con allume, versate sopra (il miscuglio) dell’aceto bianco e, dopo averlo portato alla consistenza della cera, spremetelo a più riprese e lasciatelo riposare una notte.

Inoltre ci è giunto anche un aneddoto, nel quale si racconta che persino la moglie dell’imperatore Gallieno, Saponina, era stata ingannata acquistando dei gioielli, che si erano rivelati falsi.

«Un tizio vendette alla moglie dell'imperatore Gallieno alcuni gioielli falsi. Gallieno ordinò che fosse dato in pasto ai leoni, ma, dopo qualche tempo, al momento dell'esecuzione, di fronte al mercante terrorizzato si presentò non un leone, ma un cappone. Agli spettatori, scontenti per il "mancato spettacolo", un araldo riferì che questa era la punizione inflitta dall'imperatore "Perché chi inganna gli altri, deve essere a sua volta ingannato".»

Con il fiorire dell’industria del falso, la produzione di copie si estese a molte altre tipologie di opere, come i bronzi, sulle quali spesso venivano apposte firme di celebri maestri, ad esempio Fidia, o attorno alle quali fiorivano storie che le descrivevano come di antica fattura. Ad esempio, nell’età ellenistica e romana molte statue furono realizzate nelle regioni dell’Oriente ellenistico e della Magna Grecia, tra il I secolo a.C. e il I d.C., su richiesta del ricco mercato romano, che ricercava opere di provenienza greca per soddisfare il gusto e la moda dei collezionisti. Nella maggior parte dei casi si trattava di falsificazioni, anche se bisogna attribuire ai loro artefici un grande merito, cioè quello di averci permesso di conoscere opere delle quali è andato perduto l’originale. Abbiamo, però, qualche testimonianza, risalente al I secolo d.C., in cui si menzionano falsi di statue greche di alcuni artisti contemporanei. Nelle sue Fabulae Fedro scrive:

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[PROLOGUS] Idem poeta.Aesopi nomen sicubi interposuero, Cui reddidi iam pridem quicquid debui, Auctoritatis esse scito gratia: Ut quidam artifices nostro faciunt saeculo, Qui pretium operibus maius inveniunt, novo, Si marmori ascripserunt Praxitelen suo, Trito Myronem argento, tabulae Zeuxidem. Adeo fucatae plus vetustati favet Invidia mordax quam bonis praesentibus. (Fabulae, Liber V)

PROLOGO. Ancora il poeta A Esopo già da tempo ho restituito tuttoquello che gli dovevo; se ora inserirò ilsuo nome in qualche parte, sappi che èper ragioni di prestigio, come fannocerti artisti dei nostri giorni cheriescono a ottenere un prezzo maggioreper le loro opere moderne, se scrivonoPrassitele sui loro marmi, Mironesull'argento cesellato, Zeusi sui quadri.L'invidia mordace accorda maggiorefavore all'antichità fasulla che aiprodotti attuali, per quanto buoni.

Oltre a ribadire l’osservazione in parte fatta prima, ovvero che nell’antichità la separazione tra falsi e imitazioni era tutt’altro che netta, bisogna, però, notare come la frase “…qui pretium operibus maius inveniunt…” denoti già lo scopo speculativo che animava questi artisti.

Quando, successivamente, la sede dell’Impero romano fu spostata a Bisanzio, gli imperatori cominciarono a fare incetta di opere illustri per adornare la nuova capitale, e anche qui non cessò l’azione dei falsari. I metodi utilizzati dai falsari per invecchiare le imitazioni sono numerosi. Alcuni sono quelli descritti nel papiro X di Leida (fine III sec.), sopra analizzati. Altri, ad esempio, sono l’uso di aceto e di acidi per corrodere la superficie dei marmi, o della fiamma ossidrica per imitarne la calcificazione; l’impiego del permanganato e l’acqua di ruggine per la patina, o di agenti chimici particolari per riprodurre l’impronta delle radici delle piante, ritenuta una prova valida per riconoscere i marmi a lungo sepolti. In conclusione, non si possono additare regole sicure per l’identificazione di falsi antichi, ma solo un’attenta e approfondita conoscenza dello stile e un’adeguata esperienza della tecnica possono permettere di giudicare se un oggetto appartenga all’antichità o sia un falso. Marta Serafini Bibliografia D. MUSTILLI, Falsificazione, in Enciclopedia dell’Arte Antica Classica e Orientale, vol. III, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana G. Treccani, 1960, pp. 576-587. L. VLAD BORRELLI, Falsificazione, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. V, Novara, De Agostini, 1981, col. 315. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, traduzione di A. Corso, R. Mugellesi, G. Rosati, Torino, Einaudi, 1988, l. XXXIII. Sitografia http://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Carabiniere/2004/02-Febbraio/Militaria/102-00.htmhttp://www.gbp.it/copiasitopv_inlinea/archivio_pdf/anno2005/4_05_cultura.pdf

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Falsari o artisti mancati? Ci siamo mai chiesti, accostandoci alla questione della falsificazione, quale sia il vero motivo che spinge un falsario a ingannare osservatori, collezionisti ed esperti, con opere intenzionalmente contraffatte? Se la risposta, che affiora subito alla mente, è il motivo puramente economico, vuol dire che non abbiamo approfondito a sufficienza anche altri aspetti del problema. Forse questo presupposto calza maggiormente per i contraffattori del ventunesimo secolo, che vedono nella speculazione un profitto facile e immediato; ma per quanto riguarda i falsari del passato, anche di un passato quanto mai vicino come il periodo tra Ottocento e Novecento, le cause sono altre. I falsari in questione rispondono ai nomi famosi di Alceo Dossena, Federico Joni e Hans van Meegeren. Certo, la scusa del guadagno facile costituiva, anche per loro, una valida spinta; forse ancor più, se si considera che scialacquavano subito il profitto in piaceri di ogni tipo, dato che la loro condizione sociale era tutt’altro che benestante. Ognuno di questi personaggi ha avuto una propria esperienza personale, che in parte l’ha portato ad affidarsi alla professione disdicevole di falsario, e in parte sembra avercelo costretto contro la sua volontà. Alceo Dossena Nacque a Cremona nel 1878 e di professione faceva il ferroviere. Lavorando in diverse botteghe, inizialmente come assistente, Dossena divenne in breve un raffinato scultore, autore di statue monumentali, nonché, appunto, un abile falsario. Dopo aver fatto molta pratica, soprattutto con il restauro, iniziò un’attività artigianale in proprio, realizzando sculture in stile quattrocentesco e cercando di soddisfare le richieste dei diversi clienti. Nel 1928 egli si accorse che oltreoceano erano state vendute come autentiche alcune sue opere e decise di citare in giudizio i mercanti che avevano speculato sulla sua produzione. L’inevitabile conseguenza fu la scoperta dei suoi falsi e lo scandalo ebbe una risonanza talmente vasta che addirittura la stampa americana ne parlò, con esiti ben poco proficui per il mercato antiquario italiano, dato che lo stesso “Corriere della Sera”, pubblicando la notizia dello scandalo, aggiunse che “da qualche tempo sui mercati esteri di cose antiche si è diffusa una spiegabile diffidenza verso gli antiquari italiani.” La vicenda personale di Dossena, però, è peculiare rispetto alle altre, pur strane, dei suoi “colleghi”: infatti, ormai sopitosi il clamore suscitato dallo scandalo, la sua vita si concluse amaramente, dato che finì i suoi giorni dimenticato da tutti in un ospedale romano. Icilio Federico Joni Nacque a Siena nel 1866 e fin dai primi anni rimase segnato da una serie di affidamenti a familiari e conoscenti diversi, per il fatto che la madre l’aveva esposto alla ruota dei trovatelli. Questa esperienza incise in seguito profondamente sul suo temperamento. L’attività di restauro di dipinti originali, affidatigli da mercanti e antiquari del luogo gli consentì di formarsi un’adeguata preparazione alla professione di falsario. Successivamente iniziò a dipingere autonomamente e nel giro di poco tempo sviluppò eccellenti abilità artistiche. Nel corso della sua attività si ispirò soprattutto al tardo Medioevo e al Rinascimento, ma subito dimostrò di essere capace di cambiare stile con disinvoltura. L’incontro con lo storico d’arte Bernard Berenson non fece che stimolarlo ancor più ad un’assidua produzione di contraffazioni che assunse connotazioni quasi ossessive e maniacali. Lo stesso Berenson ad un certo punto gli consigliò di allestire una

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mostra personale a Firenze, che, però, sarebbe risultata un grande fallimento, convincendo ancor più Joni della sua scelta. La sua fortuna fu talmente grande che arrivò anche a ricoprire la carica di soprintendente dell’Istituto di Belle Arti di Siena, ma il gesto che denota la sua sfrontatezza fu certamente la pubblicazione del libro Le memorie di un pittore di quadri antichi (1932), un’opera di autodenuncia in cui sembra provare gusto nel rivelare al lettore tutti i suoi espedienti più raffinati per frodare gli intenditori. Ciò che si evince da questa scarna biografia è una personalità quanto mai singolare, sulla quale sono pesate certamente le esperienze d’infanzia, che lo portarono a condurre una vita sregolata. Infatti, con il suo modus vivendi, egli aveva provocato non poche polemiche da parte dell’aristocrazia senese, che criticava sia “il carattere speciale della attività artistica di lui, notissimo imitatore di quadri dell’antica scuola senese”, sia la “condotta di vita reputata libertina e gaudente, sregolata e immorale.” Possiamo presumere che anche quest’ultima derivasse del suo fiero orgoglio di falsario che voleva rivalersi sul mondo; del resto, una parte della critica pensa di vedere in lui più un pittore rinascimentale nato nel secolo sbagliato, che un falsario perseguibile dalla legge. Hans van Meegeren Nacque a Deventer, in Olanda, nel 1889. Studiò architettura e pittura ed in seguito iniziò a sviluppare una produzione autonoma che, però, venne giudicata alquanto scadente e troppo tradizionalista. Fu questo, senza dubbio, il motivo che lo spinse a mettere in commercio dei falsi. A differenza di Joni, della cui volontà di prendersi gioco di esperti del settore non abbiamo testimonianze certe, in Van Meegeren questo è esplicitamente dichiarato. Egli utilizzò supporti autentici, ottenuti dopo aver accuratamente scrostato i dipinti originali di artisti sconosciuti; fece così in modo di non essere smascherato facilmente. Grazie alla sua profonda conoscenza della pittura olandese del Seicento, dipinse soggetti nuovi in aderenza allo stile di Vermeer, tanto che tutti i critici d’arte li definirono “meravigliose scoperte”. Lo tradì la sua mania di grandezza, poiché arrivò a vendere per somme ingenti alcune sue produzioni a potenti capi nazisti: terminata la Seconda Guerra Mondiale venne processato con l’accusa di collaborazionismo e, dunque, fu costretto a confessare la sua professione di falsario per evitare l’ergastolo. In tale occasione merita ricordare un piccolo aneddoto: la sua autodenuncia di fronte alla giuria non venne creduta da nessuno, tanto che, per ottenere credibilità, egli dovette chiedere di dipingere davanti agli occhi dei giudici un falso Vermeer. I tre artisti analizzati non sono certamente gli unici nomi famosi nel campo della falsificazione artistica: si potrebbero citarne altri, quali Umberto Giunti o Igino Gottardi, entrambi peraltro collaboratori di Joni, ma l’elenco sarebbe troppo lungo e visto che, come spesso accade, sono gli stessi falsari a metterci al corrente della loro esistenza, non possiamo sapere quante altre opere potrebbero venire ritenute false nei prossimi anni. È il caso, ad esempio di Eric Hebborn, autore di Troppo bello per essere vero, una sorta di autodenuncia paragonabile a quella di Joni. Dal libro emerge una figura di falsario quasi ironica, sicché sembra che l’autore, anche nella stesura del testo, si beffi di coloro che avevano ritenuto le sue opere autentiche. Ne Il manuale del falsario Hebborn tratta approfonditamente delle diverse tecniche da lui impiegate offrendo utili spunti ai falsari principianti, a quelli di professione ma anche, come spiega nell’introduzione, «all’appassionato d’arte che desideri penetrare nel mondo affascinante delle tecniche artistiche».

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Risalendo ad epoche precedenti, le testimonianze si fanno invece più scarse ma talora assai significative, a dimostrare che gli “Hebborn” sono sempre esistiti. Di Terenzio da Urbino, pittore seicentesco, Giovanni Baglione scrisse una biografia in cui dice: “Venne a Terentio per le mani un quadro antico con una bella cornice intagliata messa ad oro, e con questa occasione vi fece dentro una Madonna con altre figure da un buon disegno ricavate e tento intorno vi si affaticò, e tanto vi pestò, che alla fine gli venne fatto un quadro, che buon, et antico parea, e chi non fusse stato della professione, et buon maestro, vi si saria agevolmente ingannato.” Marta Serafini Bibliografia F. ZERI, Dietro l’immagine: conversazioni sull’arte di leggere l’arte, redazione a cura di L. Ripa di Meana, Milano, Longanesi, 1987. E. HEBBORN, Troppo bello per essere vero, Vicenza, Neri Pozza, 1994. E. HEBBORN, Il manuale del falsario, Vicenza, Neri Pozza, 1995. O. KURZ, Falsi e falsari, a cura di L. Ragghianti Collobi, prefazione di C. L. Ragghianti, Vicenza, Neri Pozza, 1996. Sitografia http://www.lignarius.net/mostre/i%20falsi%20in%20arte.htmhttp://www.carabinieri.it/Internet/Editoria/Rassegna+Arma/2007/3/Studi/03_Croce.htm

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La riproduzione artistica nel XXI secolo Facendo una rapida ricerca nel web, è possibile trovare una vasta scelta di aziende che propongono riproduzioni di opere d’arte qualitativamente molto vicine agli originali, in quanto nel procedimento di riproduzione esse impiegano in larga parte macchinari e strumentazioni. Analizzando questi siti si possono fare alcune considerazioni. Innanzitutto, bisogna notare come dell’azienda, o del lavoro che essa svolge, viene spesso data una presentazione assai scarna. Si può ipotizzare che ciò dipenda dal fatto che la clientela non si preoccupa molto di ciò che sta dietro a queste organizzazioni, quanto piuttosto del risultato: una bella tela dipinta, troneggiante nel salotto di casa. Spesso, per definire i prodotti venduti in questo mercato on-line, si usa la parola “copia” o “riproduzione”. Tecnicamente si tratta proprio di questo, poiché il procedimento prevede una stampa su tela del dipinto scelto; ma, qualora il quadro imiti fin nei minimi dettagli l’originale, persino nel rilievo delle pennellate stese a corpo, allora bisogna cominciare a chiedersi se non si è di fronte ad un caso particolare, in cui il discrimen tra imitazione e copia diviene molto sottile. Stando alla definizione data da Cesare Brandi, ciò che contraddistingue la falsificazione rispetto alla copia o all’imitazione è l’intenzionalità con cui essa viene prodotta e messa in commercio. Ora, nel nostro caso, le aziende in questione non intendono certamente frodare l’acquirente, poiché questi fa consapevole richiesta della copia alla ditta. Bisogna però fare attenzione alle ripercussioni negative, seppur involontarie, che questa pratica può comportare. Il fenomeno, che sta dilagando grazie anche ad Internet, sembra sostituire e contemporaneamente proseguire l’azione del collezionismo, il quale molto spesso si trova all’origine della falsificazione artistica. Evidentemente non si tratta più di un collezionismo colto, ma della possibilità di ottenere un quadro famoso o di proprio gusto a costi ridotti: una sorta di riproduzione artistica alla portata di tutti. Da un lato, se si tiene conto della capacità rivoluzionaria che il fenomeno detiene, la riproduzione permette a chiunque di esprimere il proprio gusto artistico con l’acquisto di un’opera conosciuta; dall’altro, però, un’imitazione così fedele all’originale è rischiosa, perché può allargare ancor più il mercato del falso, fornendo strumenti all’avanguardia a falsari intenzionati ad aggirare i nuovi metodi scientifici impiegati nella verifica dell’autenticità delle opere. Le aziende, inoltre, inseriscono sui loro siti le opinioni dei loro clienti. È quanto mai stupefacente scoprire come un’acquirente che solo poche ore o pochi giorni prima aveva visto dal vivo l’originale conservato in un museo, trovandosi di fronte alla copia richiesta non solo sia capace di constatare come la somiglianza sia straordinaria, ma giunga a provare gli stessi sentimenti e sensazioni provate al cospetto dell’autentico. Sarebbe da chiedersi che cosa penserebbe l’artista di un quadro identico al suo. Se tenderebbe a rifiutarlo, perché esso non solo non rispetta i tempi di lavorazione da lui impiegati, ma soprattutto azzera completamente il fondamentale valore dell’opera come processo finale di esperienze e riflessioni durate per tutta una vita; o se piuttosto lo considerebbe un sistema veloce di diffusione della sua opera, con il conseguente aumento dell’indice di gradimento, nel caso in cui essa sia molto richiesta. Il problema non è di facile risoluzione.

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Ci sono molte aziende che svolgono ancora gran parte del lavoro manualmente e che rispettano i diritti d’autore, rilasciando un certificato di garanzia, che assicura l’esclusivo utilizzo di questa tecnica per la sola realizzazione di ricostruzioni artistiche quanto più fedeli al disegno e ai colori originali dell’opera. Esse appongono sul retro del prodotto sia il loro marchio, associato al brevetto, sia il numero di codice progressivo, in modo da garantirne l’autenticità, rintracciarne l’epoca precisa di realizzazione e infine distinguere ogni riproduzione dal rispettivo originale. Ecco quali sono le offerte che il mercato della copia oggi propone: - Prodotto unico e garantito perché coperto da brevetto - Ricostruzione del colore originale dell’opera - Effetto tattile e visivo dei tratti lasciati delle pennellate originali - Utilizzo di materie prime naturali quali: tele di cotone, lino o juta, legno, affreschi su tela con intonaco toscano, inchiostri ecologici all’acqua, ecc. - Colori resistenti nel tempo, se trattati come vere opere d’arte (protezione da umidità, luce diretta, calore, ecc.) - Applicazione di una cornice adatta alla tipologia dell’opera, personalizzata secondo i gusti del cliente o simile a quella in cui è collocata l’opera originale - Differenze con l’originale visibili solo dal retro della tela: nuova nella ricostruzione, invecchiata nell’originale - Tutte le ricostruzioni vengono progettate, prodotte e distribuite nel rispetto delle norme in materia di diritto d’autore, brevetti e tutela dell’ambiente Riassumendo, quindi, quando si parla di copie come “opere d’arte” alla portata di tutti, è meglio fare attenzione a quale sia la reale finalità di questi prodotti e, soprattutto, quanto possano andare a incidere sull’arte - com’è intensa nel senso tradizionale del termine - e sui suoi artefici, che sembrano cercare di rivendicare un ruolo sociale che ormai più non gli compete. La discussione rimane aperta, anche perché non sembra esserci una risposta giusta tra tante scorrette; essenzialmente si tratta di una questione di buon gusto, uno tra i valori sui quali molto spesso l’arte si è basata. Marta Serafini Sitografia http://www.artevera.eu/index.htmlhttp://www.copia-di-arte.com/a/stampe-di-quadri/http://www.bottegadautore.it/http://www.riproduzionidarte.it/

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Il concetto di falsificazione La produzione di falsi di opere artistiche costituisce una aspetto rilevantissimo dell’interesse manifestatosi in ogni campo, specialmente ai nostri giorni, per l’arte. Come ricorda Cesare Brandi, “Il falso non è falso finché non viene riconosciuto come tale, poiché non si può considerare la falsità come una proprietà inerente all’oggetto”. La falsità, secondo Brandi, si fonda quindi sul giudizio e non sull’opera in sé. Il giudizio di falso si ha quando si attribuisce ad un particolare soggetto un predicato. Mettendo così in relazione il soggetto al concetto si verifica se questo risponde a determinazioni essenziali, che il soggetto dovrebbe possedere e non possiede, ma che invece si pretenderebbe possedesse. Per ogni valutazione di un atto falsificatorio è quindi premessa fondamentale riconoscere come la falsità stia sostanzialmente nel giudizio. Una prima conseguenza di questo dato, come vedremo, è la storicità della determinazione di un falso. Un’opera falsa può non essere valutata come tale in un’epoca della quale asseconda le volontà estetiche e venir facilmente smascherata in un’altra per la ragione opposta. Alla base della differenziazione tra copia, imitazione e falsificazione c’è una diversa intenzionalità. Da qui tre casi fondamentali:

1. Produzione di un oggetto a somiglianza o riproduzione di un altro oggetto,

che ha come fine la documentazione dell’oggetto originario o il diletto.

2. Produzione di un oggetto a somiglianza o riproduzione di un altro oggetto, ma con l’intento di trarre in inganno circa l’epoca, la consistenza materiale o l’autore.

3. Immissione in commercio o diffusione dell’oggetto, anche se la produzione

non ha intento di inganno, come fosse un’opera autentica, di epoca, di materia, di fabbrica o di autori diversi da quelli che competono all’oggetto in sé.

Al primo di questi casi corrispondono la copia e l’imitazione, le quali, anche se non coincidono concettualmente, rappresentano due gradi diversi nel processo di riproduzione di un’opera, oppure di ripresa dei modi o di uno stile tipico di un’epoca o di un autore. Il secondo e il terzo caso individuano le due accezioni fondamentali del falso. In tutti i casi comunque, l’esecutore - dal momento che agisce nell’ambito di una cultura storicamente determinata - cercherà di documentare o contraffare quello che la moda del momento apprezza e ricerca nell’opera. Il copista o il falsario vorranno conservare nella loro riproduzione quel peculiare aspetto, particolarmente pregiato per loro, e trascureranno il resto; da ciò deriva che anche le copie hanno una data, ossia rivelano di appartenere ad un periodo storico. La copia, l’imitazione e la falsificazione rispecchieranno quindi la facies culturale del momento e avranno in sé una storicità duplice: in primo luogo per essere state eseguite in un determinato tempo e in secondo luogo per portare in sé, inavvertitamente, la testimonianza della predilezione del gusto o anche della moda di quel tempo.

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La storia della falsificazione dovrà farsi tendendo in conto le copie e le imitazioni e non soltanto le falsificazioni certe, poiché è difficile provare il dolo (essenziale per il giudizio di falso) in quanto solo l’animus che presiede alla produzione di un oggetto determina il giudizio di falso. Inoltre sarà la datazione volontariamente alterata o omessa che permetterà di verificare se l’artista che avesse voluto riprodurre più copie della sua stessa opera sia o meno falsario di se stesso. Resta da esaminare, al di là del fatto doloso, se si possa riconoscere all’opera d’arte falsificata un valore in sé e per sé. Le si può riconoscere un valore storico, ma discorso diverso è attribuirle valore di opera d’arte. Sembrerebbe tuttavia che nella ripresa dello stile di un maestro nulla ci fosse di diverso da quello che usualmente è accaduto in tutti i periodi storici, dove al seguito di una grande personalità si sono avute riprese, interpretazioni e adeguamenti di altri artisti, senza che ciò costituisse un capo d’accusa né dal punto di vista morale né da quello estetico, pur in casi come quelli di Giotto-Maso, Giorgione-Tiziano, Masolino-Masaccio, nei quali la distinzione è ardua o molto spesso opinabile. Anche per quanto riguarda l’identificazione di un falso eseguito ai nostri giorni, strumento elettivo resta il giudizio estetico, in quanto i mezzi di indagine scientifica possono fornire solo un aiuto parziale. Vi sono esperimenti chimici e fisici atti a determinare la proprietà della materia, la sua struttura, la sua età, nell’oggetto del quale si pone in dubbio l’autenticità. Per i materiali organici ci si rifà alla ricerca del C14 (carbonio 14), cioè la radioattività residua nel carbone di origine organica contenuta in queste sostanze. Poiché col tempo la radioattività si affievolisce, la misurazione della sua intensità condurrà ad una determinazione cronologica sufficientemente attendibile. Tuttavia, per ragioni intuibili, il procedimento spesso non è applicabile ai falsi d’arte contemporanea. Anche l’analisi microchimica vale solo per l’arte antica, in quanto essa può rivelare solo l’impiego di colori di produzione moderna. Le radiografie di un falso o di un originale possono presentare le medesime caratteristiche; anche il craquelé, ossia la trama di spaccature dello strato pittorico, può essere riprodotta. Quindi, in conclusione, si può sostenere che, per quanto validi siano i metodi scientifici per l’investigazione e la scoperta del falso, a tutt’oggi prevalgono spesso metodi empirici, primo fra tutti il criterio estetico: ma il giudizio del singolo deve infine risultare universalmente valido, cioè giungere ad attestare una verità che è tale per tutti. Giulia Zandò Bibliografia L. VLAD BORRELLI, Falsificazione, in Enciclopedia Universale dell’Arte, vol. V, Novara, De Agostini, 1981, col. 315.

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Vero & Falso nell’ambito filosofico Abbiamo preso come modello per la nostra ricerca Platone, essendo il filosofo più significativo, sulla cui opera molti dei filosofi del Novecento e molti filosofi moderni si basano. Ci siamo soffermati in particolare sul Cratilo, cercando di dare una panoramica anche su altri filosofi importanti come Aristotele, i Sofisti, Parmenide. Un problema, molto astratto e legato alla possibilità di ragionare, che Platone affronta in età avanzata (ma anche in gioventù) ed in diversi dialoghi, riguarda il vero e il falso, in parallelo con l'essere ed il non essere: egli torna a problematiche parmenidee, mettendo da parte la figura di Socrate. La possibilità di poter distinguere il vero dal falso è legata al poter commettere errori ed il tema viene affrontato nel Sofista. Già dal titolo dell'opera si può intuire la solita critica platonica dei sofisti, già avanzata in gioventù: qui però essa è trattata con sfumature più ontologiche. Che cosa c'entrano i sofisti con il vero-falso e l'errore? Si può sbagliare solo quando si può porre una differenza tra vero e falso: ma Gorgia e Protagora, i due maggiori esponenti del sofismo, sostengono di non poterli distinguere. Essi erano rispettivamente del parere che tutto fosse falso (Gorgia) o che tutto fosse vero (Protagora). Per entrambi non vi è la distinzione tra vero e falso, in quanto o c’è uno o c’è l’altro. Per Parmenide dire il falso vuol dire ammettere il non essere, le cose come non sono (il che è impossibile); per Parmenide si dice e si pensa solo ciò che è, ciò che esiste. Questo spiega come un dialogo tutto incentrato sulla filosofia eleatica si leghi al sofismo: le tesi eleatiche e quelle sofiste mirano ad affermare che l’errore sia impossibile, che non ci sia la distinzione tra vero e falso. Sono posizioni differenti che portano tuttavia alle stesse conclusioni, sebbene in modi diversi. Il Cratilo ed il Teeteto sono dialoghi dove si cerca di contestare la possibilità di non errare: se non esiste la possibilità di sbagliare tutti i discorsi saranno o veri o falsi; se tutto è vero o tutto è falso, ogni proposizione perde significato perché una cosa è sensata quando contiene un po’ di verità, ma anche un po’ di falsità, quando cioè si trova in una via di mezzo (ancora una volta Platone assume posizioni intermedie); se non si ammette l'errore non si può ammettere la verità, la quale è ciò che non è sbagliato. Il Cratilo prende nome da un seguace di Eraclito, che però aveva radicalizzato le posizioni del maestro e si era molto soffermato sul "panta rei" (tutto scorre), giungendo a sostenere che è impossibile dare i nomi alle cose perchè esse cambiano di continuo. Tramite il "panta rei" Cratilo arriva a dimostrazioni sofistiche: è impossibile conoscere qualcosa che cambia sempre. Quindi, in teoria, dal momento che non si possono attribuire nomi bisognerebbe solo indicare le cose. Secondo alcuni studiosi Platone stesso sarebbe stato allievo di Cratilo, il che può sembrare strano se consideriamo la dottrina delle idee, in cui viene ammesso un essere fisso, stabile e permanente. Pensandoci bene, però, la cosa non è poi così strana: Platone deve aver constatato che nel mondo sensibile non c'è nulla di stabile ed è quindi ricorso alle idee. Platone nel Cratilo effettua un’ampia discussione sulla problematica della lingua. Al tempo dei sofisti vi erano state interessanti considerazioni a riguardo, legate al binomio "nomos"-"fusis" (convenzione-natura); il problema della lingua è tipicamente antropologico e di materia sofistica. Alcuni sofisti erano del parere che si attribuiscano i nomi in maniera spontanea, secondo natura ("katà fusin"), come se la natura stessa ci suggerisse la nomenclatura di cui servirsi nei suoi confronti. Altri la pensavano in modo opposto: gli uomini attribuiscono i nomi in maniera assolutamente artificiale, secondo convenzione ("katà nomon"). Questa diatriba è ancora attuale ai giorni nostri; Platone, dal canto suo, sostenne che attribuiamo i nomi un pò "katà fusin" e un pò "katà nomon". Platone è dunque del parere che la soluzione sia intermedia e noi moderni sembriamo

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concordare con lui, ritenendo che vi sia una mescolanza dei fenomeni. Esiste sì una derivazione naturale dei nomi, in quanto sono le cose stesse che suggeriscono i nomi da usare, ma le lingue parlate sono molteplici e dunque una componente di arbitrarietà ci deve per forza essere. Quindi le cose tendono a suggerire il nome con cui chiamarle ma, dopodiché, l'uomo ci lavora sopra correggendo il tutto con la ragione; ancor oggi, comunque, ci sono parole onomatopeiche, che suggeriscono l'essenza del soggetto cui sono riferite. Si tratta di una teoria intermedia che mette insieme il lavoro razionale e il dato naturale. Ma cosa c’entra tutto questo con il Cratilo e la discussione su vero e falso ? Più di quello che potrebbe sembrare. Per Platone entrambe le possibilità per denominare le cose negano la possibilità dell’errore. Le parole corrispondono esattamente alle cose, in quanto o sono totalmente artificiali o totalmente naturali: si arriva alla stessa conclusione. Il far corrispondere al meglio (con un misto di lavoro naturale e artificiale) il nome all’essenza delle cose consente di affermare che l'errore esiste e che la retorica (quella vera) è la filosofia. Platone sposta poi il problema dalle cose alle idee. Così come si possono dare nomi alle cose che si conoscono, si possono dare nomi alle idee che si conoscono: c'è una dimensione conoscitiva e vi è uno sforzo di attribuire nomi che esprimano l'essenza di ciò a cui si riferiscono. Il Teeteto è un dialogo dedicato alla matematica: il protagonista, Teeteto, è un giovane matematico che in futuro diventerà famoso. Il dialogo è anche dedicato alla conoscenza sensibile e a quella intellegibile, che è quella vera e propria. Quando si parla della conoscenza sensibile viene citato Protagora, che, in un relativismo assoluto, sosteneva che le cose sono come mi sembrano e che l'uomo è misura di ogni cosa. Platone è interessato a ciò perchè lo pone di fronte al rapporto tra vero e falso. Per poter ragionare, come detto, occorre ammettere l'esistenza del vero e del falso. A supportare le tesi di Platone è un suo allievo, Aristotele, che dice che con i sofisti non si può neppure discutere perché, dal momento che sostengono che tutto sia vero o che tutto sia falso, nel momento in cui un sofista discute smonta le sue stesse tesi perché in un certo senso ammette la distinzione tra vero e falso, la possibilità dell'errore: se infatti ci fosse solo il vero o il falso che motivo ci sarebbe di discutere? C’è anche chi vuole che il Parmenide sia in realtà una confutazione da parte di Aristotele delle teorie del maestro Platone: dunque Socrate rappresenterebbe Platone, mentre Parmenide rappresenterebbe Aristotele. D'altronde Aristotele non condivise mai pienamente le teorie del maestro e se rimase nell'Accademia fino a oltre trent'anni fu solo per il rispetto che aveva nei confronti di Platone. In conclusione, quindi, ci si può basare su questi concetti di Platone per comprendere meglio le teorie e i principi sul falso di quasi tutti i filosofi successivi. Il falso può essere inteso quindi non solo come ricerca delle verità negata (falso, contrario della verità) ma proprio come contrapposizione tra essere e non essere, tra “kata nomon” e kata fusin”, cioè come una mediazione tra convenzione e natura. Martina Bortolussi

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Giurisprudenza: l’art. 178 del Codice dei beni culturali e del paesaggio Il delitto di contraffazione di opere d’arte è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento con la legge 1062 del 1971, che aveva per l’appunto ad oggetto le “Norme penali sulla contraffazione ed alterazione di opere d’arte”. L’esigenza di una normativa specifica a tutela del patrimonio artistico derivava dalla difficoltà di individuare quali norme del codice penale fossero applicabili in caso di falsificazione di opere d’arte. Infatti, prima dell’entrata in vigore della Legge 1062/71, il sistema penale non prevedeva alcuna sanzione nei confronti di chi avesse contraffatto, alterato o riprodotto falsamente opere d’arte e ciò aveva indotto la giurisprudenza ad estendere ai reati in questione la legge sul diritto d’autore o l’art. 485 del codice penale avente ad oggetto il delitto di falsità in scrittura privata. Successivamente alla Legge 1062/71 sono intervenuti il Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n.490 e il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 – quest’ultimo noto come “Codice dei beni culturali e del paesaggio” - che, per quanto concerne il delitto di contraffazione di opere d’arte, hanno riprodotto pedissequamente il disposto degli artt. 3, 4, 5, 6 e 7 della Legge 1062/71. Attualmente quindi le norme penali a tutela del patrimonio artistico sono contenute nel Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42, che all’art. 178 prevede il reato di contraffazione di opere d’arte. Venendo ad esaminare nel dettaglio l’art. 178 del D. Lgs. n. 42/2004, dobbiamo evidenziare che tale articolo prevede quattro fattispecie ed in particolare: - alla lett. a) la condotta di “chiunque al fine di trarne profitto contraffà, altera o riproduce un’opera di pittura, scultura o grafica, ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico”; - alla lett. b) la condotta di “chiunque, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio o detiene per farne commercio, o introduce a questo fine nel territorio della Stato, o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o di oggetti di antichità, o di oggetti di interesse storico o archeologico”; - alla lett. c) la condotta di “chiunque conoscendone la falsità autentica opere od oggetti indicati alle lettere a) e b), contraffatti, alterati o riprodotti”, - infine, alla lett. d), la condotta di chiunque mediante dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizioni di timbri ed etichette o con qualsiasi altro mezzo, accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati alle lettere a) e b) , contraffatti, alterati o riprodotti”. La pena prevista è quella della reclusione da tre mesi a quattro anni e della multa da euro 103 a 3.099. Alla lettera a), quindi, l’art. 178 incrimina la condotta di chi opera una contraffazione, un’alterazione o una riproduzione di un’opera di pittura, scultura o grafica, ovvero di un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico. Si deve, pertanto, ritenere che mentre la contraffazione consiste nella creazione di una cosa che abbia l’apparenza di un’opera d’arte, l’alterazione, invece, consiste nell’apportare modificazioni ad un’opera preesistente. E’ necessario porre in evidenza che, per quanto concerne l’alterazione, una parte della dottrina ritiene che autore della condotta incriminata possa essere lo stesso autore (si pensi all’apposizione di una data non corrispondente a quella dell’effettiva esecuzione, ma che corrisponda ad un periodo particolarmente fortunato), mentre altra parte della dottrina esclude che autore della contraffazione possa essere lo stesso autore, realizzando semmai tale condotta un diverso reato, ma non quello di alterazione previsto dall’art. 178 lett. a). Per quanto attiene alla riproduzione tale condotta consiste, invece, nella creazione di un’opera identica all’originale; tuttavia, come ha avuto modo di precisare la Corte di Cassazione,

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con un orientamento certamente condivisibile, non tutte le riproduzioni si dovranno ritenere penalmente rilevanti, ma soltanto quelle abusive e cioè allorquando si tratti di un’opera unica, oppure di un’opera rispetto alla quale la riproduzione sia avvenuta da parte di soggetti non autorizzati. L’attuale normativa penale in materia di opere d’arte, inoltre, non prevede più, rispetto al previgente art. 3 della legge 1062/71, l’illiceità del profitto, essendo sufficiente che l’autore della contraffazione ne tragga comunque un profitto: a prescindere, quindi, se esso sia o meno illecito. La lettera b) dell’art. 178 prevede, poi, la condotta di chiunque, anche senza concorrere alla contraffazione, abbia alterato, riprodotto o detenuto per farne commercio, ovvero abbia introdotto a tal fine nel territorio dello Stato o comunque messo in circolazione come autentici esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o di oggetti di antichità o di oggetti di interesse storico od archeologico. In questo caso, come è agevole notare, la punibilità della condotta è prevista anche indipendentemente alla messa in vendita, essendo previste anche condotte, per così dire, prodromiche alla messa in commercio delle opere stesse. Le condotte previste dalle lettere c) e d) puniscono, infine chi attesta falsamente l’autenticità della opere d’arte contraffatte. Come è stato giustamente rilevato in dottrina, appare più corretto ritenere, nonostante la formulazione letterale della norma, che il reato in questione non possa essere commesso da “chiunque”, ma solo da una ristretta categoria di soggetti, ossia da tutti coloro che sono abilitati a rilasciare dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, timbri ed etichette. L’art. 179 della del Decreto Legislativo n. 42 del 2004, prevede, inoltre, alcune ipotesi di non punibilità, ossia dei casi in cui determinate condotte non sono suscettibili di sanzione penale. In particolare l’applicazione della sanzione penale è esclusa quando le opere siano espressamente dichiarate non autentiche all’atto della esposizione o della vendita mediante atto scritto o, ove ciò non sia possibile, mediante dichiarazione rilasciata al momento della esposizione o della vendita. In questo caso appare chiaro che non essendovi da parte di chi pone in essere le condotte sopra specificate alcun intento doloso, il legislatore ha ritenuto giustamente di non applicare alcuna sanzione. In conclusione possiamo affermare che, sebbene il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 non faccia altro che riprodurre pedissequamente la precedente normativa penale in materia di opere d’arte (e precisamente la Legge 20 novembre 1971 n.1062 e il Decreto Legislativo 29 ottobre 1999 n.490), certamente apprezzabile appare l’intenzione di dettare una normativa specifica tendente alla repressione dei reati in materia di opere d’arte, in un settore in cui era quanto mai sentita l’esigenza di una disciplina legislativa autonoma, anche e soprattutto in considerazione dei dubbi interpretativi che l’estensione analogica delle norme del codice penale aveva comportato. Martina Bortolussi

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Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n.42 (Pubbl. in Suppl. ordinario n. 28 alla Gazzetta Ufficiale, 24 febbraio, n. 45): Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137 Art. 178 Contraffazione di opere d'arte

1. È punito con la reclusione da tre mesi fino a quattro anni e con la multa da euro 103 a euro 3.099:

a. chiunque, al fine di trarne profitto, contraffà, altera o riproduce un'opera di pittura, scultura o grafica, ovvero un oggetto di antichità o di interesse storico od archeologico;

b. chiunque, anche senza aver concorso nella contraffazione, alterazione o riproduzione, pone in commercio, o detiene per farne commercio, o introduce a questo fine nel territorio dello Stato, o comunque pone in circolazione, come autentici, esemplari contraffatti, alterati o riprodotti di opere di pittura, scultura, grafica o di oggetti di antichità, o di oggetti di interesse storico od archeologico;

c. chiunque, conoscendone la falsità, autentica opere od oggetti, indicati alle lettere a) e b), contraffatti, alterati o riprodotti;

d. chiunque mediante altre dichiarazioni, perizie, pubblicazioni, apposizione di timbri od etichette o con qualsiasi altro mezzo accredita o contribuisce ad accreditare, conoscendone la falsità, come autentici opere od oggetti indicati alle lettere a) e b) contraffatti, alterati o riprodotti.

2. Se i fatti sono commessi nell'esercizio di un'attività commerciale la pena è aumentata e alla sentenza di condanna consegue l'interdizione a norma dell'articolo 30 del codice penale.

3. La sentenza di condanna per i reati previsti dal comma 1 è pubblicata su tre quotidiani con diffusione nazionale designati dal giudice ed editi in tre diverse località. Si applica l'articolo 36, comma 3, del codice penale.

4. È sempre ordinata la confisca degli esemplari contraffatti, alterati o riprodotti delle opere o degli oggetti indicati nel comma 1, salvo che si tratti di cose appartenenti a persone estranee al reato. Delle cose confiscate è vietata, senza limiti di tempo, la vendita nelle aste dei corpi di reato.

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GRUPPO 6 BIAGIOLI BEATRICE ELETTRA, BRANDANI MARCO, CERICA ANDREA, CESARI ELEONORA, FALOMO GIULIA, FUSARO LISA, GIANOLLA ERICA, LOVISETTO M. CHIARA, MARANGONI BEATRICE, MARTON GIOVANNA, PRIVATO CAROLINA, RICCATO AGNESE, VECCHIATO SARA

LA GRAFICA DELLA MOSTRA Per concludere, riproponiamo in quest’ultima parte del catalogo alcuni tra i materiali elaborati dalla nostra “sezione grafica” per curare la comunicazione dell’evento

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Esse

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VERO O FALSO?

Fosse vero!

Troppo bello per essere ver

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L’apparenza inganna Franchetti: diffidate dalle imitazioni FALSAMENTE VERO/ VERAMENTE FALSO

Autentici falsi Arte pirata Falsi dal vero

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Sarà vero?

P.d.A.?

Copy/right Occhio al falso

IL FRANCHETTI È CONTRO LO SPRECO... DI IDEE! ALLA NOTIZIA DI QUESTA MOSTRA ABBIAMO SFORNATO COSÌ TANTE PROPOSTE DI TITOLI DA NON POTERLE UTILIZZARE TUTTE!.... MA, COME VEDETE, NOI SIAMO PER IL RICLAGGIO, ANCHE DEGLI SCARTI! IL GRUPPO DEI “GRAFICI”

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INDICE 5 Acrostico: “Forse vi starete domandando...” (Marta Serafini) 6 Presentazione (prof. Gianfranco Rasia, Dirigente Scolastico Liceo Franchetti) 7 Presentazione (Col. t. ST Pier Luigi Pisano, Comandante Nucleo PT Guardia di Finanza di Venezia) 8 Falsi d’arte contemporanea al Franchetti: come e perché (prof. Umberto Daniele, Liceo Franchetti) 11 PARTE PRIMA. GUIDA BREVE ALLA MOSTRA 13 GRUPPO 1. INTRODUZIONE ALLA MOSTRA 14 LE RAGIONI DI UNA MOSTRA 15 COSI’ FALSO... CHE SEMBRA VERO 16 LA GUARDIA DI FINANZA E I FALSI ARTISTICI 18 METODI SCIENTIFICI DI INDAGINE SUI FALSI 20 SUL FALSO 21 L’AUTENTICITÀ DEL PENSIERO 23 GRUPPO 2. RITORNO ALLA FIGURAZIONE 26 Massimo CAMPIGLI 28 Giorgio DE CHIRICO 30 Virgilio GUIDI 32 Anton Zoran MUSIC 35 GRUPPO 3. INFORMALE VENETO 38 Emilio VEDOVA 40 Tancredi PARMEGGIANI 42 Afro BASALDELLA 44 Armando PIZZINATO 47 GRUPPO 4. L’ASTRAZIONE TRA SEGNO E COLORE 50 Piero DORAZIO 52 Riccardo LICATA 54 Emilio SCANAVINO 56 Achille PERILLI 59 GRUPPO 5. POP ART E OLTRE 62 Mario SCHIFANO 64 Raymond HAINS 66 Arman FERNANDEZ

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69 PARTE SECONDA. ATTORNO AL FALSO: SAGGI BREVI 70 L’antica arte della falsificazione (Marta Serafini) 73 Falsari o artisti mancati? (Marta Serafini) 76 La riproduzione artistica nel XXI secolo (Marta Serafini) 78 Il concetto di falsificazione (Giulia Zandò) 80 Vero & Falso nell’ambito filosofico (Martina Bortolussi) 82 Giurisprudenza: l’art. 178 del Codice dei beni culturali e del paesaggio (Martina Bortolussi) 85 GRUPPO 6 - LA GRAFICA DELLA MOSTRA 86 Bidone degli scarti (Marco Brandani, Beatrice Marangoni, Giulia Falomo) 87 Locandina (Maria Chiara Lovisetto) 88 Pieghevole (Andrea Cerica) 89 Segnaletica (Lisa Fusaro) Copertina: Locandina (Andrea Cerica) Retrocopertina: Manifesto con i nomi dei/delle partecipanti (Lisa Fusaro)

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MIN FEDERICO

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ARTE

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Grafica e allestimento VECCHIATO SARA BRANDANI MARCO CESARI ELEONORA FALOMO GIULIA FUSARO LISA MARANGONI BEATRICE MARTON GIOVANNA PRIVATO CAROLINA RICCATO AGNESE LOVISETTO M. CHIARA CERICA ANDREA ERICA GIANOLLA BIAGIOLI BEATRICE E.

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Pop Art e oltre DAMIN FEDERICO LOEBISCH BEATRICE MANFREO EDOARDO ANDREA LAZZARI SPONZA CAMILLA TIRITICCO MATILDE PELLIZZARI CHARLOTTEPLOP DANIELA LOREFICE RITA

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Informale veneto MARCATO ANDREA MINIO LETIZIA ZAMENGO FRANCESCO CAMILLI FRANCESCO SABBADINI BEATRICE VEDOVATO ALESSIA LO PICCOLO LUANA DI MEO SILVIA BAGNARA MATTEO MALTESE FABIO PISANO PIER LORENZO DE VECCHI MICOL FINOTTO CAMILLA GIUSTO VALENTINA

Introduzione alla mostra BRUSCAGNIN CHIARA BORTOLUSSI MARTINA VIANELLO ALICE ZANDO' GIULIA SERAFINI MARTA CANINI ROMUALDO BOLZAN PIETRO CANDIANI LAURA PAIANO JACOPO LAZZARI DANIELA ZANCHETTIN ROBERTA

L’astrazione tra segno e colore CONTÒ LORENZO PERINI BEATRICE ROCCO CECILIA CHIARA ANDRICH FABIO VIAN RUSSO IRENE LACHIN FRANCESCA

Ritorno alla figurazione ANDREUTTO REBECCA DE SABBATA GIOVANNAPICCINI FRANCESCA DE ROSSI MARCO E. LEVORATO IRENE SCHIOPPA ISABELLA TREVISAN GIULIA BRAMBILLA DAVIDE DAL GIAN CRISTINA LIGI MARTINA

ARTEfatt

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