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SOSTENERE CONCRETAMENTE LʼECONOMIA CIVILE ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI UN MERCATO DI CAPITALI PER IMPRESE A FINALITÀ SOCIALE Davide Dal Maso, Davide Zanoni 1. Premessa Il presente contributo non ha un carattere scientifico, non sviluppa unʼipotesi teorica, ma dà conto di un progetto in essere, i cui esiti non sono, a tuttʼoggi, scontati. Negli ultimi mesi, infatti, si è lavorato sullʼidea di un mercato finanziario dedicato alle Imprese a finalità sociale (Ifs), con lʼobiettivo di creare uno strumento che consenta lʼincontro tra la domanda e lʼofferta di capitali «responsabili» e quindi offra a imprese con una spiccata vocazione sociale di approvvigionarsi di risorse a condizioni particolari. Il che non significa, come vedremo, delimitare unʼarea protetta per soggetti deboli, ma valorizzare i benefici generati da questo tipo di imprese in tutta la loro complessità. Lʼiniziativa, i cui risultati verranno di seguito descritti, consiste in un progetto di ricerca e sperimentazione che tiene insieme elementi di approfondimento teorico con una fase di intervento concreto [Dal Maso et al., 2009]. In altri termini, si è cercato da un lato di sviluppare il concetto di Ifs, soggetto esistente in nuce nella prassi e del tutto nuovo al nostro ordinamento, e dallʼaltro di definire regole e condizioni per il lancio di un mercato finanziario, chiamato borsa sociale, in cui possano essere scambiati titoli emessi dalle Ifs. Il progetto ha beneficiato finora di un supporto delle regioni Toscana e Lombardia, e ha prodotto uno studio di pre-fattibilità che sta evolvendo in un tentativo di implementazione. Lʼidea di un mercato finanziario dedicato a Ifs nasce da una serie di considerazioni di base, in parte riconducibili all ʼ evidenza empirica, in parte assunte come presupposti, un poʼ apoditticamente. Un primo elemento è rappresentato dal fatto che la cultura economica e giuridica che ha portato allʼattuale assetto dellʼordinamento propone una netta separazione tra, usando una semplificazione, impresa for profit e impresa non profit, legando il riconoscimento dellʼuna o dellʼaltra vocazione alla natura giuridica dellʼorganizzazione. Da un lato, le società (libro V del

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SOSTENERE CONCRETAMENTE LʼECONOMIA CIVILE ATTRAVERSO LA CREAZIONE DI UN MERCATO DI CAPITALI

PER IMPRESE A FINALITÀ SOCIALEDavide Dal Maso, Davide Zanoni

1. Premessa

Il presente contributo non ha un carattere scientifico, non sviluppa unʼipotesi teorica, ma dà conto di un progetto in essere, i cui esiti non sono, a tuttʼoggi, scontati. Negli ultimi mesi, infatti, si è

lavorato sullʼidea di un mercato finanziario dedicato alle Imprese a finalità sociale (Ifs), con lʼobiettivo di creare uno strumento che consenta lʼincontro tra la domanda e lʼofferta di capitali

«responsabili» e quindi offra a imprese con una spiccata vocazione sociale di approvvigionarsi di risorse a condizioni particolari. Il che non significa, come vedremo, delimitare unʼarea protetta per

soggetti deboli, ma valorizzare i benefici generati da questo tipo di imprese in tutta la loro complessità.

Lʼiniziativa, i cui risultati verranno di seguito descritti, consiste in un progetto di ricerca e sperimentazione che tiene insieme elementi di approfondimento teorico con una fase di intervento

concreto [Dal Maso et al., 2009]. In altri termini, si è cercato da un lato di sviluppare il concetto di Ifs, soggetto esistente in nuce nella prassi e del tutto nuovo al nostro ordinamento, e dallʼaltro di

definire regole e condizioni per il lancio di un mercato finanziario, chiamato borsa sociale, in cui possano essere scambiati titoli emessi dalle Ifs. Il progetto ha beneficiato finora di un supporto

delle regioni Toscana e Lombardia, e ha prodotto uno studio di pre-fattibilità che sta evolvendo in un tentativo di implementazione.

Lʼidea di un mercato finanziario dedicato a Ifs nasce da una serie di considerazioni di base, in parte riconducibili allʼevidenza empirica, in parte assunte come presupposti, un poʼ

apoditticamente.Un primo elemento è rappresentato dal fatto che la cultura economica e giuridica che ha

portato allʼattuale assetto dellʼordinamento propone una netta separazione tra, usando una semplificazione, impresa for profit e impresa non profit, legando il riconoscimento dellʼuna o

dellʼaltra vocazione alla natura giuridica dellʼorganizzazione. Da un lato, le società (libro V del

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Codice civile), il cui obiettivo principale è la creazione di valore economico, dallʼaltro, associazioni,

fondazioni e comitati (libro I del Codice civile), che realizzano scopi di varia utilità sociale e per i quali le attività economiche, nella misura in cui vengano ammesse, sono in qualche modo

residuali. In altri termini, si determina una relazione necessaria tra i fini e le forme. Lʼidea di una società per azioni senza scopo di lucro viene percepita come eversiva e, nei fatti, si realizza solo in

via eccezionale. Il recente decreto sullʼimpresa sociale ha invero aperto una nuova prospettiva, ma imponendo limiti tali, come si vedrà più avanti, da comprometterne le possibilità di successo.

Questa impostazione deriva da un approccio teorico che affida la responsabilità della cura dei beni comuni essenzialmente allo stato, che agisce come regolatore dei mercati (dove invece si

produce la ricchezza), e come redistributore delle risorse generate appunto da questi e in parte «scremate» attraverso la fiscalità. Solo in tempi recenti, grazie alle elaborazioni teoriche maturate

attorno al concetto di sussidiarietà, si è cominciato ad ammettere lʼipotesi che anche soggetti privati, operanti nel mercato, possano collaborare con le istituzioni pubbliche al perseguimento di

obiettivi sociali, ma pur sempre nelle forme tipiche della partecipazione sociale, non dellʼimpresa di capitali [sul concetto di economia civile, si veda, tra gli altri, Bruni e Zamagni, 2004].

In questo contesto, la società cooperativa costituisce la «terra di mezzo», in quanto società di persone che sviluppa unʼattività economica e che si configura come soggetto non profit per la

limitazione alla distribuzione degli utili. Non è un caso che le varie forme di imprenditorialità sociale si siano finora realizzate proprio attraverso questo istituto. Tuttavia, lʼesistenza della società

cooperativa risolve solo in parte i problemi generati dalla rigidità del sistema. Lʼimpresa «classica», peraltro, è diventata oggetto di una riflessione teorica e, soprattutto,

laboratorio per un gran numero di esperimenti riconducibili tutti sotto lʼombrello definitorio della «responsabilità sociale dʼimpresa». In questa sede, non vale la pena soffermarsi sui punti di forza

e di debolezza di questa proposta culturale [Sacconi, 2005], ma non vi è dubbio sul fatto che essa rappresenti una evoluzione positiva del concetto neoclassico di impresa capitalistica piuttosto che

unʼidea di impresa «nuova». Lʼattenzione alla qualità delle relazioni con gli (altri) stakeholders, infatti, si giustifica nella misura in cui garantisca un beneficio per quello principale, cioè lo

shareholder. Lo stakeholder non è un fine in sé, ma uno strumento per sostenere, nella migliore delle ipotesi, la continuità dellʼimpresa. In altri termini, allo scopo di perseguire il proprio obiettivo

principale nel tempo, cioè il vantaggio economico (e che, secondo alcuni, è addirittura lʼunico obiettivo legittimo), lʼimpresa può avere convenienza a ridurre i margini di profitto che potrebbe

altrimenti offrire agli azionisti, e distribuire varie forme di utilità anche agli altri portatori di interesse.

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Questo perché lavoratori, clienti, o fornitori possono essere maggiormente incentivati a mantenere

o incrementare i propri investimenti specifici nellʼorganizzazione, in funzione del vantaggio che ne ricavano. Il beneficio sociale dellʼattività dellʼimpresa for profit, che certamente esiste, e in alcuni

casi può arrivare a essere significativo, è un «sottoprodotto» dellʼattività principale, non certo lʼobiettivo primo. Senza voler qui arrivare a conclusioni definitive sulla portata e sul significato della

pratica della corporate social responsibility, cioè la sovramenzionata responsabilità sociale dʼimpresa, è possibile affermare che non è dalla sua applicazione, anche nelle forme più avanzate,

che nascerà un nuovo tipo di impresa, in grado di proporre un modello di economia alternativa. Di qui la necessità di immaginare forme di imprenditorialità radicalmente diverse da quelle

attuali. In questo senso, lʼidea dellʼIfs cerca di coniugare quegli elementi dellʼimpresa di capitale che ne fanno un sistema di produzione straordinariamente efficiente con il portato valoriale

dellʼorganizzazione non profit. NellʼIfs, quindi, il rapporto tra mezzi e fini è rovesciato rispetto a quanto accade nellʼimpresa for profit classica: nellʼimpresa capitalista, la funzione obiettivo è

rappresentata dal profitto, e il rispetto delle norme giuridiche ed etiche costituisce il vincolo cui è sottoposta; nellʼIfs, accade il contrario: lʼobiettivo è la creazione di valore sociale, lʼequilibrio

economico-finanziario è il vincolo. Tuttavia questo modello – ecco lʼelemento di novità –, non è incompatibile con la natura delle società di capitali: è possibile, cioè, pensare a organizzazioni che

esercitino unʼattività dʼimpresa attraverso la forma della società di capitali, ma determinino la propria missione nel senso della produzione di valore sociale per la comunità.

In altre parole, lʼidea, per certi versi eterodossa, è che anche attraverso la libera iniziativa privata, realizzata nel mercato e non ai suoi margini, si possano produrre beni comuni. Che anche

lʼimpresa possa creare benefici sociali, non come sottoprodotto, ma come risultato voluto e perseguito di una missione dichiarata. E che, infine, questa idea sia perfettamente compatibile con

le logiche del mercato, della concorrenza e della efficienza gestionale.

La recente operazione di quotazione allʼAim Italia – il mercato di Borsa italiana dedicato alle

piccole e medie imprese italiane ad alto potenziale di crescita – della società editoriale Vita rappresenta un esempio calzante di come i termini della questione stiano evolvendo. Vita è una

società per azioni le cui quote, fino a metà del 2010, erano tutte nelle mani di un gruppo di organizzazioni non profit espressione della società civile. Di fronte alla necessità di provvedere dei

capitali per finanziare un progetto di sviluppo, Vita ha deciso di rivolgersi al mercato. Ha raggiunto rapidamente gli obiettivi fissati allʼinizio del collocamento e può ora accingersi agli investimenti che

aveva pianificato. La quotazione non ha snaturato la sua missione (il cui perseguimento è garantito

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dalla larga maggioranza in capo ai soci storici) né, presumibilmente, produrrà delle pressioni da

parte degli altri investitori nella direzione di una gestione più aggressiva – visto che la società ha dichiarato che, comunque, non distribuirà dividendi.

A ben vedere, anche la più recente produzione normativa in materia cerca di superare quelle che sono state definite le «colonne dʼErcole della cooperazione sociale» [Iris Network, 2010], cioè

di contemplare forme di imprenditorialità sociale diverse da quella cooperativa. La legge delega 188/05 e il successivo decreto delegato 155/06 prevedono infatti la possibilità di attribuire la

qualifica di impresa sociale a una più vasta gamma di forme giuridiche, comprese quelle commerciali [Randazzo, 2006]. La disciplina, tuttavia, è talmente limitante in termini di oggetto

dellʼattività e di vincoli alla gestione da far sembrare questo istituto più unʼevoluzione del modello associativo che dellʼimpresa in senso proprio. Non è un caso che questa riforma abbia prodotto

esiti tanto deludenti: sono infatti assai poco numerose le organizzazioni che hanno deciso di rientrare in questo nuovo quadro giuridico.

Il legislatore del 2006 sembra quindi aver intuito la necessità di unʼinnovazione, muovendosi nella direzione giusta, ma in modo ancora timido, senza arrivare a proporre un vero salto di

qualità. Non è peraltro necessario che sia lo stato a farlo; anzi, lʼesperienza dimostra come sia nei terreni del privato che si realizza lʼinnovazione sociale.

Peraltro, come ha argomentato A. Propersi (cfr. il cap. VIII del presente volume) anche in termini di strumenti di governance le organizzazioni del Terzo settore potrebbero mutuare formule

e strumenti tipici delle società commerciali. Opportunamente adattate, talune prassi sviluppate nellʼambito delle imprese for profit si possono rivelare utili anche per enti di natura diversa,

soprattutto per il governo dei processi di pianificazione strategica e di controllo interno.

La domanda che a questo punto potrebbe sorgere è perché occorra ibridare due modelli che

finora hanno coesistito, mantenendo ciascuno una chiara riconoscibilità. La risposta può essere ricavata dallʼosservazione del mercato, nel senso dellʼevoluzione della domanda e dellʼofferta di

beni e di servizi con un contenuto sociale: negli ultimi anni, la domanda di beni è certamente cresciuta ed è ragionevole ipotizzare che aumenterà ancora. Per converso, questa domanda, reale

e potenziale, non viene oggi soddisfatta completamente né potrà esserlo in futuro finché rimarranno inalterate le condizioni attuali. E ciò perché da un lato le imprese for profit classiche

soffrono di un deficit di credibilità politica, dallʼaltro le organizzazioni del non profit classico mancano di risorse e di mezzi sufficienti per proporsi come soggetti autorevoli nel mercato.

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Il problema che rende la proposta di una borsa sociale quasi temeraria è che si vuole creare un

mercato per soggetti che (ancora) non esistono, o meglio che ancora non hanno chiara riconoscibilità pur operando con logiche e finalità proprie delle Ifs. Per converso, la convinzione è

che ci siano tutte le condizioni per innescare un circolo virtuoso e avviare forme nuove di economia civile. Da questo punto di vista, la creazione del mercato finanziario dedicato può

costituire un catalizzatore, cioè un fattore di accelerazione di un processo latente.Nellʼordine, le questioni che si cercherà di affrontare sono:

1. come possano essere concretamente definite quelle che abbiamo chiamato Imprese a finalità sociale, cioè non solo quali caratteristiche debbano avere, ma anche in quali ambiti

dovrebbero operare e a quali mercati dovrebbero rivolgersi;

2. quali siano i bisogni finanziari delle Ifs e se e come un mercato borsistico possa soddisfarli,

e in quali condizioni;

3. quali possano essere gli investitori disposti a fornire capitali alle Ifs;

4. come dovrebbe realizzarsi lʼincontro della domanda e dellʼofferta di capitali, cioè quali debbano essere le regole di funzionamento del mercato.

Prima di entrare nel merito di ciascuna questione, è utile proporre una breve analisi delle iniziative realizzate o in progettazione a livello internazionale che abbiano promosso o cercato di

promuovere un mercato di capitali per soggetti simili allʼImpresa a finalità sociale.

2. Uno sguardo al panorama internazionale

Lʼidea di un mercato italiano di capitali per Ifs nasce anche da alcune interessanti esperienze in ambito internazionale che hanno come obiettivo la costruzione di mercati finanziari in grado di

favorire lʼinvestimento in attività economiche a forte valenza socio-ambientale. Queste esperienze hanno caratteristiche molto diverse fra loro ma possono essere considerate elementi di un unico

mercato globale di social capital. Si tratta di piattaforme di scambio on-line o di vere e proprie borse che facilitano il contatto e la transazione tra investitori e Imprese a finalità sociale; lo

scambio può avvenire in termini di finanziamento diretto a progetti specifici o tramite lʼacquisto di quote (azioni) di partecipazione al capitale di rischio.

Alcune iniziative sono già in una fase avanzata di sviluppo, se non già operative, altre sono ancora a uno stadio embrionale. I progetti operativi attualmente sono di vario tipo e si possono

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differenziare per tipologia di ritorno garantito agli investitori: nei primi modelli, meno sofisticati, si

prevedeva la possibilità di un ritorno esclusivamente sociale, ma in seguito sono nate alcune realtà che permettono di ottenere anche un ritorno economico sul capitale.

Tra i primi si annoverano i progetti Bvs&a - Bolsa de valores sociais y ambietais, in Brasile, promosso da Bovespa, la borsa di San Paolo, e SA Social Investment Exchange (Sasix), un

progetto dʼinvestimenti in ambito sociale posto in essere dallʼorganizzazione sudafricana GreaterGood South Africa, finalizzati alla raccolta di fondi per il finanziamento di progetti specifici,

che hanno in qualche modo innovato il modello tradizionale di filantropia, conferendo maggior rendicontazione e trasparenza ai progetti, condizioni necessarie per attrarre un maggior numero di

donatori. I risultati di Bvs&a e di Sasix – rispettivamente di 2,4 milioni di euro e di 1,95 milioni di raccolta – sono stati soddisfacenti, soprattutto considerando che rappresentano unʼidea

pionieristica in questo campo. Altri casi interessanti che rientrano in questa tipologia di mercato sono: GiveIndia (in India); HelpArgentina (in Argentina); GlobalGiving (promosso da

unʼorganizzazione con sede a Washington, negli Stati Uniti), Conexión Colombia (in Colombia); GreaterGood South Africa (per il Sudafrica), MissionFish (unʼorganizzazione statunitense che, dal

2003, promuove raccolte di fondi attraverso il portale eBay), BetterPlace (una piattaforma tedesca di donazioni on-line); Rang De (promosso da unʼorganizzazione non profit indiana); Wokai (una

piattaforma di microfinanza on-line, ideata da unʼéquipe statunitense, nata per promuovere le iniziative delle popolazioni rurali in Cina); GiveMeaning (un portale web di fund raising gestito da

una fondazione canadese).Esperienze successive, quali la statunitense Kiva e Gexsi (The Global Exchange for Social

Investment), fondata nel Regno Unito, pur simulando in misura inferiore il mercato borsistico, rappresentano un passo in avanti rispetto a Bvs&a e a Sasix, in quanto consentono il ritiro della

quota conferita. I risultati maggiori sono stati raggiunti da Kiva, la quale ha raccolto in cinque anni lʼequivalente di 49 milioni di euro.

Negli ultimi tempi sono stai sviluppati veri e propri mercati borsistici, alcuni dei quali sono già stati lanciati sul mercato. Ci riferiamo, in particolare, al London Social Stock Exchange Ltd, nel

Regno Unito, al Sasix, e al Social Stock Exchange Asia (SSXA), la prima vera e propria esperienza di borsa sociale lanciata sul mercato asiatico. Tali iniziative si differenziano dalle

precedenti in quanto non quotano i singoli progetti delle organizzazioni, ma le organizzazioni stesse, permettendo loro lʼacquisto di azioni o quote.

Lʼaspetto forse più interessante di tutte queste esperienze è il potenziale di sviluppo insito nella

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creazione di un mercato unico per capitali e imprese sociali, ovvero in una rete estesa di

piattaforme/borse che accresca le opportunità di investimento e i volumi di scambio. È quanto studiato nellʼambito del progetto GSIX (The Global Social Investment Exchange), promosso dal

Greater Good South Africa Trust group e sostenuto dalla Fondazione Rockfeller. Il progetto è finalizzato appunto alla definizione di un mercato unitario che rafforzi le iniziative locali e

rappresenti un soggetto istituzionale di riferimento. Il quadro di riferimento è dunque molto interessante e dinamico: almeno da un punto di vista

«macro», esistono tutti i presupposti per dare piena operatività al mercato italiano ancorandolo ad altri sistemi di scambio.

3. Un mercato di capitali «responsabili»: perché e come

Il punto più critico della proposta di una borsa sociale nel contesto nazionale, come accennato,

sta nel fatto che non esiste una domanda già esplicitata in termini chiari da parte dei soggetti potenzialmente interessati a partecipare al mercato, ma che piuttosto essa si fondi su una serie di

assunti. Occorre quindi analizzare puntualmente questi ultimi per verificarne la fondatezza, e perché, dalla loro solidità, dipende la credibilità complessiva del progetto.

La prima serie di questioni afferisce alle organizzazioni che, una volta lanciato il mercato, dovrebbero intervenirvi come emittenti, cioè le Imprese a finalità sociale.

3.1. Dal lato della domanda di capitale

Definizione di Impresa a finalità sociale

Il progetto di borsa sociale presuppone lʼesistenza di una domanda e di unʼofferta di capitali che possano essere utilizzati per obiettivi di natura mista, al contempo finanziari e sociali. Le due

dimensioni non sono in totale contrapposizione: possono essere integrate, attraverso lʼindividuazione di un punto di equilibrio. In verità, ogni attività umana è il risultato di una pluralità di

pulsioni: il lavoro, lʼimpresa, lo scambio vengono realizzati certamente per generare un ritorno di tipo economico. Tuttavia, sarebbe sbagliato affermare che questo ritorno sia lʼunico obiettivo di chi

li intraprende: sempre, in misura più o meno grande, si ricerca anche una componente sociale, così come può accadere che dalle relazioni interpersonali si generi una qualche forma di utilità

pratica oltre alla gratificazione di aspettative di tipo affettivo o, genericamente, sociale. In altre parole, tra la relazione totalmente interessata e quella totalmente disinteressata alla dimensione

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economica cʼè una serie di possibili gradi intermedi che si sviluppano senza soluzione di

continuità. LʼIfs si pone quindi più o meno a metà di questa scala, tra il for profit puro e il non profit puro.

È bene rimarcare che, da un punto di vista giuridico, lʼIfs non rappresenta una categoria che si aggiunge alle forme di organizzazione oggi previste dallʼordinamento. Si tratta piuttosto di una

qualifica che può essere attribuita a soggetti, più precisamente a società, che decidano di darsi una missione sociale e realizzino unʼattività dʼimpresa avendo come principale obiettivo la

generazione di valore sociale e perseguano lʼequilibrio economico e finanziario in quanto presupposto per assicurarne la continuità. Quindi, le Ifs non sono affatto organizzazioni non profit,

quanto piuttosto imprese che offrono un dividendo misto, risultante di componenti economiche (profitto calmierato), sociali e ambientali. Naturalmente, il punto è dimostrare lʼesistenza del valore

sociale, e definire una metodologia credibile per misurarlo. Come si diceva, esiste un mercato, vasto e crescente, di beni e di servizi a elevato contenuto

sociale che gli attuali operatori, sul lato dellʼofferta, non sono in grado di soddisfare. Per dimostrare questa affermazione risulta utile riprendere la definizione di Ifs e approfondirne alcuni aspetti di

dettaglio.

I mercati per le Imprese a finalità sociale

In ordine allʼesistenza, alle dimensioni, e alle caratteristiche di una domanda oggi solo in parte definita, e in larga misura ancora latente, si registrano numerose evidenze empiriche che

testimoniano il consolidarsi di una serie di tendenze coerenti tra loro. Esse si esprimono sul piano delle scelte di acquisto, negli stili di vita e negli orientamenti politici e dʼopinione. Questi processi di

cambiamento sociale sono accelerati dalla accessibilità alle informazioni e dalla loro rapidità di circolazione, che facilita lʼaumento di consapevolezza da parte dellʼopinione pubblica.

Una prima linea è quella secondo cui il concetto di qualità atteso da parte di utenti e consumatori non si limiti alle caratteristiche intrinseche del prodotto-servizio, ma venga esteso sino

a ricomprendere anche gli impatti ambientali e sociali del processo condotto per realizzarlo. In altre parole, un «buon» capo di abbigliamento, per esempio, non è solo quello che propone un equo

rapporto tra qualità e prezzo, ma quello che, altresì, è stato prodotto nel rispetto delle regole a tutela dellʼambiente, dei diritti dei lavoratori, e così via. Naturalmente, per regole si intendono sia

quelle giuridiche sia quelle etiche, con la consapevolezza del valore relativo del loro significato. Di

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questo fenomeno si sono prontamente accorti numerosi operatori che hanno lanciato nuove

iniziative imprenditoriali o ne hanno convertito di esistenti nel campo della salvaguardia ambientale, dellʼagricoltura biologica, dei trasporti e dellʼedilizia sostenibili, delle energie

rinnovabili, del riciclo di materiali, del commercio equo e solidale, dei gruppi di acquisto solidali, dellʼeducazione, della cultura, del turismo responsabile, della finanza e degli investimenti

sostenibili. Tuttavia, non è solo il campo di attività che determina il carattere «sociale» di unʼimpresa, bensì anche le modalità operative (missione, politiche, sistemi di gestione, ecc.) in

base alle quali essa viene esercitata. La finalità sociale può essere propria non solo di unʼorganizzazione che opera, per esempio, nel campo del risparmio energetico, ma anche di una

«normale» attività produttiva o commerciale che sia esercitata con lʼobiettivo di generare valore sociale: unʼazienda agricola che operi in unʼarea controllata dalla criminalità organizzata cercando

di sottrarsi alle logiche mafiose e offrendo delle opportunità di promozione sociale, per esempio, potrebbe essere un buon esempio di Ifs.

Un secondo ambito è quello che si va creando a seguito della riforma dei sistemi di welfare pubblico. Nel nostro paese (lʼesempio vale per tutte le economie avanzate, soprattutto in Europa),

il Libro bianco sul futuro del modello sociale. La vita buona nella società attiva1, pubblicato, a maggio 2009, dal ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, indica tra i principi guida

lʼimportanza del ruolo sussidiario della famiglia, dellʼimpresa (sia non profit che for profit) e di tutti i corpi intermedi, dellʼeconomia sociale di mercato, in unʼottica di superamento della rigida

distinzione tra pubblico e privato. Partendo dalle tendenze demografiche in atto, il testo considera gli scenari critici che si prospettano per la sostenibilità della spesa sociale nel nostro paese. Si

osserva come lʼinvecchiamento della popolazione determinerà un aumento esponenziale della spesa previdenziale e sanitaria, circostanza che richiede di «rivisitare, attraverso la formula della

sussidiarietà, quella forma di governance per cui il monopolio statale sulle decisioni di spesa sui servizi sociali ha spesso favorito gli interessi dei fornitori anziché quelli dei destinatari». In

questʼottica, lʼattore pubblico « (…) invece di essere il monopolista della erogazione è chiamato a determinare le linee guida degli interventi e assicurare il controllo sulla qualità dei servizi». Nel

Libro bianco del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali si arriva a proporre «il superamento della distinzione tra pubblico e privato attraverso il riconoscimento alle formazioni sociali di una

soggettività di rilievo pubblico anche nella programmazione dei servizi». Il tema del superamento

1 Il Libro bianco è consultabile e scaricabile dal sito del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali al link: http://www.lavoro.gov.it/NR/rdonlyres/376B2AF8-45BF-40C7-BBF0-F9032F1459D0/0/librobianco.pdf.

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della distinzione tra ruolo del settore pubblico e di quello privato è ulteriormente ribadito laddove si

giudica come un grave errore lʼadozione di una visione del welfare che ne ha interpretato lo sviluppo «sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ove ciò che era pubblico veniva

assiomaticamente associato a «morale» perché si dava per scontato che fosse finalizzato al bene comune, e il privato a «immorale» proprio per escluderne la valenza a fini sociali». E ancora, nel

Libro bianco: «Per farsi carico delle persone e dei loro bisogni si rende necessario, in molti contesti, il coinvolgimento di organizzazioni diverse che cooperino, attraverso la combinazione di

diverse capacità e competenze, nella progettazione ed erogazione dei servizi. Si tratta di favorire, in chiave sussidiaria, lo sviluppo di reti di servizio (partecipate da operatori pubblici e privati, profit

e non profit) capaci di bilanciare aspetti di competitività e di collaborazione, nella ottica di migliorare efficacia ed efficienza dei servizi.

Lʼattore pubblico, da unico erogatore di servizi, diventa ora, mediante i regimi di autorizzazione e accreditamento definiti nella Legge Biagi, il soggetto che favorisce la crescita e lo sviluppo sul

territorio del mercato dei servizi». Un ruolo di primo piano viene quindi riconosciuto al Terzo settore «[…] soggetto flessibile e particolarmente adeguato a inserirsi nella nuova organizzazione dei

servizi e del lavoro nellʼera post-industriale […]». Sicché «enormi, e in parte non ancora esplorate, sono dunque le potenzialità del Terzo settore, nella rifondazione del nostro sistema sociale […]».

In particolare, un ruolo strategico è attribuito anche al mondo cooperativo, «sintesi tra sviluppo imprenditoriale, economico e sociale […]». Insomma, un esplicito richiamo al ruolo dei soggetti che

già oggi sono protagonisti dellʼeconomia sociale, e una sollecitazione a quello che il privato – for profit e non profit – dovrà assumere nel welfare sociale di mercato prossimo venturo. Non è

irragionevole immaginare, quindi, che si possano delineare significative opportunità per nuovi operatori del sociale. Allʼinterno di questo quadro di riferimento, si apre uno spazio di grande

rilevanza, sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo, per unʼeconomia civile modernamente sussidiaria, sostenibile e aperta alla sfida dellʼinnovazione sociale [Becchetti, 2010].

Un terzo ambito in cui le Ifs potrebbero operare con successo è quello dei servizi pubblici locali, dalla fornitura di energia elettrica e di gas, alla gestione dei servizi idrici integrati o del ciclo

dei rifiuti, ai servizi di trasporto e mobilità, fino alla gestione di infrastrutture. Nel tempo, si è passati da un sistema in cui le amministrazioni pubbliche garantivano questi servizi in prima persona a

quello attuale, in cui la gestione è stata trasferita in capo a società di natura privatistica, e la cui proprietà può essere pubblica, privata o mista.

In alcuni casi, porzioni più o meno ampie del capitale di queste società sono state cedute a

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soggetti finanziari o industriali, o addirittura collocate sui mercati, attraverso la quotazione in borsa.

È evidente come, se da un lato la trasformazione in società per azioni può aver reso più efficienti le strutture aziendali, agendo sul piano delle procedure e degli stili manageriali, per converso la

privatizzazione del capitale (che rappresenta la vera soluzione di continuità) ha finito in molti casi con lʼinfluenzare la missione stessa delle imprese, che è passata dal servizio al cittadino in

condizioni di economicità alla creazione di valore per gli azionisti attraverso la fornitura di servizi ai cittadini. Questa situazione conduce inevitabilmente a frizioni tra parti portatrici di interessi

divergenti, composte solo grazie al fatto che, gestendo queste società i servizi spesso in condizioni di monopolio naturale o di concorrenza limitata, non hanno dovuto confrontarsi con un contesto

realmente competitivo, circostanza che avrebbe esacerbato le contraddizioni. Un esempio emblematico della problematicità di questo stato delle cose è rappresentato dalla polemica

scatenatasi qualche tempo fa attorno alla qualità dei servizi di Amsa (lʼAzienda milanese servizi ambientali) in materia di pulizia della città. Come riportato su «Il Corriere della Sera» del 13

novembre 2009: «Per alcuni, politici e tecnici, lʼinizio del decadimento del servizio va fatto risalire a un passaggio preciso: lʼincorporazione di Amsa nel gruppo A2A, nato il primo gennaio 2008 dalla

fusione di Aem S.p.a Milano e Asm S.p.a Brescia. Fino a quel momento, ricordano in azienda, lʼinput del comune allʼAmsa (prima con il sindaco Gabriele Albertini e poi allʼinizio del mandato

dellʼattuale sindaco Letizia Moratti) era stato di chiudere il bilancio con utili modesti ma di riversare tutte le efficienze realizzate sul servizio. Ora la situazione è diversa: il comune ha un peso ridotto

nellʼassetto societario, circa il 27%, e non è difficile immaginare che le indicazioni degli azionisti siano cambiate. Amsa lo scorso anno ha fatto 16 milioni di euro di utili e la previsione per lʼanno in

corso è di 21. Fin qui tutto bene, se non fosse che […] la città è sporca». Ancora, dalla stessa fonte: «Gli utili devono essere allʼultimo posto – rincara lʼassessore Maurizio Cadeo, che gestisce i

rapporti con lʼazienda Amsa di via Olgettina – prima devono essere garantite qualità, efficienza e flessibilità». Una affermazione del genere tranquillizza certamente i cittadini (in quanto utenti dei

servizi di Amsa), ma probabilmente preoccupa o irrita gli altri azionisti, che peraltro rappresentano la maggioranza del capitale di una società quotata in borsa. Appare evidente la contraddizione tra

una missione formalmente orientata al servizio alla comunità e una struttura proprietaria che spinge per la massimizzazione del profitto. Il fatto che la situazione richieda un intervento di

riforma è testimoniato anche dal successo della raccolta di firme per il referendum sulla cosiddetta privatizzazione dellʼacqua, che ha dimostrato la forte sensibilità dei cittadini su questo fronte.

Tuttavia, a ben vedere, da dove nasce il problema? Non tanto dalla natura della società, quanto

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dalle divergenti aspettative degli azionisti: infatti, non tutti gli investitori, solo perché tali,

condividono i medesimi obiettivi; ce ne possono essere alcuni (come la amministrazioni locali) interessati alla continuità dellʼimpresa, altri (come taluni investitori istituzionali) alla crescita di

valore del titolo nel lungo periodo, altri ancora (come gli investitori speculativi) al ritorno nel breve termine. Ecco che, allora, la quotazione in un mercato specifico, dedicato a imprese che dichiarino

e perseguano una missione innanzitutto sociale, finisce col selezionare gli investitori in base alla natura dei loro obiettivi e riduce la contrapposizione tra interessi. Un investitore con un obiettivo

(anche) sociale può accettare lʼidea che unʼazienda di trasporto pubblico locale, per esempio, riduca i propri margini per mantenere attive delle linee poco o per nulla profittevoli, ma che

mantengono un legame con una comunità remota, che, senza quel collegamento, rimarrebbe isolata. La questione, come abbiamo già accennato e meglio diremo avanti, riguarda quindi la

misurazione del valore sociale di questo servizio, al fine di dimostrare agli azionisti che la loro rinuncia a una parte della componente economica dellʼinvestimento è stata bilanciata dalla

produzione di un beneficio per la comunità.

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Il vantaggio competitivo delle Imprese a finalità sociale

Dopo aver fornito una prima definizione di Ifs e dopo aver indicato una serie di ambiti in cui

esse potrebbero operare con successo, occorre spiegare perché le Ifs potrebbero riuscire meglio delle imprese for profit tradizionali o delle altre organizzazioni non profit. Su questo argomento, vi

sono, allʼinterno di questo volume, altre riflessioni, lucide e calzanti, supportate da argomentazioni che partono da teorie solide (si veda in questo volume, ad esempio, il contributo di I. Colozzi sulla

«distintività» come elemento di valorizzazione delle imprese dellʼeconomia civile). Per parte nostra, si ritiene che una possibile risposta sia collegata allʼosservazione di due fattori: la natura dei beni e

dei servizi oggetto di scambio, e la scalabilità dei modelli di business a essi collegati. Come si diceva, il carattere sociale delle Ifs non è determinato tanto o solo dal tipo di prodotto/

servizio offerto, quanto più dal fine (cui si collegano intimamente mezzi e risorse) per cui questi vengono realizzati. La medesima attività – per esempio la cura di un anziano – può essere fatta

per motivi puramente economici (lo stipendio per la badante, la retta per la casa di riposo) o per motivi non economici, bensì sociali, in senso ampio (la relazione affettiva). Per conseguenza, nel

primo caso lʼanziano curato (anche bene, non è questo il punto) diventa il mezzo per un fine altro da lui. Nei due casi, anche la più banale delle operazioni assume un senso e un valore diverso e

ciò perché sono in gioco beni relazionali. Questa rappresentazione ovviamente semplifica oltremodo la realtà: le motivazioni possono essere miste (non è detto, per esempio, che la badante

o lʼinfermiere della casa di cura siano necessariamente privi di alcun legame affettivo con lʼanziano), ma, in ultima analisi, la prevalenza dellʼuna o dellʼaltra componente finisce col

determinare la natura della relazione. Ora, non vʼè dubbio sul fatto che il modello di servizio proposto dal non profit abbia teso a enfatizzare il valore della relazione rispetto a quello del

corrispettivo economico e viceversa, per i soggetti for profit. Se lʼobiettivo di unʼimpresa che gestisce una residenza per anziani è quello di ricavare da questa attività il massimo profitto

possibile, chi ne ha la responsabilità è portato ad aumentare i ricavi, per esempio cercando di alzare le tariffe o forzando lʼerogazione di prestazioni anche non necessarie, oppure a ridurre i

costi, per esempio utilizzando materiali di scarsa qualità o impiegando personale con basse qualifiche, o a contenere i rischi, per esempio evitando di accogliere ospiti con limitata capacità di

reddito. Probabilmente, questa tensione finirà con lʼinfluenzare anche la relazione con i dipendenti, che potrebbero trasferire la loro insoddisfazione nel modo in cui, per esempio, si rapportano con i

pazienti. E tutto questo senza incorrere in violazioni esplicite di norme di legge o contrattuali.

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Semplicemente, il manager sarà inevitabilmente portato a privilegiare gli interessi del gruppo cui

sente di dover rispondere in prima istanza, cioè gli azionisti. Lʼesperienza peraltro dimostra come, in una situazione del genere, la prevenzione di comportamenti opportunistici sia possibile solo a

costo di un sistema di controllo non sempre efficace e comunque molto costoso. Quindi, possiamo affermare che la formula che prevede lʼassenza di scopi di lucro, per definizione, funzioni meglio ai

fini della qualità della relazione col beneficiario del servizio. Questa circostanza si realizza peraltro anche in ambiti in cui la componente relazionale è meno evidente: nellʼacquisto di un prodotto

alimentare biologico, per esempio, la relazione è quasi esclusivamente commerciale; nondimeno, il grado di fiducia che può ottenere un fornitore che sia animato da obiettivi meramente lucrativi è

evidentemente minore rispetto a quello che riesce a garantirsi uno che abbia una forte e dichiarata motivazione intrinseca. Come detto, insomma, lʼimpresa for profit «pura» che si qualifichi come

socialmente responsabile è, in generale, meno credibile, perché utilizza la leva sociale come mezzo e non come fine e quindi strumentalizza la relazione con i propri interlocutori.

Per converso, proprio questi soggetti portatori di un capitale fiduciario e di reputazione di così grande valore, difettano di mezzi e di risorse per candidarsi a svolgere un ruolo da protagonisti nel

mercato. Oggi, il mondo del Terzo settore inteso in senso ampio – dal volontariato alla cooperazione sociale – appare complessivamente inadeguato. Esso è caratterizzato dalla

presenza di una moltitudine di operatori, mediamente molto piccoli, poco coordinati tra loro, spesso privi di strumenti manageriali avanzati, dotati di risorse materiali, finanziarie e culturali non

allʼaltezza di una sfida che appare fuori dalla loro portata. Questi operatori difendono (per certi versi molto giustamente) il proprio portato identitario, e si dimostrano sospettosi verso forme di

contaminazione con gli strumenti dellʼeconomia di mercato. Realizzano una funzione di testimonianza fondamentale, ma sembrano volersi limitare a svolgerla per quel che è, senza

cogliere il potenziale di cambiamento che si potrebbe realizzare tentando un salto di scala. Lo stesso Forum nazionale del Terzo Settore, nel Libro verde del Terzo settore. Le sfide dellʼItalia che

investe sul futuro, pubblicato a giugno del 2010, stigmatizza la delicata fase di transizione del movimento, e individua alcune importanti prospettive strategiche per uscire da una situazione di

empasse politica e organizzativa attraverso una «nuova stagione costituente». La situazione, nel suo complesso, presenta le caratteristiche di un circolo vizioso: si profila

lʼopportunità di una domanda ampia e in crescita, che rischia di rimanere insoddisfatta perché quelli che avrebbero le capacità imprenditoriali e le risorse per coglierla mancano della credibilità

necessaria e, viceversa, quelli che lʼavrebbero difettano delle prime.

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Lʼidea dellʼIfs propone, quindi, una sintesi felice del buono dellʼuno e dellʼaltro modello: da un

lato, ha la natura giuridica della società commerciale e quindi è adatta allʼesercizio dellʼattività imprenditoriale nella sua forma più limpida, può accedere al mercato dei capitali, si presta a una

crescita di scala; dallʼaltro, conserva le motivazioni intrinseche dellʼorganizzazione non profit, essendo la missione orientata non alla massimizzazione del profitto, ma alla creazione di valore

sociale. La proposta dellʼIfs non viene formulata «contro» il Terzo settore né «contro» lʼeconomia

capitalista: può rappresentare unʼevoluzione per entrambi. Lʼauspicio, infatti, è che non solo possano nascere soggetti del tutto nuovi che si vogliano dare questa struttura, ma anche che

operatori che oggi utilizzano le forme tradizionali di organizzazione aziendale vogliano convergere verso il modello dellʼIfs. Da questo punto di vista, borsa sociale si pone un ambizioso obiettivo di

civilizzazione del mercato, cioè di trasformazione di meccanismi consolidati verso forme nuove, orientate a fini non egoistici. Oltre a offrire una soluzione per specifici problemi finanziari, il

successo di borsa sociale potrebbe avviare un percorso di cambiamento più vasto, contaminando gli «altri» mercati e innescando processi di imitazione orientati a modelli più virtuosi.

Si potrà obiettare che le forme attraverso cui lʼeconomia sociale ha operato sino a oggi, tipicamente, quelle dellʼassociazione e della cooperativa, siano per loro natura più democratiche

(basandosi sul principio «una testa, un voto»), e quindi riescano meglio a esprimere la componente di promozione della persona umana che è insita nellʼidea di unʼimpresa a finalità

sociale. Nelle società di capitali (che si basano, nella migliore delle ipotesi, sul principio «unʼazione, un voto»), invece, il potere di ultima istanza sta nelle mani di chi ha la maggioranza

delle quote. In unʼottica di democrazia economica, quindi, il modello delle organizzazioni di persone offrirebbe un quadro più favorevole. Ciò è senzʼaltro vero, però, a ben vedere, più in teoria

che in pratica. Anzitutto, lʼesperienza ci dimostra come in realtà le cooperative e le associazioni – sia le piccole sia, per motivi e con modalità diversi, le grandi – possano essere gestite in modo

tuttʼaltro che democratico, in più, da un punto di vista fattuale, non esistono ostacoli insuperabili allʼapplicazione di regole democratiche alle società di capitale. La partecipazione degli

stakeholders, infatti, dipende più dalle regole autonome dellʼorganizzazione (a partire dallo statuto) che dalle norme dellʼordinamento giuridico generale. Gli stili di gestione e i sistemi di corporate

governance2 dipendono solo in parte dagli assetti proprietari, e possono essere anche fortemente

2 È lʼinsieme di regole, relazioni, processi e sistemi aziendali che definiscono la distribuzione dei diritti e delle responsabilità tra i partecipanti (dirigenti, amministratori, azionisti, dipendenti e altre parti interessate) alla vita di una società.

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orientati in un senso o nellʼaltro, previo lʼaccordo dei soggetti che collaborano alla realizzazione del

sistema-impresa. Peraltro, abbiamo affermato pocʼanzi che la qualifica di Ifs rappresenta un attributo delle società di capitale, quindi non tanto un dato che si acquisisce una volta per tutte, in

base a una dichiarazione dʼintenti, quanto piuttosto una circostanza la cui sussistenza deve essere continuamente provata, attraverso una serie di dimostrazioni verificabili.

Si può naturalmente discutere se lʼidea dellʼIfs così come qui definita sia la migliore possibile, ma occorre anche considerare i rischi del criticarla senza proporre alternative e finendo per non

fare alcunché. Lʼevoluzione del mercato, per amore o per forza, avverrà comunque, perché le tendenze sopra delineate sono ormai nelle cose. Il pericolo è che questi nuovi mercati vengano

coperti dai soggetti «sbagliati». Già oggi, per fare un esempio, le gare per la fornitura di servizi nel settore socio-sanitario bandite dalla pubblica amministrazione pongono requisiti di partecipazione

sempre più stringenti e richiedono i livelli di efficienza gestionale tipici di soggetti che realizzano economie di scala. Le piccole cooperative sociali, che hanno svolto in passato e continuano a

svolgere un ruolo di innovazione sociale importante, rischiano di venire tagliate fuori e di vedersi sopraffare da grandi operatori for profit che hanno a disposizione risorse inimmaginabili per loro.

Alla fine, anche il favore di cui il Terzo settore ha in qualche modo beneficiato (a volte anche solo in nome del «politicamente corretto») non potrà più garantire condizioni di vantaggio o di privilegio.

Occorrerà perciò concorrere nel mercato, con gli strumenti del mercato, ma – e qui risiede il fattore di vantaggio competitivo fondamentale – mantenendo le finalità sociali dellʼimpresa, circostanza

che qualifica lʼoperatore e distingue i servizi e i prodotti che offre.

I bisogni finanziari delle Ifs e i fattori di resistenza alla quotazione

Per le Ifs, così come per qualsiasi tipo di impresa, un buon equilibrio finanziario è dato da un

mix di capitale di rischio, di debito a lungo e di debito a breve termine. Ciascuna di queste forme di finanziamento risponde a determinate esigenze dellʼimpresa, che a propria volta dipendono dalla

natura della sua attività, dalla fase di sviluppo che sta attraversando e, soprattutto, dai suoi obiettivi strategici. Se è fondato uno dei presupposti di partenza del nostro ragionamento, e cioè

che il mercato potenziale delle Ifs non sia una nicchia per operatori politicamente orientati, ma una porzione importante del mainstream, allora la prospettiva da sostenere è una strategia di crescita

duratura. Di qui la necessità di dotarsi di provviste consistenti di capitale di rischio. Uno degli effetti dei fenomeni di globalizzazione dei mercati è proprio il premio alle economie di

scala; questo non significa che sia auspicabile la nascita di multinazionali del sociale, ma che i

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fattori che hanno consentito la sopravvivenza delle forme imprenditoriali del non profit fino a oggi

(specializzazione, radicamento territoriale, cura delle relazioni locali) non saranno più sufficienti in un quadro di concorrenza allargata, in cui contano anche le dimensioni. Le Ifs, siano essi soggetti

del tutto nuovi o risultato della trasformazione di soggetti esistenti (for profit o non profit) dovranno quindi dotarsi di robusti mezzi finanziari propri se vorranno giocare un ruolo da protagonisti nel

mercato. Per ragioni diverse, né il credito bancario né il debito, né tantomeno lʼautofinanziamento possono soddisfare efficacemente questo bisogno. In verità, lʼeccessivo ricorso al credito a breve

è un problema più generale che riguarda quasi tutte le piccole e medie imprese italiane, che sono mediamente sottocapitalizzate sia rispetto al giro dʼaffari che sviluppano, sia alle esigenze di

crescita richieste dal mercato. È di tutta evidenza che il problema dellʼequity stia nel fatto che al possesso delle quote sono

collegati i diritti di voto in assemblea, cosa che, ovviamente, ha un impatto sul governo societario. Gli imprenditori italiani, sociali o meno che siano, hanno sempre visto con sospetto la presenza di

investitori esterni nel capitale della «propria» impresa. In società in cui non cʼè per nulla o quasi distinzione tra proprietà e gestione, manca la cultura dellʼazione guidata da strategie formalizzate e

condivise, ispirata da principi di trasparenza e verificata dallʼapplicazione di regole di accountability (cioè di responsabilità, intesa come rendiconto sulle attività svolte, condivisione e capacità di

fornire prestazioni). Questi limiti si ritrovano addirittura accentuati nelle diverse forme di organizzazioni sociali oggi operanti, per il fatto che la nobiltà della missione è stata talvolta

utilizzata come alibi per giustificare lʼinefficienza, lʼopacità, il familismo. Per altri versi, nel non profit italiano, i richiami a una gestione più manageriale dellʼorganizzazione sono stati visti come una

pericolosa deriva aziendalista, la cui applicazione non poteva che snaturare la missione sociale. In ultima analisi, imprenditori for profit e manager del non profit, per una ragione o per lʼaltra,

preferiscono la protezione di una confortante autoreferenzialità ed evitare di realizzare una misura, come lʼaccesso al mercato dei capitali, che invece in molti casi sarebbe salutare per lʼimpresa. Da

questo punto di vista, la proposta di una borsa sociale si pone anche come sfida, nella prospettiva di unʼevoluzione del mercato nel senso di una maggiore efficienza e di una maggiore trasparenza.

Come detto in precedenza, al momento le Ifs rappresentano più un riferimento a cui tendere che una realtà ben definita, ma esistono tuttavia diversi soggetti caratterizzati da un sistema

gestionale responsabile e dallʼesercizio di attività specifiche che potrebbero rientrare in questa definizione, o comunque evolvere verso il modello in questione.

Ci riferiamo in particolare a tre tipologie di imprese: Ifs di capitali, Ifs cooperative, e Ifs derivate

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da Organizzazioni non profit (Onp).

Le Ifs di capitali sono società per azioni che possono accedere al mercato delle partecipazioni al capitale solo a seguito di una valutazione rigorosa del modello gestionale e degli impatti socio-

ambientali generati dallʼattività. La trasformazione di una impresa tradizionale in una Ifs può apparire un passaggio semplice, come fosse una certificazione, ma in realtà si tratta di una

profondo cambiamento della cultura e del modello aziendale. Le azioni emesse da imprese sociali devono avere caratteristiche uniformi e standardizzate e soprattutto non avere formalità di

cessione che ne impediscano il trasferimento in modo efficiente e immediato. Le quote di società a responsabilità limitata non sono quotabili, in quanto non sono rappresentate da titoli di credito e

potenzialmente sono diverse tra di loro, dato che le caratteristiche vengono decise volta per volta dai soci, e non sono scambiabili liberamente a causa delle formalità richieste per la loro cessione.

Una seconda tipologia di Ifs potrebbe derivare dalle cooperative che svolgono attività ad alto valore sociale, e da cooperative sociali di tipo A e B. Anche in questo caso è necessaria una

trasformazione molto importante che intacchi la natura stessa del modello cooperativo, ovvero lʼeliminazione dal proprio statuto del divieto alla distribuzione degli utili ai soci. In linea di principio

le cooperative sociali, istituite dalla l. 381/1991, sono enti non profit che non hanno come obiettivo la distribuzione del reddito ai soci quanto piuttosto il perseguimento dellʼinteresse generale della

comunità attraverso la realizzazione della missione produttiva. Tuttavia, al pari delle cooperative ordinarie, una cooperativa sociale può prevedere entro certi limiti la distribuzione di una quota di

utili ai propri soci (art. 8, l. 59/1992). Nelle cooperative è prevista poi la figura del socio sovventore i cui conferimenti sono rappresentati da azioni trasferibili e il cui trattamento in sede di

distribuzione o di liquidazione degli utili può essere favorito dallo statuto (remunerazione superiore agli altri soci fino al 2%). Lo stesso trattamento spetta ai possessori delle azioni di partecipazione

cooperative che possono essere emesse per finanziare progetti di sviluppo e investimento pluriennali. Tali azioni sono offerte anche al pubblico e anchʼesse garantiscono al portatore una

remunerazione maggiorata del 2% rispetto a quella delle quote o delle azioni dei soci della cooperativa.

Grazie a queste caratteristiche, le cooperative sociali sono lʼunico soggetto del Terzo settore che possa accedere direttamente al mercato azionario, almeno da un punto di vista teorico. Per

tutte le organizzazioni senza scopo di lucro e tutte le imprese del mondo non profit che svolgono attività commerciale o non commerciale, ma che sono accomunate dal divieto di distribuzione

dellʼutile, lʼaccesso diretto al mercato «azionario» di capitale sociale sembra precluso. Per le

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associazioni e le fondazioni che non sono costituite in forma societaria o che comunque non

possono ripartire il capitale sociale in quote alienabili e negoziabili, lʼaccesso è negato per definizione.

Tuttavia, è possibile ipotizzare una soluzione che porti a una terza tipologia di Ifs, ovvero la costituzione di società-veicolo, cioè unʼimpresa di capitali le cui quote o azioni siano in

maggioranza delle Organizzazioni non profit (Onp). In questo modo, la nuova società diventa lo strumento operativo per le attività economiche promosse dallʼOnp. Per non incorrere nei limiti posti

allʼattività commerciale delle Onlus, il capitale della società potrebbe essere aperto anche alla partecipazione di altri investitori, fermo restando che opportune previsioni statutarie assicurino alla

Onp il controllo sulla strategia e sulle scelte operative fondamentali. La società- veicolo così formata avrebbe le caratteristiche per accedere al mercato dei capitali, e quindi rientrare nel

percorso virtuoso che abbiamo identificato per le Ifs. Non cʼè dubbio sul fatto che questo tipo di operazioni possa presentare profili di una certa

problematicità per le Onp più piccole: lo sforzo e il costo per mettere in moto un processo di tale complessità, infatti, si giustificano solo nel caso di iniziative dalla consistente portata economica.

Questo ostacolo potrebbe essere superato attraverso la creazione di consorzi di Onp prossime per scopo o per natura: così facendo, ciascuna, in proporzione al proprio impegno, potrebbe poi

utilizzare la società-veicolo come strumento per le proprie attività e per lʼapprovvigionamento di capitale. Né va nascosto il rischio che si creino le condizioni, se le cose non vanno per il verso

giusto, di conflitto tra le Onp partner, che potrebbero riflettersi negativamente sulla governance e, alla fine, sullʼoperatività della Ifs di cui sono socie. Si tratta di un rischio che va affrontato e gestito

se è vero, come argomenta A. Propersi in questo stesso volume, che occorre pensare a nuovi canali di finanziamento per il Terzo settore, a fronte di una crisi strutturale delle forme di cui si era

servito fino a tempi recenti.

3.2. Dal lato dellʼofferta di capitale

Naturalmente, il successo di borsa sociale dipende in misura importante anche dalla volontà

degli investitori di parteciparvi. Quindi, la questione che si pone è se esista unʼofferta di capitale corrispondente. A questo fine, occorre verificare sia la coerenza degli obiettivi dei potenziali

investitori con quelli del mercato, sia la consistenza delle masse teoricamente necessarie o anche solo sufficienti per assicurarne lʼefficiente funzionamento.

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Con riferimento al primo punto, è utile prendere a riferimento il fenomeno del cosiddetto

investimento responsabile o sostenibile. Si tratta dellʼintegrazione di considerazioni di tipo ambientale, sociale, di governo societario o etico (in inglese, Environment, Social and

Governance, da cui lʼacronimo ESG, cui a volte si aggiunge la E di Ethics) nelle scelte di investimento. In altre parole, lʼinvestitore non guarda solo ai fondamentali economici e finanziari,

alle prospettive di rischio e di rendimento atteso e alle altre variabili tipiche, ma prende in esame anche le politiche e i risultati delle società oggetto di analisi in ordine a una serie di criteri, detti

appunto (e non del tutto correttamente) extra-finanziari. Questi investitori possono essere motivati da spinte di natura morale (nel senso che non vogliono che i loro denari siano utilizzati per

finanziare attività considerate inaccettabili dal punto di vista etico) o da valutazioni di tipo opportunistico (nel senso che ritengono le imprese che gestiscono con attenzione le variabili ESG-

E meno esposte a taluni tipi di rischio o più pronte a cogliere le opportunità di un mercato in cambiamento) o da un bilanciamento delle due. Il ragionamento è del tutto speculare, mutatis

mutandis, a quello che si faceva con riferimento al mercato dei beni e dei servizi. Senza analizzare qui in modo approfondito le caratteristiche del fenomeno [Landier e Nair, 2008), può bastare dire

che esso è ormai uscito ben oltre la nicchia della testimonianza e si propone come stile di gestione finanziaria pienamente integrato nel sistema mainstream [Eurosif, 2010]. Per certi versi, tuttavia,

proprio in questo sta il suo limite: così come la corporate social responsibility rappresenta unʼevoluzione dei modelli capitalistici di gestione dellʼimpresa, ma non ne mette in discussione i

fondamenti, lʼinvestimento responsabile è unʼevoluzione della pratica dellʼinvestimento di cui, però, non intacca i presupposti. Si tratta cioè di un ampliamento del numero e della qualità delle variabili

da prendere in considerazione nella valutazione della profittabilità futura dei titoli di una società, la cui importanza relativa dipende dalla misura in cui ciascuna è in grado di influenzarne la

performance. Da questo punto di vista, perciò, non è da questa forma di investimento che ci si può aspettare una rivoluzione del modo di fare impresa, anche se non cʼè dubbio che essa abbia

fortemente contribuito a rendere lʼeconomia più attenta alle aspettative della società sui temi ambientali e sociali.

Per sostenere le Ifs, che invece si candidano a innovare radicalmente i modelli di business, occorre rifarsi a un concetto più recente e, se è consentito il termine, più «estremo», cioè quello di

impact investment, che comprende ogni forma di investimento profittevole che volutamente generi un beneficio sociale misurabile. Questa definizione, che guarda soprattutto agli output, cioè ai

risultati, dellʼattività oggetto di investimento, mette in luce tre punti fondamentali, che

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rappresentano le caratteristiche distintive rispetto ai modelli correnti di investimento responsabile:

la profittabilità, la volontà degli effetti sociali e la loro misurabilità. Il primo aspetto chiarisce che ci si muove comunque nella logica della gestione finanziaria e non della filantropia. Quando si diceva

che le Ifs devono operare nel mercato, sʼintendeva, appunto, che del mercato devono rispettare le regole, una delle quali è che il rischio dellʼinvestitore va remunerato. Ciò non vuol dire che

lʼinteresse dellʼinvestitore sia lʼunico o il principale obiettivo dellʼimpresa, ma che la creazione di un plusvalore economico non può essere negletta. Il secondo punto è forse il più significativo, nel

senso che segna una chiara discontinuità con le pratiche di corporate social responsibility: infatti, in un certo senso qualsiasi attività economica genera un effetto sociale, se non altro per il fatto che

crea occupazione, che permette allʼindividuo di partecipare alla soddisfazione dei bisogni della comunità attraverso la contribuzione fiscale, che si alimenta un indotto di forniture, eccetera. Ma

questi sono, come si diceva, dei sottoprodotti dellʼattività dʼimpresa, non il risultato di un obiettivo perseguito in modo esplicito. Sullʼimportanza, infine, della misurabilità dellʼimpatto sociale vale la

pena spendere ancora qualche parola.Lʼinvestimento «di impatto» è, in un certo senso, la forma più avanzata di investimento

responsabile. Questo non significa, tuttavia, che esso sia riservato a investitori militanti. Per identificare gli attori dellʼofferta, occorrerà individuare tra gli investitori che si sono dati delle

politiche di gestione finanziaria sostenibile quelli più orientati alla dimensione sociale rispetto a quella economica, immaginando che, anche in questo caso, ci sia una continuità che lega a un

estremo quelli totalmente speculativi, e allʼaltro quelli totalmente «etici». O meglio, per esprimere il medesimo concetto in termini diversi, ipotizzando che vi siano soggetti che sono disposti a

orientare la totalità del proprio patrimonio verso un investimento con valenze sociali, altri che lo sono per una parte più o meno ampia di esso, altri ancora che non lo sono per nulla.

Dal punto di vista dellʼidentità di questi investitori, entrambe le macrocategorie in cui tipicamente si segmenta il mercato, quelle degli investitori istituzionali e degli investitori retail3,

possono essere teoricamente interessate ad acquisire quote di Ifs. Tra i primi, un ruolo particolare potrà essere giocato da quelli che hanno essi stessi una natura non profit, come le fondazioni (in

particolare, quelle di origine bancaria) o gli enti religiosi. Da questo punto di vista, rileva il concetto di mission related o program related investment: si tratta di investimenti che offrono rendimenti

attesi più bassi di quelli di operazioni puramente finanziarie, ma che producono degli effetti

3 Un investitore istituzionale è un operatore economico (società o ente) che effettua considerevoli investimenti in maniera sistematica e cumulativa, disponendo di ingenti possibilità finanziarie proprie o affidategli; un investitore retail, invece, è un operatore in beni dʼinvestimento che agisce per proprio conto, un individuo che investe il proprio patrimonio.

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coerenti con gli obiettivi dellʼorganizzazione. Così, per esempio, una fondazione per la ricerca

scientifica potrebbe, oltre che investire il proprio patrimonio secondo logiche tradizionali e poi utilizzare i profitti per finanziare a fondo perduto dei progetti specifici proposti da terzi, investire

direttamente nel capitale di questi enti e sostenerli fornendo loro risorse per una stabile crescita di lungo periodo. Lʼesito di questa operazione è quindi un dividendo misto, prodotto di una

componente economica e di una componente sociale (data, in questo caso, dallo sviluppo dellʼorganizzazione finanziata e dalla sua accresciuta capacità di produrre studi di valore). Dal

punto di vista della fondazione, il risultato è comunque positivo o neutro, poiché il patrimonio viene conservato o, auspicabilmente, incrementato, e si realizza un beneficio in linea con la sua

missione. Quantomeno, verrebbe evitata la contraddizione potenziale (invero abbastanza probabile, soprattutto nel caso di investimenti passivi in indici generici) per cui lʼinvestimento fatto

secondo logiche puramente finanziarie finisca con lʼaiutare imprese che gestiscano attività i cui effetti siano contrari agli obiettivi della fondazione.

Naturalmente, per altri investitori istituzionali che invece abbiano ricevuto dai propri mandanti un obiettivo di natura puramente finanziaria (comʼè il caso dei fondi pensione, il cui scopo è gestire

il risparmio previdenziale degli aderenti al fine di offrire loro la pensione più lata possibile), lʼinvestimento in Ifs sarebbe più difficile da giustificare.

Il vincolo più complesso da gestire per un investitore istituzionale è quello della liquidità dei titoli delle Ifs, e quindi della possibilità reale di garantirsi strategie di uscita a condizioni non

sfavorevoli in caso di necessità. Il vantaggio dellʼinvestimento in società a grande capitalizzazione sta anche nel fatto che, al netto delle condizioni generali del mercato, è sempre possibile vendere

la propria partecipazione avendo quasi la certezza che vi sia un acquirente interessato a subentrare. Questa circostanza potrebbe non verificarsi in una borsa sociale con un limitato

numero di emittenti e di investitori e quindi con un modesto volume di scambi. Il problema, che certamente esiste, può essere circoscritto, se non eliminato, attraverso una serie di accorgimenti,

come il contenimento della quota di patrimonio investita in titoli a rischio di illiquidità, la distribuzione dellʼinvestimento su un numero di titoli relativamente ampio, la sottoscrizione di

opzioni di vendita avendo come controparte il primo collocatore (sul ruolo dello sponsor, si veda oltre), lʼapertura del mercato secondario agli investitori retail.

Nel campo degli investitori privati retail, famiglie non high net worth, che non possiedono cioè un patrimonio netto alto, valgono in buona misura le considerazioni svolte sopra circa la crescente

domanda di beni e di servizi ad alto valore sociale aggiunto: se è vero che è in aumento la quota di

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consumatori interessati alle componenti ambientali e sociali dei propri acquisti, è probabile che

essi stessi siano disposti a investire una quota, anche relativamente contenuta, dei propri risparmi nelle società che li producono. Una ulteriore possibilità di attirare investitori individuali verso le Ifs è

la dimensione locale dellʼimpatto che alcune di esse possono produrre. Nel caso di società concentrate su servizi a valenza territoriale, come per esempio quelli erogati nel settore delle

utilities (elettricità, gas, acqua, telefonia, ecc.), o della sanità, o anche dellʼeducazione e dellʼanimazione culturale, il fatto di poter beneficiare, direttamente o indirettamente, o comunque di

toccare con mano i risultati generati nella comunità, rappresenta un incentivo al sostegno di queste imprese. Si può creare un legame virtuoso, alimentato anche in questo caso da un dividendo

misto, il che costituisce unʼinteressante prospettiva di partecipazione e di democrazia economica reale.

Sia per lʼuna categoria sia per lʼaltra è difficile azzardare stime quantitative. Dal nostro punto di vista, gli studi sulla teorica disponibilità degli investitori ad avvicinarsi a forme alternative di

gestione finanziaria (tipicamente basati su interviste) non sono particolarmente affidabili, in quanto spesso viziati dal rischio di risposte che, non essendo impegnative, vengono date con lʼobiettivo

implicito di compiacere lʼintervistatore e di apparire più politicamente corretti di quanto non si sia in realtà. Sembra più utile, allo scopo di valutare la sostenibilità di borsa sociale, porre la questione in

termini opposti, cioè domandarsi quanto risparmio sia necessario per assicurare la copertura dei primi collocamenti e un adeguato numero di scambi nel tempo. Dalle prime valutazioni svolte in

sede di ricerca, si è stimato che il funzionamento di borsa sociale possa reggersi con alcune decine di Ifs quotate nellʼarco di circa cinque anni dallʼavvio, con un flottante complessivo prossimo

a 200 milioni di euro. Anche negli scenari più pessimistici, questa cifra, che rappresenta una frazione decimale del risparmio gestito italiano, appare tuttʼaltro che impossibile da raggiungere.

Va peraltro sottolineato che questo risultato non è lʼobiettivo (che sarebbe affatto modesto), bensì la soglia minima per la sostenibilità della macchina necessaria alla gestione del mercato. Livelli di

scala superiore potrebbero facilmente essere raggiunti se il meccanismo dimostrerà di funzionare e di produrre i risultati attesi a beneficio di tutti i soggetti che vi partecipano.

La sollecitazione allʼinvestimento in Ifs può passare attraverso lʼutilizzo di leve diverse nel mercato istituzionale e retail. Nel primo caso, la questione è, prima di tutto, politica. I problemi

tecnici, come quelli del rischio di underperformance (che avviene quando il rendimento differenziale di un investimento rispetto a un indice preso a riferimento risulta negativo), o di

illiquidità, possono essere gestiti in un modo o nellʼaltro; quello che però non può mancare è una

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scelta a priori che dia una copertura complessiva alle scelte operative. Non perché le tesi

sopraesposte non siano sostenibili dal punto di vista teorico, quanto perché propongono unʼinnovazione degli schemi logici entro cui ci si è mossi nel passato e quindi richiedono una

esplicita dichiarazione di volontà. Per quanto riguarda i risparmiatori privati, invece, il fattore determinante sarà probabilmente il ruolo che vorrà giocare la distribuzione. Nel mercato finanziario

italiano, infatti, le scelte di investimento dei piccoli investitori, in un contesto di modesta educazione finanziaria, sono fortemente orientate dalle reti di vendita (di banche, assicurazioni e

promotori finanziari). Si pone un problema di capacità di questi intermediari di trasferire il valore innovativo dellʼinvestimento in Ifs e, dallʼaltro, creare un sistema di incentivo che quantomeno non

renda particolarmente penalizzante il collocamento di titoli di Ifs rispetto ad altri strumenti concorrenti.

4. Il funzionamento di borsa sociale

Il modello di borsa sociale si configura come un mercato di strumenti finanziari dedicati, in cui si scambiano prevalentemente partecipazioni (titoli azionari) di Ifs, ma non si esclude la possibilità

che titoli ibridi di quasi-equity e obbligazioni convertibili4 possano essere quotati in un secondo momento.

Nel corso dello studio di prefattibilità già citato, alcuni degli esperti coinvolti hanno espresso delle perplessità al riguardo, ritenendo più facilmente percorribile lʼipotesi di un mercato per titoli di

debito. La preferenza per un mercato azionario risponde a due esigenze: a. la soddisfazione dei bisogni finanziari più impellenti delle Ifs; b. la prospettiva di una vasta partecipazione di investitori

privati retail. A nostro avviso, il solo ricorso al finanziamento con emissioni di titoli di debito non è adeguato

a soddisfare i bisogni finanziari delle Ifs, in quanto richiede il pagamento costante di interessi sul debito contratto. Questo vincolo può mettere a dura prova le casse di una Impresa a finalità

sociale con limitate capacità finanziarie, inoltre non contribuisce a risolvere il problema strutturale di sottocapitalizzazione. Occorre sottolineare che il possesso di un titolo di debito non attribuisce

4 Per quasi-equities sʼintendono quegli strumenti finanziari il cui rendimento per colui che li detiene si basa principalmente sui profitti o sulle perdite dellʼimpresa destinataria, e che non sono garantiti in caso di cattivo andamento delle imprese; diversamente, lʼobbligazione convertibile è un titolo di debito il cui rimborso può avvenire, a discrezione del sottoscrittore, attraverso la consegna di titoli di altra specie e di uguale valore.

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diritti decisionali o di amministrazione della società, ma è un prestito contratto dalla medesima,

dunque lascerebbe invariata la proprietà riducendo le resistenze che si presentano in caso di equità.

In linea teorica, le obbligazioni possono essere emesse da società per azioni e da società a responsabilità limitata. A differenza del vecchio art. 2486 c.c., infatti, che vietava alla società a

responsabilità limitata lʼemissione di obbligazioni, il nuovo art. 2483 c.c. stabilisce che «se lʼatto costitutivo lo prevede, la società a responsabilità limitata può emettere titoli di debito […]». La

stessa opportunità di emettere titoli obbligazionari è riconosciuta alle cooperative dallʼart. 2526 che sancisce che «lʼatto costitutivo può prevedere lʼemissione di strumenti finanziari secondo la

disciplina prevista per le società per azioni e stabilisce i diritti di amministrazione e patrimoniali attribuiti ai loro possessori e le eventuali condizioni per il trasferimento di tali strumenti». Tuttavia

permane una sostanziale incompatibilità della scala dimensionale richiesta per lʼemissione di questi strumenti finanziari con lʼistituito dellʼImpresa a finalità sociale. Le obbligazioni potrebbero

essere adeguate solo nei casi di imprese mature che abbiano consolidato il proprio business a valenza sociale e che siano in grado di garantire il pagamento di interessi e il rimborso del capitale

ricevuto.Dal punto di vista degli investitori, questi titoli potrebbero soddisfare esigenze di investitori

sensibili ai temi sociali e ambientali, ma allo stesso tempo essere avversi a profili di rischio troppo elevati. Tuttavia – ecco il secondo punto – la sottoscrizione di tali titoli è possibile esclusivamente

da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza prudenziale a norma delle leggi speciali (banche, sim, sicav, ecc.), e cioè da parte di soggetti in grado di compiere unʼeffettiva valutazione

del rischio e della solvibilità della società; successivamente, le obbligazioni possono anche essere alienate a risparmiatori che non siano investitori professionali, soci o non soci, e anche a

dipendenti della società, tuttavia si sottolinea che chi trasferisce i titoli risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano a loro volta investitori professionali o soci

della società.Tutte le altre categorie di enti non profit (diversi dalle società e dalle cooperative) potrebbero

ricorrere a strumenti di finanziamento alternativi, alcuni dei quali, purtroppo, stentano ancora a prendere piede. Ci riferiamo in particolare ai titoli di solidarietà, un valore mobiliare caratterizzato

dal fatto che i fondi raccolti mediante emissione e offerta al pubblico devono essere destinati obbligatoriamente ed esclusivamente al finanziamento di Onlus.

Purtroppo questi titoli non hanno ancora risposto alle esigenze di finanziamento del settore non

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profit, e dovranno essere modificati per facilitarne unʼeffettiva applicazione. In attesa di sviluppi in

questa direzione, resta il fatto che non esistono al momento strumenti di debito per Organizzazioni non profit che possano essere collocati e scambiati su un mercato dedicato.

Per tornare alle caratteristiche del mercato di borsa sociale e al ruolo dei diversi soggetti coinvolti, occorre sottolineare che borsa sociale è stata pensata come una Multilateral trading

facility (Mtf), cioè un mercato non regolamentato istituito ai sensi della direttiva MiFid5. Lʼespressione «non regolamentato» può trarre in inganno, nel senso che può dare lʼidea di un

mercato lasciato a se stesso; in realtà, la disciplina che lo regola è assai rigorosa e completa; lʼassenza di regolamentazione riguarda il fatto che lʼammissione dei titoli e lʼaccesso a tale

mercato non sono assoggettati alla vigilanza diretta della Consob, pur dovendo essere conformi ai requisiti minimi da essa stabiliti mediante il proprio regolamento emesso ai sensi dellʼart. 77-bis del

Testo unico della Finanza. Una Mtf è, in larga misura, molto simile a un mercato finanziario tradizionale, in cui vengono scambiati titoli emessi da società o stati o altri soggetti autorizzati a

farlo. Il modello cui si è pensato per borsa sociale è il risultato di una sintesi di altre due Mtf operanti

in Italia, il Mac (Mercato alternativo del capitale) e lʼAim (Alternative Investment Market). Si tratta di due mercati relativamente simili lʼuno allʼaltro (il primo sviluppato autonomamente dagli operatori

italiani, il secondo importato a seguito della fusione tra Borsa Italiana e London Stock Exchange, la borsa britannica), entrambi rivolti a piccole e medie imprese. Nessuno dei due, in verità, ha

ottenuto particolare successo, il che dovrebbe far sorgere qualche dubbio sullʼopportunità di repliche, ma le ragioni del loro parziale fallimento sono legate ad alcuni fattori che non dovrebbero

ripresentarsi nel caso di borsa sociale. In altre parole, non è a causa del modello in sé, ma di altre circostanze che il progetto non ha funzionato del tutto.

Borsa sociale, in questo caso, seguendo lʼesempio del Mac, beneficerà del contributo di due distinte entità: una società di gestione e una società di promozione. La prima è lʼeffettiva

proprietaria del mercato, la controparte degli emittenti quotati e la responsabile ultima nei confronti delle autorità di vigilanza. La seconda ha il compito di attirare le Ifs e gli investitori verso il mercato,

e collabora alla definizione delle regole del mercato, ponendosi come garante politica della

5 La direttiva 2004/39/CE sui mercati degli strumenti finanziari, conosciuta con lʼacronimo inglese MiFid (Market in Financial Instruments Directive), è stata recepita nel nostro ordinamento attraverso il d.lgs. 164 del 17/9/2007, che ha modificato il Testo unico della Finanza, e la successiva normativa secondaria emessa da Consob, la commissione nazionale per le società e la borsa.

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missione di borsa sociale. La ragione per cui si è pensato a questo sistema è che i requisiti fissati

per la società di gestione in termini di capitale, struttura organizzativa, sistemi informativi, infrastrutture e altro sono particolarmente elevati e quindi costosi. Non si giustifica la creazione di

una entità ad hoc visto il volume atteso di scambi, anche nellʼipotesi più ottimistica. Per converso, nessuna delle società di gestione attualmente operanti sembra avere la capacità di approcciare un

settore così poco conosciuto e dai contorni ancora così incerti come quello delle Ifs. È sembrato perciò efficace affiancare a un soggetto che abbia già la struttura adatta alla gestione di una Mtf, e

che sia in grado di svolgere in modo neutrale le funzioni più tecniche, un altro che conosca le peculiarità degli operatori e sia da essi riconosciuto come credibile e affidabile.

Il ruolo della società di gestione è in larga misura definito dallʼordinamento e non richiede particolari commenti in questa sede. Più complesso quello della società di promozione, su cui vale

la pena spendere qualche parola. La società di promozione Pro-borsa sociale (Pbs) sarà, come abbiamo detto, il garante di

fronte al vasto mondo dellʼeconomia civile e alla società in generale della genuinità della proposta politica e del rigore con cui verrà realizzata. Pbs dovrà contribuire incisivamente alla definizione

delle regole di quotazione (listing rules), e prevenire comportamenti opportunistici da parte degli emittenti e degli investitori, preservando il capitale di reputazione indispensabile per alimentare la

fiducia degli attori coinvolti nel suo funzionamento, indispensabile per la continuità nel tempo dellʼimpresa. Pbs potrà intervenire nel merito della gestione del mercato indirettamente, per

esempio accreditando i soggetti specializzati nella valutazione e nellʼaccompagnamento delle Ifs alla quotazione, e quindi verificandone le competenze e la credibilità, stabilendo quali metodologie

debbano essere utilizzate allo scopo. Il problema che Pbs dovrà affrontare e risolvere è, dunque, quello delle regole che caratterizzano questo mercato come unico e ontologicamente diverso dai

mercati finanziari tradizionali. Per coerenza, Pbs dovrà costituirsi essa stessa come Ifs, ponendosi lʼobiettivo di sostenibilità sia in termini economici (e quindi la generazione di un plusvalore che

remuneri lʼinvestimento dei soci), sia sociali, e avrà una compagine societaria rappresentativa dei principali stakeholders: amministrazioni locali (in particolare amministrazioni regionali), fondazioni

di origine bancaria, associazioni di imprese, centrali cooperative, banche e altri operatori finanziari.Intorno allʼasse portante costituito dai due soggetti principali, si collocano gli altri attori del

mercato, quali i soggetti che svolgono funzioni di accompagnamento e di garanzia. In particolare, ai fini del funzionamento di borsa sociale, servirà lʼintervento di un soggetto specializzato che si

faccia garante, di fronte alla comunità degli investitori, della solidità del progetto imprenditoriale, e

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di un soggetto che accerti la capacità dellʼimpresa candidata alla quotazione di produrre valore

sociale in misura sufficiente a considerarla Ifs. La figura cui tendere è quella di un esperto con anche competenze socio-ambientali, quella che in altri contesti è stata chiamata Snomad, cioè

social nominated advisor. A oggi esistono pochissimi soggetti che abbiano queste caratteristiche e capacità: da un lato ci sono le agenzie di rating sociale, che tendenzialmente non si esprimono

sugli aspetti di natura finanziaria, e dallʼaltro banche, sim e altre organizzazioni simili che, viceversa, sanno poco o nulla di aspetti sociali e ambientali. Sono evidenti i rimandi alle

caratteristiche della figura del revisore sociale evocata da A. Propersi in questo stesso volume (cfr. infra) che, sia pure in un contesto diverso e con funzioni differenti, comunque richiama a

competenze e professionalità molto simili. In attesa di un progresso della situazione (che, peraltro, non dovrebbe tardare ad arrivare), occorre immaginare due percorsi valutativi indipendenti, e

quindi lʼintervento di un soggetto simil-sponsor e di un valutatore sociale. Gli uni e gli altri, in ogni caso, dovranno essere in qualche modo accreditati da Pbs, al fine di assicurare che abbiano tutte

le competenze e i requisiti necessari. I soggetti accreditati dovranno garantire la trasparenza informativa nei confronti degli investitori, stimolare lʼattenzione da parte della società al rispetto

delle regole derivanti dallʼessere quotata, massimizzandone i benefici, e – più in generale – mantenere la qualità e la reputazione del mercato sociale.

1. La valutazione delle Imprese a finalità sociale

In fase di ammissione, unʼimpresa candidata dovrà predisporre un documento che riporti le informazioni utili per gli investitori relative allʼattività della società, agli azionisti, ai dati economico-

finanziari, e soprattutto che riporti la valutazione di responsabilità sociale del modello di gestione e di efficacia nella creazione di valore sociale, elementi imprescindibili per qualificare unʼimpresa

come Ifs. Ai fini della partecipazione a borsa sociale, e dunque per essere riconosciuta come Impresa a finalità sociale, unʼimpresa verrà infatti valutata attraverso una due diligence, cioè una

investigazione sullʼaffidabilità economico-sociale.È questo un punto nodale del progetto. La creazione di borsa sociale non può prescindere da

una chiara definizione della tipologia di imprese che possono essere quotate e da una rigorosa valutazione della performance economica e sociale attesa. Se lʼIfs cui si rivolge questo mercato

rappresenta un equilibrio virtuoso tra produzione di valore economico e creazione di valore sociale, è necessario garantire allʼinvestitore tutte le informazioni per misurarne lʼefficienza e

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lʼefficacia con la massima trasparenza.

Il tema della valutazione è stato affrontato anche da altri in questo volume (si veda il contributo di I. Colozzi). Nellʼambito del nostro studio di fattibilità, abbiamo a nostra volta impostato un

sistema che è sembrato coerente con le esigenze di un mercato borsistico, sia pure sui generis. I criteri per regolamentare lʼaccesso alla borsa sociale sono stati identificati da alcune metodologie

di riferimento per la corporate social responsibility. In particolare, il modello di valutazione in questione è articolato su due livelli di analisi:

• unʼanalisi del sistema di gestione, che deve essere in grado soddisfare criteri di responsabilità sociale e di efficienza economica;

• unʼanalisi della produzione di valore sociale e ambientale, che deve essere coerente con la missione e proporzionato alle risorse impiegate.

Il primo livello è assimilabile a unʼaudit, ovvero a unʼanalisi dei sistemi e dei processi interni secondo due chiavi di lettura. La prima è lʼassunzione di responsabilità nei confronti di tutti gli attori

interessati allʼattività di impresa (gli stakeholders), la seconda è lʼefficienza economica nella gestione delle attività. Ogni ambito di indagine viene declinato in più criteri, ciascuno dei quali

articolato in un set di indicatori. I punteggi attribuiti a ogni indicatore vanno a comporsi allʼinterno di un sistema che produce una media ponderata secondo lʼimportanza dei diversi aspetti ambientali e

sociali nei vari ambiti di attività delle Ifs. Il valore finale che si ottiene per ogni ambito è un punteggio da 0 a 100. Allʼinterno di questo range sono state identificate quattro classi di qualità.

Il secondo livello di analisi riguarda la produzione di valore sociale, misurato come il cambiamento indotto nel contesto di riferimento. Come unʼimpresa for profit viene valutata per la

capacità di generare profitto, così una Ifs viene valutata per il grado di efficacia nel raggiungimento di un certo scopo dichiarato. La valutazione quantitativa degli impatti che lʼimpresa è in grado di

generare è necessaria a stimare il social return, il ritorno sociale, che è un rendimento aggiuntivo rispetto al ritorno economico tradizionale. I valori numerici permettono di calcolare degli indici di

ritorno sociale dellʼinvestimento e di riformulare il profilo rischio/rendimento su più dimensioni. La metodologia di valutazione della performance sociale si ispira alla teoria del cambiamento, ovvero

al modo in cui lʼorganizzazione ha determinato un mutamento nella società. Una Ifs può creare valore in modo efficiente ed efficace se utilizza al meglio i mezzi di produzione (input) e se genera

dei risultati (output) che determinano impatti positivi per i beneficiari (diretti) e per il resto della comunità (indiretti).

Per misurare lʼefficienza del processo, i risultati vengono valutati in rapporto alle risorse

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impiegate (tempo, denaro, lavoro, materiali), mediante il calcolo di output/input ratio; per misurare

lʼefficacia dellʼattività di impresa, gli impatti diretti e indiretti vengono rapportati agli obiettivi generali. Il criterio guida è la coerenza con la missione intesa come lʼidentificazione di un problema

sociale e ambientale cui cercare di porre rimedio mediante lʼapplicazione di strumenti idonei o la produzione di determinati beni e servizi. I mezzi impiegati, i risultati e gli impatti sono espressi da

indicatori che vengono misurati e riportati a un valore monetario tramite lʼuso di proxy. A titolo di esempio, una cooperativa sociale che ha come finalità lʼinserimento lavorativo di determinati

soggetti, impiega le risorse misurabili in unità di tempo o costi (affitto sale, materiali, ecc.) per svolgere dei corsi di riqualificazione professionale; i risultati sono misurati dal numero di

partecipanti ai corsi, mentre gli impatti sono valutati in termini di posti di lavoro creati per i beneficiari. Per ottenere un valore monetario dellʼimpatto che indica il valore totale dei benefici

generati, il numero di posti di lavoro viene moltiplicato per il costo unitario del lavoro.Lʼespressione degli indicatori in unità monetarie permette il calcolo di indici di rendimento

sociale quali il Social Return on Investment della New Economic Foundation (NEF), espressione del rapporto tra benefici totali e valore dellʼinvestimento. La performance sociale viene misurata

dallʼandamento di questi indici nel corso degli anni. I valori calcolati per unʼimpresa vengono confrontati con i valori indice di tutte le altre imprese che operano nel medesimo settore in modo

da ottenere unʼindicazione comparata (benchmarking).

4.2. La sostenibilità economica del mercato

In termini di sostenibilità economica del mercato e di Pbs, le voci di ricavo e di costo sono rappresentate dalle quote di ammissione (admission fees), dalle quote annuali (annual fees)

versate dalla società emittente, e dalle quote annuali di accreditamento dei soggetti che affiancano lʼIfs nel processo di quotazione. I costi attesi sono rappresentati da personale, sede e information

technology, comunicazione e marketing.In ordine ai ricavi derivanti dalle admission e dalle annual listing fees, si stima che il numero di

Ifs quotate possa arrivare a circa 70 nel giro di sei anni, periodo entro il quale è previsto il punto di pareggio di bilancio. Peraltro, il peso relativo dei costi di quotazione sul valore dellʼoperazione

dipende in larga parte dallʼammontare del flottante: qualora lʼIfs decida di mettere sul mercato una quota poco significativa del proprio capitale, lʼincidenza dei costi fissi sarà maggiore e quindi il

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vantaggio rispetto ad altre forme di finanziamento inferiore.

Questo numero di società ammesse appare sufficiente a garantire la copertura dei costi anche del gestore del mercato il quale, come detto, avendo già tutte le infrastrutture materiali e

immateriali necessarie, dovrà sostenere solo costi marginali, a parte quelli tecnici e amministrativi connessi allʼattivazione. Non abbiamo immaginato ricavi per il gestore direttamente derivanti dalle

negoziazioni, che non si prevede saranno troppo frequenti: lʼinvestimento in Ifs non ha obiettivi speculativi e quindi non si giustificano operazioni intra-day, che durino quindi un giorno soltanto.

Lʼaltra fonte di ricavo per Pbs è rappresentata dalla gestione del meccanismo di accreditamento dei soggetti specializzati nella valutazione delle imprese candidate alla quotazione. Anche in

questo caso, abbiamo stimato che possano essere interessati a partecipare un numero limitato di operatori (circa venti nellʼarco dei sei anni oggetto di previsione). Naturalmente, esso è fortemente

correlato al numero di Ifs quotate e alla quota di mercato che riusciranno ad accaparrarsi e a mantenere i first mover, cioè i pionieri dellʼoperazione. Se il numero di questi soggetti accreditati

fosse inferiore alle aspettative e quindi insufficiente a garantire entrate adeguate, potrebbe essere adottato un meccanismo che preveda il pagamento a Pbs di una quota variabile in relazione al

numero di attestazioni di conformità rilasciate alle Ifs.

5. Le questioni chiave ancora aperte

A questo punto della progettazione restano ancora aperte alcune questioni rilevanti che ne possono condizionare lo sviluppo.

La prima concerne la natura giuridica delle imprese candidate a diventare Ifs e i relativi vincoli allʼemissione di titoli (in particolare, di debito) o alla trasferibilità delle quote di capitale. Per le

società di capitale, la questione non si pone, poiché non hanno particolari vincoli, se non quello della scala dimensionale, che possano limitare il loro accesso al mercato dei capitali. Molto diverso

è il discorso per i soggetti del mondo non profit, a partire dalle cooperative fino ad arrivare alle Onlus. In questi casi esistono limitazioni di ordine giuridico e culturale che dovranno essere

superate, sia con interventi normativi che con attività di informazione e formazione. La figura giuridica dellʼimpresa sociale non fornisce, allo stato attuale, un riferimento utile a

costruire un quadro unitario entro il quale ricondurre le diverse fattispecie di imprese che svolgono attività a forte valenza sociale. In particolare, per le imprese che si qualificano come «imprese

sociali» vige il divieto assoluto alla distribuzione degli utili che rappresenta un vincolo alla

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partecipazione al mercato di capitale poiché tende ad azzerare il valore economico dellʼazione

detenuta da un possibile investitore (il prezzo di unʼazione riflette il valore scontato dei profitti attesi). Questo non sarebbe un problema se il mercato fosse solo di tipo primario, poiché

lʼesistenza di investitori istituzionali potrebbe garantire lʼacquisto delle azioni di Ifs anche se esse non garantiscono un utile atteso. Tuttavia, nel caso di un mercato anche secondario, ovvero dove

è possibile rivendere le azioni, il prezzo rifletterà le aspettative sugli utili e dunque il rischio è lʼazzeramento del loro valore. In queste condizioni lʼexit strategy per lʼinvestitore istituzionale

sarebbe molto complicata, e il mercato risulterebbe del tutto illiquido. Lʼesistenza di un mercato secondario crea dunque un vincolo (poiché presuppone che le azioni offrano un dividendo) ma

offre anche maggiori opportunità per migliorare il funzionamento del mercato. Lʼapertura agli investitori retail aumenta la possibilità di rivendere le azioni e offre ai risparmiatori lʼoccasione di

partecipare indirettamente allʼattività di imprese che hanno un forte impatto sociale. Non è da escludere che possano esserci risparmiatori che, in ragione della dimensione etica

dellʼinvestimento, siano disposti a rinunciare in parte alla remunerazione del capitale investito. Collegata alla scelta sul tipo di mercato è la questione della dimensione dei soggetti

partecipanti. Non cʼè dubbio che borsa sociale, per come è stata progettata, possa rappresentare unʼopportunità solo per soggetti che realizzino un giro dʼaffari di alcuni milioni di euro. Per quelli

che rimangono al di sotto della soglia, il problema delle fonti di finanziamento rimane intatto. A questo limite è collegata la necessità di pensare ad altri strumenti finanziari che possano

soddisfare la domanda di capitali di Ifs che, per una ragione o per lʼaltra, non possano accedere alla borsa. In particolare, occorre lavorare alla creazione di veicoli di private equity e di venture

capital sociale. In ogni caso, e qui veniamo alla questione più importante per il funzionamento di borsa sociale,

molto dipenderà dal modello di pricing. Se questo rispecchierà lʼapproccio tradizionale che definisce il prezzo dellʼazione solo in ragione del profilo di ricavi attesi, i problemi di cui sopra non

troveranno facile soluzione. Se, invece, sarà possibile definire e adottare un modello di pricing innovativo che quantifichi il valore sociale generato, allora il prezzo delle azioni di Ifs rispecchierà il

valore atteso dei ricavi ma anche il valore dei benefici sociali e ambientali che lʼimpresa sarà in grado di produrre.

Un corollario del prezzo è rappresentato dal rischio, forse solo teorico, che delle Ifs possano in realtà rivelarsi molto profittevoli (per esempio per aver trovato una soluzione particolarmente

efficace a un bisogno sociale diffuso). In questa situazione, alcuni ritengono che comunque la

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distribuzione di utili debba essere limitata. Esistono solidi argomenti sia a favore che contro lʼidea

del tetto, che vanno ulteriormente investigati.

6. Implicazioni di «policy» e proposte

La creazione di borsa sociale non richiede, di per sé, alcun intervento di tipo normativo. Il

mercato, infatti, può essere attivato allʼinterno del quadro regolamentare esistente. Lʼidentificazione delle imprese che possono parteciparvi si basa su una definizione delle loro

caratteristiche che viene assunta dalle stesse in sede di autoregolazione (statuto), e verificata dal gestore del mercato nellʼambito di un rapporto privatistico. È lecito chiedersi se un intervento del

regolatore pubblico, ancorché non necessario, sia opportuno. A nostro avviso, è più utile che si lasci il tempo al mercato di elaborare le proprie regole e di sperimentare i propri modelli in

autonomia. Una eventuale disciplina pubblica potrebbe, in fase iniziale, inibire lo sviluppo di iniziative creative di innovazione sociale, ingessandole prima che abbiano trovato una forma

stabile. Dopo un certo periodo di tempo, invece, una volta definito un assetto in cui gli operatori si riconoscano e stigmatizzati i rischi di comportamenti opportunistici, una normativa che dia maggior

certezza al quadro venutosi a creare offrirebbe a tutti maggiori garanzie. Non vʼè dubbio, tuttavia, che, qualora dovesse maturare in tempi brevi lʼipotesi di una riforma

complessiva del settore, anche attraverso un riscrittura del Libro I del Codice civile, potrebbe aver senso un intervento organico volto a disciplinare le varie espressioni di impresa sociale che

vengono esercitate o di cui si dibatte, tra cui lʼIfs. In particolare, una riforma di alto profilo dovrebbe affermare la possibilità di utilizzare lʼistituto delle società di capitali anche per finalità diverse dal

lucro degli azionisti. Un intervento che, per quanto di natura molto tecnica e puntuale, potrebbe fare la differenza in

termini di successo della borsa sociale, è la modifica dellʼinterpretazione dellʼAgenzia delle Entrate, contenuta nella circolare 59/E del 31/10/2007, in base alla quale le Onlus non possono possedere

quote di controllo in società di capitali. Si tratta di una imposizione di discutibile base giuridica (non si trova accenno alla questione nel d.lgs. 460/97 sulla disciplina fiscale degli enti non commerciali,

che ha istituito le Onlus), fondata sul timore di possibili evasioni fiscali. La norma è coerente con lʼimpostazione che abbiamo criticato in premessa, secondo cui i mondi for profit e non profit

devono rimanere chiaramente separati tra loro, anche attraverso la diversificazione delle forme giuridiche degli enti mediante cui si realizza lʼattività. In verità, la natura dellʼattività e la proprietà

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del soggetto che la esercita sono questioni distinte. La natura non lucrativa di unʼorganizzazione

non implica necessariamente il rifiuto dello strumento della società commerciale, per perseguire lʼobiettivo dellʼutilità sociale. È certamente sensato evitare il rischio che una Onlus diventi una

holding finanziaria; ma non si comprende perché una fondazione Onlus che persegua fini di protezione per lʼambiente, per esempio, non possa gestire unʼarea protetta attraverso una società

controllata per intero o in maggioranza, se questa forma risulta più efficace. Un altro dei possibili percorsi a disposizione è una profonda revisione della legge sullʼimpresa

sociale. Un intervento del genere potrebbe sembrare prematuro, dato che il decreto legislativo 155/2006 è in vigore da poco più di quattro anni, ma i risultati prodotti sinora lasciano prefigurare

un elevato rischio di fallimento: il numero di imprese sociali registrate è, a oggi, ridicolmente basso, cosa che legittima a ritenere che lʼimpostazione adottata non risponda alle aspettative e alle

esigenze degli operatori. Unʼimpostazione diversa richiederebbe peraltro una legge ordinaria, essendo il decreto n.155 emesso in forza di legge delega (la 188/2005), che ha fissato i principi e i

criteri direttivi. Lʼutilità di un percorso tanto complesso si giustificherebbe con lʼobiettivo di evitare fraintendimenti tra le definizioni di impresa sociale ai sensi del d.lgs. 155/06 e Impresa a finalità

sociale, «inventata» per la borsa sociale. A ogni buon conto, per aumentare la domanda potenziale di imprese quotabili, sarebbe auspicabile la sostituzione del divieto assoluto di distribuzione degli

utili per le imprese sociali con un sistema che sia in grado di limitarla. Lʼimposizione di un tetto alla distribuzione dellʼutile, come previsto per le cooperative sociali, permetterebbe di non stravolgere

la ratio dellʼimpresa sociale, cioè la conservazione di eventuali plusvalori allʼinterno del circuito aziendale, e di fornire allo stesso tempo lʼincentivo di una remunerazione economica oltre che

sociale. Un tema che periodicamente riemerge è quello della disciplina fiscale. Nel caso di specie,

potrebbe aver senso riflettere su una norma che riconosca dei vantaggi sia alle Imprese a finalità sociale sia agli investitori che si avvicinano al mercato. Una qualche forma di beneficio potrebbe

rappresentare lo stimolo per vincere lʼinerzia iniziale e creare le condizioni per il superamento delle fasi di sviluppo di borsa sociale. Una volta tagliati i primi traguardi e raggiunta una condizione di

stabilità, incentivi o premi risulterebbero meno giustificabili e peraltro meno necessari.

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Appendice - Proposta di modifica del regolamento attuativo per i titoli di solidarietà (15/11/2007)

Riportiamo la sintesi di un documento elaborato dal professor Stefano Caselli dellʼuniversità

«Luigi Bocconi” di Milano per conto dellʼAgenzia per le Onlus contenente una proposta volta a migliorare il quadro normativo in materia di titoli di solidarietà, al fine di renderne praticabile

lʼutilizzo.

Premessa

Il presente documento rappresenta una proposta di modifica al regolamento dei titoli di solidarietà come definiti dal combinato disposto costituito dallʼart. 29 del decreto legislativo n.

460/1997 e dal relativo decreto ministeriale attuativo 8 giugno 1999, n. 328. Il regolamento si pone lʼobiettivo di: adeguare i suddetti testi legislativi ai parametri finanziari a oggi utilizzati dal mercato

finanziario; chiarire e integrare, ove necessario, i testi legislativi stessi nella prospettiva di una concreta attuazione della volontà espressa dal legislatore; sostenere la diffusione dei titoli di

solidarietà alla luce della crescente esigenza di finanziamento del settore del non profit.Per queste ragioni, lo spirito complessivo del regolamento è quello di offrire una visione

allineata alle prassi di mercato con riferimento al concetto di gestione separata. Nello specifico, il concetto di separatezza viene perseguito con il ricorso a società-veicolo, come utilizzate nelle

operazioni di cartolarizzazione piuttosto che di project finance. La società-veicolo permette infatti di raccogliere risorse finalizzate a uno specifico obiettivo, esaltando il concetto di separatezza e di

evidenza contabile e informativa della destinazione delle risorse. Non solo, la società-veicolo è un ottimo strumento per coagulare interessi e attori che a vario titolo possono trovare nei titoli di

solidarietà uno strumento efficace di sviluppo sociale ed economico (es. i confidi, come garanti delle obbligazioni; le fondazioni bancarie come possibili sottoscrittori, ecc…).

In termini più analitici, il regolamento proposto interviene su più punti del combinato disposto: sostituisce il parametro di Rendiob (il rendimento medio delle obbligazioni emesse da istituti di

credito); specifica meglio il meccanismo del vantaggio fiscale in capo allʼemittente; definisce meglio la tipologia di obbligazioni; amplia lo spettro dei beneficiari dei finanziamenti, suggerisce

quale tasso applicare nei confronti dei medesimi.

Regolamento

I titoli di solidarietà definiti dallʼart. 29 del d.lgs 460/1997 sono titoli obbligazionari non convertibili a tasso fisso, la cui durata è direttamente stabilita dallʼemittente così come la struttura

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del piano di rimborso. Per procedere allʼemissione dei titoli suddetti, il citato art. 29 richiede la

presenza di una gestione separata da parte degli emittenti, siano essi banche, come definite dal d.lgs n. 385/1993, o intermediari finanziari di cui allʼart. 107 del medesimo decreto legislativo. Per

favorirne la concreta emissione, la presente proposta di regolamento stabilisce che tale requisito possa essere soddisfatto anche se le banche o gli intermediari finanziari sopracitati detengono il

controllo di società-veicolo, appositamente costituite per lʼemissione dei titoli di solidarietà stessi (si propone il controllo e non il 100% della proprietà per consentire lʼingresso e la promozione dei

veicoli anche da parte di altri soggetti interessati, quali ad esempio fondazioni, confidi, enti pubblici, ecc…). La società-veicolo rientra necessariamente nel novero dei soggetti disciplinati

dallʼart. 113 del d.lgs 385/1993 secondo lo schema utilizzato nelle operazioni di cartolarizzazione.

La società-veicolo utilizzata ai fini dellʼemissione dei titoli di solidarietà deve impiegare le risorse finanziarie solo nei confronti delle Onlus attraverso operazioni di finanziamento, ivi

compresa lʼacquisizione di crediti commerciali dalle Onlus medesime (è il caso di operazioni di factoring, pro solvendo e pro soluto), e non può svolgere attività diverse se non meramente

strumentali a quella principale. La raccolta delle risorse può avvenire anche con modalità differenti rispetto allʼemissione dei titoli di solidarietà.

Ai fini dellʼemissione dei titoli di solidarietà, essendo cessata la rilevazione dellʼindice Rendiob, viene fissato un limite massimo al tasso effettivamente praticato al momento dellʼemissione dei

titoli di solidarietà, in misura pari al valore dellʼEuribor a sei mesi maggiorato del 10%, rilevato come media dei valori dellʼEuribor a sei mesi calcolati nei tre mesi antecedenti lʼemissione. Per

favorirne lʼemissione, viene riconosciuta allʼemittente la possibilità di dedurre a fini fiscali dal reddito dʼesercizio un valore pari alla differenza fra un tasso di riferimento e il tasso di emissione. Il

tasso di riferimento è costituito dal valore dellʼEuribor a sei mesi maggiorato del 35%, rilevato come media dei valori dellʼEuribor a sei mesi calcolati nei tre mesi antecedenti lʼemissione (sono

state inserite delle percentuali di mark up anziché dei valori fissi per permettere agli indici di variare in funzione delle fluttuazioni di mercato).

Dal lato del finanziamento delle organizzazioni, si è individuato quale tasso da applicare ai soggetti beneficiari quello praticato alla migliore clientela del medesimo tipo.

Infine si vuole ampliare la categoria di beneficiari dei flussi finanziari derivanti dallʼemissione dei titoli di solidarietà, per incrementare la percentuale di risparmio destinata al Terzo settore. Si

propone quindi di integrare il termine Onlus con «enti non commerciali e organizzazioni non a

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scopo di lucro compresi i soggetti inseriti nellʼelenco ministeriale dei destinatari del Cinque per

mille».