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1 Tra racconto e incontro Cibo, cultura, identità Le storie Scuola di italiano – Comunità Immigrati Ruah

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Tra racconto e incontro

Cibo, cultura, identità

Le storie

Scuola di italiano – Comunità Immigrati Ruah

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Introduzione La parola CIBO scritta in grande al centro della lavagna. “ Che cosa vi viene in mente?” Qualcuno timidamente accenna al piatto tipico del suo paese. Poi si fa strada il ricordo e con esso la nostalgia. Le distanze si accorciano, si materializzano immagini di luoghi lontani: il mercato di Dakar così simile a quello di Ouagadougou, la Notte di Natale in Bolivia e le tradizioni della Settimana Santa a Santo Domingo, l'ospitalità e la convivialità che solo da noi sembrano essere dimenticate, ma che accomunano invece altre culture, l'India, il Marocco, il Senegal. Abbiamo scelto il cibo come argomento trasversale della nostra scuola di italiano, perché parlare di cibo rende più facile parlare di noi e quello che maggiormente ci interessava era arrivare al racconto, come scambio di vissuti ma anche confronto tra culture. Molte di queste storie non sono state scritte dai protagonisti, ma ci sono state raccontate e sono poi state trascritte e rielaborate con l'aiuto degli insegnanti. Abbiamo cercato, come ben scrive Elke nel presentare qui i racconti dei suoi studenti, di non tradire lo spirito e le emozioni di chi a volte con molta fatica, ma anche con molto entusiasmo ci ha trasmesso uno spaccato di sé e del proprio paese. I testi non sono e non avrebbero potuto essere omogenei, alcuni sono molto ricchi e completi, altri semplici frasi o acrostici di poche parole, alcuni racconti personali altri a più voci.

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I nostri “autori” appartengono tutti a gruppi di livello medio basso, vale a dire persone arrivate da poco in Italia e quindi con una conoscenza ancora molto limitata della nostra lingua. Sono persone provenienti da tutto il mondo, parecchi dalla Bolivia, ma anche dal Marocco e dall'Africa occidentale, dall'India e dal Sud America, con livelli di partenza e con una cultura di base molto disparata, si va dall'analfabetismo al possesso di una laurea, quasi tutti con mille difficoltà personali di sopravvivenza ed integrazione nel nostro paese che a volte hanno reso discontinua la frequenza ai nostri corsi. Per stimolare il racconto e per arricchire le nostre conoscenze ci siamo serviti di informazioni storico geografiche, ma anche di racconti, leggende e proverbi, alcuni dei quali abbiamo ritenuto utile riportare qui. Questo opuscolo non è il resoconto di tutti i nostri percorsi didattici, né la raccolta di tutto quello che è stato raccontato sul tema del cibo, ma semplicemente la documentazione di alcuni frammenti del lavoro svolto, quelli che siamo riusciti a rendere maggiormente fruibili, per testimoniare l'enorme ricchezza di conoscenze, di esperienze e di vita che la presenza degli immigrati ci regala se abbiamo la curiosità e la pazienza di volerli ascoltare. Le volontarie e i volontari

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PARTE PRIMA

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Cibo e nostalgia Il cibo è anche profumo, il profumo evoca ricordi, luoghi, situazioni e soprattutto le persone lontane che questi luoghi e situazioni abitano. Le parole per esprimere i sentimenti e le emozioni del ricordo escono a fatica in una lingua ancora estranea. Il cibo ci riporta a un modo di stare assieme in famiglia o con gli amici. Il cibo richiede cura, attenzione, amore. Il cibo richiede lentezza. Ce ne parlano Ajoub, Rachid, Neza, Mohamed (Marocco), Aminou (Senegal), Larissa (Bolivia), Sukveer (India).

Anna

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Il profumo del cibo “Quando io passo in via Suardi davanti al ristorante marocchino, sento il buon profumo di tajine marocchino e penso al mio paese: il Marocco”. “Io mi ricordo il profumo della zuppa di frutti di mare che prepara la mia mamma nell'ultimo giorno di tutti i mesi”. Il cibo è famiglia “Ho nostalgia della famiglia”. “ Mi mancano le mie sorelle”. “Ho nostalgia di mia mamma”. “ Mi manca il clima del mio paese, inteso come atmosfera, modo di vivere”. “ Mi mancano gli amici, le chiacchierate con gli amici”. “Una cosa molto diversa è il modo di stare assieme delle persone. In Marocco quando si mangia non si parla. Solo alla fine del pasto, mentre si beve il tè, tutte le persone della famiglia parlano tra loro. Il padre e la madre, persone che hanno autorità in famiglia, chiedono delle cose ai figli (della scuola per esempio) e poi consigliano e indicano le cose giuste da fare. E' molto importante questo momento”. Il cibo è accoglienza “In India siamo ospitali. Mia mamma invitava sempre le persone a prendere il tè o a mangiare qualcosa con noi. Anche persone che non si conoscono. In Italia, questo non succede. Io sono sola, il modo di vivere è diverso,

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non è possibile stare assieme come da noi o in Marocco e in Senegal.” Il sapore del cibo “C'è qualcosa che rende diverso il sapore di un cibo se è consumato qui in Italia. Sarà la materia prima, sarà la mancanza di tutti gli ingredienti, sarà l'aria? O semplicemente è che nel ricordo il cibo di casa nostra, mangiato là con la nostra gente, assume un sapore ineguagliabile.” “Ho nostalgia dei sapori, per esempio della carne della Bolivia. Qui la carne è “chiara”, non sa di niente. Le prime volte pensavo: “ non sono capace di cucinarla”. Poi ho capito che il problema non sono io, il problema è la carne italiana.” La cura del cibo “É diverso il mio cibo in Italia, mi manca il tajine del Marocco, qui lo preparo, ma non è uguale. Anche il te’ marocchino alla menta non si prepara bene in Italia”. “Cosa manca in Italia? Il tempo. In Italia manca il tempo, tutti corrono” Il mio Pique “La verità è che non mi piace cucinare, non so perché. Magari non sono nata con quell’istinto oppure non ho messo interesse per imparare. Adesso che ancora sono giovane, non ho problemi, però, prima o poi, dovrò imparare per forza.

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In casa mia, là in Bolivia, cucinava solo la mia mamma; anche se non era un gran cuoca, lo faceva con amore per le sue principesse, per lei, noi figlie, siamo le sue principesse. Quando sono arrivata qua in Italia, ho imparato un po’, però sinceramente non lo faccio bene. Ormai mangio di tutto, per me è più facile cucinare una pastasciutta, che la faccio in pochi minuti, piuttosto che fare un cibo del mio paese, che ci si mette più tempo. Quando parlo con mia mamma lei mi dà delle ricette per fare le sue zuppe, i sughi, però, anche se ci provo, non riesco a farli bene come lei. Come mi mancano quei cibi, i profumi e i sapori! Non ero abituata a mangiare, tutti i giorni cibi molto saporiti della cucina del mio paese, però mi dava piacere mangiare qualcosa di buono, in occasione di qualche compleanno, di una festa, a Natale o a Capodanno. Natale mi dà tanta gioia, era il giorno in cui noi potevamo mangiare bene e stare tutti insieme. Nella mia casa, si cucinava il pique o il picante de pollo, anche se non era esattamente il cibo che si mangia in Bolivia a Natale. Nel mio paese a Natale si mangia la picana e per capodanno il lechon. Ma per noi, in qualsiasi occasione speciale, era solo pique o picante. A mezzanotte, tutti eravamo in casa aspettando di finire di mangiare per poter parlare e aspettare l’alba per fare colazione con i deliziosi buñuelos o con l’api. Questi sono ricordi che magari mai potrò rivivere con mia mamma, perché le sue principesse sono diventate grandi e ognuna con la sua famiglia vive in posti diversi.

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Se devo parlare del mio paese, penso che si mangia e si beve troppo, ci sono tanti tipi di cibi, se comincio a parlarne non la finirei più. In ogni regione si mangia diversamente, però i boliviani quasi tutti mangiano il chicharon di maiale il fine settimana, sempre accompagnato dalla chicha oppure dalla birra, perché molti pensano che se uno beve una bevanda analcolica come la coca cola, per esempio, gli può dare un’indigestione. Boh, non so dire perché. Non bisogna dimenticarsi del carnevale, quando a Cochabamba si mangia il famoso puchero (riso, ceci, pere, pesche, peperoncino) e si gioca con l’acqua, tirandosi palloncini pieni di acqua. Nel mio paese si mangia troppo, c’è un proverbio che dice“la buona vita e la poca vergogna”: vuol dire che è importante mangiare bene, senza pensare alle conseguenze. Adesso vorrei soltanto stare a casa mia, perché mi manca tutto; anche se qua è bello, mi manca la mia famiglia.” Patricia Camacho (Bolivia) Davanti al camino “Sul cibo della Moldavia ho poche cose da dire, perché, secondo me, non è molto diverso da quello italiano. Ciò che mi manca di più sono quelle domeniche, quando ci incontravamo a casa dei miei genitori, dopo una settimana durante la quale, a volte, non riuscivamo neanche a parlarci, così vivevo ogni giorno della settimana per quel giorno.

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La mattina della domenica andavamo a casa dei miei genitori per fare la colazione con “l’uovo all’africana”. Era una “ricetta” inventata da mio papà per le sue bambine. Anche se non era niente di speciale, solo un uovo bollito 2-3 minuti, però faceva il suo effetto, perché aveva questo nome così strano. Quelle domeniche, per tutta la giornata cucinava mio papà, che era un ottimo cuoco, anche se cucinava di rado. Il cibo preferito era “la polenta” preparata secondo la ricetta tradizionale con il pesce, con la panna e il formaggio di pecora. Era una gioia, d’inverno, quando fuori faceva molto freddo, mangiare tutti insieme davanti al camino, sentire che eravamo una famiglia, anche se non molto numerosa, e sentire i racconti della vita dei miei genitori con il sottofondo del rumore della legna che bruciava. D’estate si cucinava alla griglia e si mangiava nel giardino al sole, accompagnati dal canto degli uccelli. E’ difficile esprimere quanto piacere provi quando ti trovi seduta a tavola con la tua famiglia parlando delle cose già realizzate e dei progetti per il futuro. Sono molto riconoscente alla mia famiglia per quelle giornate indimenticabili fra tradizione e ricordi, nelle quali mi sono sentita davvero molto amata nonostante tutti i miei difetti e un po’ di pregi. Oggi, purtroppo, qualcuno di quelle persone care non c’è più.”

Ana Dolghier (Moldavia)

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Caldo de bolas “Da quattro anni non ho messo piedi nella mia terra, l’Ecuador, e mi manca da morire. Mi manca la mia famiglia, mi manca tutto, ogni cosa, ogni gesto. Ho tanta nostalgia; la domenica ci riunivamo tutti a casa dei miei genitori e facevamo festa. Mi manca tutto, pure il cibo perché è diverso da quello che normalmente si mangia qua. Il piatto tipico della mia città si chiama caldo de bolas. Questo piatto si prepara con il brodo di carne e un po’ di verdura, la banana e con tante altre cose, ed è proprio buonissimo!”

Mariana (Ecuador)

“Picante di lingua di mucca”: delizia boliviana

“Nel mio paese ci sono tanti piatti tipici di buon sapore e gusto, per esempio quando ero piccolo mia madre faceva sempre deliziosi piatti che mi piacevano, mi piacciono e mi piaceranno per sempre. Uno si chiama “Picante di lingua di mucca”, che lei sempre cucinava tutte le domeniche mattina per mangiare al ritorno di chiesa. Insieme con tutti i miei fratelli e i genitori mangiavamo intorno al tavolo. Come mi manca quel bel momento di tanta felicità e pace che non potrà mai tornare, perché c’è una grande ragione: i miei genitori sono morti, io mi

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trovo in Italia, i miei fratelli si trovano in altri paesi americani e europei. Questa è la cruda e difficile situazione della mia vita; nel mio sentimento spirituale c’è una candelina anche piccola però con luce brillante che illumina la mia speranza, che un giorno torni quel bel momento di gioia e io possa tornare nella mia regione Santa Cruz – Bolivia a rivedere la mia casa dove sono cresciuto, per mangiare questo piatto preferito con qualcuno vicino a me, che sostituirà la mia famiglia scomparsa per la volontà de Dio”. “Questo piatto si fa con la seguente ricetta”. Ingredienti per fare il pranzo per sei persone: - Una lingua di mucca di un chilo e ½ più o meno, - Acqua sufficiente per fare cuocere la lingua, - ½ bicchiere d’olio d’ oliva, - Due bicchieri di cipolla bianca in bastoncini fini, - Due pomodori sbucciati e tagliati, - Un cucchiaio di locoto schiacciato, - Quattro cucchiai di prezzemolo tagliato fine, - ½ cucchiaio di peperoncino rosso in polvere, - Un cucchiaio di origano, - ½ cucchiaio di cumino macinato, - Un bicchiere di piselli verdi fini, - Quattro bicchieri di acque calda, - ½ cucchiaio di sale, - Sei patate intere, sbucciate e pulite.

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Preparazione: Prima di mettere a cuocere la lingua, schiacciarla per farla diventare morbida e pulirla delicatamente. Mettere a fuoco forte una pentola con acqua, quando è bollente aggiungere la lingua e lasciare cuocere per due ore più o meno. In una seconda pentola mettere l’olio, quando è caldo, incorporare le cipolle, i pomodori, aggiungere tutte le spezie, i piselli e alla fine il sale; mescolare bene e lasciare cuocere per circa un’ora. Dopo, mettere la lingua cotta e tagliata in pezzi, mescolare tutto e lasciare bollire un po’; dopo che la lingua abbia preso il sapore della salsa aggiungere le patate cotte. “Si apparecchia il tavolo, si mangia con riso bianco e un bicchiere di vino rosso di accompagnamento. Buon appetito…!”

Daniel Rosales Leon (Bolivia)

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Racconti Dall’Africa Occidentale sub sahariana

Io so bene che la semplice scrittura non può riprodurre il tono della voce, l’espressività dello sguardo e della mimica, la gestualità e la vivacità dei narratori, ma ho cercato di trascrivere le storie dei miei studenti con la speranza di non tradire troppo lo spirito dei loro racconti. Il racconto nella tradizione africana non è solo orale, è sopratutto “teatrale”. Si “parla” con tutto il corpo. Elke

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L’uomo che ha pane per nutrirsi Non capisce il rigore delle carestie

Un uomo che ha la pancia piena

Non accenderà il fuoco per gli altri

Il pesce che nell’acqua non trova il cibo Si sposta nella speranza di sfamarsi.

Proverbi africani Tra le virtù fondamentali dei popoli africani l’ospitalità, in senegalese teranga, è sicuramente la più famosa. Ospitalità in realtà esprime anche accoglienza, attenzione, rispetto, gentilezza, allegria e il piacere di ricevere un ospite nella propria casa. I pasti sono momenti molto importanti di condivisione, rafforzano la coesione del gruppo e la solidarietà: si mangia insieme. Agli ospiti sono riservati i piatti migliori, l’ospite è coccolato e per lui vengono cucinati i piatti migliori. Soprattutto se sono stranieri. In realtà l’alimentazione nella area subsahariana, soprattutto nelle zone rurali e nei quartieri più poveri delle città, è meno varia e ricca di quanto non possa sembrare a prima vista. Mentre la costa è (ancora) ricca di pesci, lontano dal mare si preparano piatti semplici a base di cassava (manioca) di miglio o di fonio. In alcune famiglie non è sempre possibile servire due pasti al giorno e, quindi, ci si concentra su quello di mezzogiorno. La sera ci si arrangia come si può. A volte si prepara solo il fufu o, come viene chiamato in Burkina Faso, il tò.

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Il sapore del Tò “Quando vivevo ancora in Africa, alla sera preparavo il tò, che è un po’ come qui in Italia la polenta. Al pomeriggio, che caldo, avevo già macinato la farina di miglio o di fonio nel mortaio. Un lavoro molto faticoso, che va fatto solo dalle donne. Prendevo una grande pentola, mettevo la farina, aggiungevo latte e un po’ di sale, e giravo tutto per un bel po’. Mettevo la pentola sul fuoco e lasciavo cuocere il tò finché era pronto, mescolando continuamente la pappa con un bastone di legno. Alla sera spesso mangiavamo solo il tò: è bello stare tutti insieme , raccontarci che cosa era successo durante il giorno che sta per finire e pensare che cosa si farà il giorno seguente. Si parlava dei salari, dei prezzi della carne e delle verdure; se era una buona cosa emigrare; si parlava della vicina, che era rimasta con i suoi figli da sola nel paese. Nel mio paese si viveva anche la vita degli altri. Mio marito ed io facevamo piani per il futuro: per migliorare la nostra vita. Volevamo andare in Italia ed eccomi qui. Il cibo italiano mi piace, ma il cibo che cucinavo in Burkina Faso, come il tò che si fa nel mio paese, che buon sapore! E’ più buono della pizza e della pasta. Per me il tò è anche ricordare. E se ti ricordi vedi davanti ai tuoi occhi il tuo paese, i tuoi genitori, ti ricordi quando eri piccola, il mercato e le tue amiche, che sono rimaste nel paese e adesso non le vedi più.” Zenabo (Burkina Faso)

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Quante uova? Chi lo sa! “A 13 anni, quando vivevo ancora nel mio paese, non lontano da Ouagadougou, tutte le mattine prendevo la bicicletta e andavo a lavorare nel paese vicino. Facevo il sarto. Nella pausa, andavo al mercato e mi compravo croua croua. La mia maestra ha detto che sono una specie di taralli. Lei voleva dire che i taralli sono una specie di croua croua. I croua croua si preparano al mercato. Si fa una pasta di arachide, forse si mette anche un po’ di sale, dopo la venditrice fa dalla pasta tanti anelli, li fa cadere pian piano nell’olio di arachide bollente finché sono belli croccanti. A volte al mercato compravo anche boussan touba, le orecchie dei bissa: così vanno chiamato le gallette dalla gente Mossi, per scherzo. Io sono un Bissa. Boussan touba viene fatto con purè di fagioli, una manciata di cipolle, carote tritate e uova, uno o due? E chi lo sa! Si aggiunge semi di néré, sale e pepe. Poi si formano delle polpette. Dopo la polpetta va schiacciato come un CD e fatto friggere nell’olio bollente. Se hai un po’ di soldi ti compri coca cola o sprite, se hai pochi soldi bevi jus di bissap o jus d’ananas o jus di tamarindo. Per chi non parla francese come me, jus vuol dire bibita.” Timbila (Burkina Faso)

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Si mette il sale nel ceeb-ou-dien? “Sono arrivata a Bergamo l’estate dell’anno scorso. Abito con mio fratello. Lui fa il muratore a Milano e torna a casa sempre tardi. Sono io che cucino. Me lo ha insegnato la mia mamma. Noi, gente di Wolof, mangiamo tanto pesce, perché viviamo vicino al mare. Anche qui mangiamo tanto pesce, lo compro al supermercato. Le spese le faccio con mio fratello. Quando abbiamo gente spesso cucino ceeb-ou-dien: devo comprare riso, 2 branzini, un piccolo pesce affumicato, zucchine, perché i gombo qui non si trovano, carote, un cavolo, cipolle; l’aglio, il prezzemolo e il sale li ho già in casa. Nel negozio in via Quarenghi, dove si vendono prodotti africani, compro olio di arachide e il pepe rosso. Là compro anche il cassava. Il cassava è come una patata enorme. Anche la farina di mais compro in questo negozio. Come preparo il ceeb-ou-dien? Mia mamma mi ha insegnato che prima devo pulire bene, bene il pesce e tagliarlo in grandi pezzi. Metto in bagno il pesce affumicato. Taglio a pezzettini le zucchine, le sei carote, il cavolo e il cassava. Faccio friggere nell’olio la cipolla tritata fine e uno spicco d’aglio, appoggio sopra il pesce, lo lascio dorare, unisco al pesce una mezza scatola o tutta la scatola di salsa di pomodori, butto dentro le verdure fatti a pezzi. Tutto deve cuocere a fuoco molto basso, ogni tanto aggiungo un po’ d’acqua e alla fine metto anche il prezzemolo e il pepe rosso. In un’altra pentola faccio bollire il riso, perché il ceeb-ou-dien va servito con il riso.

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“E il sale, Jaineba?” Jaineba ride: ma certamente ho messo anche il sale. No? Senza sale...?” Jaineba ( Senegal) La zuppa della mamma di Joy Maestra: Conosci la soup ogbono, Joy? Joy: Io? No. M: E una zuppa fatta con i noccioli di ogbono. J: Ma io non so cosa siano le ogbono. Come sono? M: Sono come i noccioli del mango. L’albero cresce in Nigeria. J: Ah, sì? M: Sì. J: E come lo sai? M: L’ho letto in internet. Il nocciolo va schiacciato per la minestra. Le ogbono si possono anche mangiare come le noccioline americane. J: Si? Sono salate? M: Questo non lo so. Sai cosa è bitterleaf? J: Si, certo, lo so, mia mamma faceva sempre una minestra con questa verdura, bitterleaf è come spinaci, ma bitter, cioè amaro. Sono le foglie di yam. M: E la mamma metteva nella zuppa anche noci schiacciate, cioè ogbono? J: Nooooooooooo! (Joy ride con gusto, allarga le braccia e i suoi occhi fanno scintille), la mia mamma mette sempre le patate dolci e la pasta di arachide nella zuppa di bitterleaf. Joy (Nigeria)

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Fufu Foufou Foofoo Attièkè Aloko Tò

Nell’Africa occidentale, il cibo di base, cioè il cereale e dei tuberi cucinati generalmente solo con l’ acqua, ha tanti nomi. Se senti il suono del mortaio, anche tu farai il fufu. Adu

è come Aviane e niente di nuovo viene dall’Europa. Proverbio dal Ghana Occidentale

“Quello che voi in Italia chiamate polenta, da noi nella lingua Bissa si chiama Tò. Zenabo cucina il tò con latte, io no, io cucino tò con l’acqua. Se io prendo la farina di mais, di fonio o di miglio o anche il riso il piatto si chiama sempre tò. Qualcuno dice che non è così, ma non capisce niente. Per preparare il tò per tutti: marito, figli, nonni e zie, ci vuole molto tempo. In Africa usavo il mortaio per battere i semi. Tutti qui pensano che tutti noi in Africa cuciniamo nel cortile, in grandi pentoloni davanti a tutto il mondo. Io in un villaggio non sono mai stata”. Fatimata( Burkina Faso) “Quello che Fatimata chiama tò, noi in Ghana chiamiamo foutou. Il foutou lo facciamo con cassava o

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farina di grano. Le salse le fai con le verdure che hai nell’orto o che trovi nei campi. Chi non ha l’orto va al mercato”. Frank (Ghana) “Quello che Frank chiama foutou, noi in Costa d’Avorio chiamiamo aloko. L’aloko si prepara con farina o con la fecola di plantain. A volte si fa l’aloko con la farina di manioca e con i plantain. I plantain sono banane da cuocere. Per il purè prendi quelli maturi con la buccia marrone, per friggere le banane prendi quelli con la buccia verde”. Diaby (Costa d’Avorio) “Quello che Diaby chiama aloko, io chiamo attièkè. Noi in Costa d’Avorio parliamo tante lingue. Quando noi donne africane cuciniamo, cantiamo e ridiamo. Siamo ritornate dal mercato, dove abbiamo comprato tutto per il pranzo, abbiamo incontrato tanti amici, abbiamo chiacchierato e a lungo contrattato con i commercianti, abbiamo sentito le novità del quartiere. Arrivate a casa accendiamo il fuoco, con il gas, perché io non abitavo nella brousse, mettiamo la pentola con l’acqua e la semola di mais e giriamo, giriamo finché l’attièkè è pronta, dalla pappa facciamo palle grandi come arance. Noi mangiamo questo cibo spesso con pollo. Da noi i polli, sai come li chiamiano? – li chiamiamo poulet bicyclette - hanno un buon sapore, non sono grassi e bianchi come qui, perché corrono qua e là e mangiano quello che trovano in giro. Un pollo grasso non ha un buon sapore e se un cibo non ha un buon sapore, non è

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buono per la tua salute. Tutti mangiano con le mani dalla stessa ciotola. Con la mano destra. Che buono! - “Il ferait damner un saint” (farebbe dannare anche un santo)”. Fatoumata (Costa d’Avorio) “Quello che Fatoumata chiama attièkè e Diaby alloko, noi in Senegal lo chiamiamo foufou . Io vengo da Dakar, la capitale di Senegal. Io compro la farina per il foufou già pronta. Con la farina insaccata ci vogliono solo 10 minuti per cucinare il foufou. A volte prendo la farina di mais, a volte di fonio. Il fonio ha più sapore e fa molto bene ai bambini. Se dai da mangiare ai bambini il fonio non hanno mai mal di pancia. Qui non trovi il fonio. A Dakar, ai mercati trovi adesso farina e molta verdura che viene dall’Europa. Cosi dice mia sorella che vive là. Io preferisco imparare a leggere e a scrivere ed imparare l’italiano che preparare per ore ed ore il togg, vuol dire il cibo. Adesso ho finalmente un lavoro. Se non sai scrivere e leggere ci vuole ancora più fortuna per trovare un lavoro. Se non sai leggere ti imbrogliano al mercato. Se non sai leggere ti dicono: poverina. I miei figli sono bravi a scuola, parlano bene l’italiano. Loro amano la pizza e le merendine. Ma alla fine di Ramadan, alla festa Koritè, cucino anche io molti piatti e faccio una torta che si chiama lakh. Noi in Africa mangiamo pochi dolci e la cioccolata non ci piace molto. Alla festa del Tabaski, che ricorda il sacrificio di Abramo, ed è la festa del perdono, si deve fare pace con tutti, ogni famiglia fa sgozzare un montone o un capretto.

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Allora preparo cabri con gombo, con zucchini - volevo dire - e patate dolci. Si taglia la carne, il montone o il capretto a pezzi, una parte della carne la metti nel freezer, si tagliano anche gli zucchini, le patate dolci, le carote, fagiolini, le cipolle, tante cipolle e l’aglio. Tutto va preparato come uno stufato. Il nostro cibo ha più sapore che il cibo italiano, perché noi usiamo molto peperoncino e altre spezie come il nokoss e l’olio di palma. Per le feste invitiamo sempre gli amici che vivono qui da soli. Le loro famiglie sono ancora in Senegal”. Ada (Senegal) Narra la leggenda…la nascita dell’universo da un seme di fonio (Mali). Amma, il dio supremo del popolo dei Dogon, un bel giorno, molto tempo fa, si accorse che attorno di lui c’era il nulla. Dove guardava non c’era niente, assolutamente niente. Non c’era inizio né fine, non c’era spazio, né tempo, non c’era chiaro né scuro, non faceva caldo né freddo. Non c’era bellezza né allegria, né danze. Nella sua mano tenne un chicco di fonio, piccolo, piccolo, piccolissimo. Amma pensò fra sé e sé:” in questo seme di fonio c’è l’intero universo, l’uovo cosmico”, di punto in bianco fece esplodere il granello, e voilà: l’universo! Così Amma creò il sole, la luna, le stelle piccole e grandi, la terra e il cielo. C’erano fiumi argentini, verdi colline, gigantesche rocce, sabbia e alberi e fiori. Il fonio si cullava nel vento. I pesci guizzavano nell’acqua, gli uccelli volavano sopra le savane, i leoni cacciavano gli antilopi, gli ippopotami sguazzavano nel pantano, le scimmie si facevano dispetti, erano veri scansafatiche. L’alba e il tramonto si davano il cambio. Le nubi passavano, la pioggia cadeva, il fonio si moltiplicava.

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Amma costruì anche un granaio, vicino al fiume, ma non seppe quale era la ragione di tutto ciò. Sapeva che aveva dimenticato qualcosa. Si sentiva molto solo in mezzo a tanta bellezza, nessuno lo ringraziava per la sua creazione, né il cielo, né gli animali. Così andrò al fiume per pensare meglio. Contemplò a lungo la corsa dell’acqua , le orme del serpente, il rosso morire del sole. Ahimè, la solitudine! In questa notte si unì con la terra. Nacquero due gemelli, un maschio e una femmina, che presentavano l’acqua e la luce. Il dio supremo, il dio dei cieli, donava ai gemelli anche il potere delle parole. Poi Amma, non ancora soddisfatto, creò un uomo e una donna dall’argilla. Dalla loro unione nacquero quattro copie di gemelli, che diventarono gli antenati dei Dogon. Ancora oggi Amma brilla tutte le notte in cielo. Ma la stella del fonio è invisibile per gli uomini. Il fonio è un “survival food”. Il cereale ha un’altissima percentuale di proteine. Durante una carestia causata da siccità, il fonio è sempre disponibile, perché cresce velocemente, matura in sei/otto settimane. Ha bisogno di poca acqua. Cresce anche sui suoli aridi e sabbiosi, che sono considerati troppo infertili per il miglio, il sorgo e il mais. La coltivazione del fonio in Africa occidentale è molto importante per ridurre l’importazione di cibo. Il fonio è tra i più antichi e nutrienti cereali del pianeta. Gli agricoltori dell’Africa occidentale coltivano il fonio da 5000 anni, per preparare l’alimento base. Dà l’impressione d’un erba selvatica. I campi di questa pianta si trovano in tutta l’area sub sahariana, dal Senegal al Tschad. La produzione del cereale è sempre stata difficile perché i suoi semi sono estremamente piccoli, poco più grandi di un granello di sabbia. Un chilo di fonio contiene 1.000.000 semi, ogni seme pesa 0.005 grammi, un seme misura 1 mm. Il minuscolo oggetto rende la pilatura dei preziosi semi molto laboriosa e faticosa. Un lavoro che è sempre stato realizzato dalle donne. Il grano bianco si ottiene tramite la pilatura e diversi lavaggi per eliminare l’impurità, un’abilità molto complessa, che solo le donne esperte sanno fare. Per sgranare e lavare un chilo di fonio si lavora 2 ore . Oggi grazie all’ invenzione di una macchina sgranatrice appositamente per il fonio si possono ridurre i tempi della produzione. La macchina produce dai 20 ai 30 chili in due ore. Le macchine sono leggere e possono essere portate da villaggio a villaggio. Oggi la “cash economy” ha raggiunto anche le aree rurali d’Africa . Le donne contribuiscono al budget familiare lavorando fuori casa e di conseguenza hanno meno tempo di preparare il cibo. Oggi esistono progetti della Unione Europea per aumentare il valore del fonio e per sviluppare piccole imprese gestite da donne. Il fonio è utilizzato per il couscous, il djouka, il fufu, il popcorn, le patatine e, mescolato con altri cereali, per fare il pane. Si produce anche la birra. La paglia serve per nutrire le mucche, le capre,le pecore e gli asini. La paglia mista con argilla è utilizzata per costruire case e muri e per produrre calore per cucinare. Dalla cenere si ricava il potassio. Data l’ importanza di questo cereale, l’oggetto più piccolo nella esperienza del popolo dei Dogon, ancora oggi il fonio è offerto agli dei (Amma) durante il culto per gli antenati. E fa parte del bride-price (prezzo della sposa).

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IL BAOBAB

Il baobab è l’albero simbolo delle savane. Nei villaggi africani questo bizzarro albero è il centro della vita sociale: sotto la sua ombra si tengono i mercati, le riunioni degli anziani, le danze, sotto il talking tree giocano i bambini, chiacchierano uomini e donne. Una volta era anche un riferimento per i viaggiatori. Ancora oggi si crede che quest’albero abbia poteri magici: allontana la malasorte e toccarlo rende immuni contro le disgrazie. Secondo la tradizione però non avrebbe poteri nei confronti di bianchi e musulmani. Gli europei e gli americani che hanno letto “Il piccolo Principe” conoscono il baobab. La sua vita è lunghissima, la maggior parte vive 500 anni, ma esistono esemplari che hanno 5000 anni. Vuol dire che qualche albero è vecchio come le piramidi. La sacralità di questa pianta per la popolazione africana è tale che solo gli iniziati e i saggi hanno il permesso di arrampicarvisi per raccogliere frutti e foglie. Nessun albero può essere abbattuto dall’uomo. Non si deve mai vendere il terreno dove cresce un baobab, porta sfortuna. Il baobab è un miracolo nel mondo delle piante. Un tronco riesce contenere fino a 120.000 litri d’acqua e resiste alle dure condizioni di siccità. Gli alberi sono impollinati da pipistrelli. I frutti hanno un aspetto originale come l’albero stesso, e sono tondi o ovali. I fiori sono bianchi o rosa, ma hanno un cattivo odore. In alcune parti d’Africa si crede che poeti e musicisti siano posseduti dal diavolo. Per non inquinare il suolo, i loro corpi vanno sepolti nella corteccia del baobab fuori del villaggio. Gli Africani dicono: il baobab è la nostra farmacia. Nella pianta si trova tutta la medicina per guarire. Le mamme per nutrire i bambini mescolano la polpa del frutto con il latte, per proteggerli da una pancia gonfia, della febbre e della dissenteria. La medicina va venduta al mercato. Si curano anemia, diarrea, influenza, asma e si dice anche i tumori. Dai semi si estrae un olio, che può essere utilizzato nell’alimentazione umana e nella cosmesi. L’olio allevia il dolore delle scottature. Dai semi si fanno anche le caramelle. Dai semi arrostiti si fa un delizioso caffè. Se i semi vanno fermentati sono la base per una birra. Foglie e germogli vanno mangiati come verdure. In Nigeria si fa la kuka soup. Le foglie, macerate e poi compresse, servono a fare lavaggi alle orecchie e agli occhi dei bambini malati. Le foglie sono anche utilizzate nella medicina tradizionale, nelle malattie delle vie urinarie, per i morsi d’insetti, come vermifugo e, come già detto, per combattere le infiammazioni. La frutta dell’albero si chiama anche “pain de signe”, il pane delle scimmie, perché penzola come una coda di scimmia dai rami quasi nudi. La polpa del frutto trova impiego come vermifugo, analgesico e nel trattamento di vaiolo e morbillo. Con la polpa del frutto sospesa in acqua si può preparare una bibita, che sa di limone, oppure può essere seccata e arrostita per fare un sostituto del caffè. La polpa, liberata dalla buccia e dei semi, va utilizzata nelle polpette. Oggi si sa che la polpa del frutto è ricca di vitamine, calcio, ferro, potassio, magnesio, zinco. Dalla corteccia si fanno vestiti, cappelli, colla e corde. La cenere si usa come concime nei campi. Per gli uomini africani il baobab è un regalo di Dio che ha un valore inestimabile.

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Per gli Africani il baobab è Albero della Vita, Albero Magico, Albero Farmacista, Albero Sacro

Quando il baobab mette le foglie?

È una questione di speranza. Una saggezza africana dice che l’acqua ottenuta mettendo a mollo i semi del baobab, mescolando per molto tempo, salva dagli attacchi dei coccodrilli. Un’altra saggezza dice che chi beve la tisana della corteccia del baobab diventa grande, forte e potente.

Mai strappare senza arte e senza necessità un frutto dal baobab. Ti mangiano i leoni.

Narrano le leggende… Un giorno, parecchio tempo fa, un gruppo di folletti scontrosi e bisbetici che viveva nella savana decise di vendicarsi degli uomini, colpevoli di disturbare la loro quiete con musiche e litigi assordanti. Idearono un dispetto molto particolare: approfittando del buio della notte, si intrufolarono furtivamente nei villaggi, con la magia addormentarono gli abitanti, curiosarono nelle case, mangiarono il tò che era avanzato, poi buttarono tutto all’aria e sradicarono tutte le piante che trovarono nei paraggi. Non le gettarono nel fiume, ma le capovolsero a testa in giù. Così facendo diedero vita ai baobab, alberi bizzarri e originali, che sembrano piantati al contrario, con le radici al cielo. Gli uomini continuarono con i loro litigi, la loro musica e le loro risate. Un giorno, parecchio tempo fa, il baobab era un albero come tutti gli altri, ma voleva essere diverso e così chiese agli dei di dargli più

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spazio per crescere. “Va bene”, disse il Consiglio degli dei, e l’albero si prese un bel posto nella savana. Dopo un po’ l’albero aveva un altro desiderio. Adesso voleva un tronco più imponente per differenziarsi dagli altri alberi. Anche questo desiderio venne esaudito. Non si accontentò dell’enorme tronco e del bel posto nella savana. I suoi desideri divennero sempre più grandi. Adesso voleva una tenera corteccia e portare frutti di velluto e voleva vivere mille anni. Gli dei sbuffarono, ma ancora una volta le richieste vennero ascoltate. Ma i suoi desideri non avevano fine: ora addirittura voleva fiori d’oro, che brillassero al sole, così gli altri alberi morivano d’invidia, soprattutto la bellissima palma. Gli dei ne avevano abbastanza, erano veramente stufi, e senza contare fino a tre, strapparono il baobab e lo piantarono con la testa in giù. Ecco! Da questo momento in poi il baobab tace e non ha più nessun desiderio. Fino ad oggi possiamo contemplare il baobab, come stende le sue buffe radici verso il cielo.

La Kuka Soup è molto buona ed è facile da preparare. Prendi due o tre ciotole di foglie di baobab (kuka) e due ciotole di gombo seccato, un po’ di pigmento fresco, quattro pomodori, un pesce fresco o seccato, sei cucchiaini di olio di palma, un litro d’acqua e un dado. Prima si lava e pulisce il pesce, se fresco aggiungere sale e pepe. Tagliare i pomodori a pezzi, versare tutto in una grande pentola con l’acqua e il dado, mettere anche l’olio e lasciare bollire tutto quindici minuti; alla fine aggiungere le kuka foglie e il gombo seccato, mescolare e fare cuocere tutto altri dieci minuti. Intanto si fa bollire il riso separatamente. Quando tutto è pronto ci mettiamo a tavola e mangiamo la zuppa e il riso finché è ancora calda.

Cecilia(Nigeria)

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IL CUSCUS Narra la leggenda… ... Un giorno, lontano, lontano, una giovane donna, mentre faceva il bagno nel mare, scoprì un topolino che stava mangiando la sabbia; la donna non si spaventò alla sua vista, si avvicinò e la bestiola sparì subito, ma essa, incuriosita di ciò che il topo stava mangiando così avidamente, si chinò verso terra e, con suo grande stupore, scoprì che il piccolo roditore non mangiava sabbia, ma una sostanza di colore giallo che assomigliava alla sabbia. Nessuno fino ad allora ci aveva pensato, ma quei granelli gialli, che formavano le spiagge del suo villaggio, erano niente meno che una semola di grano che era approdata con il mare da una vecchia nave sprofondata negli abissi. Dal giorno di questa meravigliosa scoperta, la popolazione del villaggio poté vivere nell'abbondanza e nutrirsi bene, ma anche altre tribù, diverse per la lingua e le usanze, conobbero questo alimento e lo utilizzarono. Ecco perché esistono molti modi per cucinarlo, viene

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usato al posto del pane ed insaporito con il piatto principale che può essere di verdure cotte e legumi (per i vegetariani), di pesce o di spezzatino di carne al sugo.

Uno scherzo divertente, a proposito di cuscus… Un uomo ne invitò un altro a mangiare il cuscus a casa sua. Quando furono seduti a tavola, l'ospite notò che mancava l'acqua e chiese al padrone di casa se poteva andarla a prendere, ma questi rispose che se lui fosse andato a prendere l'acqua, l’altro avrebbe potuto mangiargli tutto il cuscus. Gli propose allora di battere le mani fino a che non fosse arrivato, così non avrebbe potuto mangiare. L'ospite, però, con una mano si batté la nuca e con l'altra si mangiò tutto il cuscus il più velocemente possibile. Quando il padrone di casa arrivò vide il piatto vuoto e gli chiese come avesse fatto a mangiare il cuscus ed a battere le mani contemporaneamente; l'ospite gli rispose che, quando lo avesse scoperto, lo avrebbe invitato a casa sua a mangiare il cuscus.

Il cibo e le mani “Perchè il cuscus venga buono, bisogna avere la pentola giusta. E' una pentola particolare fatta di due parti: sotto si mette la carne con le verdure e il sugo e sopra c'è una pentola bucata dove si mette il cuscus che così cuoce a vapore prendendo un buon sapore Ci sono due modi di mangiarlo. Nel modo tradizionale, si mangia senza posate. Il cuscus viene messo in un grande piatto rotondo, in mezzo la semola e attorno la carne e le verdure, e tutti mangiano a turno dallo stesso piatto. Si prende il cuscus con le mani e si fanno delle palline per raccogliere tutti gli ingredienti e

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i sapori. E' un gesto molto particolare, non facile e, non tutti, anche in Marocco, sono capaci di mangiare così. Oggi, soprattutto in alcune zone del Marocco, il cuscus si mangia invece con le posate. Anche in altri paesi, alcuni cibi si mangiano meglio direttamente con le mani. Per esempio, il riso, in India, ma anche in Senegal e, in Italia, la carne, quando è vicina all'osso, come il pollo o le costine. Per noi musulmani è molto importante la pulizia. Quando mangiamo, le nostre mani devono essere pulite, è un precetto religioso. L'Islam insegna l'importanza della pulizia della persona e dei vestiti. Prima di mangiare qualsiasi cibo dobbiamo lavarci, così come prima della preghiera, è un segno di rispetto, perché quando preghiamo siamo davanti a Dio. In Italia, invece, non sempre le persone danno importanza a queste cose. Nei negozi, dove si vendono cose da mangiare, non c'è sempre un bagno dove lavare le mani. Mi è capitato, per esempio, di comperare un pezzo di pizza in un negozio e di essere in difficoltà perché non c'era la possibilità di lavarmi prima di mangiarla. Al mio paese, invece, dove si vende il cibo e si mangia, ci si può sempre lavare. Le nostre mani compiono azioni importanti riferite al cibo: con le mani si mangia, si impasta, si mescola ,si raccolgono i frutti, si sbucciano la frutta, si lavano i cibi, si sala, si spezza il pane, si pulisce il pesce, si schiaccia , si offre ...”.

Fatima,Ajoub e Rachid (Marocco)

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Il cuscus con la farina di mais Il cuscus è semola di grano duro, ma si può ottenere anche con la farina di mais. Ingredienti: un mazzetto di prezzemolo legato, 1kg di farina di mais, sette verdure: 4 carote, 4 pomodori, 4 cipolle, ¼ zucca gialla, 2 zucchine, 1 cavolfiore, 2 melanzane, 1kg carne di manzo, olio, sale, pepe, zenzero, zafferano. Esecuzione: Mettere la carne a cuocere per alcuni minuti con olio, sale, pepe, zafferano, zenzero, 2 cipolle, i pomodori. Aggiungere acqua e, quando bolle, mettere le carote e il cavolfiore. Separatamente, preparare il cuscus di mais bagnando la farina con un poco di acqua e olio. Far passare la pastella attraverso un setaccio. Mettere il cuscus nella pentola con fori (barma) da posizionare sopra la pentola con la carne. Cuocere a vapore per dieci minuti,poi togliere la barma, versare il cuscus sul piano di lavoro e con le mani bagnate sbriciolare i grumi. Lasciare riposare, rimettere il cuscus nella barma sopra la pentola della carne. Ripetere l'operazione tre volte e, la seconda volta, aggiungere alla carne le zucchine, la zucca, le melanzane e il prezzemolo. Quando il cuscus è cotto, aggiungere olio e versare su un piatto grande il cuscus con la carne, le verdure e il sugo.

Kadija (Marocco)

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Acrostico di cibo L'idea nasce per caso. Pensavo di non aderire all'iniziativa vista la situazione linguistica dei miei studenti. Alcuni di loro sono da poco nel nostro paese, altri di madrelingua cinese con grosse difficoltà d'apprendimento. Durante una lezione si è parlato del cibo, termine non conosciuto dagli studenti. Con l'aiuto dei diversi vocabolari siamo riusciti a comprendere il significato e visto l'interesse che l'argomento destava abbiamo deciso di approfondire parlando della distribuzione e della composizione dei pasti nella giornata nei paesi d'appartenenza. L'elenco è stato molto difficoltoso, ma alla fine siamo riusciti a riportare tutti quelli della prima colazione,pasto che maggiormente si differenzia dalle nostre abitudini. Ritenendo questa informazione interessante abbiamo deciso di comunicarla attraverso il lavoro che presentiamo. L'idea dell' acrostico è servita per arricchire in modo divertente il patrimonio linguistico degli studenti. Giuditta

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Il cibo delle feste

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La festa di Tauxarit “Ogni anno, noi, come tutti i musulmani in Senegal, festeggiamo la fine dell’anno musulmano. Questa festa si chiama Taruxarit, che è il nome di quel mese, in wolof, la lingua locale, e, per l’occasione, si cucina quello che si chiama cere bassesalte. Al mattino, le donne vanno al mercato per comprare verdure da unire a quanto già preparato il giorno prima, trasformando i grani del miglio suna in farina. Gli uomini devono preoccuparsi di recuperare la carne e il cibo previsto per la notte. Quando le donne sono tornate dal mercato, preparano velocemente il pranzo come tutti i giorni (ceeb-ou-dien, maffe). Alle 14,30 cominciano la preparazione del cibo della sera; in questa occasione la cena si mangia prima rispetto alle altre serate. Si cucina prima una salsa di carne con pomodoro, piselli, patatine e altre verdure. Dopo, si preparano al vapore la farina del miglio oppure del mais. Poi le donne prendono della salsa e una fettina di burro che mettono nel cere (farina del miglio già pronta ) e con il cucchiaio girano il tutto per 15 minuti. Il nostro cere bassesalte è pronto! Buon appetito, possiamo mangiare! È tradizione portare una parte di questo cibo ai vicini, soprattutto ai poveri. Dopo la cena, giovani e bambini fanno dei giri nelle case per il Tadiabone ricevendo soldi, miglio, riso e anche il resto del cere. La festa dura fino a mezzanotte.”

Bravo Massire (Senegal)

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La Festa di Aide Soghir “Alla fine del Ramadan, noi mussulmani festeggiamo per un giorno intero, mangiamo tutti insieme il riso con il latte o il burro, il pane, il cous cous con verdure o pollo. Ci sono anche tanti tipi di dolce, torte con crema, si beve il tè e il caffè latte. Le donne cucinano e gli uomini discutono. Da noi, c’è un’altra festa, si chiama Aide Kabire, durante la quale si taglia la testa all’agnello”.

Naym (Marocco)

Menu della festa della fine del digiuno “ID AL-FITR” in Maghreb Mulukhia (zuppa vegetale alla contadina) Tajin T’Faia (pollo alle mandorle) Salata baladi (insalata mista) Pilaf Mahammer (riso saltato) Beshkito (biscottini) Tè alla menta o Karkadè

Menu della festa del sacrificio “ID AL –ADHA” in Medio Oriente Kharuf Mahshi (montone ripieno) Khobs (pane arabo) Salata Khodar Meshakel (insalata mista tritata) Ataif (frittelle con lo sciroppo) Qahwa (caffè arabo)

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La festa per il Matrimonio “In Marocco vengono fatte molte feste, tra le più belle è la festa tradizionale del matrimonio che si fa all'aperto e dura un giorno. Si fa in una piazza di fronte alla casa o sul terrazzo della casa. Una volta, nelle zone abitate dai berberi, la festa durava anche sette giorni, ma adesso sono cambiate le abitudini: la preparazione dura tanti giorni, ma la festa è un giorno solo. Per questa occasione, si riuniscono tutte le persone e gli amici della famiglia per aiutare nella preparazione. Le famiglie più ricche chiedono a qualcuno di preparare tutto, ma le famiglie popolari fanno loro: tutta la famiglia dà una mano, aiuta a preparare. La preparazione del mangiare, la preparazione della sala e di tutto è una cosa bella, che mi piace tanto. Quando la festa si fa in una piazza grande, ci sono delle tende, delle grandi tende con dentro dei divani e dei tavoli, una grande tenda libera per ballare e per il gruppo musicale. Un'altra usanza è quella che la moglie e il marito, ad un certo punto, si cambiano i vestiti, come in un defilè di moda. Ogni zona ha il suo costume e ad ogni vestito corrisponde una musica, per esempio il vestito di una zona del sud e la musica della zona del sud. Il cibo che si prepara per i matrimoni cambia da zona a zona. Ovunque, però, dopo la cena, si mangiano i dolci; adesso, alla fine, si mangia anche una torta, anche se questa non è un cibo tradizionale del Marocco, ma è un'usanza europea.

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Il dolce tradizionale dei matrimoni marocchini è invece un dolce fatto da datteri senza nocciolo, dentro i datteri ci sono delle mandorle e sopra dello zucchero colorato per decorazione. Questo dolce viene messo in un grande piatto, la moglie prende un dattero e lo offre al marito e il marito lo offre alla moglie. Il significato è che per la prima volta il marito e la moglie stanno assieme e dividono il cibo. La festa del matrimonio è un momento importante per tutta la famiglia.”

Ayoub (Marocco) La picana della notte di Natale “La Bolivia è un Paese multiculturale e multietnico, è un misto di varie culture europee e native. Da oltre 500 anni sono arrivati in Bolivia gli europei, imponendo ai popoli sudamericani le loro diverse culture. Hanno “scoperto”, (ma esisteva già!), questo nuovo mondo che oggi si chiama America. In America del Sud c’è la Bolivia, il mio paese, che è stato colonizzato dagli spagnoli. Nell’anno 1492 Cristoforo Colombo ha “scoperto” le Americhe ed ha portato la religione cattolica, che si è diffusa nel nostro paese, ma che, a secondo delle zone della Bolivia, si esprime con dei riti e dei culti differenti; per esempio, la nascita di Gesù viene festeggiata in modi differenti. Il nostro paese ha tre aree geografiche: la zona Andina, la zona della valle e quella dell’altopiano.

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In tutte le zone esistono tradizioni molto belle a Natale; una consuetudine è mangiare un piatto tipico dal nome picana. È un piatto ricco di molti sapori e aromi che contiene anche una grande varietà di carni; infatti, la preparazione della picana è abbastanza complicata, perché unisce vari alimenti e condimenti. Per preparare il brodo, si può usare sia la carne di bue, che quella d’agnello o di pollo. Per condire, si mette il peperoncino non piccante, il comino intero, l’aglio, la cipolla, l’uva passa, le carote tagliate a pezzettini, il peperone dolce, la patata, i pomodori… A Natale, la gente del mio Paese si raccoglie spiritualmente in preghiera, perché l’umano e il divino possano entrare in relazione. In questa particolare occasione, è usanza che le persone singole, le famiglie o le stesse comunità si chiedano perdono a vicenda per i torti fatti e subiti prima di riunirsi per consumare il pranzo della mezzanotte. Però non tutte le famiglie sfruttano tale opportunità, perché la gente è diversa come in tutto il mondo. Nella mia terra esistono tre classi sociali. La classe dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, sono queste delle persone che da sempre occupano cariche nella politica e, grazie a questo, sono molto ricche, ma il buon Dio non ha dato loro la qualità di essere generose e altruiste; sono, infatti, una classe a parte, che non si mescola con gli altri. Il secondo gruppo è formato dalla classe media ed è rappresentato, in buona parte, da professionisti che sono più sensibili alle tradizioni popolari, come quella di consumare il piatto tipico picana durante le feste di

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Natale. Di questo gruppo sociale, anche a Bergamo, c’è una buona rappresentanza che mantiene anche qui le tradizioni della nostra amata terra boliviana. Il terzo gruppo è rappresentato dai poveri e dagli indigenti che, anche a Natale, si preoccupano solo, come ogni giorno, di come procurarsi il cibo per sopravvivere. Questa è la mia terra! Anche se non tutti a Natale consumano la picana, questo piatto non sarà mai superato da nessun un altro nella nostra cucina tradizionale.”

Josefina (Bolivia) La Settimana Santa “Nella Repubblica Dominicana si celebra la Semana Mayor che cade dopo 40 giorni di Quaresima. Si celebra in due forme: una veramente cristiana, come si celebrava nel passato dai cristiani praticanti, e nell’altra, come la festeggia ora la maggior parte delle persone, in pratica come giorni di riposo e come un’occasione per fare tre giorni di vacanza. Nel mio Paese l’85% delle persone appartengono alla religione cattolica, anche se non siamo praticanti. Per i cattolici praticanti è una settimana di raccoglimento, di preghiera, di meditazione e di servizi religiosi: si fanno ritiri spirituali e processioni nelle strade, si celebrano attività spirituali durante tutta la settimana dalla Domenica delle Palme fino alla mezzanotte del Sabato Santo.

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Le attività si concentrano dal pomeriggio del Giovedì Santo sino alla sera del sabato, quando si celebra la “messa del gallo” a mezzanotte, per dare inizio alla domenica della gloria della Resurrezione. Nel passato, anche solo trent’anni fa, a Santo Domingo, capitale della Repubblica Dominicana, generalmente tutti i cattolici osservavano con devozione e riverenza la Settimana Santa, poiché quasi tutta la società era cattolica e la gente, cittadini e contadini, aveva la stessa tradizione religiosa (era una cultura sociale). I bar e gli altri centri notturni di divertimento chiudevano le porte dal giovedì santo fino alla mezzanotte del sabato. La radio trasmetteva per tre giorni solo musica strumentale, classica, che la gente chiamava “musica dei morti” perché era senza voce e anche senza allegria. E, davvero, era musica funebre perché esprimeva il lutto per la morte di Gesù. In televisione, in questi tre giorni, proiettavano solo film religiosi: la Passione di Cristo, i Dieci Comandamenti, David, Sansone e Dalila, San Francesco di Assisi, Santa Teresa del Bambin Gesù. Il Venerdì Santo, tutta la gente digiunava fino al pranzo, si alzava dal letto senza parlare, e, sempre in silenzio, si preparava e andava in chiesa, al ritiro o alla processione. A mezzogiorno, tornava a casa per il pranzo; che era diverso dal solito, perché era senza carne. Invece della carne, che nella nostra cucina accompagna sempre il riso bianco, in questa occasione il riso si serve con contorno di legumi (guandules) e dell’insalata, oppure si mangia baccalà guisado (in umido) con patate, spaghetti, melanzane, il pesce con il cocco…

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Sebbene il piatto tradizionale dominicano sia riso, habichuela (fagioli rossi) e carne, durante la quaresima, si sostituisce la carne con altri alimenti, l’habichuela con le guandules (legumi tipici locali), perché in questi giorni si cucina in modo speciale. Attualmente, anche durante la settimana santa, alla radio si sente musica allegra, la televisione trasmette programmi vari, mentre le scuole chiudono, come nel passato, fino al lunedì santo. Per la maggior parte dei dominicani, come ho già detto, è soprattutto un periodo di vacanza, non è più sentito, come nel passato, come un momento di raccoglimento e di preghiera. Con la habichuela si prepara un delizioso dolce (habichuela con dulce)

Habichuela con dulce Ingredienti per una famiglia di 5 persone: 2 chili di habichuela (fagioli rossi), 1 chilo di zucchero, 2 litri di latte evaporato, 1 litro di latte di cocco (preparato,secondo la tradizione, in casa), 2 litri di latte di mucca, una scatoletta di uva passa, 5 pezzetti di cannella, 8 chiodi di garofano, ½ chilo di patate dolci, un po’ di radice di zenzero, una presa di sale fine, un sacchetto di biscottini (galeticas).

In una pentola a pressione, si mette a bollire la habichuela, per un’ora. Dopo si fa raffreddare, si macina e si mette in un’altra pentola grande con cannella, biscotti dolci, zenzero, le patate dolci e il latte di cocco. Dopo 20 minuti di bollitura, si mette il latte di mucca e il latte evaporato ed anche l’uva passa. Quando diventa spessa e di colore rosso si spegne, si lascia raffreddare e poi si versa nei bicchieri. Sopra ogni bicchiere si mette un biscotto dolce che poi si consuma insieme.

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che è il nostro piatto più tradizionale: è consumato dai cattolici praticanti e non praticanti ed è gustato con lo stesso entusiasmo. Viene cucinato in ogni famiglia in una pentola grande o in una latta grande. Questo dolce si gusta con tutti gli amici e si usa far visita agli amici alla domenica mangiandone un po’ insieme. Se si mantiene in frigorifero, anzi è migliore se è molto freddo, e, se congelato, diventa un delizioso gelato.”

Griselda (Santo Domingo) São João “Una delle feste più sentite nell'intero Brasile è quella di San Giovanni Battista: un po' ovunque il 23 giugno sera ci si raduna per pregare, poi per accendere la fogueira de São João, vale a dire un falò di legna, vicino al quale si danza (tipicamente la quadriglia, magari in costume caipira, vale a dire con le coppie di ballerini in costume da contadino e contadina, per ricordare le antiche feste nelle aie...) e ovviamente si mangia (dolcetti e salatini) e si beve, e quasi immancabili sono anche i fuochi d'artificio e i petardi. Certo nella Bahia con i fuochi in riva al mare fa un altro effetto, ma anche dove sto io non è male. Certo il mare è a 2000 km, e il Rio delle Amazzoni a 500: a Manaus, in Amazzonia, fanno la processione fluviale. Magari un giorno potrò andare! La festa di San Giovanni (São João) è una celebrazione tradizionale brasiliana che cade nel mese di giugno; nello stesso mese, si festeggiano tre santi cattolici importanti:

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sono João (24 di giugno), Pietro (29 di giugno) e Antonio (13 di giugno). Questi santi sono molto popolari in Brasile, anche se sono festeggiati anche in altri paesi. Per tradizione queste feste hanno preso il nome di junina (joanina inizialmente, da San João), perché hanno avuto origine dai paesi cattolici europei in omaggio a João, che è commemorato normalmente in giugno. La tradizione è stata portata in Brasile dal Portogallo, ed è stata fatta propria anche dalla gente aborigena e nera. La festa più tradizionale è quella di San João, che è tipica nella regione del nordest del Brasile. Nel nord est, regione povera d’acqua, si festeggia annualmente anche S. Pietro e si ringraziano i due santi per le piogge cadute nei campi. L’inizio dell’estate è il momento opportuno per raccolta del mais, un alimento molto importante della tradizione culinaria brasiliana, come il canjica e il pamonha, il milho, l’amendoin, etc. Attualmente, i festegjos (festeggiamenti) sono presenti in nord ovest, come, ad esempio, Caruaru in Pernambuco, Campina Grande nel Paraíba, Maceió in Alagoas e Bahia. Durante questa festa, come ho detto, si balla tradizionalmente la quadrilha, un ballo che si fa in omaggio ai santi junini, cioè Santo Antonio, San João e San Pedro, per ringraziamento dei buoni raccolti. Altra tradizione importante sono i grandes fogueiras, dei grandi falò, che si fanno nel mese di giugno. Per i cattolici, il fogueira è il simbolo più grande della commemorazione e della purificazione. Questo rito ricorda la vicenda di S. Elisabetta e della Madonna. Per informare Maria della nascita di S. João Batista e così

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avere un aiuto dopo il parto, Isabel ha acceso un fuoco (fogueira) su un braciere. Un'altra tradizione afferma che questi fogueiras fanno parte di un rito più antico, preesistente al cattolicesimo, per celebrare il solstizio di giugno. Anche in Portogallo era tradizione accendere il fogueira per i santi popolari. Un tempo, nelle feste di juninas era una consuetudine fare volare anche gli aerostati; ora è proibito per legge per il rischio d’incendio. Le tradizioni popolari di juninas possono essere divise in due tipi: quella della regione di nord est e quella del caipira del Brasile, cioè di São Paulo, di Paraná (nord), del Minas Gerais (tutta nella parte del sud) e di Goiás. Nel Brasile nord-orientale ancora esiste la tradizione di gruppi di festeiros, che organizzano la festa; tutti sono invitati a partecipare e i festeiros sono i benvenuti in tutte le case. Durante il periodo della festa, nelle case la tavola è imbandita con bevande e alimenti tipici (la satiated) da offrire ai gruppi. La tradizione dei festeiros è un modo per integrarsi e stare insieme fra la gente della città. Ultimamente, nelle città i vari gruppi di festerios sono coordinati da un'unica congregazione. Il tutto si fa sempre rispettando la tradizione, con molta abbondanza di cibi, balli e di animazione. Nella città di São Paulo, per esempio, è rimasta la tradizione di realizzare delle quermesses e dei balli di gruppo intorno ai fogueiras. Una tradizione molto antica è la presenza dei petardi che i bambini usano per giocare nella notte di São João. Insomma, la festa di São João, nel mio paese, è proprio una bella festa!”

Leonardo (Brasile)

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La Vigilia di Natale in Ucraina “L’Ucraina è un bellissimo paese molto ricco di tradizioni. La due feste principali sono la Vigilia di Natale o Svjatvečer (la notte santa) e la Pasqua. Vorrei descrivere brevemente come festeggiamo la Vigilia di Natale. Innanzitutto a causa del calendario ortodosso questa festa solitamente cade o il 6 o il 7 di gennaio. In occasione della Vigilia di Natale tutta la famiglia si riunisce per la cena. La tavola viene apparecchiata riccamente e di solito si aggiunge un coperto in più rispetto al numero di commensali perché, secondo tradizione, quella sera ritornano dall’aldilà gli spiriti dei parenti morti che partecipano con il resto della famiglia all’attesa della nascita di Gesù bambino. Sulla tavola spesso ci sono delle candele. La cena comincia quando in cielo si accende la prima stella. Il menù prevede dodici portate perché tutti e dodici i mesi dell’anno siano ricchi. Tutti i piatti sono senza carne. Il piatto più importante si chiama kuttja ed è un tipo particolare di kaša, una sorta di semolino insomma. Gli ingredienti principali sono farina di grano e noci tostate che vengono cotti insieme. Poi il composto viene deposto in un apposito piatto detto makitra. La kuttja si serve allungata con latte o acqua bollente. Un altro piatto importante sono i vareniki, ovvero i ravioli di magro. I vareniki sono farciti con svariati ingredienti: cavolfiore, pesce e funghi, per esempio. Tra le altre portate non manca mai un piatto a base di patate e uno base di pesce.

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Per dolce di solito si mangia l’izvar, una specie di marmellata molto liquida ricavata facendo bollire la frutta secca nell’acqua. Dopo la cena i resti delle portate vengono lasciati sul tavolo per tutta la notte. È considerato peccato lavare i piatti la sera della Vigilia di Natale, perché bisogna lasciare la kuttja e le altre portate a disposizione degli antenati che potrebbero sopraggiungere nel cuore della notte. Non ci si deve dimenticare inoltre di dare da mangiare agli animali, perché si racconta che quella notte a volte sia possibile capire il loro linguaggio e ascoltare i loro discorsi”.

Oleg (Ucraina)

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Testimonianze

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Borschtsch “Vivo da 4 anni in Italia, faccio la badante, sono ucraina. Ho 45 anni, sono sposata, ho una figlia che studia ingegneria e un figlio che ha appena finito il militare ed è in cerca di lavoro. Ho studiato lettere, a Kiew ho insegnato alla scuola elementare, perché non ho trovato un altro lavoro dopo la laurea. Quando ho un po’ di tempo, scrivo poesie. Quando mi chiedono perché sono venuta in Italia, rispondo con un una sorriso amaro: lamentarsi non è dignitoso! Ho trovato il mio lavoro come badante tramite un’amica, così ho dovuto imparare in fretta, con disciplina la lingua italiana, quando sono venuta la prima volta a scuola, ho portato a Elke, la mia insegnante, un ciclamino, perché in Ucraina si usa così il primo giorno di scuola. Quest’anno ho preso la patente, forse un giorno mi comprerò una macchina. Una volta all’anno torno a casa, mio marito mi dice: “In Italia fai brutte cose!” Io taccio e continuo a fare la badante. Per anni, il mondo ha considerato l’Ucraina semplicemente una parte della Russia, gli ucraini invece sono orgogliosi della loro identità! L’Ucraina ha un suolo molto fertile, grandi fiumi la percorrono, tanti popoli hanno attraversato il nostro paese e poi se ne sono andati, altri sono rimasti; è per questo che nell’Ucraina vivono quasi 100 etnie. Una volta l’Ucraina era il granaio della Russia. A seguito della politica staliniana di pianificazione per l’industrializzazione, l’agricoltura venne sacrificata, i

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nostri contadini cercarono di resistere, ma ci fu una terribile repressione: il governo ricorse alla deportazione di massa di famiglie e di interi villaggi e i nostri cereali vennero requisiti. I soldi vennero investiti nella grande industria pesante. I vecchi si ricordano ancora la terribile carestia del 1932, quando morirono di fame più di 5 milioni di esseri umani. Il mio paese ha subito un’altra grande tragedia: tutti, anche in Italia ricordano Chernobyl . Correva l’anno 1986. Noi abbiamo avuto la notizia del disastro dalle radio dei paesi dell’ ovest: il cibo che veniva dalle nostre splendide campagne, non era più un cibo sano, era radioattivo. Dal 1991 l’Ucraina è uno stato indipendente. La fine dell’URSS, una sorpresa per tutti noi, ha cambiato le nostre vite e i nostri sogni. Molte famiglie si stanno disgregando, gli uomini annegano i loro problemi nell’alcool o cercano fortuna all’estero, mentre gli anziani che rimangono, non sognano più, per loro è troppo tardi per dare una svolta alla loro vita, spesso cercano anch’essi una via d’uscita nell’alcool. Le donne ucraine, che rimangono a casa, hanno difficoltà di sbarcare il lunario, così molte donne emigrano e spesso mantengono con il loro lavoro tutta la famiglia. In Ucraina, soprattutto da dove vengo io, mangiamo quello che dà il nostro suolo. Abitualmente, mangiamo patate, cavoli e prodotti di cereali ; la carne di maiale e di pollo non si trova tutti i giorni sulle nostre tavole. La carne di manzo è cara, nel mio paese, lo stipendio medio è di 80€ .

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I nostri piatti più tipici sono Borschtsch, Soljanka (zuppa di pollo), Warenyky e Mlinzi (omlette con ripieno salato o dolce). Beviamo poco anche il caffè, perché è caro. Come dessert mangiamo soprattutto frutta cotta : l’uswar è un dolce di frutta secca con miele. La domenica, però prepariamo le torte, in estate con la frutta, in inverno con le nocciole. I biscotti di solito si fanno per Natale. Tante famiglie, che vivono nelle campagne, ancora oggi fanno i loro succhi per l’uso familiare con la frutta che cresce nei loro orti e nei loro giardini. Anche i liquori sono fatti in casa. Come gia detto il borschtsch è un tipico piatto dell’Ucrania. Il nome viene dall’antico russo burjak (barbabietola) e ogni famiglia ha la sua ricetta . Ecco la mia ricetta del borschtsch

Si taglia 1 kg di maiale salato a dadini; in una pentola, si fa rosolare una cipolla finemente affettata e una radice di sedano sbucciata e tagliata a strisce in olio di seme o di grasso di maiale. Poi si aggiunge la carne. Quando la carne è dorata, si versano cinque litri d’acqua, le barbabietole (5 o 6) sbucciate e tagliate, una mezza di testa di cavolo finemente tagliata. Si fa bollire tutto per un’ora. Poi, si aggiunge la salsiccia, più o meno 200gr, la scatola di pomodori e una tazza di segale sminuzzato con il sale, il pepe e l’aceto. Dopo altri 30 minuti, alla fine della cottura, si versa la panna acida. Si può cucinare il borschtsch anche senza la carne. Dipende dal portafoglio!

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I Warenyky sono una specie di ravioloni. Possono essere ripieni di patate, krauti, ricotta, carne, semi di pavavero, funghi o frutta. Sono diventati famosi in tutto il mondo grazie alla novella di Nikolaj Gogol “La notte prima di Natale” come il simbolo di pigrizia e intemperanza. Nella novella si racconta che, per magia, i warenyky saltarono fuori dalla pentola, si tuffarono nella smetana (panna acida) e volarono nella bocca. Noi Ucraini amiamo il lardo, il “salo”. Il nostro lardo non ha componenti di carne, ma ha unicamente uno strato bianco di grasso. Condito con aromi si gusta con la vodka. Il salo si trova sempre nella cucina ucraina, nonostante che, anche noi, stiamo attenti alle calorie. I cosacchi, il popolo orginario dell’Asia, dal ‘500 preparavano i piatti con il lardo, per differenziasi dai musulmani. Sulle nostre tavole, spesso, ci sono gli insaccati che sono più grassi di quelli italiani; si mangiano alla sera con il pane. Come in tutti paesi europei, la nostra gioventù preferisce sempre di più il fast food: hot dogs, hamburger e doener, ma mangiano volentieri anche panini imbottiti e i pirogge (ravioloni saltati in padella). D’altra parte, da noi nei fast food si trovano anche i piatti tradizionali come il borschtsch e i warenyky. Gli Ucraini celebrano il Natale secondo il calendario e i riti ortodossi il 7 gennaio, ma è la Pashka (la Pasqua) la festa religiosa più sentita dal popolo e viene celebrata secondo la religione ortodossa con la messa di

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mezzanotte. Per i non credenti è la festa della fine dell’inverno, che da noi sono veramente lunghi. Rimanere a Natale e a Pasqua in Italia, lontano dai nostri cari è doloroso. Le mie amiche ed io cerchiamo sempre di creare un’atmosfera che somigli un po’ quella che viviamo nella nostra patria. Chi tra noi è credente chiede il permesso alle “nonne”(così chiamiamo le signore presso le quali siamo a servizio, perché spesso sono anziane) e va a messa. Facciamo venire dolci e insaccati dalla Ucraina. Ci incontriamo in una casa e ci raccontiamo le fiabe natalizie, cantiamo le nostre canzoni nostalgiche, mangiamo il cibo che abbiamo comprato nel nostro paese, brindiamo con il nostro liquore ed io leggo le mie poesie. Stare insieme attenua il dispiacere di non essere con i nostri cari.” Natalija (Ucraina) Gastronomia marocchina “La gastronomia è una cosa molto importante nella storia, nella tradizione e nel presente dei popoli, perché ci sono cibi che si consumano quotidianamente, fanno parte delle nostre abitudini nutrizionali, alcuni, in particolare, sono presenti in tutte le feste. Ci sono alcuni piatti che più degli altri caratterizzano ogni paese, fanno parte della tradizione e, insieme ad altre cose, vengono considerati patrimonio nazionale, quasi un simbolo della bandiera! La pizza, la pasta, il gelato e un buon caffè, richiamano, per esempio, l’Italia.

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Nel mio paese, il Marocco, si producono alimenti simili a quelli coltivati negli altri paesi del Mediterraneo, così alcuni piatti si assomigliano, nella nostra cucina si usa moltissimo olio di oliva prodotto da quasi tutti i paesi del Mediterraneo. In Marocco ci sono cibi molto importanti, che con il tempo, attraverso il turismo e l’emigrazione, hanno ottenuto una fama internazionale. Uno di questo è il tagin che si prepara in una pentola artigianale di terracotta, è fatto a base di carne che può essere di mucca, manzo o pollo e in alcune città anche di pesce; si aggiungono tanti tipi di verdure, olive, piselli e molte spezie che danno un sapore particolare, si cucina a fuoco lento per circa due ore. Un altro piatto divenuto molto famoso è il coucous: si utilizza la farina di granoturco fino a lavorarla in piccolissimi grani che si allargano nel momento della cottura ( un tempo, le donne preparavano il grano in casa, ora il coucous si lavora anche nelle fabbriche.) Anche per questo piatto ci vuole una pentola speciale, infatti nella parte inferiore della pentola si cucina il sugo di carne con almeno 7 tipi di verdure compresi i ceci ed il passato di pomodoro, nella parte superiore, che è una vaporiera, si cucina il grano del couscous. Questo piatto si consuma il venerdì che il nostro giorno Santo dedicato alla preghiera. Nella nostra cultura araba mussulmana, ci sono anche molti altri piatti che si cucinano in occasioni di feste religiose, come la harira che è una zuppa di legumi e carne e si accompagna ai datteri e alle uova sode; il masciui che è come la grigliata italiana, il saffa riso

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bollito con miele; e le msaman che sono crèpes lavorate a mano dalle donne del Marocco. Tutti questi piatti sono indispensabili sulla tavola di tutte le famiglie nell’occasione del mese Sacro del Ramadan accompagnati da una grande varietà di dolci fatti in casa che caratterizzano la pasticceria nel mio paese. Il Ramadan è un periodo di meditazione e di purificazione del corpo e dell’anima che fa riflettere il ricco sui poveri, privi di tante necessità e fortune, al fine di stimolare la solidarietà con chi ha meno. Il Ramadan può durare 29 o 30 giorni a seconda dell’anno lunare e progressivamente viene a cadere ogni mese dell’anno con l’intervallo di 11 giorni; ad esempio, lo scorso anno è iniziato il 3 settembre, il prossimo anno inizierà il 14 settembre. Alla fine del Ramadan c’è la festa chiamata Aïd Asghir. Dopo due mesi, c’è un’altra festa importante quella dell’Aïd Kebir (la festa del sacrificio) che commemora la vicenda di Abramo che, per mettere a prova la sua fede, era stato chiamato da Dio perché sacrificasse il figlio Isacco. Dio, ricompensando la sua grande fede, inviò, al posto del figlio, l’agnello sacrificale. Nella tradizione mussulmana, tutte le famiglie, che hanno la possibilità economica di farlo, uccidono un agnello nella casa e ne consumano 1/3, un altro terzo viene donato ai poveri e l’ultimo terzo per festeggiare con amici e parenti. La festa di Aid Kebir è un’occasione per dimostrare la solidarietà con i poveri e per migliorare i rapporti con il prossimo. Nei nostri pranzi si beve il thè alla menta, che è in Marocco la bibita della nostra tradizione; nel mio paese è

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molto popolare, più conosciuta della Coca Cola occidentale. Si prepara in una teiera, è bevuta da tutti e sostituisce anche le bibite alcoliche dei paesi occidentali, considerate illecite nella nostra religione.”

Bahsine Youness (Marocco) Cibo e cucina in Bolivia “In Bolivia c’è un proverbio: nunca nos arrepentiremos de haber comido poco, vuole dire non ci pentiremo mai di avere mangiato poco. Significa che, se mangio tutto quello che ho in un giorno, non avrò più da mangiare il giorno dopo. Da noi, in cucina, stanno solo le donne, il pranzo è il pasto più importante, è il momento in cui si sta tutti insieme. Non c’è un primo, un secondo come qui, il piatto è unico, quindi il pasto è più veloce. C’è da dire che qui in Italia c’è più varietà e quantità di cibo. Uno dei piatti più comuni è il chicharron, il maiale arrostito con diverse varietà di mais o con le patate. In Bolivia, ci sono diverse varietà di mais: rosso, giallo grigio, nero… Anche da noi si fa la polenta, ma la si lascia un po’ morbida, spesso la si dà anche agli animali; però, qui a Bergamo, mi sono abituata a mangiare la polenta e mi piace. Ho imparato a bere anche il vino, da noi non si beve spesso, perché è troppo caro. Anche l’olio d’oliva in Bolivia è troppo costoso, lo si dà agli ammalati come se fosse una medicina; per cucinare si

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usa l’olio di girasole; certo l’olio di oliva è più salutare e dà un altro sapore ai cibi. Frutta e verdura, invece, da noi hanno un altro sapore, sono più gustose, forse perché sono più genuine. Uno dei piatti che si preparano più spesso per un pranzo di festa è la picanta de pollo. Gli ingredienti principali sono pollo, riso e patate. Riso e patate accompagnano il pollo: il riso è bollito, le patate si fanno passare nelle arachidi tritate e si cuociono in olio bollente.”

Alfredo,Victoria, Cinthia (Bolivia)

Il chicharon de cerdo 2 kg. di costine di maiale con tanta carne, 1 libra di mais bianco già cotto, 5 cipolle piccole, 2 cucchiai di locoto (peperoncino), 2 cucchiai di pepe nero, 2 cucchiai di cumino, 4 spicchi d’aglio, sale e olio a volontà. Mischiare e frullare insieme cipolle, peperoncino, pepe, cumino, aglio, sale ed olio fino ad ottenere una salsa spessa. Lavare e tagliare le costine a metà e condirle con la salsa. Lasciare riposare almeno quindici minuti perché prendano sapore. Mettere le costine in un padella abbastanza fonda e farle cuocere, incoperchiate per circa un’ora, mescolando ogni tanto. Quando le costine sono pronte, servire insieme con il mais caldo.

Doris Ivelisse (Bolivia) I prodotti e i piatti regionali in Bolivia “Per capire il cibo boliviano si deve sapere, per prima cosa, che il nostro paese è multiculturale e plurilingue,

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per questo ci sono tante diversità anche nei piatti che si portano a tavola. Ci sono tre regioni geografiche. La prima è l’altopiano, con altitudine di 3.500 metri: La Paz è la capitale più alta del mondo. E’ una terra aspra, spesso fa freddo, produce molte varietà di patate: ocas, quinua, kañawi, chuño (le patate essiccate)…, che hanno il sapore particolare di questa terra. Si mangia carne d’agnello, di lama, d’alpaca; nel lago Titicaca, ci sono diverse varietà di pesci e anche le rane. La gente di questa regione parla l’aymara, è di una razza molto forte, è orgogliosa di essere la gente più antica del continente americano. Tiawanaco e La porta del sole sono patrimonio dell’umanità. Spesso le pietanze sono cucinate secondo ricette millenarie come le zuppe, chairo e lawas ( ma ce ne sono per tutti i gusti), la carne alla pietra vulcanica, e le ricette a base di mais… I piatti più comuni sono i seguenti. A La Paz anticucho (fette sottili di cuore di manzo cotte alla brace, con contorno di patate e arachidi frullae con peperoncino), api (mais viola tritato, cotto con un po’ d’acqua e buccia d’arancio), chairo (brodo di chuño tritato e mais), chorkecàn (carne secca di lama o manzo cotto con peperoncino e contorno di patate e chuño), lagua de chuño (brodo spesso di farina di chuño aromatizzata con menta), phiri (quinua con formaggio fondente e patate), plato placeño (pannocchia di mais, fave con la buccia, formaggio di pecora e patate lessate), trucca, che è la trota del Titicaca. A Oruroi intendente (varietà di carni di manzo, agnello, pollo e pesce), pejerey (salsiccia alla brace con contorno di

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riso, patate e verdure fresche), rostro asado (testa d'agnello cotta al forno sotto terra), charque orureño (carne di lama cotta in padella, con mais, uova sode, pezzetti di formaggio e patate). A Potosì saltañas ( sembra un calzone con dentro un pasticcio di carne, con abbondante brodo), K’alapurka (laguadi, mais e altri cereali), tetitas do monja (marzapane). La seconda regione è occupata dalle valli; tutto l’anno c’è un clima costante di circa 15° anche se, in alcuni punti, si arriva ai 2500 metri. E’ la zona più fertile, vi si trovano tutti i prodotti della terra, dei fiumi e dei laghi: cane, pesce, verdura, il locoto (piccolo peperone piccante) e frutti. E’ dunque anche la regione più importante per la cucina boliviana, che nasce dall’unione tra la cucina spagnola con quella indigena. Gli abitanti, infatti, discendono dagli Incas e parlano il quechua. I piatti tipici sono i seguenti. A Cochabamba conejo lambreado (coniglio unto nel pane grattato e fritto, con contorno di cipolle cotte, chuño e patate bianche), chanka de conejo (coniglio cotto in brodo con menta, cipolle verdi, fave, patate bianche in salsa di peperoncino), fidius uchu (brodo piccante e denso con spaghetti e carne di mucca, chuño e patate), humintas (tamales di pannocchia tritata con carne e patate), k’allu (insalata di cipolle tagliate a pezzetti, pomodori e locoto), Kawi (petto di mucca in brodo o fritto), papawaihu (patate cotte con la buccia), ranga (brodo bianco con trippa di mucca con patate bianche). La bibita tradizionale è la chincha fatta con il mais fermentato.

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A Chuquisaca chorizos chuquisaqueños (salsicciotto fritto con il pane inzuppato nell’olio, insalata di lattuga, pomodoro, cipolle e locoto), fritanga (costine di maiale cotte, peperoncino, cipolle verdi, patate bianche), Jolka (rene di mucca cotto in salsa densa di picante e patate bianche). Le bibite tradizionali sono Ajanjo ( si beve a carnevale), cerveza, mistalas (liquore di frutta macerata in alcol). A Tarija cangrejos darios (granchi dei fiumi Tomatitas, Guadalquivir e San Jacinto, fritti in olio con il mais), doraditos (piccoli pesci di fiume fritti con mais), saice (pasticcio di carne di mucca con patate e lattuga fresca), sabalo de villa montes (pesca del fiume Pileomajo fritto o alla brace). La bibita tradizionale è il vino crèollo. La terza regione è occupata dalla foresta pluviale amazzonica: è il polmone della terra! L’altitudine è di 500 metri, è una zona molto calda e umida, dove vivono anche molti animali allo stato selvaggio. La terra produce una grande varietà di prodotti tropicali, di frutta esotica (ci sono banane di tanti tipi), canna da zucchero, inoltre ci sono molti importanti allevamenti di bestiame; piatti tipici sono la carne e il pesce alla griglia, che sono serviti insieme al riso e alla frutta. La gente di questa regione parla il guaranì. Le ricette tipiche sono le seguenti. A Santa Cruz cuñapà (pane d’almidòn con dentro il formaggio), locro (brodo di gallina con riso e banane fritte), majan (riso in brodo con pezzetti di carne bovina secca e banane fritte), masaco (banana verde macinata con carne bovina o suina), pacù (pescato di fiume fritto),

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zonzo (yuca macinata con abbondante formaggio amalgamato, messo allo spiedo e cotto alla brace). A Beni charojà (brodo denso di farina di banane con yuca), jochi pintao (carne di cinghiale cotta in padella nel suo grasso), mamona (grigliata di carne di vitello). A Pando caldo da pata (brodo di tartaruga), palometa frita (piraña di fiume fritto in padella), pescado de rio (frittura dei tanti tipi di pesci di fiume), carne de monte (carne di caccia come il cervo, i maiali selvatici…).”

Doris Ivelisse, Marcelo (Bolivia) La Pachamanca “Sono peruviana di Lima e vivo a Bergamo da quasi sei anni. Mio padre è originario di Trujillo, capitale del dipartimento di La Libertad, che è la città peruviana più importante al nord di Lima, anche grazie ai suoi eccezionali monumenti delle antiche culture Moche e Chimu. Mia madre è di Lima, capitale del Perù, chiamata anche Città Dei Re, fondata dallo spagnolo Francisco Pizarro il 18 gennaio 1535. E’ ubicata al centro della costa del Perù a 154 m. sopra il livello del mare ed è il maggior centro industriale e commerciale del Perù. I miei genitori sono persone semplici e educate, cresciuti in luoghi molto distanti e con usanze differenti. Hanno cresciuto sei figli e ci hanno insegnato ad apprezzare e rispettare gli altri. Essendo, infatti, una famiglia formata da un padre che viene dalla sierra (montagna) e da una madre originaria della costa, noi figli abbiamo vissuto molti momenti di

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grande felicità, scoprendo dell’uno e dell’altra le tradizioni migliori. Proporre come esempio il cibo è uno dei modi migliori di far conoscere la mia famiglia peruviana. Ricordo un giorno – ero ancora bambina – che i miei genitori discutevano sul menu per il compleanno della nonna, dal momento che c'è differenza tra quello che si mangia in montagna e sulla costa. Sulla sierra si mangia capretto, agnello, maiale, coniglio, pesce di lago o di fiume, patate, mais, verdura e frutta portata dalla costa. Sulla costa, invece, si mangia molto pesce di mare, pollo, vitello, manzo, tacchino, verdura, cereali e frutta. Alla fine decisero di preparare come portata principale la pachamanca, un piatto tipico della sierra, a cui mia madre decise di aggiungere il pollo, una carne che si consuma poco sulla sierra. Mio padre non era molto d’accordo, ma accettò, dicendo che valeva la pena di provare. E devo dire che aveva ragione mia madre, perché la pachamanca con il pollo è buonissima. Questo piatto bisogna cucinarlo in giardino, perché non si cuoce in pentola, ma in una fossa di circa un metro di profondità, rivestita di pietre che vengono messe sulle braci del carbone. Almeno tre ore prima della cottura, si deve condire la carne di agnello, vitello, maiale e pollo con sale, pepe, cumino escabeche (peperoncino giallo dolce) e huacatay (è una specie di prezzemolo) tritato, che è quello che dà al piatto il colore, aroma e sapore di base.

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Alla carne si aggiungono le patate di almeno tre qualità diverse e poi le camote (patate piuttosto dolci), le pannocchie di granoturco e, da ultimo, le fave non sbucciate. Si copre il tutto con foglie di granoturco e poi con altre pietre roventi. Si lascia tutto coperto a cuocere per circa un’ora. Si rimuovono, quindi, con la massima attenzione le pietre e le foglie (si sprigiona un profumino che fa venire l’acquolina in bocca!), si estrae il tutto dalla buca e di serve ben caldo. Questo piatto, il preferito di mio padre montanaro, preparato da mia madre rivierasca, fu un grande successo. Poiché quasi tutti gli invitati erano di Lima e non l’avevano mai assaggiato prima, continuavano a domandare chi lo avesse cucinato e a chiedere la ricetta. Fu così che questo piatto divenne una specialità di mia madre, che ancora adesso lo prepara nel giardino di casa.”

Milli(Perù)

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PARTE SECONDA

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Il cibo come elemento

di identità culturale

nel processo migratorio di Riccardo Pravettoni

Migrare implica non solo uno spostamento territoriale, un cambiamento fisico dei luoghi e delle persone con le quali si sono instaurati solidi legami, ma anche passare da una cultura, la propria, ad un'altra. Nel lento processo di scambio interculturale che la migrazione presuppone, passaggio destabilizzante ed incerto, il cibo con il suo potere evocativo di luoghi, persone e momenti particolari, contribuisce in maniera determinante ad affermare l'identità dell'individuo e del gruppo etnico a cui appartiene, a lenire il dolore dell'abbandono degli affetti. Allo stesso tempo il pasto, in quanto rappresenta un momento d'incontro il cui centro è legato ad un'esperienza sensoriale immediatamente percepibile e che non ha bisogno di mediazione per essere compresa, può agire da tramite tra le culture, favorendo l'interazione tra individui diversi. Ma se il cibo favorisce il contatto tra le culture, esso non ne esce indenne e subisce cambiamenti correlati ai tempi e ai modi dell'incontro in una contaminazione spesso multiforme e arricchente.

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Prefazione

Da una proposta a lavorare sul tema del cibo alla curiosità per le storie degli altri. E’ il percorso che abbiamo fatto in circa tre mesi di lavoro durante le ore di lezione a scuola e nelle nostre case prima di approdare alla stesura del testo che presentiamo. Dal dovere “scolastico” di eseguire un compito assegnato al piacere di raccontarsi e di ascoltare. Raccontare e ascoltare un mondo di uomini e donne in movimento in territori fisici e mentali lontani e nel contempo contigui. Il dovere ci ha portato alla lettura di un testo della docente dell’Università di Pavia, Agnese Visconti, “Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni delle piante da un continente all’altro”; questo testo ci ha insegnato le ragioni dell’andare per il mondo delle piante e quindi dei cibi. Il piacere ci ha portati a ricordare, a leggere, a raccontare e a scrivere le nostre storie personali nei percorsi spaziali e mentali delle nostre vite.

Rosaria

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Le patate in Polonia

“Mi chiamo Malgorzata Dojwa. Sono nata in Polonia nel 1968 in una bella città, Czestochowa dove si trova il santuario della famosa Madonna Nera. Dopo la scuola superiore sono andata a Varsavia per studiare all’Università. Sono laureata in pedagogia. Dopo la laurea sono ritornata nella mia città natale, dove ho trovato lavoro come insegnante di lingua polacca nella scuola elementare. Sono sposata da 17 anni. Mio marito si chiama Wojtek , è ingegnere elettronico. Abbiamo un figlio di 15 anni, si chiama Michal, è un ragazzo molto bravo. Da 2001 la mia vita è cambiata. Wojtek ha avuto una buona offerta di lavoro in Italia e abbiamo deciso di accettarla e di andare a vivere nelle vicinanze di Bergamo. Lui é partito subito, io e Woitek l’abbiamo raggiunto nel 2002. Abbiamo affittato una casa in una bella zona a Zogno, in Val Brembana. Quando mio marito ha tempo libero, facciamo delle belle gite per conoscere le bellezze dell’Italia. Frequento da qualche mese un corso d’italiano e ho deciso con entusiasmo di partecipare a un lavoro che coinvolge tutta la scuola sul tema del cibo come parte della storia personale e del popolo di cui fa parte ogni persona. Io ho scelto di parlare delle patate. Come narra un’ antica leggenda polacca, le patate sono state portate in Polonia nel XVII secolo dal re Jan III Sobieski. Dopo la vittoria sui Turchi a Vienna, lo zar

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Leopoldo ricompensò il suo alleato Jan III con un fiore della patata, in quel tempo poco conosciuta, ma molto preziosa. Il re regalò la pianta alla moglie Maria che non la trovò molto bella. Il re che sapeva quale frutto avrebbe prodotto, rideva e prendeva in giro la moglie. La regina piantò il fiore in giardino. Lo guardava sempre senza entusiasmo. Ma dopo sei mesi vide i grossi tuberi che si potevano mangiare. La regina preparò una grande festa cucinando i tuberi. Da allora le patate sono molto usate in Polonia quasi ogni giorno, come in Italia si usa la pasta. Come in tutta la Polonia, la patate sono usate in casa mia quasi ogni giorno. Spesso si mangiano bollite, con la carne o il pesce e la verdura. Con la carne al sugo si mangiano le patate in purè . Quando prepariamo della carne, del pesce, o delle verdure alla griglia, le accompagniamo sempre con delle ottime patate cotte al cortoccio, con la buccia. Poi le mangiamo con il cucchiaio dopo averle condite con burro e sale. Si fanno anche tanti primi piatti con le patate, tipo gnocchi semplici o con ripieno con carne, funghi o verdura. Tutti ottimi! A me piace molto anche un piatto che prepara mia madre; si chiama in polacco placki ziemniaczane , in italiano”focaccine di pasta di patate”. Ci sono tante ricette per cucinare le patate. Presento quelle che mi piacciono di più. Probabilmente si preparano tutte anche in Italia.”

Malgorzata (Polonia)

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Placki ziemniaczane Focaccine di pasta di patate Składniki: - 800 gr ziemniaków - 1-2 jajka - 3-4 łyŜki mąki - sól - pieprz - olej Sposób przyrządzania: Ziemniaki umyć, obrać. Zetrzeć na tarce (małe lub duŜe otwory, jak lubimy). Wymieszać z mąką, jajkiem, solą i pieprzem. Rozgrzać patelnię z olejem. Placuszki smaŜyć z obu stron. Aby pozbyć się nadmiaru tłuszczu, odkładać na papierowy ręcznik. Potem na talerz. MoŜna do ciasta dodać łyŜkę śmietany, placki będą bardziej puszyste.

Ingredienti: - Patate: 800 gr - Uova: 1-2 - Farina bianca: 3-4 cucchiai - Prezzemolo - Sale e pepe, olio d'oliva Preparazione Grattugiare le patate crude sbucciate in un colapasta, per far perdere un po' dell'acqua che emettono, aggiungere il sale, il pepe, le uova, la farina, il prezzemolo tritato (se si vuole) e versare il composto a cucchiaiate nell'olio bollente, rigirando le focacce appena si colorano da una parte. Porle su di una carta assorbente per far perdere l'unto in eccesso e servirle subito, accompagnandole con cetrioli o cavoli, barbabietole, o ancora meglio con funghi trifolati legati con un po' di panna.

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Kopytk Gnocchi Składniki: - 1.25 kg ziemniaków - 2 szklanki mąki - 2 jajka - sól. Sposób przyrządzania: Ugotuj ziemniaki. Miękkie odcedź, odparuj, trzymając odkryte na małym ogniu przez 1-2 minuty. Przepuść je przez praskę lub maszynkę prosto do miski i postaw w przewiewnym miejscu, Ŝeby ostygły. Zanim zaczniesz zagniatać ciasto, ziemniaki muszą być całkowicie zimne. W przeciwnym razie ciasto stanie się kleiste i rzadkie.. PrzełóŜ więc zimne ziemniaki na posypaną mąką stolnicę, zrób w nich niewielkie wgłębienie, wbij jajka , 2/3 mąki, kilka razy zamieszaj łyŜką, a potem jak najszybciej zagnieć dłonią. Nawet jeśli ciasto wyda ci się nie dość ścisłe, nie dosypuj mąki.

Ingredienti -1.25 kg patate -2 bicchieri di farina -2 uova -sale Preparazione

Far bollire le patate. Quando sono cotte e morbide scolarle, rimetterle nella pentola e farle evaporare per 1-2 minuti a fuoco basso. Passarle nello schiacciapatate in una insalatiera e lasciarle raffreddare. Se le patate non sono fredde, la pasta non diventa facile da lavorare. Dopo avere infarinato la spianatoia, versare le patate schiacciate, aggiungere i due terzi della farina e le 2 uova intere. Cominciare subito ad impastare con le mani. Anche se l’ impasto sembra troppo morbido e appiccicoso non aggiungere altra farina e lavorare con

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śeby ciasto nie zaczęło się rozłazić, wszystko od tego momentu musi przebiegać sprawnie i szybko. Posyp mąką stolnicę, odkrawaj po kawałku ciasta i tocz wałeczki o średnicy około 1.5 cm, turlając je oburącz i często podsypując mąką. Uformowane wałeczki spłaszcz otwartą dłonią i, przytrzymując go palcami lewej ręki, skośnie pokrój na kopytka.. Jeśli woda juŜ się zagotowała, wrzuć do niej kopytka. Posól wodę, zwiększ płomień i mieszaj kopytka drewnianą Jak tylko woda znowu zawrze, przerwij mieszanie i zmniejsz gaz. Gotuj kopytka 2 minuty od chwili, gdy wypłyną, po czym wyjmuj je łyŜką cedzakową na durszlak Uzupełnij wodę i sól w duŜym garnku i ugotuj resztę kopytek.

rapidità. Prendere delle porzioni di pasta, lavorarle con le mani infarinate fino a formare dei rotolini cilindrici del diametro di un dito. Tagliare degli “gnocchi” della grandezza circa di 1.5 cm e mantenerli infarinati. Nel frattempo portare a bollore dell’abbondante acqua salata. Versare gli “gnocchi” nell’ acqua bollente pochi alla volta, mescolare con un cucchiaio di legno. Quando gli gnocchi salgono in superficie lasciali cuocere per 2 minuti, scolarli con una schiumarola e condirli a piacere.

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Il frumento in Marocco “Mi chiamo Hind, ho 28 anni, vengo dal Marocco, sono qui in Italia da cinque anni per motivi familiari. Sono sposata e ho un bambino di quattro anni che va alla scuola materna del quartiere dove abitiamo. Sono nata a Rabat, la capitale del Marocco, dove ho vissuto la maggior parte della mia vita: infanzia, studi e tre anni di vita professionale. A Rabat ho lavorato per tre anni in uno studio tecnico usando il CAD come disegnatrice del Genio Civile. E poi sono partita per Bergamo. Ogni anno, da quando sono in Italia, ritorno al mio paese per rivedere la mia famiglia d’origine e mantenere le relazioni con le persone che conosco e quindi con le nostre tradizioni. Però anche stando in Italia riesco a vivere in un piccolo ambiente marocchino perché ogni fine settimana mio marito, mio figlio ed io ci incontriamo con i nostri parenti che vivono qui e con gli amici marocchini per stare semplicemente in compagnia o per festeggiare insieme le nostre ricorrenze e le nostre celebrazioni. Durante i cinque anni di permanenza a Bergamo e man mano che ho imparato l’italiano mi sono accorta che spesso ci sono delle idee e delle informazioni non sempre corrette sul Marocco. Per esempio la gente pensa che noi marocchini mangiamo solo cuscus. E’ vero che il cuscus é il piatto del Marocco più famoso nel mondo, ma é anche vero che la tavola marocchina é ricca di molti altri piatti. Nella cucina marocchina ci sono tanti sapori e tanti profumi, abbinamenti di prodotti che la donna che

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prepara accosta secondo un'arte personale. Ci sono molte spezie e erbe aromatiche. I segreti delle spezie si trasmettono di generazione in generazione. Qualche volta si accostano sapori dolci e sapori salati. Si usano verdure fresche in primavera e in estate, oltre alla frutta, agli agrumi, alle olive e ai legumi secchi, in particolar modo le lenticchie, preparate in zuppa o come accompagnamento. In inverno mangiamo carne, selvaggina e pollame. Per non dimenticare le uova, che occupano un posto importante nella cucina popolare di Marrakech. Il frumento costituisce l’elemento più usato nella cucina marocchina perché é sempre presente in tutti i pasti; si usa generalmente per la panificazione, la preparazione del cuscus, la produzione di pasta, di biscotti, di dolci e tanti altri piatti. Nella mia famiglia ho avuto l’occasione di seguire diverse fasi della preparazione del frumento. Ricordo che quando ero piccola mio padre andava ogni anno in campagna per ritirare grandi sacchi di grano coltivato e raccolto dai suoi cugini. Una volta a casa mio padre metteva il grano in un locale adatto alla sua conservazione. Questo locale esiste ancora oggi e si trova nella parte più alta della casa dove ancora abita la mia famiglia d’origine. Dopo la conservazione il grano viene consumato, ma, prima deve essere preparato. Le fasi della preparazione sono tante e iniziano con la pulizia del frumento seguita dal lavaggio e dalla macinazione. Il frumento viene macinato secondo l’uso al quale é destinato; i mulini ci sono proprio per fare questo lavoro.

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La maggior parte del frumento viene utilizzata per la panificazione perché in Marocco quasi tutte le famiglie preparano il pane in casa e lo fanno cuocere nei forni a legna perché il pane ha un significato molto importante nella nostra tradizione. Anche oggi esistono forni tradizionali a legna; sono pubblici, ce ne sono uno o due per quartiere e le donne, pagando una piccola somma di denaro, possono portare a cuocere il pane che mangerà tutta la famiglia. Sulla tavola marocchina il pane é sempre presente, da solo oppure in compagnia di spiedini di montone, di pollo o di carne macinata marinata nelle spezie. Accompagna inoltre la salade marocaine che é un insieme di verdure crude e cotte, spesso servite in tanti piattini diversi. Il pane si mangia anche con delle olive molto saporite, conservate in succo di limone e sale, oppure con le lenticchie in umido, col cavolfiore alle spezie piccanti, con i pomodori conditi con abbondante cipolla. Insomma il pane accompagna proprio tutto ciò che si mette sulla tavola! Nelle occasioni più importanti come, per esempio, un matrimonio o la nascita di un figlio, la panificazione si fa con delle regole precise, cioè in gruppi di donne e con un tipo speciale di contenitori, sempre a mano e con qualche differenza dal pane quotidiano sia nella forma che negli ingredienti. La stessa regola vale anche per la preparazione dei dolci. Negli ultimi anni sono comparse, soprattutto nelle città marocchine, delle ditte che si occupano della preparazione di tutto quello che serve per le feste, come

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le decorazioni o la preparazione di piatti dolci o salati. Però tante famiglie preferiscono rispettare le tradizioni e preparano tutto in casa con l’aiuto dei loro parenti. In Marocco si coltivano le olive; soprattutto tra Meknes e Fes ci sono sterminati oliveti che producono una grande quantità di olive che noi marocchini prepariamo in decine di modi appetitosi. Attualmente l’olivo costituisce la principale specie da frutto coltivata in Marocco con una superficie di 590.000 ettari (oltre il 50% della superficie arboricola nazionale). La sua coltivazione é molto importante dal punto di vista economico. Infatti l’attività agricola di questo settore a livello nazionale dà 55.000 posti di lavoro permanenti e garantisce la fornitura dei frantoi industriali e tradizionali (rispettivamente 350 e 16.000) che danno un olio ottimo. In Marocco ci sono inoltre una sessantina di industrie per la conservazione delle olive. Le olive possono essere usate anche per fare un pane molto gustoso di cui scrivo la ricetta.”

Hind (Marocco) Pain aux olives Pane alle olive Ingrédients: 225 gr de farine, 12 gr de levure du boulanger, 150 ml d’eau, 2 c.à soupe (30 ml) huile d’olive, 1 pincée de sel, 115 gr d’olives noires, dénoyautées Préparation :

Ingredienti: 225 gr di farina, 12 gr di lievito del fornaio, 150 ml d’acqua, due cucchiai (30 ml) d’olio d’oliva, un pizzico di sale, 115 gr di olive nere snocciolate. Preparazione: Sciogliere il

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Délayer la levure coupée en petits morceaux avec l’eau à température ambiante. Ajouter d’un seul coup la farine. Mélanger avec une fourchette. Avec les mains, pétrir la pâte sans ajouter de farine pendant 10 min. Couper les olives en deux et incorporer à la pâte. Continuer à pétrir la pâte pendant 5 min. Ajouter une bonne cuillère à thé de sel, pétrir encore. Ajouter enfin les 2 cuillères à soupe d’huile d’olive. Pétrir encore 5 min. Mettre la pâte en boule dans le récipient, recouvrir d’un torchon et laisser gonfler pendant 50 min. Abaisser la pâte à environ 1 cm d’épaisseur et la rouler de manière à former une baguette. Déposer sur une plaque farinée. Recouvrir d’un torchon et laisser reposer encore 40 min. Préchauffer le four à 210°C pendant 10 min.

lievito tagliato a pezzetti in acqua a temperatura ambiente. Aggiungere, tutta in una volta, la farina. Mescolare con una forchetta. Impastare con le mani per 10 minuti, senza aggiungere altra farina. Tagliare le olive in due e incorporarle all’impasto. Continuare a impastare per 5 minuti. Aggiungere un cucchiaio di sale e impastare ancora. Aggiungere infine 2 cucchiai da minestra di olio d’oliva e impastare ancora per 5 minuti. Formare una palla con l’impasto, ricoprire con un panno e lasciar lievitare per circa 50 minuti. Ridurre l’impasto a uno spessore di 1 cm..e arrotolarlo dandogli la forma di una baguette. Metterla su una teglia infarinata, ricoprirla con uno panno e lasciar riposare ancora per 40 minuti. Preriscaldare il

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A l’aide d’une lame très affûtée, entailler le pain sur le dessus. Saupoudrer le pain de farine et enfourner à mi-hauteur, à 210°C pendant 25 min. Éteindre le four et laisser au chaud encore 5 min.

forno portandolo a 210° C. Con l’aiuto di un coltello ben affilato fare dei tagli in superficie. Infarinare il pane, infornarlo a 210°C e lasciarlo per circa 25 minuti. Spegnere il forno e lasciare il pane al caldo ancora per 5 minuti.

“Ecco un’altra ricetta di pane; é molto semplice e si può preparare facilmente. Le donne marocchine lo fanno comunemente nella loro famiglia durante la settimana.” Pain blanc Pane bianco

Ingrédients 500 g de farine 2 sachets de levure du boulanger 2 cuillères à café de sel 60 cl d’eau tiède (environ 3 verres) 75 g de semoule de blé dur Préparation Pétrir le tout, avec un peu d’huile sur le bout des doits, jusqu’à obtenir une

Ingredienti 500 g di farina 2 pacchetti di lievito del panettiere 2 cucchiaini di sale 60 cl d’acqua tiepida (circa 3 bicchieri) 75 g di semola di grano duro Preparazione Impastare il tutto con un po’ d’olio d’oliva sulla punta delle dita fino ad

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boule bien homogène et qui ne colle plus. Recouvrir d’un torchon et laisser reposer 20 minutes environ. Pétrir à nouveau, avec un peu d’huile pendant une dizaine de minutes. Laisser reposer une nouvelle fois durant 10 minutes. Aplatir la pâte et percer à l’aide d’une fourchette, puis saupoudrer de semoule. Faire cuire pendant une demi heure à 220° C.

ottenere una palla omogenea e che non sia più collosa. Ricoprire con un panno e lasciar riposare per 20 minuti circa. Impastare ancora con un po’ d’olio per circa dieci minuti. Lasciar riposare di nuovo per dieci minuti. Appiattire l’impasto e punzecchiarlo con l’aiuto di una forchetta. Far cuocere per circa mezz’ora a 220°C

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Il caffè in Brasile “Da sempre a casa mia, la mattina, mia madre fa un thermos di caffè e lo lascia sul tavolo con tante altre cose; succo d’arancia, pane, biscotti, cuscus e frutta. Anche a mezzogiorno, dopo il pranzo, si beve il caffè e la stessa cosa verso le tre del pomeriggio insieme agli amici che ci vengono a trovare. Il caffè è sempre in un thermos di due litri, sempre caldo, sempre pronto. Un tempo era sempre molto zuccherato, oggi no perché mia madre è diabetica e anche perché i gusti della gente sono cambiati. A casa mia anche durante la cena il caffè non può mancare e mia madre lo prepara sempre per accompagnare qualche biscotto con cui ceniamo, perché da noi la cena non è per niente un pasto importante e praticamente facciamo solo uno spuntino. L’abitudine del caffè coinvolge tutta la famiglia e tutti quelli che arrivano a trovarci; a loro viene sempre offerta una tazza di caffè e poi un bicchiere d’acqua fresca. Questa abitudine é del Nord Est del Brasile da dove io vengo, esattamente dallo stato di Paraiba dove sono vissuta fino a un anno fa prima di venire in Italia a raggiungere il mio fidanzato. Credo, però, che anche in tutti gli altri stati del Brasile sia la stessa cosa: è un’abitudine nazionale. In tutto il Nord Est del Brasile il caffè é coltivato in grandi fattorie chiamate engenho, delle vere e proprie istituzioni agricole molto importanti per l’economia del paese che a partire dal 1830 ha cominciato a coltivarlo fino a diventare il più grande produttore mondiale.

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Io non ho mai visitato di persona una fattoria del caffè ma guardo sempre alla televisione delle trasmissioni o delle telenovelas che ne parlano; tutto sembra bellissimo e si vedono delle storie che fanno sognare. Il caffè é stato così importante nella storia brasiliana che a Santos, nello stato di San Paolo, gli é stato dedicato un museo. La costruzione del palazzo del museo del caffé é iniziata 1920 e completata il 7 settembre 1922. In realtà il quell’epoca si trattava della Borsa Ufficiale del caffè, non del museo in quanto Santos era la più grande piazza del mondo per la quotazione internazionale del caffè. Il 25 settembre 1998, dopo dieci anni di chiusura totale e quattordici mesi di restauro il palazzo è stato nuovamente inaugurato come Museo del caffè. All’interno, oggi, oltre a vari spazi espositivi ci sono una libreria, una biblioteca, un archivio storico, i cumuli dei diversi tipi di caffè e il centro di lavorazione e preparazione dello stesso. Noi in Brasile possiamo fare col caffè tanti tipi di dolci e di bevande. Ne scrivo alcuni usando magari anche il portoghese per far vedere come tante parole scritte sono simili a quelle italiane.”

Rosangela (Brasile)

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Dolce di caffé n° 1 - Bolo de café n° 1 Ingredienti 2 tazze e mezza di farina di grano 00, 1/2 bustina di lievito, 1/2 cucchiaino di bicarbonato di sodio, 1/4 di cucchiaino di cannella in polvere, 1/4 di cucchiaino di chiodi di garofano in polvere, 1/3 di tazza di burro, 1 tazza di zucchero, 1/3 di tazza di miele, 2 uova, 1 cucchiaino di bucce di arancia grattugiate, 1/2 tazza di caffè freddo, 1/2 tazza di noccioline tritate.

Preparazione Unire la farina con il lievito, il bicarbonato, la cannella e i chiodi di garofano. In una terrina sbattere il burro con lo zucchero. Aggiungere le uova intere e mentre si mescola tutto aggiungere il miele e le bucce di arancia. Sbattere molto bene. Unire il caffè, la farina e alla fine le noccioline. Quando l'impasto avrà una densità uniforme, versarlo su una teglia (preferibilmente stretta ed alta) imburrata ed infarinata. Mettere nel forno preriscaldato (180°) per 90 minuti circa. Quando il dolce sarà freddo, avvolgerlo nella carta argentata per un giorno. Nel momento di servire, aggiungere un cucchiaio di panna montata accanto ad ogni fetta.

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Dolce di caffé n° 2 Bolo de café n° 2 Ingredientes

2 ovos, 250 gr. de farinha, 200 gr. de açucar, 1 chávena de azeite, 1 chávena de café forte, 1 pitada de canela, 1 colher de sopa de mel.

Preparação

Numa tigela misturam-se todos os ingredientes e bate-se tudo muito bem com a batedeira até se formaram bolhas, por fim mete-se o preparado numa forma que vai a cozer em forno moderado.

Ingredienti

2 uova, 250 gr. di farina, 200 gr. di zucchero, 1 tazza di caffè forte, 1 pizzico di cannella, 1 cucchiaio di miele liquido.

Preparazione

Metter tutti gli ingredienti in una ciotola e frullare tutto con uno sbattitore elettrico fino a quando si formano delle bolle. Mettere poi il tutto in una forma e infornare a forno moderato.

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Bevanda di caffè con limone Bebida de cafè com limão

Ingredientes

150 ml de conhaque, 1 casca de limão, 1 casca de laranja, 3 cravos-da-India, 2 pedaços de canela em pau, 8 e ½ colheres (sopa) de açucar, 300 ml de café.

Preparação

Coloque 150 ml de conhaque a ferver com as cascas de 1 limão e de 1 laranja, sem a parte branca, 3 cravos-da-India, 2 pedaços de canela em pau e os colheres de açucar. Flame e despeje, em seguida, 300 ml de café bem quente para apagar a chama. Distribua em 4 chávensa e sirve a seguir.

Ingredienti

150 ml di cognac, una buccia di limone e una di arancia, 3 chiodi di garofano, 2 pezzi di cannella. 8 cucchiai e mezzo di zucchero, 300 ml di caffè.

Preparazione

Metter il cognac a bollire con le bucce di limone e arancia, senza la parte bianca, 3 chiodi di garofano, i 2 pezzi di cannella e i cucchiai di zucchero. Preparare poi 300 ml di caffè, aggiungerlo, molto caldo al resto e portare tutto a bollitura. Distribuire poi in 4 tazze e servire.

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Il tè in Pakistan “Mi chiamo AAmir e ho 17 anni. Vengo dal Pakistan, dalla città di Gujrat che si trova nello stato del Punjab situato ad ovest del Paese, al confine con l'India. Gujirat é conosciuta perché la maggior parte degli emigrati pakistani in Europa sono di questa provincia. Sono in Italia da due anni, da quando cioè ho raggiunto mio padre che lavora a Bergamo da tanti anni, insieme a mia madre, a mia sorella a ai miei due fratelli. Abitiamo tutti a Ghisalba, ma io vado a scuola a Bergamo per studiare l’italiano. A Gujirat ero studente della scuola media superiore, qui in Italia penso di lavorare dopo avere imparato bene l’italiano. Tutti dicono che in Pakistan si beve tanto tè. E’ proprio vero! Anche a casa mia lo beviamo tante volte al giorno e lo prepariamo con l’acqua, il latte, il cacao, lo zucchero e il sale. Il sale però non é importante, qualcuno lo mette e qualcuno no. Anche l’acqua qualcuno la mette e qualcuno no. Nel mio paese tutti bevono il tè, nessuno beve il caffè, ma io, in Italia qualche volta lo faccio anche se non mi piace molto. Da noi il tè si beve tre volte al giorno; a colazione, quando si fa la merenda e dopo cena. I miei genitori e i miei fratelli lo bevono tre volte al giorno, io solo due, raramente tre. Con il tè, a colazione, mangiamo i biscotti, le brioches o il pane con la verdura e le uova. La nostra bevanda è così importante che la offriamo sempre anche ai nostri amici e parenti quando vengono a casa nostra a trovarci.

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E’ difficile raccontare in italiano quanti tipi di tè esistono da noi e quali cibi vengono serviti insieme. Posso dire che, in generale, dopo ogni pasto si sorseggia il Qehwa o kehwa, di solito servito in piccoli bicchieri, cha ha il sapore di tè al gelsomino. Il kehwa è usato soprattutto a Peshawar, la capitale delle North West Frontier Province, per questa ragione è anche conosciuto come Peshawari Chai (Te di Peshawar). Ho detto prima che a colazione si mangia il pane col tè; il pane é molto importante da noi e ce n’é di tanti tipi. Spesso é cotto nel tandoor, un forno tradizionale in pietra. Il Chapati o Roti è il più diffuso pane casalingo fatto con farina integrale di grano. È sottile e non lievitato. Si preparano anche il Naan, molto meno sottile del chapati, lievitato e fatto con farina bianca e il roghni naan - Naan fatto con semi di sesamo unti con un po' di olio.” Chapati Per preparare il chapati per 4 persone ci vogliono 240 grammi di farina integrale di frumento, acqua tiepida, burro e sale. Bisogna versare sulla spianatoia la farina e un pizzico di sale, fare la cosiddetta fontana e porre al centro poca acqua tiepida. Con la punta delle dita si devono mescolare delicatamente gli ingredienti, impastarli rapidamente fino ad ottenere un composto omogeneo. Si deve poi aggiungere un poco di acqua tiepida, impastare ancora per qualche minuto e quindi avvolgere il tutto in un panno pulito e lasciarlo riposare per 30 minuti nel frigorifero. Trascorso il tempo

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stabilito si deve lavorare nuovamente il composto, modellandolo a forma di "bastone" e tagliarlo in tanti dischi sottili che dovranno essere appiattiti subito con le mani. In una padella di 15 cm di diametro si deve far sciogliere una noce di burro e far cuocere il primo disco di pasta. Quando il chapati sarà dorato da una parte la si deve voltare e far cuocere dall'altra parte. Per dare ogni volta un sapore diverso si possono aggiungere all'impasto un poco di curry o di paprika o qualsiasi spezia o erbetta. “Mia madre prepara il chapati tutti i giorni usando per la cottura il fornello a gas e una padella antiaderente di misura non tanto grande. In pratica noi non compriamo quasi mai il pane a Ghisalba. Col tè che beviamo nel pomeriggio, a merenda , si possono mangiare dei dolci; uno è buonissimo e piace sia ai grandi che ai bambini. Si chiama Gajaar Ka Halva (in italiano dolce di carote).”

Per 4 persone servono questi ingredienti: - 500 gr di carote - 60 gr di burro - 300 gr di zucchero - 1/2 cucchiaino di semi di cardamomo in polvere - 1/2 bicchiere di acqua calda - 1 bicchiere di panna liquida - 4 cucchiai di latte in polvere - acqua, sale fino, pistacchi sgusciati quanto basta. La preparazione é facile; bisogna raschiare le carote, lavarle, grattugiarle e metterle in un tegame con il

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burro. Si deve lasciar cuocere a fiamma bassa e col coperchio per 10 minuti. Nel frattempo bisogna fare sciogliere in una scodella lo zucchero nell'acqua. Dopo avere lasciato riposare il tutto per un quarto d'ora bisogna unire lo sciroppo di zucchero alle carote,quindi la panna e il latte in polvere. Dopo si deve mescolare delicatamente fino a quando si ottiene un composto asciutto che si deve mettere su un piatto per dolci. Al momento di servire, decorare il dolce che ormai é diventato freddo, con i pistacchi scottati in acqua salata e tritati a pezzettini. . “Il tè della sera é preceduto da un pasto nel quale ci incontriamo tutti noi della famiglia. I piatti che si possono mangiare sono tanti come il pilaw, a base di riso fritto e montone con spezie; il murgh tikka o spiedini di pollo, il shish-kabab, spiedino d'agnello, il tikka-kabab, con carne di manzo fritta e soprattutto il pesce palla bollito o cucinato alla griglia. In tutti questi piatti molto amati in tutte le zone del Pakistan, fanno parte della cucina Moghul e sono arricchiti da una grande varietà di spezie. Moghul é, in pratica, la dinastia dei Mongoli di cui fu iniziatore Babur discendente di Tamerlano e di Gengis Khan. Anche qui voglio dare una ricetta che a me piace molto e che si può preparare anche in Italia perché si trovano tutti gli ingredienti. Certo é meglio prepararla d’estate

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quando si possono tenere le finestre aperte o si può cucinare in un posto all’aperto perché si fa molto fumo.” Murgh tikka - spiedini di pollo

Ingredienti per quattro persone: 8 spiedini - 1 pollo di circa 1 kg, pronto da cucinare, tagliato in 12 pezzi - 1 spicchio d'aglio - 1 grossa cipolla - 1 cucchiaino di chili ' in polvere - 1 pezzetto di radice fresca di zenzero - 250 gr di latte cagliato - 3 cucchiaini di succo di limone - olio di semi di mais e sale quanto basta - peperoncino Lavare, asciugare e porre in una grande terrina i pezzi di pollo, quindi coprirli con il latte cagliato. Aggiungere un po' di sale. Tagliare a fettine sottili la cipolla, tritare grossolanamente l'aglio e lo zenzero e mettere tutto sul pollo, aggiungendo anche un bel po’ di chili; poi bagnare con il succo di limone. Lasciare in infusione per otto-dieci ore; quindi togliere i pezzi di pollo e infilarli sugli spiedini(unti d'olio). Mettere gli spiedini sulla brace a rosolare, rivoltandoli continuamente. Servirli caldissimi.

Aamir (Pakistan)

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Il riso in Costa d’Avorio “Mi chiamo Fanta, ho 27 anni e vengo dalla Costa d’Avorio, esattamente da Touba, una piccola città dell’ovest, vicina alla Guinea. Touba si trova tra le città di Odienné e Man, nella regione di Worodougou, a 680 km a Nord Ovest di Abidjan, abitata prevalentemente dal popolo Mahou. Sono in Italia da sei mesi con mio marito, mia cognata e i miei nipoti di dodici e dieci anni. Abito a Sant’Omobono Terme. Sono contenta di essere qui perché l’Italia é un bel paese. Mi piacerebbe molto lavorare e parlare bene l’Italiano. Per questo mi sono iscritta al corso d’Italiano a Bergamo e ci vado in pullman il martedì e il giovedì mattina dalle 9,30 alle 11,30. Mi piace raccontare del mio paese, anche delle nostre abitudini alimentari. Voglio parlare soprattutto del riso perché mi piace molto. Il riso é molto importante nell’alimentazione degli ivoriani. E’ coltivato in Costa d’Avorio ma é anche importato dai paesi asiatici (Cina, Tailandia) perché la produzione ivoriana da sola non basta. Il riso é proprio importante per gli Ivoriani, tanto é vero che nel sud ovest del paese, a Grabo, nel mese di gennaio c’é una festa chiamata della raccolta del riso. Il riso é cucinato in tanti modi perché ogni regione ha le sue ricette. E’ sempre accompagnato da verdure, pesce o carne a seconda dei gusti. In generale la nostra cucina é una delle più variate dell’Africa occidentale e gli ivoriani sono dei buongustai.

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Oltre al riso abbiamo anche dei piatti fatti con la manioca, la banana (platano), l’igname e le patate, tutti accompagnati da salse e tutti piatti unici. A proposito di igname ricordo che ci sono molte feste in tutto il paese che sottolineano quanto é importante ; queste feste simbolizzano la fine del raccolto abbondante, a febbraio nell’ovest del paese, a giugno nel nord e soprattutto a Dopropo e Gbain, in agosto a Sikensi. Nell’est ci sono addirittura quattro feste in quattro periodi diversi, tutte per celebrare le diverse qualità di igname. Come dicevo il riso non si mangia mai da solo perciò i suoi modi di preparazione sono infiniti. Ne descrivo tre che conosco, due sono piatti salati e uno dolce.” Riz gras a la viande de boeuf Ingrédients - 700 gr de viande de bœuf - 2 bols de riz - 25 cl d’huile d’arachide - 1 oignon, 3 tomates - 2 cuillerées à café de concentré de tomate - 1 piment - Sel Préparation Lavez la viande et coupez-la en morceaux pas trop gros. Epluchez les oignons et coupez-les en fines

Ingredienti - 700 gr. di carne bovina - due ciotole di riso - 25 cl d’olio di arachidi - 1 cipolla e 3 pomodori - due cucchiaini di concentrato di pomodoro - 1 peperoncino - sale Preparazione Lavare la carne e tagliarla a pezzetti. Sbucciare le cipolle e affettarle sottili sottili. Lavare e pepare i

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lamelles. Lavez et épépinez les tomates puis hachez-les grossièrement. Faites revenir les oignons dans l’huile sans les faire dorer. Ajoutez la viande et faites-la dorer légèrement puis insérer les tomates et le concentrée de tomate. Laissez cuire quelques minutes. Versez 2 litres d’eau et laissez bouillir. Salez et pimentez. Laissez cuire la viande pendant une heure (ou plus) à feu moyen. Entre-temps, laver le riz dans plusieurs eaux pour enlever le maximum d’amidon égouttez-le. Lorsque la viande est cuite, retirez le piment et réservez une louche de bouillon que vous garderez au chaud. Augmenter le feu sous la casserole. Lorsque la préparation boue à gros bouillons, jetez-y le riz et remuez.

pomodori e poi farli a pezzi. Fare rinvenire le cipolle nell’olio senza farle dorare. Aggiungere la carne e farla dorare leggermente, aggiungere i pomodori e il concentrato di pomodoro. Far cuocere per qualche minuto. Versare 2 litri d’acqua e far bollire. Salare e pepare quindi far cuocere per un’ora (o più)a fuoco medio. Nel frattempo, lavare il riso in modo da togliere la maggior quantità possibile di amido e scolarlo. Quando la carne é cotta, togliere il peperoncino e un mestolo di brodo da conservare al caldo. Alzare il fuoco sotto la casseruola. Quando il brodo bolle decisamente, buttare il riso e rimestarlo. Continuare la cottura per 5 minuti poi abbassare il fuoco e coprire con un

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Continuer la cuisson à gros bouillon 5 minutes. Puis baissez le feu et fermer la casserole avec son couvercle. Laissez cuire encore 20 mn. Au bout de ce laps de temps, le riz dans être bien cuit avec des grains bien détachés. Servez le riz et la viande ensemble. Arrosez avec le bouillon mis de côté.

coperchio. Lasciar cuocere ancora per 20 minuti alla fine dei quali il riso dovrà essere ben cotto ma con i grani ben separati. Servire il riso e la carne insieme, bagnando col brodo in precedenza conservato .

Riz aux crevettes - Riso ai gamberetti

Ingrédients - 2 grosse boules de soumbara - 5 poissons fumés (magne) - 2 oignons - 10 crevettes sèches - 10 gombos, 10 aubergines - 10 tomates fraîches - 2 morceaux d`ail - 1/4 d`huile - le cube d`assaisonnement - 5 piments (facultatifs) - 1 kg de riz

Ingredienti - 2 grosse palline di soumbara - 5 pesci affumicati - 2 cipolle - 10 gamberetti secchi - 10 gombo, 10 melanzane - 10 pomodori freschi - 2 spicchi d’aglio - ¼ di litro d’olio - un dado - 5 peperoncini (facoltativi)

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Préparation Mettre de l`eau dans un récipient et le poser sur le feu y ajouter du sel+ les gombos+ les aubergines et couvrir le tout. Ajouter le riz après bouillon. Retirer le tout après cuisson. Renverser l`huile dans une casserole et la poser sur le feu; ensuite découper les oignons en lamelle, les tomates en dés, l`ail en rondelle; ajouter le tout sur feu et laisser dorer. Entre temps concasser les poissons secs, piler les crevettes séchées, piler aussi le soumbara. Ajouter le tout aux ingrédients et bien mélanger; y mettre un verre d`eau + le cube d`assaisonnement et attendre que le tout cuisse. Renverser le riz dans un large récipient et ajouter le bouillon, puis mélanger le tout jusqu`à obtenir une pâte homogène

- 1 Kg di riso Preparazione Metter l’acqua in un recipiente e metterlo sul fuoco aggiungendo del sale, i gombo e le melanzane, poi coprire il tutto. Quando l’acqua bolle aggiungere il riso e farlo cuocere. Intanto mettere l’olio in una casseruola e metterla sul fuoco; tagliare le cipolle e l’aglio a fettine sottilissime, i pomodori a dadini e metterle in padella a dorare. Nel frattempo tagliare i pesci secchi e schiacciare i gamberetti e il soumbara. Mettere tutto insieme, mescolare bene, aggiungendo un po’ d’acqua e un dado e aspettare la cottura. Metter il riso in un largo recipiente e, dopo avere aggiunto il resto, mescolare fino ad ottenere un impasto omogeneo.

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“Alcuni prodotti di cui si parla in questa ricetta non esistono in Italia come il gombo e il soumbara. Il gombo é una pianta alimentare coltivata in tutte le regioni tropicali e subtropicali del mondo e, in particolare, nella valle del fiume Senegal e in tutta l'Africa dell'Ovest. Il frutto assomiglia ad un peperoncino verde allungato o anche ad una zucchina con la punta. La sua particolarità è la vischiosità e la grande quantità di semini bianchi che non piacciono a tutti. Il gombo é molto delicato e si conserva solo 2 o 3 giorni in frigorifero. Può essere acquistato fresco, intero, oppure secco, in polvere o in rondelle. La tradizione dice che è rinfrescante e lassativo. Il soumbara è un condimento a base di semi di néré. I semi vengono prima fatti fermentare e poi abbrustolire, poi vengono pestati e passati al setaccio. La pasta che si ottiene viene lavorata e divisa in piccole palline. Si tratta di un preparato ricco di proteine, nutriente ed energetico. Il néré è un albero che può raggiungere i 20 metri di altezza, cresce in terreni sabbiosi, ha una chioma a ombrello e produce un frutto che è un baccello lungo, piatto e un poco arcuato. Quest’albero rischia di estinguersi perché la gente lo usa come legna da bruciare per cucinare e perché gli agricoltori in cerca di spazio per le loro coltivazioni continuano a tagliarlo. La tradizione popolare dice che il soumbara fa molto bene a quelli che soffrono di ipertensione. Per ultimo racconto come si prepara un dolce di riso: il riso alla cannella.”

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Bisogna far cuocere, solo per 5 minuti, 300 gr. di riso prima lavato molto bene, in mezzo litro d’acqua bollente. La qualità deve essere quella con i chicchi allungati. Dopo avere scolato il riso metterlo a cuocere per altri 12 minuti in 1 litro di latte portato ad ebollizione. Aggiungere poi 75 gr. di zucchero e un cucchiaio colmo di cannella. Mettere tutto su un grande piatto fondo facendo una montagna e metterci sopra, per decorare, della frutta candita.

Fanta (Costa d’Avorio)

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Il riso in India “Mi chiamo Rajvinder, ho 25 anni e vengo dall’India. Sono in Italia dal mese di novembre del 2004, più di due anni ormai. Il mio desiderio é quello di riuscire ad andare all’università in Italia, ma, per il momento, sto studiando l’italiano senza il quale non posso fare nessun tipo di studi. Anzi, devo impararlo proprio bene per riuscire ad affrontare gli studi universitari in italiano. Mi piace moltissimo leggere, qualsiasi cosa. Mi piacciono molto i libri e mi piace imparare tutto. In India abitavo nella città di Hisar , regione di Hariana, nello stato del Punjab, mentre i miei nonni materni abitavano in campagna. Quando ero piccola mi piaceva andare in campagna dai miei nonni materni. In realtà nella casa di campagna c’era solo mio nonno, vedovo perché mia nonna é morta presto, quando mia madre era piccola. Nella casa dei miei nonni c’era anche una vigna che uno dei domestici proteggeva per tutta la giornata, con una pistola, dagli uccellini che volevano mangiare l’uva. Solo noi bambini potevamo mangiarla. Siccome vivevo in città a me piaceva molto andare in campagna. Avevo tanta curiosità e molta felicità nel vedere tutto quello che si coltivava. Però i miei nonni paterni non volevano che io e mio fratello andassimo in campagna perché avevano paura che le zanzare potessero pungerci. Il più bel ricordo della campagna é di quando avevo dodici anni, ero all’ottava classe e sono andata con mia madre nella sua casa di ragazza. Non posso dimenticare il viaggio e i giorni di gran caldo. Sembrava che la terra

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stesse bruciando tutte le cose. Ricordo che una sera tardi sono uscita dalla mia camera e ho visto una bellissima scena di tramonto. Il sole stava calando piano piano vicino al fiume, era grande e rosso e molto vicino a me. Io ho parlato col sole quel giorno pensando a quante cose Dio ha fatto e intanto arrivava anche la luna. Purtroppo il dialogo si é interrotto perché la mamma mi ha chiamato per la cena. La vita in India é piena di leggende e di usanze legate ai prodotti della campagna, al riso in particolare. Il riso significa felicità e quando é mischiato col Tilak , il segno rosso sulla fronte fatto col dito anulare, vuol dire che tutto andrà bene e che il cuore é in pace. Il riso è sempre il primo cibo offerto da una sposa al marito, per assicurare alla coppia tanti figli ed è il primo cibo solido che i bimbi mangiano quando vengono svezzati. Le antiche Scritture hindù parlano molto del riso. Per esempio dicono come deve essere preparato quando é un’offerta rituale o quando é usato come balsamo curativo o come cibo privilegiato di alcune divinità. Il riso è presente anche nella più semplice Puja. Nella religione induista la Puja (dal sanscrito reverenza) è un termine che genericamente indica un atto di adorazione verso una Divinità; l’adorazione può esprimersi con un'offerta di cibo, un culto, una cerimonia o un rito. Il riso è anche un potente simbolo di augurio e di fertilità; nell' India meridionale ci si riferisce spesso al riso chiamandolo Anna Lakshmi. Anna significa cibo e Lakshmi è la dea della prosperità. Dhanya Lakshmi, é spesso rappresentata con le spighe di riso tra le

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mani. L'offerta più pregiata per il dio Ganesh è un dolce di cocco ricoperto con pasta di riso. In Rajasthan, quando una sposa entra per la prima volta nella nuova casa trova un recipiente colmo di riso sullo stipite della porta come augurio di felicità e prosperità. Il riso si usa anche fuori dall’alimentazione. Nelle campagne indiane il riso stracotto è utilizzato come colla e l'acqua in cui si sciacqua il riso prima di cuocerlo si usa per inamidare i saris – i vestiti tradizionali delle donne indiane - più eleganti. Con la farina di riso si disegnano i bellissimi Rangolis che gli insetti mangiano piano piano, in un ciclo naturale col quale vogliamo mostrare attenzione anche per le creature più indifese della natura. Quella dei rangolis é un'arte tradizionale che ha, probabilmente, origine nello stato del Maharashtra; le donne decorano i muri e lo spiazzo davanti alla casa o davanti ai templi facendo dei complicati disegni rituali con farina di riso e polveri colorate o di pietra bianca. Ogni regione indiana ha la sua tecnica e ogni famiglia ha le sue tradizioni che si tramandano di madre in figlia con straordinari risultati di precisione e bellezza. Le donne fanno a gara per fare disegni sempre nuovi e sempre più complicati per fare piacere agli Dei che amano la bellezza e la pulizia. Nel Tamil Nadu c’é una leggenda sui rangolis che dice che durante il mese di Maarkhasi (nel calendario occidentale tra dicembre e gennaio) la dea Andal chiese al dio Thrumal di sposarla. Il dio disse di sì e da allora tutte le ragazze che non sono sposate pregano, nel mese di maarkhasi, il dio Thrumal per avere lo sposo dei loro sogni. Mentre pregano fanno i bellissimi disegni rangolis.

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Oggi il nostro riso é in pericolo. Da qualche anno, infatti, il nostro paese é oggetto di un’epidemia di biopirateria, compreso il tentativo delle grandi imprese agricole internazionali di brevettare il nostro riso basmati. Per questo l’associazione degli esportatori di riso dell’India ha formalmente chiesto al governo di proibire i campi sperimentali di riso OGM e i contadini hanno bruciato molti di questi campi per paura delle contaminazioni. Insomma il riso é profondamente dentro la nostra cultura. Nella nostra alimentazione il riso é indispensabile. Siccome l’India é un paese molto grande ci sono tanti tipi di riso e quindi tanti modi di cucinarlo. Bastano pochi chilometri perché il cibo, la lingua e la cultura cambino. Nel sud dell’India il riso é cucinato con la carne ma, soprattutto col pesce, nel nord dell’India dove io abito é cucinato con le verdure, la carne, la frutta secca, lo zucchero e il sale e qualche volta anche lo yogurth. Ora scrivo alcune ricette che si preparano in tante famiglie indiane.” Hyderabadi birmani vegetariano

Ingredienti ½ tazza di riso basmati, lavato ed immerso in acqua per 30 minuti, 200 gr di patate sbucciate e affettate, 200 gr di carote sbucciate ed affettate, 50 gr di anacardi, 50 gr di mandorle sbucciate, 25 gr di uvetta, 25 gr di ciliegie glassate, 100 gr di cipolle affettate finemente, 4 peperoncini verdi fatti a pezzettini, 1 cucchiaino di pasta di zenzero e aglio, ½ cucchiaino di polvere di curcuma, 1

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cucchiaino di polvere di peperoncino rosso, 1 tazza di yogurt, 1 cucchiaino di zafferano, 2 cucchiai di latte, 1/3 di tazza di foglie di menta tritate, 1/3 di foglie di coriandolo tritate, 6 cardamomi verdi, 2 cardamomi neri, 6 chiodi di garofano, 1 bastoncino di cannella diviso in 4 parti, 3 foglie di alloro, un pizzico di macis (polvere di noce moscata), acqua di rose se piace, 120 gr. di burro, sale a piacere, un po’ di pasta di frumento per sigillare i bordi della padella. Preparazione Mettere il riso lasciato a bagno in una pentola e aggiungere 3 tazze d'acqua. Aggiungere 3 cardamomi verdi e 1 nero, 3 chiodi di garofano, 2 pezzi di cannella e 1 foglia d'alloro. Portare il riso a bollore e cuocere fino a quando é cotto. Scolare e mettere da parte. Sbattere lo yogurt in una ciotola e dividerlo in due parti uguali. Sciogliere lo zafferano nel latte tiepido ed aggiungere una parte del preparato di yogurt. Scaldare il burro chiarificato in una padella, aggiungere i cardamomi verdi e neri rimanenti, i chiodi di garofano, la cannella, le foglie d'alloro, il macis e far saltare tutto a fuoco medio fino a quando inizia scoppiettare. Aggiungere le cipolle, saltarle fino a doratura, aggiungere i peperoncini verdi, lo zenzero, l'aglio e far saltare per un minuto. Quindi aggiungere la curcuma, mescolare, aggiungere la verdura sminuzzata e mescolare per un minuto. Ora aggiungere la parte rimanente dello yogurt semplice, mescolare, aggiungere 2/3 di tazza d'acqua, portare ad ebollizione quindi far bollire fino a che la verdura é cotta. Una volta che la verdura è cotta aggiungere la frutta secca e le

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noccioline. Nella padella con la verdura cotta, versare un po' di preparato di zafferano e yogurt, la menta e il coriandolo. Quindi cospargere con metà del riso e di nuovo versare il preparato di zafferano e yogurt rimanente, coprire il tutto con il riso rimanente. Mettere un panno umido sopra, coprire con un coperchio e sigillare i bordi con della pasta di farina di frumento. Mettere la padella sigillata in forno per 15-20 minuti. Estrarre dal forno e servire caldo.

Riso Korma Ingredienti Per il riso: 1 ½ tazze di riso, 2 foglie di alloro, 2 bastoncini di cannella, 2 cardamomi, 2 chiodi di garofano, 2 prese di polvere di curcuma, 2 cucchiai di burro chiarificato. Per il Korma: 2 tazze di germogli di moong (una qualità di fagioli), 2 pomodori scottati e tritati, 2 cipolle grattugiate, 1 cucchiaino di polvere di semi di coriandolo e cumino, 1 cucchiaino di polvere di peperoncino, ½ cucchiaino di zucchero, 1 tazza di latte, 3 cucchiai di panna fresca, 3 cucchiai di burro chiarificato, sale a piacere. Pasta ottenuta tritando questi ingredienti per il korma: 3 spicchi d'aglio, 1 cucchiaino di pasta di zenzero, 2 cardamomi, 1 cucchiaio di anacardi, 1 cucchiaio di semi di cumino. Per la cottura: 1 cucchiaio di burro chiarificato.

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Preparazione Per il riso: Scaldare il burro chiarificato e friggere le foglie di alloro, la cannella, i cardamomi e i chiodi di garofano per ½ minuto. Aggiungere il riso, la polvere di curcuma, il sale e 4 o 5 tazze d’acqua e cuocere. Per il Korma: Scaldare il burro chiarificato in una padella e cuocere le cipolle fino a che diventino rosa chiaro. Aggiungere la polvere di semi di coriandolo e cumino, la pasta di zenzero e aglio e la polvere di peperoncino e cuocere per 1 minuto. Ora aggiungere a questo preparato i pomodori e cuocere per altri 5 minuti. Aggiungere i germogli di moong, ¼ tazza di acqua, lo zucchero e il sale e cuocere per qualche minuto. In un'altra padella miscelare il latte, la panna e la pasta macinata di cardamomi, anacardi e semi di papavero e aggiungere questo preparato al korma e cuocere per qualche minuto. Come procedere: Mettere 1 cucchiaio di burro chiarificato sul fondo di una ciotola da forno e formare piani alternati di riso e korma iniziando e finendo con il riso. Coprire ed informare per 30 minuti a 230 gradi. Appena prima di servire, girare il composto a testa in giù su di un piatto da portata e servire caldo.

Rajvinder (India)

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La banana in Bolivia “Mi chiamo Larissa, vengo dalla Bolivia, da La Paz per essere più precisa, ho 19 anni. Sono in Italia da appena de 9 mesi ,ma mi sono resa conto che cominciano a mancarmi i mie sapori e il mio cibo quando ho deciso di parlare della banana nello studio dei cibi che sto facendo nel mio corso d’italiano. Cercando informazioni sull’uso della banana nell’alimentazione del mio paese ho cominciato a leggere vari materiali e ho scoperto tante cose che non conoscevo. Plinio, per esempio, parla della banana nel suo libro XII : “La musa che cammina nel paradiso è dietro l’albero dal quale mangiano i saggi”. E’ per questo che una qualità di banana si chiama frutto dei saggi. Le leggende su questo frutto sono tante e molto interessanti. Una é la storia del frutto del paradiso in cui si dice che da un albero è spuntato il serpente che tentò Eva con l’offerta del mitico pomo; in realtà il frutto che Eva e Adamo mangiarono fu la banana, non la mela . Ma tutte queste storie non hanno molta importanza, piuttosto, se devo parlare veramente della storia di questo frutto, posso dire che le banane vengono dall'Asia sud-orientale dall’epoca preistorica. Ancora oggi si trovano molte specie di banane selvatiche in Nuova Guinea, Malesia, Indonesia e Filippine. Recenti prove archeologiche e paleo ambientali nelle paludi del Kuk, nella Western Highlands, province della Papua Nuova Guinea, fanno pensare che la coltivazione della banana risalga ad almeno il 5000 a.C. e forse anche

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all'8000 a. C.. Ciò farebbe degli altopiani della Nuova Guinea il luogo in cui il banano fu dimenticato. È probabile che altre specie di banani selvatici siano stati addomesticati successivamente in altre zone dell'Asia sud-orientale. La banana è citata, per la prima volta nella storia scritta, in testi buddisti del 600 a. C.. Alessandro Magno scoprì il sapore della banana nelle valli dell'India nel 327 a.C.. La coltivazione organizzata di banane è stata accertata in Cina almeno dal 200 d.C.. Nel 650, i conquistatori islamici portarono la banana fino in Palestina. I mercanti arabi diffusero successivamente le banane in quasi tutta l'Africa. Nel 1502, i coloni Portoghesi iniziarono le prime piantagioni di banane nei Carabi e in America Centrale. Provenendo da un paese dove le banane sono così importanti per l’alimentazione della sua popolazione e per lo sviluppo dell’ esportazione, ci sarebbe molto da dire ma, in realtà, é difficile parlare di una cosa che é cosi comune nella tua vita. Mi sono sorpresa quando ho saputo che le banane provengono dell’ India quando per tutta la mia vita ho creduto che fossero originarie dell’America, ma forse è meglio cominciare a parlare delle mie esperienze e di quello che io ricordo di questo frutto. La banana é sempre presente nei miei ricordi. Le mangio da sempre, da quando sono piccola; mio padre mi diceva sempre che una banana può sostituire un bel pranzo visto che questo frutto ha molte vitamine, sali minerali e anche proteine. Più delle banane più comuni, quelle che si mangiano di solito, a me piacciono quelle da cucinare.

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Nel mio paese si chiamano platanos e si mangiano fritte nell’ olio o bollite. A me piacciono quando sono mature perché cosi hanno un sapore più dolce. Fritte sono buonissime: io le mangio con le uova e le patatine fritte e, a volte, anche con il formaggio. Quando vivevo nel mio paese le mangiavo sempre a merenda o cena. E’da quando mi ricordo che le mangio così. Un'altra cosa che mi viene in mente della mia infanzia é quando andavo in campagna con i miei a trovare mio nonno a Tipuani , un paesino che si trova a nove ore di viaggio da La Paz. Nove ore sembrano una grande distanza, ma, in realtà, Tipuani non é così lontana. Il fatto é che le strade per arrivarci sono molto brutte e pericolose e bisogna andare piano. In tutta la zona intorno si coltivano il platano e le banane in quantità sorprendenti. Allora quello che mi colpiva di più era vedere ai bordi delle strade i camion colmi di banane ancore non mature in modo da non andare a male nel viaggio e arrivare in città pronte per essere mangiate. Nei mercati della città tutto veniva messo per terra e quando andavi a comprare potevi proprio vedere il camion arrivare e scaricare sulla strada la frutta da vendere alla gente. La strada era sempre piena di banane e di altri tipi frutta, e quando noi compravamo le banane la signora che ce le vendeva le toglieva proprio dei rami ai quali erano ancora attaccate. E’ difficile spiegare tutto questo perché la maniera di vendere le banane qui in Italia é molto diversa rispetto alla Bolivia.

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Provo a fare una piccola descrizione di questo frutto che tanto mi piace. Il banano è una pianta con l’aspetto di albero (tecnicamente però è un’erba) del genere musa della famiglia delle musacee, con un falso tronco e un rizoma sotterraneo. I sui gambi diventano alti da quattro a otto metri, con foglie grandi e ovali lunghe da uno a sei metri. La parola banana deriva dall’ arabo banan che significa dito. La sua forma é oblunga, ha la porzione esterna (pericarpo) costituita da una buccia che all’inizio é verde e che poi quando il frutto é proprio maturo diventa gialla. La porzione interna è la polpa commestibile, carnosa, di colore biancastro e di gusto dolce e aromatico. Io su questo tema posso aggiungere alcuni piatti tipici fatti con la banana o meglio quali piatti sono abituata a mangiare. La ricetta che vi do adesso è un tipo di piatto che si mangia di solito per colazione o merenda , si chiama masaco de platano. Come boliviana vi consiglio di fare questo piatto, anche se io essendo giovane non lo so ancora preparare bene. Sono sicura però che i risultati saranno ottimi come il sapore. Questa ricetta non viene dalla mia città ma da un’altra regione del mio paese, Santa Cruz de la Sierra dove le banane sono prodotte in maggiore quantità; infatti le banane crescono solo in alcune province di La Paz e in piccole quantità a causa dell’ altitudine e del clima.”

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Masaco de platano Masaco di banana Ingredientes 6 ú 8 plátanos no muy verdes ½ kilo de carne seca (charque) o chicharrón de cerdo 3 cucharadas de aceite o manteca caliente sal al gusto Preparazione: Pele los plátanos y córtelos en rodajitas; fríalos en aceite o manteca de cerdo asta quando tengan . Por separado, corte la carne en trocitos y fríala.Una vez frita lleve al tacú y muélala; agregue los plátanos fritos y la manteca. Agregue sal sólo si es necesario. Muela hasta que todo esté bien mezclado. Sírvase caliente.

Ingredienti: 6 banane (quelle da cucinare) mature ½ chilo di carne secca (charke) o 3 cucchiaini d’olio o strutto di maiale caldo sale a piacere. Preparazione: Sbucciare le banane e tagliarle a rotelle, friggerle nell’ olio o nello strutto. A parte tagliare la carne a pezzetti, friggerla e metterla successivamente nel tacù (é contenitore di legno dotato di un pestello che serve per schiacciare quello che il tacù contiene)aggiungendo le banane, il burro e del sale, se necessario. Schiacciare tutto col pestello fino a formare un impasto morbido che si deve servire caldo.

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“Charque é carne disidratata: la carne si copre di sale e si lascia al sole. E’ un metodo per conservare la carne per periodi prolungati. Io amo molto anche una bevanda molto rinfrescante, buonissima quando fa caldo che magari si usa anche in Italia. I bambini, da noi, ne sono molto golosi. Eccola.” Bebida de platano Bevanda di banana

Ingredientes: 1 platano ½ tasa de yogurt 1taza de leche Azùcar (lo suficiente) Preparacion: pelar el platano y picar a pedasos pequenos, introducirlo junto a todo los ingredientes dentro de la licuadora y licuar por 5 minutos . Servir y disfrutar al instante.

Ingredienti: 1 banana ½ tazza di yogurt 1 tazza di latte Zucchero (a gusto) Preparazione : sbucciare la banane e tagliarle a pezzetti, metterle insieme agli altri ingredienti nel frullatore e frullare per 5 minuti. Servire e gustare all’istante.

“Mi auguro che vi sia piaciuto saperne un pochino di più delle banane e di come queste sono entrate nella mia vita alimentare.”

Larissa (Bolivia)

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Il pane e le lumache in Sardegna “Mi chiamo Rosaria e sono l’insegnante d’italiano di una variegatissima classe più o meno di terzo livello della scuola d’italiano della Ruah. E’ il quarto anno che faccio questa attività tra un viavai continuo di volti e di lingue che nascondono o esibiscono storie di donne e uomini in viaggio da tutto il mondo. Anche io vengo da una storia di viaggio, un viaggio interno all’Italia quando questa era fatta da tante Italie, spesso molto diverse l’una dall’altra. Sono nata a Cagliari, vissuta per qualche anno a Palermo, quindi a Bergamo dove vivo stabilmente ormai da moltissimi anni. Tutte le estati della mia vita dai quattro ai diciassette anni, tornavo con la mia famiglia in Sardegna, a Ghilarza, per le vacanze. I miei ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza sono legati a campagne assolate, a mari di una bellezza indescrivibile, a pianti interminabili quando la nave si staccava dal molo di Olbia o di Porto Torres per riportarmi a Palermo o a Bergamo. La mia nonna materna, Michelina, era il punto di riferimento a Ghilarza; a casa sua si dormiva e si mangiava, non solo la mia famiglia ma anche cugini e cugine che si alternavano durante l’estate, oltre a due zii, fratelli di mia madre, che vi abitavano stabilmente. Non sono mai stata una mangiona, ma, stranamente, molti ricordi sono legati al cibo, a due alimenti in particolare: uno da acquolina in bocca ancora oggi, il pane, e uno non piacevole, le lumache.

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Il pane era un rito settimanale; cominciava la notte e terminava al mattino. Noi bambini ne vedevamo solo la fase finale quando restavano da cuocere solo alcune focacce particolari, adagiate su foglie di cavolo, su pane cum berdas (pane coi ciccioli). Il profumo che si spandeva per tutta la casa ci assicurava, oltre a un felice risveglio, che il meglio era già stata fatto. Entravamo nel locale adiacente alla cucina, appositamente costruito per il pane, con un forno a legna basso e rovente all’interno. Nonna Michelina stava seduta su uno scrannetto, con una pala di legno in continuo movimento per evitare che qualcosa bruciasse. Intorno una serie di canestri (cherrigus) già pieni di pani di tutti i tipi, coperti con bianchi teli di cotone. In un cherrigu erano pronti sos coccois, i coccoetti, piccoli pani di pasta di grano duro per noi bambini. Bastava sollevare il telo per vedere meravigliose sculture di pane: uccellini, gallinelle, fiori, omini e donnine. Bisognava aspettare che il pane si freddasse prima di mangiarlo, ma, al momento giusto, dispiaceva staccare ali, foglie, becchi, braccia, gambe. Solo da adulta ho scoperto che dalla parola pane deriva la parola compagno, dal latino cum/me/panis, cioè che divide il pane con me e mi é sembrato bello pensare a mia sorella, a mio fratello e ai miei vari cugini come compagni d’infanzia anziché come parenti. E, ancora da adulta, ho trovato in un libro una serie di proverbi sul grano e sul pane che mi hanno ricordato quelli in sardo che ascoltavo dai vecchi della famiglia e dai vicini di casa.”

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Il grano e il pane Su trigu e su pane

Acqua e vento annata di Aba e ventu annada de trigu frumento Acqua e sole grano in Aba e sole trigu a muntone quantità

Annata di asfodelo annata Annada de iscraleu annada di grano de trigu

Quando l’aratro non affonda Cando s’arau non pundat il grano non mette radice su trigu no afundat

Chi ha il pane non muore Chie at chivarzu in domo di fame sua non morit de famene

Chi non ara non miete Chie no arat non messat

Chi ha il pane nel sacco né Chie jughet pane in sacu s’inganna né é matto ne faddidu ne macu

Chi dà il pane a cane altrui Chie zat pane a cane perde tutto anzenu perdet to

Soldi in cassa e grano in Dinari in cassia e trigu in cassapanca lussia

Non mi meraviglia il gambo Non m’ispantat sa canna ma la spiga alta si non s’ispiga manna

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Pane ben cotto fa fare un Pane bene cottu faghet buon rutto bonu rutu

Pane e formaggio e bicchiere Pane e casu binu raso colmo di vino

Pane e formaggio sabbia é calce Pane e casu rena e cracchina

Pane lievitato cassapanca Pane pesau cassia piena prena

Salute e grano Salude e trigu

Il raccolto costa fatica Su laore costat suore Proverbi sardi

“Quanto al non piacevole ricordo delle lumache ripiene penso a quando comparivano in tavola a fine estate, con le prime piogge di settembre. Allora la scuola cominciava il primo di ottobre e quindi nonna Michelina faceva in tempo a prepararle prima della nostra partenza per il continente. Ce n’erano di una qualità speciale chiamata in sardo monzittas, suorine. L’aspetto delle lumachine era, appunto, quello di piccole suore, quando certi ordini religiosi usavano ancora portare una specie di cuffietta nera. Sas monzittas si mangiavano cotte in umido, con aglio e prezzemolo e si tiravano fuori dal guscio col risucchio e con l’aiuto di un ago. Non ho mai osato mangiarle né

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allora né da adulta, nemmeno cucinate nel modo di una specialissima ricetta solo in apparenza appetitosa, secondo me. La propongo per i veri amanti della buona tavola, non per gli schizzinosi come me.” Lumache ripiene Pitzigrogos prenos

Se le lumache sono grandi si tolgono dal guscio, con un ago, dopo averle sbollentate. Successivamente si tritano e si mischiano alle uova, al formaggio grattugiato, alle erbe tritate e a un pizzico di sale. Con questo impasto si riempiono i gusci sistemati su una teglia unta d’olio e si ricoprono con pomodori tagliati a pezzi e olio d’oliva. Si lasciano in forno per mezz’ora.

Si sos pitzigrogos sunt mannos si faent buddire e che ogant dae sa corza, cun su azzudu de unu agu. Appustis si molent e si ameschiant a oso, casu tretegau, erbas segadas a fine e una pitzigada de sale. Cun custu impastu si prenent sas corzas issoro assetiadas in sa lama, unta de ozu e amuntadas de tamatta segada a cantos. Si lassant in su forru po mes’ora.

Rosaria (Italia)

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Appendice: “Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni delle piante da un continente all’altro” La storia delle trasmigrazioni delle piante da un luogo all’altro della terra è antica di millenni. E’ noto infatti che nel mondo vegetale le aree di maggior ricchezza genetica, capaci cioè di produrre molte varietà di piante, sono un numero limitato. E’ stato il genetista russo Nikolai Vavilov ad individuare, all’inizio del nostro secolo, queste aree e le piante originarie di ognuna di esse. Da queste poche aree le piante si sono diffuse in tutto il mondo e si sono modificate, grazie soprattutto all’intervento umano. Di questa lunga storia prenderemo in considerazione solo alcuni aspetti: quelli che ci paiono poter offrire spunti in grado di aiutarci a ricostruire i nessi tra interventi nei confronti delle piante alimentari da parte di alcuni gruppi della società occidentale, consapevoli obiettivi economici e politici di questi gruppi, e loro conoscenze scientifiche. Tralasceremo pertanto di considerare tutte le trasmigrazioni che hanno avuto luogo in epoca remota, in età classica e nel Medioevo e ci concentreremo invece sulle trasmigrazioni in epoca moderna e contemporanea. E’ infatti solo a partire dal Cinquecento che la trasmigrazione delle piante si fa più intenzionale, più razionale e più sperimentale; essa diventa fondamentale per l’economia, addirittura per la sopravvivenza di alcuni Stati europei. Alla trasmigrazione moderna si accompagnano inoltre, diversamente che in precedenza, descrizioni e relazioni da parte di botanici e naturalisti, che hanno lasciato in questo modo materiale più abbondante per il lavoro dello storico. Inoltre, con la scoperta dell’America, che segna appunto l’inizio dell’età moderna, si apre improvvisamente una nuova grande ricchezza e varietà vegetale, che determina grandi mutamenti nell’economia europea e mondiale: da questi mutamenti vale la pena di prendere le mosse.Possiamo suddividere il periodo che prenderemo in esame in quattro parti: dal Cinquecento all’inizio del Seicento; dal Seicento al Settecento, che potremmo definire lil periodo delle piante e degli schiavi; dall’età dell’Illuminismo all’Ottocento, caratterizzato dal nesso definitivamente intenzionale tra piante e scienza; il Novecento, nel corso del quale assume importanza sempre maggiore il ruolo del denaro come mezzo per la ricerca tecnologico-scientifica.

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a) Dal Cinquecento all’inizio del Seicento. Durante quest’epoca le trasmigrazioni cominciano a essere caratterizzate da una modalità sperimentale e intenzionale, anche se per un vero e proprio intervento scientifico e razionale occorrerà aspettare i secoli successivi. Nel Cinquecento e nel Seicento la conoscenza delle piante è infatti ancora limitata. Esse vengono ancora studiate esclusivamente per le loro caratteristiche curative: il botanico, colui che studia le piante, è sempre un medico, e se non lo è, è comunque uno studioso al servizio di un medico. Conoscenza limitata dunque, ma non inesistente. Un esempio: la descrizione scientifica della banana da parte del naturalista veneto Prospero Alpino. Egli vide la banana in Egitto nel corso del viaggio scientifico da lui compiuto tra il 1580 e il 1584. Originaria dell’India, essa era a quel tempo già passata ai Caraibi e in America del Sud, dopo essere trasmigrata dall’Africa e dalle Canarie. Nel Nuovo Continente essa si adattò talmente bene che per molto tempo gli scienziati la credettero indigena. Nel corso di questo primo periodo parecchie altre piante, oltre alla banana, furono portate dagli europei in America. Infatti, appena arrivati in America, gli europei cominciarono a trasformare il più possibile il Nuovo mondo in una copia del Vecchio. Furono trasferiti fin da subito: grano, piselli, meloni, cipolle, insalata, viti, olivi e semi di frutta. Ognuna di queste piante trovò la zona adatta, e tutte insieme si estesero dagli umidi bassipiani delle coste atlantiche fino agli altipiani asciutti andini. In particolare, per quanto riguarda il frumento si può dire che, clima permettendo, gli spagnoli riuscirono a coltivarlo in quasi tutte le zone colonizzate dei loro possedimenti americani: a Rio de la Plata, a Nuova Grenada, in Cile, sugli altipiani dell’America Centrale. Già all’inizio del Seicento i coloni spagnoli erano in grado di disporre quasi ovunque di pane di grano. La vite fu coltivata a partire dalla metà del Cinquecento in Perù, e poi anche in Cile. Sempre in Cile e Perù (nelle valli costiere) l’ulivo venne piantato a partire, pare, dal 1560 (a questo anno, almeno, risale la prima testimonianza). Possiamo così dire che nel Seicento tutte le più importanti piante commestibili del Vecchio mondo erano coltivate in entrambe le Americhe. Tragitto inverso fu invece quello compiuto dal mais che venne portato in Spagna da Cristoforo Colombo al ritorno, pare, già dal suo primo viaggio. Comune a tutti e quattro i popoli più antichi dell’America (atzechi,

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chibchas, maya, incas) la coltura del mais risaliva a epoche remotissime, come dimostra il ritrovamento, avvenuto in Perù, di semi di mais fossilizzato. Il mais non si diffuse subito in Europa. Gli europei lo portarono invece in Asia. Fu Magellano a trasferirvelo, nel 1520. Esso ebbe un ruolo importante in Asia: contribuì all’incremento demografico avvenuto in Cina tra Cinque e Seicento. Grazie al mais fu possibile coltivare gli altipiani situati al di sopra del delta dello Yang Tse, altipiani non irrigabili e pertanto inadatti alla coltura del riso. Una considerazione a parte merita lo zucchero di canna. Originario dell’India, esso era stato introdotto in Siria e in Egitto tra il X e l’XI secolo, poi in Sicilia. Nel Quattrocento il principe portoghese Enrico il Navigatore lo aveva fatto portare dalla Sicilia a Madeira, che in breve era diventata un’isola dello zucchero. Tra il Quattro e il Cinquecento esso era passato alle Canarie, alle Isole di Capoverde e alle Azzorre. Queste isole, compresa la Sicilia, furono tutte quante devastate dalla coltura della canna: intere foreste vennero distrutte per far posto alle piantagioni e per fornire il combustibile necessario al funzionamento dei mulini per frantumare la canna. Lo zucchero passò allora dove c’era abbondanza di foreste: nel Nuovo Mondo, a S. Domingo e sulla costa nord del Brasile. l trasferimento dello zucchero a Santo Domingo e sulla costa settentrionale del Brasile (ricordo che l’adattamento della pianta fu facile, mentre in Europa essa non avrebbe potuto crescere per via del clima troppo freddo) ci introduce al secondo periodo che considereremo qui. b) Dal Seicento all’inzio del Settecento. Il periodo delle piante e degli schiavi. Allo zucchero e alla sua coltivazione oltreoceano si collega infatti la tratta degli schiavi dalle coste occidentali dell’Africa alle Antille e al Brasile. Ricordo che lo scopo era quello di impiegare la manodopera africana per sostituire nelle piantagioni di canna la popolazione indigena, che era stata decimata sotto i colpi delle spade, dei fucili e delle malattie portate dagli Europei a partire dal Cinquecento. Fu la carenza di forza lavoro locale a determinare l’arrivo di masse di africani in America. Lo zucchero e la tratta degli schiavi diventarono interdipendenti prima nei Caraibi e poi in Brasile. Furono soprattutto i portoghesi ad approfittare della vantaggiosa combinazione fra la tratta degli schiavi e la coltivazione dello zucchero di canna. Poi nel commercio entrarono gli olandesi, che invasero e occuparono il nord del Brasile.

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Infine arrivarono gli inglesi e i francesi che acquistarono parecchie isole dei Caraibi, estendendo così la coltivazione della canna e facendo inoltre salire la richiesta di schiavi. Il rilievo economico dello zucchero coltivato nelle piantagioni americane stava infatti notevolmente aumentando. A questo riguardo è opportuno tener presente che in Europa, proprio a partire dal Seicento, la produzione di miele era fortemente diminuita a causa dei diboscamenti, e della conseguente riduzione del numero degli alveari e delle api. Lo zucchero veniva dunque a sostituire un alimento che si stava facendo raro, e rispetto al quale aveva anche il vantaggio di consentire la conservazione della frutta e di rendere possibile la manifattura di marmellate. A dimostrare l’importanza assunta dalla canna da zucchero a partire dalla seconda metà del Seicento ricordiamo che gli olandesi cedettero New York all’Inghilterra (1664) in cambio di campi di zucchero nel Suriname, mentre nel 1763 la Francia abbandonò il Canada agli inglesi in cambio della Guadalupa, atta alla coltivazione dello zucchero. Aggiungo ancora che dal punto di vista della storia economica lo zucchero costituisce un esempio interessante dei rapporti di produzione tra centro europeo e periferia tropicale. Mentre infatti la coltivazione e la frantumazione, affidate rispettivamente alla manodopera importata dall’Africa e ai macchinari importati dall’Europa, avevano luogo in America, la raffinazione e il controllo commerciale erano in mani esclusivamente europee. Anche la storia del mais si lega a quella della tratta degli schiavi. Esso fu infatti introdotto nel Seicento in Africa dai portoghesi con lo scopo di poter disporre a basso prezzo del cibo necessario al mantenimento degli schiavi durante il traversata oceanica. Così mentre gli schiavi venivano trasferiti dall’Africa all’America per coltivare lo zucchero originario dell’Asia, il mais originario dell’America veniva trasferito in Africa per consentire il commercio dello zucchero in Europa. Il mais fu accettato rapidamente in Africa perchè cresceva in fretta e la sua coltivazione non richiedeva né l’aratro, né l’animale da lavoro. Era sufficiente l’uomo con la zappa. Esso aveva inoltre una resa energetica pari a 3 volte quella del frumento (13 quintali per ettaro, contro i 4 del grano, parlo di allora, cioè prima dell’invenzione dei concimi chimici e delle tecniche di ibridazione, alle quali accenneremo più avanti) Anche la banana, trasferita in America del Sud fin dal Cinquecento, come si è detto più sopra, fu utilizzata a partire dal Seicento come cibo per gli

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schiavi che lavoravano nelle piantagioni di zucchero delle Antille e delle coste tropicali adiacenti. Come si vede, ogni trasferimento è collegato agli altri. A questo riguardo vorrei far notare come sia insita nella monocoltura stessa (è il caso della piantagione di canna da zucchero in America per l’esportazione in Europa, o della piantagione di mais in Africa per nutrire gli schiavi destinati all’America), la necessità di trasferimenti di altre monoculture (per esempio, la banana per nutrire gli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di canna). Le Antille e il Brasile furono forse le prime società nella storia del mondo ad essere dipendenti, per la loro sopravvivenza, dal trasferimento di cibo. Come vedremo, anche in seguito la monocoltura, spesso frutto di un trasferimento, porta come conseguenza altri trasferimenti e altre monocolture. c) Da metà Settecento a fine Ottocento. Assistiamo a una grande novità. Nel trasferimento delle piante si introduce la scienza. La pratica non basta più. Occorrono ricerche sperimentali razionalmente programmate per poter effettuare nuovi trasferimenti. I primi segnali in questo senso arrivano dalla Francia. Il nuovo spirito può essere sintetizzato dalle convinzioni dello scienziato René-Antoine Ferchault de Réaumur. A suo parere l’obiettivo del naturalista deve essere quello di individuare gli organismi utili, di ricercare quindi i loro analoghi e di vedere se tra questi ve ne sia alcuno da cui poter trarre gli stessi vantaggi. Un nuovo ruolo per il botanico, dunque. Che si stacca dalla sua tradizionale posizione, strettamente legata (come si è detto prima) alla medicina, e viene trascinato verso la sfera dell’economia e del potere politico fino al punto da assumere una funzione molto lontana da quella di partenza. Le due nazioni in cui l’intesa tra botanica e potere politico ed economico si concretizza in maniera più palese e nello stesso tempo più efficace sono la Francia e l’Inghilterra dove già a partire dalla seconda metà del 600 i naturalisti, e più in generale gli scienziati, si sono costruiti, con la fondazione della Royal Society di Londra (1660) e dell’Académie des Sciences di Parigi (1666), gli strumenti in grado di consentire loro di indagare sulla natura e sulle sue leggi. In un primo tempo è la Francia di Luigi XIV e di Colbert ad offrire agli scienziati il terreno più adatto per soddisfare le loro esigenze intellettuali. All’Académie des Sciences, che dipende strettamente dalla corona si affianca l’Orto Botanico - Jardin des Plantes - che intorno ai primi decenni del Settecento incomincia a perdere il suo carattere strettamente medico e si

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trasforma in un centro per lo studio delle piante con una visione più ampia e generale: all’interno di esso vengono infatti avviati studi sulle diverse specie, sui tipi di terreni e di climi più adatti allo loro coltura e sulle norme necessarie per tentare il loro trasferimento e la loro naturalizzazione, sia in patria, sia nei possedimenti d’oltremare. Già dagli anni Venti vi si compiono, per iniziativa congiunta del sapere scientifico e del potere politico, una serie di esperimenti sul caffè (ricordo che il caffè è originario dell’Etiopia). Tali esperimenti portano come risultato all’invio, avvenuto nel 1723, nelle colonie della Martinica e della Guadalupa di alcune decine di piantine dalle quali discenderà poi buona parte dei milioni di alberi che dai territori francesi d’oltreoceano riforniranno, nel corso di tutto il periodo che va dalla metà del Settecento alla metà dell’Ottocento, l’Europa illuminata della sua bevanda più rappresentativa. E proprio mentre nelle colonie del Nuovo mondo le piantagioni di caffè saranno causa dei più brutali sconvolgimenti per le società e le economie locali e alimenteranno inoltre sempre più prepotentemente il commercio degli schiavi, in Europa le botteghe di caffè diventeranno rapidamente la sede privilegiata delle discussioni, dei dibattiti e delle riunioni degli uomini colti e democratici. A questo riguardo ricordo che la pianta diede il nome anche al periodico riformatore, intitolato appunto “il Caffè”, fondato nella Milano illuminata dell’imperatrice Maria Teresa da Pietro Verri nel 1764. Aggiungo ancora che l’altra bevanda di origine americana tipica del salotto settecentesco fu il cacao. Anch’esso, come il caffè, fa parte delle piante che non si riuscì a naturalizzare in Europa. Si riuscì però a portarlo in Africa occidentale (che oggi è il maggior produttore). Sia in Africa che in America esso fu coltivato nelle grandi piantagioni dagli schiavi. Il cacao fu utilizzato dagli Europei mescolato ad acqua e latte come bevanda (il cioccolatte) fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando le tecnologie per la preparazione degli alimenti consentirono di consumarlo anche in forma di cibo solido. Tornando al caffè vorrei aggiungere che esso non trasmigrò solo in America. Fu portato in Asia dagli olandesi, che lo introdussero a Giava e in Shri Lanka. Poi fu la volta degli inglesi che a partire dagli anni Trenta dell’800 deportarono molti lavoratori Tamil dall’India meridionale a Ceylon, con lo scopo di utilizzarli nelle piantagioni di caffè. Questa deportazione fu all’origine di una serie di gravi sconvolgimenti sociali, le cui ripercussioni si sono allungate fino a oggi.

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Ma torniamo al Settecento e alla Francia, ossia al nesso tra scienza e trasferimento delle piante. Un momento importante è costituito dagli esperimenti compiuti a partire dagli anni Quaranta direttamente nei possedimenti francesi dell’Oceano Indiano. Gli scienziati attori sono: Pierre Poivre e Philibert Commerson. Lo scopo è quello di trasferire le spezie dall’estremo oriente alle isole mascarene. Il progetto viene ufficialmente avviato nel 1748 a Ile de France (oggi Mauritius) presso il giardino coloniale appositamente creato. Che in pochi anni diventa il centro di raccolta, selezione e distribuzione delle spezie orientali, e più in particolare dei chiodo di garofano e della noce moscata. Queste piante verranno, dopo gli esperimenti compiuti nel giardino, introdotte nelle colonie francesi di Madascar e a Bourbon (oggi La Reunion). Tali esperimenti, così incoraggianti dal punto di vista economico e scientifico, si interrompono però quasi subito e non trovano alcun seguito. Il governo francese, che li ha patrocinati, si rende infatti conto di non avere interesse a proseguirli. Gli investimenti in ricerche sulle piante, richiedono, per essere remunerativi, il possesso di dominii coloniali sufficientemente estesi da poter garantire, attraverso le applicazioni delle conoscenze acquisite, un profitto sicuro. Non è il caso della Francia, che, anzi, sconfitta nella Guerra dei Sette Anni (1754-63), assiste proprio in quegli anni al crollo del suo impero coloniale. La scienza francese è costretta a cambiare direzione e, come vedremo più avanti, a rivolgere altrove i suoi interessi. Tocca così all’Inghilterra, che esce vittoriosa dalla Guerra dei Sette Anni e che da ora in avanti dominerà incontrastata sugli oceani di tutti i continenti, assumere il ruolo di guida nel campo della ricerca naturalistica. Indubbiamente indicativa della mutata situazione è la nascita nel 1764 dei due giardini botanici inglesi alle isole caraibiche di Saint Vincent e Saint Thomas. Ma ulteriore e più chiaro segnale del cambiamento in corso sono i risultati ottenuti a seguito del primo viaggio intorno al mondo compiuto da James Cook tra il 1768 e il 1771. A bordo con lui è il naturalista Joseph Banks, che al suo ritorno mette a disposizione del governo inglese le numerose osservazioni compiute nel corso del viaggio, proponendo una serie di fortunate iniziative economiche, tra cui l’allevamento delle pecore merinos in Australia. E’ sua inoltre la proposta di introdurre l’albero del pane da Tahiti alle colonie inglesi d’America con lo scopo di utilizzarlo come alimento base per

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gli schiavi neri trasferiti dall’Africa per lavorare nelle piantagioni di zucchero delle Antille britanniche. Un primo invio di piantine, trasportate sul vascello Bounty, non giungerà però a destinazione; pare anzi che esse siano state la causa dell’ammutinamento dell’equipaggio: per i marinai della nave infatti l’acquascarseggiava e veniva severamente razionata allo scopo di consentire la sopravvivenza del prezioso carico vegetale conservato nella stiva. Il progetto di gran lunga più vantaggioso tra tutti quelli ideati da Banks è però quello relativo alla trasformazione dei Giardini Reali di Kew, fondati vicino a Londra dalla principessa Augusta attorno a metà Settecento, da giardini di piacere a centro di ricerca scientifico-botanica. Lo scopo è quello di avere a disposizione una struttura adatta allo studio e alla coltivazione delle piante vive secondo le nuove metodologie scientifiche messe a punto, come si è visto, dai naturalisti francesi: un centro, in altri termini, in grado di coordinare, sulla base di schemi razionali e programmati, tutti gli esperimenti diretti ad accertare la possibilità di trasferire piante ritenute utili da un continente all’altro dell’impero. Gli esperimenti compiuti a Kew furono numerosissimi. Essi esulano perlopiù dal campo alimentare, per entrare piuttosto in quello della produzione manifatturiera (tessile e non) o in quello dell’apparato militare. Un caso tuttavia ci interessa direttamente: le conoscenze scientifiche raggiunte attraverso gli studi effettuati a Kew sono infatti all’origine del trasferimento del tè dalla Cina all’India. Tale trasferimento fu effettuato dietro iniziativa della Compagnia delle Indie Orientali che si rivolse al botanico Robert Fortune. Fortune non era un naturalista istituzionale, e però derivava le sue conoscenze dal patrimonio scientifico costruito a Kew, sulla base del quale era riuscito a scoprire che la differenza tra tè nero e tè verde non è dovuta, come aveva decretato più di un secolo prima il botanico svedese Carlo Linneo, ad appartenenza a specie distinte, ma a diverso trattamento cui vengono sottoposte le foglie della stessa specie L’incarico affidato a Fortune dalla Compagnia di trasferire il tè dalla Cina all’India venne portato a termine con successo nel 1851 con l’arrivo in India attraverso il porto di Hong Kong, divenuto proprio allora britannico, di 2.000 piantine e di 17.000 semi di tè, corredati delle necessarie informazioni relative al loro habitat e inoltre accompagnati da alcuni uomini esperti nella loro coltivazione. I risultati economici dell’operazione non si fecero attendere: nel giro di qualche anno il tè cinese fu sostituito sulle tavole europee da quello

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proveniente dalle grandi piantagioni di Darjeeling, Assam e Ceylon. Senza la base scientifica fornita dagli esperimenti effettuati dai botanici il trasferimento non sarebbe potuto avvenire. La Francia, che, come si è visto, era stata costretta a rinunciare alla ricerca finalizzata al trasferimento di piante da un continente all’altro, non rinunciò tuttavia ad applicare i risultati della ricerca scientifica per incrementare la produzione alimentare all’interno dei propri confini. Un esempio di tale applicazione ci è fornito dall’attività svolta da Antoine-Augustin Parmentier negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento con lo scopo di avviare e di diffondere sul suolo francese la coltivazione della patata. Ricordo che la patata era giunta in Spagna all’inizio del Cinquecento, ma si era diffusa in Europa soltanto come curiosità, e non come pianta alimentare. Anzi in un primo tempo essa era andata incontro a paure e pregiudizi. Le condizioni ancora per tutto il Seicento non erano favorevoli alla sua diffusione. Ma la situazione muta nel Settecento, in concomitanza con il forte incremento demografico, che caratterizzò tutta l’Europa di allora, e la conseguente necessità di aumentare le rese della produzione agricola. La patata rispondeva perfettamente alla situazione: aveva una resa di più di 30 quintali per ettaro all’anno contro i 4 del grano. Ma il vantaggio in termini di rendimento non avrebbe potuto da solo determinare la diffusione della patata. Per tale diffusione fu necessario infatti un apparato scientifico in grado di selezionare le piante, di identificare il clima adatto, e di individuare i suoli più convenienti. E infine un robusto apparato statale, sufficientemente solido da poter imporre l’introduzione della nuova pianta nella dieta. Parmentier cominciò la sua serie di analisi chimiche nel 1771 e, dopo vari esperimenti, scoprì l’identità dell’amido estratto dalle patate e dal grano. Egli riuscì inoltre a determinare le condizioni climatiche e del suolo più adatte alle patate, scoprendo che le patate crescono nelle situazioni non adatte al grano, e che pertanto esse si integrano con questo, ma non lo sostituiscono. Dopo vari anni, raccogliendo i fili delle sue ricerche e dei suoi esperimenti, pubblicò un trattato sulla patata contente la descrizione delle diverse varietà, le istruzioni sulla piantagione e la coltivazione, consigli su preparazione, cottura e condimento, ricette per fare il pane con la fecola invece che con la farina. Dalla Francia la patata passò all’Irlanda, dove divenne la maggior fonte di sostentamento per le masse contadine, tanto da determinare nel periodo che

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va dalla fine del Settecento alla prima metà dell’Ottocento un aumento vertiginoso della popolazione, che passò da circa 5 a 8 milioni di anime. Nel corso di questo periodo era ripetutamente avvenuto che il raccolto di patate andasse distrutto. E però si era trattato di episodi circoscritti. Episodi che divennero più frequenti a partire da 1840, sfociarono nel 1845 nella perdita totale dei raccolti. Le piantine di patate furono attaccate improvvisamente e tutte quante sterminate. Al posto delle foglie e dei fiori non rimasero che steli appassiti e nerastri. Il problema investì ben presto l’intera isola, tanto che nessuna delle varie qualità di tubero utilizzate in Irlanda restò indenne. La causa di tale catastrofe fu individuata in un fungo di origine americana, noto oggi con il nome di peronospora della patata (Phytophthora infestans). Le condizioni delle popolazioni rurali divennero spaventose. A questo riguardo occorre tenere presente che i contratti agrari erano strutturati in modo da costringere il contadino a mangiare patate e a pagare il fitto ai proprietari con altri generi alimentari. Di fronte alla carestia il governo inglese inviò in Irlanda una Commissione d’inchiesta, incaricata di fare il punto sulla situazione. Ma il muro eretto dai proprietari terrieri rese impossibile l’attuazione di un programma di intervento. Nel 1846 la violenta invasione di Phytophtora si ripeté: la distruzione del raccolto fu totale, al pari dell’angoscia e della desolazione che ad essa seguirono. Dopo che per due anni consecutivi il raccolto era andato completamente distrutto, la situazione degenerò e assunse la dimensione di una vera e propria carestia, una catastrofe energetica di immensa portata, forse la più grave della storia europea. Si verificarono sommosse, disordini e tumulti, ai quali seguirono leggi speciali e repressioni. Il bilancio finale fu la morte per fame e per malattia di più di un milione di individui e un’emigrazione in massa verso l’America che è stata calcolata per gli anni tra il 1847 e il 1854 di oltre un milione e mezzo di persone, molte delle quali perirono per stenti durante la traversata. A seguito di questa catastrofe gli studiosi delle piante, e più in particolare i fitopatologi hanno dedicato nel corso dei decenni a cavallo tra 800 e 900 moltissima attenzione alla malattia della patata e sono riusciti a mettere a punto varietà molto resistenti. Il problema tuttavia ancora oggi non è del tutto risolto. L’altra pianta che si estese nell’Europa del Settecento è il mais che a partire dalla fine del secolo, e nel giro di pochi decenni, si affermò come coltura

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fondamentale nelle campagne dell’Europa centro-meridionale, determinando soprattutto negli Stati balcanici, il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura e contribuendo inoltre al forte aumento della popolazione in Polonia, Ungheria e Stati danubiani. Intorno alla metà dell’800 esso era diventato per i contadini delle zone più povere la base esclusiva dell’alimentazione, mentre il frumento veniva destinato alla vendita. Queste comunità di contadini poveri iniziarono allora a venir colpite dalla pellagra, nota anche come mal della rosa, una malattia mortale dovuta a carenza di vitamina PP (Pellagra Preventing). La presenza nel mais di tale vitamina in forma legata richiede, come sappiamo oggi, la necessità di particolari accorgimenti nelle modalità di assunzione del cereale, accorgimenti che, pur noti alle società precolombiane, non erano stati adottati dalle popolazioni europee dell’epoca. Nell’Italia settentrionale, e più in particolare in Veneto e in Lombardia, dove il mais era stato introdotto a partire dalla fine del Seicento e dove era rapidamente diventato l’unica fonte di sussistenza per la massa dei braccianti e dei coloni, impoveriti dal processo di privatizzazione della terra, la pellagra si diffuse nelle campagne nel corso del 700 e raggiunse la massima diffusione a metà dell’Ottocento: più di 40.000 malati furono contati nel censimento del 1858. Il nuovo Stato nazionale, appena costituito, non seppe intervenire in alcun modo. Fu così necessario aspettare che la dieta dei contadini si arricchisse (anni Venti e Trenta del Novecento) perché la malattia regredisse e infine scomparisse dal nostro paese. Occorre però tener presente che tale malattia colpisce ancora molte zone del mondo. d) Da fine Ottocento a oggi. E’ l’epoca che si caratterizza per una massiccia prevalenza dell’intreccio di scienza e denaro. Il centro della nostra storia si sposta dall’Europa agli Stati Uniti. La pianta più interessata è ancora una volta il mais. Negli Stati Uniti il mais comincia ad essere coltivato a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, quando le innovazioni tecniche consentono la costruzione di aratri sufficientemente robusti e nello stesso tempo maneggevoli da riuscire a estirpare la prateria e sostituirla con grandi piantagioni in parte di frumento e in parte di mais. E’ a cominciare da allora che gli Stati Uniti si sono avviati verso la strada che li ha portati a diventare i primi produttori di mais del mondo. Ma la meccanizzazione dell’agricoltura non è che l’inizio di un nuovo cammino.

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Qualche decennio più tardi vengono sperimentate le prime tecniche di ibridazione, che consentono di selezionare, attraverso l’incrocio tra individui recanti ciascuno determinati caratteri ritenuti interessanti, nuovi individui all’interno dei quali tali caratteri si assommano secondo gli obiettivi ricercati. Senza le tecniche di ibridazione la coltura del mais non si sarebbe sviluppata in maniera così estesa negli Stati Uniti. Apro una parentesi e ricordo che gli Stati Uniti sono oggi il primo produttore mondiale: con più di 150 milioni di tonnellate su un totale mondiale di 500 milioni; vorrei sottolineare inoltre che oggi il mais è diffuso in tutte le zone della terra a clima caldo e temperato: dall’equatore fino al 50° parallelo, dal livello del mare fino a 3000 metri di altitudine, sotto le piogge o in condizioni semiaride, e con cicli di crescita che variano da 3 a 13 mesi. La produzione globale di mais è all’incirca di 500 milioni di tonnellate all’anno con una resa per ettaro che varia da circa 80 quintali per ettaro (nei paesi industrializzati) ai 20 quintali per ettaro dei paesi in via di sviluppo. Più della metà del mais prodotto è utilizzato direttamente come cibo per gli uomini (in particolare in Africa e in America del Sud). Il resto viene destinato agli animali e, in misura molto inferiore, all’industria, sia alimentare che non, per la produzione di zucchero, sciroppi, bevande, chewing-gum, colle, ecc. Ma torniamo agli ibridi, che hanno reso possibili i dati appena elencati. La storia scientifica delle ibridazioni comincia a metà Ottocento con le ricerche di Charles Darwin, ricerche che egli descrisse in maniera molto particolareggiata all’amico Asa Gray, un naturalista americano. Fu un allievo di Gray, William Beal, professore all’Università del Michigan, a proseguire il lavoro (siamo alla fine degli anni 70). Ma i risultati dei suoi studi non furono del tutto soddisfacenti. Il passo successivo fu compiuto da Georg Shull, che era ricercatore in un laboratorio vicino a New York: I risultati delle sue lunghe ricerche, positive sul piano scientifico, si rivelarono però inadatti ad essere applicati sul campo: la produzione di ibridi era ancora troppo costosa. Fu quindi la volta di Donald Jones, della stazione sperimentale agricola del Connecticut, che negli anni 20 del Novecento riuscì finalmente a mettere a punto, grazie alle conoscenze acquisite a seguito della formulazione da parte di Mendel delle leggi sull’ereditarietà dei caratteri, un metodo utilizzabile e vantaggioso per gli agricoltori. Gli esperimenti sull’ibridazione di Jones sfociarono nella effettiva realizzazione del mais ibrido coltivabile con notevole vantaggio dal punto di

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vista della resa. Attraverso una selezione sempre più accurata, consentita da investimenti in denaro sempre più cospicui, fu possibile produrre varietà di mais ad altissima resa e adatte inoltre alle zone climatiche più disparate. Si incorporarono poi speciali caratteristiche, come la resistenza alle malattie e la tolleranza alla siccità; e si svilupparono piante in grado non solo di produrre due o tre pannocchie invece di una, ma nelle quali (piante) le pannocchie si trovavano sistemate sul fusto in modo uniforme allo scopo di agevolare la raccolta meccanizzata. Il prodotto naturale fu così trasformato in un artefatto risultante dall’applicazione delle leggi sull’ibridazione e sulla selezione a fini di profitto L’affermazione sul campo del mais ibrido è iniziata nel 1935 (anno in cui solo l’1% del mais prodotto negli Stati Uniti era ibrido). Oggi tutto il mais prodotto negli Stati Uniti e nei paesi industrializzati è ibrido. Anche in America latina il mais ibrido sta gradualmente prevalendo su quello originario, con grande incremento nella resa. E però con il rischio di aprire il problema del l’impoverimento dal punto di vista della biodiversità. Una accelerazione e una estensione nella selezione dei caratteri vantaggiosi sono state rese possibili negli ultimi decenni con lo sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti, del settore della biologia molecolare. Infatti, mentre gli ibridi possono essere ottenuti soltanto all’interno della stessa specie e dopo lunghi e ripetuti tentativi che si prolungano per anni e anni, con le tecniche molecolari è diventato possibile trasferire in tempi brevi materiale genetico addirittura da una specie all’altra. Anche fra specie lontane, perfino tra animali e piante. La biologia molecolare rende virtualmente possibile il trasferimento di piante di mais (o anche di altre specie) in ogni zona della Terra: è sufficiente infatti corredare una data specie vegetale, dei geni prelevati da un’altra specie vegetale o anche animale, geni in grado di rendere la prima specie resistente al gelo, o alla siccità, o alla mancanza di luce, o a un tipo di suolo piuttosto che a un altro, ecc... La biologia molecolare, meglio nota con il termine di bio-tecnologie o ingegneria genetica, è diventata un affare, un business, di grande importanza dal punto di vista dei profitti. E’ molto difficile valutare le future conseguenze della ricerca transgenica dal punto di vista tecnico-scientifico-biologico.Tanto più per chi non è esperto. Dunque non ne parlerò. Non è qui la sede. E però, prima di concludere, vorrei accennare almeno a una questione: al di làdelle problematiche tecnico-scientifiche riservate agli esperti, esistono

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aspetti sui quali ognuno di noi può provare a riflettere e a farsi un’opinione. A tale proposito desidero accennare ad alcuni punti che suscitano parecchi interrogativi. In primo luogo ricordo, a maggior chiarimento, che le ricerche nel campo della ibridazione, delle quali ho parlato più sopra, erano state effettuate all’interno di istituzioni pubbliche (laboratori, centri, università, ecc.), sostenute e finanziate dalla collettività. Tali ricerche erano di conseguenza collegate con i bisogni e con le richieste della collettività, che veniva inoltre informata dei risultati scientifici man mano raggiunti. Le indagini e gli esperimenti nel campo delle biotecnologie agricole e sanitarie sono invece nelle mani di pochissimi privati: le multinazionali, 15 in tutto, delle quali 13 americane, che investono migliaia di dollari in ricerche orientate alla produzione di organismi geneticamente modificati con lo scopo di incrementare i loro profitti. Tali aziende non hanno alcun obbligo di pubblicare e di diffondere i risultati delle loro ricerche. Esse hanno pertanto hanno rescisso ogni legame con la collettività e con le sue esigenze. Ma non solo: grazie al loro potere economico, esse riescono ad assicurarsi l’appoggio del potere politico che rischia così di trasformarsi (quando non si trasforma) in porta-parola dei loro privati interessi commerciali. In questo modo lo sviluppo delle biotecnolgie, che pure potrebbe contribuire al benessere collettivo, potrebbe rischiare di orientarsi verso un rafforzamento del potere industriale, concorrendo così ad aumentare il divario tra Nord e Sud del mondo. Aggiungo ancora che le multinazionali impegnate nella biotecnologia, possono, allo scopo di tutelare le loro invenzioni, brevettarle, trasformando così la pianta (un bene di tutti, secondo le parole delle Nazioni Unite) in una merce di loro esclusiva proprietà e costringere di conseguenza gli agricoltori a dover dipendere dalla singola multinazionale che detiene il brevetto, per procurasi ogni anno la semente Come è stato detto dallo studioso di storia dell’agricoltura americano Jack R. Kloppenburg, il seme passa così dall’essere prodotto e mezzo di produzione, all’essere solamente prodotto: l’agricoltore, in altre parole, viene privato del mezzo di produzione in quanto deve comprare il seme dalla multinazionale che ne detiene la proprietà e gli resta solo il prodotto (il raccolto). Mi fermerei qui per ora e inviterei a riflettere su come lo sviluppo delle biotecnologie sollevi importanti questioni di ordine economico e politico, e faccia emergere con chiarezza il conflitto tra libertà del potere economico da

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un lato e controllo da parte del potere politico dall'altro, soprattutto per quanto riguarda gli interessi privati nel campo dell’alimentazione mondiale e della salute, due campi che dovrebbero restare nel dominio del potere pubblico. E la preponderanza, che può realizzarsi in alcuni casi, degli interessi privati rispetto al controllo politico potrebbe essere la base di partenza per avviare la comprensione delle dinamiche che sottostanno a determinate scelte scientifiche piuttosto che ad altre.

Agnese Visconti – Università di Pavia

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INDICE

Introduzione pag. 3 Parte Prima pag. 5

Cibo e nostalgia Racconti dall’Africa occidentale sub sahariana Fufu Foufou Foofoo Attièkè Aloko Tò Il Baobab Il Cuscus Acrostico di cibo Il cibo delle feste Testimonianze

Parte seconda pag. 69

Prefazione Il tè in Pachistan La banana in Bolivia Il riso in Costa d’Avorio Il frumento in Marocco Le patate in Polonia Il riso in India Il caffè in Brasile Il pane e lumache in Sardegna Appendice: “Il ruolo delle società umane per le trasmigrazioni delle piante da un continente all’altro “