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1/229 Francesco Coniglione Lezioni di logica e filosofia della scienza Dispense per gli studenti del Corso di laurea in Scienze dell’educazione a.a. 2002-2003

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Francesco Coniglione

Lezioni di logica efilosofia della scienza

Dispense per gli studenti delCorso di laurea in Scienze dell’educazione

a.a. 2002-2003

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INDICE

PREMESSA

Capitolo primoCHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA1. Questioni terminologiche2. L’epistemologia come teoria della conoscenza3. La filosofia della scienza come disciplina autonoma4. Alle origini della filosofia della scienza

Capitolo secondoLE TRASFORMAZIONI DELLA SCIENZA TRA OTTOCENTO E NOVECENTO1. Il mondo secondo Laplace2. Il calore e la termodinamica3. L’elettromagnetismo e l’idea di campo4. La teoria della relatività5. La meccanica quantistica.

Capitolo terzoI CONCETTI E IL LINGUAGGIO DELLA LOGICA SIMBOLICA1. Dalla logica ‘classica’ alla “nuova logica”2. Gli strumenti della logistica

Capitolo quartoLEGGI E TEORIE SCIENTIFICHE1. Le leggi come asserti universali2. La legge scientifica come asserto idealizzazionale3. La Concezione Standard delle teorie scientifiche4. Riduzione e definibilità dei termini teorici

Capitolo quintoINDUZIONE, PROBABILITÀ E CONFERMA1. Differenza tra induzione e deduzione.2. Diverse accezioni della ‘inferenza’ induttiva.3. Diversi approcci all’induzione metodologica.4. L’approccio pragmatico.5. Dalla verificazione alla conferma.6. I problemi della conferma qualitativa e i suoi paradossi

Capitolo sestoSPIEGAZIONE1. La spiegazione dalla preistoria alla storia2. Il modello nomologico-deduttivo3. Le difficoltà del modello e i controesempi4. I modelli statistico-induttivo e statistico-deduttivo

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5. Ambiguità esplicativa e relativizzazione epistemica6. Altri modelli e tipi di spiegazione

Capitolo settimoSPIEGAZIONE E LEGGI NELLE SCIENZE UMANE E PSICOLOGICHE1. Due tradizioni2. Origini e caratteri della contrapposizione tra scienze umane scienzenaturali3. La spiegazione dell’individuale4. Concretezza e idealità nella scienza: Galilei come esempio5. Idealizzazione e valori: Weber come esempio6. Una possibile convergenza: Popper come esempio7. Principio di razionalità e spiegazione nomologico-deduttiva

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Capitolo primo

CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA

1. Questioni terminologiche

In questo capitolo vogliamo porci unadomanda preliminare, concernente lo statuto delladisciplina che ci accingianmo a studiare. In cosaconsiste, cioè, la filosofia della scienza e come possiamo caratterizzarlanell’ambito della ormai vasta famiglia delle discipline filosofiche? È natu-rale che allo scopo di dare una risposta a queste domande è necessarioinnanzi tutto indicare quale sia l’oggetto da essa studiato e, poi, cercare dicapire quali siano le metodologie da essa adoperate, in modo dadistinguerla con chiarezza dalle altre discipline filosofiche che ad essapotrebbero essere accostate. Partiamo innanzi tutto da una constatazione difatto: nella letteratura filosofica locuzioni come “gnoseologia”, “teoria dellaconoscenza”, “epistemologia” e “filosofia della scienza” sono a volte usate,in diverse combinazioni, in maniera interscambiabile, implicitamente oesplicitamente intendendole come sinonime; altre volte sono invecedifferenziate, attribuendo a ciascuna di esse un campo di indagine peculiarerispetto alle altre ed in relazione alla riflessione scientifica.

Il termine col quale la filosofia della scienzapiù spesso viene assimilata è quello di “epistemo-logia”. Esso è stato usato per la prima volta dallostudioso inglese J.F. Ferrier nell’800, per indicare una delle due partifondamentali della filosofia, la seconda essendo costituita dall’ontologia (ometafisica). Tale termine veniva da lui inteso come sinonimo di “teoriadella conoscenza”, però precisando che, a differenza di altri termini usatianche in questa accezione, esso è sempre più riferito alla “teoria dellaconoscenza scientifica.”1 Già si esprime in questa definizione la tensione tra

1 Cfr. J.F. Ferrier, Institutes of Metaphysics, Paris 1854; AA.VV., Mały slownik terminów ipoj´c filozoficznych, Inst. Wyd. Pax, Warszawa 1983; AA.VV., Leksykon Filozofii klasycznej,Tow. Nauk. KUL, Lublin 1997.

Lo statuto della filosofia dellascienza e l’ambiguità termi-nologica

Origine del termine ‘episte-mologia’

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i diversi significati che il termine assumerà nel corso del suo impiego nelpensiero del Novecento.

Ciò dipende anche dalle diverse tradizioninazionali e dall’uso che si è in esse venuto a con-solidare. Così in Italia (e spesso anche in Francia)l’epistemologia tende a collocarsi nel campo della riflessione sul pensieroscientifico, per cui viene assimilata in sostanza alla filosofia della scienza2;sebbene si riconosca che, a rigore, tra esse non possa stabilirsi una perfettarelazione di equivalenza, tuttavia i due termini vengono usati comesinonimi. In tal modo, col termine “epistemologia” si indica di solito«quella branca della teoria generale della conoscenza che si occupa diproblemi quali i fondamenti, la natura, i limiti e le condizioni di validità delsapere scientifico»3. Essa è dunque concepita come «una ‘teoria dellascienza’ che riconosce l’esemplarità del sapere positivo e si propone dianalizzarne metodi e strutture», sostituendo la ormai erosa “gnoseologia”,in piena decadenza a partire dall’idealismo che, con Hegel, ne aveva messoin dubbio lo stesso diritto all’esistenza.4

Diversamente vanno le cose nella tradizionefilosofica anglosassone, nella quale di solito l’epi-stemologia è assimilata alla “teoria della cono-scenza” ed è pertanto distinta dalla filosofia dellascienza. Ad esempio, nell’opera La filosofia, curata da Paolo Rossi, nelcapitolo dedicato alla “Teoria della conoscenza”, l’autore si attiene all’usocorrente nella letteratura di lingua inglese nel «considerare come sinonimi‘teoria della conoscenza’, ‘epistemologia’ e il più arcaico ‘gnoseologia’»5.

2!Per tale assimilazione vedi Pasquinelli, “Filosofia della scienza (epistemologia)”, inEnciclopedia Feltrinelli-Fischer, Feltrinelli, Milano 1972, vol. 14, p. 184. A tale impostazionePasquinelli si attiene anche in Nuovi principi di epistemologia, Feltrinelli, Milano 1974 (6ª ed.). Faeccezione Abbagnano (Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1971), che assimila del tuttoepistemologia e teoria della conoscenza o gnoseologia. In Francia la tradizione comtiana ha fattoassimilare la filosofia della scienza con l’epistemologia già in E. Meyerson (cfr. F. Minazzi,“L’epistemologia tra teoria e storia”, in Storia della Filosofia, diretta da M. Dal Pra, vol. 11, Lafilosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento, tomo I, a cura di G. Paganini, p. 439); vedianche Foulquié (Dictionnaire de la langue philosophique, PUF, Paris 19865, p. 217) e A. Lalande(Dizionario critico di filosofia ISEDI, Milano 196810, pp. 256-7), che distingue chiaramente trateoria della conoscenza ed epistemologia, in quanto quest’ultima «studia la conoscenzadettagliatamente e a posteriori, nella diversità delle scienze e degli oggetti piuttosto che nell’unitàdell’intelletto».

3!Aa.Vv. Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano1981, p. 256. Analogamente inAa.Vv., Enciclopedia filosofica, a cura del Centro Studi di Gallarate, Sansoni, Firenze 1968, p.886): «Benché il termine si trovi tuttora usato in altri significati (teoria del conoscere,gnoseologia), il significato dominante è quello di indagine critica intorno alle scienze naturali ematematiche (‘scienza’ o ‘scienze’ del linguaggio corrente)» (voce redatta da F. Amerio).

4 V. Cappelletti, “Epistemologia”, in Enciclopedia del Novecento, Ist. della Encicl. Italiana,Roma 1977, vol. II, pp. 695-8. Conferma questa tendenza tipicamente italiana la voce “Epistemo-logia” contenuta in D.F. Runes (a cura di), Dizionario di filosofia, Mondadori, Milano 1972, p.291, scritta da Aldo Devizzi, che ha “tradotto ed integrato” l’originale inglese e che identifical’epistemologia in generale con la filosofia della scienza, aggiungendo che «a volte, ma oggi piùraramente, il termine sta ad indicare la teoria della conoscenza, che con più precisione si denominagnoseologia».

5 A. Pagnini, “Teoria della conoscenza”, in La filosofia, a cura di P. Rossi, vol. III, Le

Il significato di ‘epistemolo-gia’ nella filosofia franceseed italiana

Il significato di ‘epistemolo-gia’ nella cultura anglosasso-ne

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Secondo questa interpretazione, dunque, l’epistemologia (sia essa conside-rata solo una branca della teoria della conoscenza o venga con quest’ultimain toto identificata), dovrebbe occuparsi «della natura e degli scopi dellaconoscenza, dei suoi presupposti e delle sue basi e della generaleaffidabilità delle pretese di conoscenza».6 L’epistemologo, da questo puntodi vista, «si occupa non di sapere se o come possiamo affermare diconoscere qualche cosa particolare, ma se siamo giustificati nel sostenere laconoscenza di qualche intera classe di verità o, anche, se la conoscenza è inogni caso possibile»7. E ancora più recentemente si equiparal’epistemologia alla teoria della conoscenza e la si definisce come «labranca della filosofia che concerne l’indagine sulla natura, le fonti e lavalidità della conoscenza. Fra le questioni chiave cui essa tenta dirispondere ci sono: Che cos’è la conoscenza? Come possiamo ottenerla?Possiamo difendere i mezzi che ci permettono di ottenerla dalla sfidascettica?»8. Anche in Polonia, paese che ha avuto in questo secolo un ruolodi primo piano nel campo delle ricerche logico-epistemologiche9, prevalequesto modo di intendere il concetto di epistemologia, sulla base dell’inse-gnamento di Kazimierz Ajdukiewicz, per il quale teoria della conoscenza,epistemologia e gnoseologia sono da intendere come sinonimi, in quantotutti hanno come oggetto ciò che egli chiama la “scienza dellaconoscenza”.10

2. L’epistemologia come teoria della conoscenza

Vediamo ora in che modo è stata concepitatradizionalmente l’epistemologia, considerata nel-l’accezione anglosassone, cioè come teoria dellaconoscenza in generale. Il suo problema centrale consiste nell’individuare icriteri e i caratteri che devono essere presi in considerazione per giungerealla conoscenza del reale. Esso, è di solito articolato in alcuni classiciquesiti:

(a) Che cos’è la conoscenza? discipline filosofiche, UTET, Torino 1997, p. 110.

6 D.W. Hamlyn, “Epistemology, History of”, in The Encyclopedia of Philosophy, NewYork/London, vol. 3, pp. 8-9.

7 Ib., p. 9.8 A.C. Grayling, “Epistemology”, in Blackwell Companion to Philosophy, ed. by N. Bunnin,

E.P. Tsui-James, Blackwell, Oxford 1996, p. 38; vedi anche J. Dancy, Introduction toContemporary Epistemology, Blackwell, Oxford 1996, p. 1; J. Greco, “Introduction: What isEpistemology?”, in J. Greco, E. Sosa (eds.), The Blackwell Guide to Epistemology, Blackwell,Oxford 1999; D.H. Ruben, Explaining Explanation, Routledge, London and New York 1990, pp.2-3; M. Bunge, Exploring the World. Epistemology & Methodology I, vol. 5 di Treatise on BasicPhilosophy, Reidel, Dordrecht 1974-86, pp. 1-3.

9!Cfr. F. Coniglione, Nel segno della scienza. La filosofia polacca del Novecento, Angeli,Milano 1996.

10!Cfr. K. Ajdukiewicz, Problems and Theories of Philosophy, Cambridge Univ. Press, London1973.

I quesisti che si pone l’episte-mologia tradizionale

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(b) Come dovremmo arrivare ad essa?(c) Come ci arriviamo?(d) I processi con cui ci arriviamo sono i medesimi di quelli con cui

dovremmo arrivarci?La concezione tradizionale dell’epistemologia ritiene che:

• La conoscenza sia definibile come credenza vera giustificata: credenza(belief), in quanto essa consiste in uno stato psicologico del soggetto ilquale possiede certe idee (o ‘credenze’), di solito espresse in formaproposizionale (del tipo: “la moglie di mio fratello Giovanni ha i capellirossi”); vera, in quanto tali credenze non possono essere il mero fruttodella fantasia, ma devono in qualche modo rispecchiare o corrispondereo informarci sulla realtà che hanno come oggetto; giustificata, in quantonon è sufficiente che le nostre credenze siano vere (potremmo averazzeccato per caso, come capita con le estrazioni del lotto), ma ènecessario che abbiamo delle ragioni o motivi per ritenerle tali, cioè chesiamo in grado di giustificare perché esse sono vere.

• Sia compito dei filosofi rispondere al quesito (b), concernente il quidjuris, cioè quali siano le regole che bisogna seguire per pervenire allaconoscenza, intesa come credenza vera giustificata (ad esempioproponendo la teoria coerentista della giustificazione e della verità,oppure stabilendo dei criteri di accertamento empirico che dianosufficienti garanzie affinché la credenza cui perveniamo siaeffettivamente giustificata e vera);

• Competa agli psicologi (o anche ai sociologi) la risposta alla domanda(c), concernente il quid facti, ovvero il modo in cui effettivamente sicomportano gli individui nel procurarsi le loro conoscenze (ad es.,potrebbero anche, per sapere che tempo farà domani, leggere nella sferadi cristallo, consultare uno stregone della pioggia o rivolgersi a unmetereologo);

• Sia possibile, infine, effettuare una comparazione tra le risposte datealle domande (b) e (c) in modo da poter anche rispondere alla domanda(d)11.

È tipico dell’epistemologia tradizionale cercare di rispondere a taliquesiti «mediante la riflessione su casi possibili. Gli epistemologidescrivono i casi possibili, consultano le loro intuizioni per sapere se sianoo no in presenza di una conoscenza e decidono su questa base se il casoesaminato dimostri o meno che l’analisi proposta sia errata. Ancora unavolta, il compito è portato avanti solo da un epistemologo seduto inpoltrona, senza l’aiuto della scienza»12. Ciò che è importante rilevare è chefa parte di questo modo di intendere il lavoro dell’epistemologo la tesi che

11 Cfr. H. Kornblith, “Introduction: What is Naturalistic Epistemology?” (1988), in Id. (ed.),Naturalizing Epistemology, MIT Press, Cambridge/London 19942, p. 3.

12 R. Feldmann, “Naturalized Epistemology”. In: Stanford Encyclopedia of Philosophy, ed.2001, § 1, http://plato.stanford.edu / entries / epistemology-naturalized/.

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la risposta alla domanda (c) non ha alcuna rilevanza per la domanda (b).Nessun epistemologo tradizionale si sognerebbe di consultare un libro ditesto di neurofisiologia per sapere, ad esempio, se le nostre credenzepercettive sono affidabili o meno, in quanto la sua domanda sta a monte diquesta stessa consultazione: trarre informazioni da un manuale dipsicologia o neurofisiologia significa già conoscere ed egli si domanda segià questa conoscenza sia conoscenza; per cui l’epistemologia rivendicauna priorità concettuale e metodologica sulla scienza13.

Intesa in tal modo, l’epistemologia assume ilcarattere di una disciplina normativa14; essa,cioè, non si limita a descrivere i processiconoscitivi effettivamente messi in atto dagliindividui (questo è compito, abbiamo visto, dello psicologo o al limite delsociologo), ma indica delle norme sul modo in cui si debbono condurre lenostre attività cognitive allo scopo di ottenere una conoscenza vera egiustificata. Ciò la porta a porsi un compito assai ambizioso: quello ditrovare il fondamento delle pretese di conoscenza avanzate dall’umanità, inogni suo aspetto e campo disciplinare, ivi compreso quello proprio dellascienza naturale. È questa la prospettiva che si chiama “fondazionalistica”:compito dell’epistemologia sarebbe fornire alla scienza una base sicura,una classe di credenze indubitabili, di dati immediati, che stanno afondamento di tutte le altre e sulle quali costruire l’intera conoscenzascientifica15. In tal modo, per così dire, lo scienziato (il fisico, il chimicoecc.) deve richiedere la garanzia di autenticità dei propri risultatiall’epistemologo, che gli rilascerebbe una sorta di certificato attestante illoro carattere di “fondata o giustificata conoscenza”. Il filosofo, dunque, acui spetta il compito della riflessione epistemologica, si pone compiti assaiambiziosi: ambisce alla fondazione della conoscenza scientifica (vista comespecificazione esemplare della conoscenza in generale) in quanto è lui ingrado di risolvere in generale il problema della conoscenza; e ciò deveessere attuato facendo ricorso solo alle proprie forze, solo alla filosofia inquanto filosofia, in un genuino sforzo teoretico che trae le proprieargomentazioni e tesi dalla generale capacità razionale umana. Nella

13 Come afferma J.K. Crumley, «le asserzioni della conoscenza scientifica non possono essereusate nelle indagini dell’epistemologo se esso vuole comprendere come tale conoscenza è inprimo luogo possibile. Non solo il richiamo alla scienza sembra scavalcare la domandaepistemologica, ma la scienza sembra fornire il genere sbagliato di risposta. La scienza descrive espiega; non è affar suo rispondere alle domande normative. La scienza afferma di dirci comestanno le cose. Non ci dice ciò a cui dovremmo credere. Essa in effetti non ci dice, e per alcuninon può dirci, se noi dovremmo credere alla miriade di affermazioni scientifiche». Ne segue che«il metodo scientifico dà per garantito ciò che l’epistemologo vuole spiegare» (“NaturalizedEpistemology”, in Id. (ed.), Readings in Epistemology, Mayfield Publishing Co, Mountain View1999, p. 445).

14 Cfr. J. S. Crumley II, “Epistemology and the Nature of Knowledge”, in Id. (eds.), Readingsin Epistemology, Mayfield Publishing Company, Mountain View (California) 1999, p. 3.

15 E’ su questa accezione di epistemologia, ad es., che viene costruito tutto il discorso‘antifondazionalista’ di Richard Rorty nel suo fortunato volume La filosofia e lo specchio dellanatura (1979), Bompiani, Milano 1986.

Il carattere normativo dell’e-pistemologia e suo atteggia-mento ‘fondazionalistico’: laprima philosophia

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sostanza l’orizzonte problematico in cui si pone l’epistemologia è definitodalla necessità di rispondere alla sfida scettica, dissipando l’ombra deldubbio dalle nostre conoscenze con l’assicurare loro una fondazione certaed indubitabile. Pertanto l’epistemologia viene intesa come una sorta difilosofia fondamentale o prima philosophia, e si pone in perfetta continuitàcon quella sua tradizionale attività che ne ha segnato l’intera storia e che èstata di solito indicata come “problema gnoseologico”. La sua storiaverrebbe così a coincidere tout court con quella del problema dellaconoscenza, ad iniziare dalla grecità classica: la maggior parte dei suoiproblemi sono i medesimi di quelli discussi in dettaglio da Platone,Aristotele e dagli scettici antichi.16

Tuttavia il problema della conoscenza è statoposto in modo esemplare e radicale in età moder-na con il filosofo francese René Descartes (Car-tesio, 1596-1650), che ha posto le fondamenta della epistemologia comebranca autonoma della filosofia e ne ha tracciato le coordinate concettualiche da allora in poi segneranno il dibattito successivo: «l’agendaepistemologica di Cartesio è stata l’agenda dell’epistemologia Occidentalesino ad oggi»17. In essa sono iscritti i problemi epistemologici fondamentaliche da allora in poi tormenteranno i filosofi e costituiranno la carta diidentità della disciplina. Le proposte di Cartesio costituivano unaprospettiva unitaria caratterizzata da: (a) una assunzione fondazionalista:una credenza può essere considerata autentica conoscenza quando è fondatasu di una base indubitabile; (b) da un ideale deduttivista, per cui è possibilequella conoscenza che si può derivare da tale fondamento immune daerrori, così rispondendo al dubbio scettico; (c) dalla conseguente ricetta perottenere autentica conoscenza: dobbiamo scartare tutte quelle credenze chenon siano immuni da dubbi o che non possono essere a queste ricondottemediante una catena inferenziale18. Era questa una proposta che risentivaancora di un insufficiente sviluppo del pensiero scientifico, per cui eramodellata più sulla matematica che sul metodo delle scienze empiriche.Tuttavia in essa sono contenuti i temi che da allora hanno affaticato i teoricidella conoscenza: il riconoscimento dei contenuti della coscienza (le“idee”) quale punto di partenza del processo conoscitivo e quindi ilproblema del rapporto o “ponte” tra il soggetto e l’oggetto, con la connessaesigenza di rinvenire i criteri che possono assicurare la corrispondenza traconcetti e realtà.

L’impostazione cartesiana ha talmente segnato l’epistemologia classica

16 J. Chisholm, The Foundations of Knowing, Harvester Press, Brighton 1982, p. 109. Non acaso Pagnini (op. cit., pp. 113-6), identificando epistemologia e teoria della conoscenza, facoincidere poi quest’ultima integralmente col tentativo di rispondere alle sfide dello scetticismo.

17 J. Kim, “What Is ‘Naturalized Epistemology’?”, in J.S. Crumley II (ed.), op. cit., p. 467. Ipiù rappresentativi epistemologi del Novecento che ancora rimangono fedeli al programmacartesiano sono da Kim ritrenuti B. Russell, C.I. Lewis, R. Chisholm e A.J. Ayer.

18 Cfr. H. Kornblith, “In Defense of a Naturalized Epistemology”, in J. Greco & E. Sosa, eds.,The Blackwell Guide to Epistemology, Blackwell, Malden MA / Oxford 1999, p. 159.

Origini cartesiane dellaepistemologia, come ‘giudice’nei confronti della scienza

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da esser visto nel suo abbandono una svolta radicale o addirittura la sua“morte”, causata in primo luogo dalle critiche ad essa portate dai cosiddettiteorici “antifondazionalisti”. Questi, infatti, criticano e delegittimanol’epistemologia in quanto vedono in essa «una disciplina non empirica, lacui funzione è di sedere in giudizio circa tutte la pratiche discorsiveparticolari in vista di determinarne lo statuto cognitivo. L’epistemologo[…] è un professionista attrezzato in modo da determinare quali forme digiudizio sono ‘scientifici’, ‘razionali’, ‘meramente espressivi’ e così via»19.Essi contestano, insomma, la tendenza tipica dell’epistemologo adassumere il carattere di giudice nei confronti della scienza, dichiarandolapriva di valore conoscitivo qualora non si attenga ai criteri e ai desideratada esso stabiliti.

3. La filosofia della scienza come disciplina autonoma

Coloro che propendono, invece, ad assimilarel’epistemologia alla filosofia della scienzaintendono quest’ultima come una disciplina ingran parte autonoma rispetto alla gnoseologia ealla teoria della conoscenza, assegnandole un preciso compito ed ambito:«Scopo di tale disciplina non è tanto costituire un fondamento oppureun’estensione delle scienze quanto piuttosto affrontare o descrivere ilproprio oggetto – cioè le scienze stesse – dal punto di vista metodologico ecritico. Ciò a cui i filosofi sono interessati è quindi descrivere l’attivitàscientifica isolandone quelle che considerano le proprietà generali e leforme caratteristiche, analizzando concetti usati non tanto dagli scienziatinel loro lavoro quanto dai filosofi nel descrivere ciò che gli scienziati fanno[…]!Scopo della filosofia della scienza sarebbe, in questo caso, ricostruirein modo razionale i metodi impiegati dalla scienza oggetto della propriaconsiderazione»20. È evidente che in questo caso la filosofia della scienzaviene considerata come un’attività “riflessa”: l’analisi dei concetti adoperatidalla scienza e dei risultati cui essa perviene (quali leggi e teorie) è il datodi partenza per arrivare a delle considerazioni sul modo di procedere degliscienziati, sulla natura delle loro asserzioni e sul metodo da essi adoperato.Non a caso, in riferimento a tale precipuo suo carattere metadiscorsivo, ci siriferisce alla filosofia della scienza anche col nome di “metascienza” o di“scienza della scienza”21.

19!M. Williams, “Death of epistemology”, in A Companion to Epistemology, ed. by J. Dancy

and E. Sosa, Blackwell, Oxford 1992, p. 89.20!R. Lanfredini, “Filosofia della scienza”, in La filosofia, a cura di P. Rossi, vol. I, L e

discipline filosofiche, UTET, Torino 1997, p. 70.21!Cfr. D. Oldroyd, Storia della filosofia della scienza, Il Saggiatore, Milano 1989, pp. 4-5.

Assimilazione della ‘e-pistemologia’ alla filosofiadella scienza e suo caratteremetadiscorsivo

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Intesa in tal modo, l’epistemologia rivendicaun’autonomia disciplinare e scientifica rispettoalla teoria della conoscenza o alla “gnoseologia”,termine più tradizionalmente impiegato nei ma-nuali di storia della filosofia. Tale piena autonomia è stata rivendicata inparticolare per la prima volta nella filosofia tedesca del XIX secolo, che haintrodotto la distinzione tra Wissenschaftlehre [dottrina della scienza] eErkenntnislehre [dottrina della conoscenza]: la prima stava appunto adindicare l’epistemologia intesa come metodologia o teoria della ricercascientifica, mentre la seconda veniva ad indicare la tradizionale filosofiadella conoscenza (o gnoseologia).22

Tale emancipazione dell’epistemologia dallasua progenitrice filosofica, la gnoseologia, non ètuttavia un processo lineare. Così, ad esempio,può capitare che un autore come Bertrand Russell, che pure ha inteso lapratica della filosofia in stretta connessione con l’indagine scientifica,ancora agli inizi del secolo tenda a intendere l’epistemologia come meragnoseologia: «Il problema centrale dell’epistemologia è il problema didistinguere tra le credenze vere e quelle false, e di trovare, in quanti piùcampi è possibile, criteri di credenza vera all’interno di quei campi», percui «possiamo definire l’epistemologia nei termini di questo problema, cioècome l’analisi della credenza vera e falsa e dei loro presupposti, insiemecon la ricerca di criteri di credenza vera»23. Ne consegue che la teoria dellaconoscenza non deve presupporre una conoscenza della fisica, la qualeserve semmai a “saggiare” la nostra epistemologia e non a fornire lepremesse su cui essa dovrebbe costruirsi. Insomma, la scienza, secondoquesta prospettiva “gnoseologistica”, avrebbe dovuto essere fondata nel suovalore conoscitivo dalla gnoseologia generale.

Tale impostazione muta, però, all’esordiodell’epistemologia contemporanea, che possiamofar coincidere con le attività dei filosofi afferenti ovicini al Circolo di Vienna, fondato da Moritz Schlick nel 1929. Benché nelsuo seno venga spesso ancora adoperata la locuzione “teoria dellaconoscenza” (o “gnoseologia”), nell’epistemologia si tende a vederesempre più, non lo studio della conoscenza in generale, bensì di quel suoparticolare tipo che viene esemplarmente incarnato nella scienza.24 Essa,pertanto, assume come dato di fatto che la scienza sia la forma conoscitivapar excellence, che ha dato prova concreta di sé nella spiegazione ecomprensione della natura e nei risultati tecnici conseguiti, sicché compito

22 Cfr. M. Hempoliƒski, Filozofia współczesna. Wprowadzenie do zagadnieƒ i kierunków [La

filosofia contemporanea. Introduzione ai problemi ed agli indirizzi], PWN, Warszawa, 1989, p.349.

23 B. Russell, Teoria della conoscenza (1913), Newton, Roma 1996, p. 120.24 Cfr. W. Gasparski, “Teoria poznania” [Teoria della conoscenza], in Filozofia a nauka

[Filosofia e scienza], Ossolineum Wrocław et al. 1987, p. 708.

La rivendicazione dell’auto-nomia della epistemologiarispetto alla gnoseologia

La posizione ancora ambiguadi Russell

La svolta con il Circolo diVienna

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del filosofo (che così si identifica con l’epistemologo) è capirne la strutturae il modus operandi, senza pretendere di prevaricarla o influenzarla nei suoicontenuti specifici. In tale approccio era implicita (ma spesso ancheprogrammaticamente dichiarata) la speranza che, una volta compreso l’ar-cano che rende la scienza conoscitivamente efficace, fosse possibile poiapplicarlo agli altri campi dell’umana attività pratico-teorica. In tal modo ilrapporto viene capovolto: non è la gnoseologia a giudicare della scienza,ma l’epistemologia a giudicare di ogni pretesa conoscitiva diversa da quellaincarnata nella scienza.

La ridefinizione del compito dell’epistemologia avviene, per HansReichenbach, in seguito alla crisi dell’impostazione trascendentale kantiana(da lui criticata): compito dell’epistemologia «non sarà più, come Kantpretendeva, l’indagine critica della ragion pura, bensì l’analisi logica dellaconoscenza scientifica concretamente data»;25 la critica al kantismo porta a«introdurre il “metodo della analisi della scienza” nell’indaginegnoseologica, anticipando la concezione della filosofia che verrà fattapropria dai Circoli di Vienna e Berlino».26 La transizione dalla teoria dellaconoscenza (o gnoseologia) al significato più tecnico di epistemologia èchiaramente espresso all’atto di fondazione della rivista ufficiale delCircolo di Vienna, “Erkenntnis”, quando uno dei suoi più significativiesponenti, Rudolf Carnap, enuncia il compito e i caratteri del “nuovometodo scientifico di filosofare” di cui la rivista si vuole fare portatrice.Esso infatti «potrebbe forse essere molto brevemente caratterizzato comeanalisi logica degli enunciati e dei concetti della scienza empirica. Con ciòsono indicati i due principali contrassegni che distinguono questo metododa quello della filosofia tradizionale. Il primo consiste nel fatto che questofilosofare si svolge in stretta connessione colla scienza empirica, e ingenere solo con essa, in modo che non viene più riconosciuta una filosofiacome particolare settore di conoscenza, accanto o al di là della scienzaempirica. Il secondo indica in che cosa consiste il lavoro filosoficoriguardante la scienza empirica: consiste nella chiarificazione dei suoienunciati mediante l’analisi logica; più particolarmente: nellascomposizione degli enunciati in parti (concetti), nella riduzione gradualedei concetti a concetti più fondamentali, e nella riduzione graduale deglienunciati a enunciati più fondamentali»27. Qualche anno dopo, nella

25 P. Parrini, “Empirismo logico e filosofia della scienza”, in Storia della filosofia, a cura di M.Dal Pra, Piccin-Vallardi, Padova, vol. 10, 2ª ed., p. 434.

26 Ibidem.27 R. Carnap, Sintassi logica del linguaggio (1934), Silva, Milano 1966, pp. 3-4. Con ciò

Carnap abbandona il vecchio progetto fondazionista che aveva ancora coltivato nella suaCostruzione logica del mondo (1928), nella quale si proponeva il compito di fornire unafondazione della scienza su solide basi non metafisiche, coll’adottare un punto di vistafenomenistico, con ciò assegnando ancora alla filosofia, per quanto resa scientifica, il compitogiustificare il valore conoscitivo della scienza. Tuttavia quest’opera, benché pubblicata nel 1928,cioè dopo lo stabilimento del suo autore a Vienna (avvenuto nel 1926) e quindi quando giàpartecipava alle attività del Circolo di Vienna, era stata già finita nel 1925 ed ancora risentivadelle discussioni e dei progetti fondazionali che negli anni 1923-1926 egli coltivava insieme al suo

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Sintassi logica, l’epistemologia coincide tout court con la logica dellascienza.28

All’incirca negli stessi anni Popper, dopo averidentificato (nel volume che raccoglie quantorimasto del manoscritto preparatorio alla Logicadella scoperta scientifica) la teoria della conoscenza con l’epistemologia,intende poi quest’ultima come teoria generale del metodo delle scienzeempiriche: «La teoria della conoscenza è scienza della scienza: sta allescienze empiriche speciali come queste stanno alla realtà empirica.»29

Recuperando in una sua accezione peculiare il trascendentale kantiano,Popper sostiene che «le asserzioni e le costruzioni dei concetti propri dellateoria della conoscenza devono essere messe criticamente alla prova in baseal procedimento effettivo di fondazione in uso nelle scienze empiriche; esoltanto questo controllo trascendentale è in grado di decidere del destino ditali asserzioni.»30

La scienza non deve essere messa in discussione dalla filosofia, né tantomeno da essa giustificata; è piuttosto il contrario, in quanto la conoscenzascientifica è un faktum, come aveva per primo indicato Kant, che la teoriadella conoscenza non deve e non può mettere in dubbio, ma solo spiegare.31

Ne segue l’intento esplicitamente antifondazionista di Popper, in quanto asuo avviso la teoria della conoscenza «non si propone di fondare nessunaconoscenza: essa si attiene al punto di vista che ogni scienza - non importase si tratti di una scienza speciale o della teoria della conoscenza - deveprendersi cura di se stessa: ogni scienza deve giustificare da sé le sueproprie asserzioni, deve fornire da sé i fondamenti delle proprie cono-scenze, indipendentemente dal fatto che si tratti di un fondamento ‘ultimo’o di un fondamento ‘primo’; infatti soltanto attraverso la fondazione meto-dica delle proprie asserzioni una scienza diventa scienza.»32

Nella Logica della scoperta scientifica di qualche anno dopo taletransizione, benché non più collegata alla ripresa dell’impostazione trascen-dentale, viene ribadita, per cui si afferma con nettezza che «[…] l’episte-mologia, o dottrina della scoperta scientifica, dev’essere identificata con la

interlocutore principale, Hans Reichenbach. Sicché, contrariamente a quanto di solito si sostiene,quest’opera non può essere considerata una tipica espressione del positivismo logico comevenutosi a formare a Vienna, bensì un’opera di transizione, le cui tesi più caratteristiche saranno inseguito profondamente reinterpretate e modificate. Cf. per tale approccio all’opera di Carnap ilfondamentale volume di R. Cirera, Carnap and the Vienna Circle. Empiricism and LogicalSyntax, Rodopi, Amsterdam / Atlanta 1994, pp. 1-42.

28 Cfr. R. Carnap, “Von Erkenntnistheorie zur Wissenschaftslogik”, in Actes du CongrésInternationale de Philosophie Scientifique, Sorbonne, Paris 1936. Vol. 4, Induction et Probabilité,Hermann, Paris 1936, p. 430. [Trad. inglese come “Truth and Confirmation” in: Feigl & Sellars1949: 119-27]

29 K. Popper, I due problemi fondamentali della teoria della conoscenza (1930-33), IlSaggiatore, Milano 1987, p. 8.

30 Ib., p. 58.31 Cfr. ib., p. 59.32 Ib., p. 111.

La fondazione della episte-mologia come teoria dellascienza su base trascen-dentale in Popper

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teoria del metodo scientifico»33, in quanto solo lo studio di quest’ultimopuò gettare lumi sulla crescita della conoscenza, che ha costituito da sem-pre l’oggetto dell’epistemologia. Con ciò viene affermato con decisione ilcarattere paradigmatico attribuito alla scienza come luogo di massima rea-lizzazione della conoscenza e della razionalità umana e viene sanzionato ilnuovo significato di epistemologia: «Il problema centrale dell’epistemolo-gia è sempre stato, e ancora è, il problema dell’accrescersi della conoscen-za. E l’accrescersi della conoscenza può essere studiato, meglio che in qual-siasi altro modo, studiando l’accrescersi della conoscenza scientifica».34

È proprio questo il significato con cui hannointeso la “teoria della conoscenza” – come ancoraveniva spesso definita – coloro che le hanno datoorigine, fondandola su basi logico-linguistiche, cioè sia quei filosofi, logicie scienziati che si è soliti, con una certa semplificazione, riunire sotto lacomune denominazione di “neopositivisti” (oppure “neoempiristi” o “empi-risti logici”), sia chi a tale impostazione si è con più vigore opposto (comePopper); e ciò allo scopo di chiaramente demarcare scienza e metafisica,razionalità logico-analitica e razionalità storico-dialettica. Dunque, un pro-gramma che consuma al suo interno i residui fondazionistici che glipervenivano dalla tradizione della vecchia gnoseologia (e la cui perma-nenza è presente in alcuni suoi antesignani, come abbiamo visto conRussell, e rappresentanti, come Schlick, ed in alcune particolari fasi delpensiero di altri) per porsi con sempre maggiore chiarezza su di un piano dianalisi alternativo a quello fondazionalista - diversamente da quanto hannosostenuto recentemente Quine, Rorty e Giere35 - che invece era stato tipicodella teoria della conoscenza intesa tradizionalmente. Come affermaFriedman, «i positivisti logici […] hanno respinto con forza una concezionefondazionalista della filosofia rispetto alle scienze speciali. Non v’è alcunpunto privilegiato dal quale la filosofia possa sottoporre a giudizioepistemico le scienze speciali: si ritiene piuttosto che essa debba teneredietro alle scienze speciali in modo da rettificare se stessa in risposta airisultati da esse acquisiti.»36. Una posizione del resto ben documentata negliscritti dei maestri del neopositivismo, per i quali era ben chiaro, comesostiene Reichenbach in polemica con l’impostazione neocriticista, che «lapretesa secondo cui la gnoseologia dovrebbe giustificare gli ultimifondamenti della conoscenza della realtà, nello sviluppo storico della teoria

33 K. Popper, Logica della scoperta scientifica (1934), Einaudi, Torino 1970, p. 32.34 K. Popper, “Prefazione alla prima edizione inglese”, in Id., Logica della scoperta scientifica,

cit., p. xxii. Corsivo di Popper.35 Vedi W.V.O. Quine, “L’epistemologia naturalizzata”, in Id., La relatività ontologica e altri

saggi, Armando, Roma 1986; R. Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit.; R.N. Giere,Spiegare la scienza (1988), Il Mulino, Bologna 1996, pp. 47-8.

36 M. Friedman, “The Re-evaluation of Logical Positivism”, in Journal of Philosophy, 88(1991), p. 515. Invece J. Kim (op. cit., p. 469) ritiene il positivismo logico come un movimentotipicamente fondazionalistico in quanto per esso l’osservazione serve a fondare non solo laconoscenza ma anche ogni significato cognitivo e quindi costituisce un fondamento siaepistemologico che semantico.

L’epistemologia intesa inmodo antifondazionista nelneopositivismo

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della conoscenza si è dimostrata insostenibile»37; onde l’avvertenza che«per la teoria della conoscenza non può esservi altro procedimento chestabilire quali siano i principi di fatto impiegati nella conoscenza».38 Sonoqueste le ragioni che ci hanno portato ad indicare nell’elaborazione teoricadel Circolo di Vienna la nascita della vera e propria epistemologia nelsenso odierno, distinta dalla gnoseologia o teoria della conoscenza, ovverocome vera e propria filosofia della scienza.

Non è quella sinora esposta una semplice questione terminologica. Nonsi tratta di escogitare una nuova etichetta per un contenuto che rimanesostanzialmente immutato, ma di definire un nuovo ambito disciplinare, unnuovo modo di guardare al lavoro della scienza e della filosofia. Se infattisi assimilano epistemologia e filosofia della scienza, allora bisognadecidersi per quale delle due accezioni prima esaminate si intende optare(se per la versione “normativa” o per quella “descrittiva”); se invece le sidistingue potrebbero ben esser conservati tali due modi diversi di intenderle(assegnando all’epistemologia un carattere normativo ed alla filosofia dellascienza uno descrittivo), attribuendo a ciascuno di essi un suo ambito, unsuo scopo ed una sua dignità teorica. Infatti, dal modo in cui si concepiscela filosofia della scienza e l’epistemologia (ma anche la gnoseologia e lateoria della conoscenza) derivano anche le diverse strategie che necaratterizzano il lavoro teorico, le soluzioni che di conseguenza ci si puòaspettare e i diversi giudizi che si possono dare circa l’adeguatezza dei lororisultati. Così, per riprendere il caso prima citato, un’impostazioneantifondazionalista non può che presupporre un modo particolare diconcepire l’epistemologia, assai simile a quello che abbiamo visto è stato ilmodo di intendere la filosofia della scienza. Non bisogna dunque lasciarsisviare dalle etichette e così criticare, in quanto “fondazionalista”, chi ineffetti aspira a praticare una sobria filosofia della scienza, per il solo fattoche questi si riferisce al proprio lavoro col termine di “epistemologia”,inteso dal critico nella sua accezione di “teoria della conoscenza” e quindicarico di intenzionalità fondazionistiche e normative.

Quale criterio di distinzione tra queste dueaccezioni si potrebbe assumere la posizione neiconfronti dello scetticismo: se ci si pone ilcompito di rispondere, mediante argomentazionidi carattere filosofico, al dubbio da questo posto - e quindi ci si pone incontinuità con la sua problematica - allora abbiamo a che fare conl’epistemologia nell’accezione criticata dagli antifondazionalisti; seviceversa si ritiene questo dubbio assorbito e dissolto dalla pratica dellascienza, sicché questa viene a costituire il paradigma della conoscenza in

37 H. Reichenbach, “Causalità e probabilità” (1930), in Il Neoempirismo, a cura di A.

Pasquinelli UTET, Torino1969, p. 450. Ma vedi anche quanto scritto da Reichenbach in “Scopo emetodi della moderna filosofia della natura” (1931), in Id., L’analisi filosofica della conoscenzascientifica, Marsilio, Padova, 1968, pp. 109-115.

38 H. Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori (1920), Laterza, Bari 1984, p. 125.

Il rapporto tra epistemologiae filosofia della scienza tranormatività e descrittività

Il carattere discriminante del-la posizione assunta verso loscetticismo

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atto, allora ci si pone su di un piano non più fondativo, ma puramentedescrittivo.

E’ certamente vero, però, che nel continuo cheva, da un massimo di descrittività (ed un minimodi normatività) ad un massimo di normatività (eun minimo di descrittività) si collocano molteplici opzioni teoriche e siposizionano le elaborazioni che hanno segnato il corso dell’epistemologiadi questo secolo; ciò spiega come si siano spesso scambiate ledenominazioni e le definizioni, attribuendo di volta in volta il nome difilosofia della scienza, epistemologia o teoria della conoscenza aprospettive che sono o alternative o tra loro assimilabili. Sicché forse lastrategia più saggia non è quella di volere a qualunque costo definire ilsignificato di espressioni quali “filosofia della scienza” o “epistemologia”,ma fare attenzione al grado di normatività (o di descrittività) in essepresente, evidenziando nelle diverse posizioni teoriche la presenza o meno(e in quale misura) della prospettiva fondazionalistica o il prevalere di unatteggiamento meno impegnato dal punto di vista normativo.

4. Alle origini della filosofia della scienza

Non v’è dubbio che ad aver avuto un decisivoimpulso nella nascita della filosofia della scienzadi questo secolo è stata la duplice e convergenteforza di impatto avuta sia dalla trasformazionedella scienza, col suo ruolo sempre più pervasivo nella vita della civiltàeuropea (vedi il capitolo secondo), sia dalla nascita della logica matematicacontemporanea (vedi capitolo terzo). In tale clima, all’inizio del Novecentodivenne parola d’ordine di molti filosofi, specie di formazione scientificaod addirittura scienziati, l’esigenza di rifondare la filosofia in modo darenderla “scientifica”. Si forma così una sempre più insistente campagna infavore della “filosofia scientifica”, locuzione che può avere, secondoTatarkiewicz, tre significati diversi: «in primo luogo, che la scienzacostituisce il fondamento della filosofia, che non ha altro lavoro da fare chetrarre conclusioni generali dai suoi risultati. […] In secondo luogo che lascienza è l’oggetto della filosofia, che non deve essere nient’altro che teoriadella scienza, indagine sulle sue assunzioni, finalità, metodi. […] In terzoluogo, che la scienza deve essere il modello per la filosofia, che deve porree risolvere i suoi problemi secondo quegli stessi metodi e criteri, in basealle stesse esigenze di precisione, delle scienze particolari»39.

In questi tre diverse accezioni è racchiuso ilcampo problematico che ispira tutti quegli scien-ziati e filosofi che si collocano sotto la bandiera

39 W. Tatarkiewicz, Historia filozofii (1950), PWN, Warszawa 1988, vol. III, p. 263.

Il continuum di normatività edescrittività

Il programma della “filosofiascientifica “ e l’esigenza diuna collaborazione tra filo-sofia e scienza

La nascita della filosofiascientifica nell’impero asbur-gico: la “Grande Vienna”

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della “filosofia scientifica”. È questo un movimento che, originatosiall’inizio del secolo, affonda tuttavia le sue radici molto più lontano, altempo in cui si affermò nel Seicento la scienza moderna ed è accomunatodalla comune esigenza di rendere sempre più rigorosa ed esatta la filosofia;di pervenire, insomma, ad una filosofia che tenesse conto dei risultati cui lescienze sperimentali erano pervenute nel corso dell’ultimo secolo40 e in uncerto qual modo assumesse nei riguardi dei propri campi di indagine ilmedesimo rigore del quale aveva sinora fatto mostra la scienza. Le sueorigini più prossime sono da rintracciare nell’impero multinazionale degliAsburgo di fine Ottocento, nella “Grande Vienna” in cui si mescolanodiverse culture nazionali e convivono lingue e tradizioni diverse. Qui siafferma una cultura filosofica caratterizzata dall’accentuata tendenzaanalitica, in contrapposizione a quella sintetica tipica della Germania;dall’attenzione per il linguaggio, che con Fritz Mauthner arriva alladiagnosi della genesi linguistica dei problemi filosofici; dalla esigenza diuna nuova interpretazione della scienza e quindi di una nuova filosofia adessa adeguata; dall’attenzione per il rigore logico, alla ricerca di ciò cheMusil chiamò “filosofia esatta”41. Una filosofia che fu tipicamente austriacae che risentì più l’influenza dell’empirismo inglese e francese piuttosto chequella dell’idealismo classico tedesco o del kantismo.42 Ricorda KarlMenger, nel descrivere l’atmosfera filosofica di Vienna negli anni venti,che i filosofi austriaci non hanno mai dato alcun contributo al tipo dimetafisica culminata con Fichte, Schelling ed Hegel e che i suoi più grandipensatori, come Bolzano e Mach, preferivano coltivare la filosofia lungolinee scientifiche.43 Ma, occorre aggiungere, una cultura filosofica che noninvestì nella sua interezza la società viennese o le strutture accademiche ededucative, rimanendo appannaggio di un ristretto gruppo di intellettuali, diuna élite che si riconosceva in informali “circoli” culturali tra lorointeragenti. La cosiddetta avanguardia culturale viennese, che oggi siriassume in una serie di nomi che hanno inciso profondamente in tutti icampi della cultura europea (Arnold Schönberg, Gustav Klimt, AlfredLoos, Karl Kraus, Robert Musil, Sigmund Freud, nonché filosofi qualiBrentano, Wittgenstein, Schlick, Frank, Hahn, Neurath), doveva scontrarsicon un’aristocrazia ed una borghesia culturalmente conservatrice, chevedeva con sospetto la prevalente matrice ebraica di molti di questi

40 Cfr. A. Grzegorczyk, Mała propedeutyka filozofii naukowej [Breve propedeutica allafilosofia scientifica], Inst. Wyd. Pax, Warszawa 1989, p. 13.

41 Cfr. M. Libardi, “In Itinere: Vienna 1870-1918”, in In Itinere. European Cities and theBirth of Modern Scientific Philosophy, ed. by R. Poli, Rodopi, Amsterdam / Atlanta 1997.

42 R. Haller, “On the Historiography of Austrian Philosophy”, in Rediscovering the ForgottenVienna Circle, ed. by T. Uebel, Kluwer, Dordrecht / Boston / London 1991, pp. 41-2. OttoNeurath (Il Circolo di Vienna e l’avvenire dell’empirismo logico, 1935, Armando, Roma 1977, pp.52-3) dà anche una spiegazione socio-politica di questo fatto, attribuendolo alla influenza dellaChiesa e della Corte, che respingevano la filosofia di Kant e l’idealismo speculativo in quantofrutto della rivoluzione francese ed appoggiavano invece le posizioni dei seguaci di Leibniz.

43 K. Menger, Reminiscences of the Vienna Circle and the Mathematical Colloquium, KluwerAcademic Publishers, Dordrecht / Boston / London 1994, p. 18.

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intellettuali.44

Più esattamente la filosofia scientifica vienefatta iniziare nel 1874, anno in cui Franz Brentanoottenne la cattedra di filosofia a Vienna, dopo averinsegnato a Würzburg dal 1866 al 1873. Il suo insegnamento, che puòessere sintetizzato nel motto «Vera philosophiae methodus nulla alia nisiscientia naturalis est»45, ebbe grande influenza nella vita culturale austriaca,nella quale fu attivo personalmente sino al 1895, quando lasciò Vienna perl’Italia (la sua cattedra di filosofia delle scienze induttive verrà occupatasuccessivamente da Mach, L. Boltzmann e A. Stöhr). Il suo insegnamentosi concretizzò nella formazione di un certo numero di discepoli che poioccuparono posti di rilievo in altre università, come Meinong (a Graz),Husserl (a Göttingen), Ehrenfels (a Praga), Höfler (a Vienna), Twardowski(a Leopoli), Stumpf (che ereditò la cattedra di Brentano a Würzburg).

Non a caso Kevin Mulligan ha indicato una data precisa dell’inizio dellafilosofia scientifica e della sua contrapposizione alla filosofia tradizionale,di impostazione “storica”46: è il 1884, quando un discepolo di Brentano,Franz Hillebrand, scrive una celebre stroncatura della Introduzione allescienze dello spirito di Dilthey, l’iniziatore dello storicismo tedesco ederede della filosofia classica centroeuropea, in cui se ne denuncia lamancanza di rigore argomentativo, l’assoluta ignoranza delle più elementariregole logiche, nonché imprecisioni ed errori, oltre alla “oscurità” di unostile che ha la pretesa di parlare della “vita” nella sua “totalità”. È l’iniziodi una divaricazione tra due tradizioni filosofiche, poi sintetizzate nelbinomio analitico-continentale, e che per il momento si esprime comecontrapposizione tra una filosofia che aspira ad una sempre maggiore scien-tificità, sul modello delle scienze naturali ed esatte, ed una filosofia“storica”, intrisa di umori valutativi, problematica e dialettica, dall’argo-mentazione turgidamente carica dei sensi filtrati da una imprescindibilesituazionalità storica.

In contrapposizione a questa tendenza,Brentano e i suoi allievi condivisero una mede-sima concezione del significato della ricerca filo-sofica e del suo metodo: «tutti, almeno inizial-mente, sottoscrissero le virtù brentaniane di una analisi strettamenteempirica (principalmente grazie alla psicologia), dell’antiidealismo,dell’accento posto sulla chiarezza e sull’obiettività, sul filosofare poco allavolta piuttosto che sistematico, e di tutto ciò che si riconducevaall’ossessione per la verità e la rappresentazione».47 Dunque filosofiascientifica significava per loro filosofia rigorosa, esatta, chiara, facente uso

44 Cfr. Libardi, op. cit., pp. 56-8.45 F. Brentano, Über die Zukunft der Philosophie (1929), Felix Meiner, Hamburg 1968, p. 136.46 P. Simons, op. cit., p. 7.46 Cfr. K. Mulligan, “Sulla storia e l’analisi della filosofia continentale”, in Iride 8 (1992).47 P. Simons, op. cit., p. 7.

L’inizio della storia: Brenta-no e la sua scuola

Il significato di ‘filosofiascientifica’ nella scuola bren-taniana e le ‘costanti’ dellafilosofia austriaca

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di termini non ambigui, fondata sull’esperienza (il “nisi est in intellectus…”di derivazione aristotelica), “minimalista” ed aliena dalle grandi sintesi,preceduta dall’accurata descrizione dell’oggetto di indagine e facente usodell’analisi logica dei concetti, ripudio della metafisica.48 Quattro, nellaricostruzione di Haller, sono i tratti che caratterizzano l’opera di Brentano edei suoi discepoli: 1) temperamento empirista; 2) convinzione dellanecessità di praticare la filosofia con criteri scientifici; 3) attenzione per illinguaggio ed in particolare per gli errori commessi per sua causa; 4)antikantismo.49

Nello stesso periodo, alla fine del secolo,anche in Inghilterra, per vie autonome, si instaurauno stile di pensiero ed una esigenza di riformadella filosofia che va nella medesima direzione della scuola brentanianaaustriaca. A Cambridge, Moore e Russell maturano il loro distacco e laloro critica nei confronti dell’idealismo allora dominante con le figure diF.H. Bradley (che aveva pubblicato nel 1893 il suo capolavoro Appearanceand Reality) e di J. McTaggart. Dopo una breve fase definita come realismoplatonico o pluralismo realistico platonico, Moore col suo classico articolo“The Refutation of Idealism” (1903) e i Principia ethica (1903) inaugura lacosiddetta “tradizione analitica inglese” col porre le basi per una filosofiarealistica, in accordo con le verità del senso comune e facente uso delmetodo della analisi dei concetti in contrapposizione al privilegiamento delpunto di vista della totalità tipico della tradizione idealista. Nello stessolasso di tempo avviene la formazione di Russell, più impregnata di interessilogico-matematici, che ricevono un vero e proprio impulso dalla conoscen-za nel 1900 dell’opera del matematico e logico italiano Giuseppe Peano.Nascono così i suoi lavori miranti alla dimostrazione della tesi dellogicismo, per la quale la matematica può essere fondata sulla logica,culminanti nell’opera scritta in collaborazione di Whitehead, i PrincipiaMathematica (1910-13), che avrà un vero e proprio valore paradigmaticoper l’intero movimento della filosofia scientifica, in quanto indicherà lostrumento, il metodo, mediante il quale questa avrebbe potuto raggiungere ifini di rigore che si proponeva. Contestualmente a tale opera di riflessionesulla logica, nasce l’idea in Russell di poter fruire dei nuovi strumenti da

48 K. Mulligan, “Exactness, Description and Variation: How Austrian Analytical Philosophy

Was Done”, in From Bolzano to Wittgenstein. The Tradition of Austrian Philosophy, ed. by J.C.Nyiri, Verlag Hölder-Pichler-Tempsky ,Vienna 1986; B. Smith, “Austrian Origins of LogicalPositivism”, in The Vienna Circle and Lvov-Warsaw School, ed. by K. Szaniawski, Kluwer,Dordrech 1989. Riteniamo sia più corretto fare uso della locuzione “filosofia scientifica”, piuttostoche di quella tradizionale di “filosofia analitica”, per identificare i movimenti filosofici che, comeha efficacemente affermato P. Frank (La scienza moderna e la sua filosofia, Il Mulino, Bologna1973, pp. 40-1), facevano parte del «movimento centroeuropeo per una concezione scientifica delmondo». Si vedano ad esempio i volumi Polish Scientific Philosophy, ed. by F. Coniglione, R.Poli, J. Wolenski, Rodopi, Amsterdam / Atlanta 1993; In Itinere…, cit.; M. Marsonet,Introduzione alla filosofia scientifica del ’900, Studium, Roma 1995.

49 Cfr. R. Haller, “Wittgenstein and Austrian Philosophy”, in Austrian Philosophy: Studies andTexts, ed. by. J.C. Nyiri, Philosophia Verlag, München 1981, pp. 91-102.

L’altra parte della storia:Cambridge e il contributo diMoore e Russell

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questa messi a disposizione per poter scientificizzare la filosofia medianteil metodo della analisi, che riceve una prima applicazione nel classicoarticolo “On denoting” (1905). Dopo il fortunato volumetto The Problemsof Philosophy (1912), che chiude quel periodo del suo pensiero in cuiancora sono evidenti i residui della sua fase platonica, e l’incontro colgiovane Wittgenstein nel 1912, il suo pensiero inizia una nuova stagionecaratterizzata dalla problematica concernente il rapporto tra linguaggio efatti e che riceve nell’atomismo logico (la cui prima espressione èrinvenibile in Our Knowledge of the External World del 1914) la suaformulazione più significativa ed influente per il pensiero filosoficosuccessivo (è del 1918 il suo classico The Philosophy of Logical Atomism).

Ovviamente i due movimenti non si sviluppanonel reciproco isolamento; così come erano bennote le opere logiche di Russell ai discepoli diBrentano, analogamente Moore e Russell, grazieanche alla mediazione di G.F. Stout, erano a conoscenza delle idee dellascuola brentaniana.50 Ciò contribuì a creare un comune background, checoncerneva in particolare la teoria degli oggetti e quella dell’intero e delleparti, nonché il modo di concepire la natura e il significato della filosofia,che andava sempre più scientificizzata. Tale condivisione di un comuneprogramma dura sino al primo conflitto mondiale, per cui possiamo bendire che sino a quel periodo esisteva una comune tradizione anglo-austriacariassumibile nel nome di filosofia scientifica.

Ma all’inizio del secolo a Vienna non v’erasolo la scuola brentaniana. Infatti a partire dal1907 cominciarono a riunirsi un gruppo di amiciaccomunati da un comune modo di vedere lafilosofia e la scienza. Racconta uno dei suoi protagonisti, Philipp Frank:«Nel 1907 [...] mi ero appena laureato in fisica all’Università di Vienna,tuttavia, i miei interessi più vivi si indirizzavano alla filosofia della scienza.Ero solito frequentare un gruppo di studenti, che si riunivano ogni giovedìsera in un antico caffè viennese. Vi restavamo fino a mezzanotte, e anchepiù tardi, discutendo problemi di scienza e filosofia. L’orizzonte dei nostriinteressi era molto ampio, ma il problema centrale a cui ritornavamo coninsistenza era sempre lo stesso: come è possibile evitare le ambiguità el’oscurità tradizionali della filosofia? Come possiamo realizzare un acco-stamento, quanto più possibile intimo, tra filosofia e scienza? Con il ter-mine “scienza” non intendevamo riferirci solo alle “scienze naturali”, bensìincludere sempre in esso anche le discipline sociali e umanistiche. Ilmatematico Hans Hahn e l’economista Otto Neurath, oltre a me, erano icomponenti più assidui ed attivi del gruppo»51.

50 Cfr. M. van der Schaar, “From Analytic Psychology to Analytic Philosophy: The Receptionof Twardowski’s Ideas in Cambridge”, in Axiomathes, 3, (1996); L. Dappiano, “Cambridge andthe Austrian Connection”, in In Itinere…, cit.

51 P. Frank, op. cit., p. 15.

Interazioni tra le due tradi-zioni di pensiero: britannicaed austriaca

Ancora in Austria: la forma-zione del primo nucleo del‘Circolo di Vienna’

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Questo gruppo di discussione, per la cui formazione si era adoperato ilmatematico Hans Hahn, era in particolare interessato alla nuova immaginedi scienza che si andava delineando in seguito al declino del paradigmameccanicistico ottocentesco e che faceva parlare di “crisi delle scienze”:«Per oltre due secoli l’idea del progresso nella scienza e nella vita umana, èstata connessa con l’avanzamento della spiegazione meccanicistica deifenomeni naturali. Ora la scienza per prima sembrava abbandonare questaconcezione meccanicistica, e si ebbe così la situazione paradossale che sipotesse combattere la concezione scientifica del mondo in nome delprogresso scientifico»52.

È la medesima esigenza che era stata espressa da Brentano e poiperseguita dai suoi allievi, ma che qui nasce autonomamente come unariflessione di studiosi non di derivazione filosofica, ma prevalentemente diformazione scientifica, fortemente influenzati oltre che dal pensiero diErnst Mach, anche da quello dei convenzionalisti francesi, in particolare daHenri Poincaré, Pierre Duhem ed Abel Rey. Con questi studiosi che siviene a formare il primo nucleo del Circolo di Vienna, quella che potrebbeconsiderare la sua prima generazione.53 Ed è all’interno di esso che emergel’esigenza di discutere dei problemi della scienza anche con chi fossemaggiormente fornito di competenza filosofica, con un “filosofo autentico”che avesse familiarità in campo epistemologico. Il progetto verrà arealizzarsi solo dopo la guerra, quando Hahn ritornerà da Bonn nel 1921 echiama a Vienna il filosofo Moritz Schlick, che nelo 1929 fonderà ilCircolo di Vienna.

Ma intanto viene nel 1895 creata all’universitàdi Vienna una terza cattedra di filosofia, alla qualevenne chiamato per divenirne il primo titolare ilfisico Ernst Mach, che si diede il titolo di “profes-sore di storia e teoria delle scienze induttive”, poi cambiato, nel 1902, dalsuo successore Ludwig Boltzmann in “professore di fisica teorica e difilosofia naturale”.54 Mach, inaugurò un modo di affrontare la problematicafilosofica maggiormente segnata da interessi scientifici e fortementecaratterizzata in senso empirico-fenomenista, e che andava particolarmenteincontro alle esigenze del gruppo di amici del caffè viennese. Lo scoppiodella prima guerra mondiale e lo smembramento dell’Impero asburgico conla creazione di nuove entità nazionali fu l’evento successivo che inciseprofondamente sullo sviluppo della filosofia scientifica austriaca. Le cittànelle quali insegnavano i discepoli di Brentano diventarono parte di nazionidiverse: Praga della repubblica cecoslovacca, Leopoli della nuova Polonia,Gottinga della Germania. Si smarrì quel terreno comune di dibattito econfronto che prima aveva caratterizzato la cultura della Grande Vienna.

52 Ib., p. 18.53 Cfr. R. Haller, “The First Vienna Circle”, in Rediscovering the Forgotten Vienna Circle, cit.54 A.J. Ayer, “Le Cercle de Vienne”, in Le Cercle de Vienne, doctrines et controverses, cit., pp.

59-60.

Le conseguenze della primaguerra mondiale sulla filo-sofia scientifica viennese

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Ciò portò anche alla quasi totale eclissi della linea di pensiero brentaniana,nonostante le molteplici influenze da essa esercitate: «L’unità di questatradizione filosofica è andata persa con la fine dell’unità geografica epolitica dell’Impero Austro-Ungarico e con gli eventi che ne accompa-gnarono il collasso. Dopo il 1918 […] molti dei suoi esponenti furonocostretti ad emigrare e pertanto la ricca rete di scambi, contatti e relazionifu per sempre lacerata.»55 Da quel momento, in particolare, la scuolafondata da Twardowski ebbe una sua vita autonoma, entrando solosporadicamente in contatto con i membri dell’ambiente viennese, maconservando alcune caratteristiche peculiari della sua originaria ascendenzabrentaniana.

Caratteristiche che invece furono profonda-mente modificate nell’ambiente viennese ad operadi quegli studiosi che daranno origine a quello chepoi sarà il Circolo di Vienna nella sua configura-zione matura successiva alla venuta a Vienna nel 1922 di Schlick. Essi, purcondividendo il programma generale di Brentano, come prima delineato56, ericonoscendo ad esso il merito di aver nuovamente attirato l’attenzionesulla riflessione logica grazie alla sua conoscenza della scolastica57 (nondimentichiamo che Brentano era un ex prete), tuttavia lo innestarono coninfluenze ed esigenze che ne trasformarono i connotati, specie in direzionedel rifiuto dello psicologismo su cui esso voleva edificare la teoria dellaconoscenza e le stesse scienze empiriche.

Ad incidere ulteriormente ed in modo decisivo sulla fisionomia che nelprimo dopoguerra assunse la filosofia scientifica v’è l’impatto avuto dallapubblicazione del Tractatus di Wittgenstein. Indipendentemente da quelloche era il significato autenticamente attribuitogli dal suo autore (che andavapiù in direzione etica che a supporto delo programma di una filosofiascientifica), esso ebbe una grandissima influenza sia nella elaborazione delcosiddetto atomismo logico di Russell, sia nella formazione del Circolo diVienna, che dalla sua lettura trasse numerosi spunti e mutuò parecchiedottrine. Non solo, ma il Circolo di Vienna nel tronco brentaniano innestòanche influenze ad esso estranee, come quella dell’empiriocriticismo diMach, della riflessione sulla logica consegnata nelle opere di Russell eWhitehead, nonché le dottrine logico-linguistiche nel frattempo elaborateda Frege.

Possiamo a questo punto sintetizzare l’evoluzione della filosofia

55 M. Libardi, op. cit., p. 64.56 Come ha notato Barry Smith (op. cit., p. 29), «Brentano, grazie al suo retroterra scolastico,

non solo era simpatetico con un metodo rigorosamente scientifico in filosofia, ma condivideva colpositivismo logico anche un certo orientamento antimetafisico e la sua opera comporta l’uso dimetodi di analisi linguistica simili, per certi aspetti, a quelli sviluppati successivamente dai filosofiinglesi».

57 H. Hahn, O. Neurath, R. Carnap, op. cit., pp. 61-2. E’ questo il cosiddetto “Manifesto”programmatico del Circolo di Vienna.

Schlick a Vienna nel dopo-guerra e l’influenza di Witt-genstein

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scientifica del Novecento nei seguenti momenti temporali:• Anteriormente alla prima guerra mondiale:• Formazione della filosofia scientifica con due poli autonomi ma non

isolati: Brentano e la sua scuola a Vienna; Moore e Russell aCambridge; sicché si può parlare di una comune tradizione “austro-inglese”, con una consistente diramazione in Polonia grazie aTwardowski, allievo di Brentano.ß Contemporaneamente si ha la formazione del primo nucleo del

futuro Circolo di Vienna con Frank, Hahn e Neurath, costituito dascienziati più che da filosofi.

• Tra le due guerre:ß Creazione di autonome tradizioni nazionali nelle quali la filosofia

scientifica si specifica ulteriormente, come (a) la Scuola di Leopoli-Varsavia in Polonia, più fedele all’insegnamento brentaniano e pocoo per nulla influenzata dall’empiriocriticismo di Mach e dalTractatus di Wittgenstein, ma sviluppante una autonoma ed assaioriginale riflessione logica (con ¸ukasiewicz, Chwistek e Le_niewskiin particolare); (b) la filosofia analitica inglese caratterizzata dalmetodo dell’analisi e dall’atomismo logico, con un Russellfortemente influenzato da Wittgenstein; (c) formazione del Circolodi Vienna con la venuta di Schlick; (d) formazione della scuola diBerlino con Reichenbach (Gesellschaft für empirische Philosophie,1928); (e) le scuole scandinave di filosofia analitica e scientifica,con A. Petzäll (a Lund), Th. Skolem (in Norvegia), J. Joergensen (inDanimarca), E. Kaila (a Helsinki).

ß Nel merito, tale periodo si caratterizza principalmente per leseguenti due ragioni:(a) Avviene la svolta linguistica (sulla base dell’insegnamento diFrege e del suo antipsicologismo e grazie al Tractatus), che incide inparticolare nella formazione del Circolo di Vienna, dove però illinguaggio che diventa oggetto precipuo di studio è quello dellascienza. A tale svolta linguistica non partecipa Russell, che èaccomunato a Frege solo dall’interesse per la fondazione della mate-matica su base logica (il programma del cosiddetto “logicismo”).(b) Si afferma l’influenza del Tractatus di Wittgenstein che, al di làdelle intenzioni del suo autore, viene inteso come parte integrante diuna visione scientifica del mondo e quindi interpretato in sensoscientista (sia dal Circolo di Vienna, come anche da Russell) e nelquale sostanzialmente confluiscono e sono fuse sia l’esigenza postain essere dalla svolta linguistica, sia il metodo dell’analisi.58

58 Con ciò non si vuole arruolare Wittgenstein, nella completezza del suo pensiero, all’interno

della “filosofia scientifica”, bensì si collocano all’interno di essa quelle parti del Tractatus che,nella unanime interpretazione dei contemporanei, sembravano portare argomenti alla suaedificazione. E’ questo Tractatus, così letto ed interpretato dai contemporanei, che ebbe rilevanzadecisiva nella formazione di alcuni dei caratteri fondamentali della filosofia scientifica.

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• Dopo la seconda guerra mondiale:ß Metodo dell’analisi e svolta linguistica si congiungono ad Oxford-

Cambridge grazie all’insegnamento del secondo Wittgenstein, mal’attenzione viene rivolta non al linguaggio della scienza, bensì aquello ordinario; nasce così la filosofia analitica come tradizio-nalmente intesa, cioè quale analisi del linguaggio comune aventecome scopo la sua chiarificazione e lo svelamento delle trappole cuiesso può portare.

ß Dispersione degli studiosi che avevano composto il Circolo diVienna e di Berlino, parte in Inghilterra, parte negli Stati Uniti, chein tal modo diffondono le loro concezioni sulla scienza e dannoluogo a quel radicarsi di un modo di intendere l’epistemologia, cioècome filosofia della scienza, che diventa dominante sino alla finedegli anni 60, quando poi entra in crisi (per i motivi che in seguitoesamineremo);

ß Dissoluzione dell’originario gruppo di studiosi della Scuola diLeopoli-Varsavia (alcuni scompaiono nel lager nazisti o se ne perdetraccia durante la guerra, altri, come ¸ ukasiewicz e Tarski,emigrano) e sopravvivenza dei superstiti (Ajdukiewicz, Kotarbiƒski,Cze˝owski) in condizioni difficili a causa dell’ostilità del regimecomunista che nel frattempo si era instaurato in Polonia. Questiultimi proseguono nella coltivazione della filosofia scientifica,perdendo in parte i caratteri originari di derivazione brentaniana peravvicinarsi sempre più alla filosofia analitica ed all’epistemologiaoccidentale.

È nel quadro complessivo della formazione e dello sviluppo dellafilosofia scientifica che la filosofia della scienza si afferma come disciplinaautonoma, dotata di un proprio compito specifico, pur non perdendo mai icontatti col più ampio contesto prima delineato. La filosofia della scienza,infatti, finisce per privilegiare uno dei tre significati da Tatarkiewiczattribuiti alla filosofia scientifica, ed esattamente quello che fa dellascienza l’oggetto della filosofia; si propone, quindi, consapevolmente cometeoria della scienza, senza dimenticare, però, mai del tutto l’ambizionerettificatrice nei confronti della filosofia, nel senso di assumere spesso untono normativo volto ad ammaestrare la filosofia sulla vera conoscenza esul giusto metodo con cui pervenire ad autentiche conoscenze (vedi il §precedente).

Ma di quale scienza voleva essere teoria la filosofia della scienza?

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Capitolo secondo

LE TRASFORMAZIONI DELLA SCIENZATRA OTTOCENTO E NOVECENTO

1. Il mondo secondo Laplace

La sistemazione della fisica classica, operatada Newton e legittimata filosoficamente da Kant,aveva ricevuto una sua formulazione esemplarecon l’opera dello scienziato francese Pierre-Simone de Laplace (1749-1827). Formatosi nello spirito dell’illuminismo, Laplace coltivò semprel’idea di scienza come conoscenza per eccellenza, contrapposta allafilosofia tradizionale e caratterizzata per l’applicazione sistematica del“metodo induttivo”, proposto da Bacone e quindi magistralmente applicatoda Newton, il solo in grado di assicurare un progresso continuo e sicuroverso una sempre più approfondita conoscenza del mondo. La sua operascientifica consiste in sostanza nella elaborazione, perfezionamento edestensione della scienza newtoniana, cercandone di risolvere le difficoltàapplicative nei vari campi dell’esperienza, specie in astronomia, nellaconvinzione che il futuro della scienza non dovesse conoscere fratturerivoluzionarie che la potessero mettere in discussione, ma solo un suoperfezionamento matematico e statistico ed un accumulo quantitativo disempre nuove conoscenze59. In questo spirito egli edifica un “sistema delmondo” in cui cerca di coniugare una visione meccanicistica edeterministica del reale con la consapevolezza dei limiti della conoscenzaumana, per ovviare ai quali sviluppò e giustificò teoricamente il calcolodelle probabilità.

La visione del reale di Laplace è plasticamenteresa da una sua celebre metafora: «Dobbiamodunque considerare lo stato presente dell’universocome l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro.Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui èanimata la natura e la collocazione rispettiva degli esseri che lacompongono, se per di più fosse abbastanza profonda per sottomettere

59 Cfr. F. Barone, “L’epistemologia di Pierre Simone de Laplace” (1978), in Id., Immagini

filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 115-137.

La sistemazione del newto-nianismo con Laplace

La metafora della intelligen-za divina, infinita ed onni-sciente

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questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti deipiù grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbeincerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoiocchi. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dareall’astronomia, un pallido esempio di quest’Intelligenza. Le sue scoperte inmeccanica e in geometria, unite a quella della gravitazione universale,l’hanno messo in grado di abbracciare nelle stesse espressioni analitiche glistati passati e quelli futuri del sistema del mondo»60.

In questo brano di Laplace v’è innanzi tuttol’idea illuministica di una sostanziale unitarietàe semplicità dell’universo, composto di partistrettamente interconnesse e suscettibili di unaspiegazione e comprensione complessiva daparte della scienza, essa stessa unitaria e semplice nelle sue premesse, lequali devono essere quanto più generali possibili. Tale unitarietà si esprimenelle leggi che ne governano il divenire e che hanno natura essenzialmentemeccanica, cioè si basano sulla applicabilità illimitata della dinamicasettecentesca e sulla possibilità di risolvere con equazioni differenziali ogniproblema di calcolo. Alla base della dinamica v’è la «tendenza aconsiderare ogni sistema reale come l’aggregato di componenti elementarie l’evoluzione del sistema come il risultato dell’interazione di queste unitàelementari»61; ne derivava la predilezione per un approccio atomista allanatura, ogni fenomeno della quale veniva ridotto alla azione di forze agentitra particelle materiali. In ciò si sintetizza il cosiddetto “meccanicismo ot-tocentesco”, consistente nella credenza «che fosse effettivamente possibiledescrivere tutti i fenomeni in base a forze semplici, agenti fra particelleinalterabili […] Gl’incontestabili successi della meccanica suggerisconoche l’interpretazione meccanicistica può coerentemente estendersi ad ogniramo della fisica e che tutti i fenomeni possono spiegarsi con le azioni diforze, consistenti in attrazioni o ripulsioni, dipendenti unicamente dalladistanza ed agenti su particelle immutabili»62. Questa impostazionemeccanicistica esprime, dal punto di vista epistemologico, una concezionedella scienza riduzionistica, «ossia una prospettiva secondo la quale esisteuna scienza fondamentale (in questo caso la meccanica) i cui concettidevono consentire di ottenere, con opportuni processi definitori, i concettibase delle altre scienze e i cui princìpi o leggi devono consentire diottenere, grazie ad opportune dimostrazioni, i princìpi base delle altrescienze»63; al punto da proporre di riportare ai principi della meccanicaanche le manifestazioni della vita intellettuale e spirituale. Infine, è chiaroche si esprime anche una posizione determinista, che in seguito avrà un suo

60 P.S. Laplace, Saggio filosofico sulle probabilità, cit. in L. Geymonat, Storia del pensiero

filsoofico e scientifico, vol. IV, L’Ottocento, Garzanti, Milano 1971, p. 90.61 G. Israel, La visione matematica della realtà, Laterza, Roma 1996, p. 65.62 A. Einstein – L. Infeld, L’evoluzione della fisica. Dai concetti iniziali alla relatività e ai

quanti, Boringhieri, Torino 1965, pp. 66, 75.63 E. Agazzi, “Filosofia della scienza”, in Questioni di storiografia filosofica, a cura di A.

Bausola, La Scuola, Brescia 1977, vol. 6, tomo III, p. 475.

I caratteri della concezione diLaplace: unitarietà e sem-plicità dell’universo, meccani-cismo, riduzionismo e deter-minismo

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potente supporto matematico dalla scoperta del teorema di esistenza edunicità delle equazioni differenziali effettuata da Cauchy nel 1837. Nellaformulazione di Laplace il determinismo consiste nella tesi che laconoscenza esatta - con precisione infinita - dello stato iniziale di un certosistema fisico è sufficiente per prevedere con certezza il suo futuro, e chequindi ogni sua componente elementare fosse soggetta ad una causa che nedetermina in maniera univoca l’evoluzione; ne segue che lo stato futuro diun sistema è completamente determinato dal suo stato presente. Detto inaltri termini, «l’evoluzione nel tempo di un sistema meccanico ècompletamente e univocamente determinata dallo stato meccanico inizialein cui esso si trova (ovvero dalle sue posizioni e velocità iniziali)»64. Allabase dell’impostazione riduzionistica stava la convinzione che il mondo mi-croscopico fosse più semplice di quello macroscopico: per comprenderequest’ultimo è sufficiente scomporre i sistemi complessi in modo da trovarele loro componenti semplici, governate dalle tradizionali leggi della mec-canica. Fatto ciò, si pensava fosse possibile formulare una espressionematematica (detta lagrangiana), grazie alla quale ricavare (mediantel’operazione di integrazione) le equazioni dinamiche che descrivono ildivenire del sistema. Trovata la lagrangiana, si sosteneva, tutto eraspiegato. «Nella concezione di Laplace il mondo non è che un enormesistema meccanico. Ogni fenomeno che accade nel mondo può essereespresso o descritto mediante assegnate funzioni delle coordinatelagrangiane e dei loro momenti coniugati, relativi e tutti i momenti dilibertà del mondo stesso; quindi, una volta assegnato lo stato del mondo inun istante qualunque, tutti gli accadimenti naturali restano perfettamentedeterminati. Non vi è nulla di contingente o storico nel mondo di Laplace,se non lo stato dell’universo in un qualunque istante prefissato. Questa èl’espressione esatta del determinismo meccanicistico»65.

Ma l’ipotesi dell’Intelligenza infinita mette inluce chiaramente anche il fatto che tale ideale – laperfetta conoscenza dello stato iniziale da cuievolve il sistema, in questo caso l’universo – nonè per nulla realistico: l’uomo, lo scienziato, non potrà mai ottenere questainfinita precisione delle misure, concernenti le posizioni iniziali in cui sitrovano tutte le componenti dell’universo e la distribuzione delle forze su diesse agenti, in modo da poter prevedere con altrettanta esattezza ognievoluzione futura a partire da un momento arbitrario. In effetti conosciamosolo in modo inesatto lo stato di un sistema; e, non essendo in grado diconoscere tutte le forze agenti su ogni singola particella, possiamo farcisolo un’idea approssimata di esso. Pur essendo fiducioso nella illimitatapossibilità di estendere la nostra conoscenza, in modo da avvicinareprogressivamente il mondo fisico – descritto dalle nostre teorie – al mondoobiettivo, ovvero la realtà fatta di atomi e forze, tuttavia Laplace sapeva

64 G. Israel, op. cit., p. 118.65 B. Ferretti, “Fisica”, in Enciclopedia del Novecento, vol. II, Istituto della Enciclopedia

Italiana, Roma 1977, p. 1033.

Il calcolo della probabilitàcome rimedio alla limitatez-za della conoscenza umana

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bene che il perfetto adeguamento tra i due non può che essere solo il limitea cui il sapere razionale costantemente punta e che viene da esso semprepiù approssimato. L’avvicinarsi al vero è un processo infinito e l’uomoresterà sempre infinitamente lontano dalla conoscenza completa, purallontanandosi sempre più dall’ignoranza e dalla barbarie. Questo scartosempre esistente tra la nostra conoscenza e la verità, tra il mondo fisico equello oggettivo, giustifica per Laplace l’introduzione del calcolo delleprobabilità.66

Consideriamo una nostra puntata al tavolo della roulette: non siamo ingrado di calcolare dove la pallina andrà a finire, in quanto per far ciòdovremmo conoscere con infinita precisione tutte le particolarità del tavolo,le sue asperità, le sue imperfezioni, la sua inclinazione, la forza esatta concui la pallina è stata gettata, eventuali influssi derivanti da venti, attriti ecosì via. Conoscendo tutto ciò, quasi fossimo una intelligenza infinita,certamente saremmo in grado di calcolare con esattezza la posizione finaledella pallina. Ma non siamo in grado avere una tale conoscenza. Ecco allorache viene in nostro soccorso della nostra ignoranza il calcolo dellaprobabilità, permettendoci di prevedere che, ad es., il rosso ha una certaprobabilità di uscire; esso ci informa che sulla base delle precedenti uscite,dobbiamo aspettarci certi risultati piuttosto che altri; e così via. In breveesso ci mette in grado di effettuare delle scelte razionali in situazioni diincertezza, che permettono di porre, per così dire, una pezza alla nostraignoranza, in modo da poter massimizzare le nostre vincite e minimizzarele perdite.

Lo stesso ragionamento si applica, per Laplace, alla conoscenza dellanatura: l’impossibilità di conoscere con esattezza lo stato di un sistemafisico in un certo momento non ci consegna irrimediabilmente all’igno-ranza, in quanto grazie alla teoria della probabilità possimo gettare un pontetra essa e la natura, in modo da procedere ad un calcolo approssimato eprobabilistico del suo divenire. Il determinismo meccanicistico non vieneper ciò inficiato (esso rimane perfettamente valido come presupposto adogni possibile conoscenza della natura) ma solo completato mediante l’ipo-tesi della limitatezza della nostra conoscenza: negata all’uomo la possibilitàdella onniscienza (propria solo a Dio), resta nondimeno uno spazio enormee fruttuoso tra essa e l’ignoranza, uno spazio che Laplace ritiene possaessere occupato dalla teoria delle probabilità. La scienza diventa cosìprobabilistica senza perdere il suo carattere meccanicistico e riduzionisticoe l’uso del calcolo delle probabilità diventa d’ora innanzi uno strumentoindispensabile in fisica: determinismo e probabilismo non si escludono masi completano a vicenda. La probabilità viene dunque intesa come rimedioper la nostra ignoranza e limitatezza e quindi si riferisce ad un limiteepistemico; non è pertanto considerata come una proprietà della natura,

66 Cfr. E. Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a

Bohr, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 33-5. Id., “L’esposizione del sistema del mondo”, in Storiadella scienza moderna e contemporanea, diretta da Paolo Rossi, vol. II, 1, Dall’età romantica allasocietà industriale, TEA, Milano 2000, pp. 166-7.

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come se questa fosse intrinsecamente probabilistica; tutt’affatto, in quantola realtà viene sempre concepita come perfettamente determinata in ognisuo momento e retta da leggi causali che non lasciano alcuno spazio allaindeterminazione ed al caso.

2. Il calore e la termodinamica.

Il modello teorico proposto da Laplace «ha esercitato e esercita tuttoraun enorme fascino su molte menti. Per molti rimane un ideale delladescrizione scientifica della natura»67. Esso segnò tutto l’Ottocento ed ebbeun immenso successo grazie alle sue applicazioni in molteplici campi, neiquali sembrava poter effettivamente costituire una chiave per la conoscenzadella natura. Ma dei sinistri scricchiolii cominciano a sentirsi in alcunisettori della ricerca scientifica, che evidenziano fenomeni ed aspetti dellanatura che non sembrano essere del tutto congruenti con l’immagineconsegnata dal meccanicismo laplaciano e che non si lasciano facilmentespiegare mediante le leggi della dinamica newtoniana. Ciò accade inparticolare in due campi – quello dei fenomeni termici e quello deifenomeni elettrici e magnetici – per i quali si mostra particolarmente irta didifficoltà una loro immediata riconduzione al modello meccanicisticiolaplaciano.

Cominciamo dal primo campo, quello deifenomeni termici, nel quale era stato già propostol’esempio di un modo non laplaciano di intenderela scienza dal fisico francese Joseph Fourier(1768-1830). Questi aveva, infatti, dimostratoall’inizio dell’Ottocento come fosse possibile edificare una scienza deifenomeni termici prescindendo da una visione meccanicistica della realtà equindi dall’ipotesi di sue componenti ultime: egli partiva da grandezzemacroscopiche e quindi da fatti ‘generali’ che permettevano la previsione ela formulazione di teoremi ed equazioni sulla propagazione del calore cheavevano altrettanta validità e rigore matematico di quelli tipici dellameccanica. Veniva a cadere nella sua impostazione l’idea che fossenecessario trarre le equazioni che regolamentano il comportamento delcalore da ipotesi di fisica molecolare e quindi cadeva la necessità –sottolineata da Laplace – di inserire le leggi fenomeniche dellatermodinamica in un quadro unitario coerente che abbracciasse tutta larealtà. La teoria del calore di Fourier metteva in crisi la fisica laplaciana inquanto, spezzandone l’unità, «si veniva a porre come capitolo indipendentedal resto della fisica e, in particolare, dalla meccanica (su questo puntoFourier fu esplicito), che forniva i principali strumenti necessari allatrattazione dei modelli molecolari»68. In tal modo la termodinamica sipoteva costituire come scienza autonoma, indipendentemente dalla

67 B. Ferretti, op. cit., p. 1033.68 R. Maiocchi, op. cit., p. 383.

La nascita della termodina-mica con Fourier mette incrisi l’idea laplaciana discienza unitaria

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meccanica e senza condividerne le ipotesi di fondo: l’unitarietà dellascienza e della natura sembrava così messa in grave difficoltà. «La rotturadell’unità della fisica, assicurata dal modello meccanico, il venir menodella speranza di possedere uno schema di natura sufficientemente potenteed elastico da essere applicato all’insieme dei fenomeni inorganici, in ciòconsistette la crisi della fisica laplaciana. Nel corso del secolo, sotto gliattacchi che provenivano dalle prospettive più disparate […] il modellodella fisica molecolare si rivelò inesorabilmente inadeguato al compito cheLaplace gli aveva assegnato, quello di riunificare la fisica. Esso rimarràperfettamente adeguato alla trattazione di alcuni settori limitatidell’esperienza, come l’elasticità dei solidi o la capillarità, ma simanifesterà troppo povero per raggiungere l’ambizioso obiettivo di fungereda elemento unificatore di tutta l’esperienza. Gran parte della storia dellascienza ottocentesca è storia del riconoscimento dei limiti sempre nuovi,sempre più numerosi alla applicabilità del modello di Laplace al mondoempirico»69.

Ma ulteriori difficoltà per la visione meccani-cistica del mondo nascono anche dai concetti chevia via vengono elaborati nel campo dello studiodei fenomeni termici. In effetti, i fenomeni connessi alla propagazione delcalore manifestavano un comportamento che contraddiceva alcuni deiprincipi basilari della dinamica classica. Costituisce una evidenza empiricail fatto che il calore si trasmette secondo una direzione: esso va sempre dalcorpo più caldo a quello più freddo, e mai avviene il contrario (che cioè uncorpo più freddo si raffreddi ulteriormente per rendere più caldo un corpocol quale è in contatto, avente una temperatura iniziale più elevata). Questocomportamento metteva in luce la circostanza che certi fenomeni naturaliseguono spontaneamente una direzione temporale; si evolvono cioè solo inuna direzione, diversamente dai fenomeni descritti dalla meccanica, cheinvece sono indifferenti rispetto al tempo e possono svolgersi in un senso oin un altro. In meccanica, cioè, tutti i fenomeni sono governati da equazioninelle quali si può invertire la variabile che indica il tempo senza che ilfenomeno diventi per ciò impossibile: un pianeta può ruotare intorno al solein un verso o nell’altro senza che ciò contraddica alcuna legge dellameccanica70.Ciò invece non accade appunto nei fenomeni termici: il calorenon può scorrere indifferentemente in una direzione o nell’altra; essosembra avere un decorso privilegiato. Al mondo senza tempo (o ad essoindifferente) della meccanica sembra contrapporsi un mondo che segue lacosiddetta freccia del tempo. Come conciliare, dunque, il mondo descritto

69 Ibidem.70 «Per avere un’idea di questa simmetria del tempo, potremmo servirci, ad esempio, della

ripresa cinematografica dei moti planetari eseguita dalla sonda spaziale Voyager 2, lanciata nel1977 per esplorare il sistema solare esterno. I moti dei pianeti furono i primi movimenti cheNewton ridusse ad una legge matematica. Ebbene, il film sarebbe perfettamente coerente conqueste leggi della meccanica celeste sia se fosse proiettato in avanti, sia se fosse proiettatoall’indietro. Questa credenza in un mondo deterministico, nel quale il tempo non ha direzione e ilpassato e il futuro sono predeterminati, ha svolto un ruolo di grande importanza nello sviluppodella fisica» (P. Coveney, R. Highfield, La freccia del tempo, Rizzoli, Milano 1991, p. 25).

I fenomeni termici e la frecciadel tempo

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dalla meccanica con i fenomeni di diffusione termica? Ovvero – guardandola cosa dal punto di vista di un laplaciano – come spiegare i fenomenitermici nel quadro della scienza meccanicistica? Come ristabilirel’unitarietà della natura e della scienza?

Il solco tra i fenomeni descritti dallatermodinamica e la visione meccanicistica sembròulteriormente approfondirsi quando vennescoperto – ad opera di Rudolf Clausius (1822-88) nel 1854, che avevaprofittato delle riflessioni di Sadi Carnot sulle macchine termiche del 1824– il cosiddetto secondo principio della termodinamica, che introdusse ilconcetto di entropia, reso poi celebre dalla formulazione fornitane daWilliam Thomson (Lord Kelvin) (1824-1907) nel 1852.

Il secondo principio della termodinamica

Esso viene solitamente presentato in due formulazioni71. Nella formulazione diKelvin afferma: «È impossibile una trasformazione il cui unico risultato finale sia ditrasformare in lavoro del calore preso da una sorgente che si trova alla stessatemperatura». Cioè esso fissa la determinazione del trasferimento del calore colnegare la possibilità che l’energia possa fluire da un corpo freddo ad uno caldo, ameno che non si fornisca lavoro dell’esterno. In quella di Clausius, equivalente aquella di Kelvin, afferma: «È impossibile che una macchina ciclica produca comeunico risultato un trasferimento continuo di calore da un corpo a un altro che sitrova a temperatura più elevata». Ciò significa che non è possibile trasferire caloreda un corpo freddo ad uno caldo se non si fornisce del lavoro tratto da un sistemaesterno; ovvero, come avevamo detto nel testo, il calore non passa maispontaneamente da un corpo più freddo ad uno più caldo. Così ad es., non èpossibile costruire un frigorifero che trasferisca il calore dal suo interno all’esternosenza che ad esso sia fornita energia esterna; ed in effetti, nei nostri frigoriferidomestici questa energia è quella elettrica che permette di far funzionare la pompadi calore. L’equivalenza delle due formulazioni deriva dalla dimostrazione che se unadi essa fosse falsa, allora anche l’altra lo sarebbe, sicché insieme esprimonoun’unica legge, legata al concetto di irreversibilità, esprimibile in forma matematica.Tuttavia lo stesso Clausius dimostrò che il secondo principio è legato ad unavariabile termodinamica, che lui chiamò appunto entropia, per cui esso si può ancheesprimere quantitativamente nei termini di questa. In tal modo il secondo principiopuò essere fornito in forma più semplice e generale utilizzando il concetto dientropia; si può affermare allora che in un sistema chiuso nel quale avvengono solotrasformazioni reversibili l’entropia è costante, mentre se in esso avvengonotrasformazioni irreversibili, l’entropia aumenta. In sintesi, in un sistema chiusol’entropia non può diminuire. Questo enunciato (detto legge dell’entropia e checostituisce un modo ulteriore di enunciare il secondo principio della termo-dinamica), afferma in sostanza che dati due stati qualsiasi di un sistema chiuso, lostato che presenta una maggiore entropia è sicuramente futuro rispetto a quello chepresenta una minore entropia; viene così introdotta nei processi fisici la cosiddettafreccia del tempo: è l’aumento dell’entropia ad indicare il verso in cui scorre iltempo e quindi ad essere l’indicatore dell’evoluzione di un sistema. Ciò ad ulteriorechiarimento di quanto detto nel testo.

Questa nuova grandezza fisica stava ad indicare il processo necessariodi decadimento dell’energia derivante dal fatto che, in un sistema chiuso, icorpi prima o poi finiscono per assumere la medesima temperatura,qualunque sia la loro differenza iniziale. Si dice che in questo caso

71 Ne diamo di entrambe la versione contenuta in R. Resnick, D. Halliday, Fisica, CasaEditrice Ambrosiana, Milano 1979, p. 581.

Il secondo principio dellatermodinamica e l’entropia

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l’entropia del sistema è pervenuta al suo massimo. Pertanto si afferma chein un sistema chiuso – senza scambi di energia con l’esterno – l’entropiatende inesorabilmente ad aumentare e non può accadere il contrario: èpertanto questo un processo irreversibile, che contrasta con il divenire dellameccanica, che viene descritto sempre come reversibile. Essendo ladifferenza tra temperature essenziale affinché si possa produrre lavoro,come aveva dimostrato Sadi Carnot, ne derivava che un sistema in cuil’entropia giunge al suo massimo (cioè tutte le sue parti hanno la stessatemperatura) non è in grado di generare alcun lavoro; diremo che esso èinerte. Insomma l’universo (considerato come un sistema termodinamicochiuso) tenderebbe ad evolvere nel senso di un progressivo aumentodell’entropia, la quale pertanto ne definisce la direzione. Il tempo non èaltro che un’espressione del processo entropico. Diversamente dallameccanica, per la quale il tempo era indifferente, nei processitermodinamici esso è un elemento essenziale, che scorre nel sensodell’aumento progressivo ed inesorabile dell’entropia. Come era possibileconciliare la meccanica con questi aspetti della natura messi in evidenzadalla termodinamica?

Reversibile ed irreversibile

Per dare un’idea intuitiva della differenza tra processi reversibili ed irreversibili,immaginiamo di filmare un fenomeno meccanico molto semplice: due palle dibiliardo si avvicinano, si urtano e quindi si allontanano l’una dall’altra. Ebbene ilfilmato così ottenuto può essere proiettato sia nel verso giusto sia al contrario eotterremo sempre la raffigurazione di un fenomeno meccanico perfettamentepossibile, al punto che una persona che non abbia visto il fenomeno originale nonsarebbe in grado di dire quale tra i due filmati è quello corretto. Ciò significa che ladirezione del processo può essere invertita senza contraddice nessuna delle leggidella dinamica newtoniana; esso è pertanto reversibile dal punto di vista meccanico.Lo stesso non accadrebbe invece se filmassimo l’avanzare di una locomotaiva avapore (che è una macchina termica che trasforma calore in lavoro): proiettando ilfilmato al contrario vedremmo il fumo rientrare nel fumaiolo e tutti ciaccorgeremmo che in questo caso non è indifferente il verso in cui avviene ilfenomeno fisico. In questo caso esso è irreversibile. Gran parte dei fenomeni cheavvengono in natura sono di questo tipo: lo zucchero che si scioglie nell’acqua, ilcalore che si diffonde da una stufa in una stanza, il legno che brucia nel camino ecc.

Le conseguenze che scaturiscono da questaprospettiva sono gravide di implicazioni filosofi-che, che colpiscono i contemporanei e che accen-dono una vivace discussione. Infatti, se si assumeche l’universo sia un sistema chiuso e finito, prima o poi tutte le sue partiavranno la medesima temperatura e quindi in esso non sarà possibile piùalcun tipo di lavoro: esso andrà incontro alla morte termica. Questa laconclusione cui giunse Thomson nel 1852, cui fece successivamente ecoHermann Helmhotz nel 1854, che così sintetizza la questione: «Sel’universo è lasciato in balìa del decorso dei suoi processi fisici senzal’intervento di azioni esterne, alla fine tutto il contenuto di forza dovràtrapassare in calore, e tutto il calore distribuirsi in un equilibrio termico.Allora è esaurita ogni possibilità di un’ulteriore trasformazione; alloradebbono completamente cessare tutti i processi naturali di qualsiasi tipo.

La morte termica dell’univer-so e le sue implicazioni filo-sofiche

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Anche la vita delle piante, degli animali e degli uomini non puòulteriormente sussistere, ove il Sole abbia perduto la sua elevata tempe-ratura e, con essa, la sua luce, e quando tutte le parti costitutive dellasuperficie terrestre abbiano contratto i legami chimici, che comportano leloro forze di affinità. In breve, da questo momento in poi l’universo saràcondannato alla quiete eterna»72. Questa prospettiva di una vera e propriafine del mondo contrasta con la tesi, sostenuta da materialisti emeccanicisti, di un universo infinito ed eterno, che si basava sull’idea dellaconservazione dell’energia formulata dal primo principio dellatermodinamica, proposto nella sua forma più completa e generale dallostesso Helmholtz (e che in breve afferma che in nessun caso l’energia vienecreata o distrutta, ma viene piuttosto continuamente scambiata fra i varisistemi fisici sotto forma di calore o lavoro). Ma ora l’ammissione dellamorte termica dell’universo dava fiato a tutti coloro che volevano com-battere il materialismo ed il positivismo col negare l’autonomia e l’eternitàdella natura e miravano quindi ad introdurre, con l’idea di un inizio e di unafine del mondo, la necessità di ammettere un intervento esterno in grado dispiegarne la nascita e di scongiurarne l’altrimenti inevitabile fine:l’ammissione dell’esistenza di un provvido Dio sembrava ormai unaesigenza che scaturiva dal seno stesso della scienza. Ovviamente non tutti ifilosofi e gli scienziati accettavano una tale prospettiva; essa, ribattevano, sibasa sul postulato che l’universo sia un sistema chiuso e finito, in quantosolo in questi sistemi termodinamici l’entropia tende inevitabilmente adaumentare sino a raggiungere l’equilibrio termico. Far derivare dal secondoprincipio della termodinamica la necessità di ammettere la fine del mondo,e quindi un universo finito e non eterno, significa commettere una vera epropria petitio principii, cioè assumere che l’universo sia un sistema chiusoe finito, presupponendo così la tesi che si vuole dimostrare. Così adesempio il filosofo Herbert Spencer, rigettava l’ipotesi della morte termicasostenendo l’idea che il nostro universo fosse parte di un universo piùampio ed infinito in grado di intervenire dall’esterno e quindi di impedirneil degrado entropico.

Il primo principio della termodinamica

Il primo principio della termodinamica esprime nella sua forma più generale la leggedi conservazione dell’energia mediante una formula che lega l’energia interna U diun sistema (cioè l’energia, per così dire, ‘immagazzinata’ da esso, ad es. sottoforma di calore, che corrisponde alla somma delle energie cinetiche e delle energiepotenziali di tutte le sue molecole) alla quantità di calore Q assorbita dal sistema(positiva se il sistema riceve calore, negativa se lo cede) ed al lavoro L che da essovien fatto, per cui è ∆U = Q – L (indicando con ∆U la variazione dell’energiainterna). Questa formula dice che la variazione dell’energia interna di un sistematermodinamico qualsiasi quando subisce una trasformazione è eguale alla differenzatra il calore assorbito ed il lavoro fatto. In sostanza essa esprime l’idea di unbilancio tra le diverse forme di energia (energia termica Q, lavoro meccanico L evariazione dell’energia interna ∆U), analogamente a come le variazioni di una certa

72 H. Helmhotz, “Sull’azione reciproca delle forze naturali e sulle più recenti determinazioni

della fisica che ad essa si riferiscono” (1854), in Id., Opere, a cura di V. Cappelletti, UTET,Torino 1967, p. 231.

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quantità di denaro depositata in banca (∆U) dipende dalla differenza tra tutti iversamenti (Q) e tutti i prelievi effettuati (L). Ciò equivale a dire che ogni scambiodi calore e di lavoro tra un certo sistema e l’ambiente che lo circonda deve essereaccompagnatoda un mutamento dello stato fisico del sistema stesso, ossia della suatemperatura, del suo stato di aggregazione (solido, liquido ecc.), della suacomposizione chimica ecc., ma in nessun caso l’energia viene creata o distrutta;essa viene invece scambiata continuamente fra i vari sistemi sotto forma di calore edi lavoro. Esistono pertanto diverse forme di energia, che esprimono i vari modi incui un sistema può mutare il suo stato fisico scambiando calore e lavoro: oltrel’energia termica e quella chimica, anche quella nucleare.

Ma, al di là delle implicazioni filosofiche tratte a ragione o meno daldegrado entropico, è importante rilevare che emerge in ogni caso unadiscrepanza, in seno stesso alla termodinamica, tra il primo e il secondoprincipio. Il primo principio, infatti, sostiene la conservazione dell’energiae quindi la persistente capacità di lavoro (essendo appunto l’energiadefinita come capacità di compiere lavoro); il secondo, invece, afferma ilnecessario degrado dell’energia e quindi l’impossibiltà di compiere lavorouna volta raggiunto l’equilibrio termico. Il primo è del tutto in linea conuna visione meccanicistica della natura; il secondo, invece, introducendo lafreccia del tempo e l’irreversibilità, è in palese contrasto con la reversibilitàpropria della dinamica classica. Come era possibile conciliare tali dueprincipi?

Una risposta venne dalla teoria cinetica deigas, che sembrava costituire una rivincita dellaconcezione atomista e meccanicistica. Già datempo, infatti, v’erano stati dei fisici che avevanocercato di sostenere la natura meccanica del calore, rifiutando la concezionedel calorico, inteso come un fluido indistruttibile che viene trasmesso da uncorpo all’altro, analogamente a come avviene per i fluidi, che sembravaspiegare abbastanza bene i fenomeni termici allora conosciuti. Questateoria – a suo tempo proposta tra gli altri da A. L. Lavoisier (1743-1794) eC.L. Berthollet (1755-1794) – aveva subito dei duri colpi in seguito allescoperte effettuate nei primi anni quaranta da J.R. Mayer (1814-1878) e J.P.Joule (1814-1878), nei cui lavori si era dimostrato che il calore è prodottoda una certa quantità di lavoro meccanico, arrivando Joule a stabilire nel1843, con un ingegnoso esperimento, l’esistenza di una proporzionalitàdiretta tra quantità di calore prodotto e lavoro eseguito. Si affermavapertanto l’idea che il calore non è un fluido indistruttibile ma unaparticolare forma di energia che può essere trasformata in energia elettricao meccanica (con ciò introducendo l’idea di quel principio dellaconservazione dell’energia, o primo principio della termodinamica, che,come abbiamo visto prima, venne pienamente formulato da Helmholtz).Tuttavia lo sviluppo delle termodinamica, mettendo da parte il problema dielaborare un modello meccanico del calore, si era sviluppata su di una basefenomenologica a partire da grandezze macroscopiche (come pressione,volume e temperatura). È evidente in tale approccio l’influenza della teoriaanalitica del calore elaborata da Fourier. Non erano però mancati i tentatividi interpretare la costituzione fisica dei gas come costituita da molecole inrapido movimento e su questa base Daniel Bernuilli aveva cercato di

Il problema di una interpre-tazione cinetica del calore edel comportamento dei gas

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spiegare già nel 1738 la pressione esercitata da un gas sulle pareti di uncontenitore come l’effetto dell’urto delle molecole che lo costituivano su diesse. Successivamente passi in avanti in questa direzione erano staticompiuti da J. Herapath (1790-1868) e J.J. Waterston (1811-1883), senzatuttavia esercitare un grande impatto sulla comunità scientifica dell’epoca.L’interpretazione cinetica della costituzione dei gas venne in seguito ripresada Joule e A.K. Krönig (1822-1879), il quale, benché non abbia detto nulladi nuovo rispetto a quanto sostenuto dai suoi predecessori, tuttavia ebbegrande risonanza grazie al suo prestigio di scienziato. L’articolo in cui egliriproponeva la teoria cinetica ebbe una influenza decisiva su Clausius, chesi decise a pubblicare le riflessioni in merito già effettuate in connessionealla sua teoria del calore e nelle quali stabilisce una importante espressionematematica che lega insieme pressione, volume e moti molecolari.

Ma è solo a partire dal 1860 che il grandefisico inglese James Clark Maxwell (1831-1879)dà alla teoria cinetica dei gas una suaformulazione convincente, stimolato dalla lettura dell’articolo di Clausiusin cui questi esponeva le sue concezioni. In essa il comportamento dellemolecole veniva trattato in modo probabilistico, riuscendosi così acalcolare sia il percorso medio da ciascuna effettuato nel suo moto casualeprima di collidere con un’altra particella, sia la distribuzione statistica dellaloro velocità, che viene compresa entro certi valori con un addensamentointorno a quelli medi (secondo la nota curva a campana di Gauss). Maxwellrappresenta le molecole mediante un’analogia, paragonandole a sfere dipiccolissime dimensioni, dure e perfettamente elastiche, che si muovonocaoticamente all’interno di un recipiente, sicché esse possono occupareindifferentemente qualsiasi posizione: tutte le direzioni e le posizioni daesse tenute sono pertanto equiprobabili. Considerando che le molecolehanno massa e velocità media – e quindi una certa energia cinetica – nelloro movimento caotico un certo numero di esse finisce per urtare controuna delle pareti del recipiente, trasmettendole parte della propria energia equindi esercitando una certa spinta. Se si considera che questo avviene permilioni e milioni di molecole che compongono il gas, sarà facileimmaginare come l’energia così trasmessa alle pareti non sia altro che lapressione, cioè una delle grandezze macroscopiche fondamentali dellatermodinamica. Questo ragionamento, che qui abbiamo svolto in manierainformale ed intuitiva, viene rigorosamente condotto da Maxwell conconsiderazioni matematiche e probabilistiche che gli permettevano diderivare in modo stringente una grandezza macroscopica (la pressione) dalcomportamento di grandezze microscopiche (le molecole), che ubbidisconosolo alle leggi classiche della dinamica newtoniana. Con l’aiuto di unsemplice modello meccanico e di alcune ipotesi statistiche, Maxwellcompiva un grande passo per gettare un ponte tra i fenomeni appartenenti almondo macroscopico e quelli del mondo microscopico: il meccanicismo el’idea laplaciana del reale sembrava risorgere a nuova vita.

Maxwell e la formulazionedella teoria cinetica dei gas

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Egli riusciva così a spiegare importanti pro-prietà osservabili dei gas e a proporre la teoriacinetica come una prospettiva teorica assaipromettente per spiegare i fenomeni naturali,utilizzando il calcolo delle probabilità già adoperato da Laplace, e persostenere una visione atomistica della materia. Inoltre è in grado di fornireuna interpretazione della termodinamica che permette di superare ilcontrasto tra il primo e il secondo principio. Infatti «se si consideral’energia, che si conserva secondo il primo principio, come la somma delleenergie delle singole molecole del corpo, allora il secondo principio nonnega affatto, con la dissipazione dell’energia, che l’energia, cioè la capacitàdi compiere lavoro, delle singole molecole diminuisca. Tale principioafferma soltanto che essa non è più utilizzabile per l’uomo, ad esempioquando si ha un livellamento di temperatura fra i corpi, cioè si ha unadistribuzione più uniforme della velocità delle molecole in essi»73. Insommal’energia non si annulla, non scompare, ma solo si distribuisce in modo darisultare inutilizzabile, cioè da non essere più in grado di produrre lavoro(che, abbiamo visto, può essere ottenuto solo se si hanno sistemi fisici adiversa temperatura).

Analogamente, diventa possibile spiegare conla teoria cinetica dei gas il contrasto tra lareversibilità che caratterizza i processi meccanicie l’irreversibilità dei fenomeni termodinamici,espressa dall’aumento dell’entropia e dovuta al fatto che il calore si spostaspontaneamente dal corpo più caldo a quello più freddo. Anche in questocaso, spiegando il calore effetto macroscopico del moto più o menovorticoso delle molecole che compongono il gas, Maxwell sostiene che «lairreversibilità riguarda il fenomeno nel suo complesso, ma che, da un puntodi vista molecolare sarebbe possibile, per quanto estremamenteimprobabile, una reversibilità della conduzione del calore»74. Per chiarirequesto punto egli introdusse il famoso esempio del diavoletto.Immaginiamo un sistema chiuso, ad es. un recipiente, in cui temperatura epressione sono le stesse e che non cambia di volume. In questo casosappiamo che non è possibile alcun tipo di lavoro e inoltre – per il secondoprincipio della termodinamica – non è possibile che parte del calore sitrasferisca spontaneamente in una metà del recipiente, lasciando l’altrametà più fredda. Ma, afferma Maxwell, «se noi concepiamo un essere le cuifacoltà sono così raffinate che egli può seguire ogni molecola nel suo corso,un tale essere i cui attributi sono essenzialmente finiti come i nostri,sarebbe in grado di compiere ciò che ci è attualmente impossibile. Si è vistoinfatti che le molecole in un recipiente pieno d’aria a temperaturauniforme,non si muovono affatto con velocità uniforme, sebbene la velocitàmedia di un gran numero di esse, scelte arbitrariamente, è quasi esattamente

73 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. V, Dall’Ottocento alNovecento, Garzanti, Milano 1971, p. 217.

74 Ibidem.

La teoria cinetica permette disuperare il contrasto traprimo e secondo principiodella termodinamica

La spiegazione dell’entropiasu base statistica: il diavo-letto di Maxwell

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uniforme. Si supponga ora che il recipiente in questione sia diviso in dueparti, A e B, mediante un divisorio in cui vi sia un piccolo foro e che ilnostro essere, che può vedere le singole molecole, apra e chiuda il foro, inmodo da lasciar passare soltanto le molecole più veloci da A a B e soltantole più lente da B a A. Egli in tal modo, senza dispendio di lavoro, aumenteràla temperatura di B ed abbasserà la temperatura di A, in contrasto con laseconda legge della termodinamica»75. Questo esempio immaginario servesolo per sottolineare che in effetti la seconda legge della termodinamica è ilrisultato a livello macroscopico di un comportamento statistico medio dellemolecole che compongono il gas e che ubbidiscono alle normali leggi dellameccanica; come dice Maxwell la funzione di tale ‘diavoletto’ è quella di«mostrare che la seconda legge della termodinamica ha solo una certezzastatistica»76.

La strada intrapresa da Maxwell fu in seguitoperfezionata ed ulteriormente studiata a fondo daun altro grande scienziato austriaco, LudwigBoltzmann (1844-1906), il fondatore con J.W.Gibbs (1839-1903) della meccanica statistica. Egli approfondì il significatodella distribuzione probabilistica delle molecole che compongono un gas einterpretò l’entropia come lo stato macroscopico più probabile verso ilquale evolve il sistema. A sua volta, anche su suggerimento di Helmholtz esviluppando alcune implicite conseguenze già contenute in Maxwell,stabiliva una stretta connessione tra probabilità ed ordine, nel senso che lacondizione di maggiore probabilità veniva ad essere identificata con lacondizione di maggior disordine del sistema e così l’aumento dell’entropiapoteva essere considerato come l’evoluzione dall’ordine al disordine.

Di solito per illustrare tali caratteristiche dell’entropia si porta neimanuali di fisica il seguente esempio: si consideri un contenitore a paretiisolanti (come ad esempio un thermos) contenente del gas, che perciò nonha alcun tipo di interazione con l’ambiente esterno al contenitore (il sistemafisico è “isolato”) e sia questo gas separato all’interno per mezzo di unaparete che lo divida in due porzioni, una più calda e l’altra più fredda.Possiamo dire che questo gas ha una determinata misura di “ordine”, inquanto noi possiamo predire che una molecola più veloce si troverà piùprobabilmente nel lato caldo piuttosto che nel lato freddo e viceversa (comeaccade ad es. in un’urna nella quale si abbiano in una metà le pallinebianche e nell’altra le palline nere: in questo caso il sistema sarà ordinato).Eliminiamo ora la parete interna: dopo un certo periodo il sistema evolveràverso una situazione di equilibrio, in quanto il gas si diffonderàuniformemente per il contenitore e si perverrà ad una temperatura uniformein tutto il contenitore: ora il sistema è più “disordinato”, in quanto lemolecole di gas, qualunque sia la loro velocità, si sono uniformementemescolate in modo casuale in tutto il recipiente. Si badi che l’energia totale

75 J.C. Maxwell, cit. in L. Geymonat, op. cit., p. 218.76 J.C. Maxwell, cit. in G. Peruzzi, Maxwell. Dai campi elettromagnetici ai costituenti ultimi

della materia, Le Scienze, Milano 1998, p. 92.

Boltzmann e la connessionetra probabilità ed ordine:l’entropia come evoluzioneverso il disordine

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è rimasta quella di prima, in quanto il sistema è isolato e non si può averedispersione verso l’esterno: è cambiata solo la disposizione di essa per ildiverso disporsi delle molecole di diversa velocità. Tuttavia, ciò èfondamentale perché in questo modo non è possibile generare all’internodel sistema alcun lavoro, cioè trasformazione di energia, in quanto esso puòavvenire solo in presenza di diversi livelli termici. Viceversa, ogni lavoroutile, che presuppone la trasformazione dell’energia, necessariamenteproduce entropia o, altrimenti detto, aumenta il disordine complessivo delsistema. Affinché si possa ancora produrre lavoro (ad es. per ridare“ordine” alle molecole del nostro gas) è necessario mettere in contatto ilnostro sistema (nel nostro caso il contenitore) con un altro sistema chepossa accollarsi l’entropia in eccesso e quindi fornire l’ordine mancante:cioè un sistema dal quale il nostro gas possa trarre “negaentropia” (o“entropia negativa”) (ad es., che il nostro contenitore venga messo incontatto con l’ambiente esterno, sostituendo le pareti isolanti con pareti checonducano il calore, e quindi non sia più isolato, e dal quale attraverso unopportuno meccanismo possa trarre negaentropia). Un esempio di unamacchina del genere è fornito dal frigorifero domestico che traedall’esterno – energia elettrica più ambiente circostante – la negaentropiache gli permette di mantenere una temperatura interna costantemente bassacon l’espellere entropia sotto forma di calore verso l’esterno.

Diventa ancora più evidente in tal modo la na-tura non assoluta, ma semplicemente probabili-stica, della seconda legge della termodinamica enulla in linea di principio può escludere che ilprocesso che porta al “mescolamento” delle molecole calde e fredde – equindi ad uno stato di maggior disordine – non possa essere invertito (ad es.grazie al demone di Maxwell). In fin dei conti, trattandosi di eventiprobabili, anche il processo inverso che porta “ordine” al sistema èpossibile, nonostante sia la sua probabilità di accadere bassissima; maaspettando un tempo infinitamente lungo potrà benissimo capitare una voltache le molecole calde (ovvero con più energia cinetica), nel loromovimento casuale si dirigano tutte in una direzione, occupando una metàdel recipiente e così ricreando la condizione di partenza: una parte più caldaed una più fredda.

Su queste basi si è sviluppata la meccanicastatistica tra il 1860 e il 1880. Essa non solocostituiva una risposta da un punto di vista“classico” alle sfide poste dalla termodinamica,ma introduceva nel modo di considerare la conoscenza della natura unadiscontinuità tra la conoscenza sensibile dei suoi stati macroscopici e laconoscenza concettuale di quelli microscopici: uno stato di quieteempiricamente constatabile, ad es., veniva ad essere il risultato di un motovorticoso di miliardi di particelle, il cui comportamento non poteva esseredirettamente osservato ma solo ipotizzato grazie all’utilizzo di sofisticatetecniche matematiche e probabilistiche. «Ciò significava ammettere cheuna particella costituente un corpo può avere proprietà meccaniche molto

La natura probabilistica enon assoluta del secondoprincipio della termodinami-ca

Discontinuità tra conoscenzadel macroscopico e del mi-croscopico

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differenti dal corpo a cui essa appartiene. L’uniformità apparente di uncorpo perciò non è più la pura somma di uniformità infinitesime delle sueparticelle ma la compensazione o la media di difformità reali»77. Inoltre latrattazione statistica dei processi fisici segna una importante svolta nellafisica ottocentesca in quanto segna il passaggio dalla interpretazionecausale deterministica, propria delle leggi della meccanica, a unainterpretazione di tipo probabilistico che contribuisce a mettere sempre piùin luce i nessi tra determinismo e predicibilità e il ruolo della nozione dicausalità e caso nei processi fisici, con ciò preparando il terreno adimportanti sviluppi della fisica del Novecento78. Come afferma L.Geymonat, «ciò che più interessa, dal punto di vista metodologico, è che –con i lavori di Maxwell e Boltzmann – il calcolo delle probabilità entra afar parte, come uno dei suoi componenti essenziali, dell’apparatomatematico in uso nella fisica. Il ricorso a questo tipo di calcolo noncomportava di per sé – è bene notarlo in modo esplicito – una totalerinuncia al vecchio determinismo laplaciano, potendosi sempre pensare cheil moto di ogni singola molecola risulti “in realtà” determinato secondo leleggi della meccanica classica, e che l’uso di metodi statistici sia per noinecessario solo per l’impossibilità pratica in cui ci troviamo di seguire isingoli percorsi. Si avrebbe cioè un divario tra ciò che accade nel mondo“oggettivo” e ciò che siamo in grado di descrivere di esso»79.

La menzionata dicotomia tra ipotesi teoricheconcernenti il microscopico ed osservazioneempirica del macroscopico fece sì che molti fisici,attaccati ad una concezione strettamente empiristadella scienza, fossero portati a respingere la teoriacinetica e la meccanica statistica. Ciò fece sì che negli ultimi due decennidell’Ottocento e nei primi anni del Novecento i risultati raggiunti in questidue campi siano stati per lo più ignorati e rifiutati dagli ambienti scientificipiù influenti, che vedevano nell’atomismo un’ipotesi più speculativa cheempiricamente fondata, motivata da una visione materialistica della natura.Vana fu la lotta ingaggiata da Boltzmann per difendere la teoria cinetica eper sostenere un’idea della conoscenza scientifica che non si fermasse acogliere solo gli aspetti fenomenici del reale, limitandosi a sistematizzarlimediante la loro trascrizione matematica. In nome di una concezionerealistica della conoscenza, Boltzmann era infatti convinto della necessitàdi penetrare oltre l’apparenza fenomenica, servendosi di audaci ipotesi ingrado di stabilire connessioni tra i componenti più intimi della materia e dispiegare quanto ci viene mostrato dall’esperienza. Era pertanto importanteper lui dare penetrare teoreticamente i meccanismi profondi che spiegano ifenomeni della termodinamica, consentendo di inquadrarli in una visioneunitaria della natura, nello spirito di Laplace, senza fermarsi alla solaconsiderazione delle grandezze macroscopiche. Il sostanziale fallimento di

77 L. Geymonat, op, cit., p. 221.78 Cfr. G. Peruzzi, op. cit., p. 86.79 L. Geymonat, op. cit., p.169.

Il contrasto tra concezionedella scienza puramente de-scrittiva e concezione reali-stica facente uso di ipotesiteoriche

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questa sua battaglia e l’incomprensione dei contemporanei per la suameccanica statistica non furono certo irrilevanti sulla sua decisione disuicidarsi.

Altre erano le direzioni verso le quali si muo-veva la scienza di fine secolo: fisici come J.B.Stallo (1823-1900), G. R. Kirkhoff (1824-87), P.Duhem (1861-1916) ed E. Mach (1838-1916), che tanta influenza avrà sulfuturo Circolo di Vienna, erano orientati verso una critica delmeccanicismo e dell’atomismo, cui contrapponevano una visione dellafisica che fosse aderente all’evidenza empirica e quindi non facesse ipotesisu entità non osservabili (come gli atomi), ma consistesse solo nellatrattazione matematica di regolarità empiriche. Non solo, ma sembrava chegli sviluppi della termodinamica, specie in campo chimico, dessero lapossibilità di concepire questa scienza – assunta nella sua interpretazionefenomenologica – come un possibile sostituto della meccanica, scalzandoneil primato secolare. Tale impostazione venne sviluppata in particolare dallacosiddetta fisica energetica, che assumeva quale suo concetto di basequello di energia. Proposta da William Rankine (1820-72) e quindi dalfisico tedesco Georg Helm (1851-1923) – che riprendevano le intuizioni diRobert Mayer – essa rifiutava la riduzione dell’energia all’azione di massecorpuscolari; essa veniva piuttosto concepita come qualcosa di originario eprimitivo, capace di assumere in natura varie forme di manifestazione. Ilsuo più deciso sostenitore fu il chimico-fisico tedesco Wilhelm Ostwald(1853-1932), che interpretava l’energia come il substrato di tutti ifenomeni, cercando di edificare sulla sua base una vera e propria filosofiamonistica.

3. L’elettromagnetismo e l’idea di campo.

Un altro punto di crisi della concezione mecca-nica della natura sorgeva nel campo dei fenomenimagnetici ed elettrici. Un esperimento condottonel 1820 dallo scienziato danese Hans Christian Oersted (1777-1851) misein luce come sia possibile generare effetti magnetici mediante la correnteelettrica, in tal modo mettendo in relazione fenomeni sino ad allora ritenutidiversi: magnetismo ed elettricità. Ma ancora più interessante era il fattoche l’esperimento ed il tipo di interazioni messo in luce tra elettricità emagnetismo non seguiva affatto le leggi della dinamica newtoniana, inquanto la forza agente non agiva lungo la congiungente tra i corpi (nel casospecifico, un filo percorso da corrente ed un ago magnetico), bensì sirivelava perpendicolare ad essa; esattamente all’opposto di come agiva laforza gravitazionale, cioè lungo la linea di congiunzione di due corpi che siattirano o respingono. Sembrava pertanto che gli esperimenti di Oerstednon fossero riconducibili ad interazioni tra particelle di tipo newtoniano,bensì fossero il sintomo di forze che operavano in tutto lo spaziocircostante al conduttore, secondo delle traiettorie circolari intorno al filo

La tendenza fenomenologi-ca: la fisica energetica

I problemi suscitati dallo stu-dio dei fenomeni magneticied elettrici

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(così come è possibile rilevare quando si faccia l’esperimento del magnetee della limatura di ferro). Il che equivaleva ad ammettere una concezionedella materia e dello spazio non più discontinua, come ipotizzata dallafisica newtoniana, bensì continua.

La distinzione tra continuità e discontinuitàdella materia risale alla contrapposizione tra lafisica di Cartesio e quella di Newton. Per ilfilosofo e scienziato francese l’universo non può ammettere vuoti, ma deveessere un plenum di materia: anche là dove sembra che i corpi sianoseparati da una distanza priva di materia (come la Terra e il Sole) ènecessario ammettere l’esistenza di un mezzo continuo, un fluido etereo,che compie moti vorticosi e nel quale “nuotano” i corpi celesti. È questofluido etereo a spiegare la reciproca azione tra i corpi celesti, altrimentiincomprensibile se si ammettesse l’esistenza del vuoto: in un approcciostrettamente meccanicistico quale quello di Cartesio la reciprocainterazione è ammissibile solo mediante il contatto tra materia, assicuratoda questo fluido etereo. Per Newton, al contrario, è ammissibile il ricorso aforze che si comunicano a distanza in modo istantaneo e senza contattomeccanico tra materia, come appunto avviene nei fenomeni gravitazionali;per cui in quest’ottica tutte le forze agenti in natura avrebbero dovutoessere ridotte alle attrazioni e repulsioni istantanee e a distanza traparticelle, tra loro separate dal vuoto.

In effetti il programma di ricerca newtonianoaveva mostrato nel corso del Settecento la suasuperiorità su quello cartesiano, ottenendo semprepiù numerosi dati sperimentali che lo confermava-no e portando a numerose scoperte. Tra queste merita di essere menzionatala cosiddetta legge di Coulomb, che formula tra i corpi elettricamentecarichi una dipendenza perfettamente analoga a quella individuata dallalegge di gravitazione universale trovata da Newton. Ma, a fronte di questisuccessi, lasciava tuttavia perplessi gli scienziati – in gran parte orientati insenso maccanicista – l’idea di una azione a distanza che sembrava farrivivere passati tentativi di spiegazione dei fenomeni naturali facendoricorso a cause occulte, virtù attrattive, simpatie e cose simili, appartenential repertorio dell’immaginario medievale. E non poche critiche erano statemosse a Newton dai suoi contemporanei per l’appunto su questa questione.Lo stesso Newton, del resto consapevole delle difficoltà, aveva rifiutato diindagare sulla natura di questa forza, affermando che ad essere importanteera determinare come essa agisse, e a tal fine era sufficiente la leggematematica da lui fornita. Una posizione che cercava di trovare un puntoequilibrio che non entrasse in conflitto con la sua fede meccanicistica, mache non poteva impedire ai più attenti seguaci del newtonesimo di notare leconseguenze antimeccanicistiche dell’ammissione di un’azione a distanza.

Fisica cartesiana del continuocontro fisica newtoniana deldiscontinuo

Supremazia del programmanewtoniano e il problemadella azione a distanza

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Analogia formale tra legge di gravitazione universale di Newtone legge di Coulomb

La legge di gravitazione universale di Newton mette in relazione la massa dei corpi

celesti con la loro distanza, secondo la formula F = G

m1m2

r2, dove m 1 e m 2

rappresentano le masse dei due corpi celesti, r la loro distanza e G è la costante digravitazione universale. Essa ci dice che due corpi materiali si attraggono con unaforza, diretta lungo la loro congiungente, che è direttamente proporzionale allerispettive masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza.

Analogamente la legge di Coulomb si esprime con la formula F = k

q1q2

r2, nella quale

k è una costante (detta costante di Coulomb), q1 e q 2 sono le cariche elettriche(supposte puntiformi) e r la distanza tra le due. Come si vede le due formule sonoformalmente identiche, con le cariche al posto delle masse e la costante k al postodella costante di gravitazione G.

Ora l’esperienza di Oersted sembrava ripropor-re la questione col lasciare ipotizzare nuovamentela possibilità di uno spazio non vuoto, ridandoquindi fiato ai fisici sostenitori della teoria conti-nuista della materia, di ascendenza cartesiana. La comunità scientificacoglie immediatamente l’importanza dell’effetto scoperto dal fisico danesee si impegna alla ricerca di spiegazioni che vanno o nella direzione deltentativo di ricondurlo all’interno del quadro teorico dominante legatoall’azione a distanza, o in quella che ammetteva la sola azione per contatto,sulla scia del rinato interesse per le teorie dell’etere, rimesse in campoanche dal successo crescente della concezione ondulatoria della luce. Nellaprima direzione si avvia il matematico francese André-Marie Ampère(1775-1836), che riprende e generalizza – con un apparato matematicoassai complicato – gli esperimenti di Oersted in modo da interpretareunitariamente i fenomeni del magnetismo, cui venne attribuita naturafondamentalmente elettrica; egli riesce così a ridurre tutti i fenomeni diattrazione e repulsione tra magneti (descritti dalla legge di Coulomb) e tramagneti e correnti (evidenziati dell’esperimento di Oersted) alla leggefondamentale della forza tra correnti da lui formulata. Alla base staval’esplicito richiamo all’idea di Newton che l’importante fosse «osservare ifatti, compiere precise misure per ricavare leggi empiriche da cui dedurre,senza tentare di spiegare la natura delle forze in gioco, l’espressionematematica di queste forze»80. Una posizione del resto in perfetta linea conl’impostazione che abbiamo già visto aveva dato Fourier al suo studio deifenomeni termici.

In tutt’altra direzione vanno invece le ricer-che di Michael Faraday (1791-1867), scienziatocon una formazione da autodidatta e pertantopoco esperto nelle raffinate tecniche matematiche impiegate dai fisicifrancesi: «La sua estraneità al tipo di formalismo usato dalla scuolafrancese lo spingeva ad esprimere le leggi di natura non attraverso

80 G. Peruzzi, op, cit., p. 44.

Le conseguenze della scoper-ta di Oersted: la ripropostadel newtonesimo in Ampère

Faraday e la scoperta del-l’induzione elettromagnetica

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equazioni stabilite nel linguaggio dell’analisi matematica ma mediante unsimbolismo, quello delle “linee di forza”, che affondava le sue radicinell’intuizione di tipo geometrico»81. La convinzione della necessità distudiare il processo complessivo dei fenomeni elettrici, che portava Faradaya concentrare l’attenzione non solo sui corpi interagenti, ma anche sullospazio interposto, certamente non fu senza rilievo nella sua scoperta dellainduzione elettromagnetica (ovvero la possibilità di produrre flussi dicorrente elettrica facendo variare un campo magnetico, ad es. avvicinandood allontanando una calamita in vicinanza di un circuito o, viceversa,facendo muovere il circuito rispetto al magnete), così completando lascoperta di Oersted: era possibile ormai generare energia elettrica senza farricorso alle pile, ma sfruttando solo il movimento meccanico (comedimostrava la dinamo a disco inventata da Faraday). È aperta così la stradaad un nuovo settore dell’indagine umana ed a una nuova disciplina,l’elettrodinamica, che ebbe importanti conseguenze applicative: quasi tuttal’energia elettrica oggi prodotta si basa sull’induzione elettromagnetica,come avviene ad es. con le centrali idroelettriche, che sfruttano l’energia dicaduta di grandi masse d’acqua per ottenere energia meccanica che vienatrasformata in corrente elettrica, o come accade più semplicemente con ladinamo della bicicletta o con l’alternatore delle automobili.

Ciò che veniva alla luce dallo sviluppo diquesto nuovo ambito di indagine era una nuovarealtà fisica che, già ipotizzata dai sostenitoridella teoria ondulatoria della luce (in particolare Christian Huygens) nelcorso del dibattito contro i sostenitori della teoria corpuscolare (propostaper primo da Newton), ora sembrava essere sostenuta da evidenzeincontrovertibili: quella del campo. Faraday, infatti, per spiegare i fenomenidi induzione elettromagnetica faceva uso di linee di forza e di azioni percontatto, che potevano essere ammesse solo se si ipotizzava un continuomateriale, contraddicendo così la descrizione dualistica del mondo fisicofatta dai newtoniani. La materia infatti era per lui “ovunque”: un continuodove non sussistono distinzioni tra gli atomi e l’ipotetico spazio intermedioe dove non risultavano più ammissibili l’azione a distanza e lapropagazione istantanea di forze fisiche. Si affacciava l’intuizione di un“campo unificato di forze”, che risiederebbe nell’intero spazio e chepermetterebbe di spiegare in maniera unitaria i fenomeni elettrici,magnetici, chimici e gravitazionali. Sullo sfondo, l’idea della sostanzialeunità delle forze della natura, che era stata propria della Naturphilosophiecontinentale e che aveva ispirato anche Oersted.

Concezioni queste, però, che sembravano aifisici a lui contemporanei troppo qualitative eoscure: Faraday aveva cercato sì di descrivere ilcampo come un insieme di linee di forza esten-dendosi nello spazio a partire dalle cariche elettriche (o dai magneti), ma

81 Ib., p. 46.

L’idea di ‘campo’ e le linee diforza

Maxwell cerca di dare rigorematematico alle idee quali-tative di Faraday

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non era stato in grado di dare loro quell’elegante veste matematica cheinvece era caratteristica della scuola francese ed era stata espressa nel suomassimo grado da Ampère. Gli avversari potevano benissimo sostenere chetutte le sue teorie si basavano solo su di una arbitraria estrapolazione apartire da quanto accade per la limatura di ferro sparsa su un foglioappoggiato ad una calamita. Sarà Maxwell a dare vero e proprio statutoscientifico a queste idee, fornendo loro una veste matematica rigorosa:«Quella che mancava era una sintesi soddisfacente tra la descrizionematematica e l’interpretazione fisica; la complessità della prima finiva conl’offuscare la seconda. Una sintesi che nei dieci anni successivi Maxwellriuscirà ad esprimere nella forma della teoria dei campi elettromagnetici»82.

Dopo aver avanzato nei suoi primi due lavoriuna interpretazione meccanicistica dell’induzioneelettromagnetica, dove aveva anche fornito unmodello di etere in grado di spiegare sia ifenomeni ottici sia l’affinità tra onde luminose e onde elettromagnetiche(giungendo alla notevole conclusione che esse si propagano alla stessavelocità), nell’ultimo lavoro che compone la trilogia dei suoi studisull’argomento Maxwell si preoccupa unicamente di sviluppare una teoriamatematica dei fenomeni elettromagnetici, in modo da ottenere una serie diequazioni da cui poi derivare logicamente tutte le conseguenze che eranostate riscontrate empiricamente nei numerosi esperimenti condotti daFaraday e da lui stesso. Perde anche interesse per lui la costruzione diun’immagine visualizzabile dell’etere, al cui posto subentra il desiderio diformulare le equazioni differenziali che regolano i fenomeni in essoverificantesi. Egli vuole così costruire una “teoria dinamica del campoelettromagnetico”: dinamica «perché assume che in quello spazio vi siamateria in movimento dalla quale vengono prodotti i fenomenielettromagnetici osservati»83, con ciò continuando a far propria l’ipotesimeccanicistica, secondo la quale la spiegazione ultima dei fenomeni risiedein ciò che avviene in un mezzo meccanico; del campo, in quanto ha a chefare con lo spazio nella vicinanza dei corpi magnetici o elettrici,introducendo così una nuova entità fisica «che permette la deduzione delleleggi che unificano i fenomeni elettromagnetici e quelli luminosi non apartire dalla descrizione del funzionamento di un particolare meccanismoma dall’analisi delle relazioni sussistenti tra i vari risultati sperimentali.[…] Al centro di una teoria fisica non devono esserci modelli particolarima le relazioni generali che si possono stabilire, a partire dai datisperimentali, tra il più vasto numero possibile di fenomeni diversi»84.

Tuttavia, nella elaborazione successiva, effettuata in direzione di unateoria lagrangiana generalizzata del campo elettromagnetico, la teoria sisvincola completamente dalla necessità di ipotizzare qualsivoglia ipotesimeccanicistica che spieghi la generazione dei fenomeni considerati: pur

82 Ib., p. 53.83 J. Clerk Maxwell, cit. in ib., p. 68.84 G. Peruzzi, op. cit., p. 70.

Maxwell: dal meccanicismoalla formalizzazione mate-matica facente a meno dimodelli meccanici

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restando convinto che il substrato dei fenomeni possa essere sempreconcepito in linea di principio su base meccanica – mai Maxwellabbandonò la sua fede nel meccanicismo, come del resto testimonia la suateoria cinetica dei gas (di cui al § precedente) – tuttavia egli ritiene chemodelli e interpretazioni diventano irrilevanti quando si sono trovati leleggi generali in grado di ordinare un certo ambito fenomenico. SicchéHertz potè poi sostenere che la teoria di Maxwell è il sistema delleequazioni di Maxwell, analogamente a come si è sostenuto che la teoriagravitazionale di Newton non è altro che la sua legge di gravitazioneuniversale. In entrambi i casi la forma matematica, con la sua capacitàesplicativa, fa mettere in secondo piano la necessità di postulare modelliche descrivano i meccanismi concreti che stanno alla base delcomportamento dei fenomeni. Questa tendenza antimodellista – che di fattosi traduce in una critica del meccanicismo newtoniano – ebbe un notevolesuccesso nella fisica di fine secolo, come testimoniano le riflessioniepistemologiche in questo senso effettuate da due grandi fisici e storicidella scienza, Pierre Duhem ed Ernst Mach; ma fece anche sì che l’opera diMaxwell fosse avversata dai fisici più attaccati all’ipotesi meccanicistica,per i quali era indispensabile far ricorso a modelli meccanici nellaspiegazione dei fenomeni.

Il frutto del lavoro teorico dello scienziato in-glese saranno le famose “equazioni di Maxwell”,perfezionate nel suo Treatise on Electricity andMagnetism del 1873 e quindi riformulate e confermate sperimentalmentenegli anni novanta da Heinrich Hertz (1857-1894). Come affermanoEinstein ed Infeld, «la formulazione di queste equazioni costituiscel’avvenimento più importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton»85.Esse «definiscono la struttura del campo elettromagnetico. Sono leggivalide nell’intero spazio e non soltanto nei punti in cui materia o caricheelettriche sono presenti, com’è il caso per le leggi meccaniche. Rammen-tiamo come stanno le cose in meccanica. Conoscendo posizione e velocitàdi una particella, in un dato istante, e conoscendo inoltre le forze agenti sudi essa, è possibile prevedere l’intero futuro percorso della particella stessa.Nella teoria di Maxwell invece basta conoscere il campo in un dato istanteper poter dedurre dalle equazioni omonime in qual modo l’intero campovarierà nello spazio e nel tempo. Le equazioni di Maxwell permettono diseguire le vicende del campo, così come le equazioni della meccanicaconsentono di seguire le vicende di particelle materiali»86. Grazie ad esseviene fornito in forma matematicamente ineccepibile un quadro unitario nelquale descrivere sia i fenomeni elettromagnetici sia quelli luminosi, cheMaxwell sperava di poter generalizzare in modo da ricomprendere in essoanche i fenomeni gravitazionali. E difatti negli anni successivi si estese ilvocabolario introdotto da Maxwell alla teoria newtoniana della gravita-zione, iniziandosi a parlare di “campo gravitazionale”; e sebbene la

85 A. Einstein, L. Infeld, op. cit., p. 153.86 Ib., p. 156.

Le “equazioni di Maxwell” ela loro importanza per lafisica successiva

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speranza di poter ottenere una teoria unificata del campo s’è dimostratavana ed è ancora oggi, com’è noto, irrealizzata, tuttavia è a partire daqueste equazioni e dalla nozione di campo da esse introdotta che Einsteinpartirà per proporre la sua teoria della relatività speciale ed in seguitosostenere che il campo gravitazionale si propaga in modo quasi identico aquello delle onde elettromagnetiche, e quindi con una velocità finita. In talmodo l’azione istantanea a distanza viene definitivamente respinta in favoredell’azione per contiguità anche nei fenomeni gravitazionali.

Ma costituiva la teoria del campo elettroma-gnetico elaborata da Maxwell una reale alternativaalla meccanica classica di origine newtoniana?Certo, come abbiamo visto, il concetto di campo e le stesse equazioni chelo descrivono sono in netto contrasto con il concetto di particelle e leequazioni tipiche della meccanica classica. Tuttavia nessun fisico ortodossodi fine Ottocento avrebbe mai accettato l’idea di una scienza della naturadivisa in due fisiche diverse, tra loro inconciliabili. Avrebbe piuttostocercato di ricondurre la teoria elettromagnetica alla meccanica classica,ipotizzando un supporto materiale del campo che ne spiegazze l’azione.Così infatti vanno le cose e a venire in soccorso è l’analogia delle ondeelettromagnetiche con le onde in un liquido: queste ultime possonoavvenire perché vè un mezzo elastico (ad es., l’acqua) nel quale si formano;analogamente le onde descritte da Maxwell avvengono in un mezzomateriale – del resto da lui già ipotizzato in una prima fase del suo pensiero– che ne costituisce il supporto: è il vecchio concetto di etere a servire allabisogna. È pertanto questo fluido imponderabile ad essere posto alla base,negli ultimi anni dell’Ottocento, delle teorie ottiche, elettriche emagnetiche: il campo elettromagnetico maxwelliano è pensato come uninsieme di perturbazioni propagantesi in un etere che si estende occupandotutto lo spazio. Quest’etere cosmico finisce quindi per svolgere l’impor-tante funzione di unificare due settori della scienza fisica altrimentiinconciliabili: la teoria meccanica e il concetto di campo. Così come delresto aveva indicato lo stesso Maxwell, la propagazione delle ondeelettromagnetiche veniva giustificata facendo ricorso ad un supportomeccanico che costituisce il mezzo della loro trasmissione: l’etere è,dunque, il mezzo elastico – fatto di particelle in moto e di forze agenti su diesse – le cui vibrazioni assicurano la trasmissione del moto ondulatoriodella luce, del magnetismo e dell’elettricità, in ottemperanza alle leggiclassiche che regolano le oscillazioni dei corpi perfettamente elastici, giàben studiate nell’ambito della fisica meccanicistica. L’esistenza dell’etereveniva ritenuta così logica ed indispensabile da essere esso universalmenteaccettato da tutti i fisici del tempo come una delle sostanze componentidell’universo. Due diverse branche della fisica potevano, suo tramite,essere collegate tra di loro, preservando il prezioso bene della unitarietàdella scienza, che era stato al centro della concezione di Laplace, esalvaguardando l’immagine meccanica della natura.

L’etere quale punto diunificazione tra meccanica edelettromagnetismo

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I grandi progressi nei vari campi della scienzae la capacità delle nuove teorie (come la termodi-namica, la meccanica statistica, la teoria deicampi) non solo di spiegare i fatti e farneprevedere di nuovi, ma anche di trovare applicazione in scoperte e ritrovatitecnici che stavano letteralmente cambiando il volto al mondo, facevanopensare che la conoscenza umana si fosse incamminata su binari sicuri eche non restasse che applicare ed ulteriormente estendere a nuovi dominidell’esperienza umana i metodi e le teorie note per accumulare nuoveconoscenze e scoperte. «Confortata da questi spettacolari progressi, lacomunità dei fisici entrò nel XX secolo con passo baldanzoso. Tutte letessere del mosaico sembravano andare al loro posto: la meccanicanewtoniana era una descrizione completa del moto di ogni possibile corpomassivo, dai pianeti giù giù sino agli atomi; la teoria maxwellianadell’elettromagnetismo non soltanto svelava i più riposti segreti dell’ottica,ma adombrava la possibilità di comprendere le interazioni, supposte dinatura soprattutto elettrica, tra atomi e molecole; la meccanica statisticaprometteva infine di spiegare le proprietà degli oggetti macroscopici comeconseguenza di quelle dei loro componenti atomici. Restava, è vero,qualche punto oscuro: la struttura fine degli atomi e le inesplicabiliregolarità dei loro spettri; l’inanità degli sforzi volti ad estendere ai liquidi eai solidi l’eccellente teoria microscopica, qualitativa ed entro certi limitianche quantitativa, del comportamento macroscopico dei gas. Ma eranodettagli. Chi poteve dubitare che l’intelaiatura della fisica fosse solida e chealla fine questi enigmi sarebbero stati risolti al suo interno? A suggellodell’ottimismo dilagante, il fisico inglese Lord Kelvin nel 1900 terminò unaconferenza dedicata a un esame sommario dello stato di solute della “sua”scienza all’alba del nuovo secolo tratteggiando un orizzonte sereno al di làdi un paio di ‘nuvolette’; per il resto non v’era da sospettare che ilconvoglio non fosse avviato nella giusta direzione»87.

Ben presto, però, queste “nuvolette” genereranno una vera e propriabufera.

4. La teoria della relatività

Il rivolgimento più radicale della scienza del Novecento si deve ad unoscuro impiegato dell’Ufficio Brevetti di Berna, Albert Einstein (1979-1955), il cui nome ben presto divenne un punto di riferimento per indicareuna rivoluzione scientifica paragonabile a quella operata a suo tempo daCopernico. In tre articoli del 1905 (uno dei quali gli valse il premio Nobel),scritti con un apparato matematico non troppo sofisticato ma con grandeforza deduttiva e capacità di ripensare i fondamenti della fisica, sino adallora dati per scontati, dà con la Teoria della relatività speciale (o

87 A.J. Legget, I problemi della fisica, Einaudi, Torino 1991, pp. 25-6.

Fiducia nella scienza ed otti-mismo sul suo sviluppo fu-turo tra Ottocento e Nove-cento

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ristretta)88 un contributo alla fisica che non ha eguali e che saràulteriormente approfondito negli anni successivi con la Teoria dellarelatività generale. Come ricorda Max Born, egli «possedeva il dono divedere un significato dietro fatti ben noti e poco appariscenti, significatoche a tutti gli altri era sfuggito […] Era questa sua misteriosa capacità divedere dentro al modo di funzionare della natura che lo distingueva da tuttinoi, non la sua abilità matematica»89.

Il punto di partenza di Einstein è costituitodalla riflessione sul principio di relatività gali-leiana, valido nella meccanica classica. Questoprincipio (noto anche come principio di relatività meccanica) era statoformulato da Galileo per sostenere la mobilità della terra durante lacontroversia per l’affermazione del sistema copernicano. Una delleobiezioni fondamentali mosse dai tolemaici consisteva nell’osservare che,qualora la terra fosse in moto, un peso lasciato cadere dalla sommità di unatorre dovrebbe giungere al suolo non alla sua base, ma spostato di un spaziocorrispondente al moto nel contempo effettuato dalla terra. Per rispondere atale obiezione Galileo aveva concepito un esperimento ideale:immaginiamo, scrive nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,di essere rinchiusi nella stiva di una nave, sul pavimento della quale è postoun vaso con una piccola apertura e sopra di esso un secchio dal quale dellegocce d’acqua si stacchino versandovisi; se la nave è ferma vedremo chetutte le gocce cadendo verticalmente si verseranno entro il vaso deposto aterra. Facciamo ora muover la nave a qualsivoglia velocità, ma con motouniforme e non fluttuante qua e là; allora non vedremo alcuna differenzanel comportamento delle gocce, che cadranno dal secchio sospeso semprein modo da centrare la bocca del vaso. Lo stesso accadrà per ogni altrofenomeno fisico che avviene nella stiva della nave, a condizione però che ilmoto sia rettilineo e uniforme, ovvero non subisca oscillazioni efluttuazioni (cioè non sia accelerato verso nessuna direzione)90. È del restol’esperienza che ciascuno di noi può fare quando si trova a bordo di unaereo o di un treno che si muovano sempre alla stessa velocità, senzaeffettuare alcuna deviazione (o vibrazione): ogni evento fisico che accadain esso, avverrà allo stesso modo che se avvenisse in un sistema che èfermo. Le differenze sono invece avvertite quando l’aereo vira o il treno èin curva: in questo caso subiremo una forza che ci spinge nella direzionecontraria alla direzione che il mezzo sta assumendo. Applicando il principiodi relatività alla teoria di Copernico, Galileo era così in grado di sostenereche non è possibile con esperienze di tipo meccanico affermare che la Terraè ferma; cade quindi l’argomento della torre.

88 L’articolo nel quale venne per la prima volta formulata tale teoria è “Elektrodynamik

bewegter Körper”, in Annalen der Physik, 4, 17 (1905), pp. 891-921.89 M. Born, Autobiografia di un fisico, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 251.90 Cfr. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere, a cura di F.

Brunetti, UTET, Torino 1980, vol. II, pp. 236-7.

Il principio di relatività for-mulato da Galileo: l’esempiodella nave

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Insomma, chi stia nella stiva della nave diGalileo – o in un qualunque sistema fisico chestia in quiete o si muova con moto rettilineouniforme – non può capire in alcun modo se sia in moto o in quiete, a menoche non abbia la possibilità di misurarne la velocità facendo riferimento adun sistema esterno rispetto al quale effettuare la misura: è questo sistema diriferimento a permettere di misurare la velocità del sistema in cui si troval’osservatore. La velocità è, dunque, una quantità relativa al sistema diriferimento rispetto al quale viene effettuata la sua misura; nel caso dellanave di Galileo, del treno o dell’aereo questo sistema di riferimento èrappresentato dalla terra. Quando il sistema di riferimento in cui si troval’osservatore si muove di moto rettilineo uniforme o sta in quiete si diceche esso è un sistema inerziale, cioè un sistema per il quale vale il primoprincipio della dinamica formulato da Newton: «ogni corpo persiste nel suostato di quiete o di moto rettilineo uniforme finché forze esterne ad essoapplicate non lo costringano a mutare questo stato»91.

Un sistema di coordinate spaziali (secondo gli assi x, y, z) inerziale èdetto sistema di coordinate galileiane. A voler essere esatti, il ragiona-mento di Galileo contro i tolemaici non è del tutto corretto, in quanto laterra non è in effetti un sistema inerziale: essa compie un movimentorotatorio intorno al sole e ruota sul proprio asse, per cui dovrebbecomportarsi a rigore come un treno in curva; quindi i fenomeni fisici in essarealizzantesi dovrebbero subire una certa forza: in teoria il primo principiodella dinamica non può essere esattamente verificato in un laboratorioterrestre. Per tale ragione, nonostante l’influenza di tale moto sia talmentepiccola da essere ininfluente negli esperimenti di laboratorio, nondimenoNewton sentì l’esigenza di assumere come sistema di riferimento pereccellenza lo spazio assoluto, considerato il contenitore immobile di tutti icorpi, cioè quel sistema inerziale di riferimento privilegiato nel qualevalgono tutte le leggi della meccanica e al quale devono essere riferite tuttele nostre misure. Una buona approssimazione di tale sistema di riferimentoprivilegiato poteva essere, secondo Newton, il centro di massa del sistemasolare, allora considerato il centro dell’universo; successivamente si scoprìche anche il sistema solare ruota con le altre stelle intorno al centro dellaGalassia, ma tale rotazione è talmente lenta da lasciare immutata laposizione reciproca delle stelle, sicché si può ritenere il cosiddetto cielodelle stelle fisse come un sistema di riferimento in cui il primo principio èpressochè del tutto realizzato.

Secondo principio della dinamica e sistemi inerziali

Il nesso tra il concetto di sistema inerziale e il secondo principio della dinamicanewtoniana, espresso dalla legge F=ma (ovvero, forza = massa x accelerazione), èdato dal fatto che quest’ultima non sarebbe più valida in un sistema che non fosseinerziale, in quanto dovremmo considerare altre forze agenti sulla massa. Peresempio, la terra gira intorno al suo asse e quindi non è inerziale; a rigore, quindi,

91 Formulazione tratta da R. Resnick, D. Halliday, op. cit., p. 80.

I sistemi inerziali e la ricercadel sistema di riferimento pereccellenza: lo spazio assoluto

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tale legge non vale per essa, in quanto si dovrebbe tener conto della forzacentrifuga che agisce sui corpi. Benché tale influsso sia molto piccolo e ai fini degliesperimenti di laboratorio del tutto trascurabile, nondimeno esso è teoricamentepresente e riveste importanza in quanto mette in luce che la terra non è un sistemainerziale nel quale sono valide le leggi delle meccanica newtoniana. Onde l’esigenzadi Newton di postulare il “giusto” sistema di riferimento caratterizzato dal fatto chein esso sono valide le leggi da lui scoperte; e questo non poteva essere uno degliinfiniti sistemi di riferimento da noi descrivibili, ma un sistema appunto assoluto,fisso, al quale riportare tutti gli altri con le trasformazioni galileiane. E questo eraper lui lo spazio assoluto.

La sostanza del principio di relatività meccani-ca è dunque l’idea secondo la quale tutti i sistemiinerziali sono tra loro equivalenti, cioè i fenomenimeccanici avvengono in modo identico sia entroun sistema in moto rettilineo uniforme, sia in un sistema in quiete rispettoallo spazio assoluto. Come dice Einstein, «se K’ è un sistema di coordinateche si muove, rispetto a K, uniformemente e senza rotazione [cioè in modorettilineo], allora i fenomeni naturali si svolgono rispetto a K’ secondo lestesse precise regole generali come rispetto a K. Questo enunciato vienedetto principio di relatività (nel senso ristretto)»92. Ciò equivale a dire chetra i sistemi in moto rettilineo uniforme, cioè inerziali, non vi sono sistemidi riferimento privilegiati. Ne segue che due osservatori, l’uno in quiete el’altro in moto rettilineo uniforme, vedono un qualunque fenomenomeccanico che avvenga nel proprio sistema nello stesso modo dell’altro;per entrambi il comportamento meccanico dei corpi è identico. Se, adesempio, un corpo si muove di moto rettilineo uniforme in un certo sistemadi coordinate galileiane, allora esso si muoverà anche di moto rettilineouniforme rispetto ad un altro sistema di coordinate galileiane che rispetto alprimo si muove di moto rettilineo uniforme. Se le leggi fondamentali delladinamica assumono sempre la stessa forma in tutti i sistemi di riferimentoinerziali, allora è impossibile per un osservatore stabilire con esperimenti dicarattere meccanico se il sistema in cui si trova è in moto rettilineouniforme o in quiete, così come abbiamo visto nel caso dell’esperimentogalileiano della nave. Matematicamente questa proprietà si esprime dicendoche le equazioni della meccanica non cambiano, sono cioè invarianti, neidiversi sistemi di riferimento inerziali. Tuttavia è sempre possibile“tradurre” la descrizione di un fenomeno fisico effettuata da un osservatorea nel sistema fisico inerziale S nella descrizione effettuata da un altroosservatore a’ appartenente ad un altro sistema fisico inerziale S’. Ciòavviene grazie alle cosiddette trasformazioni galileiane, cioè delleparticolari formule che consentono di passare, ad es., dalla descrizione diun qualsiasi fenomeno meccanico fatta da un osservatore immobile alladescrizione fatta da un altro osservatore in moto rettilineo uniforme rispettoal primo.

92 A. Einstein, Relatività (1916), in Einstein et al., Relatività: esposizione divulgativa, Bollati

Boringhieri, Torino1967, p. 53. Cfr. anche A. Einstein, Il significato della relatività (1922, 19503),Einaudi, Torino 1950, pp. 33-4.

Equivalenza dei sistemi iner-ziali per le leggi della mec-canica e trasformazioni gali-leiane

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Consideriamo ad es. un treno che si muove dimoto rettilineo uniforme alla velocità di 10 Kmhrispetto al sistema di riferimento costituito dalmarciapiede della stazione. Sul treno un passeggero cammina nella stessadirezione in cui avanza il treno, che costituisce per lui il suo sistema diriferimento inerziale e pertanto può essere considerato in quiete, allavelocità di 5 Kmh. Consideriamo ora un osservatore che sta fermo sulmarciapiede della stazione (il suo sistema di riferimento inerziale): questivedrà il passeggero muoversi ad una velocità che è la somma della suavelocità all’interno del treno e di quella tenuta da questo, cioè alla velocitàdi 15 Kmh. Le trasformazioni galileiane ci permettono di conoscere laposizione di un corpo (il passeggero) rispetto a diversi sistemi diriferimento inerziali (quello del passeggero e quello dello spettatore sulmarciapiede), per cui se nel sistema di riferimento S cui appartiene il corpola posizione da questo occupata dopo aver camminato per un certo tempo tè contrassegnata dalle coordinate (x, y, z), nel sistema di riferimento S’ lasua posizione sarà contrassegnata dalle coordinate (x’, y, z) (muta solo la xin quanto si suppone che il moto avvenga in una sola direzione, quella dellax, per cui sarà y’=y e z’=z), dove x’= x+vt (tenendo presente che lo spaziopercorso s è eguale alla velocità v per il tempo t, cioè s=vt).

Come si vede dall’esempio fatto, nell’effettua-re il passaggio da un sistema di riferimento all’al-tro, abbiamo effettuato la somma delle velocitàtenute rispettivamente dal treno (rispetto almarciapiede) e del viaggiatore (rispetto al treno). Ciò viene espresso nellameccanica classica dalla cosiddetta legge della somma delle velocità.Nell’esempio il sistema di riferimento rispetto al quale si effettuava lasomma era quello costituito dal marciapiede (solidale con la terra), checostituiva per così dire il sistema ritenuto “privilegiato”; se avessimoassunto come sistema di riferimento il sistema solare, allora avremmodovuto aggiungere anche la velocità di spostamento della terra nella suaorbita intorno al sole. In ogni caso saremmo stati in grado di effettuare lasomma delle relative velocità in modo da ottenere quella risultante rispettoal sistema di riferimento “privilegiato”, al quale abbiamo deciso di riportarele velocità degli altri sistemi di riferimento, applicando le trasformazionigalileiane.

Ma come stanno le cose quando passiamo dal-le leggi della meccanica a quelle dell’elettroma-gnetismo? Una delle conseguenze teoriche piùimportanti delle equazioni di Maxwell e della sua teoria elettromagnetica èche la velocità di propagazione della luce è costante, ed equivale a c (circa300.000 Km al secondo nel vuoto)93, indipendentemente da qualsiasi

93 L’idea che la luce non si propagasse istantaneamente e che avesse, analogamente al suono,

una velocità finita cominciò a farsi strada sin dal Seicento con Galileo, che cercò senza successodi misurarla. Una sua prima determinazione abbastanza precisa venne effettuata dall’astronomoOlaf Römer nel 1676; quindi dall’inglese James Bradley nel 1729, da Hippolyte Fizeau nel 1849

Esempio del treno e appli-cazione delle trasformazionigalileiane

Un corollario importante del-le trasformazioni galileiane:la legge della somma dellevelocità

L’esistenza dell’etere comesistema di riferimento privile-giato

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sistema di riferimento. Ovvero la velocità della luce è la medesima inqualsiasi sistema di riferimento, qualunque sia la sua velocità relativa. Ma,come sappiamo, si può misurare la velocità solo all’interno di un sistema diriferimento; sorge quindi la domanda: quale è il sistema di riferimento nelquale la velocità della luce è uguale a c? Era naturale rispondere, conNewton: lo spazio assoluto, che poi di fatto veniva ad essere identificatocon l’etere immobile, che pervade tutto l’universo e che permette la stessatrasmissione della luce (come abbiamo visto nel § precedente). L’etere,dunque, diversamente da ogni altro sistema di riferimento, finisce percostituire un sistema di riferimento privilegiato, che ha la stessa funzioneassunta dallo spazio assoluto per le leggi della meccanica di Newton: erarispetto ad esso che le onde elettromagnetiche – e tra queste in particolarela luce – avevano una velocità costante, come previsto da Maxwell.Insomma, solo grazie all’etere sarebbe possibile accertare il moto assolutodi un mezzo, e non solo il suo moto relativo ad un sistema di coordinateconvenzionalmente assunte: esso sarebbe il sistema di coordinate privile-giato relativamente al quale ogni moto poteva essere valutato nella suadimensione assoluta e non più relativa. Era questa una situazione in uncerto qual modo assai strana, in quanto la fisica si trovava ad ammettereuna dualità di comportamenti: mentre per le leggi della meccanica eranoequivalenti tutti i sistemi inerziali, invece per quelle dell’ottica e dell’elet-tromagnetismo ne era valido uno solo, quello definito rispetto al solosistema privilegiato, costituito dall’etere immobile. Tuttavia tale situazioneporta ad un evidente ed insanabile contrasto col principio fondamentaledella relatività galileiana, che sta alla base della meccanica classica, per laquale vale la legge della somma delle velocità.

Vediamo di chiarire questo aspetto nuovamen-te con l’esempio del treno. In base alla relativitàgalileiana, se dal centro di un treno in motorettilineo uniforme viaggiante alla velocità di 150Kmh (che costituisce il sistema di riferimento S) facciamo partire un raggiodi luce esso possiede per il viaggiatore a che sta all’interno del treno lavelocità c, qualunque direzione si consideri (ovvero, sia che si prenda ilraggio che va in avanti, verso la direzione in cui si muove il treno, siaquello che va all’indietro). Invece per lo spettatore a’ che sta sulmarciapiede (sistema di riferimento S’), il raggio di luce che va nella stessadirezione del treno dovrebbe possedere la velocità di c+150 Kmh, ovvero lavelocità del treno sommata alla velocità della luce; quello che va invece indirezione opposta del treno dovrebbe avere invece la velocità di c-150Kmh, cioè la velocità della luce meno quella del treno. Questo è quanto sideve evincere dalla legge della somma delle velocità. Ma questo è proprioquanto viene negato dalla teoria elettromagnetica, per la quale il raggio diluce ha la stessa velocità c sia per il passeggero, sia per l’osservatore sulmarciapiede della stazione: è come se la luce dentro il treno si muovesse e infine con grande precisione dall’americano Albert Michelson nel 1926 (autore del celebreesperimento effettuato con Edward Morley, esposto nel testo).

L’esempio del treno e la con-traddizione tra teoria elettro-magnetica e meccanica clas-sica

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“ignorando” l’esistenza del treno e del suo moto e quindi percorressecomunque 300.000 Kms, rispetto a qualsiasi sistema di riferimentoinerziale, sia S che S’ o qualunque altro si voglia assumere. Siamo quindi difronte ad un problema cruciale: due delle teorie fondamentali della fisicaclassica – la meccanica e l’elettromagnetismo, aventi un vastissimo campodi applicazioni ed innumerevoli conferme sperimentali – sono in contrastotra di loro.

Era pertanto fondamentale poter accertarel’esistenza di questo etere; e per far ciò vennerocondotti da Albert Michelson e Edward Morleyuna serie di esperimenti (il primo dei quali nel 1881) aventi lo scopo diverificare se esistessero delle differenze nella velocità di un raggio di luceviaggiante in due direzioni tra loro perpendicolari, una delle quali indirezione del moto della terra. Infatti si riteneva che, se la terra viaggiaattraverso l’etere, un raggio luminoso viaggiante nella direzione del motoorbitale avrebbe dovuto essere rallentato dal cosiddetto “vento d’etere” chele veniva incontro controcorrente, mentre un raggio che viaggia indirezione opposta avrebbe dovuto essere accelerato; analogamente a comeavviene per il suono, la cui velocità dipende dal moto dell’aria che nepermette la trasmissione. Ma il risultato dell’esperimento non facevarilevare alcuna differenza nella velocità della luce e pertanto non sembravalasciar vie di scampo: era impossibile rilevare in alcun modo l’esistenzadell’etere, in quanto gli effetti che esso avrebbe dovuto esercitare sullavelocità della luce non avevano luogo. In conclusione, l’ammissionedell’etere quale sistema privilegiato, rispetto al quale poteva esseremisurata la velocità della terra, portava a delle conclusioni in contrasto conl’esperienza.

La “contrazione” di Lorentz

Per spiegare i risultati ottenuti da Michelson e Morley e ad un tempo salvare ilprincipio della somma delle velocità – salvaguardando così meccanica classica edelettromagnetismo, con la connessa idea di etere come mezzo di propagazionedell’interazione elettromagnetica – i fisici G.F. Fitzgerald e H.L. Lorentz nel 1892,indipendentemente l’uno dall’altro, formularono l’ipotesi che la mancata differenzadella velocità della luce nelle due direzioni rispetto al moto terrestre fosse causatadal fatto che i corpi subissero una contrazione nella direzione del loro movimento.In tale modo, l’apparecchio con cui Michelson e Morley avevano affettuato il loroesperimento (l’interferometro), subendo una contrazione nella direzione del motodella terra, avrebbe compensato la differenza che avrebbe dovuto riscontrarsi inbase alla legge della somma delle velocità tra i due raggi di luce. La contrazione dei

corpi era calcolata in base alla formula

¢ l = l 1 -v2

c2, dove con l’ viene indicata la

lunghezza del corpo contratto, con l la lunghezza del corpo che non ha subito lacontrazione, con v la velocità del corpo e con c quella della luce. Se ad es. poniamoche un corpo si muova alla velocità di 240.000 Kms e la sua lunghezza in quiete èe g u a l e a 1 5 d e c i m e t r i , r i s u l t e r à c h e

¢ l = 1 5 1 -

240.0002

300.0002= 1 5 1 -

1 62 5

= 1 592 5

= 15¥35

= 9,per cui la lunghezza del

corpo che si muove alla velocità di 240.000 Kms risulta essere di 9 decimetri, ben 6decimetri meno di quando era in quiete.

L’esperimento di Michelson eMorley

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Perchè dunque non abbandonare tale concetto?Come conclude Einstein, «tutti i tentativi di faredell’etere una realtà sono falliti. Esso non harivelato né la propria struttura meccanica, né ilmoto assoluto. Nulla è rimasto di tutte le proprietà dell’etere, eccetto quellaper la quale esso venne inventato, ovvero la facoltà di trasmettere le ondeelettromagnetiche. E poiché i nostri tentativi per scoprirne le proprietà nonhanno fatto che creare difficoltà e contraddizioni, sembra giunto ilmomento di dimenticare l’etere e di non pronunciarne più il nome»94. Ineffetti quando Einstein scrisse il suo articolo del 1905 in cui propose per laprima volta la teoria della relatività non menziona affatto l’esperimento diMichelson e Morley, ma era piuttosto motivato da esigenze di semplicità edeleganza, ovvero dalla necessità di risolvere il dissidio nel campo dellafisica tra elettromagnetismo e meccanica classica. Era tale esigenza allabase della sua decisione di abbandonare il sistema di riferimentoprivilegiato o assoluto costituito dall’etere e di accettare la validità generaledel principio di relatività galileiana, che si applica non solo ai fenomenimeccanici, ma anche a quelli elettromagnetici: non è possibile fare alcunadistinzione tra due sistemi in moto rettilineo uniforme. È questo il primopostulato fondamentale da cui parte Einstein per formulare la sua teoria:«Le leggi secondo cui variano gli stati di un sistema fisico non dipendonodal fatto di essere riferite all’uno o all’altro di due sistemi di coordinate inmoto relativo uniforme»; o, detto, in altri termini: le leggi della fisica hannola stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Insomma, conquesto postulato si estende a tutta la fisica – e quindi ancheall’elettromagnetismo – il principio di relatività galileiana, prima riferitosolo alla meccanica.

Il secondo postulato permette di spiegare nelmodo più semplice il risultato dell’esperimento diMichelson e Morley ma, ancora più importante, aaccetta la validitàgenerale delle equazioni di Maxwell che prevedono teoricamente un benpreciso valore della velocità della luce, che è appunto quello che si devepoter misurare indipendentemente dal sistema di riferimento (ecco dunqueil perché dei risultati di Michelson e Morley). Esso consiste, pertanto, nelsostenere che la velocità della luce è sempre la stessa (eguale a c) in tutti isistemi di riferimento inerziali, siano essi in moto o in quiete. Mal’accettazione di questi due principi – imposta da ragioni teoriche edall’evidenza sperimentale – porta a rigettare il presupposto che era allabase della meccanica classica, cioè la legge della somma della velocità:questa non può più essere rigorosamente valida e di conseguenza si imponela necessità di riformulare le trasformazioni galileiane. A tale scopo,Einstein dovette costruire una nuova fisica, della quale la vecchia fisicanewtoniana rappresenta una approssimazione utile solo nel caso in cui siprendono in considerazione velocità molto piccole rispetto a quella della

94 A. Einstein, L. Infeld, op. cit., p. 184.

Einstein: abbandono del con-cetto di etere e primo postu-lato della teoria della relati-vità ristretta

Il secondo postulato dellateoria della relatività

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luce.In questa nuova fisica viene sottoposto a

radicale modifica non solo il concetto di spazio(come abbiamo visto, con l’abbandono della suaassolutezza), ma anche quello di tempo. Ciò vieneeffettuato con l’analisi critica del concetto di simultaneità di due eventi, cheporta Einstein a concludere che in due diversi sistemi inerziali eventi chesono contemporanei per l’osservatore posto in uno di essi non sonocontemporanei per un osservatore posto nell’altro sistema di riferimento.95

Ne concludiamo che un orologio cambia il suo ritmo quando è in moto eche quanto più un sistema inerziale si muove ad una velocità vicina allaluce, tanto più il tempo in esso scorre lentamente. Insomma, anche iltempo, oltre allo spazio, non è assoluto e non scorre uniformemente in tuttii sistemi di riferimento, così come richiesto dalla meccanica classica96. Nesegue anche che la lunghezza di un regolo muta in diversi sistemi diriferimento in quanto la sua misura non può fare a meno di misure prese insuccessivi momenti temporali, che dipendono a loro volta dal sistema diriferimento; più esattamente, per un osservatore in un sistema K i regoliposti nel sistema K’ si accorciano quanto più la differenza nella velocità trai due sistemi si avvicina a quella della luce (ma ovviamente rimangonoeguali per un osservatore che si muove con essi); lo stesso può dirsi di unosservatore posto nel sistema K’ quando osservi un regolo posto nel sistemaK. Anche la lunghezza come il tempo è relativa.

Poiché le nozioni di lunghezza e di tempo sonofondamentali per qualsiasi considerazione scienti-fica di qualsivoglia evento naturale, il quale nonpuò mai essere collocato fuori dallo spazio e dal tempo, la teoria di Einsteincomportava una radicale modificazione dell’intera fisica e dava l’avvio auna nuova fisica relativistica che, lasciati cadere i concetti assoluti di spazioe di tempo, considerava gli eventi fisici rispetto a spazi e tempi relativi

95 Riportiamo la spiegazione di questo fatto fornita da L. Infeld, che per dieci anni collaboròcon Einstein nello sviluppo della teoria della relatività (Albert Einstein, Einaudi, Torino 1968, p.41): «Dal centro di un treno (sistema mobile) mandiamo in uno stesso istante due raggi di luce indue direzioni opposte. Poiché la velocità della luce (c) è costante per l’osservatore postoall’interno del suo sistema questi due raggi di luce raggiungeranno le pareti opposte nello stessotempo e per lui questi due avvenimenti (l’incontro dei raggi di luce con le due pareti opposte)saranno contemporanei. Che cosa dirà l’osservatore posto all’esterno (sulla terra)? Anche per lui lavelocità della luce è ancora la costante c nel suo sistema; ma guardando il treno egli vede che unaparete si allontana dalla luce e una le si avvicina. Quindi, per lui un raggio di luce colpirà prima laparete che si muove verso di esso, e dopo un certo tempo la parete che da esso si allontana. Ciòporta all’inevitabile conclusione che due eventi simultanei per gli osservatori posti in un sistemanon sono simultanei per gli osservatori di un secondo sistema in moto uniforme rispetto al primo».

96 Una conseguenza di questa relatività del tempo è il cosiddetto «paradosso dei gemelli»,escogitato dai fisici del tempo per criticare la teoria della relatività evidenziando le assurdità cuiessa conduceva. Immaginiamo che di due fratelli gemelli uno resta sulla terra e l’altro parte per unviaggio su di un’astronave che viaggia ad una velocità prossima a quella della luce. Il tempo nelsistema di riferimento dell’astronave scorre più lentamente e quindi quando il gemello ritorna dalsuo viaggio cosmico troverà il proprio fratello molto più invecchiato di lui. Benché questoesempio sia stato portato per denigrare la teoria di Einstein, in effetti le cose stanno proprio comeesso le descrive e questo è stato possibile constatarlo con un esperimento condotto già nel 1938 daIves sull’atomo di idrogeno.

Cambia anche il concetto ditempo: analisi della simulta-neità

Il continuo quadridimensio-nale di Minkowski

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all’osservatore. Con l’abbandono dello spazio assoluto e del tempo assolutoveniva a crollare il quadro concettuale in cui era iscritto il grande egloriosissimo universo-macchina newtoniano. Spazio e tempo non sono piùgrandezze reciprocamente indipendenti, ma strettamente correlate tra loroin modo da formare un’unica entità chiamata spazio-tempo: è questo ilcontinuo quadridimensionale (o spaziotemporale) con il quale il mate-matico Hermann Minkowski sintetizzò nel 1908 in elegante formageometrica le conseguenze della relatività speciale (o ristretta), affermandoche «lo spazio in sé e il tempo in sé sono destinati a svanire come mereombre, e solo una certa unità fra i due conserverà una realtà autonoma»97.

Nasce il problema di trovare il modo per pas-sare da un sistema di riferimento all’altro, modoche nella fisica classica era assicurato dalle tra-sformazioni galileiane. Questo fu assicurato dalle cosiddette trasformazionidi Lorentz, già note in quanto proposte per spiegare la mancata rilevazionedel vento d’etere mediante l’ipotesi della contrazione dei corpi lungo ladirezione del movimento; esse permettono di trovare le coordinate di spazioe di tempo in un sistema se queste sono note nell’altro sistema e se è notaanche la velocità relativa tra i due sistemi. La differenza rispetto alletrasformazioni galileiane consiste nel fatto di considerare ora la variabiletempo non più eguale in ogni sistema (ipotesi dello scorrimento uniformedel tempo), ma diversa, in quanto dipendente dal ritmo degli orologi, chevaria al variare della velocità del sistema al quale essi appartengono.Tuttavia la discordanza tra i due tipi di trasformazioni è avvertibile solo pervelocità assai prossime a quella della luce, mentre per velocità moltopiccole (quelle che di solito riscontriamo nell’esperienza di ogni giorno edanche in astronautica) le trasformazioni galileiane rappresentano una buonaapprossimazione. L’importanza delle trasformazioni di Lorentz consiste nelfatto che tutte le leggi di natura sono invarianti rispetto ad esse (sia quelledella meccanica, sia quelle dell’elettrodinamica). Su questa base è possibileallora costruire una nuova fisica: è questo quanto volle fare Einstein nellasua opera del 1905, unificando così le due branche della fisica, la teoriameccanica e quella dei campi, non grazie all’ipotesi dell’esistenza di unetere, ma per mezzo del suo nuovo principio di relatività che assicural’invarianza delle leggi di natura mediante le trasformazioni di Lorentz. «Lateoria della relatività esige che tutte indistintamente le leggi della naturasiano invarianti rispetto alla trasformazione di Lorentz anziché rispetto allatrasformazione galileiana. Quest’ultima si riduce allora ad un caso specialeo caso limite della trasformazione di Lorentz, al caso cioè, in cui le velocitàrelative di due sistemi di coordinate sono molto piccole»98.

Le trasformazioni di Lorentz

97 H. Minkowski, cit. in P. Coveney – R. Highfield, La freccia del tempo, Rizzoli, Milano

1991, p. 89. Cfr. su ciò A. Einstein, Il significato…, cit., pp. 38-40.98 A. Einstein, L. Infeld, op. cit., p. 202. Cfr. anche A. Einstein, Autobiografia scientifica,

Boringhieri, Torino 1979, p. 36.

La trasformazioni di Lorentzsostituiscono quelle di Galileo

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Abbiamo visto che per le trasformazioni di Galileo si poneva x’=x-vt, y’=y, z’=z et’=t, assumendo che il sistema di riferimento K’ si muova rispetto al sistema diriferimento K solo lungo l’asse x e che il tempo scorra uniformemente per entrambi(per cui t’=t). Le trasformazioni di Lorentz sono invece caratterizzate dalle seguenti

equazioni (sempre assumendo il moto solo lungo l’asse x):

¢ x =x -vt

1 -v2

c2

, y’=y, z’=z

e

¢ t =

t -v

c2x

1 -v2

c2

. Per cui per passare da un sistema di riferimento K’ al sistema di

riferimento K occorre applicare queste equazioni. Facciamo un esempio.Supponiamo che il sistema K’ si muova alla velocità di v = 240.000 Kms rispetto aK, partendo da un punto A, e supponiamo che un osservatore nel sistema K fermonel punto A constati che dopo un tempo t = 10 sec. avviene in K’ un certofenomeno ad una certa distanza x da K. Si tratta di calcolare dopo quanto tempo t’tale fenomeno si verifica per un osservatore solidale col sistema di riferimento K’. Èovvio che dopo 10 sec. il sistema K’ avrà percorso una distanza pari a 2.400.000Km (ottenuti moltiplicando velocità per tempo). Vediamo ora quanto tempo saràtrascorso relativamente al sistema K’. Applichiamo la quarta equazione di Lorentz:

¢ t =

1 0-2 4 0.0 0 0

3 0 0.0002¥ 2.400.000

1 -2 4 0.0 0 02

3 0 0.0 0 02

=

1 0-2 4

3 02¥ 2 4 0

1 -2 42

3 02

=10-

2 4

9 0 0¥ 2 4 0

1 -42

52

=1 0-

4

5¥ 8

1 -1 6

2 5

=

1 8

53

5

=1 85

¥53

=1 83

= 6

Per cui l’evento che per l’osservatore posto in K avviene dopo 10 sec., avvieneinvece per l’osservatore in K’ dopo soli 6 sec., a dimostrazione che per un sistema lacui velocità si approssima a quella della luce il tempo si “accorcia”, “scorre piùlentamente”. Si faccia attenzione al fatto che tra i due sistemi di riferimento K e K’vale il principio della reciprocità; infatti, rispetto al sistema di riferimento K sono inmoto rettilineo uniforme i corpi del sistema K’ ed è in essi che il tempo rallenta. Maun osservatore posto nel sistema di riferimento K’ non nota nessun cambiamentonel ritmo di scorrimento del proprio tempo, in quanto per esso è il sistema K inmoto rettilineo uniforme e quindi è in questo sistema che il tempo rallenta.Bisogna però osservare che nel contesto della teoria della relatività ristretta leequazioni di Lorentz – originariamente proposte per spiegare l’esito negativodell’esperimento di Michelson e Morley – non hanno la funzione di salvare la tesidell’esistenza dell’etere, ma sono introdotte come conseguenza della accettazionedei due presupposti che Einstein aveva posto alla base della propria teoria99. Esse,infatti,Il fatto che le trasformazioni galileiane siano una buona approssimazione di quelle diLorentz per velocità molto piccole si può illustrare con un esempio. Se infattiponiamo nelle equazioni di Lorentz una velocità del corpo in movimento molto bassarispetto a quella della luce, vedremo che il risultato si scosterà molto poco da quello

ottenuto con le formule classiche. Se infatti è

vc

<< 1 (col simbolo << si indica

“molto minore di”) si avrebbe che

v2

c2ª 0 (con il simbolo ≈ che significa

“approssimativamente eguale a”) e quindi sarebbe

1 -v2

c2ª 1 , onde la prima e la

quarta equazione di Lorentz si ridurrebbero a quelle di Galileo. Si potrebbeparagonare il rapporto tra la relatività speciale e la fisica classica a quello esistentetra la trigonometria sferica e quella piana: dalle formule della prima si ottengonoquelle della seconda quando si supponga che il raggio della sfera sia infinito e che

99 Cfr. A. Einstein, Relatività, cit., p. 85

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quindi la curvatura sie eguale a zero. Analogamente dalle formule della relativitàristretta possiamo ricavare quelle della fisica classica quando su supponga che la

velocità della luce sia infinitamente grande. In tal caso nella espressione

1 -v2

c2 la

frazione v /c diventa eguale a zero e si avrebbe 1 - 0 = 1 = 1,per cui letrasformazioni di Lorentz si riducono a quelle di Galileo. Ciò sta ad indicare che leprevisioni della teoria della relatività ristretta diventano indistinguibili da quelle dellameccanica classica quando le velocità prese in considerazioni sono molto più piccoledi quella della luce.

Un’altra importante conseguenza della teoriadella relatività, da Einstein tratta negli annisuccessivi, è consistita nella unificazione delledue leggi classiche di conservazione accettate nel diciannovesimo secolo: lalegge della conservazione della massa e la legge di conservazionedell’energia100. Per il fisico classico massa ed energia sono entitànettamente distinte sia qualitativamente che quantitativamente: un corpoche riceve energia (ad es. venga riscaldato) non cambia di massa; eviceversa l’energia può generare solo lavoro, ma non massa (così comedimostrato dalle macchine termiche ben studiate in termodinamica). Invecegrazie alla teoria della relatività Einstein dimostra che l’energia non èqualcosa di imponderabile, ma possiede anche una massa ben definita,anche se estremamente piccola; ed a sua volta la massa ha un’energia.Insomma non vi sono due principi di conservazione, ma solo uno, ilprincipio di conservazione della massa-energia, che viene sintetizzato nellacelebre formula

E=mc2

cioè l’energia è uguale alla massa del corpo moltiplicata per il quadratodella velocità della luce.

Questa conseguenza deriva anch’essa dallimite della velocità della luce. Se nessun corpopuò superare la velocità della luce, ciò significache non può essere ulteriormente accelerato; ma questo avviene solo se alcrescere della sua velocità, e cioè della sua energia cinetica, cresce anche lasua massa inerziale: per esempio, a una velocità pari al 10% di quella dellaluce la massa di un corpo aumenta solo dello 0,5%; al 90% di c, essaaumenta a più del 200%. Man mano che il corpo si approssima alla velocitàdella luce la sua massa aumenta sempre più rapidamente richiedendo per lasua ulteriore accelerazione una quantità di energia sempre maggiore; allavelocità della luce, la sua massa diventerebbe infinita, in modo tale darichiedere per la sua accelerazione una energia infinita. Il che significa chenessun corpo può raggiungere la velocità della luce, a meno che non siaprivo di massa (come appunto accade con i fotoni, le particelle che

100 L’articolo in cui appare per la prima volta è del 1907, “Relativitätsprinzip und die ausdemselben gezogenen Folgerungen”, in Jahrbuch der Radioaktivität, 4, pp. 411-62; 5, pp. 98-99.

La convertibilità tra massa edenergia

La velocità della luce comelimite insuperabile

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trasmettono la luce). Ma se la massa varia al variare della velocità, alloral’energia cinetica deve possedere una massa, per quanto piccola etrascurabile alle velocità cui siamo normalmente abituati. E il rapporto tramassa ed energia cinetica (che non è altro che una delle forme che l’energiapuò assumere) è dato appunto dalla formula E=mc2, che introduce il nuovoprincipio della conservazione della massa-energia. Da come si evince dallaformula, per produrre una grandezza estremamente piccola di massaoccorre una grande quantità di energia; ciò spiega perché nei normalifenomeni termici non si avverte nessun cambiamento della massa quando aquesta viene fornita energia: esso è così piccolo da non poter esser rilevatoneanche con le bilance più sensibili. Ad esempio, la quantità di energia ingrado di trasformare interamente in vapore mille tonnellate di acquapeserebbe circa un trentesimo di grammo. La convertibilità tra massa edenergia è alla base della possibilità di trarre energia dalla massa: è su questoprincipio che si basano le bombe atomiche e le centrali elettriche nucleari,in quanto la frammentazione del nucleo di un minerale pesante comel’uranio libera una enorme quantità di energia.

La relazione tra massa in quiete e in moto: un esempio

L’equazione che regola la relazione tra la massa in quiete m e la massa in moto m’presenta al solito il radicale tipico delle trasformazioni di Lorentz, per cui abbiamo

che

¢ m =m

1 -v2

c2

;se un corpo si nuovesse con la velocità della luce, sarebbe v = c

per cui il radicale della precedente formula sarebbe eguale a

1 -c2

c2= 1 -1 = 0e

sarebbe

¢ m =m0

,che dà una grandezza infinita. Nel caso in cui, conformemente a

quanto detto nella nota 106, si ponga la velocità della luce come infinitamente

grande, avremmo ottenuto che

¢ m =m

1 -v2

c2

=m

1 -v2

=m

1 - 0=

m1

= m, ovvero la

massa del corpo in movimento sarebbe eguale alla massa del corpo in quiete, cosìcome vuole la fisica classica, per la quale la massa si conserva invariata qualunquesia la sua velocità.

La teoria presentata da Einstein nel 1905 eralimitata ai sistemi in moto inerziale (rettilineo euniforme). Negli anni successivi Einstein affrontòil problema di una fisica relativistica per i sistemi non inerziali, cioè queisistemi che subiscono una forza, la quale può derivare o dall’influsso delcampo gravitazionale, oppure dalla applicazione di una accelerazione. Secon la meccanica classica si era provata la invarianza di tutte le leggi delladinamica nei sistemi inerziali (grazie alle trasformazioni di Galilei), e conla relatività speciale era stata affermata l’invarianza di tutte le leggi dellafisica nei sistemi inerziali (grazie alle trasformazioni di Lorentz), si trattavaora di trovare una teoria per la quale tutte le leggi della natura fosserovalide in un sistema arbitrario (sia esso inerziale o meno): «Le leggi della

La relatività generale comeestensione di quella speciale

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fisica devono essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemidi riferimento comunque in moto. Seguendo questa via giungiamo a unageneralizzazione della teoria della relatività [ristretta]»101. Questageneralizzazione fu appunto la teoria della relatività generale proposta nel1916, per elaborare la quale Einstein lavorò duramente per anni, dovendosianche dotare di un apparato matematico assai complesso, ancora appenaabbozzato in quegli anni.

Come sappiamo, le leggi che governano unfenomeno fisico che avvenga in un sistema inmoto non inerziale non sono invarianti, in quantodevono tener conto dell’influenza esercitatadall’accelerazione; per cui in tutti i sistemi di riferimento accelerati le leggidi Newton sono valide solo introducendo le cosiddette forze inerziali, comeper es. la forza centrifuga per un corpo in moto curvilineo (che subisce persuo effetto una spinta in direzione opposta alla curva seguita). Pertantol’accelerazione è un concetto assoluto, indipendente dallo stato dimovimento dell’osservatore; esso sembra implicare l’esistenza di sistemi diriferimento privilegiati; le trasformazioni di Lorentz non potevano essereapplicate a sistemi di riferimento non inerziali. Come superare questalimitazione, in modo da ottenere una teoria valida per ogni sistema diriferimento, indipendentemente dal suo stato di moto? La risposta prese laforma di una teoria della gravitazione basata sull’estensione del principio diequivalenza, valido nella fisica newtoniana per i sistemi meccanici102, a tuttigli altri processi fisici. In tal caso esso prende la seguente forma: «Per ogniragione spazio-temporale infinitamente piccola (così piccola, cioè, che inessa la variazione spaziale e temporale della gravità possa veniretrascurata) esiste sempre un sistema di coordinate K0 (x1, x2, x3, x4) nelquale è assente ogni effetto della gravità sia sul movimento dei puntimateriali, che su qualunque altro fenomeno fisico. In breve, è semprepossibile eliminare qualunque campo gravitazionale in regioni di universoinfinitamente piccole»103. Tale eliminazione è possibile solo in quanto sonoposte come eguali la massa gravitazionale e la massa inerziale, ovverogravità ed accelerazione. Detto più semplicemente, il principio diequivalenza afferma che qualunque sistema di riferimento posto in uncampo gravitazionale uniforme e costante nel tempo è del tutto equivalente,per quanto riguarda i fenomeni fisici, ad un sistema sottoposto ad unaopportuna accelerazione costante e posto in una zona di spazio in cui ilcampo gravitazionale è nullo. Ne segue che è sempre possibile scegliere, inuna zona delimitata dello spazio-tempo, un opportuno sistema di

101 A. Einstein, “Die Grundlage der allgemeinen Relativitätstheorie”(1916), trad. it. “I

fondamenti della teoria della relatività generale”, in M. Pantaleo (a cura di), Cinquant’anni direlatività, Editrice Universitaria, Firenze 1955, p. 511.

102 Ne diamo la formulazione di Wolfgang Pauli: «Nella teoria newtoniana, un sistema situatoin un campo gravitazionale uniforme è perfettamente equivalente, dal punto di vista meccanico, aun sistema di riferimento uniformemente accelerato» (W. Pauli, Teoria della relatività,Boringhieri, Torino 1964, pp. 212-3).

103 Id., pp. 216-7.

Il principio di equivalenza tramassa gravitazionale e mas-sa inerziale

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riferimento in modo da simulare l’esistenza di un dato campo gravita-zionale uniforme o, reciprocamente, in modo da eliminare l’effetto dellaforza di gravità costante. Insomma, per fare un esempio, un passeggerochiuso in un sistema isolato non ha la possibilità di distinguere se la forzache lo tiene attaccato al pavimento derivi dalla forza gravitazionale che loattrae verso una data massa oppure sia causata da una accelerazione del suosistema in direzione opposta alla forza: non è possibile distinguere in alcunmodo una forza gravitazionale da una forza inerziale, essendo gli effettidell’una spiegabili come dovuti all’altra e viceversa. Una conseguenza ditale equivalenza è il fatto che un raggio di luce (come anche tutte le ondeelettromagnetiche, le onde radio ecc.) dovrebbe essere deviato da un campogravitazionale, come se fosse costituito da particelle dotate di massa equindi di peso: viene così gettato un ponte fra gravitazione edelettromagnetismo.

Massa inerziale e massa gravitazionale

Nella fisica classica per massa inerziale (o inerte) si indica la capacità di un corpo diresistere ad una forza ad esso applicata, volta a modificarne lo stato di moto o diquiete. È una banale constatazione empirica osservare che un corpo più pesanteoppone maggior resistenza, sicché per spostare un corpo che pesa il doppio di unaltro corpo occorre impiegare il doppio della forza. È quanto del resto vieneespresso dal secondo principio della dinamica: «un corpo soggetto all’azione di unaforza subisce un’accelerazione direttamente proporzionale alla forza e avente lastessa direzione e lo stesso verso di questa», che in formule si indica con F = ma(con F = forza, m = massa e a = accelerazione). Per cui la massa è eguale a

m =

Fa

, dove la m indica appunto la massa inerziale. Per massa gravitazionale si

intende invece la capacità di un corpo di resistere all’azione di un campogravitazionale. Così sappiamo dalle esperienze di Galileo che un corpo che sialasciato cadere liberamente ha una velocità di caduta indipendente dalla sua massa:due corpi aventi diversa massa cadono (eliminando le perturbazioni dell’aria) con lastessa accelerazione e quindi raggiungono la terra nello stesso momento. In questocaso dunque, per accelerare un corpo a partire da uno stato di quiete (quando vienerilasciato) non occorre esercitare una forza proporzionale alla massa da essoposseduta. I due fenomeni esprimono concetti del tutto diversi: un corpo ha unamassa inerziale indipendentemente dalla sua relazione con altri corpi e solo nellamisura in cui oppone resistenza ad una qualunque forza ad esso applicata; inveceun corpo ha una massa gravitazionale solo in quanto è attratto da un altro corpo.Roland von Eötvös ideò nel 1889 un esperimento per misurare il rapporto tra le duemasse, pervenendo alla conclusione che il rapporto tra massa gravitazionale emassa inerziale è lo stesso per tutti i corpi con una precisione di 1 su 109; siconstata così sperimentalmente che la massa gravitazionale e la massa inerziale diun corpo sono eguali tra loro, anche se non si riesce a capirne la ragione; comeafferma Einstein, «l’eguaglianza di queste due masse, definite in maniera cosìdiversa, è un fatto confermato da esperienze di grandissima precisione […], ma lameccanica classica non offre alcuna giustificazione di una tale eguaglianza»104. Èforse questa circostanza una fortuita e fortunata, per quanto inesplicabile,coincidenza, dovuta ad un capriccio della natura? Come si conciliano tra loro questidue aspetti della massa? È per rispondere a queste domande che Einstein propone ilprincipio di equivalenza, facendo di questa eguaglianza un assioma su cui costruireuna nuova teoria della realtà che estendesse la relatività ristretta.

104 Einstein, Il significato…, cit., p. 64.

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Tuttavia Einstein non si fermò a ciò, in quantopropose una interpretazione geometrica dellagravitazione, per la quale lo spazio, sinora ritenutocome euclideo, in effetti non è “piatto”, bensìcurvo in quanto “piegato” o “distorto” dalle masse gravitazionali in essoesistenti. Applicando l’apparato teorico delle geometrie non euclidee105,pervenne alla conclusione che la luce si propaga seguendo il cammino piùbreve tra due punti, come previsto dalle leggi dell’ottica e dell’elettroma-gnetismo, ma questo cammino non coincide con la retta euclidea se nellospazio è presente un campo gravitazionale. Dal principio di equivalenza frainerzia e gravitazione Einstein trasse la conseguenza che anche il tempoviene influenzato dal campo gravitazionale: un orologio posto in un campogravitazionale rallenta il suo moto. Questo effetto è noto come “dilatazionegravitazionale dei tempi” (che non deve essere confusa con la dilatazionadei tempi della relatività speciale, dovuta al moto del sistema diriferimento). Per spiegare sia il rallentamento degli orologi che la curvaturadello spazio Einstein postula che il campo gravitazionale renda noneuclidea la struttura dell’intero spazio-tempo, per cui abbiamo a che farecon un unico fenomeno fisico: la curvatura dello spazio-tempo dovuta alcampo gravitazionale. In tal modo lo spazio ed il tempo non solo non sonopiù assoluti, come riteneva Newton, e non sono neanche indipendenti daifenomeni che in essi avvengono, i quali ne definiscono la geometriaattraverso la distribuzione di masse ed energia, che determina il campogravitazionale.106

Benché la teoria della relatività generale fosseestremamente complicata e matematicamentecomplessa, essa dava tuttavia la possibilità diprevedere alcuni effetti della curvatura dello spazio-tempo suscettibili diverifica sperimentale. Tra questi menzioniamo la deviazione che un raggioluminoso proveniente da una stella subisce quando attraversa il campogravitazionale del Sole; lo spostamento del perielio di Mercurio nel suomoto di rivoluzione intorno al Sole; e lo spostamento verso il rosso dellaluce proveniente dal Sole o da altre stelle. Ebbene il primo effetto è statoverificato per la prima volte nel 1919 da Sir Arthur Eddington mediante

105 Sulle geometrie non euclidee vedi il capitolo terzo, § 1.6.106 «Con la fusione di gravitazione e metrica trova una soluzione soddisfacente non solo il

problema della gravitazione, ma anche quello della geometria. Le domande circa la verità deiteoremi geometrici e la geometria effettivamente valida nello spazio sono prive di significato, finoa che la geometria si occupa solo di oggetti ideali e non di quelli del mondo dell’esperienza. Se siaggiunge ai teoremi della geometria la definizione in base alla quale la lunghezza di un segmento(infinitamente piccolo) è il numero ottenuto mediante regoli rigidi o fili di misura secondo un bendefinito metodo, allora la geometria diventa un ramo della fisica e i predetti interrogativiacquistano un ben preciso significato. A questo punto la teoria della relatività generale permette dienunciare la seguente proposizione. Poiché la gravitazione è determinata dalla materia, dobbiamopostulare la stessa cosa anche per la geometria. La geometria dello spazio non è data a priori, marisulta determinata dalla materia. […] Una concezione analoga era già in Riemann. Ma allorapoteva soltanto rimanere un ardito progetto, poiché la deduzione del rapporto tra geometria egravitazione è possibile solo quando sia già stata riconosciuta l’interconnessione metrica dellospazio e del tempo» (W. Pauli, op. cit., pp. 221-2).

La curvatura dello spazio-tempo per effetto del campogravitazionale

Le verifiche sperimentali del-la teoria

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l’osservazione della luce delle stelle circostanti il Sole durante la suaeclisse; anche il secondo e terzo effetto sono stati sperimentalmenteverificati, sicché si può a ragione dire che la teoria della relatività generaleè ben confermata, superando lo scetticismo che scienziati e filosofinutrirono verso di essa quando fu proposta per la prima volta.

L’opera di Einstein non ha avuto solo un signi-ficato profondo per la scienza fisica, ma ha anchecomportato delle consequenze rilevanti sul pianofilosofico. Come ha sostenuto Hans Reichenbach, sarebbe un errore credereche la teoria della relatività non sia anche una teoria filosofica; infatti,benché Einstein personalmente sia rimasto sostanzialmente un «filosofoimplicito» e non si sia addentrato in un esame filosofico della sua teoria,tuttavia essa «ha conseguenze radicali per la teoria della conoscenza: cicostringe a riprendere in esame certe concezioni tradizionali che hannoavuto una parte importante nella storia della filosofia e dà una soluzione acerte questioni, vecchie come la storia della filosofia, che prima nonammettevano alcuna risposta»107. A sua volta per Moritz Schlick, la teoriadella relatività è strettamente legata alla filosofia, da un duplice punto divista: metodologico, in quanto Einstein rigettò l’ipotesi puramente fisica diLorentz e Fitzgerald sulla contrazione dei corpi in movimento sulla base diun principio puramente epistemologico, «il principio che solo qualcosa direalmente osservabile dovrebbe essere introdotto come base per laspiegazione nella scienza»108, e questo è un requisito filosofico, non unaproposizione sperimentale. Per cui si può ben affermare che la teoria dellarelatività «tende per propria natura verso la filosofia e cerca qui le sue basie il suo compimento. Essa persegue l’approccio scientifico sino al limitepiù spinto, al di là del quale essa non può ulteriormente procedere, e sirende conto che la decisione finale può essere ottenuta solo sulla base di unprincipio filosofico. Essa deve concedere alla filosofia l’ultima parola[…]»109. Ma la teoria della relatività ha anche conseguenze sulla filosofia,ed è questo il suo secondo aspetto, quello materiale: essa, infatti, puòfornire contributi diretti alla soluzione di vecchi problemi filosofici (comead es. quello dello spazio e del tempo, della sostanza, dell’a priori, ecc.) edare sostegno alla filosofia dell’empirismo, come quella più adeguata perintenderne le caratteristiche110.

Tale rilevanza filosofica delle teorie einsteiniane è testimoniato daldibattito immediatamente seguente alla loro presentazione e diffusione, nelquale furono impegnati filosofi e scienziati di diversa formazione edorientamento filosofico, ciascuno dei quali cercava di interpretarne concettie risultati alla luce delle proprie convinzioni. Non ci dilungheremo su tutte

107 H. Reichenbach, “Il significato filosofico della teoria della relatività”, in A. Einstein,

Autobiografia scientifica, cit., p. 176.108 M. Schlick, “The Theory of Relativity in Philosophy” (1922), in Philosophical Papers, vol.

I (1909-1922), ed. by H.L. Mulder and B. F.B. van de Velde-Schlick, Reidel, Dordrecht 1979, p.345.

109 Ib., p. 344.110 Cfr. ib., pp. 347 ss.

Il significato filosofico dellarelatività: Einstein ‘filosofoimplicito’

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le diverse interpretazioni che ne sono state fornite; ci limiteremo adaccennare a quelle che sono state più significative per il dibattitoepistemologico che fu alla base dell’elaborazione dei principali concettidella filosofia della scienza di questo secolo.111

Innanzi tutto occorre sgombrare il campo daun possibile equivoco cui potrebbe indurre lostesso termine di “relatività”. Si potrebbe infattipensare – e qualche filosofo in passato l’ha fatto –che tale teoria deponga a favore di una visione relativistica dellaconoscenza, una sorta di scetticismo o protagorismo santificato con i crismidella scienza contemporanea: “tutto è relativo”, si dice, intendendo con ciòaffermare che tutto dipende dalla soggettività dell’osservatore; che non èpossibile quindi pervenire a nessuna conoscenza intersoggettiva, erigendo acanone il capriccio del singolo. Nulla di più errato. Come osservava già nel1925 un grande filosofo e logico come Bertrand Russell, presentando lateoria della relatività in un’opera magistralmente divulgativa, questa «èvolta a escludere quel che è relativo e a giungere ad una sistemazione delleleggi fisiche che sia completamente indipendente dalle condizionidell’osservatore»112. Infatti, «la “soggettività” di cui parla la teoria dellarelatività è una soggettività fisica, che esisterebbe anche se nel mondo nonci fosse proprio niente di simile ai cervelli e ai sensi. Inoltre, si tratta di unasoggettività strettamente limitata. La teoria non dice che tutto è relativo; alcontrario mette a disposizione una tecnica per distinguere quel che èrelativo da quel che a buon diritto fa effettivamente parte di un fenomenofisico»113. E come ha commentato un fisico contemporaneo esperto inrelatività, Mendel Sachs, «secondo le idee di Einstein quello che bisognaconsiderare come relativo è il linguaggio che il singolo osservatore deveusare per esprimere delle leggi assolute della materia; queste sono inveceindipendenti da ogni sistema di riferimento. Cosicché la teoria dellarelatività è da considerare in realtà una teoria degli assoluti; infatticoncentra l’attenzione sulle leggi della natura piuttosto che sul linguaggioche le esprime. Essa non ha quindi niente a che fare col relativismofilosofico, contrariamente a ciò che molti hanno voluto credere»114. Delresto è quanto viene espresso dallo stesso “principio di relatività”, per ilquale – come abbiamo visto – tutte le leggi della natura devono essereformulate in modo da essere indipendenti dal sistema di riferimento e dalmodo in cui qualunque osservatore collocato in uno di essi potrebbe

111 Per una presentazione complessiva delle varie interpretazioni della teoria della relatività si

può consultare utilmente U. Giacomini, “Esame delle discussioni filosofico-scientifiche sullateoria della relatività”, in L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti,Milano 1972, vol. VI, pp. 439-468 e P. Parrini, “Empirismo logico e filosofia della scienza”, in M.Dal Pra (a cura di), Storia della filosofia contemporanea / La prima metà del Novecento, II ed.,Vallardi – Piccin, Milano 1991, pp. 425-34, § 1 (“La discussione sul significato filosofico dellateoria della relatività: Weyl, Dingler, Cassirer, Schlick, Reichenbach”).

112 B. Russell, L’ABC della relatività (1925), Longanesi, Milano 1961, p. 23.113 Id., pp. 224-5.114 M. Sachs, “Il realismo astratto di Einstein”, in Laboratorio Quaderni, 1987 (numero zero),

p. 57. Di Sachs vedi anche General Relativity and Matter, Reidel, Dordrecht 1982, cap. I.

Un possibile equivoco: con-fondere relatività fisica e re-lativismo filosofico

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esprimerle; il che non significa altro che asserire l’oggettività di tutte leleggi di natura.115

Ma in che senso, dunque, la teoria dellarelatività ha “implicazioni” filosofiche o puòcostituire per il filosofo – in particolare quellodella scienza – un importante oggetto di rifles-sione che ha trasformato il modo in cui erano statisino ad allora affrontati certi problemi tradizionali del pensiero? Nelrispondere a questa domanda l’attenzione è stata puntata innanzi tutto sullaconcezione einsteiniana di spazio e tempo, in quanto su questi temi si eranostoricamente impegnati molti filosofi, sin dall’antichità classica agli annipiù recenti. In particolare, all’epoca in cui Einstein propose la relativitàspeciale, aveva un particolare credito, specie in ambito filosofico tedesco,la concezione di Kant, per la quale lo spazio e il tempo costituivano forme apriori e trascendentali dell’intuizione sensibile, preesistenti ai fenomeni:nulla, infatti, si può concepire se non nello spazio e nel tempo. Taleimpostazione, che si rifaceva alle idee di Newton, pur privandole disostanzialità per avvicinarle alla soggettività umana, finisce per concepirelo spazio secondo il modello euclideo ed il tempo come qualcosa diuniversale e comune a tutti gli uomini. Come si concilia la posizione diKant con le nuove idee portate avanti da Einstein? Mentre i seguaci delfilosofo tedesco cercavano in qualche modo di conciliarne le idee conquelle della nuova teoria (e tra costoro il più intelligente ed acuto è statosenza dubbio Ernst Cassirer116), sul versante dei filosofi della scienza ilverdetto fu più univoco: la relatività, a loro avviso, fa cadere il carattere apriori di spazio e tempo, mostrando come la presunta loro naturalezza(siano essi intesi in modo sostanziale, come da Newton, sia in modotrascendentale, come in Kant) nasca solo da un pregiudizio psicologico,cioè dal fatto che nella nostra esperienza quotidiana abbiamo a che fare convelocità assai distanti da quella della luce e con campi gravitazionali moltodeboli, circostanze nelle quali gli effetti relativistici prima esposti non sifanno notare: «[…] se vi fossero esseri umani a cui le esperienze quotidianerendessero apprezzabili gli effetti della velocità finita della luce, essi siabituerebbero alla relatività della simultaneità e considererebbero le regoledella trasformazione di Lorentz necessarie e di per sé evidenti, propriocome noi consideriamo di per sé evidenti le regole classiche del moto edella simultaneità. […] Ciò che i filosofi avevano considerato come leggidella ragione si sono dimostrate essere un adattamento alle leggi fisichedell’ambiente circostante; e vi è ragione di credere che, in un ambientediverso, un adattamento corrispondente avrebbe portato l’uomo ad avereun’altra formazione mentale».117 Si assume così sempre più consapevo-lezza, da una parte, del fatto che è estremamente pericoloso erigere i

115 Cfr. id., p. 58. Cfr. anche B. Russell, op. cit., pp. 34-5 e M. Schlick, op. cit., pp. 348-9.116 Cfr. E. Cassirer, Sulla teoria della relatività di Einstein (1920), La Nuova Italia, Firenze

1973.117 H. Reichenbach, “Il significato filosofico…”, cit., pp. 196-6.

Le implicazioni filosofichedella relatività: la crisi dellaconcezione kantiana di spa-zio e tempo e l’abbandonodel senso comune

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concetti derivanti dalla nostra esperienza quotidiana a principi generalidella natura118 e che pertanto, a lungo andare, le novità introdotte dallarelatività avrebbero finito per ripercuotersi sul modo con cui finora sonostati concepiti i rapporti di causalità, l’evoluzione, il tempo e così via,creando un nuovo senso comune119; dall’altro, si afferma sempre più l’ideache la filosofia – ancora più che nel passato – non può non tener conto dellenuove acquisizioni che vengono effettuate nel campo della scienza, chesono ormai direttamente rilevanti per dare una risposta non più metafisica amolti problemi tradizionali della storia del pensiero.120

5. La meccanica quantistica.121

Se le teorie viste in precedenza presentavanomolteplici aspetti innovativi rispetto allaconcezione meccanicistica dominante all’iniziodel XIX secolo, esse conservavano pur sempre un carattere che era statoconsiderato, anche entro culture assai antiche come l’aristotelismo,l’essenza stessa della scienza: tali teorie si fondavano sulla convinzione chela natura fosse retta da leggi rigorose, deterministiche, di portata universale.La scienza doveva quindi innanzitutto caratterizzarsi per la ricerca di undeterminismo negli eventi naturali, al di là delle differenti forme che taledeterminismo poteva assumere. La teoria atomistica del Novecento, dettameccanica quantistica, ha messo in discussione anche questo pilastrorimasto saldo per millenni, proponendo una scienza che si occupa di corpiche non sembrano essere soggetti al determinismo e non sembranoobbedire a leggi rigorose.

L’elaborazione di questa nuova teoria apparvea molti una vera e propria lacerazione nella storiadella scienza, una inaccettabile rottura con lafisica tradizionale, assai più grave di quellaprodotta dalla relatività einsteiniana – e infatti Einstein fu un critico tenacedella fisica atomica. Essa avvenne in stretta connessione con unasorprendente serie di scoperte sperimentali che, a cavallo tra i due secoli,dischiusero alla ricerca fisica il mondo degli oggetti atomici. Ancoraall’inizio dell’ultimo decennio dell’Ottocento l’atomo era considerato unacostruzione del pensiero, una convenzione linguistica utile a organizzare ungran numero di dati sperimentali, soprattutto in chimica; pochissimiscienziati, tuttavia, erano disposti ad ammettere esplicitamente che a tale

118 Cfr. W. Heisenberg, Fisica e filosofia (1958), Il Saggiatore, Milano 19662, pp. 150-1.119 Cfr. B. Russell, L’ABC…, cit., pp. 229-30.120 In questa direzione si sono mossi in particolare i filosofi che hanno sostenuto l’esigenza di

una “filosofia scientifica”, dei quali Bertrand Russell è stato uno dei più significativi esponenti, oche hanno cercato di sviluppare le potenzialità filosofiche della teoria della relatività, come adesempio ha fatto A.N. Whitehead, che con Russell ha collaborato nella stesura dei PrincipiaMathematica (vedi cap. terzo, § 1.7).

121 Questo paragrafo è tratto, con qualche adattamento, da AA.VV., Il testo filosofico, BrunoMondadori, Milano 1993, vol. 3/1, unità 20 a cura di R. Maiocchi.

La messa in discussione delconcetto di determinismo

Il progresso della ricerca sul-l’atomo e lo studio deimodelli atomici

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concetto corrispondesse una realtà oggettiva, che esistessero realmente innatura particelle ultime e indivisibili. Nel giro di poco più di un decennio,grosso modo tra il 1895 e il 1908, non solo ci si convinse che la materia harealmente una struttura discontinua, discreta, “atomica”, ma ci si accorseanche che queste particelle “ultime” sono a loro volta costituite daparticelle ancora più piccole, possiedono una struttura complessa, capace dicomportamenti inaspettati.

Le ricerche sugli spettri degli elementi (cioè sui colori emessi dai varielementi chimici ad alte temperature) e sui raggi catodici (radiazioni che simanifestano in contenitori dai quali è stata estratta l’aria e sottoposti acampi elettrici e magnetici), la scoperta dei raggi X (radiazioni capaci diattraversare la materia ponderabile), quella della radioattività naturale (lacapacità che hanno alcune sostanze, come il radio, di emetterespontaneamente radiazioni analoghe a quelle create artificialmente con itubi catodici), gli studi sugli effetti delle interazioni tra radiazioni e atomi,alcune teorizzazioni sul moto browniano, sull’effetto fotoelettrico, suifenomeni diffusivi, tutto questo fiorire di nuove conoscenze sperimentali edi progressi teorici impose nei primi anni del Novecento una nuovaconsiderazione del concetto di materia. Era ormai necessario considerare lastruttura atomica della materia come discontinua, ma fu necessario pensareanche l’atomo come un edificio complesso, una struttura di componentiancora più piccole dell’atomo stesso (via via furono introdotti gli elettroni, iprotoni, i neutroni); fu necessario cioè elaborare un modello dell’atomo e diricercarne le regole di comportamento.

Tutti gli svariati modelli dell’atomo propostinei primi anni del Novecento tentavano di appli-care al mondo atomico le leggi della fisica che sierano dimostrate valide per i corpi macroscopici,ma tutti andavano incontro a difficoltà di vario genere. Nel 1913 Niels Bohrpropose un modello che superava alcune di queste difficoltà pagando peròun prezzo gravissimo: i corpuscoli in movimento all’interno dell’atomo (glielettroni) non obbediscono a tutte le leggi della fisica classica. Innanzituttogli elettroni non possono muoversi attorno al nucleo dell’atomo lungo tuttele orbite che sarebbero possibili secondo la teoria meccanica classica:alcune di queste orbite sono proibite (senza che se ne comprenda il motivo),altre sono permesse, e queste sono dette orbite stazionarie. Inoltre, quandoun elettrone si muove su un’orbita che gli è permessa non emette radiazioneelettromagnetica, come vorrebbero le equazioni di Maxwell, poichéaltrimenti, perdendo continuamente energia sotto forma di radiazione,l’atomo non risulterebbe stabile. L’elettrone può emettere radiazioneelettromagnetica (cioè luce) solamente quando passa da un’orbitastazionaria a un’altra; tuttavia questo passaggio è caratterizzato da unasostanziale discontinuttà: l’elettrone, infatti, può passare da un’orbitastazionaria all’altra ma non può esistere, per un postulato fondamentaledella teoria di Bohr, nelle orbite intermedie; esso “scompare” da un’orbita e“riappare” in un’altra, essendogli proibita l’esistenza in stati intermedi. Inaltri termini, nel modello di Bohr l’energia degli elettroni non può variare

Bohr e la nascita della fisicaquantistica: la discontinuitànel comportamento dell’elet-trone

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con continuità, poiché ciò comporterebbe la transizione continua da unostato all’altro; essa può cambiare solo per scalini bruschi, per salti, perquanti. L’idea della quantizzazione dell’energia degli elettroni era già stataintrodotta nel 1900 da Max Planck nella trattazione del problemadell’interazione tra radiazione elettromagnetica e materia ponderabile eripresa nel 1907 da Einstein nello studio dell’effetto fotoelettrico, ma erarimasta ai margini della teorizzazione scientifica; con l’opera di Bohrquesta idea veniva ad assumere un ruolo centrale nella nuova fisica degliatomi.

La quantizzazione dell’energia rappresentavauna brusca rottura con la millenaria convinzionecirca la sostanziale continuità dei processinaturali. L’antica massima secondo cui “la naturanon fa salti” era manifestamente violata dal comportamento dell’elettroneche, nel modello di Bohr, mutava il proprio stato con repentinediscontinuità, con salti quantici. Pur problematico dal punto di vista dellarappresentazione concettuale e modellistica, l’atomo di Bohr era comunqueriuscito a render ragione, in particolare, di alcuni caratteri dei dati dellaspettroscopia che altrimenti sarebbero apparsi non collocabili entro unaqualche teorizzazione, e il modello di Bohr rimase il punto di riferimentofondamentale per gli studi sui modelli atomici per circa un decennio, dandoorigine a una impostazione dei problemi della fisica degli atomi che glistorici chiamano “vecchia meccanica quantistica”. La nuova meccanicaquantistica venne elaborata in pochi anni, tra il 1924 e il 1927, con ilcontributo di vari studiosi (de Broglie, Heisenberg, Born, Bohr,Schroedinger), che partivano da prospettive anche profondamente diversetra di loro. I fondamenti teorici elaborati in quegli anni hanno rappresentatoil pilastro su cui è stata costruita tutta la fisica atomica del Novecento.

La nuova meccanica quantistica suscitò undibattito scientifico e filosofico amplissimo, inquanto presentava aspetti concettuali che rivolu-zionavano concezioni scientifiche, ma ancheconcezioni del senso comune, consolidate da secoli di storia. Due, inparticolare, furono gli aspetti sui quali si focalizzò la discussione: la naturastatistica della nuova fisica e il dualismo tra onde e corpuscoli che essaintroduce.

La teoria quantistica non è in grado di determinare con precisione ilcomportamento di una particella atomica, per esempio di un elettrone; essapuò soltanto effettuare una previsione statistica circa il suo movimento indeterminate condizioni. L’elettrone sembra non essere soggetto a leggirigorosamente deterministiche, appare dotato di una sorta di “capacità discelta” tra vari percorsi possibili (molti parlarono di “libero arbitrio”).Questa caduta del determinismo mise in difficoltà l’ideale di scienza cheaveva dominato sin da Aristotele, ideale secondo il quale la scienza èconoscenza dell’universale e si esprime secondo leggi che non ammettonoeccezioni; proprio per questo motivo, grandi scienziati come Einstein,Planck e Schroedinger si rifiutarono di ammettere che la nuova fisica fosse

La rottura con le concezioniscientifiche classiche e la‘nuova’ meccanica quantistica

Natura statistica della nuovameccanica e dualismo traonde e corpuscoli

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una teoria scientifica completa, definitiva, non superabile da una ulterioreteoria atomistica che ripristinasse il determinismo degli eventi naturali.Questi critici finirono però per essere tacitati dai crescenti successi dellameccanica quantistica e si affermò, dell’indeterminismo atomistico, unainterpretazione che si fondava sulle concezioni di Heisenberg.

Per Heisenberg i gravi problemi interpretativiche si associavano alla meccanica quantisticadipendevano dall’abitudine a usare immaginiricavate dal mondo dell’esperienza macroscopica per rappresentare glioggetti del mondo atomico. Per esempio, quando si rappresenta un elettronerotante attorno a un nucleo atomico usando l’analogia di un satellite chegira attorno a un pianeta, sorgono questioni irrisolvibili quali quella postadalla domanda: «Come fa un elettrone a passare da un’orbita a un’altrasenza passare per le orbite intermedie?». L’esperienza non ci fornisce peròalcuna informazione su un concetto quale quello di “orbita” di un elettrone,il cui movimento non si può in alcun modo seguire passo passo come si facon la Luna. Che senso ha parlare allora di grandezze delle orbite o diforma delle orbite quando queste sono al di là di ogni esperienza possibile?Dal punto di vista scientifico, nessuno. Meglio allora rinunciare a ognivisualizzazione, a ogni rappresentazione modellistica degli oggetti atomici,per limitarsi a trattare teoricamente solo di quei dati circa tali oggetti chel’esperienza ci consente di raccogliere – per esempio frequenze di radiazio-ni emesse e intensità luminose. Proprio prendendo in esame quello chel’esperienza ci permette di dire attorno agli oggetti atomici, Heisenberggiunse a esprimere il principio basilare della propria interpretazione, il prin-cipio di indeterminazione.

Se si considerano le esperienze che ci permettono di ottenereinformazioni sugli oggetti atomici partendo dai princìpi della nuova teoria,ci si trova di fronte costantemente a una conclusione che è assolutamentenuova rispetto alla meccanica classica. Nella meccanica classica è possibileprevedere il comportamento futuro di un corpo se si conoscono in un datoistante due informazioni sul suo stato, due cosiddette coordinate canoniche.Le più semplici tra queste coppie di coordinate sono la posizione e lavelocità. Nelle esperienze che riguardano gli oggetti macroscopici si erasempre ammesso che fosse possibile assumere informazioni empirichecirca le coordinate canoniche senza perturbare lo stato degli oggetti inesame: si ammetteva, per esempio, che si potesse misurare in un certoistante la posizione e la velocità di un corpo con precisione grande apiacere senza alterare il suo movimento. Se invece di considerare un corpomacroscopico si considera un oggetto atomico ciò non risulta più possibile:non è possibile misurare con precisione grande a piacere le coordinatecanoniche di un oggetto atomico.

Nel caso di un elettrone in movimento, peresempio, i tentativi di misurarne posizione ovelocità alterano inevitabilmente il suo stato dimoto a causa della quantizzazione dell’energiatanto delle particelle quanto delle radiazioni luminose, quantizzazione che

Il principio di indetermina-zione di Heisenberg

Il problema dell’interazionetra strumento di rilevazione eoggetto di osservazione

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impedisce che si possa render piccolo a piacere il disturbo prodotto dallainterazione tra particella e apparato di misura. Questa perturbazioneavviene in modo tale che se si cerca di diminuire l’incertezza dellamisurazione di una delle due coordinate, si interagisce con l’elettrone inmaniera da aumentare l’incertezza con la quale si può misurare l’altracoordinata. La precisione nella misurazione di una coordinata canonica vanecessariamente a discapito della precisione nella misurazione dell’altra.Per esempio, se si cerca di determinare con precisione assoluta la posizionedi un elettrone in un dato istante facendolo scontrare con una lastrafotografica che ne registra l’arrivo, l’urto con la lastra consenteeffettivamente di annullare l’incertezza circa la misurazione dellaposizione, ma contemporaneamente altera del tutto il movimento dellaparticella e dunque preclude la possibilità di ottenere informazioni su quellache era la velocità dell’elettrone nel momento in cui giungeva sulla lastra.

L’indagine sulle procedure sperimentalipossibili per gli oggetti atomici condusse perciòHeisenberg a enunciare un principio diindeterminazione: nella misura delle coordinatecanoniche di un oggetto atomico l’incertezza dei risultati di misura non sipuò rendere piccola a piacere. Il prodotto delle incertezze nelle misurazionidelle coordinate canoniche non può scendere sotto un limite inferiore.Perciò la diminuzione dell’incertezza, ovvero l’aumento di precisione nellamisurazione di una coordinata, provoca necessariamente un aumento diimprecisione nella misurazione dell’altra. Non è possibile conoscerecontemporaneamente con precisione assoluta i valori di due coordinatecanoniche.

Il principio di indeterminazione spiega, perHeisenberg, la natura statistica della nuova teoria,l’apparente caduta del determinismo. Infatti, senon siamo in grado di avere informazioni precisesullo stato di un oggetto, non potremo neppure fare previsioni precise sulsuo comportamento futuro. La meccanica classica compie previsionideterministiche solo a patto che siano disponibili informazioni sui valoridelle coordinate canoniche dell’oggetto in esame in un dato istante eammette che sia sempre possibile ottenere simili informazioni. Il principiodi indeterminazione stabilisce invece l’impossibilità di conoscere conprecisione le coordinate canoniche e dunque esclude che si possa prevederecon precisione il futuro comportamento di un oggetto. È il disturboprovocato dagli apparati di misura sulle particelle a impedire di conoscerele coordinate canoniche, è l’interazione tra oggetto e apparato diosservazione a generare un comportamento apparentemente indetermi-nistico degli oggetti microscopici; sarebbe però insensato, prosegueHeisenberg, porsi la questione di come si comportino questi oggetti quandonessuno li osserva, quando nessuno strumento li disturba, e chiedersi se “inrealtà” il loro comportamento è di tipo deterministico oppure no, in quantoè evidente che lo scienziato non ha nulla da dire circa quello che fa lanatura allorquando nessuno la osserva. Limitandosi a quel che dicono le

L’impossibilità di superarenelle misurazioni una sogliadata di indeterminazione

Ogni tipo di osservazioneimplica un’interazione conl’oggetto osservato

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esperienze, la scienza non può far altro che sottolineare come nel mondoatomico le esperienze non consentono di misurare con precisione quei datiche sarebbero necessari per poter effettuare una previsione deterministica elasciare ad altri l’onere di discutere se la natura sia o no “in se stessa”intrinsecamente deterministica.

Strettamente connesso al principio di indeter-minazione è l’altro aspetto della meccanicaquantistica sul quale si concentrò la discussionescientifica e filosofica: il dualismo onda-corpu-scolo. Secondo il buon senso, e anche secondo la fisica classica, un’onda èradicalmente differente da un corpuscolo e da sempre i concetti fondatisulla nozione di onda erano stati radicalmente distinti da quelli fondati sullateoria corpuscolare; mai per uno stesso oggetto si erano mescolate lerappresentazioni ondulatorie con quelle corpuscolari. Cominciò a porre indiscussione questa dicotomia Einstein nel 1907, esponendo una teoria dellaluce, per la spiegazione dell’effetto fotoelettrico, nella quale un raggioluminoso è considerato come un treno di particelle di luce, dette fotoni. Inquel periodo era universalmente accettata la visione ondulatoria della luceimperniata sulla teoria di Maxwell, che identificava la radiazione luminosacon un’onda che si propaga in un campo elettromagnetico. Proponendo che,per il caso dell’effetto fotoelettrico, la luce non venisse considerata unfenomeno ondulatorio ma un insieme di corpuscoli luminosi, Einstein veni-va evidentemente a introdurre una contraddizione nelle rappresentazionifisiche.

La contraddizione si allargò ulteriormente quando al mondo deicorpuscoli atomici vennero applicate immagini e nozioni ondulatorie. Nel1924 Louis de Broglie propose di risolvere i problemi insiti nel modelloatomico di Bohr immaginando l’elettrone rotante come un’onda che sipropaga lungo un’orbita. Questa idea fu sviluppata nel 1926 in formematematiche molto sofisticate da Erwin Schroedinger e diede luogo a unformalismo matematico che divenne il corpo centrale della nuovameccanica quantistica. Dopo alcuni tentativi iniziali di intendere l’elettronecome se fosse un fenomeno puramente ondulatorio divenne chiaro che ilconcetto di onda non poteva sostituire completamente quello di corpuscolo,che l’elettrone, come la luce, richiedeva per la propria comprensioneentrambe le concezioni: in determinate circostanze esso sembra comportarsicome un perfetto corpuscolo, in altre manifesta indubbi caratteri ondulatori.Questo duplice comportamento divenne evidente anche sul pianosperimentale: inserita in un dato apparato, una fonte di elettroni faregistrare immagini nettamente corpuscolari, quali possono essere delletacche luminose molto limitate e nettamente definite che segnalano l’arrivodi un corpuscolo su una lastra fotografica; inserito in un dispositivodifferente, lo stesso cannoncino elettronico produce fenomeni tipicamenteondulatori, come possono essere la formazione di figure d’interferenzasulla lastra fotografica rivelatrice, cioè alternanze di bande chiare e bandescure, fenomeno, questo, che è da considerarsi tra i più caratteristici dellapresenza di onde.

Il problema del dualismo traonda e corpuscolo nel com-portamento dell’elettrone

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Nel tentativo di razionalizzare in qualchemodo questa imbarazzante situazione, Bohrenunciò nel 1927 il principio di complementarità.Esso, in sintesi, sostiene che i concetti di onda ecorpuscolo sono entrambi necessari se si vuolecomprendere la totalità delle manifestazioni fenomeniche degli oggettiatomici, ma il loro uso non conduce a contraddizioni poiché l’esperienzadimostra che i due concetti non debbono mai venire impiegaticontemporaneamente nella descrizione dello stesso esperimento: negliesperimenti in cui prevalgono i caratteri ondulatori delle particelle quellicorpuscolari sono trascurabili, e viceversa. Le particelle atomiche non sononé pure onde né puri corpuscoli, ma non si presentano mai allo stessotempo come onde e corpuscoli. Il termine “complementare” sta appunto aindicare questo duplice rapporto che intercorre tra i due concetti: da un latoessi sono entrambi necessari a capire la totalità fenomenica, dall’altro ondae corpuscolo si escludono reciprocamente nella comprensione di unasingola esperienza.

Naturalmente questa visione degli oggetti atomici rompe radicalmentecon la nozione di oggetto propria della fisica classica e del senso comune,per i quali si pone l’alternativa radicale onde o corpuscoli, e risultaincomprensibile la natura duplice delle particelle che si comportano oracome onde, ora come corpuscoli. Questa duplicità di comportamenti vennericondotta da Bohr all’interpretazione che Heisenberg aveva dato delprincipio di indeterminazione: in ogni esperienza sugli oggetti atomici haluogo una interazione tra oggetto e strumento di misura che altera lo statodell’oggetto; cambiando l’apparato sperimentale muta anche il tipo didisturbo che si verifica, e dunque cambia anche il tipo di mutamento distato subito dall’oggetto. È questo diverso modo di interagire con l’oggettoche spiega le diversità di comportamento che si rilevano nei diversi apparatisperimentali: in alcuni dispositivi sperimentali vengono evidenziatecaratteristiche ondulatorie, in altri, mutando l’interazione tra apparato eoggetto, emergono caratteristiche corpuscolari.

L’interpretazione di Heisenberg e di Bohr della meccanica quantistica fucriticata da vari scienziati di primissimo piano; in particolare venneattaccata la nozione di complementarità, giudicata una pura soluzioneverbale, una parola inventata per mascherare una reale ignoranza. Tuttaviatale interpretazione, detta “di Copenhagen”, finì per conquistare lamaggioranza degli studiosi, anche perché i suoi avversari, i già citatiEinstein, Planck e Schroedinger, seppero opporle solo argomenti diprincipio, più filosofIci che fisici, non certo una teoria alternativa. Con essagiunse a completa dissoluzione l’ideale meccanicistico e si impose unafisica nella quale non trovavano più posto la nozione classica di oggetto e lastessa idea di determinismo della natura.

Con la meccanica quantistica avviene anche undeciso allontanamento dal dato concreto dellaintuizione sensibile. È quanto mette in luceHeisenberg, quando sottolinea come col passaggio

Il principio di complementa-rità di Bohr: la compatibilitàdell’interpretazione ondula-toria e di quella corpuscolaredell’atomo

L’importanza della meccanicaquantistica: la fine dellaintuizione sensibile

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alla fisica atomica i corpi vengono a perdere la possibilità di poter esseredeterminati in uno spazio e in un tempo oggettivo, indipendente dal sistemaosservativo: «Nella fisica moderna gli atomi perdono anche quest’ultimaqualità, e non posseggono le proprietà geometriche in maggior misura chele altre, quali il colore, il gusto eccetera. L’atomo della fisica moderna puòper ora essere simbolizzato solo mediante un’equazione differenziale par-ziale in uno spazio astratto pluridimensionale; soltanto l’esperimento chel’osservatore intraprende su esso estorce dall’atomo l’indicazione di unluogo, di un colore, di una quantità di calore. Per l’atomo della fisicamoderna tutte le qualità sono dedotte, direttamente non possiamo attri-buirgli alcuna proprietà materiale; il che vuol dire che qualunque immagineche la nostra mente possa farsi dell’atomo è eo ipso errata».122 Onde si puòlegittimamente concludere che «le particelle elementari sono in definitivadelle forme matematiche».123

Si viene a creare, pertanto, una scissione nelcorpo della scienza: da una parte v’è la fisicaclassica con le sue leggi deterministiche (o almassimo statistiche); dall’altra, il mondo delmicroscopico in cui non valgono più le leggi classiche, ormai inadeguate adescriverne i processi e pertanto sostituite da leggi e princìpi del tuttodiversi. È questa la situazione che hanno di fronte i fondatori del Circolo diVienna e filosofi della scienza dei primi decenni del Novecento. Essi sipongono, pertanto, il compito di trovare per tale crisi una soluzione tale dasalvare la realtà della nuova fisica mediante l’elaborazione di nuovistrumenti concettuali che meglio permettano di comprenderne la natura eche siano diversi da quelli forniti dalle vecchie filosofie delle scuole (comeil kantismo), le quali, ormai alle corde di fronte alla nuova situazione, nonesitano a dichiarare la bancarotta delle scienze invece che dei propri criteridi scientificità. È una circostanza, questa, che si è più volte verificata nelcorso della storia: le “immagini della scienza” si trasformano da utili mezzidi comprensione della scienza in camicie di forza entro le quali la sivorrebbe costringere. L’epistemologia si muta così in gnoseologia ren-dendosi indipendente dal materiale da cui si è originata e, in quanto tale,pretende giudicare del valore conoscitivo della scienza; ma dato che questacambia molto più velocemente della immaginazione dei filosofi, ecco chequesti ultimi, non riuscendo più a comprenderla con i loro schemi con-cettuali, ne dichiarano la inconsistenza conoscitiva e la riducono ad utileraccolta di ricette pratiche.

Si tratta, insomma, come dice il Frank parafra-sando una parabola evangelica, di mettere il vinonuovo in otri nuovi, dove «gli otri vecchi erano glischemi della filosofia tradizionale, e il vino nuovo la scienza delNovecento».124 E, una volta fatto il vino, bisogna trovare le botti filosofiche

122 W. Heisenberg, Mutamenti nelle basi della scienza, Boringhieri, Milano 19662, pp. 16-17.123 Id., Fisica e filosofia (1958), Il Saggiatore, Milano 1966 (2ª ed.), p. 88.124 P. Frank, op. cit., p. 40.

Il bisogno di rinnovati stru-menti concettuali per inten-dere la nuova fisica

Frank: mettere il vino nuovoin otri nuovi

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adatte, che non ne rovinino il sapore. Alla costruzione di queste “botti”avevano mirato le discussioni che avevano luogo in quello che abbiamochiamato il “primo Circolo di Vienna”, la cui importanza è consistita -come ha puntualizzato F. Stadler125 - nel prefigurare ancor prima delconflitto mondiale le posizioni che poi saranno l’eredità raccolta dal futuroempirismo logico e di tutta la filosofia della scienza successiva.

125 Cfr. F. Stadler, Studien zum Wiener Kreis. Ursprung, Entwicklung und Wirkung des

Logischen Empirisus im Kontext, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1997, pp. 187-8.

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Capitolo terzo

I CONCETTI E IL LINGUAGGIO DELLA LOGICA SIMBOLICA

1. Dalla logica “classica” alla “nuova logica”

1.1 Lontano da Aristotele. La storia della filosofia della scienza di questosecolo sarebbe incomprensibile se non la si leggesse in stretta connessioneall’affermazione della “nuova logica”. Con tale attribuzione si vuoleintendere un modo di concepire questa disciplina, la cui fondazione risalead Aristotele, che rompe con quella che veniva chiamata “logica classica” oanche “vecchia logica”.

In effetti la logica, dopo il periodo medievale,nel corso del quale la sillogistica aristotelicaaveva conseguito notevoli progressi senza tuttaviadiscostarsi dai caratteri fondamentali impressigli dal suo fondatore, avevaconosciuto un lungo periodo di eclisse e di letargo. La nuova scienza chenasceva dopo la tarda scolastica trovava inutili le formule astratte ecapziose con cui i medievali avevano cercato di sistematizzare lasillogistica, né riusciva a valutare adeguatamente quanto di nuovo essaaveva elaborato. Piuttosto che a questa dottrina, ormai inariditasi nellapratica delle Scuole, si preferiva rivolgere la propria attenzione allamatematica, molto più utile nel processo di edificazione della nuovascienza: con i suoi caratteri - sosteneva Galilei - era scritto il “libro dellanatura”. La logica medievale e quella aristotelica, così, venivano spessomesse sul banco degli accusati, col rimprovero di creare menti inutilmentecapziose, di abituare i fanciulli a vane sottigliezze, distogliendoli dalla veraconoscenza: alla logica insegnata, teorizzata e sistematizzata nei manualidelle Scuole, si preferiva quella implicita, in atto, operativa, incarnata nellamatematica e nella geometria. Sicché alla esaltazione della logica ari-stotelica operata da Simplicio, Galilei poteva ribattere: «Il sonar l’organonon s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; lapoesia s’impara dalla continua lettura de’ poeti; il dipignere s’apprende colcontinuo disegnare e dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni didimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici».126

126 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), in Opere, a cura di F.

Brunetti, UTET, Torino 1980, pp. 54-5.

La nuova scienza e il privile-giamento della matematica,come logica in atto

L’atteggiamento di Galileo ela nuova scienza

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Tale svalutazione della logica tradizionaleaveva fatto deperire l’interesse per il suo carat-tere formale, che pure era uno degli acquisti piùimportanti del pensiero aristotelico, ed aveva fatto anche trascurare lenotevoli acquisizioni che i medievali avevano fatto nel campo della logicaproposizionale. Come spesso accade nei periodi di grande rinnovamentoculturale - e tale era quello che vide la nascita della nuova scienza e lacreazione del mondo moderno - il desiderio di far piazza pulita di quantoereditato dal passato, che si sente come un vincolo all’avanzamentoulteriore, finisce per far buttar via “il bambino con l’acqua sporca”. Ciòovviamente non significò che la vecchia logica si fosse del tutto eclissata;piuttosto essa rimase, ormai isterilita e non più sviluppata, come un corpodi conoscenze che sopravviveva nelle scuole e nell’insegnamento, comeuna sorta di grammatica del pensiero indispensabile per l’educazione madel tutto insufficiente per gli scopi dell’avanzamento del sapere e per lariflessione filosofica.

Quanto dice Galilei è interessante perché fa intravvedere in nuce unacontrapposizione tra logica e matematica che segnerà i secoli successivi.Infatti si avrà, da un lato, la tesi della loro separazione radicale e quindi iltentativo di proseguire la logica classica in modo autonomo rispetto allamatematica, ossia sui vecchi binari della sillogistica aristotelica escolastica; dall’altro, assisteremo ad una accettazione del caratterededuttivo della sillogistica aristotelica non in antitesi al ragionamento mate-matico, per cui si pensa che in sostanza o tutta la matematica, secorrettamente interpretata, possa trasformarsi un una catena di sillogismi,oppure che la stessa sillogistica possa essere perfezionata grazie alla suamatematizzazione, liberandola così dall’apparenza cabalistica ormaiacquisita nelle mani degli scolastici.

Lasciando da parte la prima strada, ben presto isterilitasi, è nel fecondorapporto tra logica e matematica che deve ritrovarsi il filo conduttore checonduce alla logistica contemporanea. Un rapporto spesso ambiguo, fatto ditimidezze ed innovazioni, di preservazione di quanto tramandato dallavecchia sillogistica ed esigenze di ammodernamento (come avviene adesempio con la cosiddetta Logica di Port-Royal di A. Arnauld e P. Nicole,del 1662, che ebbe una fortuna eccezionale per due secoli), ma che conosceun punto di accumulo significativo nell’opera di Leibniz.

1.2 Calculemus. Ritenuto dai logici modernicome il loro precursore, come il grande pioniereed iniziatore della nuova strada che porta allalogistica moderna, G. W. Leibniz (1646-1716) in effetti incarna tutte leambiguità della vecchia logica, che non riesce ancora a trasformarsipienamente, ed insieme la messa in campo di nuove esigenze checostituiscono come il nuovo motto iscritto sulle bandiere dei tentativi dirinnovamento della logica. Non solo, ma tale funzione cruciale qualefondatore ed iniziatore di una nuova strada gli venne attribuita solo quandoquesta era già stata da tempo intrapresa e in gran parte percorsa, sicché non

Nasce la contrapposizione tralogica e matematica

Leibniz e l’indicazione di unanuova strada per la logica

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si può affatto affermare che i suoi scritti in merito abbiano avuto unaincidenza diretta sulla rinascita della logica nella seconda metàdell’Ottocento. La sua opera fu per lo più ignorata dai contemporanei e daisuccessori, i suoi scritti sull’argomento rimasero a lungo inediti e solo agliinizi del Novecento si ritornò a guardare con rinnovato interesse alla suaopera logica, quando questa, già in piena crescita, cercava anche di darsi unpedigree illustre e cercava nel passato i precorrimenti delle proprie idee. Igiudizi di Giuseppe Peano nel 1901 e del suo allievo G. Vacca nel 1899127,gli studi del logico francese L. Couturat, che ne pubblicò per primo gliscritti inediti di logica nel 1903128, il primo importante lavoro di B. Russellnel 1900129, nonché i riconoscimenti di Husserl nello stesso periodo130, tuttociò avviene al volgere del secolo, quando la nuova logica era già in fase dimatura elaborazione e poteva valorizzare negli scritti di Leibniz queiconcetti fondamentali, che ai contemporanei eran parsi delle bizzarrie,cadendo pertanto nel dimenticatoio. In nessuna altra disciplina, come nellalogica, appare vero che l’anatomia dell’uomo è la chiave per comprenderequella della scimmia.

Ma vi sono altri caratteri dell’opera logica diLeibniz che bisogna tratteggiare per capirne esat-tamente la portata. Innanzi tutto egli non abban-donò mai del tutto l’impostazione della logicatradizionale ed anzi si poneva esplicitamente incontinuità con essa: il suo attaccamento alla formaattributiva della proposizione, composta da soggetto e predicato, gliimpedisce l’elaborazione di una vera e propria logica delle relazioni.Tuttavia egli vuole perfezionare questa logica e così, accanto a tutta unaserie di miglioramenti in suoi aspetti particolari (circa le figure e i modi delsillogismo, le rappresentazioni diagrammatiche delle varie figure ecc.),introduce delle esigenze che portano tendenzialmente oltre di essa edenuncia un programma che prefigura già chiaramente qualcosa di nuovoche con essa non ha più nulla a che vedere. Infatti, il suo scrupoloformalista, mutuato dalla matematica che parimenti aveva sviluppato (nonsi dimentichi che Leibniz è stato l’inventore, insieme a Newton, del calcoloinfinitesimale) gli fa venire in mente il programma di una lingua simbolicauniversale che potesse dare certezza, grazie ad una rigorosa simbolizza-zione dei concetti, alle argomentazioni sino ad allora svolte nella linguanaturale, con tutte le ambiguità e i tranelli tipici di uno strumentoimperfetto. Ma anche in questo caso siamo di fronte ad un programma, adun ‘manifesto’ ideologico, più che ad una effettiva realizzazione: i suoi

127 Cfr. G. Peano, Formulaire de mathématique, Tome III, Preface, Torino 1901; G. Vacca,

“Sui manoscritti inediti di Leibniz”, in Bollettino di bibliografia e storia delle scienzematematiche, 1899, pp. 113-116.

128 Cfr. L. Couturat, La logique de Leibniz d’aprés des documents inédits, Paris 1901;Opuscules et fragments inédits de Leibniz, a cura di L. Couturat, Paris, P.U.F. 1903.

129 Cfr. B. Russell, Esposizione critica della filosofia di Leibniz (1900), Longanesi, Milano1971.

130 Cfr. E. Husserl, Ricerche logiche (1900), Il Saggiatore, Milano 1968.

Fedeltà alla logica tradizio-nale e suo tentativo di perfe-zionarla mediante le crea-zione di una lingua simbolicauniversale e la creazione diun ‘calcolo’

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lavori in questa direzione non furono che frammentari, a volte tra loroincoerenti, ed in ogni caso ignorati. Ma la sua parola d’ordine, l’ideacentrale che stava alla sua base era la medesima che entusiasmava i giovanilogici e filosofi dell’inizio del ‘900: ridurre il ragionamento e quindil’argomentazione filosofica ad un semplice calcolo grazie al quale, unavolta messisi d’accordo sulle idee semplici di partenza, fosse possibilericondurre la polifonia cacofonica delle metafisiche e delle filosofie allagrandiosa armonia di cui aveva dato già prova la matematica.

Alla realizzazione di tale progetto era neces-sario, in primo luogo, il possesso di uno stru-mento nuovo, una lingua characteristica univer-salis avente natura ideografica, che svincolasse la trasmissione delle ideedalla lingua parlata per esprimerle direttamente con simboli appropriati, suiquali poi effettuare trasformazioni ed operazioni, ottenendo altri simboliche designano altre idee. Questa è una lingua artificiale, svincolata daquelle naturali, simbolica, in quanto introduce propri ideogrammi aventi unsignificato preciso e non ambiguo, ed universale, in quanto sostituisce lesingole lingue naturali per diventare uno strumento razionale valido perogni uomo. E’ essa una “scrittura razionale”, che serva da strumentofilosofico al servizio della ragione: una ars characteristica sive linguarationalis; sull’esempio dell’algebra, si tratta di costruire un’algebragenerale o algebra logica, che non abbia come proprio campo solo inumeri, ma sia in grado di esprimere tutte le idee e possa servire da rimedioin ogni campo della conoscenza in cui agisce il ragionamento; in tal modosi potrà ovviare alle sue incertezze grazie all’infallibilità di un calculusratiocinator.131

Al fine di poter rendere effettivo tale calculusera però necessario procedere ad un inventarium,cioè ad un vero a proprio catalogo delle ideesemplici, espresse mediante adeguati ‘segni’ (i

131 Così efficacemente sintetizza il concetto di caratteristica universale N.I. Stjazkin: «Sul

piano logico, dunque, la caratteristica universale è un sistema di simboli rigorosamente definiti,che si possono usare in logica e nelle altre scienze deduttive per denotare gli elementi semplicidegli oggetti studiati da una data scienza. In primo luogo, tali simboli debbono essere di formabreve e compatta, racchiudendo la massima informazione nel minimo spazio; in secondo luogo,deve esistere un isomorfismo tra i simboli e gli oggetti che essi denotano, al fine di poterrappresentare le idee semplici nel modo piú naturale possibile. Le idee complesse debbono essererappresentabili come combinazioni di idee elementari. Nel linguaggio della caratteristicauniversale, le tesi logiche astratte debbono presentarsi sotto forma di regole intuitivamenteevidenti di manipolazione dei simboli. Tali regole debbono descrivere le proprietà formali delletrasformazioni dei simboli, e basarsi su procedimenti che rendano univoca la rappresentazione. /Secondo Leibniz, la caratteristica universale dovrebbe essere l'origine di una vera e propriaalgebra logica, da applicarsi ai vari tipi di ragionamento; essa rappresenterebbe l’erede della logicascolastica, vittima sfortunata delle circostanze. A suo parere, la mancanza di successi della logicascolastica era dovuta in primo luogo alla mancanza di un linguaggio rigoroso e preciso, soggettoalle regole proprie di una formalizzazione accuratamente elaborata. Tuttavia, la caratteristicauniversale dovrebbe denotare tutti gli elementi semplici dei ragionamenti logici con lettere, iragionamenti logici complessi con formule, e i giudizi con equazioni. Diventerebbe cosí possibilericavare tutte le conseguenze logiche che seguono necessariamente dagli elementi considerati»(Storia della logica, 1964, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 94-5).

La creazione di una linguaartificiale, simbolica e univer-sale

L’inventario delle idee sem-plici, da combinare medianteleggi logico-matematiche eriottenere il complesso: l’arsinveniendi

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“termini semplici”), che costituissero una sorta di ‘atomi’ o mattoni dellanostra conoscenza, un ‘alfabeto’ del pensiero umano, e dalla cuicomposizione ed aggregazione operata mediante opportune leggi logico-matematiche (la ‘grammatica’ del pensiero umano), potesserosuccessivamente scaturire tutte le altre nostre conoscenze derivate (i“termini derivati”). «A me invero […] apparve manifesto che tutti i pensieriumani potevano risolversi completamente in pochi pensieri da ritenersicome primitivi. E che se si assegnano a questi ultimi dei caratteri, da essi sipossono formare i caratteri delle nozioni derivate, dai quali sarà semprepossibile ricavare i loro requisiti e le nozioni primitive in essi racchiuse e,per dirla in una parola, le definizioni o valori, e quindi anche i rapportiderivabili dalle definizioni. Ora, una volta che ciò fosse realizzato,chiunque nel ragionamento e nello scrivere facesse uso di siffatti caratteri onon sbaglierebbe mai oppure riconoscerebbe da sé i propri errori non menoche quelli degli altri mediante esami facilissimi; e scoprirebbe poi la veritànella misura in cui i dati lo renderebbero possibile, e se talora i dati nonfossero sufficienti a trovare ciò che fosse richiesto egli potrebbe vederequali esperienze o quali notizie fossero necessarie per potersi almenoavvicinare alla verità quanto lo consentono i dati, sia procedendo perapprossimazione, sia determinando il grado di maggiore probabilità; isofismi e i paralogismi non sarebbero in questo caso niente di diverso daglierrori di calcolo in aritmetica e dai solecismi o i barbarismi nelle lingue»132.

Dunque, prima una analisi risalente dal dato ai suoi elementi semplici;quindi una sintesi, che dal semplice ricompone il complesso. In tale dupliceprocesso Leibniz vedeva il fulcro di un’ars inveniendi che dia la possibilitàdi pervenire a nuove conoscenze, in modo da ampliare il patrimonioculturale dell’umanità. Non solo un’arte del giudicare, cioè del giustificarecome corretta una argomentazione o ragionamento, ma anche un’arte delloscoprire, cioè di produrre qualcosa di nuovo; ovvero un metodo scientifico,una “logica della scoperta” che stabilisse un procedimento perl’allargamento del pensiero scientifico.

Ciò doveva essere realizzato mediante lamatematizzazione del pensiero umano, cioèl’assegnazione ad ogni nozione di un numerocaratteristico, in modo che fosse possibile poi applicare le tecnichedell’algebra e della matematica: «una volta stabiliti i numeri caratteristicidella maggior parte delle nozioni, l’umanità avrà un nuovo genere diorgano, che aumenterà la potenza della mente assai più di quanto le lentiottiche giovino alla vista, e di tanto superiore ai microscopi e ai telescopi diquanto la ragione sopravanza la vista»133. Una logica, dunque, che si poneall’interno di una matematica non intesa soltanto come trattamento dellaquantità, e che cerca in questa gli strumenti per una propria fondazione,

132 G. Leibniz, Saggio sulla caratteristica (1684?), in Leibniz e la logica simbolica, a cura di

M. Mugnai, Sansoni, Firenze 1973, pp. 60-1.133 G. Leibniz, Storia ed elogio della lingua caratteristica universale (1679-80), in Scritti di

logica, a cura di F. Barone, Zanichelli, Bologna 1968, p. 165.

La matematizzazione delpensiero

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mediante una sua algebrizzazione: «Quello cui Leibniz pensava era unateoria generale delle strutture che potesse fornire la sintassi della suacharacteristica universalis»134.

Grazie a questa logica può prender corpo ilgrande progetto della possibilità di trasformareogni ragionamento umano, e quindi la filosofia,in un’operazione sostanzialmente meccanica,algoritmica, che ponesse fine alle continue controversie tra scuolemetafisiche. Insomma, mediante la logica intesa come calcolo, sarebbestato possibile edificare una filosofia scientifica, che avesse la medesimacertezza e lo stesso rigore di cui aveva dato prova la matematica; così,afferma Leibniz, «quando sorgeranno delle controversie, sarà altrettantoinutile stabilire una discussione tra due filosofi, quanto lo è il farlo tra duecalcolatori. Basterà infatti prendere la penna in mano, o sedersi innanzi agliabbachi e, dopo avere all’occorrenza convocato un amico, dirsi a vicenda:calcoliamo!»135.

E’ in questo calculemus che si riassume il messaggio che Leibnizconsegna ai posteri e che, al di là dei singoli contributi tecnici da lui fornitie della sua incapacità a produrre un sistema definitivo136, infiammeràl’immaginazione dei logici e dei filosofi contemporanei, che in essovedranno il preannuncio del sogno che la nuova logica simbolica, nelcontempo maturata, avrebbe reso finalmente possibile, grazie ai potentistrumenti da essa forgiati: avviare la filosofia sulla strada della scienza, cosìtrasformandola infine in una disciplina ‘seria’.

2.3 L’algebra della logica. Come ha sostenuto ilBlanché, dopo Leibniz la logica ha progressi-vamente conosciuto un processo di divaricazione:«La logica cosiddetta classica, considerata come derivante dalla filosofia, siaccontenterà generalmente di prolungare, con qualche emendamento più omeno felice, le dottrine ricevute, asservite alla proposizione attributiva eincentrate sulla sillogistica, dottrine peraltro ridotte speso alle loro parti piùelementari, a quella che talora è chiamata la logica minore. Al tempo stessoperò, e in margine alle opere dei filosofi, tale logica sarà coltivata anche daalcuni matematici che, pur restando largamente tributari dell’insegnamentotradizionale, introducono tuttavia idee e metodi nuovi. La rottura tra le due

134 W.C. Kneale - M. Kneale, Storia della logica (1962), Torino, Einaudi 1972, pp. 384-5.135 G. Leibniz, Sulla scienza universale o calcolo filosofico (1684-5), cit. in R. Blanché, La

logica e la sua storia da Aristotele a Russell (1970), Ubaldini, Roma 1973, p. 246.136 Per i Kneale, sono state due le ragioni di una tale incapacità: «La prima era l’impossibilità

di comporre un dizionario per il nuovo linguaggio finché il lavoro di ricerca scientifica non fossestato portato a compimento, o almeno più vicino al compimento di quanto non lo fosse statoall’epoca di Leibniz. Non possiamo provvedere un simbolismo esplicativo per la chimica finché lachimica non esiste come scienza […] Ma vi era una seconda ragione, sconosciuta a Leibniz, percui poteva fare pochi progressi nella costruzione di un linguaggio ideale, ed era che non si fosseliberato dal dogma soggetto-predicato della logica tradizionale» (W.C. Kneale – M. Kneale, op.cit., p. 376). Per una presentazione sintetica dei suoi contributi algebrico-logici vedi P. Freguglia,L’algebra della logica, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 13-9.

La filosofia ed il ragiona-mento trasformati in purocalcolo: un programma per ilfuturo

Le due strade intraprese dal-la logica: la filosofica e lamatematica

La “preistoria della logica” ele sue due direttrici dis v i luppo , su l la s c iadell’eredità leibniziana

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correnti non avverrà che nella seconda metà del XIX secolo; ma prima, perquasi due secoli assistiamo, ai confini della scienza ufficiale, a svariatitentativi di introdurre nelle speculazioni logiche lo spirito e i metodi dellamatematica»137.

Tali due correnti, in quella fase della storiadella moderna logica matematica che Bocheƒskiindica come sua ‘preistoria’138, si riallaccianoall’eredità leibniziana secondo due direttricifondamentali. Da una parte abbiamo il lavoro di studiosi di prevalenteformazione matematica come G. Saccheri (1667-1733), J.H. Lambert(1728-1777), G. Ploucquet (1716-1790), L. Eulero (1707-1783), J.Gergonne (1771-1859), B. Bolzano (1781-1848), che cercano di sviluppare,riallacciandosi più o meno consapevolmente a Leibniz, l’aspetto algorit-mico e calcolistico della logica, accentuandone così l’aspetto formale. Maquesta è una tendenza largamente minoritaria, che ebbe scarsissimainfluenza sia sul pensiero filosofico sia sulla rinascita successiva dellalogica. Di gran lunga più importante fu la seconda direttrice, che si ponevaesplicitamente su una linea di continuità col pensiero leibniziano e il cuiiniziatore fu il tedesco Christian Wolff (1679-1754). Tuttavia laproblematica logica di Leibniz veniva da lui ridotta ad una illustrazioneprecettistica della sillogistica aristotelica, con ciò mettendone a tacere gliaspetti di novità, ad essa preferendo l’algebra e la geometria come vereartes inveniendi et demostrandi, il cui metodo non può essere esteso al difuori di esse, e tanto meno alla logica, che rimaneva quella tradizionale.139

L’impossibilità della reciproca fecondazione con la matematica, faceva sì,in questa prospettiva, che la logica venisse in linea di principio consideratauna disciplina filosofica, con ciò squalificando, sulla scia della posizionecartesiana, la sua interpretazione prevalentemente formale, tentata daLeibniz. Ciò portava ad un allargamento del campo della logica a settoriche con essa poco hanno a che fare, come l’ontologia, la gnoseologia o lapsicologia: è quanto avviene ad es. con Kant e con la sua logicatrascendentale, il cui giudizio sulla storia della logica peserà come unmacigno sul suo futuro sviluppo140; od addirittura con Hegel, per il quale la

137 R. Blanché, op. cit., p. 253.138 J.M. Bocheƒski, La logica formale. La logica matematica (1956), Einaudi, Torino 1972, p.

350.139 Questa concezione, che abbiamo visto risale a Galilei e che è anche tipica di Cartesio, la

troviamo ancora espressa in matematici di valore come i fratelli Bernuilli i quali, facendo ilparallelismo tra algebra e logica, affermano che «c’è più ingegno e giudizio nella riduzione dellapiù semplice equazione algebrica di quanto non ce ne sia nei più difficili raziocinii [sillogismi] delresto ovvi nell’uso comune della vita»; per cui concludono che «l’algebra è la vera logica utile perscoprire la verità e per dare alla mente tutta l’estensione di cui questa è capace» (cit. in C.Mangione, “Logica e fondamenti della matematica”, in L. Geymonat, Storia del pensierofilosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1971, vol. III, p. 166).

140 Kant sostiene che la logica non ha fatto alcun progresso dopo Aristotele, che viene cosìvisto come il suo fondatore e sistematizzatore definitivo: «Che la logica abbia seguito questastrada sicura sin dai tempi più antichi, si può scorgere dal fatto, che da Aristotele in poi essa nonha dovuto fare alcun passo indietro, a meno che non si voglia eventualmente attribuirle, comeperfezionamenti, l’eliminazione di alcune sottigliezze superflue o la determinazione più chiaradella materia esposta; ciò peraltro è pertinente più all’eleganza, che alla sicurezza della scienza.

La duplice eredità della lo-gica di Leibniz e i difficilirapporti con la matematica

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logica diventa inseparabile dall’ontologia e quindi perde la suacaratteristica più tipica, ossia la formalità. Ma in particolare la logicaprende all’inizio dell’Ottocento la direzione del psicologismo con J. Fries,J.S. Mill e F. Brentano.

Si va così accentuando, nella seconda metà delXIX secolo la separazione tra le due maniered’approccio allo studio della logica: quello deimatematici e quello dei filosofi. «Mentre i primi spingono decisamente lalogica sulla strada aperta da Leibniz e dai suoi successori, i filosofi, daparte loro, sembrano aver ripreso gusto alla logica, ritenendo di poterlaancora far progredire senza scostarsi dalla linea tradizionale […] Semplifi-cando un po’, li possiamo ripartire secondo due grandi tendenze:l’idealistica, nella discendenza di Kant e dei postkantiani, e l’empiristica,che assume allora generalmente la forma di quello che è stato chiamato lopsicologismo»141.

Lungo la prima direzione troviamo la rottura esplicita con la logicatradizionale o “logica classica” (che costituisce una prosecuzione di quellaaristotelica e sillogistica), di provenienza filosofica, e la continuazione delprogramma leibniziano nell’opera di George Boole (1815-1864). L’annodecisivo è il 1847, in cui vede la luce la sua The Mathematical Analysis ofLogic: è questa la data che segna, per gli storici e i logici contemporanei,l’atto di nascita della logica formale moderna142. E’ infatti nella sua operache avviene per la prima volta il confinamento della sillogistica ad un ruolosecondario e subordinato, in base alla convinzione che «sillogismo, con-versione, e via dicendo, non sono i processi fondamentali della logica», inquanto «sono fondati su, e risolubili in, processi ulteriori e più semplici checostituiscono i veri e propri elementi del metodo della logica»143.

Tale ricollocazione del ruolo della logica tradi-zionale (la cui trattazione occupa uno spazio limi-tato dell’opera di Boole) è il frutto delle trasfor-mazioni subite nel contempo dal pensiero mate-

Nella logica è ancora degno di nota il fatto, che sino ad oggi essa non ha neppure potuto fare alcunpasso in avanti e quindi, secondo ogni apparenza, sembra essere chiusa e compiuta. In effetti, se èvero che alcuni moderni hanno pensato di ampliarla, inserendovi sia dei capitoli psicologici sulledifferenti capacità conoscitive (la capacità d’immaginazione, l’arguzia), sia dei capitoli metafisicisull’origine della conoscenza oppure sulle differenti specie di certezza secondo la differenza deglioggetti (idealismo, scetticismo, ecc.), sia dei capitoli antropologici sui pregiudizi (sulle cause ed irimedi di questi), ebbene, tutto ciò proviene dalla loro ignoranza della vera e propria natura diquesta scienza. Quando qualcuno fa si che i confini delle scienze si confondano, queste nonrisultano accresciute, bensì deformate. Il confine della logica, per contro, è segnato con perfettaprecisione dal fatto che essa è una scienza, la quale espone in modo circostanziato e dimostrarigorosamente null’altro che le regole formali di ogni pensiero (sia esso a priori oppure empirico,abbia esso una qualsivoglia origine o un qualsivoglia oggetto, incontri esso nel nostro animoimpedimenti contingenti oppure naturali) (Critica della ragion pura, trad. di G. Colli, Bompiani,Milano 1987, pp. 17-8).

141 R. Blanché, op. cit., p. 303.142 Non bisogna dimenticare che nello stesso anno viene anche pubblicata la Formal Logic di

A. de Morgan, anch’essa ritenuta importante nella svolta di metà secolo.143 G. Boole, Indagine sulle leggi del pensiero su cui sono fondate le teorie matematiche della

logica e della probabilità (1854), Einaudi, Torino 1976, p. 22.

Si accentua la separazionetra logici di orientamentomatematico e logici diformazione filosofica: l’operadi Boole

La divaricazione tra matema-tici e filosofi nel modo diintendere la logica

Le trasformazion i de lpensiero matematico: la finedella concezione puramentequantitativa

Le trasformazioni del pen-siero matematico: la scuoladi analisi di Cambridge

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matico. Questo, infatti, si era vieppiù liberato dalla connessione esclusivacon la misurazione e la quantità, che era stata tipica dei matematici delSettecento, come ad es. Eulero. In Inghilterra, in particolare, si eraaffermata, grazie alla riflessione di matematici della cosiddetta “Scuola diCambridge” come R. Woodhouse, G. Peacock, D.F. Gregory e A. deMorgan, l’idea che le leggi e i calcoli che stanno alla base dell’algebra nontrovano applicazione solo nel campo numerico, ma anche ad entità diverse,non legate alla misura della quantità (da questo programma si svilupperàquella che oggi è chiamata “algebra astratta”).144 E’ riallacciandosi a questodeterminato quadro storico, infatti, che Boole afferma con decisione: «nonè essenziale alla matematica il trattare con le idee di numero o diquantità»145. E’ così possibile avere una idea più chiara del formalismo edell’essenza del calcolo logico, la cui ‘validità’ non dipende dal significatodei simboli che in esso occorrono, ma solo dalle leggi che ne regolano lacombinazione. Da ciò l’ulteriore passo di concepire un calcolo algebricoastratto i cui simboli non possedessero già un significato stabilito, mapotessero venire interpretati in modi diversi, sia quantitativamente, siaanche in modo da rispecchiare la logica delle classi e dei concetti.146

Grazie a questa considerazione sempre piùastratta dell’algebra è possibile formulare l’idea –che è quella propria di Boole ma costituisce anchela continuazione del progetto intuito da Cartesio eda Leibniz – che sia possibile matematizzare il ragionamento, ovveroeffettuare argomentazioni logiche utilizzando le leggi e i calcoli dell’al-gebra. Infatti, «non soltanto esiste una stretta analogia fra le operazioni che

144 Su tale scuola ed il suo apporto per svincolare la “matematica pura” da quella “applicata”,

intesa come scienza della quantità, vedi F. Barone, Logica formale e logica trascendentale. II.L’algebra della logica, Ed. di Filosofia, Torino 1965, pp. 29-63.

145 G. Boole, op. cit., p. 24. Cfr. anche Id., Analisi matematica della logica (1847), Silva,Milano 1965, pp. 52-3.

146 «Coloro che hanno familiarità con lo stato attuale della teoria dell’algebra simbolica, sonoconsapevoli che la validità dei procedimenti dell’analisi non dipende dall’interpretazione deisimboli che vi sono impiegati, ma soltanto dalle leggi che regolano la loro combinazione. Ognisistema di interpretazione che non modifichi la verità delle relazioni che si suppone sussistano tratali simboli è egualmente ammissibile, ed è così che il medesimo processo può, secondo unoschema d’interpretazione, rappresentare la soluzione di una questione riguardante la proprietà deinumeri, secondo un altro schema quella di un problema di geometria, e, secondo un altro ancora,quella di un problema di dinamica o di ottica […] Potremmo cioè correttamente affermare che lacaratteristica che definice un calcolo autentico consiste in questo: che esso è un metodo fondatosull’impiego dei simboli le cui leggi di combinazione sono note e generali, e i cui risultatiammettono un’interpretazione coerente. Il fatto che alle forme esistenti di analisi venga assegnataun’interpretazione quantitativa è il risultato delle circostanze che determinarono il sorgere di taliforme, e noi non dobbiamo farne una condizione universale dell’analisi. Sulla base di questoprincipio generale, io intendo appunto fondare il calcolo logico, e reclamare, per esso, un posto trale forme di analisi matematica ormai generalmente riconosciute […]» (Boole, Analisi matematicadella logica, 1847, Silva, Milano 1965, pp. 51-4). In queste celebri parole della Introduzione allasua prima opera, come nota Barone, «viene affermata la possibilità di un’interpretazione logicad’un calcolo algebrico e […] traspare, indirettamente, tutta l’efficacia suggestiva dellaproblematica scientifica dibattuta dai membri della scuola di Cambridge e, più in generale, daimaggiori matematici inglesi contemporanei» (Barone, op. cit., p. 81). Sull’importanza di talecarattere formale del calcolo booleano insiste anche Mangione, “La svolta della logicanell’Ottocento”, in L. Geymonat, op. cit., vol. V, pp. 106-8.

Si realizza con Boole il pro-gramma solo annunciato daLeibniz: la logica diventa unadisciplina matematica

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la mente esegue quando fa ragionamenti generali, e quelle che esegue nellascienza particolare dell’algebra: c’è anche, in misura considerevole,un’esatta concordanza fra le leggi in virtù delle quali si eseguono le dueclassi di operazioni»147.

In tal modo per Boole la logica non era che una parte della matematica epoteva quindi essere resa scientifica, liberandola dagli equivoci e daglierrori di quella tradizionale, applicandole le sue leggi ed effettuandoconseguentemente dei calcoli del tutto simili a quelli algebrici: ilcalculemus di Leibniz sembra poter aver realizzazione. La logica cessa diessere una disciplina filosofica (diversamente da come sosteneva Hamilton,col quale Boole implicitamente polemizza), recide le sue connessione conla metafisica, e diviene una disciplina matematica: «Se vogliamo attenerciai principi di una classificazione vera, non dobbiamo più associare logica emetafisica, ma logica e matematica […] Si vedrà che la logica riposa, comela geometria, sopra verità assiomatiche, e che i suoi teoremi sono costruitisu quella dottrina generale dei simboli che costituisce il fondamentodell’analisi istituzionale»148.

Insomma, con Boole «la ricerca filosofica perde la presunta proprietàesclusiva su quella che era stata considerata tradizionalmente una delle suebranche»149. E’ per tale ragione che il suo progetto, e quello dei logici chene seguono l’impostazione, viene ad essere caratterizzato col nome di“algebra della logica”.

Con questa virata in direzione algebrica Boole, diversamente daLeibniz, non si limitò ad enunciare un programma, ma si forzò di darne unaesecuzione quanto più completa possibile, in stretta connessione con iprocedimenti dell’algebra e dell’aritmetica, della quale usa i simboli (ad es.la congiunzione logica viene espressa con +, per cui x + y sta ad indicare ades. “pecore e buoi”). In lui non è ancora emersa la consapevolezzadell’esistenza di metodi puramente logici, con un simbolismo diverso edautonomo rispetto a quello dell’algebra.

Un aspetto particolare dell’approccio booleanoè quello di intendere la logica come lo studio delleleggi del pensiero umano (ciò è in particolareevidente nella sua seconda opera, come indica del resto il suo stesso titolo,An Investigation of the Laws of the Thought, on which are Founded theMathematical Theories of Logic and Probabilities). Per tale aspetto egli èstato criticato, dai logici contemporanei che hanno seguito l’impostazionedella logica di Russell150, per essere ancora legato a quell’impostazionepsicologistica, tipica della filosofia della metà del secolo, che egli avrebberipreso dal logico suo contemporaneo W. Hamilton (1788-1856)151, il cuirifiuto sarà il contrassegno più tipico della logica matematica

147 G. Boole, Indagine…, cit., p. 15.148 G. Boole, Analisi matematica…, cit., p. 69.149 F. Barone, op. cit., p. 63.150 Su tale interpretazione russelliana, poi fatta propria dai protagonisti del Circolo di Vienna,

cfr. M. Trinchero, Introduzione a Boole, Indagine…, cit., pp. lxxiii-lxxviii.151 Cfr. Barone, op. cit., pp. 77-8.

La logica diventa per Booleuna parte della matematica ecessa di essere una disciplinafilosofica

La logica come studio delleleggi del pensiero umano: èpsicologismo?

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contemporanea152. Secondo questa interpretazione, la matematica e la lo-gica, che Boole vuole ricostruire sulla base di quella, non fanno altro cheesprimere il modo di funzionamento del cervello umano, le sue leggiempiriche: «In primo luogo, nostro scopo è il sottoporre ad indagine leleggi fondamentali delle operazioni mentali, in virtù delle quali si attua ilragionamento»153. La conseguenza sarebbe che la logica non godrebbe dialcun statuto privilegiato rispetto a qualunque altra scienza empirica, equindi verrebbe a perdere quella universalità e necessità che sempre le èstata riconosciuta. Tuttavia, è stato fatto notare, le operazioni della mentealle quali Boole si riferisce non sono quelle che di fatto essa compie, intutte le accidentalità tipiche ed idiosincratiche del singolo individuo;ovvero, egli non mira a descrivere come di fatto ragionano gli uomini,bensì quali siano le leggi del ragionamento corretto; le leggi logiche nonhanno pertanto natura descrittiva, ma normativa154. Ne segue, grazie aquesta sua convinzione di fondo, che il contenuto della sua opera – specienel suo primo lavoro The Mathematic Analysis of Logic – fu libero dalcondizionamento psicologico: «fu l’opera di Boole a mostrare chiaramente,con l’esempio, che la logica poteva studiarsi proficuamente senza alcunriferimento a nostri processi psichici. Senza dubbio egli credeva di trattareleggi del pensiero in qualche senso psicologico di quell’ambiguo termine,ma in realtà trattava alcune delle leggi generalissime dei pensabili»155.

Sulla base dei segni e delle leggi introdotteBoole può procedere a tradurre il calcolosillogistico nella sua algebra logica, innanzi tuttooperando la trascrizione delle proposizioniuniversali e particolari: «Intendo mostrare in qualmodo i processi del sillogismo e della conversione si possano condurre inmaniera estremamente generale, in base ai principi di questo trattato e,considerandoli in relazione a un sistema di logica le cui fondazioni siritiene di aver gettato nelle leggi ultime del pensiero, cercherò di determi-nare il posto che gli spetta veramente e il loro carattere essenziale»156.

La conclusione non può che essere devastante: la logica aristotelica è

152 Si veda ad es. la valutazione che ne dà P.E.B. Jourdain ad inizio secolo, nel periodo dimassimo trionfo dell’impostazione logicista, esplicitando una linea interpretativa che avrà unagrande fortuna («The Development of Theories of Mathematical Logic and the Principles ofMathematics», The Quarterly Journal of Pure and Applied Mathematics, xli, 1910, pp. 324-52).Ancora in tempi recenti è questa l’interpretazione che ne dà C. Mangione, op. cit., pp. 93, 108-110.

153 Boole, Indagine…, cit., p. 12.154 Cfr. C. Celluci, Le ragioni della logica, Laterza, Bari 1998, p. 58.155 W.C. Kneale – M. Kneale, op. cit., p. 463. Dello stesso avviso Blanché, op. cit., p. 313.

Afferma Trinchero: «In realtà, Boole non s’era mai proposto distabilire “come la gente pensi”, nédi far della logica un ramo della psicologia; né tanto meno s’era sognato d’affermare che“l’enunciazione di un fatto è vera solo perché qualcuno pensa che lo sia” o che le leggi delpensiero siano paragonabili alle leggi fisiche […] Allo stesso modo cadevano fuori dellacompetenza delle Laws proprio quelle questioni che avrebbero fatto saltare di gioia unopsicologista vero […] appariva chiaro che l’appello alle leggi della mente aveva la funzione diaccentrare l’analisi sul piano del linguaggio, tenendovela rigorosamente ancorata» (op. cit., pp.lxxviii-lxxix).

156 Boole, op. cit., pp. 317-8.

La reinterpretazione del sil-logismo nell’algebra delleclassi e la liquidazione dellalogica aristotelica

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definitivamente affossata, ridotta solo ad una applicazione particolare delsistema generale da lui proposto, con un carattere quindi assolutamentesecondario e del tutto inefficace come strumento d’analisi del sapere. Vienein particolare demolita la struttura soggetto-predicato della logica classica,in favore del suo metodo più generale, che non confina la sua attenzione alsoggetto e predicato, ma può partire da qualsiasi elemento o combinazionedi elementi e quindi elaborare liberamente la struttura della proposizione.Anche il sillogismo viene ridotto al simbolismo da lui introdotto ed èdestituito dal suo ruolo centrale come strumento principe del ragionamentoumano. Tracciando il suo bilancio finale, Boole tesse l’elogio funebre dellalogica classica col riconoscerle i meriti passati, per poi definitivamenteseppellirla, privandola di ogni avvenire: «Quali sono dunque le conclusionifinali sulla natura e l’estensione della logica scolastica, a cui ci conduce lanostra analisi? Ritengo che siano le seguenti: che la logica delle Scuole nonè una scienza, ma una collezione di verità scientifiche troppo incompleteper formare un sistema di per sé stesse e non sufficientemente fondamentalida servire come la base su cui possa riposare un sistema perfetto. Tuttavia,dal fatto che la logica delle Scuole è stata rivestita di attributi ai quali nonha alcun diritto, non segue che essa non sia meritevole di considerazione.Un sistema che è stato associato con la stessa crescita del linguaggio, e cheha lasciato un’orma così profonda sui maggiori problemi e sulle più famosedimostrazioni della filosofia, non può essere completamente immeritevoled’attenzione. Si deve ammettere che anche la memoria e l’uso hanno moltoda fare con i processi dell'intelletto; e alcuni canoni dell’antica logica sisono profondamente intessuti nella trama del pensiero degli intelletti piùalti. Ma se le forme mnemoniche nelle quali sono state presentate le regoleparticolari della conversione e del sillogismo posseggano una qualcheutilità reale; se la stessa abilità che si suppone esse conferiscano non possa,con maggiore profitto per i poteri mentali, essere acquistata dagli sforziautonomi di una mente lasciata libera di usare le proprie risorse; questisono problemi che non sarebbe inutile rimettere in discussione. Per quantoriguarda i risultati particolari che abbiamo ottenuto […], si deve osservareche essi sono intesi unicamente ad aiutare la ricerca sulla natura dellalogica ordinaria o scolastica, e le sue relazioni con una teoria più perfettadel ragionamento deduttivo»157.

Infine, il nuovo strumento che in tal modoBoole ha forgiato avrebbe mostrato la suafecondità nella sua applicazione filosofica,permettendo una migliore analisi e chiarimentodei tradizionali problemi della filosofia. A tal scopo Boole si propone dianalizzare due esempi di argomentazione, tratti dalla Dimostrazionedell’essere e degli attributi di Dio di Samuel Clarke e dall’Etica di Spinoza,cioè da due opere che venivano al suo tempo universalmente consideratecome un modello di rigore argomentativo, che seguiva, specie quella di

157 Ib., p. 337.

La fecondità filosofica dellalogica booleana: l’analisidelle opere di Clarke e Spi-noza

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Spinoza, l’esempio delle matematiche e della geometria. Di queste Booleeffettua una vera e propria ricostruzione analitica, esplicitando le premessecontenute nelle loro argomentazioni, esprimendole nel “linguaggio deisimboli” e quindi, impiegando i metodi già esposti nella sua opera, trae «leconclusioni più importanti che tali premesse implicano»158. Lamanchevolezza di tali opere si scorge subito proprio nella difficoltà diaccertarne le premesse, per cui si constata che «in quelli che sonoconsiderati come gli esempi più rigorosi di ragionamento applicato allequestioni metafisiche, sono spesso confuse insieme diverse concatenazionidi ragionamenti; che certe parti della dimostrazione, che hanno un carattereloro particolare, ma che nondimeno sono essenziali, vengono menzionateper inciso o vengono lasciate fuori del corso principaledell’argomentazione; che talvolta il significato di una premessa è in certamisura ambiguo, e che abbastanza sovente certe argomentazioni, conside-rate dal punto di vista delle leggi rigorose del ragionamento formale, sonoscorrette o inconcludenti»159.

Ne conclude Boole sulla «futilità di stabilire interamente a prioril’esistenza di un essere infinito, i suoi attributi e le sue relazioni conl’universo»160; in sostanza, sull’impossibilità di passare dal piano puramentelogico a quello esistenziale. Era questa una lezione severa che indicava ilimiti della ragione ed anche della validità dello stesso sistema da Booleproposto; ma anche una indicazione positiva sul carattere analogico edinduttivo della conoscenza implicante l’allargamento dell’esperienza, al cuifine Boole propone la sua teoria della probabilità.161

1.4 Alcune nozioni elementari dell’algebradella logica. Alla base del sistema booleano v’èil concetto di ‘classe’, che indica una collezionedi individui (o elementi), caratterizzati per il fatto di essere denominati odescritti in un certo modo. Ad es., col simbolo x indicheremo la classeformata da tutti gli uomini, cioè la classe ‘uomini’; con y la classe formatada tutti i ‘buoni’ (ovvero, da «tutte quelle cose alle quali può applicarsi ladescrizione ‘buono’»162) e così via163. Due classi particolari sono quelle cheBoole indica col numero 1 e col numero 0: sono rispettivamente la classe‘universo’ (ovvero quella classe che comprende ogni classe possibile di og-

158 Ib., p. 261.159 Ib., p. 262160 Ib., p. 304.161 A tale argomento sono dedicate le parti finali della sua Indagine…, dal cap. xvi al cap. xxi

(pp. 338-544).162 Boole, op. cit., p. 47.163 Nella sua precedente opera Boole distingueva tra l’oggetto o classe X e il “simbolo elettivo”

x che simbolizza l’operazione di scelta operata dalla mente di modo che esso, «operando su unqualsiasi soggetto comprendente individui o classi, scelga da quel soggetto tutte le X che essocontiene. In maniera analoga si assumerà che il simbolo y, operando su un qualsiasi oggetto,scelga da esso tutti gli individui membri della classe Y che sono compresi in esso, e così via»(Analisi matematica, cit., p. 76). Pertanto il simbolo x sceglie da un dato soggetto tutti gli X e cosìvia. Tale distinzione viene fatta cadere nella Indagine…, cit., la cui impostazione sarà da noiseguita.

Il concetto di ‘classe’ e leprincipali operazioni tra esse

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getti, sia esistenti che immaginabili) e la classe ‘vuota’ (o nulla, che noncomprende alcun oggetto). A queste classi Boole applica un certo numerodi operazioni, indicate dai segni +, –, ¥. Così abbiamo la classe formata dax ¥ y (indicata anche con xy, come in algebra,), cioè da tutte le cose «a cuisono applicabili, simultaneamente, i nomi o le descrizioni rappresentati da xe y»164. Se, ad es., x sta per ‘cose bianche’ e y sta per ‘animali’, allora xyindicherà la classe formata dagli ‘animali bianchi’. L’operazione x + yindica l’aggregazione (o unione) di classi, che nel linguaggio comune siindica con le congiunzioni ‘e’ oppure ‘o’; per cui, seguendo l’esempioprecedente, x + y indica la classe formata dalle cose bianche e/o daglianimali (che è diversa da quella formata dagli ‘animali bianchi’)165.L’operazione x - y indica la separazione delle classi, cioè la classe deglioggetti che sono x e non y, che nel linguaggio comune viene indicata con lalocuzione ‘ad eccezione’, ‘eccetto’; per cui avremo (in base all’esempiodato) la classe delle cose bianche eccetto gli animali. Infine Booleintroduce il segno di identità =, che è un segno di relazione e permette diformare le proposizioni; esso sta ad indicare l’equivalenza delle classi edesprime ciò che nel linguaggio comune viene di solito reso mediante lacopula ‘è’, in senso esistenzale, in quanto ritiene che tutti gli altri verbisiano in essa trasformabili (“Cesare conquistò la Gallia” equivale a dire“Cesare è colui che conquistò la Gallia”, ovvero “Cesare e il conquistatoredella Gallia sono la medesima persona”). Una volta stabilito il‘vocabolario’ del suo sistema di logica, Boole introduce alcune leggi che neregolano il funzionamento e che sono in gran parte riprese da quelledell’algebra. Sono sostanzialmente• la legge di distributività: z(x + y) = zx + zy;• la legge di commutatività: xy = yx;• le legge degli indici: xn = x, quest’ultima propria dall’algebra logica e

non valida invece in quella numerica (dove non è vero che 32 = 3).Inoltre, in base a quanto detto, Boole introduce anche i termini negativi,

ad es. la negazione della classe x, senza la necessità di introdurre nuovisimboli od operazioni, ma concependola come il complemento di x rispettoall’universo: (1 – x) sta ad indicare tutti gli oggetti eccetto x, cioè che nonsono x, e pertanto rappresenta la negazione di x.

Possiamo sintetizzare quanto detto nella seguente tabella:

Espressione booliana Significato Esempio

x, y, z, ecc.Simboli letterali, che rappresen-tano classi, ovvero collezioni diindividui o di cose aventi unacerta caratteristica

x sta per ‘gli uomini’, y sta per ‘lecose bianche’, z per ‘gli animali’,ecc.

164 Ibidem.165 Boole intepreta la disgiunzione ‘o’ in modo esclusivo, in quanto afferma che «a rigore le

parole ‘e’, ‘o’, interposte fra i termini che descrivono due o più classi di oggetti, implicanol’assoluta distinzione di queste classi, così che nessun membro dell’una appartiene anche all’altra»(ib., p. 53). Ciò si discosta dal modo usuale in cui viene intesa la disgiunzione nella logicacontemporanea, che la interpreta nel senso di vel: l’uno o l’altro oppure entrambi, per cui laproposizione complessa formata da “p o q” è falsa solo nel caso in cui entrambe le proposizionicomponenti sono false.

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certa caratteristica

v

Simbolo che indica una classeavente almeno un elemento epertanto viene interpretato comeesprimente il termine ‘alcuni’.

vx sta per “alcuni degli uomini”

+, –, x

Segni di operazioni applicantesialle classi

x + y sta per la classe degli “ani-mali e/o cose bianche”x - y, sta per la classe degli“animali eccetto quelli bianchi”x x y (oppure xy) sta per laclasse degli “animali bianchi

=

Segno di relazione, indicanteidentità; permette la formazionedelle proposizioni

Se rappresentiamo con x le ‘stel-le’, con y i ‘soli’, con z i ‘pianeti’,allora x = y + z sta a significarela proposizione “le stelle sono isoli e i pianeti”.

1, 0

Segni rappresentanti l’universo(cioè l’insieme di ogni classe dioggetti) e il ‘niente’ (ovvero laclasse che non contiene alcunelemento, o ‘vuota’)

z(x + y) = zx + zyz(x - y) = zx - zy

Leggi di distributività del pro-dotto, rispetto alla somma e ri-spetto alla differenza. Valide an-che in algebra

Stiano z per ‘europeo’, x per ‘uo-mini’ e y per ‘donne’, allora dire“uomini e donne europei” è lastessa cosa che dire “uomini eu-ropei e donne europee”

xy = yxx + y = y + x

Leggi di commutatività per ilprodotto e per la somma. Valideanche in algebra

Dire “uomini bianchi” e “bianchiuomini” è la stessa cosa

xn = x

Legge degli indici. Non valida inalgebra

Nel caso in cui n=2, dire che unclasse è formata di “uomini uomi-ni” è lo stesso che dire essa èformata da ‘uomini’ (cioè xx = x).La reiterazione può avere solouna funzione retorica.

(1 – x)

Negazione Se x sta per ‘uomini’, allora l’e-spressione significa “tutte le coseeccetto gli uomini”, ovvero tuttociò che non è ‘uomini’, cioè non-uomini

x (1 - y) = 0 Proposizione universale afferma-tiva

Se x sta per ‘uomini’ e y sta per‘mortali’, allora l’espressione staa significare che la classe degli“uomini non-mortali” è vuota,cioè che non esistono uominiimmortali e quindi “tutti gli uomi-ni sono mortali”.

xy = 0 Proposizione universale negativa Se x sta per ‘uomini’ e y sta per‘mortali’, allora l’espressione staa significare che la classe degli“uomini mortali” è vuota; cioènessun uomo è mortale.

y = vxProposizione particolare afferma-tiva

Se y sta per ‘animali’ e x per‘quadrupedi’, allora l’espressionesignifica “gli animali sono alcunidei quadrupedi”, ovvero che “al-cuni animali sono quadrupedi”.

x (1 - y) = v Proposizione particolare negativa Se x sta per ‘uomini’ e y sta per‘greci’, allora l’espressione sta asignificare che il prodotto tra gli‘uomini’ e i ‘non-greci’ dà luogoad una classe che contienealmeno un elemento; ovvero“alcuni uomini non sono greci”.

Principali espressioni e leggi booliane. Si riportano i segni e le operazioni fondamentali am-messi da Boole, nonché il modo in cui rendono nel suo sistema le proposizioni universali e parti-colari (affermative e negative) appartenenti alla tradizione sillogistica. Gli esempi utilizzati sonotratti in gran parte dalla sua Indagine sulle leggi del pensiero, citata nel testo.

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Il passaggio dall’algebra delle classi a quelladelle proposizioni avviene mediante la distinzionetra “proposizioni primarie” e “proposizionisecondarie”.166 Le prime (dette anche ‘concrete’)esprimono relazioni tra cose, come quando affermo “il Sole brilla”, cheequivale a dire “il Sole è una cosa brillante”, con ciò esprimendo unarelazione tra due classi di cose. Le “proposizioni secondarie” esprimonouna relazione tra proposizioni, come quando affermo “se il Sole brilla, laTerra si riscalda”, in cui metto in relazione due proposizioni primarie e cosìottengo proposizioni condizionali, disgiuntive ecc. In tal modo il calcolo hacome suoi costituenti non delle classi di oggetti o elementi, bensì delleproposizioni primarie che non vengono analizzate nei loro costituenti(ovvero nella loro struttura interna, formata da soggetto e predicato, cosìcome avveniva nella logica aristotelica e classica), ma solo nei loro rapportireciproci. Questo passaggio dal piano ‘primario’ a quello ‘secondario’comporta un significato diverso dei simboli prima introdotti, in quanto oraè necessario considerare la proposizione per la sua verità o falsità. Pertantoi simboli 1 e 0 – che prima indicavano la classe universo e quella vuota–stanno ora ad indicare il vero ed il falso e le variabili x, y, z indicano pro-posizioni. Avremo dunque che se x è vera, allora (1 - x) è falsa (eviceversa); e nel caso di relazione tra due proposizioni potremo avere soloquattro casi:• xy, cioè x vera, y vera;• x(1 – y), cioè x vera, y falsa;• (1 – x)y, cioè x falsa, y vera;• (1 – x) (1 – y), cioè x falsa, y falsa.

Quanto detto basta a far vedere unacaratteristica molto importante del sistema diBoole, e cioè il fatto che il calcolo delle classi equello delle proposizioni hanno la stessa strutturaformale; a differenziarli è solo l’interpretazioneche viene data ai segni che in essi compaiono. Come afferma Boole, «leleggi, gli assiomi e i processi di una tale algebra [delle classi] saranno intutto e per tutto identici alle leggi, agli assiomi e ai processi di un’algebradella logica. Divideranno le due algebre soltanto differenze di inter-pretazione»;167 e spiega: «[…] la discussione della teoria delle proposizioni

166 Il fatto che il calcolo delle proposizioni di Boole, ottenuto per traduzione da quello delleclassi, non corrisponda completamente a quanto poi sarà inteso con tale nome è stato messo inevidenza dai logici successivi. Cfr. F. Barone, op. cit., pp. 96-7.

167 Ib., p. 60. Tuttavia, come è stato notato da Mangione (sulla scorta di Barone), tale perfettaidentità formale non può essere stabilita in quanto, dato il significato attribuito a 1 e 0, affermareche x = 0 non significa affermare semplicemente la falsità di x, bensì la sua contraddittorietà, nelsenso che “x è sempre falsa”; ed analogamente x = 1 sta a significare che “x è sempre vera”(ovvero, si direbbe oggi, è una tautologia). Una delle ragioni fondamentali di ciò viene individuata«nel fatto che per Boole il calcolo delle classi (delle proposizioni categoriche) costituisce ilfondamento del calcolo delle proposizioni (secondarie). Oggi sappiamo che tale rapporto èesattamente invertito, riconosciamo cioè priorità logica al calcolo delle proposizioni (secondarie interminologia booleana) rispetto a quello delle classi» (C. Mangione, op. cit., pp. 122-3). Talecritica assume, però che nel calcolo formale puramente astratto di Boole sia possibile interpretare

“Proposizioni primarie” e“secondarie”: il passaggio alcalcolo proposizionale

Identità strutturale tra calcolodelle classi e calcolo propo-sizionale, diverse solo perl’interpretazione. Nasce “l’al-gebra astratta”

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secondarie è interessante per la stretta e notevole analogia che essa presentanei confronti della teoria delle proposizioni primarie. Si vedrà che inentrambi i casi le leggi formali a cui sono sottoposte le operazioni dellamente sono identiche dal punto di vista della loro espressione. Pertantosaranno identici anche i procedimenti matematici che si fondano su talileggi […] Ma mentre le leggi e i procedimenti del metodo rimangonoimmutati, la regola d’interpretazione dev’essere adattata a nuovecondizioni. Alle classi di cose dovremo sostituire proposizioni e in luogo direlazioni fra classi e individui dovremo prendere in considerazione leconnessioni di proposizioni o di eventi. Ancora, si vedrà che, nonostante ladifferenza di scopi e d’interpretazione, tra i due sistemi esiste dovunqueun’armoniosa correlazione: esiste un’analogia che, mentre serve a facilitarela risoluzione di tutte le difficoltà superstiti, costituisce di per sé stessa uninteressante argomento di studio e una prova conclusiva di quell’unità dicarattere che contrassegna la costituzione delle facoltà umane»168.

Seguendo questa strada ed ispirandosi a questa impostazione sarà poisviluppata la nozione di “algebra di Boole”, ovvero di una struttura formaleche può essere interpretata in vari modi, o come teoria degli insiemi, ocome calcolo proposizionale o come teoria dei numeri, e così via: è questala strada che porta alla moderna “algebra astratta”169.

1.5 Il perfezionamento dell’algebra della logica.L’opera di Boole non fu senza seguito; è grazie alsuo impulso che nella seconda metà dell’Ottocen-to fiorirono una molteplicità di ricerche come mai prima s’era visto e cheportarono nel giro di circa mezzo secolo alla edificazione di quella che oggiviene chiamato solitamente “algebra della logica”: è nel suo contesto che sisituano la gran parte dei lavori di logica ‘scientifica’ della seconda metà delsecolo (con l’eccezione di Frege, del quale parleremo in seguito). Essascaturisce dal proseguimento del programma booleano ed al tempo stessodal superamento di alcune sue limitazioni, sia tecniche sia nellaimpostazione di fondo.

Innanzi tutto è urgente perfezionare il suo simbolismo e reinterpretarealcuni suoi concetti in modo da renderli più consoni alla espressionedell’argomentazione logica, che fa uso di proposizioni e non di classi. Così diversamente tutti i simboli tranne 1 e 0, che restano costanti nel loro significato; sicché il calcolodelle proposizioni non sarebbe una interpretazione del formalismo astratto individuato da Boole eche sta alla base di ogni interpretazione (come quelle che danno origine al calcolo delle classi edelle proposizioni), bensì di un sistema formale già interpretato, quello delle classi, del quale si“reinterpretano” tutti simboli ad accezione di 1 e 0, che mantengono lo stesso significato.

168 Ib., p. 228. Come ha messo in luce Bochenski, riferendosi in particolare al brano citatonella n. 19, «La caratteristica del testo di Boole che ha fatto epoca è la spiegazione esemplarmentelucida dell’essenza del calcolo, cioè del formalismo […] Boole si rende anche conto dellapossibilità di interpretare lo stesso sistema formale in modi diversi. Ciò fa supporre che egli, adifferenza di tutti i logici precedenti, non pensasse alla logica come a un’astrazione fatta a partireda procedimenti attuali, ma come a una costruzione formale di cui soltanto successivamente sidebba ricercare un’interpretazione. Ciò è del tutto nuovo e in contrasto con l’intera tradizione,Leibniz incluso» (op. cit., p. 363).

169 Cfr. L. Lombardo-Radice, Istituzioni di algebra astratta, Feltrinelli, Milano 1982.

I successori di Boole: Jevons eVenn

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William Stanley Jevons (1835-1882) propone, in ossequio al pensiero co-mune, di intendere la disgiunzione ‘o’ in modo non esclusivo ed introducela “legge di unità” (A + A = A) e la “legge di assorbimento” (A + AB = A),così come in effetti avviene nella logica contemporanea (vedi riquadro). Asua volta John Venn (1834-1923), più fedele all’insegnamento di Boole(mantiene la somma esclusiva), introduce il suo sistema di rappresentazionedelle classi per mezzo di cerchi, che perfeziona quello a suo tempointrodotto da Eulero (vedi riquadro).

Legge di unità

Nel sistema di Jevons le lettere A , B , C denotano classi (se interpretateestensionalmente) oppure qualità o proprietà (dal punto di vista intensionale). Seconsideriamo la classe A = “i triangoli equilateri”, allora è evidente che la sommatra la classe dei triangoli equilateri e se stessa dà come risultato sempre la classedei triangoli equilateri. In Boole, come si ricorderà, ciò era espresso dalla “leggedegli indici”, che però si riferiva al prodotto logico.

Legge di assorbimento

Può essere chiarita con un esempio. Sia A formata dai “greci ateniesi” e B dai “grecispartani”; allora AB sarà formata dai greci semplicemente (in quanto si prende ciòche è in comune alle due classi). Ora sommando A e AB (cioè i “greci ateniesi” e i“greci”) otterremo ovviamente nuovamente i “greci ateniesi”, cioè A. Ciò è ancorapiù chiaro con un esempio numerico, scritto nel linguaggio della teoria degliinsiemi. Se A = {1, 2, 3} e B = {3, 4, 5}, sarà A « B = {3} e quindi A » (A « B) ={1, 2, 3}, cioè A.

Ma l’esigenza più sentita dai logici che si rial-lacciavano più o meno direttamente a Boole èquella di liberare la logica dalla troppo strettasottomissione verso la matematica. L’adozionedel simbolismo algebrico e la subordinazione del calcolo proposizionale aquello delle classi, sembravano costituire una camicia di forza cheimpediva alla logica di sprigionare tutte le proprie potenzialità come disci-plina autonoma. Era questa la critica di fondo mossa da Jevons all’algebrabooliana, ritenendo un vero e proprio ‘pregiudizio’ la fondamentalità delcalcolo delle classi e quindi della matematica rispetto alla logica, da luiinvece ritenuta scienza superiore e base della matematica come di tutte lealtre scienze: è questa la strada che sarà poi ripresa dal logicismo. Lo stessoVenn - pur più fedele all’impostazione di Boole - cerca nella sua opera dilimitare il peso della veste eccessivamente matematizzante, assuntadall’algebra della logica, accentuando il suo formalismo e quindi valoriz-zando il carattere astratto condiviso sia dalla logica che dalla matematica,in nome di un più generale “linguaggio dei simboli”.

Altre necessarie integrazioni andavano fatteall’impostazione booliana sia per quanto riguardail calcolo proposizionale, sia in direzione di unaadeguata valorizzazione delle relazioni. Nellaprima direzione il contributo più rilevante fu dato da Hugh McColl (1835-1909), che cercò di costruire un calcolo proposizionale centrato sull’usodell’implicazione “se… allora”, considerata come componente fonda-

L’esigenza di liberare lalogica dalla troppo strettaconnessione col simbolismo ei procedimenti matematici

McColl e de Morgan: la pre-minenza dell’implicazione el’importanza delle relazioninon simmetriche

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mentale di una logica rivolta principalmente alle argomentazioni deduttivee svincolata pertanto dalla subordinazione al calcolo delle classi. Per cui inlui comincia ad intravedersi il capovolgimento della prospettiva booleana,in direzione di quella valorizzazione della componente proposizionale con-siderata quale momento fondamentale della logica e con ciòpreannunciando il capovolgimento del rapporto tra calcolo delle classi ecalcolo proposizionale che sarà teorizzato a pieno solo da Frege. Nellaseconda direzione invece diede preziose indicazioni Alexius de Morgan(1806-1871), che criticò il calcolo booleano incentrato sulle classi in quantovedeva in esso un residuo della vecchia logica fondata sul nesso trasoggetto e predicato e quindi sulla univoca interpretazione della copula ‘è’.Egli invece mise in luce come siano possibili altri tipi di nessi tra termini,come ad es. “maggiore di” o “minore di”, che non sono riducibili allaidentità booliana, in quanto hanno il carattere della non simmetricità: se a èmaggiore di b, non è vero che b è maggiore di a. Egli pertanto individuavadelle ‘relazioni’ tra termini aventi carattere generale (e che quindi possonoricevere diverse interpretazioni), come quelle della transitività e della sim-metricità. È questo il programma di una “logica delle relazioni”, già intuitada Lambert e dal leibniziano G. Ploucquet (1716-1790), che avrà in seguitoun grande sviluppo e che solo l’eccessivo attaccamento alla sillogisticaaristotelica, della quale si voleva fornire una generalizzazione esistematizzazione, impedì a de Morgan di sviluppare adeguatamente.170

Rappresentazione di Venn

Consideriamo il sillogismo seguente: Ogni animale è mortale; ogni uomo è animale;quindi, ogni uomo è mortale. Le tre classi sono rappresentate dai tre cerchi che siintersecano. Si rappresenta la prima proposizione ‘oscurando’ la parte di cerchioche non contiene alcun elemento. In questo caso è resa col grigio la parte delcerchio rappresentante la classe degli animali esterna al cerchio dei ‘mortali, perindicare che essa non comprende alcun elemento, essendo tutti gli animali compresitra i mortali. Quindi si rappresenta la seconda proposizione in modo analogo, epertanto si ‘oscura’ la parte del cerchio ‘uomini’ esterna a quello di ‘animali’ (sempreper indicare che essa non comprende alcun elemento). La conclusione del sillogismoè data dalla parte della figura non ‘oscurata’ (quella centrale), che appuntocomprende tutti gli uomini che sono mortali (infatti la parte esterna ed essa,appartenente al cerchio ‘uomini’, è oscurata).

170 «[…] l’ancoramento del logico inglese al modello aristotelico agì in definitiva più come un

momento bloccante che come stimolo per la sua visione della logica, sicché egli non seppeconcretare operativamente possibili prospettive di un calcolo più generale in senso moderno,prospettive che qua e là affiorano, a livello di anticipazione, nei suoi scritti; in particolare perquanto riguarda la teoria delle relazioni non seppe comprendere che la teoria stessa,indipendentemente dal suo rapporto con la sillogistica, costituiva una dottrina autonomamenteimportante e interessante ogni campo della matematica. Intravvide insomma variegeneralizzazioni e aperture possibili, nell’ambito però di un contesto che ormai aveva fatto il suotempo ed era stato di fatto superato dalla prospettiva booleana» (C. Mangione, op. cit., p. 106).

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L’approfondimento della logica delle relazioni(che tende a sostituirsi a quella delle classi, vistaora come un suo caso particolare), una più esattadefinizione dell’operazione di quantificazione e della sua scrittura, losviluppo del calcolo proposizionale basato sulla nozione di “implicazionemateriale” e l’individuazione di una procedura di decisione facente uso ditavole di verità (poi ritrovata indipendentemente e divulgata daWittgenstein, Post e ¸ukasiewicz; vedi il § seg.), nonché una sempre piùdecisa affermazione della indipendenza della logica dalla matematica,cercando così di porre rimedio all’eccessivo matematismo di Boole171

(come nel caso dell’uso della relazione di inclusione in luogo di quella diidentità, che così veniva definita suo tramite): questi i contributi piùsignificativi forniti da Charles S. Peirce (1839-1914). Tuttavia laframmentarietà dei suoi scritti logici e la scarsa conoscenza che si ebbedella sua opera quando era ancora in vita – aspetti che richiamano in menteLeibniz – hanno fatto sì che i suoi contributi non abbiano incisodirettamente sullo sviluppo della logica successiva, anche se oggi siriconosce a Peirce un posto di prima grandezza tra i logici contemporanei.Infatti a lungo la sua figura è stata nota perché legata alla corrente filosoficadella quale è stato riconosciuto uno dei maggiori rappresentanti, ilpragmatismo, piuttosto che ai suoi contributi in campo logico.

Legato alla figura di Peirce è in qualche modoanche il tedesco Ernst Schröder (1841-1902), sia acausa degli innumerevoli influssi reciproci, sia inquanto entrambi parteciparono al comune progettodi sviluppo di quell’algebra della logica il cui fondatore era stato Boole,cercando di perfezionarla non solo tecnicamente, ma anche col chiarirnealcuni aspetti concettuali, lasciati in ombra dal suo fondatore. Diversamenteda Peirce, le opere di Schröder hanno una tipica sistematicità teutonica: leVorlesungen über die Algebra der Logik (pubblicate tra il 1890 e il 1905)ambiscono in tre monumentali volumi a presentare una sintesi di tutta la

171 E’ per questo aspetto che Peirce è stato considerato come «l’anello di mediazione fra

l’impostazione algebrica della logica dovuta e Boole e il filone ‘logicistico’ in seguito sviluppato,come vedremo, da Russell e Frege (cfr. C. Mangione, op. cit., pp. 94, 137).

Altre integrazioni della logicab o o l e a n a : c e n t r a l i t àdell’implicazione e rilevanzadelle relazioni

Il contributo misconosciuto diPeirce

La sistematizzazione dell’al-gebra della logica inSchröder

Schröder e la sistematizza-zione dell’algebra della logi-ca e i limiti della sua opera

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scienza della logica al suo tempo disponibile, dando una sistematicaorganicità e portando a perfezionamento l’eredità di Boole, del qualemantiene la priorità del calcolo delle classi su quello proposizionale. E’l’algebra della logica, da lui portata a compimento, che costituiscel’orizzonte che circoscrive, a suo avviso, ogni possibile ulteriore sviluppodella materia, sicché – come afferma icasticamente Husserl in una lettera aFrege – «è un brillante tecnico matematico, ma niente di più», privo difinezza e rigorosità logica.172

Tuttavia la complicatezza del sistema simbolico non accompagnato dauna seria ed approfondita riflessione sul suo significato, l’eccessivoattaccamento alla impostazione booliana con una conseguente rigidezza diimpostazione, un chiaro psicologismo (del quale fu però immune Peirce),tutto ciò fece sentire l’esigenza di una logica rinnovata, svincolata dallamatematica e che si ponesse direttamente il problema della comprensionedelle leggi che stanno alla base del ragionamento, di ogni ragionamento, ivicompreso quello matematico. All’assunzione acritica della matematicacome modello su cui edificare la logica – questo il progetto che ha originecon Boole e dà luogo all’algebra della logica, il cui ultimo esponente èSchröder – ora succede l’idea che bisogna dare una giustificazione logicadei procedimenti della matematica, ovvero porre quest’ultima in formarigorosa mediante la sua logicizzazione. Sono ovviamente sempre imatematici a sentire questa esigenza di rigore ed in fin dei conti la logicaviene vista comunque come una scienza ausiliare della matematica (come èevidente con Peano e la sua scuola); tuttavia ora è l’insoddisfazione deiprocedimenti intuitivi utilizzati dal matematico a far nascere l’esigenza el’idea che sia possibili ‘fondarli’ mediante una chiarificazione logica dellesue procedure: «Per le esigenze stesse della loro scienza essi avevanobisogno non già di introdurre la matematica nella logica algebrizzandoquest’ultima, ma piuttosto, inversamente, di introdurre la logica nellamatematica e per questo di rinnovare anzitutto il vecchio strumento logico,affatto insufficiente per il compito che gli era assegnato».173

Sono queste motivazioni e queste prospettive a stare alla base delprogramma di una diversa generazione di matematici e logici, che siriassume nel nome del ‘logicismo’.

1.6 La riflessione sui fondamenti dellamatematica. La nuova impostazione del rapportotra logica e matematica, come abbiamo giàaccennato, nasce dal seno stesso di quest’ultima, ecioè dalla necessità di introdurre maggiore rigore nell’analisi,riesaminandone criticamente i fondamenti. È questo il punto di vista chesempre più si afferma nel corso dell’Ottocento, quando «di fronte alla

172 E. Husserl, Lettera a Frege del 18 luglio 1891, in G. Frege, Alle origini della nuova logica.

Epistolario scientifico con Hilbert, Husserl, Peano, Russell, Vailati, Boringhieri, Milano 1983, p.81.

173 R. Blanché, op. cit., p. 350.

Verso i l superamentodell’algebra della logica:nasce l’esigenza di unafondazione logica dellamatematica

L’esigenza di dare rigoreall’analisi matematica, esa-minandone criticamente ifondamenti

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straordinaria ricchezza di risultati, i matematici più attenti alle questionimetodologiche cominciarono a rendersi conto che anche le nozioniapparentemente più sicure e i teoremi fondamentali dell’analisi mancavanodi una base rigorosa»174. Non era più possibile attenersi alla settecentesca eottimistica professione di fede che D’Alembert, forte dei successi praticidell’analisi, lanciava in sfida a coloro che ne mettevano in dubbio leequivoche e poco chiare basi concettuali: «allez en avant, la foi vousviendra». È in questo periodo che ha luogo quel «ripensamento di tutta lamatematica che attraverso l’acquisizione della nozione di teoria come si-stema ipotetico deduttivo porterà alla concezione dei sistemi matematicicome puri sistemi formali, staccati a priori da ogni interpretazione, che saràaffermata consapevolmente e in tutta la sua portata soltanto nel nostrosecolo».175

Ma come introdurre tale rigore nellamatematica, specie per alcuni suoi concetticruciali come quello di continuità, che sta allabase dell’analisi infinitesimale? «La convinzioneche lentamente si venne affermando (non senza polemiche ed opposizioniirriducibili) fu che il rigore desiderato si poteva raggiungere soltanto a pattodi abbandonare il terreno intuitivo dell’evidenza geometrica, da sempre ilriferimento naturale degli argomenti di analisi, e di considerare il concettodi numero naturale (e l’aritmetica dei naturali) come il fondamento su cuiricostruire l’edificio dell’analisi».176 Si voleva, insomma, liberare lamatematica dalla tradizionale sottomissione alla geometria: era sulla suabase che erano stati plasmati i suoi concetti, che così trovavano unaconferma intuitiva nella ‘osservazione’ delle grandezze geometriche. Ciò,del resto, sin dai tempi di Newton e Leibniz era parso naturale, in quantol’analisi aveva a che fare con grandezze continue come lunghezze, aree,velocità e accelerazioni, cioè tali che la loro variazione poteva avvenire perincrementi (o decrementi) “infinitamente piccoli”; onde il nome di analisiinfinitesimale. Diversamente dall’aritmetica, il cui campo di studio erano inumeri naturali che si presentavano come grandezze discrete, le figuregeometriche possedevano la caratteristica dell’infinita divisibilità e dellacontinuità, che venivano appunto colte in modo intuitivo e pertantosembravano costituire una esemplificazione dei concetti analitici. Comeosserva il grande matematico, nonché protagonista del Circolo di Vienna,Karl Menger, «per secoli le cosiddette “intuizioni geometriche” erano stateusate come mezzo di prova. Nelle dimostrazioni geometriche, certi passierano permessi perché “autoevidenti”, perché la correttezza dellaconclusione era “mostrata dai diagrammi allegati”, etc. La crisi avvenne

174 U. Bottazzini, Il calcolo sublime. Storia dell’analisi matematica da Euler a Weierstrass,

Boringhieri, Torino 1981, p. 214.175 C. Mangione, “Logica e fondamenti della matematica nella prima metà dell’Ottocento”, in

L. Geymonat, op. cit., vol. IV, p. 142. Ad un esempio di tale tipo di evoluzione abbiamo giàaccennato a proposito della scuola algebrica inglese di Cambridge, che ci ha permesso di capire lagenesi del pensiero di Boole.

176 U. Bottazzini, op. cit., p. 215.

Lo svincolamento dell’analisidalla sottomissione allageometria e dal ricorso ac o n c e t t i i n t u itivamenteevidenti

La crisi dell’intuizione ingeometria con la nascitadelle geometrie non euclidee

La liberazione della mate-matica dalla sottomissione aiconcetti intuitivi della geo-metria

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quando in geometria tali intuizioni si rivelarono inaffidabili. Molte delleproposizioni considerate come autoevidenti o basate sulla considerazione didiagrammi si rivelarono false»177.

Tale crisi del ruolo privilegiato dell’intuizioneavviene, innanzi tutto, proprio nel terreno dellastessa geometria con la progressiva affermazionedelle geometrie non euclidee. Già preannunciatenell’opera pionieristica di Gerolamo Saccheri (1667-1733) e quindi oggettodi riflessione di Carl F. Gauss (1777-1855) (che però non pubblicò nullaper timore dell’incomprensione dei contemporanei), la geometria noneuclidea fu per la prima volta posta all’attenzione dei matematici dal russoNicolaj I. Lobaceskij (1793-1856) e dall’ungherese Janos Bolyai (1802-1860), ma senza grande eco: «le pubblicazioni dei due finirono ben prestoquasi dimenticate nel novero delle bizzarrie e stravaganti elucubrazioni chedi tanto in tanto si affacciano ai margini della ricerca scientifica»178. Solograzie a Bernhard Riemann (1826-1866), nel 1867 (anno di pubblicazionedella sua celebre memoria Sulle ipotesi che stanno alla base dellageometria, letta come dissertazione nel 1857) le nuove geometrie non eu-clidee riescono a destare l’attenzione del mondo degli studiosi, per poientrare di diritto nel mondo della matematica grazie all’opera del grandematematico francese Henri Poincarè (1854-1912) e ad avere così una fun-zione determinante per un nuovo modo di intendere la scienza geometricain generale. Tralasciando l’esposizione dei suoi dettagli tecnici179, ilsignificato concettuale di tali geometrie va appunto visto nella crisi diquella concezione ‘intuitiva’ della geometria che era stata alla base dellaconcezione kantiana. Il grande filosofo tedesco riteneva la geometria, comeedificata da Euclide, fondata sulla “intuizione pura” e pensava che fossel’unica corretta traduzione dello spazio assoluto newtoniano. Essacostituiva un esempio paradigmatico di conoscenza sintetica a priori:sintetica, in quanto i suoi teoremi ci dicono qualcosa intorno al mondo, edesattamente ci descrivono la struttura dello spazio fisico nel quale viviamo;a priori in quanto assolutamente certa e non bisognosa di essere giustificatafacendo ricorso all’esperienza. Sembrava pertanto accoppiare in manieraindissolubile certezza intuitiva e rilevanza empirica: si riassumeva in taleprospettiva la concezione che sin dall’antichità era stata tramandata dellageometria.

177 K. Menger, “The New Logic” (1937), in Science and Philosophy in the Twentieth Century.

Vol. 2: Logical Empircism at its Peak. Schlick, Carnap, and Neurath, ed. by. S. Sarkar, Garland,New York & London 1996, p. 141.

178 U. Bottazzini, “La scienza dello spazio e la geometria ‘immaginaria’”, in Storia dellascienza moderna e contemporanea, a cura di P. Rossi, Dall’età romantica alla società industriale,vol. II, 2, cit., p. 525.

179 Per i quali rinviamo, tra la numerosa letteratura esistente, a testi ottimi per la loro chiarezzaquali E. Agazzi - D. Palladino, Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria, LaScuola, Brescia 1998; R. Carnap, I fondamenti filosofici della fisica, Il Saggiatore, Milano 1971.Vedi anche l’antologica di testi curata da L. Magnani, Le geometrie non euclidee, Zanichelli,bologna 1978.

La nascita delle geometrienon euclidee e la crisi dellaconcezione kantiana

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Ma i tentativi infruttuosi, risalenti già all’epocaclassica, di dimostrare il quinto postulato diEuclide, quello delle parallele180, avevano condot-to gli studiosi ad ammettere la possibilità dicostruire delle geometrie che ne facessero a meno:la negazione del postulato non conduceva affatto ad una contraddizione,che ne avrebbe dimostrato per assurdo la indispensabilità, ma portava allaammissione di due nuove geometrie (quella iperbolica e quella ellittica)assai ‘strane’, certamente paradossali per la comune intuizione, ma la cuicoerenza venne dimostrata nel 1868 dal matematico italiano EugenioBeltrami (1835-1900). Non era quindi necessario accettare il quintopostulato di Euclide (tutt’altro che evidente), il quale finiva così per essereuna delle possibili ipotesi per costruire una geometria. Sono ammissibili,insomma, diverse geometrie che, per quanto paradossali e lontane dallanostra comune intuizione dello spazio, sono tuttavia coerenti e prive dicontraddizioni interne. In tal modo l’evidenza di cui la geometria euclideasembrava essere in massimo grado dotata non è più una garanzia della suaverità; ciò sta a significare, in generale, che la costruzione di una teoriamatematica non è più subordinata a questioni di evidenza intuitiva, mapiuttosto all’accertamento della sua mancanza di contraddizioni. Ne derivaun’altra conseguenza: la geometria non viene più vista come la descrizionedi enti, di ‘oggetti’ ma solo come una costruzione formale astratta, il cuiunico requisito deve essere quello della coerenza: i suoi teoremi nonpossono più essere detti ‘veri’, quasi descrivessero degli oggetti aventiprecise caratteristiche ed a cui dovrebbero ‘corrispondere’ le conclusioni inessi provate. Il problema della verità degli asserti geometrici e matematicinon si pone più a questo livello – che è quello della cosiddetta matematica‘pura’ – ma solo quando essi vengano ‘applicati’, cioè quando lamatematica venga impiegata per descrivere gli oggetti appartenenti almondo fisico, sia esso quello della nostra esperienza quotidiana oppure ilcosmo nella sia interezza. Solo in questo caso è possibile porsi il problemadi sapere quale delle geometrie non euclidee sia quella ‘vera’; è unaquestione che ha ormai solo un significato empirico, relativo al tipo di‘oggetti’ cui siamo interessati. Ad esempio, solo una indagine fisica sullastruttura dello spazio cosmico può farci decidere quale delle diversegeometrie sia quella che ad esso corrisponda (ed infatti, come abbiamovisto, Einstein con la teoria della relatività generale ha dimostrato che lageometria ‘vera’ per lo spazio cosmico è di tipo non euclideo).

180 Il postulato viene così enunciato da Euclide: «se una linea retta che cade su due altre lineerette forma dalla stessa parte degli angoli interni la cui somma è minore di due angoli retti, allorale due linee rette prolungate illimitatamente si incontreranno da quella parte in cui vi sono i dueangoli minori di quello retto» (The thirteen books of Euclid’s Elements, transl. with introd. andcommentary by Thomas L. Heath, Dover Publications, New York 1956, 2ª ed., vol. 1, p. 155).Esso può più sempliceente esprimersi in una forma equivalente dicendo che, dati un punto ed unaretta esiste sul piano da essi determinato una e una sola parallela per quel punto alla data retta.Come si può facilmente notare, tale postulato nella formulazione di Euclide non è affatto sempliceda intendere e quindi non ha quel carattere di intuitività ed evidenza posseduti dagli altri enunciati.Onde l’esigenza di farne in qualche modo a meno.

Scissione tra evidenza everità, tra intuizione ecoerenza: la ‘verità’ dellageometria

Il problema del quinto po-stulato e la liberazione dellageometria dalle intuizionispaziali e dall’evidenza: ilrequisito della coerenza

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La messa in discussione del privilegio dell’in-tuizione avviene anche nel campo della analisimatematica e porta alla richiesta di un maggiorrigore nella definizione dei suoi concetti fon-damentali. Grandi matematici come Kronecker,Dedekind, Cantor e Weierstrass (sempre nello stesso torno di anni)convergono sulla esigenza di chiarificare e definire in maniera rigorosa,prescindendo da intuizioni geometriche, il concetto di numero reale che nesta alla base. Ma la domanda circa la natura dei numeri reali porta benpresto Dedekind alla convinzione che questi siano riconducibili ai solinumeri naturali (1, 2, 3, …) e che quindi fosse possibile realizzare lacosiddetta aritmetizzazione dell’analisi, cioè la fondazione di questa sullasola teoria dei numeri naturali, previa una chiarificazione di questi ultimi:«in senso stretto, per aritmetizzazione dell’Analisi si può allora intenderel’affrancamento da questa “servitù” geometrica nella stessa definizione dinumero reale e quindi, in una più ampia accezione, la conseguente edifica-zione dell’Analisi su basi chiarite non più sulla scorta di intuizionigeometriche non analizzate, ma in termini di oggetti e processi aritmeticielementari»181. Si pensava inoltre di poter così ricondurre anche legeometrie non euclidee all’analisi, definendo il concetto di continuo che nestava alla base non mediante intuizioni spaziali ma attraverso una suadeterminazione mediante concetti aritmetici. Il rapporto tra analisi e geo-metria veniva ad invertirsi: tutta l’analisi veniva fondata sulla definizione dinumero reale, che a sua volta poggiava sul concetto di numero intero, cheveniva a costituire così il fulcro intorno a cui ruotava tutto il processo dirigorizzazione della matematica ottocentesca, la meta per raggiungere laquale avevano impegnato le loro forze i più grandi matematici del secolo.Tale risultato fu conseguito dall’italiano Giuseppe Peano (1858-1932) nelsuo Formulario mathematico (1895-1908), grazie alla riduzione di tuttol’edificio della matematica a soli nove assiomi fondamentali, ammessa lacui verità è possibile ottenere con pure deduzioni logiche tutto il resto.L’approccio di Peano aveva inoltre il vantaggio di offrire per la prima voltaun simbolismo assai efficace, di natura logica182, mediante il quale erapossibile effettuare una presentazione assiomatica dell’intera matematica.Sembrava dunque che fosse stato portato a compimento il processo diaritmetizzazione: i numeri naturali, come definiti negli assiomi di Peano,stavano alla base di tutta la matematica. Come affermò Kronecker, «il buonDio ci ha dato i numeri naturali, tutto il resto è opera dell’uomo»183.

181 C. Mangione, “Logica e problemi dei fondamenti nella seconda metà dell’Ottocento”, in L.Geymonat, op. cit., p. 761.

182 B. Russell afferma che il merito principale di Peano «non consiste tanto nelle sue scopertelogiche particolari o nei dettagli delle sue notazioni (ancorché entrambi eccellenti) quanto nel fattodi essere stato il primo a mostrare come la logica simbolica dovesse essere liberata dalla suaingiustificata ossessione delle forme dell’algebra ordinaria, e a farne con ciò uno strumentoadeguato di ricerca» (Introduzione ai “Principia Mathematica”, a cura di P. Parrini, La NuovaItalia, Firenze 1977, p. 10).

183 Citato da R. Maiocchi, Storia della scienza in Occidente. Dalle origini alla bomba atomica,La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 418.

L’aritmetizzazione dell’anali-si e l’esigenza di chiarire ilconcetto di numero naturale,su cui fondare quello di nu-mero reale

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Pareva dunque che coi numeri naturali si fosse arrivati ad un punto oltreil quale non era possibile più ulteriormente procedere: bisognava dunqueammettere che ai numeri naturali, doni del buon Dio, non bisognava,potremmo dire, “guardare in bocca”, con ciò accedendo ad una posizionesostanzialmente intuizionista, poi ripresa come vero e proprio programmafilosofico dal matematico olandese Luitzen E.J. Brouwer? Oppurebisognava rassegnarsi a considerare l’aritmetica una attività simbolica resapossibile da particolari proprietà della mente umana, una rappresentazionesoggettiva tratta mediante generalizzazione dall’esperienza, comesostenevano su basi empiriste e psicologiste John S. Mill, Helmholtz ed ilprimo Husserl? Oppure ritenere, come faceva Dedekind, che i numeri sianodelle “libere creazioni della mente umana”, che li ‘pone’ mediante quellasua specifica capacità che consiste nell’atto del ‘contare’, cioè di collegaree far corrispondere cose a cose, senza la quale non sarebbe possibileneanche pensare?184

E’ in questo frangente che si inserisce laproposta di Gottlob Frege: se si voleva perveniread una comprensione rigorosa del concetto dinumero naturale era necessario enucleare qualifossero le sue caratteristiche logiche. E questo non era rinvenibilenell’opera di Peano: la logica era da lui usata solo per effettuare lededuzioni matematiche ed il suo simbolismo aveva un carattere pragmatico,non ponendosi egli né il problema di ulteriormente fondare gli assiomi dalui proposti né quello di chiarire lo statuto delle procedure logicheutilizzate: ciò ripugnava al suo atteggiamento ‘afilosofico’.185 Con Frege,invece, l’aritmetica – e per suo tramite la matematica – si rivolgeva allalogica per risolvere le proprie difficoltà: «mentre con Peano ha termine lariduzione della matematica all’aritmetica, con Frege inizia la sua riduzionealla logica»186. Come afferma Carnap, «non ci si accontentò di ridurre idiversi concetti dell’analisi matematica al concetto fondamentale di

184 Cfr. C. Mangione, op. cit., pp. 777-80.185 «La logica viene intesa essenzialmente come linguaggio artificiale atto ad esprimere con la

massima chiarezza i concetti matematici e le dimostrazioni matematiche, fino ad allora espressesostanzialmente nel linguaggio comune. I principi di logica non sono altro che la trascrizione insimboli dei modi corretti di ragionare in matematica, come lo stesso Peano sottolinea in diverseoccasioni […]. La logica matematica, dunque, intesa come strumento in ordine alla realizzazionedel progetto del Formulario, e non tanto, come si è portati a considerarla oggigiorno, disciplinamatematica autonoma […]. E questo, paradossalmente, proprio nel momento in cui all’esterocominciavano a fiorire quegli studi che avrebbero portato alla maturazione della logica comedisciplina veramente autonoma e, soprattutto, alle ricerche metalogiche. Ancora più sorprendenteè il fatto che, anche nell’ambito della scuola, vi sia sempre stato un ancoramento a questa visione»(M. Borga, “La logica, il metodo assiomatico e la problematica metateorica”, in M. Borga - P.Freguglia - D. Palladino, I contributi fondazionali della Scuola di Peano, Angeli, Milano 1985,pp. 14-6).

186 F. Waismann, Introduzione al pensiero matematico (1939), Boringhieri, Torino 1976, p. 86.Benché quest’opera sia stata scritta alla fine degli anni trenta da uno dei più significativi esponentidel Circolo di Vienna e sia grandemente ispirata alle idee matematiche che in quel torno di anniWittgenstein andava elaborando, essa rimane tuttavia, a mio avviso, una delle più chiarepresentazioni dell’evoluzione e dei problemi della matematica tra fine Ottocento ed inizio delNovecento.

La matematica ritorna allalogica per cercare di capire ilconcetto di numero naturale:Frege

Il problema del chiarimentologico del concetto di ‘nu-mero’: il programma diFrege

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numero, ma ci si propose il compito di una chiarificazione logica dellostesso concetto di numero. Queste ricerche sui fondamenti logici dell’ari-tmetica per operare un’analisi logica del numero esigettero perento-riamente un sistema logico che per la sua vastità fosse in grado di assolverequel compito»187.

È stato questo il compito intrapreso da Frege e quindi continuato daRussell e Whitehead con quel monumento della logica contemporanearappresentato dai Principia Mathematica. Tale progetto – al quale porta-rono il loro contributo altri matematici e logici di primo piano (bastiricordare il nome di Wittgenstein) – è indicato col nome di ‘logicismo’.

1.7 Il logicismo di Gottlob Frege. Come tutti i grandi innovatori, ancheGottlob Frege (1848-1925) non conobbe in vita grande stima edammirazione da parte dei suoi contemporanei. Le sue concezioni logicherimasero pressoché ignorate per tutta la sua vita, vivendo egli in undoloroso isolamento (insegnò all’Università di Jena, senza mai accedere aipiù alti gradi accademici). Le sue opere venivano sistematicamentesottovalutate alla loro pubblicazione e furono oggetto di astiose polemichecon lo establishment matematico e logico a lui contemporaneo, sicchè lasua opera venne conosciuta ed apprezzata solo da pochi ammiratori (anchese di rilievo, come Dedekind, Peano, Russell, Wittgenstein, Carnap ed in unprimo tempo anche Husserl). Anzi, si potrebbe dire che essa venne resanota proprio da Russell, che nell’appendice ai suoi Principles ofMathematics ne espose i contenuti in modo assai lusinghiero, anche se poiriteneva che la propria opera avesse superato quanto concepito da Frege,perché aveva saputo porre rimedio all’antinomia da lui stesso scoperta.Sicché nell’opinione dei contemporanei l’opera di Russell finì per eclissarequella di Frege.

Come abbiamo detto, i contributi in campologico di Frege sono funzionali al suo progettofondamentale: fornire una base sicura allamatematica mediante la chiarificazione logica delconcetto di numero, al fine di raggiungere l’obiettivo del perfetto rigore.Ciò comportava un lavoro teso a rendere espliciti i principi logici chegarantiscono la correttezza del ragionamento matematico, che dovevadismettere il ricorso all’evidenza in favore di connessioni argomentative incui nessun anello fosse difettoso. Bisognava evitar di fare come moltimatematici, che «sembrano tanto poco sensibili alla purezza logica ed alrigore che usano una parola per tre o quattro cose differenti […]»188. Solo lalogica – riformata e perfezionata – poteva garantire un tale obiettivo.Queste le motivazioni che stanno alla base del progetto logicistico, che puòessere così riassunto: «Si tratta: a) di definire in termini puramente logici iconcetti della matematica pura, in particolare quelli tradizionalmente

187 R. Carnap, “La vecchia e la nuova logica” (1930), in La filosofia della scienza, a cura di A.Crescini, La Scuola, Brescia 1964, p. 7.

188 Frege, I principi…, vol. II, § 60.

Il significato del progettologicistico e l’obiettivo delperfetto rigore in matematica

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riguardati come ‘primitivi’, irriducibili: primo fra tutti, lo stesso concetto dinumero naturale; b) di derivare le ‘verità’ della matematica pura (e in parti-colare quelle ritenute più ‘evidenti’) a partire da principi meramente logici,e impiegando metodi di ragionamento del tutto espliciti»189. Lo scopo checosì Frege si assume, quello di chiarire il concetto di numero, si condensanelle due tesi secondo cui i numeri sono oggetti (logici) e i giudizidell’aritmetica sono giudizi analitici a priori: «[…] egli desidera mostrareche il discorso intorno ai numeri naturali può ridursi ad un discorso intornoa insiemi, classi, o molteplicità, ossia, per dirla nella terminologia deilogici, intorno alle estensioni dei concetti. Esplicitamente egli dice che glioggetti dell’aritmetica sono oggetti logici»190. A tal fine era però necessarioseparare nettamente il logico dallo psicologico, l’oggettivo dal soggettivo,ed inoltre tenere sempre presente la differenza tra oggetto e concetto, tradenotazione delle parole e loro significato logico.

L’obiettivo di mettere al sicuro il contenuto og-gettivo della matematica poteva essere assicurato,innanzi tutto, a condizione di sconfiggere i suoipiù pericolosi avversari: l’intuizionismo matema-tico di Kant e lo psicologismo di J.S. Mill. Nel primo caso si trattava diconfutare la nota concezione kantiana dei giudizi aritmetici come giudizisintetici a priori, in favore del loro carattere analitico, consistente nellapossibilità di giustificarli riconducendoli a verità fondamentali, grazie adimostrazioni nelle quali si faccia uso solo di leggi logiche generali e diprecise definizioni. D’altra parte, il richiamo kantiano all’intuizione non glisembra adeguato, sia in quanto «noi siamo troppo disposti a invocarel’intuizione interiore quando non sappiamo addurre alcun altro fondamentodella conoscenza», sia in quanto non è chiaro cosa si intenda con essa.Quando infatti nella sua teoria dell’aritmetica Kant afferma che l’addizione7 + 5 = 12 non può essere puramente analitica, in quanto bisogna andareoltre i concetti che stanno per gli addendi ed appellarci all’intuizionecorrispondente, ad es. alle cinque dita della mano191, non si riesce a capirequale possa essere la corrispondente intuizione di una somma con numerimolto alti, quale 135664 + 37863 = 173527. Dobbiamo forse appellarciall’intuizione di 173527 dita? Non v’è per Frege bisogno di far ricorsoall’intuizione, in quanto le formule con numeri superiori a 10 sonodimostrabili benissimo senza farvi ricorso, per cui non vede perché sianecessario farla entrare in campo per i numeri inferiori. L’aritmetica hadunque uno status diverso dalla geometria (che Frege accettava nellaformulazione datane da Kant), in quanto non verte intorno a dita allo stessomodo in cui la geometria verte intorno a punti, linee, piani.

189 C. Mangione, op. cit., p. 808.190 W.C. Kneale – M. Kneale, op. cit., p. 516.191 Cfr. I. Kant, Prolegomeni…, cit., pp. 51-2.

La critica all’intuizionismomatematico di Kant: i giudizimatematici non sono sinteticia priori, ma analitici

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Più decisa e senza quartiere la lotta contro lopsicologismo sostenuto in seno empiristico ed ilcui principale rappresentante era oltre al già citatoMill, anche Benno Erdmann. In questa battagliaFrege era in buona compagnia: anche Husserl,dopo una prima fase psicologistica espressa nella sua Filosofiadell’aritmetica, si era schierato con le Ricerche logiche sul medesimofronte (anche se in seguito le loro strade nuovamente si divideranno).Come chiarisce Engel, «lo psicologismo designa generalmente unaconfusione fra ciò che è di natura non psicologica e ciò che si suppone (atorto) di natura psicologica. Più esattamente lo psicologismo è un certo tipodi spiegazione o di analisi di una nozione, di un insieme di fenomeni o dientità in termini psicologici, ovvero in termini di fenomeni o di entità chesono di pertinenza della psicologia, e questo tipo di spiegazione o di analisiè considerata illegittima»192. In particolare, per quanto riguarda la logica ela matematica Frege e Husserl denunziano la confusione tra entità, leggi eprincipi considerati ‘oggettivi’ e ‘ideali’ (cioè non facenti parte della‘natura’) ed entità o principi psicologici considerati ‘soggettivi’ e ‘naturali’.È in sostanza una critica alla psicologia associazionistica del XIX secolo,per la quale le entità della logica e della matematica sono ridotte ad entità eleggi proprie della psicologia e costituirebbero una sorta dirappresentazione mentale, astratta mediante procedure di generalizzazionedalla esperienza concreta. Invece per Frege, «le entità logiche ematematiche non appartengono né al mondo delle cose naturali o fisiche, néal mondo delle rappresentazioni mentali, ma a un “terzo regno” indipen-dente, quello dell’“esser-vero”, completamente autonomo rispetto allamente, che non è inventato da questa, ma ‘scoperto’, nello stesso modo incui si può scoprire un nuovo continente»193. E’ una concezione ‘platonica’(fatta in seguito propria anche da Russell) che fa del logico uno scienziatoche, come il naturalista, ‘scopre’ le verità della logica come se descrivesseun universo non creato da noi e nel quale le dimostrazioni hanno un lorocorso naturale, in cui il soggetto gioca un ruolo puramente passivo, daosservatore, in quanto la necessità logica del loro svolgimento è de re,inscritta nell’ordine delle cose.194 In quest’ottica ‘cognitivista’, «alle veritànecessarie della logica (e delle matematiche) corrisponde un universo di‘fatti’, distinti dai fatti empirici e pur tuttavia non meno reali, che ci èpossibile conoscere e scoprire»195.

Si comprendono pertanto le motivazioni chestanno alla base del rifiuto fregeano di quella

192 P. Engel, Filosofia e psicologia (1996), Einaudi, Torino 2000, p. 45.193 Ib., p. 46.194 «Il teorema di Pitagora esprime il medesimo pensiero per tutti gli uomini, mentre ognuno

ha le proprie rappresentazioni, sentimenti, decisioni, che sono diversi da quelli di ogni altroindividuo. I pensieri non sono configurazioni psichiche, e il pensare non è un produrre e formareinteriore, ma è invece una comprensione di pensieri oggettivamente già esistenti» (Frege, Lettera aHusserl del 30ottobre-1° novembre 1906, in G. Frege, Alle origini della nuova logica, cit., p. 82).

195 P. Engel, La norme du vrai. Philosophie de la logique, Gallimard, Paris 1989, p. 328.

La critica dello psicologismodi Mill e Erdmann:la confu-sione tra leggi oggettive ed i-deali e principi psicologicisoggettivi

Critica delle correnti conce-zioni della matematica

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concezione della matematica, diffusa tra i suoi contemporanei, per la qualeessa è una libera creazione dello spirito umano, non soggetta ad altro chealle limitazioni della logica. Essa considerava ‘coerenza’ ed ‘esistenza’come sinonimi, per cui un ente matematico non logicamente contraddittorioera ritenuto esistente. Ma, ribatteva Frege, «come il geografo, neppure ilmatematico può creare qualcosa ad libitum; anch’egli può solo scoprire ciòche già v’è, e dargli un nome»196.

E parimenti non accettava la tesi di coloro che invece ritenevano lamatematica pura una mera combinatoria di simboli, senza alcun significato,così come avviene nel gioco degli scacchi, i cui pezzi hanno un valore soloper le regole di movimento cui devono obbedire: era una netta presa diposizione contro Hilbert e la sua scuola, verso la quale non si stancò dipolemizzare sino alla fine della sua vita197. E si capisce anche perchéritenesse limitato e riduttivo il modo in cui Kant intendeva la nozione dianaliticità, con ciò contribuendo alla leggenda della ‘sterilità’ della logicapura; per Frege una proposizione analitica non è affatto ‘vuota’, priva dicontenuto cognitivo: le leggi e le deduzioni logiche che esse generano sonoproduttive per il fatto che descrivono una realtà obiettiva ed hanno quindivalore conoscitivo. In un giudizio analitico sono contenute sì tutte le sueconseguenze, ma «come la pianta nel seme, non come una trave nellacasa»198.

Quando si parla di “legge logica” si intendequalcosa di totalmente diverso da una leggepsicologica: questa enuncia ciò che è, ilcomportamento di fatto tenuto dagli uomini, «ilmodo comune, intermedio di pensare; allo stesso modo come potrebbevenir indicato in che modo proceda nell’uomo la digestione sana, o in chemodo si parli in forma grammaticalmente esatta, o in che modo si vestamodernamente»199. Invece la legge logica enuncia ciò che deve essere,stabilisce come si debba pensare ovunque e ogniqualvolta si vogliagiudicare in modo vero; essa ha carattere normativo . Insomma, lopsicologismo avrebbe il vizio capitale di confondere sistematicamente ciòche ha la natura di una regola o di una norma con ciò che invece esprimesolo un principio di funzionamento o una legge psicologica; questa scelta infavore del normativismo in logica avrà anche le sue conseguenze nel futurosviluppo della filosofia della scienza, ad esempio nella distinzione che saràeffettuata tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione.200

196 Fondamenti, § 96.197 Cfr. W.C. Kneale – M. Kneale, op. cit., pp. 516-20, dove sono sintetizzate le quattro

critiche fondamentali portate da Frege al formalismo.198 Cit. in Mangione, op. cit., p. 810.199 G. Frege, I principi dell’aritmetica (1893), in Id., Logica e aritmetica, a cura di C.

Mangione, Boringhieri, Torino 1965, pp. 485-6.200 Cfr. P. Engel, op. cit., pp. 55-7.

Carattere normativo della lo-gica, la quale non descrive ilcomportamento medio degliuomini

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Alla base dell’impostazione fregeana v’è unavisione oggettivistica della verità: essa non è ciòche viene comunemente accettato dalla maggiorparte o anche da tutti gli uomini; essa non siriduce all’accordo generale, come sostiene BennoErdmann nella sua Logica. Infatti, «l’essere vero è qualcosa dicompletamente diverso dall’esser ritenuto vero […] Per leggi logiche ionon intendo le leggi del ritener vero, ma le leggi dell’esser vero […] Sel’esser vero non dipende dall’essere ritenuto tale da chicchessia, alloraanche le leggi dell’esser vero non possono risultare leggi psicologiche, masono pietre basilari, poggiate su una roccia eterna, pietre che possono forsevenir sommerse ma non scosse dal nostro pensiero, se esso vuolraggiungere la verità»201.

Ovviamente il carattere normativo che è tipicodella legge logica non impedisce che di fatto visiano esseri che la rifiutino; essa però ci assicurache questi così facendo hanno torto. Pertanto la‘verità’ è per Frege qualcosa di oggettivo e di indipendente da chi giudica,in quanto «un pensiero vero è già vero prima di venir afferrato da un essereumano»202. Tale oggettività attribuita al vero, tuttavia, non deve essereconfusa con quella tangibilità propria degli esseri concretamente esistenti,che è palpabile, occupa uno spazio. È piuttosto paragonabile a quelladell’asse terrestre, del baricentro del sistema solare o dell’equatore; sarebbeun errore pensare che queste siano entità immaginarie, create dal pensiero,frutto di un processo psichico, in quanto il pensiero ha la funzione solo diriconoscerle, di ‘afferrarle’: «è chiaro pertanto che, parlando di oggettività,io intendo una indipendenza dal nostro sentire, intuire, rappresentare, dalnostro formarci immagini mentali in base al ricordo di precedentisensazioni, ma non indipendenza dalla ragione»203; infatti, «il pensieroriconosciuto come vero non è modificato dal giudizio». Diversamente daErdmann, che confonde sistematicamente l’irrealtà tipica della logica con lasoggettività e la riduce quindi a semplice risultato delle operazioni dellamente, ad una loro espressione astratta.

La difesa dell’oggettività viene da Frege perseguita anche mediante ladistinzione tra senso e denotazione dei termini singolari (intendendo conciò anche le cosiddette “descrizioni definite”, come “la montagna più altadel mondo”). Essa nasce dall’esigenza di chiarire il significato della egua-glianza, quando ad esempio distinguiamo tra a!=!a e a !=!b. Infatti,possiamo domandarci, perché riteniamo la seconda eguaglianzainformativa, mentre invece la prima ci sembra un semplice truismo? Larisposta sta per Frege nella distinzione tra il senso (Sinn) di un termine e lasua denotazione (Bedeutung, a volta tradotta anche con ‘significato’,‘designazione’ o ‘riferimento’). Facciamo l’esempio di Frege: quando

201 G. Frege, op. cit., pp. 486-7.202 G. Frege, Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli 1986, p. 393.203 G. Frege, I fondamenti dell’aritmetica (1884), in Logica e aritmetica, cit., p. 258.

Visione oggettivistica dellaverità, che non può ridursiall’accordo generale e nondipende dal giudizio delsingolo

In difesa dell’oggettività: ladistinzione tra ‘senso’ e‘denotazione’

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usiamo l’espressione “la stella del mattino” evidentemente indichiamo unparticolare oggetto, un determinato corpo celeste, ovvero il pianeta Venere;analogamente quando utilizziamo l’altra espressione “la stella della sera”denotiamo il medesimo oggetto, ovverossia sempre Venere. E tuttaviaabbiamo fatto uso di due “descrizioni definite” il cui senso è chiaramentediverso; pertanto quando stabiliamo l’eguaglianza “la stella del mattino” =“la stella della sera” abbiamo fornito una indicazione precisa: s’è volutoindicare che due espressioni diverse per il loro senso fanno tuttaviariferimento al medesimo oggetto e non a due distinti corpi celesti. Possiamopertanto affermare che le due espressioni portate ad esempio hanno sensidiversi ma identica denotazione. Per cui ogni ‘segno’ possiede un senso eduna denotazione: «un nome proprio (parola, segno, connessione di segni,espressione) esprime il suo senso, denota o designa la sua denotazione»204.

Tale distinzione serve a Frege per trovare il luogo dove collocarel’oggettività del numero e quindi della matematica, distinguendola daiprocessi soggettivi. Infatti egli differenzia dal senso e dalla denotazione la‘rappresentazione’, costituita dalla immagine interna che ciascuno si fa, inbase a ricordi personali o inclinazioni soggettive, di un dato oggetto,indicato mediante un segno ed espresso da un senso oggettivo. In meritoFrege è estremamente preciso: «La denotazione di un nome proprio èl’oggetto stesso che con esso designiamo; la rappresentazione che neabbiamo è del tutto soggettiva; tra l’una e l’altra c’è il senso, che non è piùsoggettivo come la rappresentazione, ma non è neppure l’oggetto stesso.Per chiarire questi rapporti può forse essere utile il seguente paragone.Immaginiamo che qualcuno osservi la luna attraverso un cannocchiale. Ora,io paragono la luna alla denotazione; esso è l’oggetto di osservazione resopossibile dall’immagine reale proiettata dalla lente dell’obiettivo dentro ilcannocchiale e dall’immagine retinica dell’osservatore. In questo paragone,l’immagine dell’obiettivo è il senso, e l’immagine retinica è larappresentazione o intuizione. L’immagine del cannocchiale è cioè soloparziale poiché dipende dal punto d’osservazione, eppure è oggettiva,poiché può servire a più osservatori. Si può predisporla in modo tale chepiù persone contemporaneamente possano utilizzarla; l’immagine retinica èinvece tale che ognuno deve avere necessariamente la sua. Sarebbe perfinodifficile ottenere una congruenza geometrica, per la diversa conformazionedegli occhi; una effettiva coincidenza sarebbe comunque da escludersi.»205

Delle esperienze soggettive che sono connesse alla rappresentazione sioccupa la psicologia, non la logica o la scienza: viene così completato ildisegno fregeano teso ad escludere l’oggettività del pensiero dal campopsicologico, assegnando a quest’ultimo una sua specifica area dicompetenza. In ciò, «la preoccupazione di Frege, nel sottolineare la distin-zione tra senso a rappresentazione, è anzitutto quella di salvaguardare la

204 G. Frege, “Senso e denotazione” (1892), in La struttura logica del linguaggio, a cura di A.

Bonomi, Bompiano, Milano 1973, p. 14.205 Ib., p. 13.

Il luogo della soggettività: la‘rappresentazione’ , del laquale si occupa la psicologia

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condivisibilità intersoggettiva del senso»206, e quindi la possibilità di unascienza che avesse come suo obiettivo il coglimento del vero e non ilsemplice accordo tra individui.

Per poter dar corpo a tale concezioneoggettivistica e normativa della logica Frege siassume come primo compito quello di creare unsimbolismo logico in grado di permettere una cor-retta e rigorosa espressione del pensiero e cosìevitare le trappole causate dall’imperfezione e dalle ambiguità dellinguaggio naturale: «Se è compito della filosofia spezzare il dominio dellaparola sullo spirito umano svelando gli inganni che, nell’ambito dellerelazioni concettuali, traggono origine, spesso quasi inevitabilmente,dall’uso della lingua e liberare così il pensiero da quanto di difettoso gliproviene soltanto dalla natura dei mezzi linguistici di espressione, ebbene:la mia ideografia, ulteriormente perfezionata a questo scopo, potràdiventare per i filosofi un utile strumento»207.

Questo il programma annunciato nellaPremessa della sua prima opera, la Begriffsschriftdel 1879 (tradotta in italiano col nome diI d e o g r a f i a ), nella quale ci si riallacciaintenzionalmente al progetto leibniziano di una lingua characteristicauniversalis. Frege non esita a paragonare il rapporto tra la sua ideografia ela lingua di tutti giorni a quello esistente tra il microscopio e l’occhio:«Quest’ultimo, per l’estensione della sua applicabilità con la quale saadattarsi alle più disparate circostanze, ha una grande superiorità neiconfronti del microscopio. Considerato però come apparecchio ottico essorivela certamente parecchie imperfezioni che di solito passano inosservatesolo in conseguenza del suo intimo collegamento con la vita spirituale. Manon appena scopi scientifici richiedano la precisione nel discernere,l’occhio si rivela insufficiente. Il microscopio invece è adatto nel modo piùperfetto proprio a tali scopi, ma appunto per questo risulta inutilizzabile pertutti gli altri»208.

In quest’opera di un centinaio di pagine – che da Bocheƒski è stataparagonata per importanza agli stessi Primi analitici di Aristotele e da vanHeijenoort è stata ritenuta uno dei più importanti scritti in logica maipubblicati – viene data esecuzione in maniera sistematica al progettoleibniziano, liberandolo dalla subordinazione alla matematica, come erastato per Boole. Viene così concepito per la prima volta un simbolismo cheè autonomo rispetto a quello impiegato in matematica ed è proprio solodella logica, in modo che possa servire quale linguaggio universale chedomini tutti quelli specialistici e particolari, ivi compreso quellomatematico. I simboli in esso costruiti sono nettamente distinti da quelli

206 P. Casalegno, “Il paradigna di Frege”, in Introduzione alla filosofia analitica del

linguaggio, a cura di M. Santambrogio, Laterza, Bari-Roma 1992, p. 10.207 G. Frege, Ideografia (1879), in Id., Logica e aritmetica, cit., pp. 107-8.208 Ib., p. 105.

La costruzione di un linguag-gio logico adeguato, liberodagli equivoci di quello co-mune e con un simbolismopeculiare

L’Ideografia e la concezionedi un nuovo simbolismo pu-ramente logico, distinto daquello matematico

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impiegati in aritmetica: non più somme, moltiplicazioni ed elevazioni apotenza, come avveniva nell’algebra della logica di Boole, con inevitabiliequivoci e confusione di domini; ad essere comune era solo il modo diimpiegare le lettere, che venivano intese come variabili. Tuttavia talesimbolismo si dimostrava parecchio complesso e difficile da realizzaretipograficamente, sicché esso fu poi sostituito da quello assai più intuitivo esemplice di Russell, che a sua volta si ispirò largamente a quello introdottoda Peano.

Per realizzare il compito che egli si eraprefisso era anche necessario che fossero apportatidue perfezionamenti alla presentazione dellalogica: «Il primo perfezionamento doveva consistere nella sistematicità:organizzare le idee tradizionali ed i nuovi contributi di Leibniz e Boole inmodo da chiarire la struttura di quella scienza e la grande varietà delleforme proposizionali da considerare nella logica generale. Il secondoperfezionamento doveva consistere nel rigore: esporre esplicitamenteall’inizio quanto richiesto per la dimostrazione dei teoremi e ridurre ilprocedimento di deduzione ad un piccolo numero di mosse standard,prevenendo così il pericolo di contrabbandare inconsciamente ciò cheinvece dobbiamo dimostrare»209.

I capisaldi di questa nuova logica ideografica sono:ß il superamento della vecchia impostazione sino ad allora invalsa,

basata sulla distinzione tra soggetto e predicato, e la sua sostituzionecon quella che assume la bipartizione argomento/funzione;

ß il privilegiamento della logica proposizionale su quella terministica,ovvero della proposizione sul concetto, e quindi il ricongiungimentodi due tradizioni logiche – quella aristotelica e quella stoica – sino aquel momento ritenute distinte e sinora mai incontratisi;

ß la trattazione degli enunciati universali e particolari della vecchialogica mediante l’introduzione dei quantificatori universali edesistenziali.

Benchè tali nuove concezioni siano state in gran parte introdotte perprimo da Frege, tuttavia sono state canonizzate e rese universalmente notedall’opera di Russell, che ovviamente non mancò di apportare dei personalicontributi; inoltre le acquisizioni tecniche della nuova logica così ottenute –oltre ad essere il frutto dell’evoluzione sinora tratteggiata – costituisconoormai il patrimonio condiviso della logica matematica contemporanea,sicché è più opportuno esporle in maniera sistematica in un appositoparagrafo, piuttosto che seguire i singoli contributi apportati da Frege e daisuoi successori.

Resta invece da dire, in fase di bilancio conclusivo, qualcosa sulprogetto logicistico per il quale Frege avevaimpegnato la sua vita.

Come abbiamo visto, la scrittura della

209 W.C. Kneale, M. Kneale, op. cit., pp. 497-8.

Le innovazioni principalidella nuova logica rispetto aquella tradizionale

Il collasso del logicismo inFrege: la scoperta dell’anti-nomia di Russell

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Ideografia era funzionale alla fondazione della matematica mediante la suariduzione ai chiari concetti della logica e la definizione di tutte le sueprocedure con gli strumenti rigorosi che questa avrebbe fornito. Tale operaè appunto quella che Frege esprime programmaticamente nel già citato DieGrundlagen der Arithmetik (I fondamenti dell’aritmetica), del 1884, e cheha una vera e propria esecuzione nei due volumi dei Grundgesetze derArithmetik (I principi dell’aritmetica, del 1893 e 1903). Ma proprio quandoFrege stava per completarne il secondo volume, riceve il 16 giugno del1902 una lettera da parte del giovane Russell nel quale gli vienecomunicata la scoperta di un’antinomia logica che si annida proprio negliassunti di fondo dei Grundgesetze (vedi riquadro)210. Nulla poteva esserepiù disastroso per il progetto di Frege: la logica, che doveva costituire labase sicura a cui ancorare la matematica, si dimostrava dunque unostrumento inaffidabile, addirittura contraddittorio! Frege rimane annichilitoda questa notizia: «Non c’è infortunio – confessa Frege in un poscritto aiPrincipi – che possa colpire più duramente uno scrittore di quello di vedercrollare una delle pietre basilari del suo edificio subito dopo che esso siastato portato a termine. Tale fu la condizione in cui io stesso mi trovaiquando ricevetti una lettera di B. Russell mentre la stampa di questovolume era ormai vicina alla sua conclusione»211.

L’antinomia di Russell

Essa si riferisce alle basi insiemistiche della logica fregeana, ma colpisce egualmenteanche la nozione logica di predicazione. Si parte dalla constatazione che un insiemepuò essere membro di se stesso oppure può non esserlo. Ad esempio, l’insieme deicavalli non è un cavallo e l’insieme che contiene solo Socrate non è Socrate (v’èinfatti differenza tra elemento di un insieme ed insieme formato da un soloelemento). Gli insiemi con cui abbiamo di solito a che fare non sono elememti di sestessi, per cui li chiameremo ‘normali’: la maggior parte degli insiemi sono dunque‘normali’. Tuttavia possiamo costruire degli insiemi che non sono ‘normali’, cioè chepossiedono la caratteristica di contenere se stessi come elementi; li chiameremoinsiemi ad ‘auto-ingerimento’. Uno di questi è l’insieme di tutti gli insiemi, cioèl’insieme che comprende tutti gli insiemi come suoi elementi. Ora costruiamo uninsieme A che comprende tutti gli insiemi ‘normali’: è l’insieme così costruito‘normale’ o ad ‘autoingerimento’?Analizziamo i due casi:• se affermiamo che A è un insieme ‘normale’ (cioè non contiene se stesso comesuo elemento) allora esso dovrà contenere se stesso (in quanto abbiamo detto cheA è l’insieme di tutti gli insiemi ‘normali’); ma se contiene se stesso, allora è uninsieme ad ‘auto-ingerimento’; onde abbiamo negato il punto di partenza.• se affermiamo che A è un insieme ad ‘auto-ingerimento’ (cioè che contiene sestesso come proprio elemento), allora non è vero che esso è l’insieme di tutti gliinsiemi ‘normali’, come avevamo dichiarato nel costruirlo.Come si vede, qualunque sia la scelta fatta, si finisce per negarla e doverammettere la tesi opposta, sicché incorriamo in una vera e propria antinomia.

210 Il carteggio tra Russell e Frege in merito all’antinomia è riportato in Frege, Alle origini

della nuova logica, cit., pp. 169-224, dove è contenuta la celebre frase con cui il logico tedescoaccolse la comunicazione di Russell: «La Sua scoperta della contraddizione mi ha sorpreso almassimo e, quasi vorrei dire, mi ha costernato, perché con essa vacilla la base sulla quale pensavosi fondasse l’aritmetica» (p. 185).

211 G. Frege, Grundgesetze der Aritmetik, II vol., Jena 1903, p. 253.

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In un’affrettata appendice dei Principi egli cerca di abbozzare unarisposta, che tuttavia lascia insoddisfatto innanzi tutto lui stesso. Come sirende ben conto il logico tedesco, viene così messa in discussione non solola sua opera, ma la stessa possibilità di trovare una fondazione logica allamatematica. Il progetto logicistico sembra essere colpito al cuore ed il terzovolume di Principi che Frege progettava di scrivere non vedrà più la luce.

Un colpo dal quale Frege non si riprese più.Benchè, come ci testimoniano gli scritti postumi,egli abbia tentato per tutta la vita di porre rimedioa questo problema – senza tuttavia trovare unarisposta soddisfacente – tuttavia per oltre vent’anni non pubblicò più nulla,se non alcuni saggi di geometria e tre brevi scritti di logica filosofica. Così,«proprio nel periodo in cui, grazie a Russell, la sua opera cominciava adessere conosciuta ed apprezzata in tutto il suo valore, Frege si ritira dallaricerca logica attiva, quale veniva configurandosi in quel periodo, in granparte proprio a causa dell’antinomia scoperta nel suo sistema: egli lascia ilproblema fondamentale […] alle nuove generazioni e si dedica allatrattazione di argomenti più filosoficamente impegnati in senso tradi-zionale»212. Ma è proprio alle riflessioni sulla geometria che egli dedica lesue ultime fatiche, nel tentativo di percorrere una nuova strada di fon-dazione della matematica: con l’ammissione che l’elemento intuitivo dellageometria possa costituire una speciale “fonte conoscitiva” per l’aritmetica,il ciclo si chiude. La prospettiva di un ritorno alla tesi kantiana del caratteresintetico di tutte le proposizioni matematiche finisce per restaurare unasostanziale frattura tra logica e matematica213. L’aritmetizzazione dell’ana-lisi –!che delle evidenze geometriche si era voluta liberare per basarsi suquelle «pietre basilari, poggiate su una roccia eterna» offerte dalla logica –sembra con Frege compiere il ritorno alla casa di partenza, riabilitandol’intuizione, dimostratasi in fin dei conti molto più salda di quanto non sifosse mai sospettato. Non sarà Frege a proseguire sulla strada dellogicismo. Un suo tentativo di salvezza sarà tentato da Russell, che cercò dirisolvere il problema dell’antinomia da lui scoperta costruendo la cosiddetta“teoria dei tipi”.

Ora invece passiamo ad illustrare quegli strumenti tecnici propri dellalogistica che, creati da Frege mettendo a frutto quanto prodotto acominciare dall’opera di Boole, e perfezionati da Russell, hanno costituitoda allora in poi la “cassetta degli attrezzi” di ogni filosofo della scienza.

2. Gli strumenti della logistica

Nel corso di circa tre decenni – dalla pubblicazione della Begriffsschriftdi Frege nel 1879 a quella dei Principia mathematica di Russell eWhitehead nel 1910-13 – la logistica sviluppa tutti i concetti fondamentali

212 C. Mangione, op. cit., p. 823.213 Cfr. R. Blanché, op. cit., p. 372.

Il silenzio di Frege ed il ritor-no alla geometria come fontedella intuizione matematica

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del patrimonio della logica formale contemporanea, in seguito ulterior-mente perfezionati tecnicamente e anche approfonditi filosoficamente (nonpossiamo non menzionare in proposito il Tractatus logico-philosophicus diWittgenstein). Nella sua duplice articolazione di logica (o calcolo) proposi-zionale e logica dei predicati, la “nuova logica” (come viene anche chia-mata dai suoi fondatori per differenziarla da quella classica e sillogistica)fornirà al filosofo ‘scientifico’, all’epistemologo e al filosofo della scienzagli strumenti fondamentali per la discussione sulla scienza e sui suoimetodi. In questo paragrafo cercheremo di presentarne i concetti di basecosì come essi sono di solito introdotti nei manuali odierni di logica, inmaniera da offrire anche un’essenziale guida per la comprensione dellediscussioni odierne nel campo della filosofia della scienza.

2.1 La preminenza della logica proposizionale.La logica tradizionale aristotelica iniziava innanzitutto con una dottrina dei termini, distinguendoliin base alla loro ‘estensione’ e ‘comprensione’; su questa base edificava ladottrina delle categorie o “sommi predicabili”. Quindi proseguiva‘componendo’ i termini in modo da formare il giudizio; così, ad es., nel-l’espressione “l’uomo corre”, abbiamo due termini: ‘uomo’ e ‘corre’, la cuicombinazione in una proposizione fatta di soggetto e predicato dà luogo adun giudizio che può essere vero o falso. I diversi giudizi vengono quindi adessere articolati in un ragionamento, la cui massima espressione è fornitadal sillogismo. Seguendo questo modello, rimasto invariato sostanzialmenteper due millenni, tutti i trattati tradizionali di logica si svolgevanoprogressivamente partendo dall’analisi dei termini, proseguendo con quelladelle proposizioni e quindi componendo queste in maniera da formarel’argomentazione logica.

La “nuova logica”, in particolare con Frege,assume come proprio punto di partenza la propo-sizione, con ciò riallacciandosi inconsapevolmentead una tradizione di pensiero logico, quello stoico, che era stato minoritariolungo tutta la tarda antichità e che era stato solo in parte valorizzato nelmedioevo con la dottrina delle ‘consequentiae’. In Frege tale punto dipartenza era giustificato con la sua idea che fosse impossibile spiegare ilsignificato di un’espressione isolandola dal contesto, per cui è impossibilecomprendere esattamente il significato di un termine prescindendo dallaproposizione nella quale può entrare a far parte. Egli propone invece dipartire dai giudizi e quindi ricavare, mediante analisi, il significato deitermini che in essi figurano: è il famoso “Principio del Contesto”.

Il calcolo proposizionale assume come sua uni-tà di base la proposizione, intesa come una espres-sione linguistica dichiarativa, cioè affermante chequalcosa è (o non è) così e così, e pertanto tale dapoter essere vera o falsa. Sono pertanto da esso esclusi gli enunciatiinterrogativi e quelli imperativi, che non descrivono uno stato di cose equindi non possono essere né veri né falsi; ad es., è una proposizione

La logica tradizionale comelogica dei termini

La proposizione, punto dipartenza della ‘nuova logica’

Valori di verità della proposi-zione, assunta nel suo usodichiarativo

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l’espressione “la terra è un pianeta”, mentre invece non lo è la domanda“che ora è?”. Al calcolo proposizionale non interessa analizzare come unadata proposizione sia costruita, in quanto esso la assume come una totalitàindecomponibile. Di essa prende in considerazione solamente il valore diverità, cioè il fatto di poter essere vera o falsa (ma non entrambe). In ciòconsiste il carattere bivalente del calcolo proposizionale classico: esso nonammette altri valori di verità oltre a quelli di vero o falso. Per cui, adesempio, non sono ammissibili proposizioni probabili o incerte, cioè il cuivalore di verità non sia né vero né falso.

Ovviamente è anche una proposizione quellaformata da due o più proposizioni semplici. Così“La terra è un pianeta e il sole è una stella” è unaproposizione composta (o molecolare) formata da due proposizionisemplici (o atomiche), che sono rispettivamente “La terra è rotonda” e “Ilsole è una stella”. In questo caso il valore di verità della proposizionecomposta dipende esclusivamente dai valori di verità delle proposizionicomponenti. In ciò consiste appunto il carattere estensionale del calcoloproposizionale: una data proposizione composta è detta estensionale se esolo se il suo valore di verità dipende esclusivamente dai valori di veritàdelle proposizioni che la compongono.

Data una o più proposizioni, è possibile ad esseapplicare dei funtori in modo da ottenere altreproposizioni il cui valore di verità dipende daivalori di verità delle proposizioni iniziali e dal tipo di funtore applicato.Tali funtori sono estensionali (in quanto prendono in considerazione solo ivalori di verità delle proposizioni) e vengono chiamati “funtori di verità” (oanche “operatori vero-funzionali” o più brevemente ‘connettivi’). Perindicare una generica proposizione, cioè una variabile proposizionale, siusano attualmente lettere minuscole, quali p, q, r, dove a lettere diversecorrispondono proposizioni diverse. In tal modo potrà essere p = “La terra èrotonda”, q = “5 è minore di 6” ecc. Tali lettere vengono chiamate lettereproposizionali. Ovviamente seguiamo qui le convenzioni che sonoattualmente in uso, per cui la simbologia usata è differente da quellaintrodotta da Frege e dagli altri fondatori della nuova logica.

La negazione è l’esempio più semplice ecomune di funtore di verità. Per indicare l’opera-zione di negazione della proposizione p si usaoggi di solito il simbolo “¬”, per cui avremo: ¬p,che leggiamo “non-p”. Se p è una proposizione vera, allora la suanegazione ¬p è falsa; se p è falsa allora ¬p è vera. La relazione esistente trai valori di verità di ¬p e p può essere rappresentata schematicamentemediante la cosiddetta tavola di verità, nozione introdotta anche per gli altrifuntori o connettivi da Wittgenstein nel suo Tractatus (ed indipendente-mente anche da Post e ¸ukasiewicz) ed esemplificata nella figura sottoriportata. In essa, sotto p sono riportati i suoi due possibili valori di verità ,V (vero) e F (falso). Nella seconda colonna (sotto ¬p) sono riportati i valoridi verità assunti da ¬p in corrispondenza dei valori di verità della pro-

Proposizioni composte e lorocarattere estensionale

I funtori di verità e le lettereproposizionali

La negazione, gli altri funtoribiargomentali e le relativetavole di verità

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posizione p.

V FF V

p ¬p

1ª colonna

2ª colonna

1ª riga

2ª riga

Altri funtori importanti sono quelli biargomentali di disgiunzione ‘o’(non esclusiva), congiunzione ‘et’, condizionale ‘se…allora…’ ebicondizionale ‘se e solo se’, dei quali riportiamo le tavole.

Ovviamente non tutti questi connettivi sono necessari, tant’è vero cheFrege ne ammetteva solo due, la negazione ed il condizionale; tuttavia ècomodo averne un maggior numero a disposizione in modo da renderemeglio le inferenze che vengono svolte in matematica e nel linguaggioordinario. A partire da essi è possibile costruire le forme proposizionalicomplesse, il cui valore di verità può essere facilmente calcolato, in quantodipende dai valori di verità delle singole lettere proposizionali. Si consideriad esempio la seguente proposizione:

(pŸq)⁄(p⁄q)

Costruiamo innanzi tutto la ta-bella ad essa corrispondente. Abbia-mo riportato i valori corrispondentialle lettere proposizionali di sinistrasotto le corrispondenti lettere a de-stra (indicando, come è oggi con-suetudine, il Vero con 1 e il Falsocon 0). Applicando i rispettivi con-nettivi abbiamo quindi ottenuto ivalori di verità delle colonne contrassegnate con ‘a’; quindi alle colonne‘a’ abbiamo applicato il connettivo “o” ottenendo come risultato finale lacolonna ‘b’, che ci fornisce i cercati valori di verità della forma propo-sizionale data.

Un particolare significato hanno le formeproposizionali che sono sempre vere, indipenden-temente dai valori di verità che vengono assegnati alle variabili. Tali forme

Tautologie e contraddizioni

p q p Ÿ qV V V

V F F

F V F

F F F

p q p ⁄ qV V V

V F V

F V V

F F F

p q p Æ qV V V

V F F

F V V

F F V

p q p ¤ qV V V

V F F

F V F

F F V

p q (p Ÿ q) ⁄ (p ⁄ q)

1 11 00 10 0

1 1 1 1 1 1 11 0 0 1 1 1 00 0 1 1 0 1 10 0 0 1 0 0 0

a a

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sono chiamate, seguendo l’uso di Wittgenstein, ‘tautologie’ (o anche “leggilogiche”) e la corrispondente tavola di verità di una di esse avrà comerisultato dell’ultima colonna tutti 1. È ad es. una tautologia la seguenteformula:

(p ⁄ q) Æ (q ⁄ p)

Se costruiamo la relativa tavola di verità otterremo:

La nozione opposta a quella di tautologia è la contraddizione, cheassume sempre il valore 0. Le contraddizioni, a differenza delle tautologie,sono false a priori, cioè sono false qualunque sia il valore di verità delleproposizioni che le compongono. E’ una tipica contraddizione laproposizione pŸ¬p. Ovviamente basta negare una tautologia per ottenereuna contraddizione; e viceversa.

Due tautologie molto utili per la effettuazione di inferenze all’internodell’argomentazione logica sono espresse dalle seguente formule:

(a) [(pÆq)Ÿp)]Æq (modus ponendo ponens)(b) [(pÆq)Ÿ¬q)]Ƭp (modus tollendo tollens)

Che si tratti di tautologie è facilmente constatabile mediante l’applica-zione delle tavole di verità. Il modus ponens è stato assunto da Frege comel’unica regola di derivazione per la effettuazione delle inferenze, a partiredai nove assiomi da lui usati come base di partenza. Il modus tollens puòessere anche espresso con la formula (pÆq)Æ(¬qƬp), la quale sta asignificare che se una certa causa determina un certo effetto, allora lanegazione dell’effetto determina la negazione della causa. Bisogna fareperò attenzione a due forme proposizionali che potrebbero essereintuitivamente considerate delle tautologie ed invece non lo sono.Quest’inganno nasce dal loro essere apparentemente simili al modus ponense al modus tollens. Sono le seguenti:

(a’) [(pÆq)Ÿq)]Æp (fallacia dell’affermazione del conseguente)(b’) [(pÆq)Ÿ¬p)]Ƭq (fallacia della negazione dell’antecedente)

Applicando le tavole di verità si vede facilmente che queste non sonodelle tautologie, ma solo forme proposizionali contingenti.

Centrale è il concetto di implicazione logica(che non deve essere confuso con l’operatore del

Tautologie particolarmenteimportanti e possibili fallacie

Implicazione logica edimplicazione materiale

p q (p ⁄ q) Æ (q ⁄ p)

1 11 00 10 0

1 1 1 1 1 1 11 1 1 1 1 1 11 1 1 1 1 1 10 0 0 1 0 0 0

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condizionale, detto anche implicazione materiale). Essa viene definita nelmodo seguente: una formula proposizionale p1 implica logicamente unaforma proposizionale p2 se e solo se ogni assegnamento di valori di veritàche rende vera la prima rende anche vera la seconda. Questa definizionedice, in altri termini, che la verità di p1 è condizione sufficiente perché p2sia vera. Tutta la definizione, pertanto, si può riformulare nel modoseguente: condizione necessaria e sufficiente affinché p1 implichi p2 è che laverità di p1 sia condizione sufficiente della verità di p2. Per indicarel’implicazione logica si usa il simbolo ‘fi’ (da non confondere con ‘Æ’).E’ ad esempio una implicazione logica “pfip”, cioè “p implica p”. Infattiogni qualvolta la prima p è vera, è vera anche la seconda. Inoltre è anchepfi(p⁄q), in quanto ogni qualvolta p è vera, è anche vera la (p⁄q) (siricordi che affinché una disgiunzione sia vera è sufficiente che uno dei suoitermini sia vero).

Uno dei più importanti teoremi della logica èquello di deduzione. Esso afferma che p1fip2 se esolo se p1Æp2 è una tautologia. Mediante questoteorema possiamo sempre decidere in modo effettivo se una data formaproposizionale ne implica logicamente un’altra. Infatti basta vedere seotteniamo una tautologia applicando alle due forme proposizionale ilcondizionale. Vogliamo sapere, ad esempio, se la proposizione (pÆq)Æpimplica logicamente p, cioè se sia vero che [(pÆq)Æp]fip. Per far ciòbasta sapere se la proposizione che otteniamo collegando la prima espres-sione alla seconda per mezzo del condizionale è o no una tautologia.Ovverossia se [(pÆq)Æp]Æp è una tautologia. Se costruiamo la tavola diverità possiamo facilmente constatare che la colonna finale contiene tutti 1e quindi tale proposizione è una tautologia. Possiamo quindi dire, per ilteorema della deduzione, che (pÆq)Æp implica logicamente p.

2.2 L’abbandono della forma predicativa. Nellalogica aristotelica i termini che entrano a far partedelle proposizioni costituiscono l’elemento piùsemplice ed il punto di inizio della logica. Nellaproposizione “l’uomo corre”, abbiamo due termini: ‘uomo’ e ‘corre’; essipossono dar luogo ad un asserto vero solo quando vengono combinati inuna proposizione fatta di soggetto e predicato. Tale combinazione ditermini esprime un giudizio, in cui si afferma o si nega un attributo di unsoggetto, per cui nella logica aristotelica è fondamentale la distinzione trasoggetto e predicato. In “tutti gli uomini sono mortali” si può distinguere unsoggetto, “gli uomini”, ed un predicato, “sono mortali”, che viene attribuitoal soggetto come una proprietà o qualità che appartiene a quest’ultimo o locaratterizza. Inoltre, possiamo distinguere le proposizioni secondo la loroqualità (affermative e negative) e la loro quantità (universali e particolari);per cui abbiamo le proposizioni universali affermative (“tutti gli uominisono mortali”), le universali negative (“nessun uomo è mortale”), leparticolari affermative (“qualche uomo è mortale”) e le particolarinegative (“qualche uomo non è mortale”). Tale classificazione delle

Il teorema della deduzione, esua connessione col concettodi tautologia

La classificazione delle pro-posizioni in base alla predi-cazione, nella logica tradi-zionale

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proposizioni è stata successivamente sintetizzata nel famoso quadrato delleopposizioni, che serve a far anche vedere i rapporti reciproci tra leproposizioni (vedi la figura, con le relative spiegazioni).

Come viene messo in evidenza dalla nuovalogica, il privilegiamento della forma soggetto-predicato rende però impossibile (od almenoestremamente difficoltoso) il ragionamento mate-matico, oltre ad avere delle indesiderate impli-cazioni metafisiche. Infatti essa permette solo l’attribuzione di una qualitàad un soggetto, come quando diciamo “un quadrato è rotondo”, e non riesceinvece a render conto adeguatamente delle relazioni tra due enti, comequando invece affermiamo che “5 è maggiore di 4”. In quest’ultimogiudizio, secondo l’impostazione aristotelica, avremmo un soggetto (‘5’) edun predicato, formato dall’espressione “è maggiore di 4”; per cui sediciamo “4 è maggiore di 3”, avremo ancora un altro soggetto ed un altropredicato, diversi dai precedenti. Su questa base diventa impossibileeffettuare un semplice ragionamento matematico come il seguente: “se 5 èmaggiore di 4 e 4 è maggiore di 3, allora 5 è maggiore di 3”. A volerseguire l’impostazione aristotelica, dovrebbe essere effettuato un sillogismo

Gli inconvenienti della formasoggetto-predicato: l’impos-sibilità di esprimere le rela-zioni

ATutti gli uomini sono

mortali

IQualche uomo è

mortale

OQualche uomo non è

mortale

ENessun uomo è

mortaleContrarie

Contraddittorie SubalterneSubalterne

Subcontrarie

Figura 1 - Il quadrato delle opposizioni . Nella figura è rappresentato il quadrato che i logicisuccessivi (in particolare Apuleio, l’autore de L’Asino d’oro, e Severino Boezio) elaborarono perrendere graficamente i rapporti tra i vari tipi di proposizione e poi largamente utilizzato nella sillogisticamedievale. In Aristotele manca ancora la indicazione della subalternità e inoltre la terminologiaesprimente le relazioni tra proposizioni (‘contraddittorie’, ‘contrarie’ ecc.) è quella introdotta da Boezio,divenuta di uso comune fino ad oggi.

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del seguente tipo:Ogni maggiore di 4 è maggiore di 3Ogni maggiore o uguale a 5 è maggiore di 4_____________________________Quindi, ogni maggiore o uguale a 5 è maggiore di 3

Dove “ogni maggiore di 4” è il soggetto della prima premessa ecostituisce quello che Aristotele chiama “termine medio”; “è maggiore di3” rappresenta il predicato della prima premessa e della conclusione; e“ogni maggiore o uguale a 5” è il soggetto della premessa minore e dellaconclusione. Tale sillogismo è una esemplificazione di quella ‘figura’sillogistica che per Aristotele sarebbe la più perfetta e che costituisce laforma cui devono essere ridotti tutti i rimanenti sillogismi affinchè sianodimostrati, in quanto è di per sé autoevidente. Dalla sua conclusione segue,con una inferenza che Aristotele chiama ‘immediata’, la proposizione che“5 è maggiore di 3”.

Come si vede, una semplice inferenza mate-matica diventa nella sillogistica aristotelica uncomplicato ragionamento, derivante dal fatto diconsiderare l’espressione “è maggiore di 3” unpredicato esprimente la qualità di un soggetto, differente da innumerevolipredicati ad esso simili. Tutto diverrebbe più semplice se, abbandonando laforma soggetto/predicato, si adottasse quella di argomento/funzione e diconseguenza si intendessero le espressioni simili a quella portata daesempio come casi di relazioni (o funzioni biargomentali). Questa è l’ideache sta alla base della nuova logica, esposta in maniera sistematica da Fregee quindi divenuta patrimonio comune.

Consideriamo l’espressione “Tutti gli uomini sono mortali”. Sesostituiamo al soggetto “Tutti gli uomini” la variabile x e scriviamo “x sonomortali” abbiamo ottenuto una espressione per la quale non siamo in gradodi dire se è vera o falsa, a meno che non sappiamo cosa sta ad indicare lavariabile x. Se ad esempio x =“I Greci”, allora essa è vera; ma se x =“GliDei dell’Olimpo”, allora è falsa.

Nell’espressione data possiamo distinguere due parti:• innanzi tutto notiamo una variabile x che può rappresentare un

qualsivoglia oggetto di un certo genere (appartenente ad un datouniverso) e che chiamiamo variabile individuale;

• v’è poi il funtore “sono mortali” che viene applicato ad un datoargomento, costituito da un nome rappresentante un oggetto odindividuo. A tale funtore ci si riferisce spesso anche col nome dipredicato: nel nostro caso abbiamo un predicato monoargomentale (ounario), in quanto esso si applica ad un solo argomento rappresentatodalla variabile individuale x.L’espressione che risulta dalla unione di queste

due parti viene chiamata funzione proposizionale:essa diventa una proposizione nel caso in cui sisostituisca la variabile individuale con una costante individuale. Per cui, più

La svolta di Frege: alla for-ma soggetto-predicato vienesostituita quella di funzione-argomento

Il concetto di funzione pro-posizionale

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esattamente possiamo definire una funzione proposizionale comeun’espressione che non è né vera né falsa ma può essere trasformata in unaproposizione vera o falsa mediante rimpiazzamento delle sue variabili condelle costanti. La nozione di funzione proposizionale è chiaramentederivata dall’analogo concetto di funzione in matematica; qui abbiamoun’espressione del tipo y = f(x), dove il valore di y dipende dal valoreassegnato a x e dall’operazione che viene indicata col simbolo ‘f’. Così, adesempio, se x = 2 e l’operazione consiste nella “elevazione al quadrato”,allora avremo la seguente funzione: y = x2, che dà come valore y = 4.

Per indicare un generico predicato vengonoutilizzate le così dette costanti predicative,indicate di solito con le lettere P, Q, R, …. Per cuila scrittura P(x) indicherà una certa funzioneproposizionale formata da un predicato monoargomentale P e dallavariabile individuale x, che si potrà leggere: “x ha la proprietà P”. Inoltre lecostanti individuali vengono indicate al solito modo, cioè utilizzando lelettere a, b, c, …. Per trasformare una funzione proposizionale in unaproposizione basta allora sostituire in un generico predicato P(x) lavariabile individuale x con una costante individuale, ottenendo P(a), che silegge: “il particolare oggetto a ha la proprietà P”.

Abbiamo finora parlato di predicati monoargomentali (o monadici) cheformano funzioni proposizionali del tipo P(x) e che corrispondono sulpiano fisico alle proprietà che possono essere possedute da un oggetto odindividuo. Vi sono però anche predicati a due argomenti, a tre argomenti ead n argomenti. Consideriamo ad esempio la seguente funzione proposi-zionale:

“x è padre di y”

dove abbiamo due argomenti, x e y ed un funtore, “è padre di”. Ingenere a tali predicati corrispondono nella realtà le cosiddette relazioni, inteoria degli insiemi indicate con la lettera R. Sicché spesso le funzioniproposizionali ottenute da tali predicati biargomentali (o diadici) vengonoindicate anch’esse con la lettera R. In tal caso l’espressione sopra riportataverrebbe a scriversi: R(x, y), che si legge: “x è nella relazione R con y”. Èquesta la base di quella teoria delle relazioni avviata da De Morgan,sviluppata da Frege e quindi sistematizzata da Russell e Whitehead, inmodo da fornire alla logica uno strumento abbastanza potente per esprimerei concetti della matematica.

Grazie al concetto di relazione sarà possibile affrontare in manieraefficace il tipo di argomentazione che abbiamo visto nell’esempio primafornito del sillogismo aristotelico. Ciò grazie alla possibilità di individuarequelle proprietà formali delle relazioni che permettono di effettuareinferenze altrimenti impossibili. Possiamo infatti caratterizzare unarelazione per il fatto di poter essere riflessiva, simmetrica e transitiva. Sidice che una relazione è riflessiva quando un dato elemento è nella datarelazione con se stesso. Ad es., la relazione di eguaglianza è riflessiva in

Predicati monoargomentali ebiargomentali, che esprima-no delle relazioni

I caratteri delle relazioni:transitività, riflessività esimmetricità

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quanto ogni ente è eguale a se stesso. Una relazione si dice transitiva seR(x, y) e R(y, z), allora sarà anche R(x, z). Ad es., se Mario è fratello diGiovanni e Giovanni è fratello di Alberto, allora Mario è fratello diAlberto. Infine una relazione è simmetrica se R(x, y), allora R(y, x), comenel caso di Giovanni che è fratello di Alberto, per cui Alberto è fratello diGiovanni. In un dato insieme A possiamo tra gli elementi che viappartengono definire delle relazioni che possono presentare delle proprietàcaratteristiche, quali la riflessività, la simmetricità e la transitività.

Tali proprietà formali delle relazioni ci mettono in grado di affrontare inmodo molto semplice il sillogismo prima discusso. Basta rilevare che laproposizione “5 è maggiore di 4” non esprime altro che una relazione deltipo prima esposto, una volta sostituiti con delle variabili i numeri; siottiene: “x è maggiore di y”. La semplice constatazione che la relazione “…è maggiore di …” è transitiva, ci permette di effettuare l’inferenza da “5 èmaggiore di 4” e “4 è maggiore di 3” alla conclusione “5 è maggiore di 3”;ovvero: se R(5, 4) e R(4, 3), allora R(5, 3).

2.3 I quantificatori. Altro merito della nuova logica è quello di averechiarito e definito formalmente l’uso dei quantificatori, distinguendolifunzionalmente del resto delle componenti che entrano a far parte dellafunzione proposizionale. Nella logica aristotelica, infatti, la quantificazionenon si distingueva dalla proposizione, la quale era di per sé universale oparticolare. Nel medioevo, con Guglielmo d’Ockham e Alberto di Sassonia,si era effettuata la distinzione tra termini categorematici esincategorematici, allo scopo di differenziare le parti che all’interno dellaproposizione hanno un significato autonomo (sono quelle categorematiche,come i nomi e i verbi) da quelle che invece non lo hanno, ma servono permodificare o completare il significato delle prime; e tra queste ultime, oltreagli attuali connettivi, venivano indicati anche i termini utilizzati per laquantificazione, così fornendo loro una autonomia rispetto al resto dellaproposizione di cui entrano a far parte. Così nella proposizione “ogni uomocorre”, se consideriamo ‘ogni’ come facente parte del soggetto, allora laproposizione “qualche uomo non corre” non ha lo stesso soggetto dellaprima e di conseguenze queste due proposizioni non sono contraddittorie; ilche è falso. Per cui le parole ‘ogni’ e ‘qualche’ rivestono solo la funzione dimodificare il soggetto, distinguendosi da esso.

Per chiarire la funzione dei quantificatori, os-serviamo che essi servono anche ad ottenere unaproposizione a partire da una funzione proposizio-nale. Prendiamo la funzione proposizionale “x èun numero naturale”; essa può essere trasformata in una proposizione inquesto modo:

(a) “per ogni x, x è un numero naturale”(b) “esiste almeno un x, tale che x è un numero naturale”

La (a), detto in parole semplici, sta a significare che qualunque numero

La quantificazione trasformauna funzione proposizionalein proposizione

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sia x, tale x è un numero naturale. Il che è chiaramente falso, dato che adesempio “π” non è un numero naturale. Quindi la (a) è una proposizionefalsa. La (b) sta invece a significare che esiste almeno un numero che ènaturale. E ciò è vero, visto che effettivamente il numero 2 (come anche il3, il 4 ecc.) è un numero naturale. Pertanto la (b) è una proposizione vera.

Ciò significa che una funzione proposizionale può esser trasformata inproposizione ‘quantificando’ la sua variabile, cioè facendo precedereall’asserto contenente la variabile le espressioni “per ogni x” oppure “esistealmeno un x tale che”. Queste espressioni sono dette quantificatori evengono espresse simbolicamente nel modo seguente:

"x che si legge “per ogni x”$x che si legge “esiste almeno un x”

Il primo è chiamato quantificatore universale, il secondo quantificatoreesistenziale.!Pertanto una proposizione ottenuta da una funzione propo-sizionale si può anche scrivere nel modo seguente:

"xP(x)$xP(x)

che si leggono rispettivamente: “Per ogni x, x ha la proprietà P” e “Esisteun x tale che ha la proprietà P”. Una variabile quantificata è detta vincolata.Si faccia attenzione al fatto che il quantificatore esistenziale non affermache esiste solo un x che ha una tale proprietà, ma che esiste almeno un x cheha una certa proprietà. Per cui nel caso in cui P=“è un numero pari” è ovvioche non esiste un solo numero pari, ma un numero infinito e tuttavia non èvero che tutti i numeri sono pari!

Così come nel calcolo proposizionale, anchenel calcolo dei predicati esistono degli schemi difunzioni proposizionali che sono sempre veri.Innanzi tutto sono tautologie del calcolo dei predicati tutte le tautologie chefanno parte del calcolo proposizionale, e ciò per il motivo che quest’ultimoè contenuto nel primo. Sicché nella semplice tautologia pÆp se sostituiamole lettere proposizionali con espressioni appartenenti al calcolo dei predicatiotteniamo anche una tautologia. Oltre a queste tautologie ve ne sono altreche sono proprie del calcolo dei predicati in quanto in esse occorronoparticolari modi di presentarsi dei quantificatori. In generale possiamo direche una formula del calcolo di predicati è una tautologia se e solo se è unoschema esclusivamente vero di proposizioni o funzioni proposizionali vere.Ciò significa che, data una funzione proposizionale essa è sempre vera se,comunque scelto l’insieme entro cui variano le variabili in essa contenute ecomunque scelto il predicato che ha per argomento le date variabili, unvolta operate le opportune sostituzioni, si ottiene una proposizione vera.

Le tautologie nel calcolo deipredicati

Page 121: Lezioni di logica e filosofia della scienza · eccezione Abbagnano (Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1971), che assimila del tutto epistemologia e teoria della conoscenza o

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Ma il numero degli insiemi entro i qualipossono assumere valori le variabili, il numero deiloro elementi, come anche il numero di tutti ipossibili predicati, è infinito, sicché è impossibileandare a vedere caso per caso se una data funzioneproposizionale è vera o no. Nel caso del calcolo dei predicati non esistealcun metodo effettivo per conoscere in un certo numero limitato di passi seuna data formula è o no una tautologia: ciò è stato dimostrato dal cosiddettoteorema di indecidibilità (per la logica dei predicati) dovuto a Church(1936). Abbiamo invece visto che il calcolo proposizionale godeva dellaproprietà della decidibilità: grazie all’impiego delle tavole di verità siamoin grado di sapere, in un numero limitato di passaggi, se una data formaproposizionale è o no una tautologia. Tuttavia, grazie allaassiomatizzazione del calcolo dei predicati è possibile individuare certi suoisottoinsiemi decidibili, come ad es. quello in cui i predicati sono solomonadici oppure quello che assume come propri schemi gli schemi delletautologie già note dal calcolo proposizionale. Inoltre è anche possibilecercare di individuare alcune sue non-tautologie mediante l’analisi intuitivadi certe formule che miri ad trovare un controesempio che le dimostrinofalse.

Diamo a titolo di esempio una tipica tautologia del calcolo dei predicati,la quale è intuitivamente evidente:

"xP(x) Æ P(a) legge “dictum de omni” o “principio di esempli-ficazione universale” (di Jaskowski)

Questa legge ci dice che se tutti gli oggetti hanno la proprietà P alloraun oggetto particolare a ha la stessa proprietà. Se così, ad esempio, tutti gliuomini sono mortali, allora ne segue che anche Socrate è mortale.

Sulla base di queste nozioni viene edificata tutta la logicacontemporanea classica ed è possibile esprimere gran parte del contenutodella matematica.

Mancanza nel calcolo dei pre-dicati di un metodo effettivoper riconoscere le tautologiee il ricorso alla assiomatiz-zazione