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Cesit Centro Studi sistemi di trasporto collettivo “Carlo Mario Guerci” Piazza Bovio 14 80133 Napoli Working paper series n. 22 2012 1 L'EVOLUZIONE DEL SSN: DIMENSIONI CULTURALI E MODELLI ORGANIZZATIVI Paola Adinolfi 1. Le idee al cuore della sanità Il trentennale del Servizio Sanitario Nazionale offre l’opportunità di aprire una riflessione ampia che coinvolge dimensioni culturali, tipicamente trascurate dagli aziendalisti, che danno spessore e fondamento valoriale al dibattito sulla più importante esperienza di “welfare realizzato”. L’idea di questo contributo nasce da una certa insoddisfazione nei confronti di taluni atteggiamenti dogmatico-prescrittivi di una parte degli economisti-aziendali (inclusa l’autrice), e di una certa loro chiusura e autoreferenzialità, che stride con la molteplicità degli aspetti e dei problemi compresenti nelle aziende sanitarie, e che assume sfumature paradossali in un fase storica in cui i confini disciplinari negli studi economici tendono a dissolversi. Soprattutto, vi è insoddisfazione verso una certa angustia del focus analitico, che tende a concentrarsi solo su strumenti e tecniche, senza risalire al livello delle idee - ossia la base di tutte le scelte in campo sanitario. Tale considerazione ha indotto l’autrice ad avventurarsi in un campo in parte estraneo alla propria formazione economico-aziendale. Glouberman (2005) individua tre idee che esercitano una notevole influenza sul modo di concepire la salute e la malattia nelle società occidentali: la concezione dell’uomo, dei suoi rapporti con la natura e del carattere ordinato/disordinato del mondo. Obiettivo del presente lavoro è quello di analizzare l’influsso esercitato da tali coordinate culturali sul concetto di salute/malattia e, dunque, sulla scienza medica e sui modelli di assistenza sanitaria nel nostro Paese, così come si sono evoluti nel corso degli anni.

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Working paper series n. 22 2012

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L'EVOLUZIONE DEL SSN: DIMENSIONI CULTURALI E MODELLI

ORGANIZZATIVI

Paola Adinolfi

1. Le idee al cuore della sanità

Il trentennale del Servizio Sanitario Nazionale offre l’opportunità di aprire una riflessione ampia

che coinvolge dimensioni culturali, tipicamente trascurate dagli aziendalisti, che danno spessore e

fondamento valoriale al dibattito sulla più importante esperienza di “welfare realizzato”.

L’idea di questo contributo nasce da una certa insoddisfazione nei confronti di taluni atteggiamenti

dogmatico-prescrittivi di una parte degli economisti-aziendali (inclusa l’autrice), e di una certa loro

chiusura e autoreferenzialità, che stride con la molteplicità degli aspetti e dei problemi compresenti

nelle aziende sanitarie, e che assume sfumature paradossali in un fase storica in cui i confini

disciplinari negli studi economici tendono a dissolversi. Soprattutto, vi è insoddisfazione verso una

certa angustia del focus analitico, che tende a concentrarsi solo su strumenti e tecniche, senza

risalire al livello delle idee - ossia la base di tutte le scelte in campo sanitario. Tale considerazione

ha indotto l’autrice ad avventurarsi in un campo in parte estraneo alla propria formazione

economico-aziendale.

Glouberman (2005) individua tre idee che esercitano una notevole influenza sul modo di concepire

la salute e la malattia nelle società occidentali: la concezione dell’uomo, dei suoi rapporti con la

natura e del carattere ordinato/disordinato del mondo. Obiettivo del presente lavoro è quello di

analizzare l’influsso esercitato da tali coordinate culturali sul concetto di salute/malattia e, dunque,

sulla scienza medica e sui modelli di assistenza sanitaria nel nostro Paese, così come si sono evoluti

nel corso degli anni.

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Per brevità, le idee vengono esposte in maniera sintetica, consapevoli della forte semplificazione

che ciò comporta rispetto alla ricchezza e articolazione del dibattito filosofico. Nella rilettura critica

dei modelli medico–sanitari si individuano diverse fasi storiche (età arcaica, età antica, medioevo,

età moderna, periodo post-unitario-fascista) contraddistinte da significative discontinuità nel

dibattito culturale. L’ultima fase (dagli anni ‘50 in poi) viene suddivisa in tre sub-periodi, dal

momento che gli interventi di riforma sul sistema sanitario diventano, nell’ultimo secolo, sempre

più numerosi e complessi. Non ci si sofferma, per motivi di spazio, su un’analitica descrizione e

valutazione dei vari provvedimenti, peraltro ben noti agli esperti del settore, e ci si limita ad

evidenziarne criticamente il rapporto con le idee suesposte, lasciando agli storici il compito di

ricostruire l’evoluzione in maniera esaustiva.

2. L’età arcaica: il modello magico

Nelle società primitive vige una concezione animistica, per cui tutto ha un’anima, dagli alberi alle

rocce, e l’uomo è parte integrante di un immenso mondo panteistico, dove il caos regna e solo le

divinità sono in grado di mettere ordine. Questa visione condiziona le varie culture mediche1

arcaiche che, pur nelle significative differenze che le caratterizzano, hanno in comune un modello

che potremmo definire teurgico-magico della medicina. La malattia, al pari di altri fenomeni

misteriosi e incomprensibili, è collegata alla caotica natura del mondo e all’opera di spiriti o

divinità. Il medico-guaritore risana non in virtù di un’acquisizione scientifica, ma di un dono

soprannaturale; dunque la prestazione medica non può essere oggetto di commercio e non è previsto

un percorso di formazione: i medici-guaritori sono autenticati dalla consacrazione da parte di un

guaritore anziano, da un evento prodigioso collegato alla nascita, da una chiamata divina attestata

dallo stesso guaritore.

Elemento pregnante è la concezione sociale dell’identità dell’uomo (è il circuito relazionale a

determinare l’identità di una persona; il senso di identità non è mai scisso dal senso di appartenenza

ad un determinato gruppo) la quale si collega ad una concezione unitaria della vita umana, presente

in maniera lucida e forte sia nel modello teurgico sia in quello magico: è sempre l’uomo ad

ammalarsi, non una sua parte. In tale contesto, l’opera del medico-guaritore, già intrinsecamente

umanitaria in quanto indirizzata all’uomo nella sua globalità, deve mostrare doti morali consone a

una relazionalità col soprannaturale. La forte connotazione umanitaria dell’atto medico non viene

intaccata neanche dall’emergere di una nuova comprensione storico-culturale della malattia e dal 1 Medicina cinese: 3500 a.c., mesopotamica: 3000 a.c. – 2000 a.c., egiziana: 3000 a.c. – 2000 a.c., indiana: 2500 a.c. – 1500 a.c., assiro-babilonese: 1792 a.c. – 323 a.c., ebraica: 1200 a.c. – 550 a.c.

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suo progressivo distaccarsi dal sovrannaturale e ricondursi alla causalità naturale. È significativo il

fatto che in Babilonia il mago-sacerdote abbandoni i malati giudicati inguaribili, mentre il medico-

guaritore li curi sino alla fine.

3. L’età antica: il modello empirico

Con l’età antica, il mondo è sempre in primo piano, ma non è più un mondo animato e caotico, di

cui l’uomo è parte strettamente integrante. Si afferma, infatti, la concezione aristotelica di un

mondo ordinato e conoscibile, dove gli esseri viventi sono distinti dagli oggetti inanimati in quanto

dotati di anima – vegetale o animale – mentre solo gli uomini sono dotati di anima razionale. Tale

concezione può essere messa in rapporto con l’affermarsi, ad opera del greco Ippocrate, della

medicina empirica, che si sgancia definitivamente dal soprannaturale e dà luogo alla nascita della

clinica, intesa come studio dei segni e dei sintomi osservabili sul paziente. La nuova impostazione

della medicina si traduce, quando la vocazione scientifica dei greci si innesta sull’efficiente

organizzazione dei romani, nella nascita delle prime sale operatorie e della costruzione dei primi

esempi di presidi ospedalieri del mondo occidentale - i valetudinaria - strutture di soccorso create

prevalentemente nelle zone di frontiera per curare i legionari feriti, ma utilizzate anche dai patrizi

come infermerie private per i propri familiari e per gli schiavi. L’osservazione empirica si

arricchisce con il metodo sperimentale grazie a Galeno, il quale, raccogliendo e vagliando tutto il

materiale sino ad allora accumulato, dà origine alla più completa forma di medicina mai concepita

sino ad allora; ancora oggi si utilizzano alcuni dei rimedi che Galeno prescriveva per ribilanciare lo

squilibrio tra gli umori corporei, considerato dall’illustre medico la principale causa delle malattie.

Con i romani e la loro epopea della conquista si accentua la visione di un mondo controllabile e in

qualche modo dominabile. Questa concezione si rispecchia in un atteggiamento particolarmente

“combattivo” nei confronti delle malattie, evidente, ad esempio, nella scuola medica salernitana:

“anche se la salvezza non appartiene al mondo terrestre, non è affatto inutile curare il corpo, anzi è

opportuno opporsi strenuamente alle malattie, ed anche prevenirle con ben precisi strumenti

medici”. Connesso a tale atteggiamento nei confronti della natura, va considerato l’avvio di

imponenti opere di bonifica e risanamento dei luoghi malsani, che inizia a partire dalla Repubblica

insieme con la costruzione di terme, bagni e acquedotti.

Permane nel mondo antico la concezione olistica dell’essere umano, chiaramente riflessa

nell’impostazione della medicina, che considera strettamente interconnesse la personalità e la

fisiologia delle persone. Tale impostazione è particolarmente evidente in Galeno, per il quale gli

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umori di cui si compone l’organismo umano non hanno solo una connotazione di fluido biologico,

ma anche caratteriale, così come dipendono dall’ambiente fisico e sociale di riferimento: la rabbia,

ad esempio, può incrementare il flusso di bile nera, così come l’ambiente può accrescere il flusso di

bile nera di una persona e renderla così nervosa (Glouberman, 2005, p.13).

4. Il medioevo: il modello teologico

Con il medioevo inizia la tendenza allo sconfinamento del conoscibile nel campo dell’inconoscibile:

in primo piano passa Dio e il trascendente. La cultura religiosa incoraggia i singoli ad assumere una

responsabilità diretta delle proprie azioni e dunque della propria salvezza, alimentando l’idea di

separazione tra il corpo e l’anima e tra la nozione di identità personale e la posizione ricoperta in

ambito familiare/sociale/politico. L’anima viene vista in opposizione al corpo, prigione dell’anima e

ostacolo al suo cammino verso Dio.

Il distacco nei confronti della corporeità, che arriva fino al disprezzo, mette in discussione le

pratiche assistenziali tradizionali fondate sull’unità del corpo e dello spirito. Le donne che prestano

assistenza sanitaria diventano il primo bersaglio dell’inquisizione cattolica, giacché detengono una

conoscenza vissuta del corpo, connessa all’esperienza della maternità e alla pratica quotidiana delle

cure per il mantenimento della vita (Nucchi, Ledonne, 2004, p.170). Si sviluppa un nuovo apparato

di conoscenze mediche controllato dalla chiesa, che rinnega con accanimento il sapere delle

guaritrici e dichiara che qualsiasi donna osi dispensare cure senza aver effettuato gli studi di

medicina è strega, alleata del demonio, e, dunque, da sopprimere (Colliére, 1992, p.32). Medico e

paziente, malattia e terapia vengono considerati secondo la prospettiva religiosa; la chiesa si

appropria della facoltà di decidere ciò che è buono o cattivo per l’anima e per il corpo, limita le

pratiche di igiene, perché connesse al contatto corporeo e stabilisce cosa sia utile per curare ed

assistere. I medici, obbligati al celibato fino al 1452, possono curare solo i malati che si confessano,

e soltanto con il consiglio di un sacerdote (Nucchi, Ledonne, 2004, p.170).

Nella concezione cristiana dell’epoca, il mondo naturale, in quanto da Dio creato (e da Dio solo

conoscibile), è oggetto del massimo rispetto e il corpo se, da un lato, è oggetto di disprezzo in

quanto fonte di peccato, dall’altro lato è sacralizzato, in quanto creazione divina. Questo spiega i

severi divieti nei confronti della dissezione anatomica, che peraltro impediscono significativi

progressi nelle conoscenze mediche. La malattia è vista come un fatto naturale, connaturato alla

fallibilità dell’uomo; l’idea di una salute totale e di una vita priva di sofferenze è considerata

illusoria e persino pericolosa (von Engelhardt, 2000, p.9). La nuova visione della malattia e della

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sofferenza condiziona fortemente la pratica medica, dove prevalgono atteggiamenti di

rassegnazione e preghiera piuttosto che di tensione verso la guarigione; del resto questa avviene ad

opera della grazia divina.

Coerentemente con la nuova impostazione, scompare il modello dei valetudinaria e, con il crollo

dell’impero romano, viene a mancare un sistema organico di assistenza sanitaria. Nuovi ospedali

vedono la luce, ma sulla base di iniziative spontanee e locali, senza una regia centrale che stabilisca

indirizzi e priorità, con una valenza di assistenza spirituale più che medica: carenti sotto il profilo

delle condizioni igieniche e strutturali e della qualità dell’assistenza prestata, sono invece ricchi di

sculture, pitture ed opere d’arte. Queste, probabilmente, hanno anche una valenza terapeutica. I

documenti biografici dell’epoca testimoniano come, per alleviare le sofferenze, si faccia ampio

ricorso a raffigurazioni del Crocefisso, mentre durante le operazioni chirurgiche, che si svolgono in

condizioni estremamente dolorose, vengano letti ad alta voce brani del Vangelo e della vita dei

martiri, così come per curare le malattie psichiche e per effettuare i salassi si ricorra ad opere

letterarie (von Engelhardt, 2000, p.12).

5. L’età moderna: il modello positivista

Con l’età moderna la prospettiva teologica del medioevo viene secolarizzata: passano in primo

piano la vita terrena e l’individuo. Nel 1316, con l’esecuzione della prima dissezione sistematica di

un cadavere, si inaugura una nuova cultura nella storia della medicina: un approccio conoscitivo,

scientifico, razionale alla corporeità umana e nello stesso tempo sua oggettivazione, riduzione del

rapporto intersoggettivo medico-paziente al rapporto soggetto-oggetto.

La scissione tra corpo e spirito si accresce nel corso del Rinascimento, per divenire massima nel

diciassettesimo secolo, con la visione cartesiana di uomo come anima separata dal corpo ed isolata

dal mondo esterno;2 tale visione si rivela pregna di conseguenze sull’approccio che caratterizza sia

la teoria che la pratica medica.

L’ideale dell’oggettività e della tecnica comincia a pervadere la medicina, l’idea di salute e malattia

e la relazione tra medico e paziente. Si affermano le interpretazioni iatromeccanica e iatrochimica

della medicina, che tentano di applicare ai processi fisiologici leggi e regole proprie dei corpi

inorganici: la prima cerca la spiegazione di tutti i fenomeni biologici nell’ambito di regole di

meccanica e matematica; la seconda interpreta la malattia come un’alterazione dell’equilibrio

chimico tra acidi e basi che caratterizza l’organismo umano. L’elaborazione di queste teorie in una 2 Dopo Cartesio, l’isolamento esistenziale dell’uomo verrà assunto ed esplorato da numerosi filosofi, da Locke ai moderni esistenzialisti; separazioni e dicotomie saranno un dato fondante della modernità.

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cornice bio-meccanica dominerà la cultura medica per i successivi trecento anni. Essa poggia sulla

visione baconiana e galileiana di un mondo naturale ordinato, descrivibile nei termini delle leggi

fisico-matematiche, che può essere interamente conosciuto e controllato dall’uomo. Da questo

discende che tutte le malattie e le loro cause possono essere identificate, e le terapie chirurgiche e

farmaceutiche possono restituire il perfetto funzionamento del corpo.

La modernità si nutre di una fiducia profonda nel perfezionamento lineare, in un progresso senza

limiti, che il Positivismo e l’Illuminismo nutrono coerentemente. Il credo in un progresso scientifico

in continuo e inesorabile avanzamento, tale da portare l’uomo ad un totale dominio della natura,

raggiunge il suo culmine nel diciannovesimo secolo, quando imponenti opere di bonifica e

igienizzazione consentono miglioramenti drastici delle condizioni di vita e di salute degli uomini, e

i lavori di Kock e Pasteur forniscono la definitiva consacrazione del modello chimico-meccanico,

tanto che alcuni storici fanno risalire ad essi l’inizio della moderna medicina scientifica

(Glouberman, 2005). Il modello bio-chimico-meccanicistico reca alla clinica una messe di

acquisizioni fondamentali, che daranno luogo ad un sempre più ricco bagaglio terapeutico, ma

contribuisce all’affermarsi di una nozione frammentata e prevalentemente analitica, non anche

sintetica, dei processi morbosi e dei loro rimedi, e ad una sempre maggiore focalizzazione sulle

componenti somatiche delle patologie a scapito delle componenti psicologiche e antropologiche. Ne

consegue un grosso sviluppo dell’interventismo terapeutico, favorito da una serie di conquiste

importanti: dalla scoperta dei cosiddetti gas esilaranti in funzione anestetica, che vanno a

rimpiazzare la biblioterapia e l’anestesia spirituale del medioevo, alla conquista di pratiche

igieniche che aprono nuove frontiere alla chirurgia.

Al medievale nichilismo della terapia si sostituisce un ipertrofico interventismo terapeutico,

farmacoterapico e riparativo. Questo poco giova rispetto al nichilismo della cura: il rapporto

medico-paziente ne esce impoverito e la medicina comincia ad acquisire quel carattere riduzionista

che gli sarà poi spesso contestato. Si assiste, dunque, alla progressiva eclissi di una scienza medica

filosofica, considerante l’uomo nella sua unitarietà e globalità.

In questo scenario, i vecchi asili e tutti gli altri luoghi di cura iniziano a trasformarsi in strutture con

servizi di assistenza sempre più avanzati, grazie anche all’introduzione dei laboratori per le analisi

cliniche e delle sale operatorie. Vengono costruiti nuovi ospedali sulla base di esigenze di clinica e

ricerca, non più di carità, lasciandone all’iniziativa di medici e ricercatori la gestione e

l’organizzazione (Campana e Olivero, 1992). In coerenza con la matrice scientifica che ne ispira la

concezione, gli ospedali vengono progettati secondo le regole dell’igiene e dell’ingegneria

ospedaliera e strutturati in modo da ricalcare gli indirizzi della ricerca e la suddivisione in discipline

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di insegnamento universitario. Tale modello organizzativo, se è funzionale al perseguimento di

obiettivi di specializzazione e di ricerca, e favorirà notevolmente lo sviluppo delle conoscenze in

campo medico, induce a focalizzare l’attenzione sulla prestazione piuttosto che sulla domanda, sulla

malattia piuttosto che sul malato, considerato nell’insieme dei suoi bisogni. Ciò è perfettamente in

linea con la concezione scientifica di medicina e la visione ontologica del malato che si è andata

progressivamente affermando.

6. Dal modello post-unitario della salute pubblica al modello mutualistico del periodo fascista

Sul finire del diciannovesimo secolo si comincia a considerare in maniera critica la concezione

moderna di uomo. Nietzsche e Wittgenstein, tra gli altri, mettono in discussione la nozione di anima

separata dal corpo, pervenendo ad una più ricca visione dell’individuo come frutto di molteplici

connessioni. Non più separazione, ma interdipendenza, confronto.

Questa concezione trova riscontro in una certa evoluzione in senso post-moderno della visione di

salute e di sanità, nel senso di un’impostazione più umanistica dell’assistenza sanitaria e in una

nuova attenzione verso le cause sociali e ambientali delle malattie, che si traduce in una visione di

tutela della salute intesa principalmente come tutela della salute collettiva, con particolare

attenzione ai profili della vigilanza igienico-sanitaria. Alla ancora incompleta efficacia delle terapie

mediche si sopperisce con una interventistica impegnata e allargata, rivolta verso una pluralità di

possibili cause e concause. Le tattiche mediche individualizzanti vengono tipicamente inserite in

una strategia medico-sanitaria complessiva. Si afferma un’idea di medicina sociale, che si impegna

ad incidere sulla catena delle cause morbose.

L’impianto legislativo della prima organizzazione sanitaria, che si accompagna all’instaurazione

dello Stato unitario, colloca i compiti pubblici attinenti all’igiene all’interno della più ampia

nozione di polizia locale e, dunque, attribuisce le funzioni pubbliche per la tutela della salute

collettiva al Ministero dell’Interno e al suo apparato periferico dell’amministrazione, costituito da

prefetti, sottoprefetti e sindaci. La tutela della salute del singolo cittadino, che non ha ancora il

riconoscimento di bene pubblico, viene lasciata alla vocazione solidaristica e di assistenza agli

indigenti delle istituzioni presenti sul territorio: una statistica del 1896 stima in oltre 23.000 gli enti

privati - ospedali, case di riposo, opere pie - presenti sul territorio nazionale, che a fine secolo

vengono trasformati in “Istituti pubblici di assistenza e beneficenza”.

Tale evoluzione subisce una brusca frenata in relazione ad alcuni sviluppi farmacologici e

tecnologici. La scoperta degli antibiotici affianca alla certezza eziologica del tardo ottocento circa

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gli agenti biologici causali delle malattie infettive la certezza terapeutica circa i farmaci che le

debellano, riportando in auge la concezione dualistica della malattia, tipica dell’ottocentesca

batteriologia trionfante, come incontro-scontro tra due opposte entità: il microrganismo patogeno e

il macroorganismo sano. Il progresso tecnologico produce, al di là degli indubitabili benefici, un

distanziamento tra il medico e la realtà antropologica del paziente, impoverendo ulteriormente la

relazione, determinando un sempre più evidente sbilanciamento in senso tecnocratico della scienza

medica.

Tali sviluppi determinano un disimpegno dalla realtà socio-ambientale della malattia e della salute,

portando ad una ridotta o scarsa sensibilità verso le patologie di comunità e di ambiente, con esiti

spesso inappropriati della medicina nel sociale (burocratizzazione) (Cosmacini, 1994, p.69). A

questo si aggiunge il bellicismo scientifico dell’ideologia fascista, che si traduce, nelle scienze

medico-biologiche, in un modello di sanità fisica e di normalità psichica, nonché di robustezza

fisiologica e purezza razziale, perfettamente complementare al modello, emergente dalle scienze

matematico e fisiche, di “macchinismo esatto, ingegnoso e potente” (Cosmacini, 2005, p.421).

In corrispondenza di tali trasformazioni, l’assistenza sanitaria evolve in direzione di un sistema

mutualistico, ispirato a criteri di pura e semplice assicurazione della malattia e non anche di

promozione della salute.

Nel complesso, l’esperienza mutualistica è oggetto sia di pesanti critiche che di giudizi assolutori.

Quello che per alcuni è un positivo adeguamento alle tante specificità del Paese, per altri non è che

un cedimento ai tanti particolarismi tutelati, così quella che per taluni è un’apprezzabile

articolazione interna, da talaltri è definita “una sconnessa farragine” (Cosmacini, 1994, p. 114), a

chi sottolinea come il sistema abbia contribuito a far rimontare ai meno abbienti il dislivello che li

separa dai più abbienti di fronte alle malattie, si evidenzia come l’esclusione dei disoccupati o

sottoccupati vada a colpire proprio quelle categorie di cittadini che avrebbero maggiore necessità di

una tutela, e non solo a titolo di poveri (Illuminati, 1970, p. 28), così come la celebrata espansione

delle risposte ai bisogni sanitari della popolazione, per alcuni non è altro che l’ipertrofia di “un

oggetto privilegiato di sottogoverno” (Cosmacini, 1994, p. 116).

Più che spingersi in questa sede ad una valutazione dell’esperienza, ci interessa porre in evidenza

l’inversione di tendenza che questa fa segnare rispetto all’evoluzione post-moderna delle coordinate

culturali di riferimento.

I due pilastri su cui poggia il sistema mutualistico sono, infatti, da un lato la medicina scientifica, e,

dall’altro, il paradigma burocratico, che è alla base della visione tradizionale di pubblica

amministrazione. Se la prima ha una forte carica disumanizzante, conducendo ad un modello di

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tutela della salute prevalentemente ospedaliero, specialistico, farmacologico, anche la seconda è in

perfetta sintonia con la visione naturalscientifica dell’uomo e dei suoi rapporti col mondo esterno: la

pervasività di norme impersonali e procedure formali volte a contenere la varianza e ridurre la

complessità lascia presumere la possibilità di un controllo e dominio totale dell’organizzazione; il

trionfalismo funzionale e la parcellizzazione del lavoro sono specchio della negazione sistematica

della indispensabilità relazionale con l’altro (Minghetti, Cutrano, 2006, p.218) e riflettono una

concezione dell’uomo riduzionista e oggettivizzante.

7.1 Il trentennio ’50-’70: il modello burocratico-universalista

Nel ventesimo secolo, l’idea di un ordine meccanicistico prestabilito, agli occhi degli scienziati

come dei poeti, comincia ad apparire inadeguata, in quanto offre, del mondo, un’immagine che non

corrisponde all’esperienza reale: vi sono aspetti dell’esperienza che non si possono spiegare in base

alla teoria di un mondo perfetto, regolato come il meccanismo di un orologio; l’universo è qualcosa

di più complesso, governato da una razionalità non lineare. Gli scienziati iniziano ad osservare che

il mondo osservato e l’osservatore interagiscono (Heisenberg). Le “tre ferite narcisistiche inferte

all’uomo” (Freud) - la scoperta delle geometrie non euclidee, i paradossi che minano i programmi di

fondazione della logica matematica, la scoperta dell’inconscio - mettono in crisi il paradigma della

scienza moderna.

A questa temperie culturale si aggiungono alcuni sviluppi in campo epidemiologico ed

epistemologico. A seguito dell’utilizzo indiscriminato degli antibiotici i processi morbosi tendono a

cronicizzarsi anziché risolversi, trasformando la lotta tra farmaci e germi da battaglia risolutiva a

guerriglia protratta senza vincitori né vinti (Cosmacini, 1994, p.34). In aggiunta, accanto al

recedere delle malattie acute-infettive si assiste allo sviluppo di nuove patologie, generate da cause

complesse, molteplici e in parte sconosciute, per le quali non sono noti farmaci risolutivi.

L’epistemologia della medicina comincia a vivere, inconsapevolmente, la transizione da un criterio

di causalità forte, tipico delle malattie infettive del passato, a un criterio di causalità debole, tipica

delle malattie degenerative del presente.

La visione trionfalistica del progresso comincia gradualmente a venire messa in discussione man

mano che cresce la consapevolezza dei rischi determinati dallo sfruttamento della natura. La

constatazione della vulnerabilità e fragilità di quella che viene chiamata risk society favorisce la

progressiva affermazione di una visione più complessa e moderata della relazione dell’uomo con la

natura non di controllo e dominio, ma di armonia e interdipendenza.

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Tutte queste evoluzioni fanno da sfondo ad una serie di istanze che tra gli anni sessanta e settanta

vengono messe in campo dai cosiddetti “movimenti per la salute”: istanze per il miglioramento

delle condizioni di vita e di lavoro, per la tutela dell’ambiente, per la prevenzione delle malattie, per

il rinnovamento della medicina. Comincia a prendere piede l’idea dell’unità e globalità

dell’assistenza sanitaria, cresciuta sulla scia della “liberazione dal bisogno” propugnata dalla Carta

Atlantica (1941), dell’“assistenza sociale dalla culla alla tomba” sancita dal piano Beveridge (1942),

della salute come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplice assenza di

malattia”, definita nella costituzione dell’OMS (1948).

In Italia, dopo un lungo e travagliatissimo percorso di studio e riflessione, vedono la luce la riforma

ospedaliera (legge n.132/1968) e, a distanza di dieci anni, quella sanitaria (legge n.833/1978), che

istituisce il Servizio Sanitario Nazionale.

Le innovazioni introdotte dalla 833 lasciano invariata, sul versante gestionale, l’impostazione

amministrativista, e vanno ad agire sul versante medico-sanitario, recependo le nuove concezioni di

salute/malattia e di medicina, a loro volta riconducibili alle istanze più nuove del dibattito culturale

post-moderno: al recupero della dimensione ecologica si può collegare l’obiettivo di spostamento

del baricentro della tutela pubblica dalla cura alla salute, e dunque di deospedalizzazione e

rafforzamento dei servizi territoriali (in particolare attuazione della prevenzione); alla visione più

complessa di uomo si può ricondurre l’obiettivo di recupero della soggettività, attraverso il concetto

di continuità delle cure e di integrazione ospedale/territorio.

Lo spirito informatore di tali riforme viene, però, nei fatti in buona parte tradito e gli obiettivi posti

vengono solo parzialmente raggiunti. La prevenzione, esaurita la stagione della forte committenza

sociale, si riduce alla sola profilassi delle malattie infettive, tramite le vaccinazioni, e alle diagnosi

precoci. Quel poco che si fa, nelle realtà più evolute, si appiattisce sul modello naturalscientifico.

Considera gli stili di vita come se fossero cause monofattoriali imputabili all’arbitrarietà dei

soggetti, prepara programmi che riducono il rapporto epidemiologia/prevenzione ad alcune

classiche malattie, trascurando importanti raccomandazioni da parte della comunità internazionale.

La rete ambulatoriale, la riabilitazione, l’assistenza domiciliare, le case protette conoscono uno

sviluppo assolutamente marginale e burocratizzato. Il medico di base è visto per lo più come un

prescrittore di farmaci, visite specialistiche e ricoveri. L’ospedale continua ad essere l’unico perno

su cui ruota l’intero sistema, in assenza di un retroterra assistenziale capace di esercitare

efficacemente una funzione di filtro in entrata e agevolare le dimissioni in uscita. La

deospedalizzazione si realizza, ma nel senso di diffusione del day hospital più che dell’assistenza

domiciliare. Oltretutto, non essendosi sviluppata un’adeguata cultura della salute, il cittadino si

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accorge della sanità solo quando è ammalato e, allora, esige il ricovero in ospedale. L’integrazione

ospedale/territorio, così come la continuità delle cure, rimane una pia illusione, e anche quando

vengono messe in campo soluzioni organizzative tecnicamente integrate, il pensiero operativo che

le abita continua ad essere disarticolato e frammentato.

Le ragioni di ciò sono di natura concettuale, prima ancora che tecnico o amministrativo: il

provvedimento non interviene culturalmente sui protagonisti della riforma. Viene attuato senza il

coinvolgimento degli assistiti, senza promuovere l’educazione alla salute o l’autoeducazione

sanitaria. Analogamente, non vengono coinvolti i “curanti” e non viene proposto un riassetto degli

studi di medicina, il cui ordinamento dipende dal Ministro della Pubblica Istruzione e non dal

Ministro firmatario della legge 833, che pure è garante della salute collettiva. Il modello formativo

delle facoltà di medicina è informato a paradigmi istruttori, addestratori, nozionistici e teorici,

inadeguati a fornire una formazione umana completa (Cavicchi, 2008, p.255).

Ovviamente, se non si aggiornano gli apparati concettuali della medicina, non si possono

modificare gli statuti ontologici e scientifici delle organizzazioni (a partire dall’unità di base, ossia

la relazione medico-paziente) e, dunque, non si riescono a creare condizioni di integrabilità a livello

concettuale, propedeutiche ad un intervento organizzativo profondo e complesso (Cavicchi, 2008).

La riforma del ‘78 non ripensa l’ospedale, le idee, le scelte che questa forma storica ha giustificato,

e si limita ad affiancare ai servizi ospedalieri nuovi servizi territoriali al di fuori di essi, ritenendo

semplicisticamente di poter realizzare l’integrazione in un momento successivo, attraverso

interventi atti a favorire la continuità delle cure.

Ma è impensabile perseguire la continuità delle cure, quando l’ospedale fonda il suo potere e la sua

continuità organizzativa sulla discontinuità: discontinuità fra il tempo e lo spazio della cura e il

tempo e lo spazio quotidiano, fra il razionale e l’irrazionale (Bordogna, 2004, p.90). Tale

discontinuità non è casuale, bensì frutto di una certa visione scientifica della malattia, che deve

essere separata dal luogo di vita, e di una certa visione del rapporto medico-malato, come di una

giustapposizione, non relazione, tra soggetto osservante e oggetto osservato. L’integrazione dunque

si riduce a una mera somma o giustapposizione di due entità distinte e distanti: il distretto, che è

orientato verso dei soggetti (donna, bambino, anziano, ecc.) e offre i servizi sul territorio, in una

relazione di contiguità con la comunità; l’ospedale che si rivolge al malato come oggetto e segna

una netta rottura con il territorio.

Dunque la cultura professionale rimane ancorata ad una settorialità che, sul piano assistenziale, si

traduce nel mito della specializzazione, mentre, sul piano organizzativo continua a concepire un

sistema di servizi a compartimenti stagni, e quindi si sposa con il paradigma burocratico. Questo,

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pur essendo agli antipodi della visione umanizzante perseguita, viene riproposto integralmente dalla

riforma.

Le conseguenze disumanizzanti del modello burocratico sono evidenti. La specializzazione

funzionale, se consente una maggiore efficienza, comporta una “perdita di unitarietà della gestione,

dovuta alla scomposizione rigida della struttura in servizi tra loro impermeabili” (Corradini, 1996,

p.21). Dunque, “l’onere della ricomposizione dell’offerta in un processo unico e coordinato

…[ricade] sull’utente, il quale è costretto a passare da un servizio all’altro per acquisire le singole

componenti del processo, senza che il raccordo sia elaborato in maniera forte dall’azienda” (Longo

e Ripa di Meana, 1995, p.22). Per di più, la mancanza di posizioni manageriali con forti competenze

interfunzionali - nei distretti, dipartimenti e presidi ospedalieri - genera un sovraccarico operativo al

livello del vertice, che va a scapito di un suo impegno allo sviluppo di una riflessione strategica di

insieme e di una responsabilità di direzione generale dell’azienda. Tipicamente, si viene a creare un

circolo vizioso, in virtù del quale l’accentramento gestionale scoraggia ulteriormente la capacità di

risolvere autonomamente i problemi locali, accrescendo il sovraccarico operativo del vertice. Il

burocraticismo permea di sé anche la professione medica: la norma burocratica ne definisce i

compiti come se fossero quelli di un funzionario, che gode di un’autonomia burocratica con

responsabilità burocratiche (Cavicchi, 2008, p.174).

7.2 Il ventennio ’80-’90: il modello aziendale

Nei primi anni ’80 si aprono nuovi spazi per il management, dovuti ad una serie di fattori

concomitanti: la vittoria della linea reaganiana-tatcheriana in quasi tutto l’Occidente; la diffusione

progressiva e generalizzata del discorso manageriale nel settore pubblico, in relazione al trend

riformistico inaugurato dalla Gran Bretagna; la perdita di legittimazione da parte della politica,

dovuta alla gestione partitica e lottizzatoria delle USL; l’emergere della Regione in qualità di

azionista prevalente, che rende il contesto sanitario pubblico meno complesso e più simile a quello

privato, con una proprietà definita e chiaramente identificabile (Del Vecchio, 2008, p.4).

A fronte di questi sviluppi, si spreca l’opportunità di introdurre strumenti di responsabilizzazione e

autonomia sostanziali per il miglioramento del sistema sanitario, perché, tra l’altro, si manca di

promuovere lo sviluppo di un contesto culturalmente idoneo a recepire concettualmente le novità di

un’impostazione aziendale. Lo stesso legislatore riconduce le categorie aziendalistiche all’interno

della concezione di matrice squisitamente giuridica dell’amministrazione. I provvedimenti attuati,

pur numerosi e consistenti, in buona parte recepiscono un’idea astratta dell’azienda, che,

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paradossalmente, ben si allinea alle coordinate concettuali del modello positivista: l’idea

riduzionista di uomo che domina un mondo naturale ordinato si traduce a livello manageriale in un

modello gerarchico di governo monocratico onnipotente, basato sul command and control e piegato

ai miti del razionalismo e del tecnicismo. Si tratta di idee tanto lontane dalla frontiera degli studi

sull’azienda pubblica, quanto superate nel mondo delle imprese private; idee che, in quanto capaci

di forti suggestioni e sempre popolari in una certa letteratura Manageriale, oleografica e stilizzata, ci

piace definire “miti”.

Il mito del monocentrismo

Da un lato, gli studiosi aziendalisti suggeriscono per le aziende sanitarie modalità di governo soft,

ispirate all’idea di governance, fondata sulla mediazione tra differenti razionalità e su un processo

di co-produzione che coinvolge i diversi soggetti, in contrapposizione all’idea di government,

implementazione autoritativa, centralistica e mono-razionale di regole prestabilite, dall’altro lato il

legislatore del ’92, operando una scelta del tutto originale rispetto agli altri Paesi europei, struttura

le aziende sanitarie secondo un modello di ipergovernment, dove il governo è esercitato da un

organo monocratico nominato, non delegato, dal soggetto politico (soggetto, peraltro, debole e in

crisi di legittimazione) e non esiste l’equivalente di un consiglio di amministrazione, né alcuna

forma di dialettica tra la rappresentanza degli interessi e il direttore generale.

Tale impostazione, volta a favorire l’unitarietà della gestione, si porta dietro la necessità del

comando (attraverso il quale il manager impone il proprio ordine all’organizzazione) e del controllo

(attraverso il quale verifica che l’ordine sia perseguito e mantenuto), ed è collegata all’introduzione

di meccanismi di finanziamento maggiormente responsabilizzanti.

Tutto questo favorisce un forte individualismo organizzativo, ossia una forte focalizzazione sul

funzionamento interno dell’organizzazione, a discapito dell’orientamento al processo e

all’integrazione interorganizzativa. Ciò rende difficile lo sviluppo di forme di cooperazione

interorganizzativa e l’introduzione di modalità evolute di gestione per processi, o l’attuazione di

interventi, che pure la normativa prevede, rivolti in tale direzione: ad esempio, l’introduzione,

prevista dalla normativa, di aggregazioni organizzative di notevole ampiezza - i dipartimenti -

avviene tipicamente mediante l’aggregazione di unità operative preesistenti, anziché attraverso

l’aggregazione di parti di tali unità operative secondo una logica processuale: piuttosto che

“tagliare” trasversalmente l’organizzazione nel rispetto delle modalità di sviluppo dei processi, si

tende a riprodurre, anche se su una scala più ampia, il modello specialistico-funzionale (Cantarelli,

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1999). I nuovi meccanismi di finanziamento stimolano l’economicismo clinico e il consumismo

sanitario.

Il mito del razionalismo

Da una parte, la letteratura manageriale concettualizza le aziende sanitarie come sistemi che

apprendono e si trasformano attraverso l’azione di una pluralità di soggetti (interni ed esterni),

seguendo processi di evoluzione e autocorrezione; dall’altra parte, i provvedimenti applicati in

sanità sottendono un modello razional-comprensivo, centrato sulla definizione di strategie

finalistiche, le quali sono elaborate e implementate dalle aziende sanitarie sulla base di un’analisi

razionale (imperniata sulle relazioni mezzi-fini). Tali aziende sono concettualizzate come “unità

produttive” che producono “outputs” misurabili, i quali hanno un “impatto” (producono “costi” e

“benefici”), dando luogo ad “outcomes”.

Tale impostazione non produce, secondo molte analisi, “un significativo miglioramento della

gestione, della sua capacità di adeguarsi all’evoluzione dell’ambiente, del grado di successo nel

raggiungere gli obiettivi” e si risolve in un esercizio astratto o in un mero adempimento burocratico

(Anessi Pessina, Pinelli, 2003).

Il mito del tecnicismo

Gli studiosi dell’azienda sanitaria considerano riduttiva una governance focalizzata sulle sole

variabili economiche e superano la concezione di attività amministrativa neutrale, teorizzata da

Weber, in favore di una concezione strumentale, in base alla quale la dirigenza pubblica deve

contribuire al processo di definizione degli obiettivi strategici, ponendosi in un rapporto di

interazione (ossia di distinzione ma al contempo di reciproca influenza) con i politici.

Cionondimeno, l’idea della scientificità e neutralità dei metodi manageriali ha un incredibile appeal

in Italia, dove la natura tecnica dell’esperienza manageriale è considerata come un antidoto morale

alla degenerazione della politica; dunque, il nostro legislatore sancisce in maniera netta la

separazione tra politica e amministrazione. Ciononostante, la valorizzazione della relazione

personale tra politici e figure dirigenziali apicali, che teoricamente risponde all’esigenza di

coniugare il binomio autonomia-responsabilità, nel contesto della sanità italiana applicata al

rapporto tra politici e direttori generali, sembra risentire della diversa ambientazione, finendo spesso

per diventare uno strumento di rafforzamento del controllo politico sulla burocrazia (Longobardi,

1999, p.182).

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7.3 Il nuovo millennio: il governo clinico

Nel complesso, le innovazioni in senso aziendale introdotte nel ’92 vengono fagocitate da

concezioni, che potremmo definire di positivismo manageriale, totalmente superate negli studi

sull’azienda privata. È a tale aziendalismo mal concettualizzato e peggio praticato, e non all’azienda

in sé, che possono imputarsi gli scarsi risultati conseguiti. Questi forniscono slancio a sentimenti di

avversione all’azienda, che prefigurano un ritorno alle antiche pratiche burocratico-

amministrativiste, sempre più rassicuranti della responsabilità manageriale. A tali sentimenti anti-

aziendali si abbina una nuova temperie culturale: le riforme Clinton e Blair in direzione dello stato

sociale tendono soppiantare l’ideologia tatcheriana-reganiana, mentre gli sviluppi tecnologici

influiscono sul concetto di medicina, accentuandone il carattere di prassi clinica mediata da

strumenti e macchine.

In tale scenario, la riforma del ‘99 tenta di ripristinare lo spirito informatore della 833, e in tal senso

va interpretato il coinvolgimento degli enti locali e dei loro organi di rappresentanza (la conferenza

dei sindaci) nel processo di valutazione del direttore generale, così come l’imposizione agli ospedali

di requisiti assai stringenti per la trasformazione in azienda e la previsione della possibilità che la

regione non confermi il riconoscimento dell’autonomia alle aziende ospedaliere, riportandole così

nell’ambito dalla ASL.

Il modello di clinical governance, lanciato dalla riforma ter, è un tentativo di risposta all’erosione

dell’autonomia professionale determinata dall’economicismo aziendale e comporta il

coinvolgimento dei clinici nella gestione, in un quadro di managerialità diffusa, all’interno di una

catena di responsabilità che collega al raggiungimento di obiettivi definiti la corresponsione della

retribuzione accessoria e al mancato raggiungimento degli stessi la revoca dall’incarico dirigenziale.

Nel senso di un ridimensionamento degli eccessi monocratici va interpretata anche la significativa

valorizzazione degli organi di integrazione intermedia (distretto e dipartimento), mediante il

riconoscimento di una specifica autonomia tecnico-gestionale ed economico-finanziaria.

Nonostante la sua impostazione lungimirante, anche la 229/99, senza un intervento culturale forte

sui soggetti, tende a ricadere sul “vecchio”; l’introduzione del governo clinico rischia di

assoggettarsi alla logica aziendale, portando ad una subordinazione della clinica alla gestione;

l’enfasi sulla valutazione e sul controllo di gestione rischia di condurre ad un economicismo clinico

ben più preoccupante dell’economicismo aziendale, in quanto compromette statutariamente i

fondamenti della medicina; il riduzionismo della statistica delle evidenze, delle linee guida e

dell’appropriatezza, finalizzate a governare, guidare e controllare la professione rendendo esplicito

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quello che è un sapere tacito, rischia di sfociare in un neoburocratismo clinico, che tradisce sfiducia

nei soggetti, ne minimizza la responsabilità e stimola atteggiamenti difensivi; analoghe reazioni può

ingenerare il principio di esclusività per i medici del servizio pubblico, che porta “quasi a

compimento un percorso che ha visto […] ridurre i margini di discrezionalità del professionista nel

mantenere attiva una duplicità di ruolo (di dipendente e di libero professionista)” (Foglietta, 1999,

p.2), percepito dai medici, specie i clinici universitari, come un regime coercitivo ed illiberale;

ancora, la collocazione dei dirigenti in un ruolo unico, distinto per profili professionali, e in un

unico livello, modulato in relazione alle responsabilità di gestione, se coglie il dato di complessità

del lavoro sanitario predisponendo una disciplina unica e plurale ad esso più confacente, offre

spazio a un neotaylorismo di ritorno, dovuto al fatto di adattare l’organizzazione del lavoro alle

esigenze di ruolo degli operatori e non viceversa, e, quindi, di fare del lavoro la giustificazione del

riconoscimento di responsabilità (Cavicchi, 2005, p.181); infine, il rafforzamento della

pianificazione centralizzata, volto a contenere differenziazioni e disomogeneità sul territorio, può

sfociare in un neocentralismo amministrativista.

8. Conclusioni

Dall’analisi condotta è possibile rilevare, pur con tutte le cautele e i limiti connessi alle

semplificazioni e schematizzazioni di idee complesse, che sino all’epoca moderna il progresso nel

dibattito culturale va di pari passo con quello medico-scientifico e sanitario: l’evoluzione delle idee

di uomo e dei suoi rapporti con la natura si riflette nell’evoluzione delle idee di salute/malattia, e

trova riscontro nel modello di medicina, il quale a sua volta modella su di sé le scelte di sanità.

Medicina e sanità per tanti secoli vanno di pari passo, trovando un punto di incontro e di sintesi

nella figura del medico.

Con il ventesimo secolo, le profonde trasformazioni, correlate agli sviluppi della scienza e della

tecnica ed alle mutate condizioni epidemiologiche, socio-economiche, politiche, arricchiscono e

rendono più complesso il dibattito culturale, il quale supera il positivismo riduzionista e il pensiero

dicotomico moderno, cedendo il passo al più complesso ragionare sulle interdipendenze.

Una nuova concezione olistica di salute, coerente con la più complessa visione di uomo e del suo

rapporto con il mondo naturale, inizia a prendere piede nelle società industrializzate, ispirando i più

recenti pronunciamenti internazionali e alimentando una stagione di riforme.

Anche nel nostro Paese viene accolta la nuova accezione di salute, come dimostrano gli ultimi

orientamenti giurisprudenziali. A fronte di ciò, la medicina, avendo perso la sua ispirazione

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filosofica, non avvia un processo di rinnovamento, preferendo arroccarsi su posizioni di scientismo

tecnicista, e. in questo modo. non “aiuta” i tentativi di rinnovamento del modello di tutela. Il mondo

della sanità invece, risentendo delle istanze di cambiamento provenienti dalla società e delle spinte

alla globalizzazione che investono anche l’ambito delle riforme sanitarie, cerca di dare risposte e,

quindi, comincia a distanziarsi progressivamente dalla scienza medica. A partire dalla seconda metà

del novecento, si viene a creare un profondo disallineamento concettuale tra i due mondi, sfociante

talora in aperto conflitto. Come rileva Cosmacini (1994, p.274), “proprio nel momento in cui si

vogliono collegare tra loro la prevenzione e la cura, l’educazione sanitaria e la terapia riparatrice,

medicina e sanità restano paradossalmente le due parti scisse di un tutto artificialmente diviso e

perciò privo di coesione interna, di forza unitaria, di portata globale”. Ed è proprio la mancanza di

coesione e forza unitaria alla base dei ripetuti fallimenti degli interventi riformatori, della loro

incapacità di produrre cambiamenti reali. Le tre riforme sanitarie introducono nuove categorie, ma

queste vengono inglobate nel pensiero vecchio: se sul versante medico-sanitario concetti come

prevenzione, deospedalizzazione, integrazione vengono metabolizzati all’interno del modello

riduzionista naturalscientifico, sul versante organizzativo-gestionale l’idea di gestione manageriale

e governo clinico vengono fagocitate all’interno della concezione burocratico-amministrativista.

Dunque il modello di tutela della salute pubblica non si allontana significativamente dal modello

mutualistico - ospedale-centrico, specialistico, farmacologico, burocratico - ed attraversa,

attualmente, una profonda crisi di dis-connessione con il sistema sociale e con la scienza medica.

Einstein, oltre mezzo secolo fa, disse che per uscire da una crisi bisogna evitare di ispirarsi agli

stessi paradigmi che l’hanno scatenata. Occorrerebbe, dunque, un cambiamento delle premesse

culturali per uscire dall’impasse, e cioè una revisione critica di priorità, collegata ad una

riconcettualizzazione in senso postmoderno dell’idea di uomo e dei suoi rapporti con la natura.

Questo significa recupero culturale di una concezione antropologica globale, dell’uomo sano-

malato e del suo mondo, e proiezione culturale verso il contesto naturale e sociale. Un orientamento

- potremmo definirlo antropo-ecologico - che non significa rinnegare le conquiste della modernità,

misconoscere i momenti positivi del modello naturalscientifico. Anche perché una estremizzazione

delle due coordinate culturali comporta seri rischi: il rischio che la bandiera dell’umanizzazione

rappresenti una copertura o una scappatoia per bassi livelli di professionalità (Ortigosa, 1991, p.34),

o dia spazio a medicine alternative e non meglio definibili saperi esoterici; in altre parole, il rischio

che la magia, cacciata dalla porta dalla moderna medicina scientifica, rientri dalla finestra,

configurando un ritorno all’età arcaica.

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Quello che si propone è un’Aufhebung, termine hegeliano che nella manualistica viene

infelicemente tradotto come superamento inglobante, fondato sulla capacità post-moderna di

ricomporre le antinomie.

L’aufhebung significa, sul versante medico-sanitario, coniugare la cura della medicina scientifica

con il prendersi cura della medicina antropologica. Un prendersi cura che significa anche stimolare

l’uomo malato all’autocura, dove questa sia possibile, e l’uomo sano ad un’autovigilanza. Si tratta

di concepire per il medico, o meglio per il gruppo curante, un ruolo che va oltre quelli

tradizionalmente descritti – paternalistico/informativo/interpretativo/deliberativo - un ruolo

educativo in senso socratico che consente al cittadino di diventare qualcosa più di un utente: un

garante della salute, un operatore. E analogamente si può contrastare il tecnicismo e il consumismo

dell’ipermedicalizzazione ristabilendo una connessione ecologica tra il sistema sanitario e

l’ambiente esterno. Tutto questo è possibile solo recuperando la connessione società-salute-

medicina-sanità.

L’aufhebung, sul versante organizzativo-gestionale, significa introdurre strumenti di

responsabilizzazione e autonomia sostanziali per il miglioramento del sistema sanitario,

valorizzando peraltro il contributo che può venire dai tre potenti automatismi che alimentano il

progresso moderno - la tecnica, il mercato, la burocrazia - ma reinserendo l’intelligenza

finalizzatrice dell’uomo nei meccanismi di intersezione di questi tre riduttori della complessità, che

hanno la caratteristica di essere astratti e unidimensionali, e recuperando il ruolo connettivo di un

management in grado di risoggettivizzare la modernità. Si tratta, in ultima analisi, di andare oltre il

managerialismo positivista, per valorizzare un approccio più complesso, una new public

governance che consenta di ristabilire la centralità dell’uomo, ricongiungere i mezzi ai fini,

contemperare logiche d’azione diverse da quelle strettamente economiche, come quelli del consenso

o del dialogo interistituzionale, recuperare un ruolo riflessivo per il management, perché possa

valutare le conseguenze della produttività tecnica, economica, normativa, e controllare i rischi di

una complessità che oltrepassa gli strumenti utilizzati per controllarla.

Realizzare un cambiamento profondo, che abbracci sia il versante clinico che gestionale, è un

compito complesso e multidimensionale; ci si limita in questa sede a sottolineare che, se è vero che

uno dei limiti della riforma è stato sinora il mancato intervento culturale sui soggetti, la formazione

gioca un ruolo fondamentale. La riforma ter, prendendo atto della debolezza della formazione di

base, prevede l’aggiornamento obbligatorio come elemento essenziale alla carriera e al

miglioramento del salario.

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Anche in questo ambito, tuttavia, occorre un profondo rinnovamento, che investa non solo i

contenuti, ma anche le metodologie. Quelle in uso sono tipicamente fondate sul paradigma

dell’insegnamento, dove il focus è sul formatore. Si tratta di un’impostazione perfettamente in linea

con il modello positivista nella medicina e nel management: il docente trasferisce informazioni a dei

soggetti passivi attraverso momenti rigidamente definiti all'interno di uno spazio e di un tempo che

separa i destinatari dalla loro attività lavorativa e li prepara per riportarveli dotati delle conoscenze

necessarie, queste viste come qualcosa di oggettivo presente nei soggetti, indipendentemente dalle

percezioni che essi stessi ne hanno.

Occorre passare al paradigma dell’apprendimento, progettando percorsi di formazione manageriale

coraggiosi, come l’IHML di Mintzberg, che tengono conto del modo in cui i discenti acquisiscono,

interpretano, riorganizzano, cambiano o assimilano mappe cognitive composte da informazioni,

skills, modi di pensare. Il focus è sui discenti, i quali contribuiscono a determinare i propri obiettivi

di apprendimento e a individuare le attività da svolgere, avendo accesso a variegate risorse

informative e strumenti; il percorso formativo alterna "aula e campo", dove il "campo" è

l'organizzazione, il contesto in cui si attiva il cambiamento, l’aula è il luogo dove le persone che

apprendono possono lavorare assieme e supportarsi l'un l'altro, nei momenti di progettualità diretta,

di predisposizione a monte e riflessione a valle, così come nei momenti di "raccolta" e

"costruzione" di conoscenze e messa in comune delle stesse; i bisogni formativi non esistono in

quanto tali, ma emergono in relazione ad un'esigenza di cambiamento e si definiscono attraverso

l'interazione tra i vari soggetti coinvolti; l’acquisizione di competenze/capacità non è l’obiettivo,

bensì il mezzo per raggiungere un obiettivo: il Cambiamento.

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