LEVERAGE E REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE A.A. … · dell’attivo minore del valore dei debiti. I...

19
1 LEVERAGE E REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE A.A. 2018-19 Elisabetta Montanaro Parte I IL LEVERAGE DELLE BANCHE 1 – LE BANCHE: ALCUNI FATTI STILIZZATI IMPIEGHI RISORSE Diritti della banca vs debitori (attività a valore variabile) PRESTITI E TITOLI Diritti dei creditori vs la banca (passività a valore monetario costante) DEPOSITI E OBBLIGAZIONI Diritti degli azionisti (valore residuo) CAPITALE Lo schema stilizzato presentato nella figura qui sopra illustra la specificità della struttura patrimoniale e finanziaria delle banche. Esse si finanziano in misura prevalente con debiti (depositi e obbligazioni) a valore monetario costante. Il capitale, ossia i diritti patrimoniali degli azionisti, misura, in ogni momento, il valore dell’attivo in eccesso rispetto al valore nominale dei debiti. Come noto, il capitale aumenta tramite il passaggio a riserve degli utili non distribuiti e/o mediante nuovi apporti dei soci; diminuisce quando si verificano perdite in eccesso rispetto ai ricavi netti (perdite di esercizio). Gli impieghi della banca, salvo la piccola quota rappresentata dalla tesoreria (liquidità), sono tipicamente rischiosi: il che significa che il loro valore può ridursi in uno scenario negativo più o meno probabile o prevedibile (ma anche aumentare, in uno scenario positivo). Ad esempio, i prestiti possono in parte non essere rimborsati nei tempi previsti, passando dalla categoria di prestiti regolari a quella di prestiti deteriorati. Questi ultimi ovviamente valgono meno, e infatti sono anche contabilmente svalutati mediante il calcolo di “rettifiche di valore”. Le perdite di valore dell’attivo riducono il reddito; se i ricavi netti sono inferiori alle perdite di valore, ossia l’esercizio chiude in perdita, questa perdita va a ridurre il capitale. Dopo che il capitale sia stato completamente azzerato (la banca è oramai insolvente e in assenza di interventi di ricapitalizzazione dovrebbe essere liquidata), le eventuali perdite in eccesso riducono il valore dell’attivo al di sotto del valore nominale dovuto ai creditori della banca. La gerarchia fra i finanziatori della banca nell’assorbimento delle perdite prevede infatti che esse gravino prima sul capitale e poi, se in eccesso, vadano a ridurre le risorse per il rimborso dei creditori. Questo significa che, tanto minore è il capitale, tanto maggiori sono le possibili perdite a carico dei creditori.

Transcript of LEVERAGE E REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE A.A. … · dell’attivo minore del valore dei debiti. I...

1

LEVERAGE E REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE A.A. 2018-19

Elisabetta Montanaro

Parte I

IL LEVERAGE DELLE BANCHE

1 – LE BANCHE: ALCUNI FATTI STILIZZATI

IMPIEGHI RISORSE Diritti della banca vs debitori (attività a valore variabile) PRESTITI E TITOLI

Diritti dei creditori vs la banca

(passività a valore monetario costante) DEPOSITI E OBBLIGAZIONI

Diritti degli azionisti (valore residuo) CAPITALE

Lo schema stilizzato presentato nella figura qui sopra illustra la specificità della

struttura patrimoniale e finanziaria delle banche. Esse si finanziano in misura prevalente con debiti (depositi e obbligazioni) a valore monetario costante. Il capitale, ossia i diritti patrimoniali degli azionisti, misura, in ogni momento, il valore dell’attivo in eccesso rispetto al valore nominale dei debiti.

Come noto, il capitale aumenta tramite il passaggio a riserve degli utili non distribuiti e/o mediante nuovi apporti dei soci; diminuisce quando si verificano perdite in eccesso rispetto ai ricavi netti (perdite di esercizio).

Gli impieghi della banca, salvo la piccola quota rappresentata dalla tesoreria (liquidità), sono tipicamente rischiosi: il che significa che il loro valore può ridursi in uno scenario negativo più o meno probabile o prevedibile (ma anche aumentare, in uno scenario positivo). Ad esempio, i prestiti possono in parte non essere rimborsati nei tempi previsti, passando dalla categoria di prestiti regolari a quella di prestiti deteriorati. Questi ultimi ovviamente valgono meno, e infatti sono anche contabilmente svalutati mediante il calcolo di “rettifiche di valore”. Le perdite di valore dell’attivo riducono il reddito; se i ricavi netti sono inferiori alle perdite di valore, ossia l’esercizio chiude in perdita, questa perdita va a ridurre il capitale. Dopo che il capitale sia stato completamente azzerato (la banca è oramai insolvente e in assenza di interventi di ricapitalizzazione dovrebbe essere liquidata), le eventuali perdite in eccesso riducono il valore dell’attivo al di sotto del valore nominale dovuto ai creditori della banca.

La gerarchia fra i finanziatori della banca nell’assorbimento delle perdite prevede infatti che esse gravino prima sul capitale e poi, se in eccesso, vadano a ridurre le risorse per il rimborso dei creditori. Questo significa che, tanto minore è il capitale, tanto maggiori sono le possibili perdite a carico dei creditori.

2

I creditori non sono tuttavia omogenei, dal punto di vista della tipologia di strumenti sottoscritti: il che significa che ci sono creditori che hanno rischi/rendimenti maggiori di altri. Esiste, in altre parole, una gerarchia di creditori, in base alla quale si stabilisce la priorità nell’assorbimento delle perdite eccedenti il capitale. Questa è una situazione comune per tutte le imprese, che per le banche assume, come vedremo particolare rilevanza, per il particolare peso del debito nella struttura finanziaria di queste imprese. Per una categoria speciale di creditori, ossia i depositanti al dettaglio (ossia i depositi il cui saldo è al di sotto di un ammontare, che in Europa è pari a € 100.000), le perdite sono coperte dall’assicurazione sui depositi. Questa istituzione dispone di risorse versate dalle banche stesse (assicurazione sui depositi privata, ma obbligatoria), la cui funzione è quella di rimborsare i depositanti assicurati in caso di insolvenza (liquidazione) della banca. L’assicurazione dei depositi, nella misura dei depositi rimborsati, si sostituisce a questa categoria di creditori della banca, in sede di liquidazione, percependo, se esistono, le somme che sia possibile incassare dalla liquidazione dell’attivo e quindi, recuperando pro-quota o integralmente, quanto ha pagato.

Come vedremo, per le banche, a differenza di altre imprese, la regolamentazione cerca di evitare la situazione di insolvenza tecnica, in primis, per l’impatto negativo che questa può comportare per l’economia, ma anche perché, quando la banca diviene insolvente, l’assicurazione dei depositi tenuta a rimborsare i depositanti può essa stessa divenire insolvente per mancanza di risorse sufficienti ad onorare i propri impegni. L’insolvenza (o il timore dell’insolvenza) dell’assicurazione dei depositi genera la propagazione della crisi a livello di sistema, con l’effetto di amplificarne enormemente i costi, fino a renderli ingestibili.

Per evitare l’insolvenza delle banche, occorrono quindi strumenti istituzionali che possano essere utilizzati per aumentarne il capitale - quando non siano più disponibili le normali soluzioni interne e/o esterne - per gli importi e nei tempi necessari ad assicurare la copertura delle perdite effettive e potenziali della banca. Tali strumenti sono i salvataggi esterni (bail-out) e/o interni (bail-in).

La regolamentazione del capitale delle banche è quindi strettamente legata alle regole sulla gestione delle crisi bancarie. Le soluzioni adottate per queste ultime, che riflettono, pro-tempore, la valutazione “politica” su quali siano i soggetti meritevoli di tutela in via prioritaria, e quindi condizionano le regole sul capitale delle banche.

2 - IL PROBLEMA DEL LEVERAGE DELLE BANCHE

La struttura finanziaria delle banche si caratterizza per l’elevato livello del leverage, che misura di quante volte il totale attivo (TA) è un multiplo del capitale (E): si definisce come TA/E1. Il valore del leverage varia molto da banca a banca e da paese a paese. Oggi per le banche europee possiamo assumere come indicativo un leverage medio pari circa a 18. Le banche italiane hanno un leverage un po’ inferiore alla media EU.

Se il leverage è 15, ponendo E = 100, avremo che TA = 1500, ossia con un moltiplicatore pari a 15 volte il capitale. Il che significa che la banca finanzia il proprio TA con il 6,666% (1/15) mediante capitale (E/TA) e con il 93,333% mediante debiti (1-E/TA = D/TA). Si definiscono i seguenti indicatori:

TA/E = leverage

E/TA (inverso del leverage) = coefficiente di leverage

D/TA = 1-E/TA = rapporto di indebitamento Un altro modo per esprimere il rapporto di indebitamento è:

1 Il significato dei simboli usati è: TA = Totale Attivo; D = Debiti; E = Patrimonio netto. Vale la relazione

contabile: TA = E + D.

3

D/E = TA/E – 1 Leverage, coefficiente di leverage, rapporti di indebitamento: sono tutti indicatori che

misurano in modo diverso la stessa cosa, ossia la struttura finanziaria della banca. Dato uno di essi, si calcolano tutti gli altri: TA/E = 15 E/TA = 6,666% D/TA = 93,333% D/E = 14

La specificità delle banche è evidente se si confronta la loro struttura finanziaria con quella delle imprese non finanziarie: quelle italiane, ad esempio, hanno un rapporto di indebitamento (D/TA) pari circa al 45% - che equivale ad un leverage pari a circa 1,8 - sono considerate sovra-indebitate e quindi eccessivamente rischiose.

La maggiore capacità d’indebitamento delle banche dipende, in parte, dal fatto che solo esse possono finanziarsi con depositi, ossia con passività che hanno funzione monetaria e che quindi beneficiano delle tutele previste dagli ordinamenti bancari a favore dei depositanti e a difesa del sistema dei pagamenti (assicurazione dei depositi; prestito di ultima istanza delle banche centrali). Questo però non spiega tutta la differenza. Anche escludendo i depositi, il leverage delle banche resterebbe molto più alto di quello delle altre imprese. La peculiare capacità d’indebitamento delle banche, confermata dal loro leverage elevato, si spiega per il basso rischio di fallimento che tradizionalmente ha caratterizzato questa categoria di intermediari finanziari.

Insolvenza: TA < D (concetto di insolvenza in senso tecnico) 2: il valore economico dell’attivo è minore del valore dei debiti. I debiti sono a valore monetario costante, mentre l’attivo può veder modificato il proprio valore per effetto di perdite derivanti dai rischi assunti dalla banca.

Si consideri una banca con un leverage di 20: dato TA, sarà: E = 5%*TA D = 95%*TA, dove D è costante.

Se TA perde di valore per una percentuale X, si genera una riduzione del capitale per lo stesso importo pari a TA*X. Quando l’aliquota di perdita è pari al coefficiente di leverage E/TA, ossia al 5%, la banca azzera il capitale; se è superiore, la banca diviene tecnicamente insolvente.

Se X > 5% TA (1-X) < D, dove D = 95%*TA

In termini stilizzati, la situazione di insolvenza significa che mentre gli azionisti hanno perso integralmente il loro capitale, il valore delle attività è insufficiente a rimborsare i creditori, i cui diritti di credito sono maggiori di quanto essi possono sperare di recuperare dalla liquidazione della banca. Definendo il valore nominale dei debiti della banca:

D = (1-E/TA) *TA Se il valore di recupero dei creditori in ipotesi di liquidazione è: (1-X) *TA, il tasso di recupero dei creditori3 può essere definito dal rapporto:

[(1-x) *TA] /[1-E/TA] *TA = [1-X] /[1-E/TA] < 1, se X > E/TA

2 Il concetto di insolvenza è diverso dallo stato di crisi, che si verifica di norma prima dell’insolvenza in senso

tecnico, quando il capitale scende al di sotto di determinate soglie critiche fissate dalle autorità di vigilanza. 3 Il tasso di recupero di un credito è dato dal rapporto, rispetto al valore nominale (capitale ed interessi) del credito, delle somme effettivamente riscosse dal creditore. Sarà pari ad 1 nell’ipotesi di integrale adempimento e/o recupero.

4

La perdita che è sufficiente a rendere insolvente una banca è tanto minore quanto

minore è il suo coefficiente di leverage (o quanto maggiore è il leverage). In ipotesi di insolvenza, le perdite a carico dei creditori sono tanto maggiori quanto

maggiore è la differenza positiva fra X e E/TA, ossia fra aliquota di perdita dell’attivo e coefficiente di leverage.

Ne deriva che, per una data rischiosità dell’attivo, la probabilità di insolvenza di una banca aumenta all’aumentare del leverage; e che la banca dovrebbe essere considerata dai creditori tanto più rischiosa quanto maggiore è il leverage (o quanto minore è il coefficiente è il coefficiente di leverage).

La rete di sicurezza pubblica a favore delle banche non può estendersi fino a garantire integralmente i creditori delle banche dai rischi dei fallimenti bancari: questo infatti è suscettibile di generare comportamenti di azzardo morale, e nel contempo implica costi a carico dell’erario per i salvataggi pubblici delle banche fiscalmente e politicamente non sostenibili.

Di qui il problema della regolamentazione: ridurre i rischi che le banche si assumono (vietando alcune aree di business) o, liberalizzati i rischi, contenere il leverage in modo da minimizzare la probabilità di fallimenti bancari. La seconda opzione è quella accolta dall’impianto di Basilea operante dalla fine degli anni ‘80. Ha funzionato? 3. LEVERAGE E RISCHIO. RICHIAMI

Il leverage influisce sulle performance delle banche: livello e variabilità del ROE sono associati al leverage in funzione diretta. Valori di leverage crescenti comportano un aumento del valore del ROE, ma anche un aumento della sua variabilità. Una maggiore variabilità del ROE significa un maggior rischio di impresa. Definendo.

ra= rendimento medio dell’attivo

ip = costo medio del passivo

D/E = rapporto di indebitamento

ROE = redditività del capitale di rischio (UN/E) Si dimostra che vale la relazione:

ROE = ra + (ra − ip) ∗D

E

I dati riportati qui sotto mostrano come si modifica il livello e la variabilità del ROE, al

modificarsi del leverage e quindi del rapporto di indebitamento. Si supponga che si possano avere tre scenari, ciascuno con uguale probabilità di manifestarsi; e che per ogni scenario la variabile che si modifica sia il rendimento degli impieghi ra, che aumenta nello scenario favorevole e diminuisce nello scenario avverso.

Leverage TA/E = 11

D/E =10

Variabili Scenario base Scenario favorevole Scenario avverso

ip 2% 2% 2%

ra 3% 4% 2%

Δra - +1% (100 p.b.) -1% (-100 p.b.)

ra-ip 1% 2% 0

ROE 13% = 3%+ 1%*10 24% 2%

5

ΔROE4 = (Δra*TA/E)

- +11% = 100 p.b*11

-11% = -100 p.b.*11

Media ROE 13% 8,98% σ ROE

Leverage TA/E = 26 D/E = 25

Variabili Scenario base Scenario favorevole Scenario avverso

ip 2% 2% 2%

ra 3% 4%=+1% 2% = -1%

Δra - + 1% -1%

ra-ip 1% 2% 0

ROE 28% 54% 2%

ΔROE - + 26% =100 p.b.*26 -26%= -100 p.b.*26

Media ROE 28% 21,23% σ ROE

Al crescere del leverage, aumenta il livello ma anche la variabilità del ROE5: ossia,

maggiore rendimento, ma anche maggiore rischio per l’investimento degli azionisti. In caso di alto leverage, gli azionisti possono essere disposti a correre un maggior rischio, perché in uno scenario favorevole i maggiori guadagni vanno tutti a loro favore, nello scenario sfavorevole le perdite sono invece a loro carico solo per il (piccolo) capitale investito.

4. LEVERAGE E REDDITIVITÀ - DETERMINANTI DEI PROCESSI DI CRESCITA DELL’INTERMEDIAZIONE

Le banche hanno un incentivo alla crescita del leverage per massimizzare il ROE e quindi la capacità di crescita dell’intermediazione6. Al crescere del leverage, il contributo alla crescita derivante dalla redditività dell’intermediazione si riduce.

Tanto più elevato è il leverage, tanto maggiore è, a parità di ROA, la capacità della banca di aumentare i volumi dell’attivo.

Il ROE può essere definito:

ROE = ROA * TA/E

Dove: ROA = UN/TA TA/E = leverage UN = ROA*TA

Assumiamo che: a) il capitale della banca cresca solo in funzione dell’autofinanziamento, ossia della quota

di utili che non sono distribuiti sotto forma di dividendi e di bonus;

4 ΔROE = [(ra + Δra) + (ra + Δ ra – ip) *D/E] – [ra + (ra - ip) *D/E] = Δ ra (1+D/E) = Δ ra *TA/E 5 La variabilità del ROE, nell’esempio misurata dal valore di σ ROE, ossia lo scarto quadratico medio del ROE, è una misura del rischio. Tanto maggiore è questa variabilità, tanto maggiore è il rischio per gli azionisti. 6 La crescita dell’intermediazione bancaria può essere empiricamente approssimata mediante la crescita del TA (totale fondi intermediati), anche se i due concetti non coincidono perfettamente.

6

b) Il leverage abbia un valore desiderato di equilibrio che la banca intende mantenere costante.

Dato costante il leverage, il tasso di crescita dell’attivo deve essere uguale al tasso di crescita del capitale. In base a questo assunto deve essere:

ΔTA/TA = ΔE/E Dato: d = tasso di distribuzione degli utili = Utili distribuiti7/UN, ossia pay-out ratio si definisce: p = 1-d= tasso di conservazione del capitale (retention rate) = quota percentuale degli utili portata ad aumento del capitale (mediante aumento delle riserve di utili netti). L’incremento del capitale sarà quindi, in valore assoluto:

ΔE = UN *p = ROA*TA*p Da cui, il tasso percentuale di variazione del capitale:

ΔE/E = UN/E * p Da cui, dato il vincolo della costanza del leverage, la relazione che definisce il tasso di crescita dell’attivo, per un dato livello di leverage, è la seguente:

∆𝑇𝐴

𝐴 =

∆𝐸

𝐸= 𝑅𝑂𝐸 ∗ 𝑝 = 𝑅𝑂𝐴 ∗

𝑇𝐴

𝐸 *p (1)

In base alla relazione (1), la banca ha tre leve su cui agire per conseguire determinati obiettivi di crescita dell’attivo:

a) ROA b) Leverage TA/E c) tasso di conservazione del capitale p

Fissato un valore desiderato (valore obiettivo) del tasso di crescita dell’attivo, la combinazione di ROA, leverage e tasso di conservazione del capitale definisce le strategie con cui le banche possono conseguire i livelli desiderati di crescita dell’intermediazione. 8

Nelle ipotesi fatte, il leverage necessario a conseguire il tasso desiderato di crescita dell’attivo è crescente al decrescere del ROA. Viceversa, il ROA necessario per conseguire un desiderato tasso di crescita dell’attivo cresce al diminuire del leverage.

Nella misura in cui la regolamentazione sul capitale influisce sul leverage delle banche e sulla loro redditività, essa si riflette anche sulla loro capacità di crescita. 5. LEVERAGE E CICLICITÀ

Il livello del leverage ha l’effetto di amplificare il comportamento ciclico delle banche e del sistema finanziario.

Supponiamo che il livello di leverage desiderato (L) sia costante, ossia che le banche tendano a gestire il proprio portafoglio in modo da mantenere il leverage effettivo (Li) sul livello desiderato L. Questa ipotesi è empiricamente verificata.

7 Gli utili distribuiti sono i dividendi e i bonus pagati ai dirigenti, la cui remunerazione comprenda una parte variabile con gli utili. 8 Ovviamente, le banche possono anche utilizzare fonti esterne di aumento di capitale. Tale possibilità è tuttavia disponibile a condizione che il tasso atteso di rendimento del capitale sia adeguato alle aspettative degli

azionisti.

7

Sia dato L = 25. In situazione di normalità, si ipotizzi la seguente situazione aggregata del sistema bancario:

TA0 = 100 E0 = 4 D0 = 96 L0 = 25 =L

Nelle fasi di espansione, quando il valore degli attivi aumenta (supponiamo che gli attivi siano valutati mark-to-market), fino a quando i debiti restano costanti, il leverage diminuisce al di sotto del livello desiderato.

TA1 = 100+3 (+ 3%) E1 = 4+3 (+75%) D = 96 L1 = 14,71 < L

Dato che al tempo 1 il tasso di crescita dell’attivo è inferiore al tasso di crescita del capitale, le banche si trovano in questa fase in una situazione di squilibrio, ossia hanno un leverage inferiore a quello desiderato: in altre parole, hanno un eccesso di capitale rispetto agli investimenti effettuati. 9 Questo induce le banche ad aumentare l’attivo mediante la crescita dell’indebitamento10, fino a ripristinare il valore del leverage desiderato.

Supponendo che il riequilibrio avvenga al tempo due:

Dato E1 = 7, il valore di TA deve essere = 25* E1 =25*7 = 175, ossia:

TA2 = 175 (+75%) E2 = 7 (+ 75%) D2 = 168 (+ 75%) L2= 25 = L

Un incremento di 3 unità del valore degli attivi e del capitale consente di aumentare l’indebitamento di 72, e il valore degli investimenti di 75. Con 3 unità addizionali di capitale (+75%), la banca può incrementare il debito e gli investimenti della stessa percentuale dell’aumento del capitale. L’aumento dell’indebitamento e degli investimenti accentua la fase ciclica espansiva, con una maggiore offerta di credito e una maggiore domanda di investimenti. Questo aumenta i prezzi e innesta un processo di amplificazione della fase ciclica. L’aumento dell’indebitamento in funzione del leverage desiderato comporta l’assunzione di maggiori rischi di liquidità e di controparte, se l’indebitamento cresce mediante la raccolta all’ingrosso e/o sul mercato dei capitali.

Nelle fasi di recessione, quando il valore degli attivi diminuisce, l’effetto è opposto. La diminuzione del valore degli attivi, a parità di valore dei debiti, porta il leverage sopra il livello desiderato:

TA1 = 100-2 (- 2%) E1 = 4-2 (-50%) D1 = 96 L1 = 49 > L

9 Se il capitale è in eccesso, la banca può non essere in grado di remunerarlo ai tassi desiderati dagli azionisti: questo la spinge ovviamente ad aumentare gli impieghi per aumentare i profitti. 10 La crescita dell’indebitamento, in condizioni di espansione, può avvenire a tassi relativamente costanti o addirittura decrescenti, perché il valore dell’attivo a garanzia dei creditori è crescente.

8

Una flessione relativa del valore degli attivi inferiore a quella del capitale comporta che banche si trovano in una condizione di squilibrio (opposto a quello registrato nella fase di espansione): ossia un eccesso d’indebitamento rispetto ai valori giudicati di equilibrio.

Per rispristinare l’equilibrio, le banche avviano un processo di deleveraging: ossia una diminuzione dei debiti a un tasso uguale a quello registrato dal capitale e una conseguente diminuzione degli investimenti nella stessa proporzione.

TA2 = 50 (-50%) = E1*25 E2 = 2 D2 = 48 (-50%) L2 = 25 = L

La perdita di valore degli attivi e del capitale obbliga la banca a ridurre l’offerta di credito e a vendere titoli, per rimborsare i debiti in eccesso. Questo processo amplifica la fase ciclica, per effetto delle vendite di attivi il cui prezzo si deprime, amplificando a sua volta il processo di deleveraging. I rischi di liquidità e di controparte impliciti nell’indebitamento eccessivo possono, in queste condizioni, minacciare la solvibilità delle banche. Se si verificano fenomeni di vera e propria “fuga dei creditori” sul mercato al dettaglio (corse agli sportelli), o, molto più probabilmente, sul mercato all’ingrosso, le banche possono essere costrette a subire dalla vendita forzata di attivi (fire sales)11 perdite di dimensioni superiori al capitale. In questo caso, i rischi di liquidità derivanti dal passato eccesso d’indebitamento possono degenerare in vere e proprie situazioni d’insolvenza. All’amplificarsi di questi processi, solo il supporto del rifinanziamento delle banche centrali e le ricapitalizzazioni pubbliche consentono di evitare situazioni di crisi sistemica.

A livello sistemico, il problema del leverage diviene quindi evidente proprio quando si verificano i processi di deleveraging: in realtà, il deleveraging è potenzialmente tanto peggiore quanto maggiore è il leverage (ossia la crescita dell’indebitamento consentita nelle fasi di espansione dal livello del leverage di equilibrio).

È facile dimostrare che per un valore di L inferiore, ad esempio pari a 10, una diminuzione di valore degli impieghi di 2 unità comporta il ritorno al livello di equilibrio del leverage con una riduzione dell’indebitamento e delle attività molto inferiore: ossia con un processo di deleveraging molto meno accentuato e, quindi, molto meno pericoloso per la solvibilità delle banche:

TA0 = 100 E0 = 10 D0 = 90 L0 = 10

Per effetto della perdita di 2 unità di valore degli attivi in fase di recessione, la banca registra un aumento del leverage rispetto al livello di equilibrio, ma inferiore a quello dell’esempio precedente.

TA1 = 100-2 E1 = 10-2 = 8 (-20%) D1 = 90 L1 = 12,25

Il processo di deleveraging sarà in questo caso molto più contenuto:

TA2 = 80 (-20%) = E1*10 E2 = 8

11 Fire sales: vendita forzata e rapida di attività per evitare crisi di liquidità. Le attività sono vendute a forte sconto, data la situazione di emergenza in cui avviene la vendita.

9

D2 = 72 (-20%) L2 = 10 6. UN’ANALISI STILIZZATA DELLA CRISI E DELLE SUCCESSIVE RISPOSTE REGOLAMENTARI

La Figura 1 presenta l’evoluzione del leverage, del ROE e del ROA per le principali

banche, dal 2007 al 2016. Confrontando i valori per gli anni 2006-2007 e per gli anni più recenti (2014-2016) è possibile percepire i cambiamenti che si sono verificati, prima per l’impatto della crisi e della conseguente recessione; in seguito, per la più stringente regolamentazione del capitale (entrata in vigore nell’UE formalmente dal 1° gennaio 2015, ma in pratica già parzialmente applicata dalle banche già dal 2012-13), ma anche per il peggioramento strutturale della redditività dell’intermediazione bancaria.

Figura 1 – Dinamica del ROA, ROE e leverage delle maggiori banche UE

Fonte: R&S (2018), Dati cumulativi delle principali banche internazionali. I valori si riferiscono ad un campione composto dai principali gruppi bancari europei. Per l’Italia, le banche incluse nel campione sono Unicredito e Banca Intesa.

Si noti il forte aumento del leverage nel 2008 (primo anno della crisi), per effetto delle

perdite subite dalle banche (il ROE e il ROA sono negativi). Dal 2009, le forti iniezioni di fondi pubblici e la riduzione dell’intermediazione generano una flessione importante del leverage, che si intensifica all’approssimarsi dell’entrata in vigore di Basilea 3, nel 2015.

È importante ricordare che valori di leverage elevati significano che l’intermediazione bancaria (misurata dal TA) è finanziata in misura prevalente con l’indebitamento; e che pertanto livelli crescenti di leverage hanno origine da un tasso di crescita del passivo maggiore di quello delle attività. 12

Negli anni precedenti alla crisi (di cui nel grafico si vedono solo i due anni 2006 e 2007), mentre la raccolta sotto forma di depositi da clientela aveva avuto una dinamica relativamente

12 Se il leverage aumenta, aumenta anche il tasso di indebitamento D/TA: il che significa che D cresce in misura maggiore di TA.

-10.00

0.00

10.00

20.00

30.00

40.00

50.00

-0.3

-0.2

-0.1

0

0.1

0.2

0.3

0.4

0.5

0.6

0.7

0.8

2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016

Leverage (asse destra) ROE % (asse destra) ROA % (asse sinistra)

10

stabile o addirittura decrescente, l’intermediazione delle banche era cresciuta più rapidamente del loro capitale. L’aumento del leverage era quindi stato prodotto da un incremento delle altre componenti del passivo (raccolta interbancaria, pronti contro termine e obbligazioni) che, in termini relativi, era stato maggiore della crescita dell’attivo. Livelli elevati e crescenti di leverage si associavano quindi anche a una struttura della raccolta spesso molto volatile, con rischi d’interesse e di liquidità potenzialmente elevati.

Lo scoppio della crisi (2008) mise in evidenza i rischi derivanti da questa struttura finanziaria delle banche. I loro grandi creditori, consapevoli delle perdite che esse stavano subendo sugli impieghi, persero la fiducia e ritirarono in massa i finanziamenti concessi in misura eccessivamente generosa negli anni precedenti. Il sostegno di liquidità da parte delle banche centrali fu insufficiente a frenare l’emorragia di fondi dalle banche, che furono quindi costrette a ridurre l’attivo (deleveraging), realizzando ingenti perdite. Di qui, numerose insolvenze bancarie e la necessità per gli stati di immettere capitale per salvare le banche dal fallimento. Basilea 3, approvata nel 2010 e entrata in vigore negli anni successivi, ha voluto obbligare le banche a dotarsi di una maggiore capitalizzazione, in modo da evitare che si ripetessero le drammatiche vicende del 2008.

Le riforme regolamentari post-crisi (in particolare Basilea 3) hanno quindi concorso in misura importante a ridurre ulteriormente il leverage.

Il ROE delle banche è sceso progressivamente su livelli molto inferiori a quelli degli anni 2006-7: in media per le maggiori banche, è diminuito da valori anche superiori al 20% al 4-5% degli ultimi anni. La flessione del ROE, prevedibile per i maggiori requisiti di capitale imposti dalle nuove regole, è stata però amplificata dalla contestuale diminuzione del ROA.

Come si vede dal grafico, il ROA post-crisi è molto inferiore a quello degli anni 2006-2007 (circa 0,3% a fronte di 0,6-0,7% prima della crisi), per effetto di una dinamica dei ricavi unitari inferiore all’aumento dei costi unitari, sia quelli operativi sia quelli per il rischio.

La bassa redditività, in presenza di requisiti di capitale più stringenti, ha ridotto la capacità delle banche di incrementare il capitale sia con l’autofinanziamento sia con il ricorso al mercato. Di qui, una minore capacità di crescita dell’intermediazione bancaria, e, in particolare, un rallentamento dell’offerta di credito all’economia. Questo è uno degli indesiderati effetti collaterali delle riforme regolamentari post-crisi (Basilea 3, in primo luogo) che oggi sono oggetto di un ampio dibattito.

11

Parte II

LA REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE SECONDO IL MODELLO DI BASILEA13

1. LA REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE DELLE BANCHE L’obbligo per le banche di dotarsi di una adeguata dotazione di capitale è il fondamento

della moderna regolamentazione prudenziale. La logica dell’impianto regolamentare è che, per garantire la stabilità dei sistemi finanziari, le banche devono dotarsi di un capitale nella misura sufficiente a limitare i rischi di insolvenza (adeguatezza ex ante) e, qualora l’insolvenza si verifichi, a limitarne i costi a carico della collettività (adeguatezza ex post).

L’intermediazione svolta dalle banche è particolarmente rischiosa per il divario di scadenze e di liquidità che esiste fra le loro attività e passività. Mentre larga parte delle passività delle banche sono a breve e volatili, i loro impieghi in genere sono a lungo termine, non standardizzati (ossia con condizioni contrattuali e caratteristiche tecniche specificamente negoziate con le singole controparti), non liquidi e difficilmente valutabili dal mercato (attività opache). Il valore di mercato di tali impieghi – ossia il prezzo che un potenziale acquirente è disposto a pagare per comprarli, qualora la banca intenda cederli – è funzione di molte variabili, fra cui la probabilità che gli impieghi vadano a buon fine (ossia siano convertiti in moneta alla scadenza per un valore pari al capitale investito + gli interessi), nonché la qualità delle garanzie acquisite a fronte degli impieghi. Le informazioni di cui la banca dispone per valutare la qualità dei propri impieghi e delle relative garanzie di solito non sono accessibili dal mercato, specie in tempi brevi. Quindi se una banca avesse la necessità di cedere rapidamente i propri impieghi per far fronte a rimborsi consistenti del passivo (ad esempio, in situazioni di crisi di liquidità) troverebbe acquirenti disposti a comprarli solo con un forte sconto sul nominale. Le perdite conseguenti possono generare l’insolvenza della banca.

L’insolvenza di una banca, considerata come fenomeno isolato, non sarebbe un problema di cui la regolamentazione pubblica dovrebbe preoccuparsi. In astratto, i depositanti e gli altri creditori dovrebbero essere compensati del rischio dell’insolvenza della banca debitrice mediante il premio per il rischio percepito sui finanziamenti accordati. 14 In realtà, ben difficilmente la crisi di una banca resta un caso isolato. Essa colpisce comunque moltissime persone (i clienti di una banca anche piccola sono nell’ordine di centinaia di migliaia) e può quindi creare una crisi di fiducia, potenzialmente molto pericolosa per l’intero sistema.

Il fallimento di una banca è quindi un problema per la regolamentazione a causa dei rischi di contagio che esso comporta: rischi che nascono dai rapporti di credito e di debito che esistono fra le banche e fra le banche e altri intermediari (dealers, assicurazioni, fondi di 13 Il Comitato di Basilea per la Vigilanza Bancaria (Basel Committee on Banking Supervision, BCBS) è un organismo internazionale composto dalle autorità di vigilanza e dalle banche centrali dei principali paesi sia industrializzati sia emergenti. Il BCBS opera presso la Banca dei Regolamenti Internazionali (BRI, che ha sede a Basilea). Il BCBS definisce, attraverso Accordi internazionali, gli standard minimi della regolamentazione prudenziale (per il capitale e per la liquidità) che tutti i paesi aderenti si impegnano ad applicare alle proprie banche, almeno a quelle operanti a livello internazionale. Gli Accordi di Basilea sono quindi tradotti in norme vincolanti per le banche attraverso le legislazioni adottate dalle diverse giurisdizioni. In Europa, la disciplina di Basilea è adottata mediante direttive e regolamenti dell’UE. Mentre i regolamenti sono direttamente vincolanti per tutti i paesi dell’Unione, le direttive sono applicate nei diversi stati membri mediante leggi nazionali. La disciplina di Basilea è applicata nell’UE a tutte le banche e a tutte le imprese di investimento. 14 Questo non vale per i depositi al dettaglio, coperti dall’assicurazione sui depositi.

12

investimento etc.). L’operare delle banche in sistema fa sì che l’insolvenza di una di esse (crisi specifica) possa generare crisi finanziarie sistemiche, che possono compromettere gravemente il funzionamento del sistema dei pagamenti e il finanziamento dell’economia.

Per prevenire o mitigare i fenomeni di panico e di contagio esistono vari rimedi, fra cui l’assicurazione sui depositi e il credito di ultima istanza delle banche centrali. Queste “reti di sicurezza” intendono scoraggiare i creditori delle banche a chiedere il rimborso dei loro crediti verso le banche quando si diffondono notizie (magari infondate) negative sulla singola banca o sulla stabilità del sistema bancario nel suo complesso. L’effetto è però anche quello di generare fenomeni di azzardo morale, perché tali reti di sicurezza riducono gli incentivi dei creditori assicurati ad esercitare un adeguato controllo sul comportamento delle banche, penalizzando con premi per il rischio più alti le banche che fanno investimenti più rischiosi. Inoltre, anche se l’assicurazione sui depositi e il credito di ultima istanza fossero congegnati in modo tale da evitare questi incentivi distorti sul comportamento dei creditori, le banche avrebbero comunque incentivi ad assumere rischi eccessivi e a dotarsi di un capitale troppo basso rispetto a quello considerato ottimo dal punto di vista collettivo.

Si sono già analizzati gli effetti del leverage sulla redditività per gli azionisti. Tanto minore è la capitalizzazione, tanto minore è l’incentivo per gli azionisti a contenere i rischi: se dalle operazioni ad alto rischio si generano alti profitti, gli azionisti se ne appropriano mediante dividendi crescenti; se si generano perdite elevate, gli azionisti limitano la loro quota al capitale (basso), il resto va a carico dei creditori (non assicurati). Perché tuttavia questi ultimi non esercitano un sufficiente controllo sulla rischiosità della banca? Ossia, perché le banche con più alto leverage non sono di norma penalizzate da un costo del passivo maggiore? Questo si dovrebbe verificare se i creditori non assicurati ritenessero che, in caso di insolvenza, rischiano di perdere tutto o larga parte del loro investimento.

In realtà, questo, fino al recente passato, non si è verificato. Era molto improbabile che una banca in dissesto, specie se grande, fosse lasciata fallire e quindi messa in liquidazione. In caso di perdite, sono stati spesso i governi che hanno ricapitalizzato le banche, salvando insieme alle banche i loro creditori, ma spesso anche gli stessi azionisti. La garanzia “implicita” derivante dalla prassi dei salvataggi pubblici (che pongono le perdite a carico dei contribuenti) implicava che le banche con alto leverage (specie di grandi dimensioni, le banche too-big-to-fail, TBTF) godessero di un sussidio sul costo del passivo, ossia potessero pagare ai loro creditori non assicurati un premio per rischio minore di quello che sarebbe stato adeguato a compensarli dei rischi assunti.

La regolamentazione cerca quindi di ridurre gli incentivi alle banche ad assumere rischi eccessivi, mediante diversi interventi finalizzati a promuovere la “sana e prudente gestione” di questi intermediari. Lo strumento principale adottato a tale scopo è il vincolo dei requisiti di capitale in funzione del rischio: tanto maggiori sono i rischi assunti da una banca, tanto maggiore è il capitale che esse devono detenere.

Gli impieghi più rischiosi assorbono più capitale, ossia obbligano le banche ad investire un volume maggiore di risorse proprie (fondi propri).

L’effetto principale della disciplina del capitale dovrebbe essere quello di ridurre gli incentivi alle banche ad assumere rischi. Richiedendo alle banche di detenere un capitale maggiore, una quota maggiore delle perdite grava sugli azionisti e si riduce la quota di perdite che viene subita dai creditori e/o dal governo. È meno probabile che una banca vada in crisi e che, se si verifica la crisi, le perdite debbano andare a carico dei creditori o dei contribuenti.

2. STRUTTURA FINANZIARIA E COSTO DEL CAPITALE DELLE BANCHE Soprattutto a seguito della crisi finanziaria recente, si è largamente diffusa l’opinione

che la stabilità finanziaria può essere assicurata se le banche detengono dosi elevate di capitale, e che questo possa realizzarsi senza costi significativi per le banche stesse e

13

l’economia in cui esse operano. Un aumento del peso del capitale nella composizione dei finanziamenti bancari è realmente conseguibile senza effetti rilevanti sul costo complessivo che le banche pagano per finanziarsi (costo medio ponderato del capitale)15?

La risposta a questo problema è importante, perché il costo dei finanziamenti bancari determina anche il tasso medio a cui le banche sono disposte ad impiegare (tasso attivo medio sui prestiti): se aumenta il peso del capitale proprio nella struttura finanziaria delle banche, quali effetti si generano sui tassi attivi e quindi sul volume di prestiti bancari?

La teoria finanziaria (Modigliani e Miller, MM) ha dimostrato che, date certe condizioni, elevati livelli di capitale non aumentano i costi a cui un’impresa si finanzia. È vero che il capitale proprio è più costoso del debito; tuttavia, secondo i teoremi di MM, in condizioni di mercati perfetti, all’aumento del peso del capitale di rischio, il costo di ogni unità di capitale e di ogni unità di debito si riduce di un ammontare che compensa esattamente il costo addizionale derivante dal maggior peso del capitale di rischio. Il costo unitario dei finanziamenti sia a titolo di debito sia a titolo di capitale si riduce perché, per effetto della maggiore capitalizzazione, debito e capitale di rischio diventano più sicuri.

In che misura questa teoria è valida per spiegare gli effetti di una maggiore capitalizzazione per le imprese bancarie? Il dibattito teorico è largamente aperto. Tuttavia, esistono vari elementi che dimostrerebbero che le condizioni ideali su cui si regge la teoria di MM in realtà per le banche non sono empiricamente verificate.

a) Effetto delle imposte: mentre gli interessi passivi sono dedotti dalle imposte sul reddito, i dividendi non lo sono. Tenendo conto dell’effetto fiscale, i costi del finanziamento si riducono all’aumentare del peso del debito. Per compensare questo effetto, la maggiore capitalizzazione richiesta alle banche dovrebbe essere accompagnata da modifiche del regime fiscale che in tutti i paesi favorisce il debito rispetto al capitale. b) Garanzie pubbliche implicite o esplicite sui debiti bancari: anche senza ipotizzare che il governo intervenga sempre con fondi pubblici per salvare qualsiasi banca in dissesto, è tuttavia verosimile che interventi pubblici di salvataggio delle banche vengano adottati quando è a rischio la stabilità complessiva del sistema finanziario. La convinzione che, almeno in una certa misura, le risorse pubbliche intervengano a tutela dei creditori (ma non degli azionisti) delle banche, in caso di crisi sistemica, comporta che il costo del debito sia comunque inferiore e meno sensibile al rischio di insolvenza delle banche, che sono quindi incentivate a finanziarsi in misura maggiore con debito che con capitale di rischio. È vero che questi sussidi pubblici impliciti o espliciti sono distorsioni che possono essere eliminate: ma l’effetto di una eliminazione dei sussidi pubblici è quello di un aumento del costo del debito, che molto probabilmente verrà trasferito in un aumento dei tassi attivi. c) Maggiori emissioni di azioni per aumentare il capitale non necessariamente si traducono in una riduzione del rendimento atteso da parte degli azionisti. Non è detto che essi credano che in questo modo la banca diventi più sicura, dato che i rischi assunti dalle banche sono difficilmente valutabili dal mercato. Niente garantisce gli azionisti che l’aumento di capitale non sia associ ad un aumento dei rischi: se così fosse, la banca non diventerebbe più sicura, perché i vantaggi dell’aumento di capitale sarebbero bilanciati dagli svantaggi derivanti dai maggiori rischi. Il rapporto fra

15 Il costo medio ponderato del capitale WACC è definito dalla seguente relazione: WACC = id*(D/(E+D)) + ke* (E/(E+D)), dove id è il costo medio del debito, ke il rendimento atteso sul capitale di rischio (approssimato dal ROE), E è il capitale di rischio e D è il debito. Dato che il debito è meno rischioso del capitale di rischio, perché i debiti hanno una maggiore protezione legale, in primis il diritto di priorità nel rimborso in caso di insolvenza rispetto agli azionisti, id < ke.

14

capitale e attivo pesato per il rischio potrebbe restare costante, e gli effetti sul rendimento richiesto dagli azionisti potrebbero quindi essere nulli.

Se, al crescere della capitalizzazione bancaria, il costo unitario delle fonti di finanziamento (debito e capitale) non si riduce (o non si riduce in misura adeguata), l’effetto è inevitabilmente quello di un aumento dei tassi attivi.

Esempio Supponiamo che la banca abbia la seguente struttura finanziaria: D/(E+D) = 95%; E/(E+D) = 5%; id (costo del debito) = 3%; ke (costo del capitale di rischio) = 3%+5% = 8% (dove 5% è il premio per rischio rispetto al debito). ia (tasso sui prestiti desiderato dalla banca = costo medio dei finanziamenti + 5% (per coprire i costi e il margine di profitto della banca). Con i dati sulla struttura finanziaria di cui sopra, il costo medio ponderato del capitale (di debito e di rischio), (weighted average cost of capital, WACC) e il tasso sui prestiti saranno: WACC = 95%*3% + 5%*8% = 3,25% ia = 8,25% Supponiamo che, per effetto della regolamentazione, il leverage della banca si riduca da 20 a 10. Questo significa che il peso del capitale di rischio aumenta dal 5% al 10%, e il peso del capitale di debito scende dal 95% al 90%. Quale è l’effetto sul WACC e quindi sui tassi attivi della banca? Se id e ke restano costanti, ossia non siano sensibili al minor rischio della banca, sarà: WACC = 3,50% (aumento di 25 p.b.) ia = 8,50% (aumento di 25 p.b.) La diminuzione del leverage sarebbe quindi pagata dall’economia, per effetto dei maggiori tassi sui prestiti. È vero? Questo è quanto si sostiene da parte delle banche, ma anche di molti economisti, secondo cui requisiti di capitale troppo alti penalizzano l’economia. Tesi opposta si basa su due considerazioni: a) L’economia beneficia della maggiore solidità delle banche, quindi dei minori costi fiscali e privati dei fallimenti bancari. Questo beneficio è largamente superiore all’eventuale rialzo dei tassi sui prestiti. b) Non è detto che i tassi attivi aumentino. Ipotizzando che per le banche valesse MM, la riduzione del leverage comporterebbe una diminuzione sia di id sia di ke, in modo da mantenere costante (3.25%), il WACC non ostante l’aumento del capitale di rischio. Supponiamo che, per effetto del minor leverage della banca, il premio per rischio richiesto dagli azionisti scenda dal 5% al 3%: dato il WACC = 3,25%, si calcolano i nuovi valori di id e ke derivanti dal maggior leverage: WACC = id*90% + (id+3%)*10% = 3.25% id = 0,55% ke = 3,55%

Il problema dell’impatto di una regolamentazione più restrittiva del capitale delle

banche, sintetizzato da questo semplice esempio, è ancora largamente aperto.

15

È vero che la regolamentazione di Basilea ha reso le banche talmente più solide da ridurre apprezzabilmente i costi sociali delle crisi?

È vero che per le banche vale MM, non ostante i fattori di imperfezione del mercato di cui si è detto sopra?

Le nuove regole sulla gestione delle crisi hanno diminuito queste imperfezioni, rendendo efficace la disciplina di mercato?

3. PRINCIPI FONDAMENTALI DELLA DISCIPLINA DI BASILEA SUL CAPITALE La disciplina di Basilea sul capitale è la base della moderna regolamentazione

prudenziale. I principi fondamentali della disciplina di Basilea sono i seguenti: • La regolamentazione prudenziale basata sul capitale intende indurre le

banche a dotarsi di livelli di capitalizzazione sufficienti ad assorbire le perdite potenziali a cui esse sono esposte per effetto della loro attività. Livelli adeguati di capitalizzazione delle banche riducono la probabilità di crisi e quindi aumentano la stabilità dei sistemi finanziari.

• Le banche possono assumere liberamente tutte le varie tipologie di rischi, ma a condizione che dispongano di un capitale adeguato a coprirli. Il capitale deve essere commisurato ai rischi.

• La disciplina impone alle banche di detenere un coefficiente minimo di solvibilità, calcolato come rapporto fra il capitale regolamentare (Patrimonio di vigilanza) e attivo ponderato per il rischio.

• In presenza di gruppi bancari, la disciplina di Basilea deve essere applicata sia alle singole banche del gruppo sia su base consolidata. Per le banche multinazionali, il Paese in cui ha sede la casa madre (home country) è responsabile del controllo della solvibilità su tutto il gruppo.

• Originariamente la disciplina di Basilea doveva essere applicata solo alle banche internazionali, con l’obiettivo di assoggettarle a vincoli regolamentari omogenei, (level playing field). La grande maggioranza dei Paesi (e l’Europa in particolare) ha in realtà deciso di applicare le regole di Basilea a tutte le banche, e non solo a quelle internazionali.

3.1 - Vincoli di Basilea sul capitale La regolamentazione di Basilea sul capitale impone alle banche di rispettare un valore

minimo del rapporto fra il Patrimonio di vigilanza16 e l’esposizione complessiva al rischio. Alcune definizioni utilizzate dalla disciplina del capitale:

• Patrimonio di vigilanza, o fondi propri: comprende oltre al capitale, anche altri strumenti ammessi dalla regolamentazione.

• Esposizione complessiva al rischio: è costituita dagli impieghi della banca, in bilancio e fuori bilancio, moltiplicati per coefficienti di ponderazione variabili in funzione del rispettivo rischio. L’esposizione complessiva al rischio si definisce sinteticamente come Attivo ponderato per il rischio.

16 Come si vedrà in seguito (Montanaro, 2018, La composizione del patrimonio di vigilanza), la disciplina prevede un coefficiente minimo relativo al patrimonio di vigilanza complessivo, ma anche coefficienti minimi per le diverse componenti del patrimonio di vigilanza. Qui facciamo riferimento al coefficiente minimo di solvibilità calcolato con riferimento al patrimonio di vigilanza complessivo (fondi propri totali).

16

• Requisiti di capitale: misurano, in unità monetarie, l’ammontare minimo del patrimonio di vigilanza che la banca deve detenere a fronte di ciascuna categoria di rischio prevista dalla regolamentazione.

• Coefficiente di solvibilità minimo (sinonimi usati: coefficiente di capitale minimo ponderato, o più semplicemente, coefficiente minimo di capitale/ coefficiente minimo di fondi propri): misura il rapporto fra il patrimonio di vigilanza e l’attivo ponderato per il rischio.

Nella formulazione base, il coefficiente minimo di capitale, ossia il rapporto fra

Patrimonio di vigilanza complessivo e l’attivo ponderato per il rischio, deve essere non inferiore all’8%.17 La relazione di Basilea può quindi essere scritta nei termini seguenti:

PV

∑ Aini ×rwi

≥ CSM =8%

Dove:

PV = Patrimonio di vigilanza

Ai = valore delle diverse tipologie di attivi classificati dalla regolamentazione in funzione del rischio ad esse attribuito (ΣAi = TA)

rwi = coefficienti di ponderazione per il rischio attribuiti all’i.ma categoria di attivi Ai.

CSM = è il coefficiente minimo di solvibilità, pari all’8% (nella versione base delle regole di Basilea).

Supponiamo, per semplicità, che l’attivo di una banca sia scomponibile solo in due

principali categorie, ossia in due “portafogli”, il “banking book” (BB, prevalentemente prestiti

e titoli detenuti per investimento e liquidità) e il “trading book” (TB, titoli per la negoziazione

e derivati non di copertura). Il rispettivo coefficiente medio di ponderazione sarà rw1 e rw2. I

valori BB e TB misurano il totale dei due portafogli così come iscritto in bilancio.

Di norma, è rw1 > rw2, ossia, ai fini della regolamentazione prudenziale di Basilea, il banking book ha un peso (in termini di rischio e quindi di assorbimento di capitale per ogni unità di esposizione) maggiore del trading book.

BB rw1 + TB rw2 = TA* (𝐵𝐵

𝑇𝐴∗ 𝑟𝑤1 +

𝑇𝐵

𝑇𝐴∗ 𝑟𝑤2)

(𝐵𝐵

𝑇𝐴∗ 𝑟𝑤1 +

𝑇𝐵

𝑇𝐴∗ 𝑟𝑤2) = RW

Dove RW è il coefficiente medio di ponderazione dell’attivo, ossia la media dei

coefficienti rw1 e rw2 ponderata per il peso delle rispettive classi di attività sul totale del portafoglio.

Sarà quindi:

TA* RW = BB* rw1 + TB* rw2

In generale, dato:

RW = il coefficiente medio di ponderazione dell’attivo, pari a:

RW =(∑ 𝐴𝑖𝑛𝑖 × 𝑟𝑤𝑖)/TA

17 Rispetto alla soglia base dell’8%, Basilea 3 fissa maggiorazioni specifiche del CMS, in funzione delle dimensioni e della rischiosità sistemica delle banche (cfr. Montanaro, 2018, Basilea 3).

17

Definiamo:

ARP18 = TA*RW = valore totale dell’attivo di rischio ponderato (Risk weighted assets), con

ARP/TA = RW TA = attività in bilancio e fuori bilancio Il coefficiente RW dipende: a) dai valori dei coefficienti di ponderazione regolamentari con cui si calcola

l’esposizione al rischio per le diverse tipologie di rischi e per le diverse classi di attività;

b) dal peso dei diversi portafogli di attività, o, più in generale, delle diverse componenti in cui si suddivide l’esposizione al rischio complessiva (nel nostro esempio semplificato del BB e del TB) sul totale dell’attivo (in bilancio e fuori bilancio). Il peso delle diverse componenti in cui si suddivide l’esposizione al rischio dipende dalle scelte gestionali della banca, ossia dal suo modello di business.

Il coefficiente minimo di solvibilità, ossia la soglia minima del rapporto fra fondi propri

totali e esposizione complessiva al rischio che tutte le banche devono detenere, si può quindi scrivere in termini più compatti:

PV/ARP ≥ CMS = 8%

Il requisito minimo di fondi propri che tutte le banche devono detenere sarà quindi:

PV minimo= 8%*ARP Sintetizzando, la disciplina di Basilea sul capitale si basa su quattro principali

componenti: 1. I valori dei coefficienti di solvibilità minimi (CSM) con riferimento sia al

patrimonio di vigilanza complessivo (fondi propri totali) sia alle sue diverse componenti.

2. Le regole sulla definizione del Patrimonio di vigilanza PV. Il PV è composto non solo dal capitale in senso civilistico (E), ma anche da altri strumenti finanziari ammessi dalla disciplina: quindi PV è di norma maggiore di E.

3. La ponderazione per il rischio delle diverse categorie di esposizione al rischio da cui dipende il valore medio RW. Vale la regola secondo cui 0 < RW < 1, per cui ARP < TA.19

4. Le categorie di rischio che sono considerate dalla disciplina ai fini del calcolo dell’attivo ponderato per il rischio. 3.2 - LEVERAGE E COEFFICIENTI DI CAPITALE PONDERATI Il coefficiente di solvibilità minimo - ossia il valore minimo del coefficiente di capitale

ponderato- è diverso dal coefficiente di leverage. Ricordiamo che quest’ultimo è dato da

18 Nella terminologia internazionale, l’attivo di rischio ponderato si usa definire con il simbolo RWA, ossia Risk weighted Assets: comprende tutte le tipologie di rischio previste dalla regolamentazione (I Pilastro di Basilea), ossia il rischio di credito e di controparte, il rischio di mercato, il rischio operativo. Convenzionalmente, noi useremo invece l’acronimo ARP per definire l’esposizione complessiva a tutti i rischi, RWA per definire l’esposizione totale al solo rischio di credito. 19 Esistono categorie di attivi che hanno un coefficiente rw > 1, ad esempio i crediti deteriorati. In media, tuttavia, è sempre ARP < TA.

18

E/TA; mentre il coefficiente di capitale ponderato è dato da PV/ARP. Dato quest’ultimo, è possibile calcolare quale è il corrispondente livello di leverage: ossia quale è il leverage implicito nel vincolo di capitale ponderato.

La relazione che definisce il coefficiente di solvibilità minimo può essere scomposta nelle seguenti componenti:

𝑃𝑉

𝐴𝑅𝑃=

𝐸

𝑇𝐴 ×

𝑇𝐴

𝐴𝑅𝑃×

𝑃𝑉

𝐸 ≥ CMS (1)

dove TA/ARP ≥ 1 = 1/RW, ossia l’inverso del coefficiente medio di ponderazione: PV/E ≥ 1, essendo PV = Patrimonio di vigilanza E = Capitale netto Da cui:

𝐸

𝑇𝐴 ≥ 𝐶𝑀𝑆 ∗ 𝑅𝑊 ∗ 𝐸/𝑃𝑉 (2)

Come risulta dalla (2), ad un dato valore di CMS corrisponde un coefficiente di leverage

minimo minore, se RW e E/PV sono entrambi minori di 1. Se quindi CMS è l’8%, il coefficiente di leverage minimo sarà tanto minore di CMS quanto minore è RW e quanto minore è E/PV.

Dalla (2), invertendo i termini, ricaviamo il valore massimo del leverage che la banca può avere per rispettare il CMS, dati RW, PV e E:

𝑇𝐴

𝐸≤

1

𝐶𝑀𝑆×𝑅𝑊×

𝑃𝑉

𝐸 (3)

La (2) definisce il valore massimo del leverage consentito dal rispetto del coefficiente

minimo di capitale ponderato. Solo nell’ipotesi che CMS = 8%, RW = 100% e PV/E = 1, il leverage massimo implicito

regolamentazione di Basilea sarebbe pari a 1/CMS = 1/8% = 12,5. Il leverage massimo sarà tanto maggiore di 12,5 quanto minore è RW e quanto maggiore è PV/E

Al diminuire del valore medio di RW e all’aumentare del valore di PV/E cresce il valore del leverage massimo consentito alla singola banca dalla sua composizione dell’attivo ponderato per il rischio e dalla sua composizione del patrimonio di vigilanza.

Questo implica che la regolamentazione e la vigilanza possono contenere il leverage massimo consentito se:

• Aumentano i valori dei coefficienti minimi di fondi propri (CMS); • Aumenta il rapporto ARP/TA, ossia il coefficiente medio RW; • Riduce il rapporto PV/E, ossia è più restrittiva la normativa che definisce gli strumenti

finanziari diversi dal capitale ammessi a formare il patrimonio di vigilanza. La relazione (3) definisce il valore del leverage massimo teorico implicito nel livello di

CMS: ossia il leverage che la banca potrebbe avere se il suo coefficiente di capitale ponderato fosse esattamente uguale al minimo. Quale è invece il leverage effettivo della banca, dato il valore effettivo del suo coefficiente di capitale ponderato?

Definiamo Total Capital Ratio (TCR) il valore effettivo del coefficiente di capitale ponderato di una banca:

TCR = PV/ARP = E/TA*1/RW*PV/E

19

Dove, in equilibrio, deve essere TCR > CMS. Il valore effettivo del leverage della banca implicito nel suo TCR può essere scritto

come segue:

TA/E = 1

𝑇𝐶𝑅∗𝑅𝑊× 𝑃𝑉/𝐸 (4)

Da sottolineare la differenza fra leverage massimo teorico e leverage effettivo:

• Il leverage massimo è il massimo teorico che una singola banca potrebbe conseguire rispettando il coefficiente minimo di capitale ponderato, data la composizione dell’esposizione al rischio da cui dipende RW e data la composizione del suo patrimonio di vigilanza.

• Il leverage effettivo è il valore calcolato in base ai fondi propri di cui effettivamente dispone la singola banca, ossia quel leverage implicito nel suo TCR.

• Dato che di norma in equilibrio TCR > CMS, il leverage effettivo è inferiore al massimo teorico consentito dai coefficienti di capitale ponderati.20 Esempi

20 Ovviamente, per il coefficiente di leverage valgono le stesse considerazioni, ma in senso inverso. Il coefficiente di leverage effettivo sarà maggiore del minimo teorico.

2010 (Basilea 2) lev eff TCR % RW % PV/E % CMS % lev max

Deutsche Bank 54,3 14,1 18,30 139,9 8 95,56

Unicredit 21,5 12,7 50,3 136,9 8 34,02

Intesa Sanpaolo 22,1 13,2 52,5 153,1 8 36,45

2015 (Basilea 3)

Deutsche Bank 28,1 16,2 24,5 112,1 13 35,20

Unicredit 17,9 14,2 45,7 116,4 10 25,47

Intesa Sanpaolo 16,2 16,6 42,5 114,3 9 29,88