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Lettera aperta Cara, vecchia amica, viviamo in questi tempi di rapido progresso e tutti ci chiediamo come facessimo prima, come si poteva gestire la vita quotidiana senza computer, senza internet, senza telefonino e senza tutte le acquisizio- ni della tecnologia avanzata. Come potevamo fare prima! Come si scriveva, quando la nostra scrivania era occupata da una vecchia macchina da scrivere, quasi sempre nera, ma a volte verdina, con tasti scuri e lettere bianche. Quella macchina da scrivere di 60/70 anni fa, oggi relitto preistorico di epoche remote. Epoche nelle quali si cambiava il nastro sporcandosi le dita di inchiostro, si scrivevano le parole pigiando forte sui tasti, e invidiando chi riusciva a farlo con tutte le dita della mano, riservando l’uso del pollice alla barra spaziatrice. La macchina occupava gran parte del piano di lavoro e lasciava poco spazio per la messa in ordine e lo studio degli appunti scritti con la penna. E ad ogni “tic” la parola sembrava librarsi nell’aria per ricadere, poi, e andare a stamparsi sul foglio bianco, avvolto attorno al rullo di gomma. Ad ogni fruscio di “tic” il carrello ondeggiava e si spostava con movimenti ritmati e armoniosi, come in una danza. All’inizio del secolo scorso era una vera e propria rivoluzione, mal digerita dai calligrafi: e già! Perché esisteva una vera professio- ne, quella del calligrafo: una persona seria, colta, capace di scrivere bene, con la penna da intingere nel calamaio di inchiostro e in grado di vergare il foglio con caratteri eleganti. Una figura professionale arrivata direttamente dal Medio Evo e sopravvissuta sino alla metà del secolo ’900, triste e fantastico nello stesso tempo. Poi lo sviluppo della meccanica portò, negli uffici e successi- vamente nelle case, la meravigliosa e utile macchina da scrivere. Come al solito l’inizio debuttò fra mille difficoltà. Del resto non mancava chi pronosticava tempi duri, come era stato per l’automobile nei confronti della carrozza tirata da cavalli. In seguito le perplessità si trasformarono in resistenza. Il calli- grafo aveva intuito la propria fine al ritmo dei tasti della diabolica macchina da scrivere e, naturalmente, non si rassegnava a farsi da

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Lettera aperta

Cara, vecchia amica,

viviamo in questi tempi di rapido progresso e tutti ci chiediamo come facessimo prima, come si poteva gestire la vita quotidiana senza computer, senza internet, senza telefonino e senza tutte le acquisizio-ni della tecnologia avanzata.

Come potevamo fare prima! Come si scriveva, quando la nostra scrivania era occupata da

una vecchia macchina da scrivere, quasi sempre nera, ma a volte verdina, con tasti scuri e lettere bianche. Quella macchina da scrivere di 60/70 anni fa, oggi relitto preistorico di epoche remote. Epoche nelle quali si cambiava il nastro sporcandosi le dita di inchiostro, si scrivevano le parole pigiando forte sui tasti, e invidiando chi riusciva a farlo con tutte le dita della mano, riservando l’uso del pollice alla barra spaziatrice.

La macchina occupava gran parte del piano di lavoro e lasciava poco spazio per la messa in ordine e lo studio degli appunti scritti con la penna. E ad ogni “tic” la parola sembrava librarsi nell’aria per ricadere, poi, e andare a stamparsi sul foglio bianco, avvolto attorno al rullo di gomma. Ad ogni fruscio di “tic” il carrello ondeggiava e si spostava con movimenti ritmati e armoniosi, come in una danza.

All’inizio del secolo scorso era una vera e propria rivoluzione, mal digerita dai calligrafi: e già! Perché esisteva una vera professio-ne, quella del calligrafo: una persona seria, colta, capace di scrivere bene, con la penna da intingere nel calamaio di inchiostro e in grado di vergare il foglio con caratteri eleganti. Una figura professionale arrivata direttamente dal Medio Evo e sopravvissuta sino alla metà del secolo ’900, triste e fantastico nello stesso tempo.

Poi lo sviluppo della meccanica portò, negli uffici e successi-vamente nelle case, la meravigliosa e utile macchina da scrivere. Come al solito l’inizio debuttò fra mille difficoltà. Del resto non mancava chi pronosticava tempi duri, come era stato per l’automobile nei confronti della carrozza tirata da cavalli.

In seguito le perplessità si trasformarono in resistenza. Il calli-grafo aveva intuito la propria fine al ritmo dei tasti della diabolica macchina da scrivere e, naturalmente, non si rassegnava a farsi da

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parte. Non si capacitava ad immaginare un mondo diverso da questo, in cui la copia era un documento vero e proprio, impossibile da otte-nersi, perché egli veniva obbligato a scrivere da capo tutto il docu-mento, premettendo al vecchio testo la dicitura “copia conforme”.

I calligrafi si ritenevano eterni, con le loro mezze maniche, mes-se lì per limitare il danno sulle camicie bianche delle macchie vagan-ti di schizzi di inchiostro. Ma il progresso avanzava a colpi di dita sui tasti e quella professione veniva accantonata negli archivi dei vecchi mestieri. Un magazzino grande dove finivano le foglie fatte volare dal vento del progresso. Mi pare di vedere gli scaffali di quel magaz-zino. Ecco lì abbandonati e trascurati: i calligrafi, gli acquaioli, gli stradini, le ricamatrici, gli scalpellini, le tessitrici al telaio, i cestai, i cordai, gli agronomi, gli stagnini.

A questo punto ho ripensato a te, mia cara vecchia Lettera 22 della Olivetti. Ho pensato a te anche se sei finita in cantina, tra vestiti vecchi e faldoni gonfi di carta.

Ti vedo quando in un caldo pomeriggio del 1959 ti portò da me,

imballata, nuova fiammante, un giovane agente della Olivetti, con il quale condividevo una camera in affitto, al n. 3 di Piazza Castello, a

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Milano, proprio di fronte alla grandiosa roccaforte Sforzesca. Portavi in dote, perché acquistata da un dipendente, l’esclusivo e introvabile disco vinilico a 33 giri Musica Per Parole, che insegnava a scrivere con tutte le dieci dita, sulle onde di simpatiche e ritmate note musica-li, scritte ad hoc: quei motivetti, allegri e divertenti, mi parvero di buon auspicio per il mio e il tuo futuro.

Eri nuova di fabbrica e fresca, pronta ad affrontare il tuo desti-no, mentre io ti aspettavo, pervaso da una forte dose di giovanile en-tusiasmo, perché stavo percorrendo i primi timidi passi verso un nuovo, interessante e promettente impiego.

Da allora siamo cresciuti insieme. Quante ore ho trascorso con la schiena curva su di te, fiducioso nel sicuro risultato del nostro im-pegno congiunto, convinto di potermi costruire con la tua collabora-zione un futuro migliore, aiutandoci sempre vicendevolmente, leal-mente. Tu ora riposi piena di orgoglio e serenità per aver assolto e-gregiamente il lavoro per cui eri nata; io, sono qui ad aspettare che qualcuno valuti con benevolenza il mio operato e che sopraggiunga-no, anche per me, atti di riconoscenza, come quelli che sto io manife-stando nei tuoi confronti.

In attesa che si compia, lentamente, anche il mio destino! Ma, ahimé, mi sto facendo sopraffare dalla malinconia. Smetto,

perché non voglio proprio ora dispiacerti. Bando, quindi, ai soffocan-ti fumi della nostalgia.

Voglio sempre ricordarti come eri allora, con il tuo solito piglio fermo, in ottimo stato, con il tuo carrello lucido, il tuo nastro rosso e blu, i tuoi tasti luccicanti mossi da lunghe leve di metallo, quasi simi-li alle zampe di fenicottero, a testimoniare un felice passato, quello della mia e tua gioventù.

Ho fisso davanti a me il colore verdino pallido della tua carroz-zeria, quando racconto ai giovani d’oggi la favola della tua comparsa come oggetto rivoluzionario nella mia vita e leggo nei loro occhi un profondo, indescrivibile stupore.

Loro non possono immaginare la carica innovatrice che portasti tra noi ragazzi, ai tuoi tempi, del piacere che avevamo a battere sui tuoi morbidi tasti collegati a lunghe leve che si muovevano come le zampe dell’uccello “dalle ali rosse”. Restano sbigottiti quando tento di spiegare loro come si facevano le copie con la carta carbone e la velina.

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Il tempo passa… Alla parola carbone i giovani pensano alle fa-vole sulla Befana, cui contrappongono le forme rotonde delle giovani veline. Per loro la velina rappresenta oggi una ragazza durante la sua sensuale esibizione televisiva, proprio antitesi della Befana; per noi era semplicemente un foglio di carta trasparente, il quinto, sul quale era possibile ottenere la più evanescente delle copie.

Come è cambiato il tempo! Ma passa e cambia, per tutti. E anche le veline di carne finiranno, prima o poi, come quelle di

carta, nel magazzino dei mestieri spariti. Cara Lettera 22, scusami questo sfogo e le inevitabili vene no-

stalgiche, quando si parla del passato. Tieni presente che anche se sei finita in un angolo di cantina, per me sei sempre la migliore amica e collaboratrice preziosa. Certamente anch’io, prima o poi, dovrò met-termi da parte, perché così è l’ineluttabile evoluzione dei tempi.

Però ti garantisco che lotto ancora con le unghie e con i denti e cerco di resistere.

Tu stai tranquilla! A tramandare il tuo ricordo mi prenderò cura io!

Assumo un impegno preciso nei tuoi confronti: d’ora in avanti spenderò il resto della mia vita e tutte le mie forze per fare in modo che il tempo non affoghi nell’oblio il ricordo di te, del disinteressato ed esclusivo aiuto che in tanti lunghi anni di lavoro mi hai docilmen-te donato.

Ti sono sempre riconoscente. Umberto

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LE ORIGINI DELLA SCRITTURA

Fin dai tempi più antichi l’uomo ha sentito l’esigenza di tra-sformare un messaggio verbale in segni, da poter essere letti o inter-pretati dagli altri. Fu questa la spinta che fece nascere la “scrittura”. L’importanza che i popoli dell’antichità attribuivano alla scrittura era tale che quasi tutti la considerarono un dono degli dei. Gli Egizi pensavano che fosse stata data agli uomini da Toth, dio del-la saggezza, mentre gli Indiani ritenevano che fosse opera di Brahma. Per i Cinesi, fu il dio Fohi a inventare la scrittura, componendone i segni con i denti di un drago. Anche gli Ebrei credevano fermamente che la loro scrittura fosse sa-cra. Si legge infatti nella Bibbia: “Mosè ritornò e scese dalla monta-gna, con in mano le due tavole della Testimonianza, tavole scritte sui due lati, da una parte e dall’altra. Le tavole erano opera di Dio, la scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole”. Gli uomini capirono presto i vantaggi della scrittura, perché essa consentiva:

- di avere un modello di lingua, evitando che le varietà del lin-guaggio parlato ne distruggessero l’unità, faticosamente rag-giunta;

- di conservare il messaggio verbale nel tempo e di poterlo tra-smettere a distanza, con la certezza che fosse correttamente compreso.

Il pensiero umano all’inizio fu fissato col semplice disegno. I documenti più antichi lasciati dall’uomo sono le incisioni rupestri trovate in alcune grotte o su ampie lastre rocciose, ispirate quasi

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sempre dalle attività principali dei nostri antenati: la caccia, la pasto-rizia o i lavori agricoli.

La pittura presso i popoli primitivi sostituisce la scrittura.

Gli antichi abitanti di Valcamonica sapevano leggere solo testi figu-rati come questa scena di lavoro agricolo (forse del secolo VIII a.c.). Anche la prima forma di scrittura fu basata sul disegno. Furono i Sumeri in Asia e gli Egizi in Africa (circa 5000 anni fa) ad usare per primi la scrittura pittografica. Essa consisteva nel rappresentare un oggetto disegnandolo. C’erano però dei problemi. Non tutte le cose, infatti, potevano essere rappresentate facilmente con un disegno. E, poi, come riprodurre con un disegno idee e sensazioni? E come rappresentare discorsi complessi e articolati? Infine, un ultimo inconveniente, forse deter-minante: quanto tempo occorreva per fare tutti quei disegni!

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Si sviluppò così un’altra forma di scrittura: la scrittura ideografica. Accanto ai disegni che raffiguravano degli oggetti se ne crearono al-tri, dal significato simbolico, che si riferiva a idee, azioni, entità a-stratte: gli ideogrammi. Più ideogrammi, dunque, potevano combinarsi tra loro e formare nuovi segni grafici capaci di rappresentare nuovi concetti, anche molto complessi. Gli antichi Egizi furono tra i primi ad usare un sistema ideografico, inventando la scrittura geroglifica. Per il suo valore sacro (geroglifi-co significa, infatti, “incisione sacra”) e, anche, per la sua comples-sità, pochissime persone potevano servirsi di questo tipo di scrittura: i nobili, i sacerdoti e gli scribi.

Esempio di scrittura geroglifica

Quasi contemporaneamente (poco prima o poco dopo: la disputa è ancora in corso) in Asia furono i Sumeri (che abitavano il paese che oggi si chiama Iraq) a servirsi di un tipo di scrittura ideografica. Questa scrittura è detta cuneiforme, perché composta da segni che hanno appunto la forma di cunei

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Esempi di tavolette di argilla con scrittura cuneiforme

I segni venivano incisi con un bastoncino (lo stilo) su tavolette di ar-gilla cruda, fatte poi asciugare al sole. Questa scrittura fu adottata in seguito da altri popoli dell’Asia (Accadi, Assiri e Hittiti) e divenne il sistema più diffuso nella Mesopotamia, la regione compresa tra i fiumi Tigri e Eufrate. Ai nostri giorni, alcuni popoli dell’Asia, come i Cinesi, usano ancora sistemi di scrittura ideografica.

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Dai disegni primitivi agli attuali caratteri cinesi

Circa tremila anni fa, alcune popolazioni del Vicino Oriente intro-dussero nel sistema di scrittura un’innovazione che lo modificò defi-nitivamente. Non più un gran numero di disegni, ognuno corrispon-dente a un’idea o a un oggetto, ma una serie di pochi segni essenziali che rappresentavano ciascuna una sillaba o un suono. Questi sistemi, chiamati sillabico o alfabetico, permettono di rappre-sentare, con la combinazione di quei segni, tutte le parole di una lin-gua. Furono i Fenici, popolo di navigatori e di commercianti, a diffondere in tutta l’area del Mediterraneo il loro alfabeto, che tuttavia non co-nosceva ancora le vocali. I Greci, a loro volta, derivarono l’alfabeto da quello fenicio, mante-nendo quasi immutati nomi e forme delle lettere, ma aggiungendone di nuove per indicare le vocali. A quello greco si ispirarono l’alfabeto etrusco e poi quello latino, an-cora oggi usato in quasi tutto l’Occidente. Fanno eccezione i Greci, che conservano il loro antico alfabeto e alcuni popoli slavi (Russi, Ucraini, Serbi, Bulgari), che usano l’alfabeto cirillico.

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Dai segni ideografici all’alfabeto latino

L’era moderna

Col passare dei millenni, mentre la scrittura si diffondeva tra tutte le Civiltà, sia pure con sistemi diversi, la capacità di scrivere era riservata a pochissimi esperti, con l’impiego di mezzi costosi, in-gombranti e privi di praticità. Nel XV secolo l’introduzione in Europa del torchio tipografico, a ca-ratteri mobili, fu uno dei più grandiosi progressi nella comunicazio-ne, perché permise per la prima volta di produrre più copie dei testi. La prima stampa a caratteri mobili si attribuisce ad un geniale tede-sco di Magonza a nome Johann von Gutenberg (1450), seguito pochi anni dopo da Jacopo da Fivizzano, in una graziosa cittadina sulle col-line della Lunigiana. Grazie alla produzione in massa di libri, giornali e libelli, le idee e le informazioni incominciarono a circolare, tanto che si può dire che il torchio tipografico fu il primo strumento della comunicazione di massa: però non poteva essere utilizzato dai singoli, perché richiede-va un’organizzazione di uomini, di attrezzatura e di mezzi finanziari. Per questo l’Era Moderna, tra l’altro, spinse l’uomo a impegnarsi nella ricerca affannosa di uno strumento agile, veloce, snello e acces-

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sibile alle masse, azionabile facilmente e singolarmente da parte dell’emergente flusso di possibili utenti. Solo in questo modo si sa-rebbe potuto riuscire a superare e velocizzare le insormontabili bar-riere del tempo e dello spazio. Come vedremo, la ricerca di un nuovo mezzo di scrittura è stata mol-to lunga e laboriosa, ma, infine, è riuscita a dare all’umanità un at-trezzo sufficientemente comodo e semplice, attraverso il quale ogni individuo con un minimo di manualità poteva ottenere una scrittura chiara, elegante e uniforme, “stampata” nelle proprie case e con le proprie mani. Era nata l’idea di creare una macchina per scrivere! La prima vera macchina da scrivere (vera, perché agile, veloce, uti-lizzabile da tutti ed economica) comparve nel 1867, e negli anni 20 era ormai diffusa negli uffici di vari paesi del mondo. L’invenzione permise di scrivere in modo non solo chiaro e leggibi-le, ma anche in modo più veloce della scrittura manuale; infatti con quest’ultima è difficile superare le 20 parole al minuto, mentre una dattilografa esperta può agevolmente arrivare fino a 120 parole al minuto.

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Olivetti M20

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Cenni di storia della macchina da scrivere

I precursori

Si può affermare che il primo vero tentativo, di cui si ha cono-scenza, unanimemente riconosciuto, di costruire una macchina per scrivere, che sostituisse la comune scrittura a mano, risale al 1575 ad opera del tipografo ed editore italiano, attivo a Venezia, Francesco Rampazetto, il quale progetta un congegno meccanico con l'intento di permettere ai ciechi di comunicare tra loro e con altri. Era un mec-canismo rudimentale costituito da pezzi di legno a forma di cubo, portanti caratteri in rilievo, mossi da una serie di asticelle e formati da puntine metalliche che forando il foglio lasciavano incise le lette-re.

Si ha poi notizia che nel 1714 l'ingegnere inglese Henry Mill ot-tenne dall’ufficio Brevetti Britannico la registrazione di una macchi-na da scrivere, di cui, però, non si hanno notizie precise.

Nel 1779 Wolfgang von Kempeten, consigliere di corte a Vien-na, costruì una macchina per scrivere ad uso del figlioccio cieco dell’Imperatrice Maria Teresa.

Nella prima metà del secolo successivo gli studi ed i tentativi si intensificano, da parte di appassionati, particolarmente in Europa, e principalmente nei territori del nord Italia, ed in quelli occupati dall’Impero Austro/Ungarico. Citiamo i più noti:

- nel 1808 il nobile Pellegrino Turri di Castelnuovo, in provin-cia di Reggio Emilia, realizza una macchina che scrive. Il Turri è ri-cordato principalmente quale inventore della carta carbone. - nel 1823 Piero Conti di Cilavegna (Pavia), tentò la realizza-zione di una macchina capace di scrivere meccanicamente. Non ri-

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sulta che portò a compimento la sua opera. - nel 1829 si ebbe conoscenza del primo interessante tentativo avvenuto nel Nuovo continente (USA): l’americano William Austin Burth, aveva ottenuto la registrazione di un brevetto di macchina a Washington. Era un attrezzo denominato “Typographer” (tipografo) .

Per gli anni successivi, per non tediare il lettore, ci limitiamo ad una rapida carrellata delle iniziative, in ordine cronologico, anche se a volte le notizie raccolte sono inevitabilmente vaghe:

- nel 1832 si cimenta nel settore il tedesco Barone Karl von Drais, un ispettore forestale di Baden-Baden, che inventa una piccola macchina stenografica. senza fortuna; legò invece il suo nome ad un’altra invenzione, ben più riuscita, ed esattamente quella della ”Laufmaschine”, il velocipede o bicicletta.

- nel 1833 il marsigliese Xavier Progin, si impegna in questo settore e viene principalmente ricordato quale inventore della leva portacaratteri.

- nel 1839 un altro francese, Pierre Foucauld, non vedente, ri-cevette in dono da un suo amico (il nome è sconosciuto) una macchi-na per comunicare tra persone menomate nella vista, chiamato “Ra-phigraphe”. Portava solo dieci leve, disposte a ventaglio, ma non si conoscono altri elementi.

- nel 1843, un americano Charles Grover Thurber, originario di Worcester, costruì due modelli ai quali diede i nomi di “Patent Printer” e “Mechanical Chirographer”.

Negli stessi anni, tra il 1830 e il 1840, uno studioso italiano, Ce-lestino Galli di Carrù, in Piemonte, figlio del farmacista della città, dà notizia di aver inventato una macchina da scrivere, simile ad un clavicembalo, che chiamò Potenografo (dal greco (?) potenos, “che ha le ali”). I modelli proposti da questi geniali personaggi, aggiungono sem-pre nuove idee nella ricerca di apparecchi atti a sostituire la scrittura manuale. Essi però non hanno fortuna e quindi rimangono tutti senza successo, perché solitamente si tratta di macchinari estremamente complessi, rumorosi ed a scrittura non visibile da parte dello scriven-te.

Si giunge così al 1855. A questo punto merita una trattazione particolare l'italiano, avvocato e notaio di Novara, Giuseppe Ravizza, perché il 1° settembre ottiene un attestato di privativa (brevetto) dal

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competente Ufficio di Torino per un modello di macchina a cui dà il nome di Cembalo scrivano, che, per le sue caratteristiche tecniche e meccaniche, può essere considerato il prototipo delle moderne mac-chine da scrivere. Infatti rispondeva ai criteri di praticità e velocità di scrittura richiesti.

Contemporaneamente, ma in altra zona d’Europa, e precisamen-te a Parcines, piccolo paese del Sud Tirolo, a quell’epoca in territorio austriaco, si consuma e naufraga uno dei più seri tentativi di costruire una macchina per scrivere da parte di Peter Mitterhofer.

Continuiamo nella rapida carrellata di ingegnosi personaggi dell’epoca impegnati nella ricerca di un nuovo strumento di scrittura.

Nel 1856 l’americano Alfred Ely Beach presenta la “macchina per scrivere su banda”, derivata dai sistemi telegrafici stampanti.

Nello stesso anno John Cooper, pure americano, inventa una sua “macchina per scrivere”.

Ormai il problema era diffusissimo sia nel Vecchio che nel Nuovo continente e perciò molti si cimentavano nel cercare di risol-verlo, anche se con risultati deludenti.

L’anno dopo (nel 1857) si buttò nella mischia anche Samuel Francis, che brevettò una macchina molto simile al “Cembalo scriva-no” del Ravizza.

Prima di chiudere la rapida e opportuna nota su i personaggi che in vario modo hanno speso parte della propria vita per giungere a realizzare una macchina per scrivere, non possiamo trascurare di par-lare di Rasmus Malling-Hansen, pastore danese, direttore dell’Istituto reale per sordomuti. Egli, dato il suo incarico, aveva no-tato che con le dita si potevano riprodurre dodici segni fonetici in un secondo, mentre con la scrittura a mano solamente quattro. Si dedicò allora alla costruzione di uno strumento meccanico che aumentasse la velocità di scrittura. Lo chiamò “palle di scrittura” (Skrivekugeln) e nel 1867 ne fece costruire circa trecento esemplari, venduti in Da-nimarca, Francia, Germania ed in Austria, qui col nome di Szabel. E’ proprio questa la prima macchina da scrivere prodotta in serie, di cui si ha notizia. Ma, ahimè, anche la “palle di scrittura” era pesante e ingombrante, e quindi fu rapidamente superata da iniziative più pra-tiche.

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La produzione industriale

Più fortunato e più bravo di tutti fu l'americano Christopher La-than Sholes (nato in Pennsylvania – USA) che nel 1867 costruisce e brevetta una macchina, prima in legno e poi in metallo, molto simile a quella di Ravizza, che sottopone a migliorie e perfezionamenti, av-valendosi della collaborazione dei tecnici Samuel W. Soulè, di Car-los Glidden, del finanziatore James Densmore Charles Weller ed in-fine del finanziere James Densmore che a sua volta associa nell’impresa il commerciante George Washington Newton Yost. Con questi validi collaboratori vengono apportate nell’arco di pochi anni significative e interessanti migliorie al progetto iniziale.

L’anno 1874, viene ceduto l’utilizzo dell’ultimo modello per la costruzione di mille macchine alla Remington Arms Company di Ilion, che produceva già armi e macchine per cucire.

Remington Standard, Mod. 10. Anno 1908

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Nel corso della produzione dei mille pezzi (collocata all’interno del reparto dove venivano costruite macchine per cucire) la società elimina con i propri tecnici molte imperfezioni ed avvia la produzio-ne su larga scala, dopo avere acquistato dai vecchi soci tutti i diritti. L’anno dopo la concorrente Underwood rileva il brevetto dell’americano di origine tedesca Franz Xavier Wagner, che aveva progettato un “cinematico” a battuta frontale e costruisce la prima macchina con scrittura visibile, chiamata Calligrafo. Con l’impiego del nuovo meccanismo del Wagner nasce il primo vero prototipo del-

Underwood anno 1901, dotata di meccanismo Wagner.

E' considerata la meglio riuscita dell'inizio secolo.

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la moderna macchina da scrivere, rimasto quasi immutato per circa un secolo.

Nel 1880 comparve sul mercato statunitense il modello Cali-graph n. 1 e fu seguito subito dal n. 2, dotato di una doppia tastiera: una per le lettere maiuscole e l’altra per le minuscole. Non era stato ancora adottato il tasto per le “maiuscole”. Nel 1884 la Hammond produsse un modello con tastiera curva e ruota porta-caratteri inter-cambiabile, per ottenere con la stessa macchina la scrittura di caratte-re diverso. Nel 1893 la Blickensderfer introdusse un nuovo meccani-smo di battitura dotato di cilindro porta-caratteri, anche questo inter-cambiabile.

Il primo grande scrittore che adottò entusiasta l’uso della scrittu-ra a macchina di cui si ha notizia, fu l’americano Mark Twain, che durante un viaggio a Boston vide per la prima volta una macchina in funzione e se ne innamorò.

La donna e la macchina da scrivere

La diffusione della macchina da scrivere negli uffici ebbe un impatto rilevante nel mondo sviluppato. Beneficiarie impreviste fu-rono le donne perché la dattilografia, in cui l’elemento femminile era più adatto, costituì un’opportunità di lavoro a tempo parziale in que-gli ambienti in cui inizialmente l’uso a tempo pieno delle macchine da scrivere non era ancora previsto. E’ ben noto che l’inventore a-mericano Christopher Latham Sholes faceva esercitare la figlia Lilly a scrivere a macchina, con i suoi modelli, nel salotto di casa: fu senz’altro questa la prima dattilografa in assoluto. Quindi l’introduzione della dattilografia offrì alle donne un’opportunità di lavoro impensabile, portandole, finalmente, in una posizione più vi-cina a quella dell’uomo.

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L'Italia e la Soc. Olivetti

Solo nel 1908 ad opera dell’ing. Camillo Olivetti, viene costi-tuita a Ivrea la Soc. An. Ing. Camillo Olivetti, che nel 1911 produce le prime macchine denominate M1. Questa società si affermerà rapi-damente sul mercato mondiale con i suoi modelli M20 (1920), M40/1 (1930), M40/2 (1933), M40/3 (1935) e la prima Olivetti Por-tatile nel 1932, con il nome di “MP1”. A fine Ottocento l’ing. Camil-lo aveva insegnato per alcuni anni all’università di Stanford (Califor-nia), dove si era recato al seguito del suo insegnante torinese Galileo Ferrarsi, e dove era venuto a conoscenza delle tecniche moderne di produzione industriale

Nel 1911, in occasione dell’Esposizione Universale di Torino, Camillo Olivetti presenta i primi due esemplari della Olivetti M1. Nello stesso anno vince la prima importante commessa di 100 mac-chine per il Ministero della Marina e nel 1912 si assicura anche un’importante fornitura per il Ministero delle Poste. La pubblicità fu affidata a Teodoro Wolf Ferrari, che in un grosso cartellone presenta una severa figura di Dante Alighieri indicante una sobria immagine della macchina.

La macchina Olivetti M1 fu realizzata in modo solido e stabile, ogni suo albero era registrabile in parecchi punti, un lusso meccanico che venne abbandonato negli altri modelli. Per comprendere la com-plessità e l’onerosità di questo modello va sottolineato che occorre-vano 25 giorni di lavoro per produrne un solo esemplare. Di conse-guenza dal 1911 al 1920 ne furono prodotti solo 6000 pezzi (il nume-ro di serie inciso nel basamento indicava nelle prime due cifre l’anno di costruzione). Solo nel 1920 fu prodotta la seconda macchina col nome di M20, con caratteristiche costruttive in alcune parti innovati-ve.

La Olivetti, pur avendo iniziato la produzione solo nel 1911, in ritardo rispetto alle ben già affermate case statunitensi Remington e Underwood, si fece rapidamente apprezzare per la qualità del prodot-to ed anche per i prezzi di listino. L’intraprendenza del fondatore Camillo, prima, e del figlio Adriano, dopo, portarono ben presto la società al livello delle principali concorrenti. Entrambi ebbero l’intuizione e l’abilità di avvalersi della collaborazione di valenti pro-

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fessionisti. La Olivetti produrrà in seguito numerosissimi modelli, tra i qua-

li la Lexicon e la Valentine, che rispettivamente negli anni ’50 e ne-gli anni ’70 avranno il privilegio di essere collezionati nel Museo d'Arte Moderna di New York, soprattutto per il loro “design”. Il di-segnatore della Lexicon e di altri modelli Olivetti fu l’ing. Marcello Nizzola, già noto oltreoceano per avere realizzato nel 1926 il cartel-lone pubblicitario per il Bitter Campari. La Valentine fu stilizzata da Ettore Sottsass Jr. che portò in Olivetti una chiara ventata di moder-nità, sia per i colori (bianco, rosso, verde e blu brillanti), e sia per la sua nuova forma e il materiale impiegato (plastica invece del metal-lo).

Olivetti Valentine, prodotta nel 1969, disegnata da Ettore Sottsass Jr.

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Le iniziative minori in Italia A proposito dell’industria italiana delle macchina da scrivere è opportuno dare uno spazio, peraltro ampiamente meritato, alla so-cietà ANTARES, con sede a Milano in via Serbelloni, 14 e stabili-mento a Calò di Besana in Brianza, Milano, agguerrita concorrente della Olivetti per la produzione esclusiva di portatili. I due modelli in netto antagonismo furono: la “Antares 20 Efficienc e la Valentie.

Collateralmente si svilupparono altre case italiane, come la In-victa e la SIM di Torino, che entrarono nel mercato nel 1920 e vi ri-masero con modesto successo sino alla seconda Guerra Mondiale, la Lagomarsino, la Singer, la Littoria ed altre di poco rilievo. La fabbri-ca che invece ebbe molto seguito, per la qualità superiore delle sue macchine, fu la “Serio” di Crema, con il marchio Everest.

Everest portatile, prodotta dalla Serio di Crema

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Anima di questa iniziativa industriale fu l’ing. Eliseo Restelli,

cremonese di nascita e milanese di adozione, che fu chiamato a diri-gere la Serio, avendo già avuto alcuni anni di esperienza nel settore della progettazione, realizzazione e commercializzazione di macchi-ne da scrivere. Per il suo impegno nel settore e per i favori incontrati dalle sue macchine, il bravo dirigente della Serio ottenne la Laurea honoris causa conferitagli nel 1954 dalla Sequoia University di Los Angeles.

Antares 20 Efficiency, anno 1969

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Ma, ahimè, la forte concorrenza della primaria azienda naziona-le e mondiale Olivetti, convinse i soci della Serio a cedere gradual-mente la propria produzione; così nel 1969 si operò la fusione delle due società. La Dirigenza di Ivrea decise, quindi, di affidare allo sta-bilimento di Crema un ruolo strategico per la produzione di nuovi modelli.

Il colpo mortale La fine senza scampo per le macchine da scrivere fu decretato

dall’avvento di Bill Gates, con il suo Personal Computer. Quindi il colpo mortale per la vecchia macchina da scrivere e il

definitivo passaggio della stessa tra gli oggetti d’archeologia indu-striale, arrivò proprio dalla diffusione dei sistemi della Microsoft, che pose gradualmente l’uomo o l’utente al centro dei sistemi infor-mativi. Basta riflettere che nel 1982 il “computer”, com’ è noto, fu portato sull’altare e definito la “persona dell’anno”.

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Nascita di un Museo della macchina da scrivere

Come nasce la mia passione per la macchina da scrivere è ben

spiegato nel mio libro “Il Tasto Magico”. E’ stato pensando a Gaeta, a Antronapiana, a Novara, ai vari servizi svolti all’interno della Ban-ca Commerciale Italiana che gradatamente e sempre più intensamen-te è affiorato, nel mio intimo, un senso di amore e di riconoscenza per questo strumento.

Il mio istinto di collezionista ha fatto il resto. Da ragazzo raccoglievo insieme ai miei fratelli, più grandi di

me, il giornalino “L’Intrepido”; per l’ansia di leggerlo, andavamo a comperarlo direttamente alla Stazione Ferroviaria di Caserta, la do-menica pomeriggio, per averlo appena veniva aperto il plico arrivato da Napoli.

Durante la guerra iniziai a raccogliere monetine lasciate o perse dalle truppe tedesche che stazionavano a Caserta, mimetizzate sotto i monumentali e secolari platani del vialone Carlo III. Dopo la guerra aggiunsi, alla mia minuscola raccolta, le monetine degli alleati, in-glesi e americane, e a dieci anni avevo già riempito un astuccio me-tallico di Formitrol (pasticche per combattere il mal di gola) con mo-nete di varie nazioni, per non parlare della inevitabile raccolta di francobolli, comune a tutti i giovani di quella generazione.

Da qui il passaggio fu breve. Dopo le esperienze di Caserta, Gaeta, Antronapiana, Novara e

Milano, acquistai personalmente, nel 1959, la Olivetti Lettera 22, di colore verdino pallido, che costituì il primo esemplare della mia col-lezione di macchine.

Da allora, quando capitava di trovare vecchie macchine, le teso-rizzavo. Dalla Banca di Sesto San Giovanni, quando le macchine meccaniche furono rimpiazzate dalle Audit Olivetti e dalle calcola-trici elettriche Multisumma, mi feci autorizzare a tenere per me una Everest con inserimento automatico, la Facit a manovella, e della O-livetti due calcolatrici a manovella, la Lexicon 80, nonché la Summa Prima 20 elettrica.

Senza accorgermi, ben presto mi trovai in possesso di una cin-quantina di pezzi, tra cui due Olivetti M20, una M40, due Underwo-od, tre Remington, due Adler, una Royal di inizio secolo ’900, e an-

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che una Mignon di fine ’800. Tutte perfettamente funzionanti. Alcu-ne mi venivano regalate da parte di amici, venuti a conoscenza della mia raccolta.

L’evento che segnò una vera svolta, si verificò nel mese di di-cembre dei primi anni Ottanta.

Mi arrivò una telefonata strana, da parte di un uomo che si pre-sentò come Walter, il quale disse di essere venuto a conoscenza della mia piccola raccolta. Era la vigilia di Natale. Mi chiese di poterla ve-dere, perché anche egli aveva lavorato molto sulla macchina da scri-vere.

Io, anche se ero molto impegnato per gli inevitabili e gradevoli auguri della vigilia di Natale, fui incuriosito dalla richiesta e mi pre-stai a fissare con il personaggio un appuntamento presso la mia abi-tazione, dove nello studio privato avevo allestito una piccola mostra delle macchine più significative.

Alle 15,30, puntualmente, dal balcone vidi parcheggiare sotto casa un vetusto furgoncino Ape 50 della Piaggio. Si aprì lo sportelli-no del guidatore e uscì prima una lunga barba bianca, seguita da un vecchio, vestito alla buona, con in mano una busta di plastica gialla, della Esselunga. Si muoveva a fatica, ma aveva un portamento molto dignitoso e deciso.

Io lo scrutavo dal balcone con incredulità, perché non volevo credere che fosse quello l’uomo della telefonata. Invece bussò pro-prio alla mia porta. Era quindi lui.

Lo feci accomodare nello studio con fare circospetto e incuriosi-to nello stesso tempo. Ci presentammo e lo sconosciuto confermò di essere Walter. Si fermò come incantato di fronte alle Olivetti, alle Facit, alle Underwood, alle Royal, alle Remington, alle Adler, e di tanto in tanto sfiorava qualche tasto, con estrema delicatezza.

Non parlava ed io, per non distrarlo, tacevo a mia volta, seguen-do con stupore ogni suo movimento. Egli stringeva sempre nella ma-no destra la borsa di plastica, come se nascondesse un tesoro. La mia sorpresa cresceva sempre più ed ero come impietrito davanti a quel personaggio.

L’uomo guardava e si lisciava la lunga barba bianca, che scen-deva sino a sopra le ginocchia, quasi a volere trovare maggiore con-centrazione.

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Dopo avere passato in rassegna attentamente l’intera collezione,

emise un grosso sospiro, aprendo la bocca rossa e mettendo in evi-denza una dentatura sana, ma mal curata, e disse: “Bravo! Non mi aspettavo tanto! Auguri per il Santo Natale e per il futuro della tua iniziativa! Sono venuto a portarti un omaggio, spero proprio che tu voglia accettarlo!”.

Parlava in un chiaro italiano, con inflessione lombarda ed era molto serio e determinato.

La mia sorpresa diventò irrefrenabile. Cosa mai poteva avermi portato dalla Esselunga quell’uomo mai visto, mal vestito, che girava con un furgoncino Ape, ma garbato e sensibile?

A quel punto egli aprì la borsa e ne trasse una macchina da scri-vere, rigorosamente antica e nera, che non avevo mai visto prima. Aveva la forma di una farfalla, con due cestelli di leve a forma di ali

Williams 1 coupé, 1891, prodotta a Brooklyn, NY

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messe di fronte alla tastiera; e i martelletti, muovendosi come zampe di cavallette, battevano sul rullo centrale, che rappresentava il corpo della farfalla. Non era provvista di nastro inchiostrato; i caratteri riu-scivano a scrivere perché appoggiati direttamente su un cuscinetto inzuppato di inchiostro. Il foglio girava intorno al rullo, ma avendo poco spazio veniva convogliato, accartocciandosi, all’interno di due avvolgimenti metallici.

Con la sua voce robusta e cavernosa, data la sua avanzata età, Walter mi spiegò che si trattava di una Williams, costruita a Broo-klin, N.Y., nel 1891, in soli 1647 esemplari. E aggiunse di conservar-la bene, perché si trattava di un pezzo raro.

Tutto mi sembrava come un fantastico sogno: la sua improvvisa apparizione, la sua voce forte e decisa, il suo inatteso ed inspiegabile regalo.

Rimasi come paralizzato con la bocca aperta nel dire qualcosa. Non feci in tempo a chiedergli niente: chi lo aveva mandato?, come si chiamava?, come dovevo ricompensarlo? Velocemente aveva già guadagnato la porta e uscito nella strada, salutandomi con un gesto affettuoso della mano.

Chi era mai quell’uomo? Corsi al balcone per fare appena in tempo a vederlo ripartire con

la sua vecchia Ape, di gran carriera come sospinto da un forte alito di vento.

Quando mi ripresi dallo stupore era già lontano. Quell’uomo non poteva essere altro che Babbo Natale, venuto a

portarmi il più importante dono da me mai ricevuto. Non lo vidi mai più, né mi chiamò più al telefono. Tentai anche una piccola indagine tra parenti ed amici per sco-

prire se si era trattato di uno scherzo da loro messo in scena per farmi un regalo tanto gradito.

Ma non approdai a nessun risultato. Quell’evento, quella persona, quella situazione mi convinsero a

proseguire nella mia raccolta, ed iniziai ad esporre le macchine in un appartamentino di proprietà, a disposizione di chiunque avesse piace-re di vederle.

Era nato il mio Museo.