L'Estetica Personalistica Di Luigi Stefanini

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L’ESTETICA PERSONALISTICADI LUIGI STEFANINI 1. Due interessi teoretici primari di Luigi Stefanini Benché si possa dire che gli interessi filosofici di Luigi Stefanini si dispieghino ad angolo giro, è indubbio che alcuni di essi si presentino come primari per l’insistenza con cui li coltivò: e se l’io “è l’assioma nel quale siamo insediati e il dogma in cui bisogna insistere per essere perfettamente critici”, 1 e sul quale si venne innalzando il Personalismo quale concezione essenziale dell’uomo, due sembrano essere gli ambiti che, in conseguenza di tale presupposto, egli ha sottoposto lungamente alla propria riflessione: quello della pedagogia, in quanto scienza di un’educazione che ha per scopo lo sviluppo e il raggiungimento della persona, e quello dell’estetica, quale scienza di quella singolare attività umana che è l’arte. Il magistero pedagogico presso Istituti magistrali prima, il legame con essi attraverso la stesura di manuali di filosofia e pedagogia (ma non solo) poi, non sono certamente un impegno marginale dell’attività di Stefanini: essi danno piuttosto la misura di un interesse profondo, riflesso di una vita vissuta tutta in chiave ‘paideica’, come testimonianza del suo Cattolicesimo personalistico. La incisività intellettiva e l’intensità di coscienza facevano sì che in lui lo scarto tra essere e apparire fosse, secondo le umane possibilità, quanto mai ridotto: tale da conferirgli quella rara prerogativa che dà agli individui la connotazione di autenticità della persona. Se l’arte eleva spiritualmente, anche se non tutto ciò che eleva spiritualmente sia arte, quantunque ne sia imparentato, Luigi Stefanini, come lo ricordano quelli che l’hanno conosciuto, edificava, elevava, suscitava entusiastica ammirazione; e i suoi scritti, e non poteva essere diversamente, mantengono il riflesso di questo fascino, tanto che viene spontaneo affermare che essi hanno molto spesso, accanto alla forza persuasiva della ragione, il pathos ditirambico della Diotìma platonica. Luigi Stefanini, il docente, il pensatore, l’uomo Stefanini, era un esteta, non nel significato usuale del termine: era realmente un amante del bello, con la maiuscola e senza, perché era amante della natura e dell’uomo, perché era amante della vita e di Dio, datore della vita. Con quella stessa capacità di dare totale testimonianza di sé a chi gli stesse di fronte, egli affrontava problemi e autori della storia del pensiero, mettendosi in sintonia profonda con i primi e in rapporto paritetico con i secondi. Dal ‘colloquio’ lungo e amoroso con due figure di filosofi nacquero le grandi monografie su Platone e Gioberti; dalla sintonia con un problema, un problema sempre rivissuto per un ulteriore approfondimento, nasce la sua concezione estetica, che la morte prematura gli sottrasse la possibilità di un compimento definitivo. Notevole è il numero degli scritti di estetica che a partire dal 1921 egli pubblica in un continuo crescendo, e che dal 1947, con la Metafisica dell’arte e la Metafisica della forma, non ha soste neppure nell’anno della sua scomparsa, cessando soltanto nel 1956. Oltre ai due titoli citati, vanno ricordati Estetica come scienza della parola assoluta, Estetica, L’arte come parola assoluta, Trattato di estetica; senza dimenticare il precedente Imaginismo come problema filosofica del 1936, e le due monografie, nelle quali il problema estetico non è certo assente. E se oltre novanta, lui vivente, sono le pubblicazioni e le ristampe di testi relativi a questo ambito, continui sono gli accenni, le folgorazioni di pensiero, le occasionali precisazioni, o le semplici ripetizioni nel corpus stefaniniano che hanno attinenza con l’arte. Tutta la sua attività, tutta la sua persona avevano per questo un evidente taglio pedagogico. 2. Personalismo: fondamento dell’estetica Il Personalismo stefaniniano è il massimo sforzo compiuto nell’Italia del Novecento di fondare una filosofia equidistante dal soggettivismo, riducibile sempre allo scetticismo e al nichilismo, e dall’oggettivismo, sia pure di elevata tradizione scolastica; potremmo dire: equidistante dal principio protagoreo (“L’uomo è misura delle cose”) e da quello parmenideo (“L’essere è e non può non essere”). Questa contrapposizione viene espressa da Stefanini nei termini di particolare e universale: termini antitetici di cui ciascuno, escludendo l’altro, lascia fuori di sé parte della realtà, ma soprattutto lascia fuori di sé l’interezza dell’io, per realizzare uno dei due movimenti cognitivi che sono l’induzione e la deduzione. “Si deve ricuperare il senso del metodo integrale - afferma nel Trattato di estetica, testo che noi seguiremo da vicino - Si deve ricuperare il senso del metodo integrale che, sulla deduzione matematica e sulla induzione sperimentale, sovrasta con la eduzione filosofica, quale esplicazione graduale e indefinita di un principio che tende ad organizzare ogni particolare nella vita del tutto e a dar vita al tutto nella variata molteplicità delle parti.2 Ciò non perché questo principio debba essere “inteso - egli precisa - come semplice legalità delle strutture che si svolgono nel suo seno, destinato a svanire con gli elementi di cui è forma. Esso non è la legge, ma il legislatore; non forma, ma principio formante.” 3 Nella monografia su Gioberti Stefanini riporta le parole del filosofo torinese su ciò che si deve intende per eduzione: “L’induzione sale dal particolare al generale. La deduzione scende dal generale al particolare. La eduzione non sale ne scende ma cammina orizzontalmente di generale in generale e di particolare in particolare, mettendo in luce e tirando fuori un concetto che sta apparentemente sotto un altro concetto, perché realmente s’immedesima seco.” 4 “Universale e particolare - precisa Stefanini - [appaiono] sottoprodotto del singolare. Nel singolare calano il particolare e l’universale e vi si risolvono.5 E questo è possibile perché il singolare dichiara l’unicità del soggetto umano, così che si deve affermare che - sono sue parole - Nessuna categoria prevale sull’unicità, che è, più che il soggetto (le sujet), la sede (le siège) in cui siamo insediati e dalla quale giudichiamo tutto il resto.” 6 L’unicità è il proprio del soggetto umano del quale l’“io - egli dice - è l’unica categoria, […] l’unico apriori da cui si possa muovere senz’essere aprioristi.” 7 E aggiunge perentoriamente: “Il singolare non 1 Luigi STEFANINI: Trattato di estetica. I . L’arte nella sua autonomia e nel suo processo, Morcelliana, 1960; p. 26. 2 Ivi; p. 25. 3 Ivi; p. 25. 4 Luigi STEFANINI: Gioberti, Fratelli Bocca, 1947; p. 334. 5 Trattato di estetica; p. 44. 6 Ivi; p. 44. 7 Ivi; p. 26.

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L’ESTETICA PERSONALISTICADI LUIGI STEFANINI

1. Due interessi teoretici primari di Luigi Stefanini

Benché si possa dire che gli interessi filosofici di Luigi Stefanini si dispieghino ad angolo giro, è indubbio che alcuni di essi si presentino come primari per l’insistenza con cui li coltivò: e se l’io “è l’assioma nel quale siamo insediati e il dogma in cui bisogna insistere per essere perfettamente critici”,1 e sul quale si venne innalzando il Personalismo quale concezione essenziale dell’uomo, due sembrano essere gli ambiti che, in conseguenza di tale presupposto, egli ha sottoposto lungamente alla propria riflessione: quello della pedagogia, in quanto scienza di un’educazione che ha per scopo lo sviluppo e il raggiungimento della persona, e quello dell’estetica, quale scienza di quella singolare attività umana che è l’arte.

Il magistero pedagogico presso Istituti magistrali prima, il legame con essi attraverso la stesura di manuali di filosofia e pedagogia (ma non solo) poi, non sono certamente un impegno marginale dell’attività di Stefanini: essi danno piuttosto la misura di un interesse profondo, riflesso di una vita vissuta tutta in chiave ‘paideica’, come testimonianza del suo Cattolicesimo personalistico. La incisività intellettiva e l’intensità di coscienza facevano sì che in lui lo scarto tra essere e apparire fosse, secondo le umane possibilità, quanto mai ridotto: tale da conferirgli quella rara prerogativa che dà agli individui la connotazione di autenticità della persona.

Se l’arte eleva spiritualmente, anche se non tutto ciò che eleva spiritualmente sia arte, quantunque ne sia imparentato, Luigi Stefanini, come lo ricordano quelli che l’hanno conosciuto, edificava, elevava, suscitava entusiastica ammirazione; e i suoi scritti, e non poteva essere diversamente, mantengono il riflesso di questo fascino, tanto che viene spontaneo affermare che essi hanno molto spesso, accanto alla forza persuasiva della ragione, il pathos ditirambico della Diotìma platonica.

Luigi Stefanini, il docente, il pensatore, l’uomo Stefanini, era un esteta, non nel significato usuale del termine: era realmente un amante del bello, con la maiuscola e senza, perché era amante della natura e dell’uomo, perché era amante della vita e di Dio, datore della vita.

Con quella stessa capacità di dare totale testimonianza di sé a chi gli stesse di fronte, egli affrontava problemi e autori della storia del pensiero, mettendosi in sintonia profonda con i primi e in rapporto paritetico con i secondi. Dal ‘colloquio’ lungo e amoroso con due figure di filosofi nacquero le grandi monografie su Platone e Gioberti; dalla sintonia con un problema, un problema sempre rivissuto per un ulteriore approfondimento, nasce la sua concezione estetica, che la morte prematura gli sottrasse la possibilità di un compimento definitivo.

Notevole è il numero degli scritti di estetica che a partire dal 1921 egli pubblica in un continuo crescendo, e che dal 1947, con la Metafisica dell’arte e la Metafisica della forma, non ha soste neppure nell’anno della sua scomparsa, cessando soltanto nel 1956. Oltre ai due titoli citati, vanno ricordati Estetica come scienza della parola assoluta, Estetica, L’arte come parola assoluta, Trattato

di estetica; senza dimenticare il precedente Imaginismo come problema filosofica del 1936, e le due monografie, nelle quali il problema estetico non è certo assente. E se oltre novanta, lui vivente, sono le pubblicazioni e le ristampe di testi relativi a questo ambito, continui sono gli accenni, le folgorazioni di pensiero, le occasionali precisazioni, o le semplici ripetizioni nel corpus stefaniniano che hanno attinenza con l’arte. Tutta la sua attività, tutta la sua persona avevano per questo un evidente taglio pedagogico.

2. Personalismo: fondamento dell’estetica

Il Personalismo stefaniniano è il massimo sforzo compiuto nell’Italia del Novecento di fondare una filosofia equidistante dal soggettivismo, riducibile sempre allo scetticismo e al nichilismo, e dall’oggettivismo, sia pure di elevata tradizione scolastica; potremmo dire: equidistante dal principio protagoreo (“L’uomo è misura delle cose”) e da quello parmenideo (“L’essere è e non può non essere”).

Questa contrapposizione viene espressa da Stefanini nei termini di particolare e universale: termini antitetici di cui ciascuno, escludendo l’altro, lascia fuori di sé parte della realtà, ma soprattutto lascia fuori di sé l’interezza dell’io, per realizzare uno dei due movimenti cognitivi che sono l’induzione e la deduzione. “Si deve ricuperare il senso del metodo integrale - afferma nel Trattato di

estetica, testo che noi seguiremo da vicino - Si deve ricuperare il senso del metodo integrale che, sulla deduzione matematica e sulla induzione sperimentale, sovrasta con la eduzione filosofica, quale esplicazione graduale e indefinita di un principio che tende ad organizzare ogni particolare nella vita del tutto e a dar vita al tutto nella variata molteplicità delle parti.”2 Ciò non perché questo principio debba essere “inteso - egli precisa - come semplice legalità delle strutture che si svolgono nel suo seno, destinato a svanire con gli elementi di cui è forma. Esso non è la legge, ma il legislatore; non forma, ma principio formante.”3

Nella monografia su Gioberti Stefanini riporta le parole del filosofo torinese su ciò che si deve intende per eduzione: “L’induzione sale dal particolare al generale. La deduzione scende dal generale al particolare. La eduzione non sale ne scende ma cammina orizzontalmente di generale in generale e di particolare in particolare, mettendo in luce e tirando fuori un concetto che sta apparentemente sotto un altro concetto, perché realmente s’immedesima seco.”4

“Universale e particolare - precisa Stefanini - [appaiono] sottoprodotto del singolare. Nel singolare calano il particolare e l’universale e vi si risolvono.”5 E questo è possibile perché il singolare dichiara l’unicità del soggetto umano, così che si deve affermare che - sono sue parole - “Nessuna categoria prevale sull’unicità, che è, più che il soggetto (le sujet), la sede (le siège) in cui siamo insediati e dalla quale giudichiamo tutto il resto.”6 L’unicità è il proprio del soggetto umano del quale l’“io - egli dice - è l’unica categoria, […] l’unico apriori da cui si possa muovere senz’essere aprioristi.”7 E aggiunge perentoriamente: “Il singolare non

1 Luigi STEFANINI: Trattato di estetica. I . L’arte nella sua autonomia e nel suo processo, Morcelliana, 1960; p. 26. 2 Ivi; p. 25. 3 Ivi; p. 25. 4 Luigi STEFANINI: Gioberti, Fratelli Bocca, 1947; p. 334. 5 Trattato di estetica; p. 44. 6 Ivi; p. 44. 7 Ivi; p. 26.

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è trasceso che dal singolare”,8 intendendo riferirsi al Singolare assoluto che è Dio. L’eduzione si presenta per ciò quale movimento di pensiero proprio dell’uomo, che, in quanto singolare, ha in sé i caratteri tanto del particolare quanto dell’universale.

Ma ci si potrebbe chiedere: perché l’unicità è privilegio dell’uomo, del singolo, di “quel singolo”, per ricordare l’espressione kirkegaardiana, e non lo è anche, ad esempio, di un fiore, di quel fiore, di quel singolo? La risposta è data dalla natura umana, in quanto nell’uomo vi è coincidenza (o se vogliamo, relazione essenziale) di unità e totalità nel doppio ordine quantitativo e qualitativo, là dove in quel singolo fiore la coincidenza è del solo ordine quantitativo: l’uomo, per dirla con un antico assioma, ricordato da Stefanini, “è, “in un certo senso”, tutte le cose”,9 il fiore no. Qui sta la sua universalità.

L’uomo, - ci dice Stefanini - tanto acquisisce “il sapere che va sotto il segno dell’unità [e che] tende a trasmettersi impersonalmente”,10 (“il regno della quantità”), quanto gli è proprio “il mondo della qualità”, di cui è parte il “profumo di una rosa”, che nasce da un rapporto totalmente personale con qualcosa di particolare. “La matematica - chiarisce - è l’attività limite della comunicazione impersonale: communicatio sub specie universitatis”, così come l’arte è “communicatio sub specie singularitatis.”11 La prima fa parte di un “mondo ridotto, appunto nella misura dell’unità repetibile”,12 la seconda ha invece le stigmate dell’irripetibilità: “L’arte è la voce dell’unicità, come la scienza è la parola dell’unità. Questa tende alla comunicazione impersonale, quella non si concede che ad un discreto colloquio in cui le parole proteggano il valore dell’unicità che le investe.”13

I quanta e i qualia esprimono le due categorie dell’io: l’unità e l’unicità, delle quali “l’unicità è l’unità irrepetibile”, perché “l’unicità comprende l’unità”,14 e non viceversa; essa è l’unità che unifica in un tutto le parti, e le rende qualcosa che è un qualis. Da questo qualis, che è la nota distintiva della singolarità dell’individuo, nasce l’arte come “l’organo differenziale dell’esistenza perché, - sono sue parole - più di ogni altra attività umana, è legata a quel singolare irrepetibile che è la persona.”15

Stefanini, che a Gioberti ha lungamente guardato, considera con lui l’opera d’arte un prodotto del tipo unigenito, perché è anch’essa una totalità irrepetibile. “L’universale poetico - precisa - è il singolare: ciò vuol dire che il genere che abbraccia la grande famiglia dell’arte sta tutto nella differenza specifica dei suoi componenti.”16 E non a caso per l’arte si parla di gusto, perché è un errore, ci dice, “credere che il gusto appartenga solo all’ordine della sensibilità e che quanto la sensibilità ha di unico e incomunicabile sia imposto dalla materia allo spirito, invece di essere il segno di una elezione che scende sull’empirico e determina in esso delle zone riservate.”17 I due generi di gusto stanno uno nel prolungamento dell’altro, in quanto esso, “prima di essere piacere del palato, è l’amore con cui la singolarità aderisce al proprio atto.”18

Benché un quadro, una statua abbiano un’oggettiva concretezza trascendente il soggetto, tuttavia come opera d’arte quell’oggetto è gustato quasi fosse offerto al “piacere del palato”, e per ciò mio e di nessun altro; e se è vero che ognuno può dire la stessa cosa per proprio conto, le opere che vengono colte dal mio gusto vengono colte secondo il modo del mio gusto: “i qualia - dice Stefanini - sono la clausura dell’eremo”,19 così come i “quanta sono il regno dell’universale anonima divulgazione”.20 E ancora: “Le qualità rendono privato il mondo: costituiscono un tête-à-tête delle cose col singolo. Il profumo di una rosa, il sapore d’un cibo sono doni che non possono essere donati.”21

All’unicità del fruitore d’arte corrisponde l’unicità del poeta, così che tanto il poeta dona nella singolarità della sua poesia, quanto il fruitore coglie con la singolarità della propria sensibilità. Nasce un’intimità di rapporti spirituali tutta particolare che si definisce estetica. È la tangenza di due esseri spirituali. L’arte, egli afferma, “convince gli uomini a discendere lungo le radici invisibili fino a quel punto in cui si stringono i contatti più saldi e più intimi”,22 annunciandosi come “un preludio dell’amore delle anime.”23 Questo gli fa affermare che “Il criterio per discriminare il gusto buono da quello cattivo è il grado di profondità raggiunto nella penetrazione del soggettivo e del personale.”24

3. L’arte: parola assoluta

Se, come dice Stefanini, “La causalità fisica è transitiva, cioè la causa passa nell’effetto e vi si estenua […] La causalità spirituale, cioè la parola, è invece riflessiva: ritorno di fiamma dell’essere su se stesso, moto circolare dell’io che si possiede nel proprio atto e, tutt’altro che estenuarsi in quest’attività, vi si potenzia ed esalta.”25

Questo è uno dei principali punti fermi del suo pensiero, di lontana derivazione platonica, poiché l’Essere secondo Platone, che è di ordine intellegibile, è dualità riflessiva di Uno ed Essere, ciascuno dei quali conserva, nella infinita distinzione ulteriore, se stesso nell’altro: l’Uno continuando a presentarsi come Essere, e l’Essere a presentarsi come Uno. Da questa specifica connotazione deriva all’io, quale pensiero pensante, secondo la definizione platonica, quanto sostiene Stefanini, e cioè che in sé “La parola compie la sua

8 Ivi; p. 45. 9 Ivi; p. 76. 10 Ivi; p. 45. 11 Ivi; p. 45. 12 Ivi; p. 46. 13 Ivi; p. 46. 14 Ivi; p. 45. 15 Ivi; p. 30. 16 Ivi; p. 47. 17 Ivi; p. 48. 18 Ivi; p. 48. 19 Ivi; p. 46. 20 Ivi; p. 46. 21 Ivi; p. 47. 22 Ivi; p. 51. 23 Ivi; p. 51. 24 Ivi; p. 50. 25 Ivi; p. 67.

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esibizione di spirito, moltiplicandosi indefinitamente come il pane del miracolo.”26 E infatti, “La causalità spirituale, cioè la parola, è […] riflessiva”, in quella stupefacente istantaneità nella quale riflettiamo parlando e riflettiamo ascoltando.

““Il verbo che nasce nella mente, - ci dice Luigi Stefanini con le parole di Fulgenzio - non ha nulla meno di quanto c’è nella mente da cui nacque [cioè, la mente di Dio], perché, quanta è la mente del generante, tanto pure è il verbo”27 generato; e prosegue poco dopo: “Questo è solo l’essere di cui abbiamo esperienza e concetto: l’essere centrato in se medesimo per mezzo del suo verbo, col quale si dice si vuole si ama. Ens declarativum et manifestativum sui.”28 Il verbo umano è dunque simile a quello divino: declarativum sui a se stesso e manifestativum sui agli altri.

Quest’atto in noi tuttavia non è né necessario né totale, ovvero è necessario e totale nei soli limiti dell’emergere della coscienza, non nella presunta assolutezza dell’autocoscienza. Benché infatti il nostro verbo non abbia “nulla meno di quanto c’è nella mente da cui nacque,” Stefanini, contro l’idealismo di Gentile, afferma che “l’autocoscienza non riesce a farsi, in noi, autoctìsi.”29 Per ciò, “la parola dell’uomo non è il Verbo [di Dio]. Per essere tale dovrebbe essere l’atto dell’essere che si possiede senza residuo e si genera nel suo possedersi […] Non v’ha spettacolo puro dell’io e tutto quello che è spettacolo nella vita dell’uomo non è l’io. Per possedersi l’uomo è come proiettato fuori di sé e messo davanti allo spettacolo del mondo.”30 Questo ‘passare attraverso’ il mondo, con tutta la fatica e la sofferenza che può comportare, costituisce la ricchezza della persona; e difatti, “Intuiamo le cose perché non possiamo intuire l’io [,] e le cose ci sostengono nello sforzo che facciamo per conquistarci.”31

Ecco il punto: “Per esprimerci (pensarci e farci) siamo rimandati a quello che noi non siamo”,32 perché la coscienza, prendendo le mosse da se stessa, ritorna a sé passando per la realtà sensibile, cioè attraverso “l’essere che non è personale”,33 ma a cui Adamo dette un ‘nome’: “Dire che ogni cosa nasce con un nome che le è proprio, come fu insegnato ad Adamo nei primi giorni della creazione, vuol dire che in un universo dove c’è l’uomo le cose acquistano la virtù di essere contemporaneamente in sé e in lui.”34 È chiaro che non si tratta di nome fonetico, ma del nome mentale quale essenza delle cose..

Poiché d’altra parte non “siamo un sacco di cose, senza che sia nulla il sacco in cui le cose sono contenute”,35 come vorrebbe Sartre, che Stefanini cita, esse in noi rinnovano il loro carattere intelligibile di ‘parola’ come noi stessi rinnoviamo tramite loro il nostro carattere intellegibile di verbum, di logos. “Il nostro atto (il nostro pensiero, la nostra parola) - egli afferma - ci assimila a quello che veramente siamo”:36 in altri termini, ciascuno di noi è un intellegibile (l’intero intellegibile: l’universale di cui si è parlato) capace di ‘intelligere’ mediante le cose conosciute (parti dell’intero intellegibile: il particolare).

Ci si rende sempre meglio conto di come la concezione stefaniniana dell’arte affondi le sue radici nella metafisica della persona, e la persona nella metafisica platonica. Il rapporto tra tutto e parti, tra anima e cose, fa sì che “in ogni oggetto conosciuto ci conosciamo, in ogni oggetto amato ci amiamo, e volendo alcunché ci vogliamo e qualunque cosa facciamo ci facciamo”,37 dice Stefanini: noi diventiamo quell’intero che virtualmente siamo; diventiamo cioè pienamente noi stessi, per un processo conoscitivo e volitivo di quella ‘verità che rende liberi’, secondo l’espressione evangelica, perché è la verità (intelligibile) che è in noi, che siamo noi.

“Nella sua natura personale, - continua il nostro filosofo - l’essere è parola: manifestazione a se medesimo ed autopossesso dell’essere nella propria inseità. V’ha bensì, nell’essere, dell’essere che non è personale (le cose, che non parlano), ma l’essere, che non parla, non esiste e non vale se non in virtù dell’essere personale, che lo fa essere, manifestandosi in esso, attraverso la parola: omnia per ipsum [per Verbum] facta sunt et sine Ipso factum est nihil quod factum est. La possibilità della parola - di ogni segno con cui l’uomo comunica con gli altri - è decisa dalla prerogativa dell’essere spirituale di comunicare anzitutto con se medesimo nell’intimità dell’atto con cui viene alla luce, pronunciandosi a se stesso.”38

“Dalla semanticità e dall’intenzionalità [del nostro verbo] - ci dice ancora - si dispiega un’altra nota dell’atto umano: l’ulteriorità. Non ci possediamo mai allo stato puro, perché la nostra parola non è il Verbo [assoluto].”39

L’ulteriorità è l’apertura infinita del nostro io a se stesso attraverso le cose, gli altri, Dio. L’intensità di questa apertura fa sì che nell’arte si compia quasi il kierkegaardiano “salto infinito della fede”, attuandolo nell’espressione, e creando una parola assoluta: la poesia; non “un’imagine “in cui non si crede””, qual’è il “segno della scienza”, ma “quella “in cui si crede””,40 perché è immagine unica e viva dell’anima viva e unica del poeta. Sulla linea giobertiana, Stefanini per ciò può sostenere, come abbiamo già detto, che “l’arte è una mostra di “esemplari” unici. La parola della poesia ha la qualità dell’esemplare unico.”41

“L’arte è lo spessore dell’attimo, - sono sue parole - perché nell’attimo noi caliamo interamente, trovando il punto d’una provvisoria coincidenza dell’idea col senso.”42 La limitatezza, la contingenza dell’uomo, trova nell’attimo la tangenza con l’Eterno; e universale e particolare si fondono nella singolarità della parola, la parola assoluta; e nell’attimo espressivo della parola assoluta

26 Ivi; p. 68. 27 Ivi; p. 67. 28 Ivi; p. 68. 29 Ivi; p. 75. 30 Ivi; p. 69. 31 Ivi; p. 70. 32 Ivi; p. 75. 33 Ivi; p. 73. 34 Ivi; p. 76. 35 Ivi; p. 70. 36 Ivi; p. 75. 37 Ivi; p. 77. 38 Ivi; p. 73. 39 Ivi; p. 77. 40 Ivi; p. 89. 41 Ivi; p. 91. 42 Ivi; p. 130.

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l’arte diviene “l’ora cosmologica dell’uomo”.43 Il sensibile viene trasceso come puro contingente per trasformarsi in quell’“universale poetico [che] è il singolare”: il tipo unigenito, come abbiamo detto; infatti, se “la parola è consustanziale all’essere”,44 allora “Il nostro atto (il nostro pensiero, la nostra parola) ci assimila a quello che veramente siamo”, a quello che irripetibilmente siamo.

L’arte è per ciò la singolare espressione di quel ‘singolare’ che è l’individuo; e si comprende come l’arte concorra “ad orientare l’uomo verso il suo interesse supremo”45 perché, secondo la lezione kantiana, essa presenta un interesse senza utile, senza un utile particolare e contingente, il quale resta di ordine inferiore.

4. Arte e Romanticismo

Ma c’è uno spartiacque nella storia dell’estetica, anzi nella storia dell’umanità in tutti i suoi aspetti, con il quale è nata una dicotomia del gusto: “La storicità dell’arte - ricorda il filosofo trevigiano - cambia tono o, meglio, cambia versante, quando, nel periodo romantico, al gusto esclusivo per un solo gusto succede il gusto dei gusti, cioè la capacità di godere di espressioni artistiche che, invece di obbedire ad un cànone irreformabile, obbediscono alla varia natura degli individui e soprattutto al vario spirito delle epoche e dei popoli.”46 Nasce, egli dice, “il proteismo del gusto [che,] mentre vince l’anchilosi del gusto, rischia di dar adito all’anarchia del gusto.”47

Stefanini sembra oscillare tra l’accettazione incondizionata dell’arte romantica, quale specchio più vero della singolarità del poeta, e il rifiuto appunto dell’“anarchia del gusto” che essa genera. Il principio protagoreo appare ora incarnato dal Romanticismo, che sembra definitivamente scalzare il principio parmenideo.

È un fatto: “Il filosofo - egli sottolinea - trova ora maggiore difficoltà nell’evidenza che nel dubbio”:48 il dubbio che serpeggia nel cumulo dei particolari disarticolati, di contro all’evidenza dell’universale, che non salva la vita di quelli. Così, “il poeta preferisce al vedere l’intravvedere, il presentimento alla percezione. Il crepuscolare, se non addirittura il notturno e il sepolcrale, diventa l’atmosfera propizia per l’anima romantica, tesa alla ricerca di un “di più” che nessuna percezione può rendere, sì che debbono essere estinte tutte le luci del giorno affinché quello possa essere posseduto nelle sue arcane profondità.”49

Davanti a questo spartiacque, che pone la contrapposizione soggetto-oggetto a vantaggio del primo, l’eduzione, di cui inizialmente Stefanini ha parlato, non si presenta certamente come una via facile di ricomposizione e conciliazione.

L’opposizione Classicismo-Romanticismo include quella tra vedere ed esprimere: il vedere, proprio del genio classico; l’esprimere, di quello romantico. Il contrasto sta tra oggetto veduto e soggetto esprimente, anche se l’oggetto veduto è veduto da un soggetto, e se il soggetto esprimente esprime pur sempre un oggetto, seppure tenda alla ‘pagina bianca’. Dove allora l’opposizione? Appunto nella ‘pagina bianca’, come espressione dell’inesprimibilità del soggetto esprimente.

Ma qui è necessario fare una breve precisazione storiografica, e affermare che ‘il secolo dei lumi’, soprattutto in area nordica, e cioè maggiormente caratterizzabile come preromantica, può ugualmente essere definito ‘il secolo dello spegnimento dei lumi’, se noi poniamo l’accento su quel fenomeno culturale che opera a un progressivo abbandono dei trascendentali dell’essere. Uno, bello, vero, bene nella metà del secolo si trasformano nel loro contrario: mentre fino a quel momento non vi era estetica che non iniziasse il proprio discorso a partire da essi, ora se ne prescinde; e in pieno Romanticismo anglo-germanico non c’è “demiurgo moderno” che non li abbia capovolti più o meno tutti.

A Hegel spetta la maggiore teorizzazione della positività del negativo: e questo potrebbe bastare. E non è soltanto l’essere dell’oggetto a subire la magia del soggetto: è lo stesso soggetto, e soprattutto lui, a subire l’Idealismo magico di quell’apprendista stregone che è la sua immaginazione; e il trascendentale che maggiormente in lui finisce per essere scardinato è l’uno: i casi di follia (perdita dell’unità della psiche) sono frequentissimi ed emblematici: si pensi a Hölderlin e Nietzsche, all’inizio e al termine della parabola romantica.

Karl Rosenkranz scrive a metà dell’Ottocento L’estetica del brutto, e Fichte aveva già teorizzato una dialettica strutturata sulla negazione. Prima che si esclamasse: “Dio è morto!”, l’arte era già stata dichiarata ugualmente deceduta; e pareva che dovesse rimanere, sempre più pura, sempre più trionfante, la sola filosofia come manifestazione del pensiero dialettico.

Cos’è dunque avvenuto con il Romanticismo, con questo discendente dell’irrazionalismo del diritto germanico? Preparato da un lungo lavoro parallelo in tutti i campi, il romantico ha fatto del soggetto il generatore di se stesso, e del vedere il suo proprio esprimere, perdendo in tal modo l’autentico rapporto con se stesso. Stefanini ricorda a riguardo il monito di Hamann: “Così Giovanni Giorgio Hamann preludeva all’imminente romanticismo: “La conoscenza di sé è e rimane il segreto del vero autore. Essa è la profonda sorgente della verità, che è nel cuore e nello spirito”.”50

Ma il Romanticismo rappresenta una nuova forma di coscienza, più profonda della precedente, o è invece l’inizio del suo venir meno? È il conseguimento di una sospirata autentica emancipazione che è nata anche prima di quella dell’“homo faber fortunae suae”, o è l’illusione di una emancipazione che ha, o finisce per avere, tutti i connotati del suo contrario?

L’“homo faber fortunae suae” è la faccia, per così dire, ‘paideica’ del protagoreo “homo mensura sui”, che nel Romanticismo si trasforma in “homo patrator sui”: dall’Iperione a I discepoli di Sais, da I fiori del male a Una stagione all’inferno, assistiamo allo sforzo, a volte titanico, di scardinare dal soggetto l’oggettività in cui si specchia, che del reso, in ambito positivistico, assume sempre più uno statuto materialistico.

43 Ivi; p. 133. 44 Ivi; p. 74. 45 Ivi; p. 180. 46 Ivi; p. 49. 47 Ivi; p. 50. 48 Ivi; p. 55. 49 Ivi; p. 55. 50 Ivi; p. 216.

Page 5: L'Estetica Personalistica Di Luigi Stefanini

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Il protagonista romantico, il soggetto dell’autogenesi, cede del resto presto il proprio ruolo alla società, e questa, con l’avvento delle forme democratiche, lo restituisce all’individuo reso anonimo dal soverchiare delle masse sull’individuo, e dalla supremazia dell’economico sullo spirituale: è la definitiva morte dell’arte, e il soverchiare dei quanta sui qualia.

Quale virus era stato inoculato dal Romanticismo nel gusto, nell’arte? Semplicemente il brutto! Il “brutto entra nell’arte, - dice Stefanini - ma bisogna osservare attentamente in qual modo vi entra. Il brutto entra nell’arte, anzitutto, quale contenuto, come ciò che non vale nell’arte se non in quanto trasfuso e risolto nella forma.”51 Ma in questo caso non siamo in presenza di un brutto estetico. Quando però il brutto non è un contenuto che prenda parte alla forma artistica, ma intacca quest’ultima fino a stravolgerne la funzione, che è quella di generare l’unità, allora, nonostante l’equivoco estetico in cui viviamo, dell’arte non rimane che il nome: siamo davanti ai vestiti dell’imperatore. Non si può confondere, insiste Stefanini, “un’artistica rappresentazione del brutto con una brutta rappresentazione del brutto.”52

Con il brutto, egli precisa, “la deformità stessa s’insedia nella forma, in modo che sembri fatale la capitolazione alla legge del disordine e del caos. Qui si dovrebbe passare, com’è stato detto, dal “brutto nell’arte” al “brutto dell’arte”.”53 E continua: “Non si crea la forma del deforme se il deforme non finisce nella forma. Ma se l’ultima parola non resta all’ordine ricomposto, alla forma stretta sul plesso vigoroso delle sue resistenze, non si tratta della parola dell’arte: si tratta solo d’un transfert di psicologia turbata in un momento difficile della storia degli uomini.”54 “Questo antinomismo artistico, che non è una novità dei giorni nostri, perché partecipa della natura stessa dell’arte, si accentua fino al delirio in un’epoca afflitta dalla propria incapacità di darsi una forma o soddisfatta dei propri contrasti più stridenti e ansiosa di ritrovare le sue fattezze nel volto dell’arte.”55

“È stato detto più volte che ogni stile ha il suo barocco: - ci ricorda - il barocco, infatti, non è che l’arte spinta dal diverso al contrario.”56 Ma qui si apre un discorso che avrebbe bisogno di più ampio spazio: ci sia permesso accennare solamente alla distinzione che occorre operare tra barocco della forma e barocco del contenuto, quale nel Seicento soprattutto si è andato determinando. La distinzione e divaricazione dei due tipi di barocco, posti storicamente in contrasto tra loro, hanno portato al virtuosismo della forma, senza contenuto (il Rococò), e all’esaltazione del contenuto, senza forma (teoria romantica della pagina bianca). I risultati tuttavia, al di là dei programmi e delle aspirazioni, sono quello che sono: a volte di alto valore, a volte di valore modesto.

Se l’arte è morta, come di fatto è morta, poiché quella che si dichiara tale crede di parlare a qualcuno, a qualcuno che crede di udirla parlare, ciò vuol dire che nella società si è prodotta quella lacerazione tra uomo e uomo, e nel singolo in se stesso, che il principio di Protagora di Abdera implicitamente conteneva. L’eduzione, che Stefanini aveva ripreso da Gioberti, da un filosofo cioè che poneva l’identità tra ‘primo logico’ e ‘primo ontologico’, del resto come un San Bonaventura aveva ancor prima teorizzato, l’eduzione, dicevo, rischia di restare una semplice aspirazione, non però assumibile nel contesto personalistico, se il singolare che è l’uomo non viene chiaramente trasceso dal Singolare che è Dio. “Il singolare - aveva detto Luigi Stefanini - non è trasceso che dal singolare”, e alludeva a Dio; ma se questo è vero, converrà senz’altro affermare con Platone che “Il dio è per noi la massima misura di tutte le cose, molto più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora.”57

51 Ivi; p. 209. 52 Ivi; p. 210. 53 Ivi; p. 211. 54 Ivi; p. 213. 55 Ivi; p. 212. 56 Ivi; p. 212. 57 Leg. IV, 716 c.; in PLATONE: Opere complete. Laterza, 1971.