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Roberto Faggi L’esistenzialismo religioso di Kierkegaard

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Roberto Faggi

L’esistenzialismo religioso di Kierkegaard

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Seconda edizione gennaio 2006TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI

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Sommario

L'esistenza come interesse 7

Il concetto di “singolo” 11

Religione come infrazione 15

Etica 21

Ironia e dialettica dell'aut-aut 25

Kierkegaard e l'estetica romantica 29

L'immediatezza estetica 35

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L'esistenza come interesse

L'esistenzialismo nasce in chiave religiosa, per opera del teologo danese Sören Kierkegaard1.Sembra strano che dalla religione possa nascere un concetto esistenzialista della vita, eppure Kierkegaard, proprio facendo leva sull’essenza della religiosità, dà risalto, in maniera del tutto innovativa, all’esistenza come fattore primario della vita umana.Per comprendere la questione, dobbiamo distinguere fra “essere” ed “esistere”.Esistere, da ex-sistere, ha il significato di “sortire fuori” dal grembo materno, lo starne fuori, indica cioè la vita che l’uomo vive in proprio, dalla nascita alla crescita, all’invecchiamento e alla morte, che è un “rientrare” nel grembo materno della terra.Questo “sortire fuori” è anche interpretato in chiave religiosa, come uno stare fuori dello spirito, che si separa dalla sua sede originaria, il divino, per racchiudersi in un corpo.In realtà non è necessario ricorrere a soluzioni estranee alla natura, per definire l’esistenza, che sta a significare la vita nel suo divenire, la metamorfosi di ogni singolo individuo.L’esistenza, anche se è analoga per tutta la specie umana, va considerata individuante, come fatto soggettivo e personale, che ogni individuo vive per sé.Kierkegaard elabora così una dottrina esistenzialista incentrata sul concetto di “singolo”.

1 Nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813, presso una famiglia pietista della comunità religiosa dei Fratelli Moravi, che gli trasmise un’idea del Cristianesimo rigorosa e severa e un modo abbastanza cupo di concepire la debolezza e la peccaminosità della natura umana.

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Distingue, infatti, fra i termini danesi tivaerelse, esistenza di fatto, ed existents, che è l’esistenza individuale.Si tratta di una distinzione tra generale e particolare, che non è fondamentale in un’analisi filosofica, perché ogni singolo uomo, pur partecipando biologicamente alla sua specie, vive in proprio la sua esistenza: il suo mondo è il suo io, tutto ciò che è esterno ad esso è altro, non-io, genericità che in un certo qual modo lo nega.L’individuo tende a distinguersi dai suoi simili, si pone come esemplare unico e si adopera sempre per attuare la propria esistenza, realizzandosi per quello che è.La distinzione filosofica fra esistenza e pensiero è illecita e ingiustificata; tanto meno si deve parlare di prevalenza dell’uno o dell’altro termine. Nell’uomo l’esistenza ha un duplice aspetto: è biologica e condiziona il soggetto a bisogni fisiologici insopprimibili, come l’alimentazione, la defecazione, il sesso, il dormire ecc.; è culturale e si esprime come coscienza, volontà, creatività ecc..Questi due aspetti sono interconnessi e interagenti; è il nostro modo di pensare che ci porta a distinguerli, per meglio valutarli, mentre in realtà sono due facce della stessa moneta.Per certi versi l’aspetto biologico è primario, perché senza di esso non potrebbe svilupparsi l’aspetto culturale; è però anche vero che i bisogni fisiologici vengono anch’essi vissuti in maniera culturale.Si formano nel soggetto sovrastrutture mentali che incidono sull’intera esistenza biologica.Non solo ogni singolo individuo vive a suo modo la propria fisicità, ma vivendo nell’ambito di una società di persone è sottoposto a condizionamenti culturali, per cui l’alimentazione è vista come una scienza, le malattie

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fanno capo alla scienza della medicina, la sessualità è vissuta come sentimento, è legata non tanto a un accoppiamento casuale e momentaneo, ma a un’istituzione come quella del matrimonio o comunque a una convivenza familiare.L’uomo è innanzitutto cosciente di esistere, è dotato di una propriocezione e di un pensiero che ininterrottamente parla a se stesso, sviluppandosi come logos.Secondo Kierkegaard, l’uomo avverte come una contraddizione questo suo essere esistente e pensante, tanto che si crea una discrepanza fra il pensiero che, una volta espresso, appartiene al passato e l’esistenza che può attuarsi soltanto nel presente.In realtà egli si riferisce al pensiero oggettivo, inteso come sapere, trascurando che anche l’esistenza si oggettiva nella storia e in tal caso si colloca nel passato.Dovremmo invece parlare di pensiero e di esistenza del singolo soggetto nel presente, considerandolo come divenire di coscienza, volontà e creatività.L’individuo è implicato in ciò che pensa, è implicato nelle sue scelte, è implicato nel suo agire, perché ci esiste dentro; in questo senso Kierkegaard afferma che l'esistenza è interesse (inter-esse)2 soggettivo. Questa implicazione, che crea un contrasto col sistema sociale collettivo e genericamente col mondo esterno al soggetto, conduce al sentimento d’angoscia.Kierkegaard critica la dialettica, che ha la presunzione di approdare al pensiero oggettivo, perché si basa su meri elementi logici, vale a dire su una razionalità astratta, che pretende di spiegare ed esaurire tutto, ma che non corrisponde alla realtà.

2 Nel saggio metodologico Alternativa.

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Il concetto di “singolo”

A differenza di Hegel, che soffoca l’individualità a vantaggio del sociale e dello Stato assoluto, Kierkegaard scopre il concetto del “singolo”, vale a dire di personalità individuale, a cui attribuisce un valore centrale.Con Timore e tremore, edito nel ’43, Kierkegaard antepone al dubbio della filosofia moderna, di derivazione cartesiana, la fede travagliata di Abramo nell'Assoluto; egli non può mettersi in comunicazione con nessuno, perché sa di non poter essere capito. Abramo vive un’esperienza religiosa individuale e la sua decisione di sacrificare il figlio è la risposta a un ordine non discutibile di Dio, non una sua scelta personale.In questo caso, si abbandona a una misura più grande della sua; questo però provoca in lui angoscia, perché non può disobbedire a questa chiamata esterna, a lui superiore.In questo contesto, l'angoscia e la disperazione non sono stati d'animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a sé e al mondo.La fede di Abramo pone la superiorità della religione: solo Dio può dare delle risposte.Soltanto in questo stadio l'uomo affronta fino in fondo se stesso, quell'io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non riusciva a capire e a risolvere, ossia l'angoscia e la disperazione, e decide pertanto di abbandonarsi totalmente a una misura che supera la finitezza razionalizzabile, al Dio della rivelazionecristiana, che chiede all'uomo il salto, non irrazionale, ma certamente metarazionale, della fede.

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La fede non è irrazionale, bensì profondamente rispondente alla realtà dell'esistenza umana. Per Kierkegaard, esiste un dovere assoluto verso Dio, che è superiore a tutti gli altri doveri, anche a quelli verso la collettività; si serve di Abramo per giustificare l'individualismo religioso e rifiuta tutta la filosofia moderna, in particolare il punto di partenza del cogito e del dubbio, perché sono processi meramente concettuali che confondono le idee.Più che di dubbio, secondo Kierkegaard, bisognerebbe parlare di disperazione o di scandalo, vale a dire di stati d’animo ben più profondi e complessi.Questa posizione porta Kierkegaard a criticare la Chiesa istituzionale3 che, a suo avviso, ha imborghesito il Cristianesimo, conciliandolo con una vita mondana e operosa, governata da una morale utilitaristica.A suo parere, le autorità religiose avrebbero dovuto evidenziare la sofferenza, la paradossalità della fede, la critica al Cristianesimo di massa, la contemporaneità col Cristo, la decisione esistenziale, il senso dell’infinita distanza tra uomo e Dio, la conoscenza del peccato, l’esigenza di testimoniare la verità in modo personale ecc., tutti aspetti che avrebbero scosso la cristianità stabilita.Per Kierkegaard la Chiesa non avrebbe dovuto intromettersi nelle questioni politiche e fare compromessi, concordati o intese, perché egli non concepiva un Cristianesimo di massa, che dispensa la salvezza con poco e che di fatto esclude la possibilità di diventare cristiani.

3 La Chiesa di Danimarca era una Chiesa di stato, i cui pastori ricevevano uno stipendio dal governo e conducevano una vita abbastanza comoda, limitandosi a predicare, la domenica, in modo conforme alle attese religiose accomodanti del loro uditorio borghese.

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Generalmente si è cristiani in massa, solo perché si viene battezzati, o perché ci si trova a vivere in un certo ambiente.Kierkegaard usa la religione come occasione per distaccare l’individuo dal contesto sociale; pur promuovendo una protesta solo in chiave religiosa, invita alla rottura con la società.La persona come individuo singolo si erge, per lui, contro il Cristianesimo universalmente diffuso e contro l’organizzazione dell’umanità come folla.La ricerca di Dio non può che essere personale e presuppone una sofferenza continua: è come un anelito continuo a Dio.Il Cristianesimo va vissuto nel singolo e nell’istante: in ogni istante il singolo deve giocare la propria fede, senza mai darla per scontata.Il Cristianesimo, pur affidandosi a una ritualità celebrata collettivamente e a una comunità ecclesiale, che trova la sua giustificazione nella parabola della vite e dei tralci, si fonda tuttavia su un rapporto unico e ineludibile di ogni singolo con Dio.Non ci si può considerare cristiani solo perché si dice di credere nelle verità di fede della Chiesa; occorre piuttosto dimostrare la religiosità nei fatti.Il vero Cristianesimo è per lui scandalo e paradosso, mentre la cristianità, con l’aiuto dei pastori, dei professori e dei filosofi, l’ha reso un’insieme di dottrine di puro stampo razionale.Dio è il superlativo dell’essere umano e la religione costituisce lo stadio più elevato della vita umana, quello in cui l’uomo si avvicina maggiormente all’assoluto e alla verità.La scoperta del "singolo" porta Kierkegaard a liberarsi dalla pretesa hegeliana di conciliare gli opposti a livello

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speculativo; dirà: "La verità è verità solo quando è per me". La verità non può essere oggetto di pensiero, ma processo di appropriazione da parte del soggetto, che è attratto verso la verità.L’esistenza di per sé non è verità, lo è in quanto volontà e tensione verso la verità, cioè come soggettività.Non si può scindere la verità dalla volontà di esistere.In tal modo egli rivendica il primato dell'esistenza sull'essenza, dell'essere sulla coscienza, del soggetto sull'oggetto.

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Religione come infrazione

Per Kierkegaard, l'esperienza religiosa nasce come infrazione della gerarchia di valori, come paradosso agli occhi della serena ragionevolezza etica; ha quindi una forma scandalosa, come scandaloso era l'ordine dato da Dio ad Abramo, di uccidere il proprio figlio Isacco. E’ un ordine che getta Abramo in una solitudine dolorosissima, nella condizione di dover spezzare il legame tra norma sociale e naturale affettività verso i propri figli. La fede si rivela, in questo caso esemplare, come opposta all’etica, se è vero che "l’etico è l’universale, e l’universale è ciò che è valido per tutti". La fede invece è una chiamata, che mette il singolo, nella sua solitudine, di fronte a Dio, e porta a riconoscere il paradosso secondo cui "il singolo è più alto dell’universale". Il sacrificio del proprio figlio non è una richiesta di Dio che valga per tutti, è rivolta proprio ad Abramo, in quel dato giorno e luogo, mentre la caratteristica principale dell’etica, insegnava Kant, è l’universalità. Il paradosso della fede consiste nel fatto che il singolo, come tale, è più alto del generale ed è un paradossoche non si lascia mediare.Abramo ha cancellato, con la sua azione, tutta l’etica, ottenendo il suo τελος superiore fuori di essa.Mentre l’eroe tragico rinuncia a se stesso, per esprimere il generale, il cavaliere della fede rinuncia al generale, per diventare il singolo.Kierkegaard elabora il concetto di “paradosso”, affermando che l’esistenza è paradossale perché unica e irriducibile alla comprensione adeguata del pensiero, e insieme fissa i concetti di “scandalo” e di “contemporaneità”.

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L'ambizione del singolo è quella di essere direttamente contemporaneo a Cristo, tanto da dover apparire, agli occhi dei suoi contemporanei, come lui, vale a dire come un singolo che lotta contro il sistema, sacrificandosi fino al martirio. In antitesi al concetto hegeliano di “divenire storico”, Kierkegaard afferma che, per il singolo, la storia si riduce a un nulla, in quanto non può essergli di nessun aiuto per la sua realizzazione personale.Egli recepisce il singolo in lotta contro tutti, intendendo la storia come il tempo della lotta, mentre l’eternità è la felicità della vittoria.Il singolo è consapevole di vivere un'esistenza unica, paradossale, e, in quanto "discepolo di Cristo", deve sentirsi "contemporaneo" a lui, al di là dello sviluppo storico, anzi contro questo stesso sviluppo, che ha banalizzato l'esperienza cristiana. In questa "contemporaneità" la fede del singolo non può che destare "scandalo" nell'interlocutore, che si sente già cristiano e che non dubita della propria fede. Lo scandalo mette in crisi le certezze acquisite, le conquiste del passato. Kierkegaard rifiuta il concetto di "divenire storico", anche perché la storia ha tradito Cristo. Per lui, la vivibilità del Cristianesimo è possibile solo nel singolo e solo nel momento, nell'istante, in quanto ad ogni istante il singolo deve mettere in gioco la propria fede, non potendola mai dare per scontata. Non ci può essere continuità storica nella fede, né automatismi di sorta, né una rivelazione progressiva della verità nella storia, poiché tutto è sempre in discussione. La verità può essere affermata solo di volta in volta, sulla base dell'esperienza.

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Anche l'eternità può solo essere racchiusa nell'istantedel tempo, in quanto non fa parte della realizzazione storica. La storia non è di nessun aiuto ai fini di questa realizzazione nell'istante, anzi molto spesso rappresenta una forma d'impedimento, poiché non fa capire al singolo che si trova ogni volta di fronte alla verità in maniera assoluta, originale, dovendo decidersi ogni volta per essa. La verità per Kierkegaard è quella di Cristo, generato e non creato, uomo-Dio che prende su di sé il peccato di tutti4, nei cui confronti il singolo deve porsi come "discepolo di prima mano", come un apostolo tra gli apostoli, del tutto contemporaneo, nonostante i secoli della storia.Per Kierkegaard, l’amore di Cristo è concreto, perché, pur essendo il salvatore di tutti, egli raggiunge gli uomini singolarmente e li salva ad uno ad uno.La distanza fra uomo e Dio è mediata dall'abbassamento di Cristo, che è diventato uomo; la sua morte sulla croce, più che vergogna, è sollevamento dell'uomo.In questo contesto, il negativo non è solo un momento del processo dialettico, perché Cristo ha sofferto per l'uomo e si è fatto “modello”, perché il cristiano, che cammina nel tempo, deve ripetere nel tempo l'itinerario di Cristo, abbracciando la sofferenza, non come un momento dialettico da superarsi, ma come qualcosa che dura fino alla fine dei tempi. E’ comunque criticabile la visione religiosa di Kierkegaard, perché nella realtà la religione, e in particolare il Cristianesimo, si pone in maniera duplice come fatto soggettivo e collettivo.

4 L'Esercizio del cristianesimo, 1850.

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Infatti, per un verso, la religione si istituzionalizza, si affida a una classe sacerdotale che la amministra, si burocratizza, si regolamenta, ma soprattutto si esprime con una ritualità prefissata e ben definita, che deve essere celebrata collettivamente da tutta la comunità di fedeli; in questo modo essa si pone sullo stesso piano dell’etica, come universalizzazione e generalizzazione del cammino religioso, e quindi non potrebbe costituire un salto di emancipazione del singolo, che invece si trova assorbito e limitato nell’ambito della comunità.Per un altro verso, il Cristianesimo insegna a porsi individualmente dinanzi alla divinità, come a tu per tu, in un colloquio come da persona a persona; in questo caso prevale il singolo, instaurando con la divinità un rapporto personale ed esclusivo.Ma in realtà che cosa vuole il singolo?Sostanzialmente egli dà uno scopo alla propria esistenza, si pone davanti una meta da raggiungere, che non è terrena ma spirituale.Questo tendere ideale verso la divinità, questo tentativo di indiamento, crea nell’individuo una spaccatura fra quello che egli è e quello che vorrebbe essere, fra la sua condizione umana, limitata e circoscritta dalla morte, e la condizione che vorrebbe raggiungere, gloriosa e immortale, in seno alla divinità.Questo fatto soggettivo produce ugualmente angoscia; non è vero dunque che la religione possa costituire un superamento della disperazione.E’ piuttosto un’elevazione spirituale del singolosoggetto, che non è negativa, ma che lo porta alla beatitudine soltanto se egli riesce a liberarsi da tutti i vincoli che lo legano alla vita terrena e sociale.Purtroppo questa è una liberazione più teorica che pratica.

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Ma è anche vero che in questo caso il soggetto sarebbe come oggettivato nella divinità, privo di una propria personalità e di una propria volontà, per cui non costituirebbe né paradosso, né scandalo.Per Kierkegaard, l’angoscia è uno stato d'animo inevitabile.Il singolo “esiste” in un proprio mondo, circondato da un mondo esterno che è fondamentalmente altro da lui e che per certi versi lo limita, per certi versi lo intimorisce, ponendosi come perturbante.L’individuo si accosta alle cose man mano che impara a conoscerle; la conoscenza riduce l’angoscia, il timore di ciò che è altro, e gli consente di agire nell’ambito di quel mondo a lui esterno e di relazionarsi con i suoi simili.L’angoscia nasce dall’ignoranza, che è poi innocenza nativa, come quella di Adamo; senza la conoscenza, il soggetto non è capace di fare le sue scelte, non è capace di distinguere tra bene e male, ha di fronte soltanto il nulla.Di per sé questa condizione di innocenza non è una colpa, né una sofferenza; l’angoscia può avere piuttosto una valenza diversa, aprendo un orizzonte di libertà.Solo che Kierkegaard non risolve questo problema nell’ambito della gnoseologia, ritiene invece che l’angoscia debba essere superata con un "salto" nella vita religiosa, peraltro "assurda" e rischiosa.L’angoscia si tramuta in disperazione e permette quel salto paradossale che porta a elevarsi all'infinità divina.Kierkegaard interpreta negativamente la categoria della “possibilità”5, a cui riconduce l’intera esistenza umana.

5 Nel Concetto dell'angoscia del ’44 Kierkegaard cerca di ricondurre la comprensione dell'intera esistenza umana alla categoria della "possibilità", mettendone in luce il carattere negativo e paralizzante.

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Eliminando la disperazione6, lanciandosi nella fede, l'uomo, come singolo, invece di essere succube dell'angoscia, della noia, del nulla, si trova davanti a Dio, inteso come creatore dell'essere dal nulla. Solo davanti a Dio l'esistenza isolata può annientarsi in senso positivo.In realtà egli trova una soluzione prettamente filosofica in una fede religiosa del tutto irrazionale, che non coglie correttamente il fatto esistenziale; infatti essa deve essere una scelta esistenziale, non la conclusione logica di un ragionamento.

6 Nella Malattia mortale Kieerkegaard fa nascere la fede dalla disperazione, non dall'angoscia.

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Etica

Kierkegaard vede nella coscienza due aspetti contrastanti, la libertà e la necessità.In realtà, nell’ambito dell’io, questi due aspetti non sono in contrasto, potremmo anzi definirli complementari.Essi creano piuttosto un’interferenza, che può condurre all’angoscia e alla disperazione, quando l’io trova impedimenti nella sua relazione col mondo esterno.In tal caso insorge nel soggetto un sentimento di impotenza, perché si rende conto che la sua volontànon riesce a esprimersi come vorrebbe; si crea nella sua interiorità come una scissione tra volontà e possibilità.L’uomo che riesce a vivere un’esistenza armonica ed equilibrata, con una regolare soddisfazione dei propri bisogni, non proverà mai né l’angoscia, né la disperazione; queste appartengono invece all’uomo che non riesce a realizzarsi nell’ambito sociale.Accanto all’uomo di successo, che realizza tutte le proprie ambizioni e le proprie aspirazioni, si colloca un “uomo senza valore”, a cui la società non consente un’affermazione personale.E’ dunque una forzatura quel voler generalizzare l’angoscia e la disperazione, che Kierkegaard usa per porre un trampolino di lancio verso la fede.Kierkegaard guarda all’etica in modo per certi versi positivo, perché consente un superamento della vita estetica, e per certi versi negativo, perché essa è valida solo quando si trova in perfetto accordo con la religiosità.

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Egli porta ad esempio la vita ordinata e inquadrata dell’assessore Guglielmo7, perfetto marito e lavoratore, che partecipa dell’universale etico secondo coordinate condivise universalmente.In questo stadio l'uomo si sottopone a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma l'universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione piena dell'umano.Questo tipo di vita ha insito il rischio dell’ipocrisia e del filisteismo, ma soprattutto, con la sottomissione al dovere sociale, determina la cessazione della responsabilità individuale.L’etica nasce dal vivere nell’ambito di una società, nel relazionarsi dell’io col mondo, che presuppone una regolamentazione sistematica e un inquadramento del soggetto nella collettività.Generalmente l’etica è legata al tempo e alla classe sociale dominante, perché ogni epoca e ogni classe hanno proprie esigenze specifiche.Per questo l’etica non costituisce un superamento di niente; in realtà essa assorbe l’individuo nel collettivo, nell’universale della società in cui si trova a vivere, lo penalizza, lo limita, uccide le sue potenzialità.Se a questo si aggiunge che l’esistenza relazionata presuppone sempre delle scelte da parte del singolo, troviamo proprio nel vivere in società l’origine e la fonte dell’angoscia e della disperazione.Ogni scelta infatti è sempre il frutto di un dramma interiore; da un lato il soggetto vorrebbe essere libero di fare le scelte che più lo soddisfano, dall’altro il più delle volte deve sottostare a scelte imposte dal suo vivere relazionato.

7 In Enten-Eller è compresa anche la lunghissima Lettera dell'assessore Gugliemo, che in italiano si è tradotta con Aut-Aut.

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Ma, per Kierkegaard, l'uomo deve riconoscere che nella sua vita c'è il peccato e ci sono quelle angosce e quella disperazione che la semplice razionalità e l'osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; per questo il passo ultimo della vita etica è il pentimento, il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo. Solo se amato da un Altro, che sia Infinita Misericordia, l'uomo può guardare davvero a sé come a un "io".

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Ironia e dialettica dell’aut-aut

Nella tesi di laurea del '41, Sul concetto dell'ironia (in riferimento costante a Socrate), pubblicata lo stesso anno, Kierkegaard prende posizione contro il romanticismo estetico, evasivo, estraniato, dei fratelli Schlegel, di Tieck e Solger, ponendosi dalla parte di Hegel. Quel tipo di romanticismo, che a suo avviso proviene dalla filosofia dell'io di Fichte, gli appare troppo soggettivistico, in quanto tende a contrapporre unilateralmente il soggetto alla realtà. Anche se accetta la critica romantica del mondo piccolo-borghese, che chiama "lo squallido perbenismo bacchettone", e del suo vuoto sentimentalismo, allo stesso tempo Kierkegaard respinge che lo strumento di tale critica, l'ironia appunto, venga usato come fine a se stesso, in totale dispregio dello Stato, della società civile e della famiglia, in nome, per di più, di una mera valorizzazione intellettualistica del passato mitologico, perché in tal modo diviene fonte di isolamento. Ai romantici tedeschi e danesi egli oppone Goethe e Shakespeare, nei quali l'ironia è "dominata", cioè è solo un "momento", non una condizione di vita.Secondo Hegel, Socrate, col principio di ironia, si era posto al di sopra dello Stato e della famiglia, facendo della soggettività un assoluto, anche se proprio con questo sistema aveva potuto, in un certo senso, fondare la morale, in quanto aveva stimolato l'individuo, in ambito filosofico, ad agire moralmente, non per dovere, ma per convinzione personale.Kierkegaard accetta questa prospettiva hegeliana, ma se ne distacca su due punti: in primo luogo Hegel non avrebbe capito che Socrate criticava la decadenza di una realtà storica determinata, quella del suo tempo,

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per cui il suo atteggiamento ironico andrebbe contestualizzato, per essere meglio compreso; in secondo luogo Socrate non aveva alcuna intenzione di desumere dal principio teorico dell'ironia una qualche conseguenza pratica, se non quella di confondere gli avversari insegnando loro l'umiltà e il buon senso. L'ironia era per Socrate, secondo Kierkegaard, una conseguenza determinata dalla prassi: egli procedeva dal concreto all'astratto, mentre Hegel faceva esattamente il contrario. Probabilmente Socrate dava all'ironia un'importanza filosofica minore di quella che gli attribuiva Hegel, il quale, non riuscendo a comprendere l'importanza maieutica e pedagogica dell'ironia socratica, non riusciva ad accettarne il valore relativo.D'altra parte Hegel accettava le interpretazioni idealistiche del metodo socratico, fatte da Senofonte e Platone, rifiutando quella realistica di Aristofane, che secondo Kierkegaard è la più vicina alla verità.Tutto sommato Kierkegaard preferisce l'ironia socratica alla negazione dialettica, o antitesi, della filosofia hegeliana, perché, mentre quella dialettica nega la contraddizione solo a livello speculativo, l'ironia socratica impegna invece la vita di una persona in maniera molto concreta, portando fino al sacrificio di sé. Kierkegaard si differenzia da Hegel per il concetto di soggettività della verità, da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica, ma deve illuminare l'esistenza.La verità che interessa Kierkegaard è quella che fa "comprendere se stesso nell'esistenza"8, dove il "se stesso" deve intendersi come singolo, irriducibile 8 Postilla.

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all'organismo storico-statale e al momento dello sviluppo dialettico dello spirito, e chiamato a scegliere, per il quale dunque la verità, a differenza di Socrate, non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato.Hegel, convinto che non si dia antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una sintesi, con la sua dialettica dell'et-et sintetizzava gli opposti. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria, senza che vi sia responsabilità della libertà personale.Kierkegaard, invece, sottolinea con forza una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera tra alternative inconciliabili9, perché i veri contrasti non si mediano, né si superano, ma bisogna scegliere da che parte stare. Non un et-et, che dispensa dalla scelta il singolo, come fosse trascinato dall'inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno.Kierkegaard non tiene conto che ogni pensiero logico si sviluppa nell’astrazione, nel pensiero puro, senza aut aut; secondo lui, gli opposti aprono un conflitto tragico, perché la loro antinomia non è ricomponibile, in quanto non appartiene alla realtà, ma al modo di vedere dell’uomo, che può superare questa contraddizionesoltanto elevando la sua prospettiva, passando cioè allo stadio religioso, che è un innalzamento del tono della contraddizione.In realtà il conflitto tutto interiore, che insorge nel soggetto che deve compiere una scelta, dipende dal suo 9 aut-aut.

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rapportarsi con la collettività e con se stesso e non può essere superato con lo stadio religioso, come pretende Kierkegaard, tanto è vero che si trova costretto a parlare di “scandalo” e di “paradosso” per giustificare questa forzatura.

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Kierkegaard e l’estetica romantica

Per quanto concerne l’estetica, Kierkegaard, sulle orme di Hegel, che vedeva nell’arte il primo momento del progressivo compiersi dello spirito assoluto, dato dall’oggettivarsi dell’idea in una forma sensibile e, in quanto tale, inadeguata, coglie l’estetica come il primo stadio della vita, quando questa ancora non si è evoluta elevandosi all’etica e alla religione.L’estetico è il livello immediato dell’esistenza; in questo stadio la vita ha l’innocenza e la perentorietà del desiderio naturale.L'uomo che vive in questa forma, l'esteta, rifiuta tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio:

"chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento"

L'esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l'istante fuggevole che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro. Per questo "la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi" senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello affettivo, quanto a livello sociale. L'esteta in tal modo fugge continuamente da se stesso, distraendosi in una esteriorità alienante, ed è contrassegnato dalla noia10, ed è in fondo, lo sappia o no, disperato.Il romantico avvertiva in maniera particolare il senso della perdita della natura e della sua spontaneità, con la conseguente e progressiva trasformazione dell’uomo “naturale” in uomo “inautentico”, sradicato dalle sue origini e fatalmente corrotto dalla cultura.

10 Come dice Kierkegaard in Aut-aut.

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Invece, per Kierkegaard, il limite è insito proprio nell’estetica.Il problema non consiste nel rivolgere una dura critica al Settecento illuminista, ma nel superare l’estetica.Anche se condivide col romantico la critica al condizionamento che l’uomo subisce nell’ambito della società, Kierkegaard non può accettare del romanticismo il ruolo rilevante attribuito alla suggestione fantastica, alla confusione della fantasia, al caos originario della natura umana.In opposizione all’estetica del classicismo, che aveva più volte ribadito il principio d’imitazione, il romanticismo riproponeva l’effusione del cuore, lo slancio delle passioni e della creatività svincolata da regole.Per Kierkegaard, la vita estetica è appunto caratterizzata dall’immersione nell’esperienza sensuale, dalla ricerca di possibilità sempre nuove e soprattutto sempre preferite a ciò che è attuale e disponibile.Nella vita dell’esteta non è ancora presente un vero sistema di norme e di valori.L’esteta è sempre alla ricerca di qualcosa d’altro, probabilmente dell’oltre, e forse per questo desidera, o alimenta il desiderio; egli ama il meccanismo delle cose e non le cose in se stesse.Egli cerca una scala per superare se stesso; cerca un libro che non è mai stato scritto, un’isola che non c’è, un’esperienza che superi tutte le esperienze, un’uscita dal quotidiano, che lo esalti.Col romanticismo si matura l’idea dell’autonomia dell’arte, che deve avere in sé la propria legge e il proprio fine, ma soprattutto si concepisce l’arte in divenire, come un continuo farsi, uno sperimentarsi, che nessuna teoria può fissare staticamente ed esaurire.

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L’artista è chiamato a ricominciare sempre da capo e a elaborare ogni opera come fosse una creazione nuova, mirando a perfezionare la sua arte e a perseguire forme sempre più alte.L’artista è colui che prende coscienza delle cose, è colui che vede l’invisibile, che sente l’insensibile, ed è quindi capace di foggiare, come un mago, la natura, con cui ha un rapporto di ingenuità, di innocenza, di contemplazione.L’arte si pone come una specie di limbo, da cui si contempla l’origine perduta e, nel tentativo di riconquistarla, la si idealizza. C’è la visione di un uomo che, per superare il contrasto interiore tra ragione e sentimento, si lascia affascinare dal sublime, che gli consente di evadere dall’aridità del presente, in uno slancio vertiginoso ma pieno di entusiasmo verso l’infinito.Il romantico si perde nell’infinito, che equivale all’indeterminato, perché è l’incommensurabile abisso di lontananza, che libera dalla limitatezza fossilizzante del concetto, che affascina la coscienza, ma che contemporaneamente la spinge a guardare il nulla, sul quale è sospesa e nel quale consuma la sua inquietudine.L’infinito è salvezza e dannazione, innalzamento e caduta, attrazione e lacerazione, esaltazione e sconfitta, perché all’infinito si tende, o ci si approssima, ma non lo si raggiunge, né lo si possiede mai.La lontananza, che sia di spazio o di memoria, attribuisce poeticità alle cose; il non definito risveglia l’immaginazione e ciò che non è più presente è causa della nostalgia più struggente e malinconica.Praticamente l’artista rifugge dal presente e dal quotidiano, che costituiscono l’impoetico per eccellenza.

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Con Fantasticherie di un camminatore solitario, composte tra il 1776 e il 1778, Rousseau introduce quella che sarà un’altra caratteristica della sensibilità romantica: all’inquietudine e alla nostalgia della natura fa riscontro una specie di sogno ad occhi aperti, di trasognata contemplazione delle cose, che libera l’anima dai condizionamenti della ragione e suscita, nella fantasticheria, un’effusione di sentimento che la restituisce alla natura.Se la ragione si è resa responsabile dell’infelicità umana o, quanto meno, dell’estraniarsi dell’uomo da se stesso, la rêverie, mentre da un lato segna il rifiuto della causa di tale infelicità, dall’altro lato diviene simbolo di un nuovo modo d’essere della coscienza, tesa alla ricerca dell’innocenza nativa.Col romanticismo nasce una particolare attenzione per il verosimile, vale a dire per ciò che sembra vero, ma che non è detto debba esserlo effettivamente: può darsi che non accada mai, o che accada sempre; non si deve credere che accada ora realmente.Il verosimile deve avere un’apparenza positiva, deve essere frutto della capacità, tutta soggettiva, di indovinare, fra le possibili conseguenze di atti liberi, quelle più probabili.Questa prospettiva giustificava però la fantasia, l’invenzione di storie e di stranezze; era un po’ come mettere ordine in un caos, dove tutto può succedere.Per Kierkegaard, sussiste un divario, che reputa a tutti gli effetti una contraddizione, tra la verità interiore di ognuno e la sua esposizione in forma artistica.Nella Malattia mortale egli scrive che "dal punto di vista cristiano ogni esistenza di poeta, con tutta la sua bellezza estetica, è peccato”; il peccato consiste nel “poetare invece di essere”, nel “mettersi in rapporto col bene e col vero attraverso la fantasia invece di esserlo".

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La fantasia poetica non è intesa da Kierkegaard come una forma privilegiata di conoscenza della realtà, ma piuttosto come un’evasione in un mondo di ombre e di veli, "più tenue ed etereo, d’una intensità diversa dal mondo reale". La fantasia è per Kierkegaard un sostituto della realtà, ed è uno strumento della sua idealizzazione: in questo modo rappresenta le cose grandi e trascura quelle minime, di cui è composta la vera vita degli uomini. Il mondo che la fantasia poetica crea è senz’altro affascinante, ma questo fascino è in se stesso ingannevole. Bisogna rilevare che Kierkegaard non tiene conto che nella realtà esistono momenti diversificati, modi di conoscere differenziati, persone con differenti predisposizioni, ma che in ogni caso non si possono distinguere sulla base del valore.Per Kierkegaard l’estetica vale meno dell’etica, che a sua volta vale meno della religione.Di fatto è invece possibile, attraverso l’estetica, elevare lo spirito fino a Dio. Infatti nel romanticismo la natura, collegata all’idea di nativo e di originario, inteso come spontaneo e felice, acquistava il significato stesso dell’Essere, verso il quale e per il quale si intraprende la via del ritorno. L’arte è di per sé un fatto soggettivo, ma tende in ogni caso verso la spiritualità, crea un’esaltazione dello spirito, è un cammino verso l’oltre.Spesso crea appagamento a livello personale, ma presume sempre una divisione dell’io, per il continuo tendere verso qualcos’altro.Kierkegaard critica l’artista che, in un certo qual modo, si fa creatore di forme, ma che pure, attraverso la contemplazione del mondo naturale, mira a cogliere l’Essere, la sua origine, il suo fondamento, e, pur nella

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sua finitezza, riesce a esprimere un’infinità che nessun intelletto è in grado di comprendere.Per Kierkegaard, il non senso implicito nella vita estetica è eliminabile solo cambiando registro di esistenza, vale a dire progettando un'esistenza etica, basata sulla continuità, sulla ripetizione, sulla scelta esistenziale, sull’adeguamento dell’uomo all’universale.E’ questa la vita di chi si assume un ruolo nel mondo, ne gestisce responsabilmente gli oneri e per questo viene riconosciuto come persona sociale. Secondo Kierkegaard, la forma di vita estetica è una sorta di raffinato edonismo, che si fonda sulla ricerca incessante del piacere e sulla soddisfazione dei desideri, destinate però a sfociare nella frustrazione e nella disperazione, per il fatto di rimanere nel vertice delle infinite possibilità.Nel momento in cui si prende consapevolezza che questo tipo di vita è disperazione, si deve optare per una forma di vita etica, che è caratterizzata invece dalle scelte possibili dell'uomo in un intenso e appassionato impegno individuale nell'adempimento del dovere e degli obblighi pubblici e religiosi socialmente sanciti.

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L’immediatezza estetica

Ne Il diario del seduttore11, Kierkegaard esamina la figura del seduttore psichico, che mette in atto una seduzione mediata, facendo del tempo uno strumento di seduzione.Il suo obiettivo non è tanto quello di possedere una donna fisicamente, quanto quello di possederla psichicamente. Il suo godimento consiste non già nel far godere la donna, ma nel condurla a uno stato di soggiogamento totale.Per attuare questo progetto, si mostra alla sua preda ora distaccato e assente, ora molto interessato e presente, ora furioso come un temporale d'autunno, ora dolcissimo come uno strumento musicale ricco di armoniche. Il suo obiettivo è di rendere la relazione «interessante»; ed essa è tale quando rimane sospesa nell'indeterminato, nel regno dell'«infinita possibilità». Perciò, quando una relazione si realizza, cessa di essere interessante, e allora bisogna escogitare ogni mezzo per mollare la preda, giacché «introdursi in immagine nell'intimo d'una fanciulla è un'arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro».Tuttavia, lungi dal trovare libertà in quest'opera di liberazione, il seduttore psichico rimane schiavo e vittima dei suoi stessi intrighi e dei suoi conflitti. Il gioco perverso, che egli realizza, rende la sua esistenza costantemente inquieta, preda d'una «consapevole follia», ma «la sua condanna ha un carattere puramente estetico».

11 In Enten-Eller.

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Kierkegaard sottomette l'estetica del seduttore psichicoallo stesso giudizio negativo pronunciato nei confronti del giovane estetico de L'equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità12, con la differenza che, pur essendo, in entrambi i casi, in presenza di una instabilità psicologica ed esistenziale, ne L'equilibrio tale instabilità, denunciata come perniciosa nella «scelta di sé» e nella formazione della «personalità», rimanda ipso facto all'etica, mentre ne Il diario del seduttore resta come prigioniera della sua stessa dimensione estetizzante, quasi che l'estetica trovi già in se stessa la chiave del proprio fallimento.La seduzione sensuale, emblematizzata da Don Giovanni, si presenta invece come la chiave di volta che indica la possibilità di sottrarre l'estetica sia alla determinazione del pensiero, sia alla giurisdizione dell'etica, per restituirle una dignità.A differenza del seduttore psichico, il seduttore sensuale è presentato da Kierkegaard come colui che «non ha bisogno d'alcun preparativo, d'alcun progetto, d'alcun tempo […]»13. Egli seduce con l'immediatezza del proprio desiderare, tanto che vedere, desiderare e amare, non sono per lui tre momenti distinti, ma tre aspetti di uno stesso atto, la seduzione, compiuto immediatamente.Soltanto la musica può, secondo Kierkegaard, esprimere adeguatamente l'erotismo immediato, la «genialità sensuale», in quanto essa è il «medio dell'immediato». La genialità sensuale è infatti «l'idea più astratta che si può immaginare»; e, dal momento che la musica è la meno storica fra tutte le arti, un'idea come quella della

12 In Enten-Eller.13 Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico, in Enten-Eller.

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genialità sensuale non può essere espressa pienamente che attraverso la musica. Non a caso la musica «ha [...] in sé un momento di tempo, e tuttavia non scorre nel tempo se non in senso figurato», infatti non riesce a esprimere la successione temporale degli accadimenti, «ciò che nel tempo è storico».Di qui l'irriducibilità della genialità sensuale a qualsiasi altra forma d'arte. Essa non può essere rappresentata né dalla scultura, in quanto la genialità sensuale è «un tipo di determinazione in sé dell'interiorità», è qualcosa di troppo intimo per poter essere espresso spazialmente o plasticamente, né dalla pittura, «poiché [la genialità sensuale] non è fissabile in contorni determinati». Quel che impedisce che la genialità sensuale possa essere scolpita o dipinta è, in altri termini, il fatto che essa non risiede in un momento, bensì in una successione frenetica di momenti, che non possono essere fermati in un'immagine scultorea o pittorica. Non a caso Kierkegaard la descrive come qualcosa di assolutamente lirico: «una forza, un respiro, insofferenza, passione, ecc.».Che l'eros istintivo e immediato della genialità sensuale sia esprimibile pienamente soltanto dalla musica è ribadito da Kierkegaard attraverso il paradosso per cui «Don Giovanni non dev'essere visto, ma ascoltato!».Vederlo presupporrebbe una sua dimensione fisica e temporale, ma ciò significherebbe tradire l'essenza di Don Giovanni, che non si lascia ridurre a nessuna determinazione spazio-temporale. Infatti Don Giovanni non seduce per la sua bellezza, o in virtù di un qualsiasi altro suo attributo fisico, seduce piuttosto in virtù del suo spirito, vale a dire in virtù del suo stesso desiderare.

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Perciò chiedersi che aspetto abbia Don Giovanni è come voler ridurre a un elemento esteriore una forza che è, invece, tutta interiore. Anzi, proprio perché è una forma dell'interiorità, «una determinazione verso l'interno [...]», Don Giovanni non può adeguatamente essere rappresentato nemmeno dalla danza, in cui le movenze del corpo, pur fondendosi con la musica, esteriorizzerebbero e ridicolizzerebbero Don Giovanni.Che la genialità sensuale sia qualcosa di assolutamente lirico non deve però indurre a credere che essa possa essere espressa dall'«epica» e dalla «poesia». Queste, infatti, si esprimono in parole, ossia ancora nella mediazione e nella riflessione, laddove la genialità sensuale si muove costantemente nell'immediatezza. E' per questo che né il Don Giovanni di Byron, né quello di Molière, possono adeguatamente rappresentare Don Giovanni: essi gli danno la parola e, dunque, gli conferiscono una «personalità riflessa», che lo nega come «idealità». Nella misura in cui seduce con l'astuzia della mediazione razionale, il Don Giovanni «in prosa» è da rapportarsi piuttosto ai modi del seduttore psichico. Soltanto il Don Giovanni musicale, di cui il Don Giovanni mozartiano rappresenta per Kierkegaard la più emblematica incarnazione, può esprimere adeguatamente l'essenza della genialità sensuale.Se, a questo punto, si vuol formulare, attraverso un'unica categoria, la differenza di fondo tra il seduttore psichico e il seduttore sensuale, essa non può che essere ravvisata nella temporalità, nel senso che è pur sempre in riferimento al «tempo» che le due forme di seduzione vengono sbozzate. Se la prima è tutta calata nella temporalità del processo seduttivo, sicché l'intero dramma della seduzione

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psichica è gestito all'insegna della caducità, la seconda, viceversa, è un'autentica trasfigurazione della temporalità, propriamente una divenienza senza tempo, in cui Don Giovanni «non ha [...] una sua sussistenza, ma urge in un eterno sparire [...]», e perciò la dialetticadella seduzione sensuale mette capo all'inesauribilità. Ne consegue che, mentre su quella incombe la morte, in questa trionfa la vita. Non a caso Don Giovanni è definito da Kierkegaard come indefinibile e impossibile: «un'immagine che [...] non acquista mai contorni e consistenza, un individuoche è formato costantemente, ma non viene mai compiuto», e quindi non un «individuo particolare, ma la potenza della natura, il demoniaco, che non [...] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice».L'epifenomeno dell'inesauribilità di Don Giovanni è costituito dall'inappagabilità e dall'insoddisfazione: nessuna donna soddisfa pienamente Don Giovanni, com'è mostrato appunto dallo stesso numero indeterminato delle sue conquiste. Ma sarebbe errato chiedersi se Kierkegaard faccia dipendere tale insoddisfazione da un limite di Don Giovanni o piuttosto da una sua esorbitanza d'essere, da una sua strisciante impotenza o piuttosto da una sua irrefrenabile potenza. Ciò infatti presupporrebbe ancora che Don Giovannifosse un individuo in carne ed ossa, laddove, in quanto espressione esemplare dell'erotico musicale, egli deve essere «idealità»: non «persona o individuo, ma […] potenza». Kierkegaard avverte che Don Giovanni incarna la costante oscillazione tra essere idea, vale a dire forza, vita, ed essere individuo, ma quest'oscillazione è la

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vibrazione musicale, tant'è che appena Don Giovanni «diventa individuo, l'estetico avrà tutt'altre categorie», ripiomberà cioè nel flusso di quell'esistenza estetica che inevitabilmente cade sotto il severo giudizio dell'etica.Don Giovanni incarna insomma quell'«amore sensuale» che, in quanto «somma dei momenti» che costituiscono un solo unico «momento» che «si ripeterà all'infinito» e in quanto «sparizione nel tempo» e calarsi interamente nella «concrezione dell'immediatezza», è sicuro di sé e «assolutamente vincitore». Al contrario, l'«amore psichico», proprio in quanto si nutre della mediazione razionale, vive nel dubbio e nell'inquietudine, non essendo che «sussistenza nel tempo».Di qui la differenza da Faust e il possibile accostamento di Faust al seduttore psichico. Anzitutto «Faust […] è il dubbio personificato», anzi dubbio che «crebbe a dismisura» essendosi Faust abbandonato «nelle braccia del diavolo»; «maestro del dubbio», e perciò «scettico»14, Faust «nel sensuale non cerca tanto il godimento quanto una distrazione […] dalla nullità del dubbio. La sua passione non ha la Heiterkeit che distingue un Don Giovanni. Il suo volto non è sorridente, la sua fronte non è senza nubi, e la gioia non è sua compagna». Per di più Faust coltiva un dubbio che conduce alla disperazione, perché non si tratta di un dubbio puramente intellettuale, ma di un autentico «dubbio della personalità»15. Ne consegue che, in Faust, «l'erotico è già riflesso, qualcosa a cui egli s'abbandona spinto dalla disperazione»16.

14 Silhouettes, in Enten-Eller.15 L’equilibrio tra l’estetico e l’etico.16 Diario.

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Non a caso Faust, a dispetto della sua irrequietezza, è seduttore statico e cerebrale: non solo seduce una sola donna, ma compie la sua opera attraverso la sola forza del «discorso» e della «menzogna»17. Don Giovanni, invece, è seduttore dinamico e istintivo: non solo seduce tutte le donne, ma compie la sua opera attraverso la sola forza del «desiderio sensuale».Da queste premesse si comprende in che senso Kierkegaard consideri Faust espressione del demoniaco spirituale che, come tale, è una sorta di variazione del seduttore psichico, del quale anzi ribadisce la peculiarità, laddove Don Giovanni è l'espressione del demoniaco sensuale, «del demoniaco determinato come il sensuale». Il che è decisivo per introdurre il secondo essenziale elemento di discriminazione nei confronti del seduttore psichico e in favore della purezza dell'estetica: la coscienza morale. Per suffragare e sviluppare la tesi del rapporto privilegiato tra eros e musica, Kierkegaard ricorre a un paradosso: la sensualità nel mondo è stata introdotta dal cristianesimo, proprio perché ve l'ha esclusa. Infatti, in nome dell'assunto dialettico per il quale «ponendo una cosa, indirettamente si pone l'altra che si esclude», il cristianesimo avrebbe introdotto la sensualità nell'atto stesso in cui l'ha negata e condannata.In tal modo il cristianesimo avrebbe fatto della sensualità una «forza» e un «principio», e quindi una realtà positiva. È vero che la sensualità esisteva anche prima del cristianesimo, ma non era determinata spiritualmente, non era un «principio», ma semplice armonia.

17 Gli stadi erotici immediati.

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In Grecia, ad esempio, essa non era una «pericolosa nemica da soggiogare», ma un elemento armonicamente presente ovunque, tra gli uomini come tra gli dèi, e, non esistendo come principio, non esisteva neppure una sua rappresentazione simbolica. Eros, dio dell'amore, potrebbe essere considerato un principio, ma, nel mondo pagano, è raffigurato non come innamorato a sua volta, bensì come un fanciullo ignaro dell'amore, il che «è più un'oggettivazione che una rappresentazione dell'amore».Soltanto col cristianesimo la sensualità può venire rappresentata in un «unico individuo». E' da qui che nasce Don Giovanni, dal «dissidio tra la carne e lo spirito»: egli è «l'incarnazione della carne» attuata grazie allo spirito, per contrasto con esso. Dal momento che lo spirito è il regno della riflessione e del peccato, la carne, in quanto suo opposto, non può che essere di qua da quel regno. Don Giovanni vive la seduzione nell'«indifferenza estetica»: egli è propriamente il «primogenito» del «regno» del «Monte di Venere», dove non hanno diritto di cittadinanza né la «ponderatezza del pensiero, né il travagliato acquisire della riflessione» e, di conseguenza, neppure il peccato: vi abitano soltanto la «voce elementare della passione, il gioco dei desideri [...]».Kierkegaard ha talmente a cuore il concetto per cui Don Giovanni non «cade affatto sotto determinazioni etiche», che si spinge a dichiarare la difficoltà di chiamarlo «seduttore», o anche «impostore», epiteti che implicano l'esercizio della riflessione e, di nuovo, della coscienza morale. Don Giovanni andrebbe piuttosto qualificato come desideratore: a Don Giovanni manca il tempo per essere un vero seduttore: «gli manca il prima, in cui

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elaborare il suo piano, e il poi, in cui rendersi cosciente della propria azione». Egli insomma non seduce toutcourt, ma anzitutto «desidera, ed è questo desiderio ad avere un effetto seducente». E d'altra parte egli, certo, inganna, ma senza premeditazione, «senza organizzare il suo inganno in precedenza».Ne discende coerentemente che neanche il pentimento si addice a Don Giovanni: pur «affaticato» dagli stessi intrighi che costituiscono l'ordito della sua vita erotica, egli è tutt'altro che pentito del proprio operato. Il credo di Don Giovanni non è mai la meditatio mortis, cosa che si potrebbe dire di Faust; in lui il circolo eros-thanatos non si chiude: il thanatos è e resta evento esterno all'eros, in quanto sopraggiunge come punizione d'una colpa, di cui Don Giovanni non ha alcuna consapevolezza. Solo quando «interviene la riflessione», il regno di Don Giovanni «si presenta come il regno del peccato; ma allora Don Giovanni è stato ucciso, allora la musica tace […]». In tal senso si può dire che Don Giovanni è non solo il discrimen tra l'immediatezza e la mediazione, ma anche l'estremo baluardo dell'innocenza della natura18, il topos ideale in cui finisce la spontaneità dell'avventura sensuale per lasciar posto all'exacerbatio dell'erotismo intellettuale e alle vessazioni della coscienza morale.Don Giovanni è angosciato, ma quest'angoscia non è mai «disperazione», bensì la sostanza stessa del «demoniaco desiderio di vivere». Don Giovanni è la stessa forza cosmica e naturale della sensualità: in lui c'è piuttosto l'immediatezza della

18 Naturalmente si tratta di un’innocenza da intendersi in senso relativo e dialettico, perché l’uomo l’ha da tempo perduta.

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natura che il peccato della coscienza e la consapevolezza del limite. Farne un simbolo della solitudine e della caducità del finito, rispetto all'infinito, dell'uomo «crocifisso sulla contraddizione insopprimibile tra la sua natura finita e l'infinito delle sue aspirazioni», farne insomma un «eroe della privazione» e perciò negativo, piuttosto che un «eroe dell'incontinenza» e quindi positivo, significa sposare il mito romantico di Don Giovanni, farne l'incarnazione dello Streben e la controfigura di Faust, tradendo la lettura musicale di Kierkegaard, che ne fa, invece, «l'incarnazione della carne» rappresentata come principio. In una prospettiva più ampia, le considerazioni de Gli stadi erotici contribuiscono a chiarire il senso del giudizio limitativo sull'estetica formulato ne L'equilibrio. Tale giudizio non risulta più meramente collocabile sull'affermazione per la quale l'estetica rappresenta la dimensione per cui ciascuno «è immediatamente ciò che è», rispetto alla dimensione, propria dell'etica, in cui ciascuno «diventa ciò che diventa»19. Infatti proprio questa naturalità dell'estetica è l'elemento vincente delle riflessioni su Don Giovanni. Quel giudizio è fondato sul fatto che tale naturalità è, in ultima analisi, vista come fissità e cristallizzazione, e quindi assimilata alla «necessità»20, laddove in Don Giovanni essa è intesa come divenire incessante e inesauribile, e perciò assimilata alla connotazione spontanea e istintiva della libertà: purché si tenga 19 L’equilibrio tra l’estetico e l’etico.20 Sostenere che l’estetico è “immediatamente quello che è” non significa, precisa Kierkegaard, che egli “non abbia uno sviluppo; ma egli si sviluppa con necessità, non con libertà, con lui non ha luogo nessuna metamorfosi, in lui non ha luogo nessun infinito movimento grazie a cui giungere al punto partendo dal quale egli diventa quel che diventa”.

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presente che Don Giovanni è un'idea musicale, un principio, un mito, e che proprio per questo può realizzare compiutamente la purezza della sfera estetica, destinata invece a inquinarsi non appena si cala in un'esistenza temporale.Questa osservazione può contribuire a chiarire come sia possibile che Kierkegaard inneggi all'estetismo demoniaco e naturalistico di Don Giovanni e poi condanni, come fa ne L'equilibrio, l'intera dimensione estetica dell'esistenza come velleitaria e astratta, capricciosa e discontinua, incoerente e dispersiva, volubile ed eccentrica. La risposta va ricercata nella diversa prospettiva dalla quale viene pronunciato il giudizio rispettivamente su Don Giovanni e sul giovane esteta de L'equilibrio. Quest'ultimo giudizio è pronunciato da una prospettiva etica, che è quella in cui si trova il magistrato Wilhelm, incarnazione stessa del matrimonio e dell'amore coniugale, della responsabilità e del dovere, della continuità e della durata, della centricità e della coerenza, insomma, d'una coscienza morale che non può che condannare l'esistenza di chi, dei balli della vita, conosce soltanto il «valzer dell'istante» e anzi rifugge da quell'atto gravoso e decisivo che è la «scelta di sé» attraverso cui soltanto sarebbe possibile compiere il salto nella sfera etica. Il giudizio su Don Giovanni è invece pronunciato da una prospettiva estetica e, dunque, nell'indifferenza etica. Il punto di vista di Kierkegaard qui infatti è il medesimo di Don Giovanni, come dire del demoniaco, del dionisiaco, del ludico, di quella forza cosmica della natura che, come tale, è spontanea e immediata21.

21 Qui Kierkegaard è un innamorato del Don Giovanni di Mozart, un innamorato dell’immediatezza erotica, dell’infinità della passione, della sconfinata e irresistibile potenza dell’eros, del selvaggio ardore

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In tal senso, si può dire che il Don Giovanni di Kierkegaard rappresenta una sorta di deontologia della sfera estetica, ossia la sfera estetica così come dovrebbe essere, vissuta pienamente e interamente sul piano dell'aisthesis senz'alcuna interferenza della riflessione, dello spirito, della coscienza, elementi che, mentre ne turbano la gioiosità e la schiettezza, ne compromettono l'immediatezza, poiché vi insinuano l'angosciante senso del peccato.Ma, a ben vedere, è proprio il carattere mitico di Don Giovanni che, lungi dal rinchiudere l'estetica dentro un alveo incapace d'ogni crescita, che non sia quella che passa attraverso il salto nella sfera etica, le conferisce una interna teleologia, di cui Don Giovanni è il paradigma mai raggiungibile, ma perciò stesso trainante, una sorta di idea regolativa in grado di far compiere all'estetica un'autentica ripresa, una Wiederholung laica, ancora una volta paradossale.Il che trova conferma proprio nell'evento che sembrerebbe compromettere quella natura di Don Giovanni che è «essenzialmente vita», ossia nel fatto che Don Giovanni è sí un eroe positivo, ma è un eroe che, per vivere in eterno come un'idea musicale, deve morire. Che egli sia «assolutamente vincitore […], è un motivo d'indigenza», dal momento che resta preda d'una ripetizione all'infinto, di cui il «catalogo» delle conquiste è emblematica misura: se una donna vale l'altra, la seduzione è sostanzialmente lo specchio su cui Don Giovanni riflette narcisisticamente, e quindi in maniera sterile e inerte, la propria genialità22.

del desiderio.22 Si è in presenza di una cattiva infinità.

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Don Giovanni muore infatti per mano dell'etica, ma non ne è consapevole; etica e morte gli restano sostanzialmente estranee.La stessa dialettica che pone in essere Don Giovanni, nell'atto in cui l'esclude, è costretta a ucciderlo, per farlo vivere in eterno, consacrandolo esemplarmente a quel piano mitico grazie a cui egli può operare appunto una ripresa della sfera estetica.

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L’esistenzialismo religioso di Kierkegaard Seconda edizionegennaio 2006

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