LERINO E L’ORIGINE DEL PENSIONATICO · IL CASO DI LERINO Il primo contratto registrato di affitto...

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Giulio Cristiani L’ORIGINE DEL PENSIONATICO IL CASO DI LERINO Altavilla, febbraio 2009

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Giulio Cristiani

L’ORIGINE DEL PENSIONATICO

IL CASO DI LERINO Altavilla, febbraio 2009

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PREMESSE1

Michele Lazzari, notaio ufficiale del comune di Foza, uno degli antichi Sette Comuni, il 13 febbraio 1759, dovendo stilare un atto pubblico di diffida verso i focosi fratelli Alberti Carot, citata la presenza di due soli governatori, dei 12 previsti, è costretto a dire che questi due deliberano “in nome delli colleghe Governatori loro absenti, che in maggior parte s’attrovano al solito nella staggione presente al piano nec non per tutta la generalità di questo Comune, che in massima quantità slogiata la Patria, copre per sé, e suoi animali il piano stesso, ...”.2 Lazzari accenna al pensionatico, una pratica evidentemente molto diffusa, se non generale, in tale località. Chi scrive è stato spinto ad interessarsi a questo problema, e in particolare a come è nato e in cosa di preciso consisteva il pensionatico, dalla magica lettura di Marc Bloch da una parte, e da alcune riflessioni di Agostino Fapanni dall‟altra. Marc Bloch, conscio che "in realtà la scomparsa della servitù collettiva rappresentò per il

proprietario della campagna un disastro dal quale non si è più risollevato” 3, in uno dei suoi più

importanti testi (I CARATTERI ORIGINALI DELLA STORIA RURALE FRANCESE), ripercorre la storia del collettivismo agrario, mettendone in evidenza gli effetti favorevoli sul mondo rurale attraverso immagini, metodologie e rapporti di causa-effetto che convincono ed appassionano il lettore. Agostino Fapanni, personaggio tanto sconosciuto quanto è famoso Bloch, vissuto tra il 1778 e il 1861, registra in una sua pubblicazione concernente il pensionatico 4 quello che sembra essere un

residuo medievale, cioè la consuetudine collettiva, in vaste aree del Trevigiano, di pascolare liberamente nei prati altrui dopo la fienagione. Fapanni considera tale usanza dannosa per l‟economia agraria, se ne lamenta con l‟autorità, e la paragona, come fattore negativo, al pensionatico. Sia Bloch che Fapanni inducono a formulare l‟ipotesi che il pensionatico sia nato come un diritto di tutti i residenti al pascolo su terreni collettivi, come è ovvio, ma anche (ed è meno ovvio) su terreni privati dopo il raccolto o la fienagione, diritto che in alcuni luoghi (le poste) venne acquisito, o forse usurpato, dal dominus loci, che annualmente lo affittava a pastori estranei alla località. In taluni luoghi, abbiamo detto: non tutto il territorio era soggetto al pensionatico. Qualche paese se ne è sottratto o acquisendo il diritto dal dominus loci o conservandolo in proprio e poi smarrendolo nello scorrere del tempo, salvo le situazioni citate da Fapanni nel Trevigiano. A convincere che si trattava di un diritto collettivo, percepito come tale, di cui il dominus loci si era impossessato, ci pensarono gli uomini di Lerino. Vediamo come.

IL CASO DI LERINO

Il primo contratto registrato di affitto del diritto di pensionatico a Lerino (congiuntamente con quello di Grumolo) da parte del monastero di S. Pietro di Vicenza è del 20 febbraio 1378, e riguarda Domenico fu Gianese da Lusiana 5. Non che prima l‟ente religioso non avesse utilizzato tale diritto: probabilmente la cosa era in atto da decenni, da quando il monastero si convinse di avere il possesso del diritto di pensionatico per averlo acquisito con atti di compravendita, come più avanti si vedrà. Solo che gli affitti, a valenza sempre stagionale, da S. Martino a S. Giorgio, dal 11 novembre al 23 aprile, pagati in natura con formaggio ed agnelli, non venivano registrati. Con tutta probabilità si cominciarono a registrare formalmente davanti a notaio e testimoni da quando gli uomini di Lerino, convinti di avere il naturale inalienabile diritto di pascolo sul territorio comunale, li contestarono con forza e a lungo, anche per via legale. La prima azione legale di cui ci resta documentazione si svolse il 3 aprile 13806 nel palazzo del

comune di Vicenza, al Banco del Sigillo. Erano presenti il decano di Lerino Alberto di Cambio, notaio, sette altri abitanti, citati per nome e “pluribus aliis de Lerino”. Il procuratore del monastero “ser Benecaxa de Rustiçelo” dichiarò, senza peraltro dimostrarlo, che lo jus riguardante il

pensionatico era di spettanza del monastero. Il decano e gli uomini di Lerino risposero che “notum est de iure quod ius pasculandi residet pleno iure penes comune et homines seu territorium de Lerino; quo, cum de iure comuni sit fundata intentio partis dicti comunis, non debet aliquid fieri, prout petitur per adversam partem“, vale a dire che non è necessario che Lerino produca una prova del suo diritto, come la parte avversa richiede, perché è diritto comune, proprio di chi abita il

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territorio. Di questo erano convinti, assolutamente convinti: vedremo poi da cosa è nata questa convinzione. Intanto cercheremo di dimostrarla. Quando la seduta finì, e il giudice diede 15 giorni di tempo alle parti per produrre ulteriore documentazione, ma stabilì che intanto la badessa potesse esercitare il suo diritto sul pensionatico, senza con ciò pregiudicare l‟esito della causa, gli uomini di Lerino ben lungi dall‟accettare il verdetto interlocutorio “dixerunt dictam pronunciacionem esse et fuisse nullam” , e che si sarebbero rivolti fino ai signori della Scala “appellos petentes et iterum petentes et tercio instantissime petentes”. Il notaio sa rendere bene, con il crescendo di queste ultime parole, pur formalmente canoniche, la foga che senz‟altro pongono nelle loro parole il decano e gli uomini di Lerino. Con coerenza questi se ne guardarono bene dal rispettare l‟ordine del giudice: e in effetti meno di

un anno dopo per tale motivo ricevettero una ingiunzione dal podestà7, “quatenus, pena banni

XXV librarum parvorum pro quaque contrafaciente, non audient ullam facere vel fieri facere novitatem aut molestiam in possessione vel quasi iuris pasculi et pensionatici ville et pertinentie ville de Lerino”. Sarà solo la prima. Non sappiamo a cosa abbia dato luogo la decisione di appellarsi, preannunciata con tanta energia nelle parole prima citate; non sappiamo se la causa si svolse effettivamente, e come si concluse: non abbiamo purtroppo documenti al riguardo tra il 1381 e il 1392, e nemmeno, del resto, contratti d‟affitto del pensionatico, che ritroviamo invece puntualmente nella stagione autunno-inverno 1392-93. Qualcosa però deve essere successo, visto che nel 1395 prende corpo ed identità, almeno per un paio d‟anni, la “posta pensionatici”8 di Lerino, distinta da quella di Grumolo delle Abbadesse, mentre prima le due “poste” erano affittate congiuntamente per un unico indistinto compenso9. Il monastero distingue il fitto per il pensionatico di Lerino da quello di Grumolo, anche se l‟affittuario è lo stesso, e il rogito è lo stesso, probabilmente proprio in relazione alle tensioni in atto. Scopriamo così che a Lerino si tratta di ben poca cosa: 25 libbre di formaggio e due agnelli, mentre la posta di Grumolo rende alle suore 400 libbre, sempre di formaggio, e 2 agnelli, ma arriverà in seguito fino a 700 libbre. Si era entrati in costosissime e lunghe cause civili per così poco? Si andrà in carcere, come vedremo, per 10 kg. di formaggio? Nel 1399, il 20 di aprile10, la comunità di Lerino gioca una carta diversa. In una vicinia regolarmente convocata – è domenica - affitta anch‟essa il diritto di pensionatico a Lorenzo di Domenico dalla Valsugana, cui l‟aveva affittato la badessa meno di 5 mesi prima11, tra l‟altro tornando a un unico atto notarile e un unico compenso indistinto per Grumolo e per Lerino, e lo affitta ad un prezzo elevato, 6 ducati, 5 forme di formaggio e un agnello, rispetto a quello della badessa del 1395, che abbiamo appena sopra riportato. Evidentemente la vicinìa di Lerino cercava di acquisire de facto un titolo di proprietà sul diritto, da far valere nella causa giudiziaria già intentata o che stavano per intentare. Sono solo 12 i convicini presenti, eppure il notaio dichiara che superano i due terzi degli aventi diritto, percentuale minima perché la vicinia fosse regolare. Tale numero suscita non poche perplessità: nel 1223, il giorno 5 di febbraio12, infatti, i “convicini” erano 69: sono più di 150 anni, ma né le pestilenze né le carestie del 1300 giustificano tale crollo demografico. L‟atto sembra stilato in modo informale; è una copia (“hoc est exenplum”), ma non c‟è il signum notarii e la consueta sottoscrizione di chi fa la copia: è quindi probabile che l‟atto non abbia avuto effetto, e che sia rimasto a livello di gesto dimostrativo. Le suore sono a conoscenza di quanto avvenuto (infatti è il loro archivio a tramandarci la pergamena), capiscono il gioco e anch‟esse, il tre ottobre successivo13, stipulano un distinto atto d‟affitto per il pensionatico di Lerino, l‟unico che ci sia rimasto riservato esclusivamente a Lerino, anche se rogato lo stesso giorno, nello stesso luogo, con gli stessi testimoni e lo stesso notaio dell‟atto che riguarda Grumolo. Vogliono anch‟esse evidentemente dimostrare un titolo di proprietà, e il Banco del Sigillo darà loro ragione14, con due sentenze, il 24 gennaio 1402 in prima istanza e il 27 settembre 1403 in appello, in quanto il monastero aveva “meliora et potiora iura in capulo et pasculo ac herbatico seu pensionatico ville predicte et pertinenciarum de Lerino, quam habebat comune et homines de Lerino”. Non abbiamo il testo delle sentenze, e tanto meno il dibattimento in giudizio, ma solo conosciamo l‟esito della causa, la data della sentenza, il giudice che la emise e il notaio che ne stese il rogito,

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perché citati in documenti successivi15. Si noti che il monastero ha meliora et potiora iura: dunque Lerino vanta diritti inferiori e meno forti, ma qualche diritto gli vien riconosciuto. Gli uomini del villaggio non cedono, e promuovono un ulteriore ricorso legale. Intanto, guidati dal decano Antonio di Daniele, vanno a molestare nella stagione 1406-1407 l‟affittuario Giacomo da Enego, impedendogli di pascolare le sue greggi. Paola da Correggio, abbadessa dal 1390, che si dimostra molto determinata, querela il decano, il comune e gli uomini di Lerino, che ormai conoscono bene il Banco del Sigillo. Giovanni de‟ Grassi da Arezzo, vicario del podestà, pure in pendenza del giudizio sul ricorso, che egli stesso emetterà solo 16 giorni dopo, accoglie l‟istanza del monastero e intima al decano Antonio di Daniele e agli uomini di Lerino di lasciar pascolare in pace Giacomo, i suoi soci e i servi16. E‟ il 9 marzo del 1407. Come nell‟ingiunzione del 1380, in caso di inottemperanza è prevista una pena di 50 lire per il comune e di 25 lire per ogni ribelle. Ma Giovanni de‟ Grassi fa di più: nell‟emettere, come già detto, sedici giorni dopo questa ingiunzione, la sentenza17 sul ricorso promosso dagli uomini di Lerino dando nuovamente ragione al monastero, giustifica la sua decisione, oltre che con le due sentenze, che del resto Lerino con il ricorso contestava, con il fatto che esisteva il precedente, a favore del monastero, della sua stessa ingiunzione di 16 giorni prima. Dà ragione alle suore “non obstante aliquibus oppositis et obiectis per partem dictorum decani comunis et hominum de Lerino”; i quali uomini, orgogliosi ma anche tenaci e coraggiosi, in segno di protesta disertano l‟aula alla lettura della sentenza (“presente Iacobo de Portis sindico et sindacario nomine domine abbatisse … et absente altera parte, sed tamen citata ad dictam dicionem per Iohannem Albertini preconem”). Dopo quasi un mese dalla decisione del suo vicario, discutibile, come abbiamo visto, sul piano formale, il podestà in persona, Giovanni Mauro, veneziano, dà esecuzione alla stessa emettendo un‟altra ingiunzione18, del tutto simile a quella di due mesi prima circa, con la quale ordina agli uomini di Lerino di non molestare i conduttori del pensionatico. Stavolta però l'atto, che viene dopo la sentenza d'appello del 9 marzo, è giustamente generico, in forza appunto della sentenza, e non come prima specifico per Giacomo da Enego in quanto conseguente alla querela della badessa. Eppure gli uomini di Lerino non cedono ancora, non riconoscono il valore delle tre sentenze e con tutta coerenza o forse con disperato coraggio continuano ad opporsi agli affittuari del pensionatico del monastero. Cacciano i pastori, stavolta del Tesino, e di nuovo il monastero ricorre al podestà, “cum hoc sit, quod noviter per dictum decanum et per quamplures homines de Lerino expulsi fuerint de super dicto pasculo seu pensionatico de Lerino Gimulus de Ivano et socii pegorarii cum suis ovibus”, e fa citare il decano di Lerino. In aula, il 23 gennaio 140919, “ dictus Gerardus Zamboti decanus ut supra ac Laurentus de Thao notarius et civis Vincencie, tamquam sindicus et sindicario nomine dicte comunitatis de Lerino, dixerunt dictum pensionaticum suum esse, et non dicte domine abbatisse seu dicti monasterii, quicquid dicant sententie late in favorem dicti monasterii”. Il notaio Lorenzo che difende Lerino guarda caso è proprio il notaio che nel 1380, 29 anni prima, aveva saputo così bene tradurre la foga e la fermezza dei Lerinesi, che continuano a non accettare per niente sentenze e intimidazioni. Hanno una incrollabile convinzione: il diritto di pascolare sulle terre di Lerino è della gente di Lerino; fino a manifestare impertinenza e ribellione verso l‟autorità (quicquid dicant sententie). Fossero stati zitti e rispettosi, forse …. Invece, dopo quelle parole, “statim” il podestà “detineri fecit et incarcerari dictum Gerardum Zamboti decanum comunis et hominum de Lerino, Cristoforum Martini, Iacobum Ugolini, Domenicum Petri Mucie, Baptistam Rigi de Prando cum certis aliis de Lerino, eo quia sua audatia et temeritate expellendo oves suprascripti Gimuli de Ivano de super pasculo et pertinentibus de Lerino, quod facere non debebant, inobedientes fuerunt et contrafecerunt dicto precepto emanato ex parte prefati domini pottestatis“. In realtà il precetto non prevedeva il carcere, ma solo, come abbiamo visto, pesanti sanzioni, che del resto il podestà anche in questa evenienza non risparmia loro; dunque il carcere è legato non tanto alla disobbedienza all‟ingiunzione, quanto al comportamento ostinato e ribelle durante il giudizio e per rigetto ripetuto delle intimazioni podestarili. Si meritano questi, cittadini a pieno titolo del medioevo, la citazione del nome, come sopra abbiamo fatto. Hanno combattuto con coraggio per difendere la loro briciola di autonomia di liberi “vicini” di fronte al “dominum loci”. Hanno perso; del resto tutto il mondo rurale medievale, con l‟avanzare del mondo moderno, ha perso quei valori di collettivismo, partecipazione, dignità e patriottismo di paese che il cinquecento affogherà in un mare di servilismo e di umiliazione per almeno 3 secoli, fino al primo novecento20.

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Hanno perso, ma non sono crollati di colpo. Nel 1412 il podestà è ancora costretto a diffidare gli uomini di Lerino dal molestare i pastori del pensionatico del monastero21, questa volta ottenendo obbedienza. Ci consola una cosa, che tra i 4 uomini che il 22 marzo, non avendo più ormai altra scelta, promettono appunto al podestà per conto di tutta la comunità di Lerino di non molestare più e per sempre i pastori che pascolano nel territorio per concessione del monastero, oltre al decano Antonio di Daniele, che abbiamo già trovato protagonista dei fatti del 1407, c‟è anche Battista di Rigo Prando, uno dei carcerati. Non sapremo mai se anche gli altri sono usciti vivi di prigione. Non era certo la consuetudine del tempo. Forse sono rimasti nel loro medioevo di "secoli bui", come viene percepito da molti, lasciando ad altri l‟avventura di transitare nell‟evo moderno, che al contrario è inteso generalmente come luminoso.

CONSIDERAZIONI SULL‟ORIGINE DEL PENSIONATICO

Ci restano alcune domande, concrete, non retoriche, alle quali tenteremo con audacia e arroganza di dare alcune prime, possibili e limitate risposte. Perché erano così convinti gli uomini di Lerino di avere il diritto esclusivo del pascolo nel loro territorio? Perché per quelli di Lerino, al di là dei motivi ideologici, era così importante? Viceversa, perché le suore consideravano tale diritto una loro proprietà? Chi aveva ragione? Ma di cosa si disputava, in concreto? Cominciamo da questa ultima domanda: le riflessioni che faremo inizieranno a far luce anche sulle altre. Per cercare di capire la problematica esposta occorre far mente alla situazione dell‟agricoltura nel pieno medioevo. Si tratta di un‟agricoltura, quella dell‟epoca, a carattere estensivo in cui l‟incremento della produzione si otteneva aumentando i campi coltivati, non aumentando la produttività del singolo campo. Essa godeva di uno dei rari momenti della storia in cui allevamento del bestiame e coltura dei campi si integravano felicemente22. Occorre inoltre saper pensare a campi coltivati senza uso di erbicidi e di concimi: il terreno da una parte deve essere lasciato a riposo dopo il raccolto, perché si rigeneri, dall'altra è “infestato” da erbe diverse da quelle seminate, erbe che dopo la raccolta dei cereali son lasciate a vegetare spontaneamente, prima che il terreno, saltando un anno, sia sottoposto a nuova aratura. Bisogna infine saper pensare a come poteva avvenire l‟allevamento del bestiame nella situazione dell‟epoca. Senza questi percorsi mentali non è possibile affrontare l‟argomento23. Torniamo al nostro campo, un anno coltivato e un anno lasciato a riposo, Abbiamo detto che, quando è a riposo, non è gravato solo dalle stoppie, ma vegeta ampiamente per la presenza di altre essenze non allontanate da diserbanti selettivi e da arature profonde, Dunque sono una ricchezza come pascolo, questi campi lasciati a riposo; viceversa è una ricchezza il pascolo in questi campi, perché consente indirettamente una certa qual concimazione, attraverso le feci lasciate dal bestiame. Utili all‟allevamento, i terreni dopo la raccolta venivano usati come pascolo, ma non dal proprietario, ma dalla comunità; anzitutto, perché conviene, e poi perché lo impongono la consuetudine e la maniera di pensare dell‟epoca, che ritiene non essere proprietario il coltivatore se non del proprio lavoro, e quindi delle messi, non del terreno24. Conviene, perché se il mio campo a riposo è circondato da campi di altri proprietari in piena coltivazione, sarà un bel problema impedire al bestiame di andare a rovinare le colture degli altri intorno. Meglio se ci mettiamo d'accordo, e allora tutti i campi dell‟area saranno a riposo contemporaneamente, e il pascolo sarà tranquillo, bastano un bambino e un cane per badare a un gregge, sia pure in un‟area ampia25. L'alternativa è quella di proteggere il campo con fossati siepi o quant'altro, ma è cosa impegnativa e costosa. Si farà, ma per situazioni di particolare pregio, ed allora il campo diventa un brolo o una chiusura, dipende da cosa si usa per recintarlo. Le miniature e gli affreschi medievali sono una dimostrazione preziosa in questo senso: ci illustrano un paesaggio di siepi e recinti, spesso fatti con rami intrecciati orizzontalmente intorno a pali piantati ad intervalli regolari26. Tanta fatica e tanto spreco sono finalizzati evidentemente a qualcosa di preciso, che tende a confermare la nostra ipotesi di partenza, espressa in premesse: bisognava difendere viti e grano dagli animali portati al pascolo nei campi a riposo. Da questa e da altre simili situazioni nasce la "fabula inter vicinos" 27, il con-fabulare per mettersi d'accordo, l'inventare regole, il costruire la “repubblica” di platoniana memoria.

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Ovviamente solo chi ha terreni propri partecipa di questo "consorzio", dove ognuno mette qualcosa a disposizione di tutti; cioè è la proprietà fondiaria a dare il diritto di pascolare dopo il raccolto e nei campi a riposo. Proprietà si intende la disponibilità dei mezzi di produzione, tipica dell'allodio ma anche del contratto di livello: un'altra delle cose che muoiono col buio medioevo, e non si trovano nell‟evo moderno, dove regnano mezzadria e bracciantato. Naturalmente non si pascola solo nei campi a coltura (e nei prati dopo la fienagione), ma anche negli incolti, nelle aree paludose, nei boschi28, questi ultimi riservati quasi esclusivamente a quegli animali preziosi, presenti inesorabilmente in ogni famiglia rurale da almeno un millennio, che sono i suini29. Per quanto riguarda questi ambienti, la cui gestione ha pur essa bisogno della “fabula inter vicinos”, quando non è la proprietà piena, è effettivamente l‟uso collettivo consolidato, percepito allora quasi come proprietà piena, e in effetti di poco diverso, che si perde nella notte dei tempi. Lo mette in luce, per quanto riguarda la località di cui si parla, il documento che vede riconosciuto, da parte della badessa di S. Pietro, agli uomini di Lerino, Grumolo e Grantorto il diritto di far legna sul Bosco Maggiore, che pur è dichiarato proprietà piena del monastero, che ne ha anche la giurisdizione30.

Le regole “con-fabulate” erano orali, erano consuetudini, così radicate da secoli da non aver bisogno di essere confermate, neppure quando si cominciarono a scrivere gli statuti comunali. E‟ lo ius comunis invocato ad alta voce dagli uomini di Lerino, presenti in massa nel 1380, come abbiamo visto, al dibattimento della causa promossa davanti al podestà. Infatti non si trova quasi mai direttamente la enunciazione di queste come norme in positivo (è lecito fare …), ma la loro esistenza, quantomeno come consuetudine – e sappiamo il valore della consuetudine per l‟epoca - si deduce da infiniti indizi, comprese le norme in negativo (non è lecito fare ….). Se infatti la vicinia è costretta a stabilire una regola, poniamo sul pascolo delle capre, vuol dire che era sentita la necessità di regolamentare questo pascolo, ma anche che di certo avveniva; con lo “statuto” lo si limita, non lo si nega. Abbiamo fatta in premessa (penultimo capoverso) l‟ipotesi che il pensionatico, tra l‟altro, sia nato come un diritto di tutti i residenti al pascolo su terreni collettivi e su terreni privati dopo il raccolto o la fienagione, essendo partiti da riscontri altrui (Bloch e Fapanni) ed avendo accertato possibili testimonianze nell‟archivio storico del monastero di S. Pietro di Vicenza31. Vediamo nel grande laboratorio della storia32 se tale ipotesi è confermata o no. Per prima cosa vediamo come descrivono il pensionatico i contratti stessi e i documenti giuridici inerenti alla contestazione degli uomini di Lerino che abbiamo riportato. Intanto, e sempre, usano contemporaneamente più termini per indicare l‟oggetto dell‟affitto:

capulum pasculum et herbaticum seu penssionaticum33

; pensionaticum sive foiaticum sive

herbaticum34; iuris pasculi et pensionatici ville et pertinentie ville de Lerino35

; fictus atque pensionis

herbatici pensionati et paschuli de villa et pertinentiis36

, facendo pensare – ma restano dubbi –

che si tratti di sinonimi o piuttosto sfaccettature diverse di una unica cosa, come quando, in tutt‟altre situazioni, si dice “dedit vendidit cessit tradidit …”. Pare non troppo azzardato proporre che il pascolo in campi a riposo corrisponda prevalentemente all‟herbaticum, il capulum al pascolo nel bosco, il foiaticum al raccogliere foglie dagli alberi per le capre o forse raccogliere le foglie delle erbe infestanti, e portarle a casa in fascio37; il pasculum poi potrebbe corrispondere in origine all‟utilizzo dell‟incolto generico, ma rapidamente il termine avrebbe iniziato a comprendere tutti gli altri significati. Continuando nell‟analisi delle fonti documentali citate sempre si fa puntiglioso riferimento al territorio, mediante il termine “in villa … et eius pertinentiis”, e anche qui resta da approfondire il significato di “pertinentie”, al di là forse di quello di territorio racchiuso da confini, che suggerisce il Du Cange, e più vicino al significato di pertinere, appartenere giuridicamente a qualcuno; poi ancora si usa sempre l‟espressione “extra damna”38 e queste due parole, che pongono limitazioni al pascolo, presenti di regola anche negli statuti comunali con riferimento alla stessa attività, sono significative, perché è difficile pensare a “damna” se ci si riferisce a paludi boschi ed incolti, in genere lontani dai centri abitati; è la prima preoccupazione invece se si pensa a pascolo in aree inframezzate a coltivi, poste di solito intorno agli insediamenti abitativi. Anche gli atti legali che abbiamo esaminato, relativi al contenzioso fra gli uomini di Lerino e il monastero, danno utili indicazioni. Nell‟ultimo riportato, quello del 22 marzo 141239, il podestà ingiunge di non molestare i pastori del monastero e ordina che gli uomini di Lerino “permittent

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ubique in dicta villa et pertinentiis pasculare et pasculari facere cum suis ovibus et bestiis”; in altra occasione – vedi ancora la nota 36 – si dice “pasculare pro libito voluntatis”. Ebbene, pare che sia difficile pensare che “ubique” e “pro libito voluntatis” escludano i campi lasciati a riposo, e siamo certi del resto che i campi a riposo esistevano. Prendiamo ora in mano gli statuti dei comuni rurali. Sono una fonte stupenda per capire direttamente ed indirettamente come si svolgeva la vita in ambito rurale nell‟epoca di cui parliamo. Gli statuti del „200 e „300 con tutta ovvietà riferiscono solo limitazioni a questi consolidati diritti. Dicono "chi pascola nei luoghi recintati è punito con.., chi pascola dopo la festa di S. Giorgio in … è punito con … ", da cui si evidenzia che chi pascola fuori delle chiusure, fuori dei campi coltivati, non incorre in nessuna sanzione. Anzi, se occorre mettere limitazioni vuol dire che il problema esiste.40 Come spiegare altrimenti l'obbligo stabilito dal comune di Padova, per chi avesse capre, di strappare loro o rompere i denti incisivi 41? L‟obbligo di non lasciare mai le capre libere? E‟ giocoforza ammettere la presenza di questi animali nei campi coltivati42. Anche lo statuto di Carrè, probabilmente della metà del 1200, conferma l‟enorme importanza, attribuita a quell‟epoca alle capre, allevate in ogni famiglia in cui ci fossero bambini (cioè in tutte): “Item (statuimus) quod oves et capre custodientur a campanea a festo sancti Ursii 43 usque ad festum sancti Martini nisi foret tantum una capra, et ipsa legata, et qui contrafecerit pignorentur, ut supra dictum est, de quinque soldis denariorum veronensium pro clapo” 44. In pratica nel periodo della piena coltivazione dei campi si poteva portare al pascolo in campagna (non nei terreni incolti e boschivi, che dunque erano liberi al pascolo sempre, ma, sottolineiamo, in campagna) una sola capra, e per di più legata a una fune; nel periodo invece che corrisponde a quello utilizzato per il pensionatico, dopo i raccolti, non c‟erano limitazioni, nemmeno in campagna. E‟ evidente la preoccupazione di assicurare a ogni famiglia il latte quotidiano, non solo quello di proteggere le colture. Quel che è certo è che anche le capre pascolavano in campagna, fra i coltivi. Il comune di Cittadella nel trecento (ma è un metodo adottato da molti altri), trova una soluzione che sembra definitiva sul problema capre. Lo statuto infatti dice, al n. 79 del primo libro, “caprarii duo et porcari duo continuo teneantur per homines Cittadelle …. qui porcarii et caprarii debeant conducere omnes bestias caprinas et porcinas ad pasculum more solito, et postea eas reconducere domum”. Naturalmente ne consegue che (statuto n. 78) “item volumus quod quelibet persona habens yrcum vel capram, teneatur et debeat ipsos mittere ad gregem cum caprario sive porcario communis, sub pena soldorum decem pro quolibet yrco vel capra non invento cum grege, et impune possit offendi vel occidi, et nichillominus quilibet possessor predictorum animalium teneatur solvere caprario pro quolibet salarium, sicut faciunt alii qui mittunt cum grege, sive ipse possessor mittat ad gregem sive non, eciam si vellit eam tenere continue ad suam domum clauxam sive ligatam” 45. Lo statuto di Cittadella (libro I, cap. 42) ci dice però un‟altra cosa, ai nostri fini, ancora più importante: “nulla persona audeat nec debeat pasculare aliquas bestias in allienis pratis domesticis a die sancte Marie mensis marcii (25 marzo) in antea usque ad diem sancte Iustine inclusive (7 ottobre)” Dunque pascolare negli altrui prati, dopo lo sfalcio, è consuetudine che qui si regolamenta, ma è consuetudine, è diritto. Ma andiamo avanti, sullo stesso statuto 42: “Item

possint bestie bovine pasculare in campis vigris, clausuris, et sic similiter equus vel equa incontinenti, postquam clausuram est vindemiata, usque ad festum sancte Marie mensis marcii”. Ci torna utile a questo punto, contraddicendo l‟affermazione di prima, e cioè che non era necessario per gli statuti confermare consolidati diritti di pascolo (inteso genericamente), e in linea con quanto appena riportato circa il pascolo a Cittadella, citare di nuovo lo statuto di Padova, tanto preoccupato per le capre, come abbiamo visto. “ Item (statuimus) quilibet possit , et cuilibet licitum sit bestias suas pascere in omnibus terris tam veteribus, quam novis, paludibus et amplis 46 sine

prohibitione alicuius in territorio et pertinentia ville, in qua habitat, dum tamen a damno bestias caveat, qui depascent” 47. A proposito della forza delle consuetudini – e chiudiamo con questo con gli statuti - , lo Statuto Carrarese di Treviso del 1385 48, recita: “Verumtamen per istud statutum nullum debeat jus tolli vel acquiri vel tribui alicui comuni alicuius ville sive villarum in nemoribus, pascuis et guiççis alterius ville, capulandi vel pascendi vel buscandi jus aliquod pretenderet se habere; sed, in eis, statuta alia et veteres consuetudines observentur”.

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Abbiamo cercato finora di dimostrare quali erano le consuetudini relative al pascolo, consuetudini che giuridicamente furono chiamate ius capulandi, pascendi oppure herbaticum ecc.. Vediamo ora come questo ius si trasformò nello ius pensionatici e sfuggì dalle mani dei legittimi originari proprietari naturali. Accertiamo intanto se tale diritto era soggetto a compravendita. Come diritto naturale dovrebbe essere implicito per tutti quelli che possiedono terreni, senza la necessità di essere riportato negli atti di compravendita. Quando si cominciò a riportarlo, implicitamente si ammise anche di poter vendere od acquistare il fondo senza tale diritto, e di distinguere la vendita del fondo da quella del diritto. Vediamo alcuni casi. L‟11 maggio 1192, nella camera della badessa del monastero di S. Pietro. Rodolfino notaio vende a Desiderata badessa di S. Pietro per 37 lire un manso posto in Rasega 49, "cum campis pratis et sedimine et busscaliis et vigris cultis et incultis divisis et indivisis et cum capullo et pascullo et omnibus suis pertinentiis proprietariis et omni iure ad ipsum mansum pertinenti et venacionibus et pisscacionibus et nominatim cum capullo et pascullo et busscatione in bussco Vançole". Nota bene: “capullo et pascullo” lo dice due volte, una per la proprietà in toto, una per il solo bosco Vanzole, del quale bosco vende solo questi diritti (e quello di far legna), non la proprietà, diritti che però ritiene collegati al manso che vende, “iure ad ipsum mansum pertinenti”. Il 30 aprile 1226, in Vicenza 50 il vescovo Ziliberto, per sanare i debiti, vende al capitolo vicentino per 3.500 lire dodici mansi in Altavilla, permutati poi con proprietà in Nanto. "Vendidit … cum omnibus suis pertinenciis in integrum sibi adiacentibus et cum iure capulandi, buscandi et pascendi per habitatores ipsorum mansorum, eo modo et ordine secundum quod alii homines et habitatores ipsius terre consueverunt facere vel facient in futurum". Torniamo agli uomini di Lerino, che abbiamo riscontrato avere, nel 1155, il diritto d‟uso del Bosco Maggiore 30. Il comune però si ‟è indebitato e stipula il 10 marzo 1222 una ipoteca al 15% annuo con Giacomino Stella sui propri diritti nel Bosco Maggiore51. Giacomino vende l‟ipoteca a Vincenzo, guarda caso procuratore del monastero di S. Pietro. Caduti in mano agli usurai, gli uomini di Lerino finiscono per perdere i diritti sul bosco. L‟anno seguente infatti nella vicinia del 5 febbraio52, rassegnati, i Lerinesi approvano la vendita fatta di tali diritti dai loro rappresentanti: “vendiderunt ….domino Cresencio recipiente pro infrascripto monasterio omne ius suum et omnes suas raciones et acciones reales et personales quod vel quas ipsi et comune Lidrini habebant vel habere poterat in infrascripto Nemore Maiori tam pro capulo quam pro pasculo seu iure buscandi vel accipiendi vel guiçandi seu utendi in infrascripto nemore vel quolibet alio iure seu titulo; quam autem vendicionem …, una cum acessibus et ingressibus et omnibus suis pertinenciis et servitutibus et aque ductibus et usibus aquarum et cum capulo et pasculo et venacione et piscacione et consorcia et marigança et cum terreno et lignamine et cum omni iure et accione reale et personale propri et comunis …” . Dunque i diritti di pascolo e d‟uso del bosco, ben distinti dalla proprietà del bosco, sono soggetti a vendita e ad ipoteca, come del resto qualsiasi altro diritto. Riassumendo, abbiamo visto che il pascolo, fatto sui beni collettivi e anche sui terreni privati dopo la raccolta o la fienagione, era una consuetudine, cioè un diritto naturale, collegato alla proprietà fondiaria anche nel caso di cessione del bene. Abbiamo intuito, tra le righe, che l‟allevamento e la coltivazione dei campi erano complementari, e che questa consuetudine era necessaria per garantire tale equilibrio53. Era un diritto naturale il pascolo, almeno il tipo di pascolo che abbiamo descritto, diritto estraneo al mondo romano e proprio del mondo germanico, consuetudine che il lungo regno longobardo diffuse e trasformò in una struttura mentale di lungo periodo. L‟occupazione dei Franchi rigidamente verticistica ritenne di assegnare al re/imperatore il diritto di disporre di ogni cosa, compresi i diritti naturali legati a consuetudini consolidate. La cosiddetta “Manifestazione di Barbarano”, del 126854, più di un secolo prima dei fatti di Lerino sopra narrati, può forse essere ritenuta una specie di statuto che regolamenta i diritti del comune, sottoposto alla stretta giurisdizione del “dominus loci”, il vescovo di Vicenza, e li distingue ed identifica rispetto a quelli del vescovo stesso, che ha tutti i poteri sovrani e riconosce sopra di lui solo l‟imperatore. E‟ il documento più antico, fra quelli esaminati, che riporta il termine pensionatico. Elencando le prerogative del vescovo infatti dice: “Item dominus episcopus ponit oves et habet erbaticum et pixonaticum quia est regalia imperatoris et tenet pro eo”. Dunque il

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pensionatico è un diritto dell‟imperatore, una regalia, e il vescovo lo possiede perché l‟ha direttamente ricevuto dall‟imperatore55. Ribadiamo di nuovo, senza soffermarci, che il concetto è del tutto avulso dal diritto di proprietà romana (cosiddetta proprietà quiritica). Quanto al nostro monastero, non si trova mai nei privilegi vescovili assegnati alle abbadesse di S. Pietro, da quello di Liudgerio56 del 1061 in poi, o nelle bolle papali, come quella di Callisto II57 del 1123, un riferimento a Lerino. Il monastero non aveva alcuna giurisdizione e alcun diritto su Lerino; non è il dominus loci: vuole diventarlo, e lo fa appunto attraverso l‟acquisizione di diritti, collegati a beni fondiari, dei quali fa una vera incetta. Una di queste acquisizioni l‟abbiamo vista sopra, quando Lerino vende i diritti sul Bosco Maggiore. E‟ da notare, andando a rileggere il brano del documento che abbiamo più su riportato, come il monastero insista nell‟inserire meticolosamente nell‟atto d‟acquisto, ad di là del consueto formulario, ogni diritto vero e presunto pertinente al bosco, fino a comprendere la mariganza, come se la giurisdizione del bosco fosse in capo alla vicinia di Lerino, mentre è il monastero stesso che “tenet proprietatem et custodiam” . Anche negli atti notarili relativi a beni situati nel territorio di Lerino acquisiti dal monastero, si evidenzia una attenzione quasi esagerata concentrata sui diritti, più che sui fondi veri e propri. E‟ significativa in questo senso la ampia permuta di beni con il monastero di S. Tommaso58 fatta nel 1235, con la quale le suore cedono proprietà nei dintorni di Vicenza per averne altre a Lerino e nei paesi confinanti: “….. una cum campis pratis sediminibus cultis et incultis vitibus altanis nemoribus cedis fossis rupis rupinis postis molendinorum, si quas haberent, usibus aquarum et aque ductibus et cum capulo et pasculo et pensione et venacione piscatione buscatione et cum usufructibus et cum omni dominio et comitatu et iurisdicione marigantia consortia pertinentibus ad predictas possessiones et cum omni iure et honore et accionibus realibus et personalibus …..” . Anche in

questo caso il formulario consueto è utilizzato nei suoi termini più ampi, raramente tutti presenti: ci riferiamo in particolare l‟espressione “cum … dominio et comitatu”. Si noti che fra le tante cose, oltre alla mariganza, citata nel documento precedentemente esaminato, c‟è anche la “pensione” collegata ai termini “capulo et pasculo”, il che fa pensare subito al pensionatico. Un altro esempio di tale incetta è la vendita al monastero fatta da Darita degli Aimi 59 nel 1235 di “sedimen unum positum in Litrino … item unam peciam terre prativam in Litrino … insuper vendidit et dedit pro eodem precio totum aliud terrenum seu inmobilem proprietatem et omne ius suum quod habet vel visa est habere in terra Litrini et eius pertinenciis et finibus et tam in postis molendinorum quam in castro Litrini seu in comitatu vel in marigancia vel consortia illius terre seu ius quod haberet aliquo modo in Litrino et eius pertinenciis et finibus, una cum accessis et ingressis, cum superioribus et inferioribus suis et cum omni iure et honore et dominio et iurisdicione et marigancia et consortia ad eadem venditio pertinentes, et cum omnibus racionibus et actionibus realibus et personalibus … “ Darita vende dei precisi immobili, ed inoltre ogni altro

bene ed ogni diritto che ha o sembra avere a Lerino. E‟ difficile pensare che Darita non sappia che beni immobili ha a Lerino, ed altrettanto difficile non accorgersi che l‟attenzione è posta tutta sui diritti giurisdizionali. Dopo una serie di acquisti di questo genere e di conferme giudiziarie le suore hanno acquisito effettivamente i diritti signorili su Lerino; li esercitano, in tutti i campi, e vengono loro riconosciuti in giudizio60, assai prima delle sentenze sul pensionatico del 1402 e 1403 di cui abbiamo parlato, che danno ragione alla abbadessa perché aveva “meliora et potiora iura”. Sembra dunque che gli uomini di Lerino abbiano avuto torto. Essi stessi, nel 1222, avevano venduto certi diritti “naturali”, di cui erano in godimento, come sopra abbiamo visto30: perché ora si oppongono con tanta determinazione all‟esercizio del diritto di pensionatico da parte del monastero e se la prendono con i pastori stranieri? Avanziamo un‟ipotesi, che resta aperta e abbisogna di approfondimento: se la prendono forse proprio perché sono stranieri. I diritti naturali consuetudinari appartenevano a chi ha “locum et focum” 61 a Lerino: ha terra (locum) e ha famiglia (focum). Appartenevano anche al “dominus loci”, ma attraverso la proprietà domnicale, quando questi utilizza in prima persona beni e diritti (ovviamente tramite i servi), condivide con gli altri residenti questi beni e partecipa così alla “fabula inter vicinos”. Le suore, secondo gli uomini di Lerino, avevano torto, perché mancava il focus, anche se c‟era il locus (il diritto). Il focus discende dal fatto che, quando più su si è parlato di proprietà fondiaria come prerequisito al godimento dello ius, si intendeva - ma lo abbiamo accennato - proprietà come disponibilità dei mezzi di produzione62, cioè esercizio di effettiva attività

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agricola, cioè residenza, cioè aver famiglia. Nel 1167 ad es., si era registrato un fatto del genere fra i vicini di Lerino e il monastero63, a proposito del solito Bosco Maggiore. Il monastero, che aveva “proprietatem et custodiam” sul bosco (lo abbiamo già detto) si accorda (fabula) con i vicini a proposito di varie cose, fra cui il pascolo dei maiali: “porci hominum … debent ire in hoc nemus ad pasculandum vel clandes vel poma vel aliud pasculum sine ulla datione danda abbatisse. Et porci domnicales abbatisse similiter debent ibi pasculare si ipsa volet, set non debet facere esse in illo nemore alios porcos neque porcos sui amici neque porcos sui propinqui neque alicuius hominis”. Mantenendo gli stessi principi il monastero avrebbe dovuto utilizzare il diritto di pascolo in forma diretta, con propri animali e servi, ma non affidarlo ad estranei. Il problema, per gli uomini di Lerino, è legato al fatto che fra questa “fabula” del 1167 e la lite intorno al 1400 erano passati più di 200 anni. Il mondo era cambiato. Non c‟erano più né pecore né porci domnicales. Non c‟era più spazio per la loro autonomia di vicinia, per il loro collettivismo, né mai più ci sarebbe stato. Qualcosa del loro mondo è tuttavia rimasto. In certe zone, come abbiamo visto col Fapanni, fino all‟ottocento inoltrato. Ma ancora oggi tracce di quel mondo emergono, quando la gente va liberamente a raccogliere le poche pannocchie spezzate di mais che le macchine agricole lasciano sul campo dopo la mietitura, oppure quando si prendono, senza paura di essere tacciati di furto, quei pochi acini dimenticati sulla vite dopo la vendemmia. Dicono, i più vecchi, che è un diritto di tutti.

1 Il presente lavoro ha l’enorme ambizione di non essere soltanto un’opera di “sintesi e divulgazione storica” (cit. da P.

PRODI, Introduzione allo studio della storia moderna, Urbino 2002, p. 44), ma anche un piccolo contributo alla ricerca. Ciononostante, dato che “si è avuta negli ultimi anni una forte rivalutazione della storia come racconto, un ritorno alla narrazione” (ibidem, p. 44), si è indugiato talvolta in espressioni colloquiali e domande retoriche che possono sembrare eccessive a chi è abituato a forme specialistiche e molto tecniche di scrittura della storia. Del resto sembrano d’accordo con questa impostazione molti storici accademici, per il fatto stesso che la praticano largamente. 2 ASVi, Fondo Notai, Michele Lazzari, Foza, alla data.

3 M. BLOCH, i caratteri originali della storia rurale francese, Torino 1973, p. 282.

4 A. FAPANNI, Sul pensionatico ossia servitu’ del pascolo invernale delle pecore in alcuni paesi di pianura delle provincie

venete, in Memorie scientifiche e letterarie dell’ateneo di Treviso, vol. III, Treviso 1824, risposta al quesito 2, ultimo capoverso. Siamo di fronte a uno degli esponenti della profonda rivoluzione agraria di fine settecento – primi ottocento, quando l’introduzione delle colture foraggere consentì l’allevamento al chiuso degli animali (con la conseguente disponibilità di letame per la concimazione) e permise la coltivazione dei campi senza il consueto periodo di riposo ad anni alterni, ma con ciclo triennale modulato e senza periodo di riposo. Altro oscuro agronomo che, all’incirca nella stessa epoca, si interessò dell’argomento, confermando la testimonianza di Fapanni, fu Luigi Arduino, professore supplente alla cattedra di agricoltura nell’Imp. R. Università di Padova,. del quale si può leggere L. ARDUINO, Riflessioni intorno alla libertà dei Pascoli nelle Provincie della Terra Ferma Austro-Veneta, in Atti dell’accademia delle scienze di Siena, detta de’ fisio-critici, tomo IX, Siena 1808. 5 ASVi, Corporazioni Religiose Soppresse, S. Pietro (d’ora in avanti ASVi, S. Pietro), b. 2248, alla data.

6 ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data.

7 ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data 1381, 28 feb.

8 ASVi, S. Pietro, b. 2248, pergam. cucita in filza, alla data 1395, 24 set.

9 Per inciso è la prima volta che dalla documentazione del monastero di S. Pietro esce questo termine "posta",

usatissimo fino all'avanzato '800 e di cui ancora si ricordano il significato i vecchi dell'Altopiano di Asiago, inteso nel senso di un’area geografica compatta in cui si esercitava la pastorizia invernale pagando una certa somma al titolare della posta, sempre diverso dal proprietario dei fondi. 10

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data 1399, 20 aprile. 11

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data 1398, 29 nov. 12

ASVi, S. Pietro, b. 2251, alla data. 13

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data 1399,3 ott.

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Non ci risulta che le suore del monastero di S. Pietro abbiano mai perso una causa nei secoli riferibili al pieno e basso medioevo. E’ risaputo del resto che le corporazioni religiose in genere erano ovunque trattate benignamente dall’apparato giudiziario dell’epoca. Anche la causa intentata n piena epoca ezzeliniana da Carnarolo, fautore di Ezzelino, si è conclusa in loro favore (vedi nota 60). 15

Dati citati in ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1407, 9 marzo. 16

ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1407, 21 feb. 17

ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1407, 9 marzo. 18

ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1407, 14 apr. 19

ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 20

Uno storico dovrebbe comprendere, non giudicare il passato. Infatti ci sembra di aver cercato, con questo scritto, di comprendere perché i lerinesi si comportavano in quel modo. Ma anche lo storico (come il giornalista) è una persona che vive un proprio sistema ideologico e che è inserito in un contesto di valori dai quali non può prescindere e senza le quali cose non sarebbe una persona. Come per il giornalista così anche per lo storico l’assoluta obiettività nel descrivere un fatto è una utopia, fino a quando non faremo fare la storia ai computer. Ma allora non sarà storia, ma cronaca o antiquariato. La storia è vita. Del resto è troppo nota la frase “Il bravo storico somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda” (M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino 1998, cap. primo della redazione definitiva, p.23). Ci è sembrato, in questa vicenda, di cogliere il fremere dello spirito umano. Quel fremito ci ha fatto a nostra volta fremere. Ce ne scusiamo. 21

ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 22

Consulta, sull’argomento agricoltura nel medioevo, fra le moltissime opere, P. CAMMAROSANO, Le campagne nell’eta’ comunale (meta’ sec. XI – meta’ sec. XIV), Torino 1974, riprodotto in parte on line nel fantastico sito di Reti Medievali, all’indirizzo <http://www.storia.unive.it/_RM/didattica/fonti/cammarosano/prefazione.htm>, ultima consultazione :16.03.2009; G. DUBY, Le origini dell’economia europea. Guerrieri e contadini nel medioevo, Bari 1973, in particolare il cap. I, IV; E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1961; A. CORTONESI, G. PASQUALI, G. PICCININI, Uomini e campagne nell’Italia medievale, Bari 2002. Di piacevolissima lettura e incentrato sul rapporto uomo-ambiente è V. FUMAGALLI, Paesaggi della paura. Vita e natura nel medioevo, Rastignano 2006. 23

In qualche modo questo vuol dire applicare il metodo regressivo di Marc Bloch ( M. BLOCH, Apologia della storia, cap. primo della redazione definitiva, pagine finali): tiriamo via dal campo, nella nostra mente, tutte le sovrastrutture moderne, una alla volta, e vediamo cosa resta. Informiamoci su come avveniva il pascolo nell’epoca più lontana da noi a memoria d’uomo, e poi come avveniva il pascolo nel ‘600 (magari studiando le infinite dispute di allora fra pastori e residenti), e capiremo meglio quello che dispongono gli statuti dei comuni rurali a questo proposito. In qualche modo vuol dire anche applicare il metodo di ricerca scientifico: fare un'ipotesi, a seguito dell’osservazioni di fenomeni, e verificare in laboratorio se l'ipotesi è confermata sperimentalmente. Noi non abbiamo laboratori, ma la storia stessa è laboratorio: verifichiamo dunque se l'ipotesi è giusta ricercando nelle fonti le situazioni che la confermano e quelle che la smentiscono (M. BLOCH, Storici e storia, Martellago 1997, p. 245, originariamente M. BLOCH, Une nouvelle histoire universelle: H. G. Wells historien, La revue de Paris, 1922: ‘Les autres sciences peuvent expérimenter; les sciences sociales n’ont pas de laboratoires; elle n’ont à leur disposition d’autres expèriences que celles que leur offre naturellement le passè ‘ ). Abbiamo cercato di seguire, nel presente scritto, queste due vie. 24

M. BLOCH, I caratteri originali, pag. 55: “Il pascolo collettivo era dovuto anzitutto a una idea, o a una maniera di pensare divenuta tradizionale, secondo cui il suolo privo di frutti non era più passibile di appropriazione individuale”. F. SCHUPFER, Degli usi civici e altri diritti del comune di Apricena, Reale Accademia dei Lincei, anno CCLXXXIII, Roma 1887, pp. 284: “Il pascolo sui fondi dei privati è antico; e ne fanno parola la legge visigota, la langobarda, e i Capitolari …. Per ciò che riguarda il diritto di pascolo, il proprietario non poteva impedirlo; ma nessuno poteva esercitarlo se non dopo raccolti i frutti.” Francesco Schupfer è stato uno storico del diritto; circa i rinvii alle leggi citate vedi l’ed. originale. 25 Naturalmente in queste condizioni non posso far sì che nel mio campo/pascolo vadano solo i miei animali e non quelli degli altri. Del resto, anche dal punto di vista agronomico di sfruttamento e di concimazione del terreno, è meglio portare al pascolo gli animali tutti insieme, risparmiando considerevolmente mano d'opera, e farli pascolare tutti insieme a turno nei terreni di tutti. E’ meglio un gregge numeroso per pochi giorni che non qualche pecora tutti i giorni. Queste cose prevedono ovviamente regole condivise e spirito comunitario. Sulle forme di solidarietà rurale vedi M. BOURIN, R. DURAND, Vivre au village au moyen age, Bonchamp-lès-laval 2005. 26

Circa gli affreschi vedi ad es. Il mese di agosto, nella Torre Aquila del Castello del Buonconsiglio a Trento, e Il buon governo, di Ambrogio Lorenzetti a Siena. 27

La frase è presa, come è ben noto, dall’ Editto di Rotari del 643. 28

Per inciso se da questi incolti collettivi estraggo un campo e lo metto a coltura, cosa ancora frequente al tempo dei fatti che abbiamo narrato, raccolte le biade, il campo dovrebbe tornare all’uso collettivo. Ecco da dove può essere nata la regola “morale” alla quale più su si accennava e di ben nota derivazione germanica. 29

I suini quando pascolano tendono a creare danni notevoli grufolando alla ricerca di radici, come fanno, anche al giorno d’oggi, i loro fratelli cinghiali, con i quali costituiscono un’unica specie biologica e con i quali, nel medioevo, si incrociavano spontaneamente per il fatto di condividere il bosco come ambiente di vita. Vedi Il bosco nel medioevo, a cura di B. Andreolli e M. Montanari, Bologna 1988.

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ASVi, S. Pietro, b. 2256, atto del 1155, marzo 13: “Cum suprascriptum monasterium haberet et proprietatem et custodiam unius silve qui dicitur Maiore iacente inter Lidrinum et Grumulum et Grugnotortum atque Rassagam, et superiores tres prime ville pasculum et capulum in ea haberent …” E’ interessante a proposito quanto avvenne in seguito, cioè che Lerino, preso dai debiti, il 10 marzo 1222 fu costretto a vendere al monastero anche questo diritto d’uso (ASVi, S. Pietro, b. 2251, alla data:” … pro vendicione facta in Iacobinus Stella de racione quem comune Letrini habebat in Nemore Maiori ….”). avrà fatto così anche per il pensionatico? Non abbiamo documenti a riguardo: ci fossero stati sarebbero sicuramente emersi in uno dei processi per il pensionatico citati. 31

P. PRODI, Introduzione allo studio, p.38. Si tratta del cap. 1, paragrafo 5 dal titolo “Il laboratorio dello storico: le fasi della ricerca”, laddove dice”La prima fase, la fase progettuale, è quella che porta alla formulazione della domanda, dell’ipotesi di ricerca …” e più avanti “l’elaborazione dell’ipotesi deve sempre trovare un riscontro nella letteratura precedente sull’argomento e nell’accertamento della presenza di testimonianze”. Per il primo abbiamo appunto citato Bloch e Fapanni, per il secondo l’archivio storico del monastero di S. Pietro di Vicenza. 32

Vedi nota 23, seconda parte. 33

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data 1392, 28 ottobre. 34

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data. 35

ASVi, S. Pietro, b. 2248, alla data. 36

ASVi, S. Pietro, B. 2248, alla data. Pergamena in filza. 37

Nel 1820 una certa “donzelletta” veniva “dalla campagna, in sul calar del sole, col suo fascio dell’erba”. Ricordo che da ragazzetto mi mandavano a raccogliere le larghe foglie della Arctium Lappa, pianta infestante dei pascoli e prati, e la portavo a casa, in fascio, per i conigli. Metodo regressivo di ricerca storica? Una lirica di Leopardi come fonte storica? Impertinenza? Fate voi. 38

A titolo di esempio vedi ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1412, 22 marzo “permittent ubique in dicta villa et pertinentiis pasculare et pasculari facere cum suis ovibus et bestiis extra damnum“; ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data 1409, 23 gen. “pasculare et pasculari facere pro libito voluntatis extra damna super dictis pertinenciis de Lerino”. Nota il “pro libito voluntatis”. 39 ASVi, S. Pietro, b. 2249, alla data. 40

Aumenta, il problema, tanto più quanto diminuisce il territorio incolto, e quanto più aumentano la popolazione e le capre che l'accompagnano: infatti sempre più cresce negli anni (vedi i numerosissimi statuti delle comunità rurali del 1500) il numero e la rigidità delle regole che a questo proposito le comunità si danno. 41

A. GLORIA, Le leggi sul pensionatico emanate per le provincie venete dal 1200 a’ dì nostri, Padova, 1851 Statuti, pag. 38 “Et (statuemus) quod qliquis non possit tenere aliquas capras in Padua vel districtu, nisi habeant dentes anteriores extractos vel fractos, ita quod dampnum facere non possint, pena soldorum sexaginta pro qualibet capra. Et quilibet possit auferre impune ipsas capras, que non habuerunt dentes cavatos, seu fractos”. Questo statuto, scritto nel foglio 134 del codice membranaceo degli statuti di Padova del 1276, come dice il Gloria, è compilato nel 1280 dal podestà Matteo da Correggio, che sembra avercela particolarmente con le capre, visto che al foglio 147 del codice aggiunge quest’altro statuto “ (statuemus) aliqua familia de Padua vel campanea non teneat ultra unam capram, sub pena soldorum sexaginta pro qualibet familia”. 42

Le capre sono animali terribili per quanto riguarda voracità e capacità, ad es. di distruggere un vigneto (del tipo a palo secco ovviamente), non sono controllabili facilmente come le pecore, che amano stare a fianco a fianco; sono anzi alquanto individualiste, ma sono anche animali meravigliosi per quanto riguarda il latte; sono delle vere e proprie macchine da latte, in confronto ai bovini e considerando la loro stazza. 43

Festa di S.Orso: 3 maggio 44

BCBVi, G. MACCÀ, Codice Diplomatico Vicentino Manoscritto, I, ms. G.7.8.15-16. Con la parola “clapo” più probabilmente l’estensore dello statuto voleva dire gruppo di capre (dialetto vicentino s’ciapo) piuttosto che capo (una singola capra). 45

Statuti di Cittadella del sec. XIV, a cura di G. Ortalli, G. Parolin, M. Pozza, Corpus statutario delle Venezie, 1, Roma 1984. Per il testo in italiano vedi G. CITTON, D. MAZZON, G. BONFIGLIO-DOSIO, Statuti di Cittadella del XIV secolo, Cittadella 1995. 46

Amplum: “idem videtur quam novale” (Du Cange). 47

A. GLORIA, Le leggi sul pensionatico, Statuti, pag. 35, foglio 146 del codice membranaceo degli statuti di Padova del 1276. 48

Gli statuti del comune di Treviso (sec. XII - XIV), a cura di Bianca Betto, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Fonti per la Storia d'Italia, 1986, tomo II°, p. 367. 49

ASVi, S. Pietro, b. 2247, alla data. 50

I documenti dell’archivio capitolare di Vicenza (1083 – 1259, a cura di F. Scarmoncin, Fonti per la storia della terraferma veneta, 15, Cittadella 1999, pag. 92.

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“…. confessi fuerunt se ei dare debere pro vendicione facta in Iacobinus Stella de racione quem comune Letrini habebat in Nemore Maiori, de qua ipse Vincentius racciones et acciones ab eo Iacobino aquisierat”. ASVi, S. Pietro, b. 2251, alla data. 52

ASVi, S. Pietro, b. 2251, alla data. 53

L’alimentazione base di una famiglia era costituita allora da un suino per la carne, una capra per il latte, un campo per i cereali, un orto per la verdura. Oggi si direbbe una nutrizione assolutamente equilibrata. Vedi M. MONTANARI, Alimentazione e cultura nel medioevo, Gorgonzola 2006; ed ancora, dello stesso autore, L’alimentazione contadina nell’alto medioevo, Napoli, 1979. 54

ACVVi, Codice Feudi, I. f. 126v. 55

In realtà quanto scrive l’estensore della “Manifestatio” non si trova con altrettanta chiarezza nei documenti che riportano i privilegi concessi dall’imperatore – da ultimo in quello di Federico II , il più completo - , ma questa è altra storia. Ci interessa capire che a disporre del pensionatico si riteneva potesse essere solo l’autorità sovrana assoluta. Su questo tema e su altri inerenti la presente pubblicazione vedi F. SCHNEIDER, Le origini dei comuni rurali in Italia, Firenze 1980, cap.III. E’ curioso che quest’opera sia stata pubblicata in Italia solo nel 1980, a cinquantacinque anni di distanza dall’uscita della edizione tedesca. Allo Scneider, fautore della discontinuità delle comunità rurali medievali (che sarebbero sorte per lui con i longobardi), con le analoghe comunità dell’impero romano, rispose convincentemente il Bognetti (vedi nota 61) che si pone invece come paladino della continuità delle strutture sociali rurali dell’impero romano con quelle del medioevo, ed anzi le fa risalire al celti. Invero nell’età matura, smentendo alcune sue posizioni giovanili, il Bognetti riconobbe ai longobardi una funzione importante nel divenire delle comunità rurali. Il privilegio di Federico II è pubblicato da G. MANTESE, Memorie storiche della chiesa vicentina, vol. II , Vicenza 1954, documenti, VIII. 56

ASVi, S. Pietro, b. 2247, alla data. “Il vescovo Liudigerio in un solo anno (1061) per ben due volte confermò le precedenti elargizioni e ne aggiunse di nuove” : tratto da L. GALLIOTTO, Il monastero benedettino di S. Pietro in Vicenza dalle origini alla riforma del secolo XV, Tesi di laurea in Magistero, Università di Padova, relatore prof. P. Sambin, a.a. 1965-66, p. 13. La seconda di queste elargizioni, nella trascrizione allegata alla tesi appena richiamata, dice “…concessi ei plebem de Grumulo cum omnibus decimis ad eandem plebem pertinentibus, et nominative quartesium ipsius plebis cum omni districtu et servitio qui in sinodali lege et capitalis pretitulatur episcopo. Insuper villam que adiacet predicte plebis de Grumulo cum omni districtu et redditionibus et operibus, que per totum episcopium fiunt, et silvam que ad ipsam villam pertinet …” . Dunque la concessione fatta dal vescovo al monastero della pieve di Grumolo, che certamente si estendeva a Lerino, non comprendeva il districtus su tutto il territorio della pieve, altrimenti non avrebbe senso precisarlo subito dopo proprio per “villam que adiacet plebis”, cioè per Grumolo stesso. Villam, al singolare: dunque non le altre località soggette alla stessa pieve, come Lerino. Non per nulla già nel XIII secolo Grumolo è chiamato Grumulus Abbatissarum. 57

ASVi, S. Pietro, b. 2247, alla data. 58

ASVi, S. Pietro, b. 2256, alla data. 59

ASVi, S. Pietro, b. 2251, alla data. 60

La giurisdizione del monastero su Lerino era stata infatti contestata in giudizio da Carnarolo Carnaroli, figlio di Olderico Carnaroli, nel 1248 e nel 1266. Vedi ASVi, S. Pietro, b 2247e, alla data 1248, 1 dicembre, e b. 2247g, alla data 1266, 22 marzo. La famiglia Carnaroli, apertamente schierata dalla parte di Ezzelino, aveva ampi possedimenti in città e altrove. Dopo la morte di Ezzelino si vide riconosciuto parzialmente un grosso credito che aveva con lo stesso Ezzelino. Vedi Il “Regestum Possessionum Comunis Vincencie” del 1262, a cura di N. Carlotto e G. M. Varanini, Cittadella 2006, pp. XXI-XXII e 6. Sulla vicenda della giurisdizione di Lerino acquisita attraverso compravendite e sul diritto di nominare i decani della stessa località vedi la tesi di laurea L. GALLIOTTO, Il Monastero benedettino di S. Pietro, pp 47 e seg. 61

P. SELLA, La vicinia come elemento costitutivo del comune, Milano 1908, cap. 2. Su questo aspetto giuridico e su altri argomenti toccati dal presente studio è fondamentale G.P. BOGNETTI, Studi sulle origini del comune rurale, Milano 1978, compresa la prefazione allo stesso volume di F. Sinatti d’Amico e C. Violante. 62

A. CHECCHINI, Comuni rurali padovani, estratto dal Nuovo Archivio Veneto (Nuova Serie, vol. XVIII, parte I), Venezia 1909, p. 14. 63

ASVi, S. Pietro, b. 2247, alla data.