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“L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione, associazionismo e rapporti sociali” Roma, Dicembre 2003 FILEF - Via XX Settembre 49 Roma - Tel. 06 484994 Fax 06 4742956 email: [email protected]

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“L‟emigrazione campana all‟estero.

Occupazione, associazionismo e

rapporti sociali”

Roma, Dicembre 2003

FILEF - Via XX Settembre 49 – Roma - Tel. 06 484994 – Fax 06 4742956 – email: [email protected]

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Gruppo di ricerca

Adriana Bernadotti

Luca Bicocchi

Patrizia Bonanni

Franco Calvanese

Francesco Carchedi (direzione scientifica e coordinamento)

Renato D‟Andria

Miguel Angel Garcia

Stefania Pieri

Rodolfo Ricci

Giuseppe Petrucci

Viviana Marandola

Liliana Fernandez

Si ringraziano per la collaborazione:

PARSEC e FILEF Campania

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Indice Pag.

1. Introduzione di Francesco Carchedi 6

2. L‟emigrazione campana: tra destinazioni internazionali e spostamenti

interni. Oltre un secolo di partenze dalla regione di Dante Sabatino

9

2.1 Premessa 9

2.2 Fonti e definizioni delle emigrazioni 10

2.3 La prima fase dell‟emigrazione oltreoceano: dall‟unità d‟Italia alla prima

guerra mondiale. Il periodo 1876-1900

11

2.4 I flussi migratori nel periodo 1901-1915: il picco della «Grande

Emigrazione»

17

2.5 Il periodo tra i due conflitti bellici: 1916-1945 21

2.6 La ripresa dell‟emigrazione verso l‟Europa: 1946-1980 29

2.7 Le migrazioni interne: 1955-1999 31

Bibliografia 35

3. L‟emigrazione campana di Francesco Calvanese 37

3.1 Premessa 37

3.2 Alcuni riferimenti teorici 38

3.3 Le destinazioni e le modalità di sviluppo dell‟emigrazione campana negli anni

‟50 e „60

40

3.4 La percezione delle disparità economiche fra la regione e i paesi di emigrazione 40

3.4.1. Espansione dell‟economia europea e appello alla manodopera straniera 41

3.4.2. Debolezza dell‟economia meridionale e squilibri del mercato del lavoro 42

3.4.3. Le implicazioni derivanti dal mutamento sociale 43

3.5 Uno spazio di vita organizzato 43

3.5.1. Inserimento e ricostituzione della comunità campana nelle grandi città

dei paesi di emigrazione

43

3.5.2. Il sistema delle relazioni familiari con il paese di origine 44

3.5.3. La solidarietà all‟interno del gruppo familiare 45

3.5.4. La circolazione finanziaria vitale per l‟economia domestica 47

3.6 Uno spazio di relazioni vissute con difficoltà 47

3.7 L‟emigrazione negli anni ‟70 e „80 48

3.7.1. Premessa 48

3.7.2. Gli aspetti quantitativi del fenomeno migratorio 49

3.7.3 L‟identità culturale dei migranti e l‟associazionismo 50

3.7.4. L‟affermazione e lo sviluppo di un‟identità regionalista 54

3.8 L‟emigrazione di ritorno 55

3.9 Caratteristiche dell‟emigrazione campana negli anni più recenti. Prospettive 57

3.9.1. 2^ e 3^ generazione della nostra emigrazione in Europa 58

3.9.2. La situazione nei paesi di oltre Oceano 60

Bibliografia 63

4. Le Associazioni dei campani. Distribuzione continentale ed alcune

caratteristiche strutturali di Francesco Carchedi

66

4.1 I dati statistici sulle Associazioni 66

4.1.1 Le associazioni iscritte e quelle non iscritte 66

4.1.2 Le associazioni in Europa 69

4.1.3 Le associazioni in America del Nord e in America del Sud 74

4. 1.4. Le associazioni in Australia

4.2 Le associazioni campane all‟estero. L‟analisi dei questionari 84

4.2.1 Il questionario epistolare come scelta obbligata 88

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4.2.2 Le caratteristiche degli interpellati 90

4.2.3 I paesi di insediamento delle associazioni, le esperienze

associazionistiche dei fondatori, i profili sociali dei responsabili

91

4.2.4 L‟anno di fondazione, la struttura organizzativa e l‟ambito territoriale di

intervento

93

4.2.5 La mission e gli ambiti di intervento delle attività svolte dalle

associazioni

96

4.2.6 I volontari, le caratteristiche di base degli associati e l‟utenza di

riferimento

101

4.2.7 Gli aspetti logistici, economico-finanziari e relazionali 109

4.2.8 Punti di forza e punti di debolezza 112

4.3 Le associazioni attraverso il racconto dei protagonisti 115

4.3.1 L‟emigrazione dei fondatori. Il profilo lavorativo e socio-culturale 115

4.3.2 I fabbisogni associativi e la costruzione dell‟identità bipolare 124

4.3.3 Gli aspetti organizzativi ed economici 132

4.3.4 Le principali attività svolte. I soci beneficiari e l‟utenza di riferimento 137

5. L‟emigrazione italiana e campana in alcuni paesi transoceanici ed europei 145

5.1 Il caso dell‟Argentina di Miguel A. Garcia 145

5.1.1 Premessa 145

5.1.2 I precedenti storici 145

5.1.3 La “grande migrazione” 1870-1920 146

5.1.4 Il periodo intermedio 1920-1946 147

5.1.5 Il consolidamento e l‟integrazione della comunità d'origine italiana. Dal

dopo guerra agli anni Sessanta

148

5.1.6 Italiani, italo-argentini e mercato del lavoro 151

5.1.7 Gli italo-argentini e l'Italia 154

5.1.8 La Campania nell‟immigrazione italiana nell‟Argentina 156

5.1.9 L'associazionismo della comunità d'origine italiana nell'Argentina 157

5.1.10 La situazione presente 159

5.2 Il caso dell‟Uruguay di Miguel Angel García 162

5.2.1 Premessa 162

5.2.2 I precedenti storici 162

5.2.3 La “grande migrazione” e il secondo dopo guerra 164

5.2.4 La comunità d'origine italiana nel mercato del lavoro 166

5.2.5L'associazionismo della comunità d'origine italiana nell'Uruguay 167

5.2.6 La situazione presente 169

5.3 Il caso del Brasile di Miguel Angel García 171

5.3.1 Premessa 171

5.3.2 I precedenti storici 171

5.3.3 La “grande migrazione” 1870-1920 171

5.3.4 Il periodo intermedio 1920-1946 209

5.3.5 Consolidamento e integrazione della comunità d'origine italiana 211

5.3.6 Composizione regionale dell‟emigrazione italiana nel Brasile 212

5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel Brasile 213

5.3.8 Gli italiani, italo-brasiliani e mercato del lavoro 213

5.3.9 Gli italo-brasiliani e l‟Italia 216

5.3.10 L'associazionismo della comunità d'origine italiana nel Brasile 217

5.3.11 La situazione presente 219

5.4 Il caso della Svizzera di Stefania Pieri, Renato D‟Arca e Francesco Carchedi 222

5.4.1. La Svizzera da paese di emigrazione a paese di immigrazione 222

5.4.2. Profilo della presenza italiana e campana in Svizzera fino alle “politiche

di stop”

225

5.4.3. Gli anni Settanta e la diminuzione della consistenza numerica delle

comunità italiane e campane

232

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5.4.4. L‟integrazione selettiva nelle politiche migratorie 236

5.4.5. Le politiche di inserimento sociale ed economico 238

5.4.6. L‟organizzazione della Comunità Italiana in Svizzera 247

5.4.7. I problemi ancora aperti 252

5.5 Il caso della Germania di Rodolfo Ricci, Stefania Pieri e Francesco Carchedi 254

5.5.1 La Germania come polo attrattivo di mano d‟opera 254

5.5.2 Dal dopo guerra fino all‟Accordo italo-tedesco sulla manodopera 262

5.5.3 Il Mercato comune europeo e la libertà di circolazione 269

5.5.4 Gli anni Settanta e Ottanta 273

5.5.5. Gli anni Novanta e i primi anni del 2000 275

5.5.6 La rilevanza della emigrazione campana nell‟ambito del flusso

migratorio italiano

276

5.5.7 L‟inserimento sociale ed economico degli italiani 276

5.5.8 Il tessuto delle piccole e medie imprese (PMI) legate alla comunità

italiana

282

5.5.9 La realtà associativa 284

5.5.10 Osservazioni conclusive 285

Allegati

Allegato 1 Questionario semi-strutturato per associazioni

Allegato 2 Racconti di vita

Allegato 3 Schede di alcune associazioni di campani

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1. Introduzione di Francesco Carchedi

1.1 L‟area tematica di indagine

Il presente Rapporto sintetizza i risultati dell‟indagine svolta dalla Filef su:

“L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione, associazionismo e rapporti sociali”

con il contributo dell‟Assessorato al Lavoro, alle Politiche sociali e all‟Emigrazione. I

cittadini campani emigrati all‟estero, dunque, rappresentano il tema di indagine,

soprattutto dal punto di vista dell‟associazionismo e della loro capacità di auto-

organizzazione. Questa prospettiva ha tenuto in debito conto le diverse fasi emigratorie

e contestualmente le caratteristiche dei diversi paesi di insediamento, in quanto variabili

che determinano – ed influenzano – direttamente le modalità di stabilizzazione e quelle

di sviluppo dei processi di inserimento sociale ed economico.

Infatti, la scelta migratoria può comportare dei rischi, in quanto il “progetto” alla base

della scelta di emigrare per essere realizzato in maniera soddisfacente deve poter fruire

di condizioni favorevoli che non sempre derivano dai singoli migranti. Infatti, la

compresenza di fattori soggettivi (la volontà di espatriare, la capacità di adattamento,

l‟orientamento al successo, la capacità di creare legami sociali significativi, eccetera) e

di fattori oggettivi (la cultura dell‟accoglienza del paese di immigrazione, le normative

di riferimento relative allo status di straniero e di cittadino di altra nazionalità, le

dinamiche del mercato del lavoro e la capacità di accedervi adeguatamente, la

competenza linguistica pregressa o acquisibile e i legami di prossimità-solidarietà in

grado di attivare reti sociali strumentali all‟inserimento socio-economico, eccetera) e la

loro interazione funzionale e dinamica sono alla base della riuscita o meno del progetto

migratorio.

Questa doppia interazione da origine alla così detta “doppia appartenenza” degli

emigranti/immigrati (in quanto sono gli uni o gli altri a seconda del punto di vista del

paese interessato dai flussi in uscita o dai flussi in entrata), ossia a quella particolare

condizione che caratterizza i lavoratori migranti giacché rimangono generalmente

coinvolti nei sistemi valoriali che hanno lasciato emigrando e quelli che hanno

successivamente acquisito in emigrazione. Nonostante l‟interazione continua – e su

piani diversi – dei due “sistemi culturali”, le differenziazioni – costruite tra l‟altro dai

singoli emigranti e dalle relazioni che si determinano con la comunità originaria di

riferimento (sia nel paese di stabilizzazione che quello di origine) e con la comunità

autoctona –, restano nel tempo, conferendo, appunto, ai diretti interessati, una doppia

appartenenza identitaria.

In tale processo le associazioni campane giocano una funzione importante in quanto

organizzazione di mediazione politico-sociale e culturale tra le istituzioni del paese di

insediamento e quelle del paese di origine, nonché tra la comunità originaria di

riferimento e quella autoctona nella quale avviene e matura la stabilizzazione

migratoria. Le associazioni, pertanto, determinano, da un lato, un processo di sviluppo

umano e sociale e, dall‟altro, un processo politico e culturale allorquando si aprono alla

società ospitante, ne influenzano le decisioni che riguardano non solo quelle degli

emigranti, ma anche quelle che riguardano i meccanismi di democratizzazione della

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società nel suo complesso. Le associazioni, di converso, se non si muovono su direttrici

di apertura, di disponibilità e all‟interazione con la società di accoglienza, rischiano di

divenire delle enclave chiuse, che tendono ad arroccarsi su se stesse e a restare

sostanzialmente indisponibili alle relazioni esterne. In tal maniera si perpetua una

cultura di chiusura, una cultura fortemente tradizionale che tende a nutrirsi di nostalgia e

a ripiegarsi su se stessa.

1.2 Obiettivo generale e sub-obiettivi specifici

L'obiettivo di fondo perseguito dall‟indagine è stato quello di esplorare alcuni aspetti

del mondo dell‟emigrazione campana all‟estero e i suoi aspetti più salienti di carattere

quantitativo e qualitativo. L‟intenzione è stata dunque quella di arrivare ad una quadro

di riferimento aggiornato nelle sue caratteristiche strutturali. Considerando, al riguardo,

le diverse fasi che essa ha attraversato, soprattutto a partire dagli ultimi decenni, e delle

trasformazioni che le hanno di volta in volta interessate.

La prospettiva, come accennato, è stata quella di comprendere come cambia per gli

emigranti il rapporto con il lavoro, con la società di insediamento, con le forme

dell‟associazionismo e il ruolo di mediazione politico-sociale che esso svolge nel

contesto di immigrazione e in quello di emigrazione. Inoltre, si è inteso comprendere, in

che misura la dimensione migrante – soprattutto per i così detti “nuovi emigranti” – è

anche sintomo di vulnerabilità economico-esistenziale, specialmente nella prospettiva

del rientro e di un adeguato re-inserimento in Campania.

Al fine di raggiungere al meglio l'obiettivo generale si è proceduto analizzando i

seguenti sub-obiettivi:

a. raccolta ed analisi critica della letteratura più recente concernente l‟emigrazione

campana all‟estero, in particolare quella espatriata a partire dal dopoguerra fino ad

oggi. Si è trattato, in pratica, di delineare le direttrici di fondo con il quale si è

caratterizzata l‟emigrazione campana, al fine di coglierne le sue peculiarità e

differenze nel panorama generale dell‟emigrazione meridionale e di quello

nazionale;

b. analisi dei diversi cicli migratori (corrispondenti a diverse età) evidenziando le

caratteristiche strutturali di ciascun ciclo e di ciascuna età dell‟emigrazione campana

all‟estero: ossia i segmenti di popolazione interessata, la morfologia di base di

ciascuno, le motivazioni alla partenza e le modalità di insediamento, la collocazione

lavorativa e le sue caratteristiche, l‟associazionismo comunitario, i programmi dl

rientro e le aspettative di re-inserimento in patria e nell‟area di esodo;

c. ricognizione ed analisi delle organizzazioni associative dei migranti campani

operanti in alcuni principali paesi di emigrazione (sia extraeuropei che europei) sulla

base degli indirizzari regionali (in particolare il “Registro regionale delle

associazioni”, previsto dalla legge regionale n. 2/96). Si è trattato di effettuare una

mappatura ragionata su alcuni aspetti della vita associativa dei migranti campani

sotto il profilo delle attività che svolgono, il numero e le caratteristiche di base degli

associati, il tasso di partecipazione e le modalità di partecipazione, l'impegno

politico-sociale nel paese di insediamento e verso il paese di provenienza (sia a

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livello locale che regionale). Lo scopo è stato quello di comprendere la rete

associativa dei migranti campani e la loro influenza nelle collettività locali di

riferimento;

1.3 Criteri metodologici

I criteri metodologici utilizzati per la realizzazione dell‟intero processo di ricerca sono

state calibrate a seconda dei sub-obiettivi perseguiti. Infatti, in riferimento alla

realizzazione del quadro statistico-documentario è stata vagliata la principale letteratura

prodotta sulla questione. Questa analisi ha permesso di ricostruire – dal punto di vista

socio-demografico – gli aspetti quantitativi del fenomeno emigratorio in generale e

quello campano in particolare. All‟analisi quantitativa a seguito quella qualitativa allo

scopo offrire uno spaccato sociologico delle dinamiche comunitarie che interessano i

cittadini campani all‟estero. Questa parte della ricerca – oltre a delineare – il processo

migratorio nel suo insieme, ha posto l‟attenzione anche a cinque paesi esteri dove

l‟emigrazione campana ha assunto storicamente una sua sp‟ecifica significatività. Si

tratta di alcuni paesi Latino-americani, come l‟Argentina, l‟Uruguay e il Brasile

meridionale, della Svizzera, della germania e dell‟Australia.

Per l‟analisi dell‟associazionismo si sono utilizzati criteri metodologici diversi: da un

lato, si è fatto riferimento ai dati e alle informazioni in possesso dell‟Assessorato al

lavoro e all‟emigrazione, in particolare quelli relativi al “Registro delle associazioni".

Questi dati sono stati dapprima selezionati e successivamente elaborati al fine di

“fotografare” lo stato dell‟arte dell‟associazionismo campano da un punto di vista

meramente statistico. Dall‟altro, si è fatto riferimento a dati ed informazioni acquisite

mediante l‟invio di un questionario semi-strutturato mediante posta ed Email (su 150

invii si sono registrati circa 40 rientri). Questi dati ed informazioni hanno permesso una

ulteriore analisi delle associazioni, soprattutto sotto il profilo dell‟organizzazione

interna, delle utenze e degli associati di riferimento, delle attività specifiche svolte.

Infine, si è fatto riferimento a circa 20 “racconti di vita” registrati durante un soggiorno

(di un ricercatore Filef) in Argentina, Uruguy e Brasile meridionale e a colloqui avuti in

più riprese con due gruppi di giovani campani a Rosario (Argentina) e a San Paolo

(Brasile).

L‟insieme dei materiali raccolti è stato successivamente sistematizzato in modo da

comporre il presente Rapporto di ricerca finale.

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2. L‟emigrazione campana: tra destinazioni internazionali e

spostamenti interni. Oltre un secolo di partenze dalla regione di Dante Sabatino

2.1.1 Premessa

La Campania come le altre regioni del Sud ha conosciuto due grandi esperienze

migratorie verso l‟estero, la cosiddetta “Grande Emigrazione” a cavallo tra la fine del

secolo XIX e il primo ventennio del XX, con una battuta d‟arresto nel ritmo di deflusso

migratorio rappresentata alla prima guerra mondiale; e l‟emigrazione “fordista” del

secondo dopoguerra stimolata dalla domanda di manodopera industriale dei paesi del

Nord-Europa.

Per avere un‟idea delle profonde trasformazioni che le emigrazioni hanno prodotto nella

storia sociale ed economica del Paese è forse sufficiente ricordare come l‟esodo di

massa prodotto dalla “Grande Emigrazione” costituisca “un elemento di discontinuità

ben più marcato anche a confronto con le pur straordinarie (ma in qualche misura più

graduali) trasformazioni del regime demografico naturale che, proprio nello stesso

periodo, andavano producendosi. La novità di questo fenomeno appare ancor più

evidente se riferita alle popolazioni del Mezzogiorno che …mostrano in epoca

preunitaria una propensione assai scarsa alla mobilità, se si prescinde dai tradizionali

spostamenti temporanei legati alle esigenze dei lavori agricoli e dell‟allevamento del

bestiame, e dall‟attrazione invero notevole esercitata dalla capitale del Regno (Napoli)”

(Del Panta, 1996: 196).

Tuttavia nonostante la rilevanza del fenomeno, in primo luogo per le regioni meridionali

ma più in generale per l‟Italia, si registra una prolungata assenza dell‟azione pubblica

che dovrebbe promuovere e tutelare i cittadini decisi ad espatriare1. La stessa statistica

ufficiale italiana, d‟altra parte, risente delle divisioni che caratterizzano i ceti dirigenti

italiani dell‟epoca, i quali di fronte al carattere massivo che va assumendo

l‟emigrazione, si dividono nei due fronti contrapposti dei fautori e degli oppositori dei

flussi migratori (Bevilacqua, De Clementi, Franzina, 2001). Ciò fa sì che essa

documenti i movimenti migratori con l‟estero fornendo“dati ricavati da fonti diverse ed

eterogenei, anche rispetto alla definizione di emigrante” (Federici, 1985: 568).

In ogni caso, nei circa 130 anni che intercorrono dall‟inizio delle registrazioni delle

migrazioni verso l‟estero (1876) ad oggi il termine migrazione ha subito numerosi

cambiamenti nei suoi aspetti caratterizzanti (AA.VV, 1978: 5). Di conseguenza non

solo le migrazioni ma le stesse fonti di rilevazioni e la stessa definizione di emigrante

hanno attraversato varie fasi in relazione ai periodi storici che ne hanno marcato la

dinamica.

1 L‟assenza delle istituzioni nell‟opera di assistenza costituisce una sorta di filo rosso dei processi

emigratori nazionali. Allorquando nel secondo dopoguerra inizierà un nuovo grande esodo dal Meridione

verso i paesi dell‟Europa del Nord Manlio Rossi-Doria osserverà: “Quando si scriverà la storia di questi

ultimi anni, molto duro dovrà essere il giudizio sull‟assenza di ogni seria azione pubblica a questo

riguardo. In tempi di cosiddetta «sicurezza sociale» abbiamo, infatti, lasciato che questo imponente

trasferimento di uomini dai luoghi di origine ai nuovi luoghi di lavoro, dalle tradizionali attività agricole

alle nuove attività extragricole, all‟interno e all‟esterno, avvenisse di fatto senza alcuna difesa

organizzata” (Rossi-Doria, 1982: 14).

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Prima di passare ad analizzare le dimensioni del fenomeno nelle diverse fasi è

necessario allora passare brevemente in rassegna le fonti e le definizioni che si sono

succedute lungo tutto l‟arco della vicenda migratoria nazionale.

2.1.2 Fonti e definizioni delle emigrazioni

Per quanto riguarda la definizione, le autorità statistiche hanno considerato emigranti dal

1876 e fino al 1913 coloro che, in genere, espatriavano in condizioni disagiate.

L‟accento era posto dunque sulle condizioni del viaggio, ed emigrante era colui o colei2

che affrontava una traversata oltreoceanica viaggiando in terza classe, o in una classe

“che il Commissario dell‟Emigrazione dichiari equivalente alla terza attuale” come

recitava l‟art. 6 della legge del 31 gennaio 1901, n. 23 (cit. in Marucco, 2001: 68). Dal

1914 al 1927 il concetto di emigrante subisce una nuova formulazione a seguito sia

della emanazione di una nuova legge sulla tutela giuridica di colui che emigra3, che

della successiva promulgazione nel 1919 del Testo Unico dell‟emigrazione4. In

entrambi i casi viene chiarito che possono essere considerati emigranti soltanto i

lavoratori manuali e coloro che raggiungono congiunti già emigrati, mentre, in

particolare con il Testo Unico, cade la prescrizione della terza classe per i viaggi

transoceanici (Marucco, 2001).

Dal 1928 al 1946 sono considerati emigranti i lavoratori manuali e intellettuali e coloro

che partono per ricongiungersi con familiari già emigrati, mentre dopo il 1947 e fino ai

nostri giorni gli emigranti sono”gli espatriati che si recano all‟estero per lo svolgimento

di una professione, un‟arte o un mestiere in proprio o alle dipendenze altrui o per

riunirsi a familiari residenti o in precedenza trasferitisi all‟estero, o per fissarvi la

propria residenza per altri motivi” (Federici, 1984).

Anche le fonti utilizzate per la raccolta dei dati sulle migrazioni sono state modificate

più volte. Fino al 1925 i dati vengono rilevati sulla base dei passaporti rilasciati a coloro

che avevano manifestato l‟intenzione di emigrare5. Dal 1926 al 1946 la fonte cambia a

seconda che il paese di destinazione sia europeo o extra-europeo. Per le destinazioni

continentali (paesi europei o del bacino del Mediterraneo) la registrazione viene

effettuata sulla base delle cedole ritirate ai posti di frontiera terrestre ed aerea, mentre

per le destinazioni transoceaniche si attinge alle liste nominative di bordo delle navi,

integrate dalla cedole. Dal 1947 al 1952, la rilevazione dei movimenti con l‟estero viene

effettuata“per i paesi transoceanici in base alle liste di bordo e in base alle cedole per il

2 Alcuni studiosi hanno recentemente documentato come sul finire dell‟Ottocento non sono soltanto

uomini soli ad emigrare ma ad esempio nel caso dell‟emigrazione marchigiana intere famiglie e persino

donne sole. D‟altra parte “Lo stesso fenomeno è avvertibile nel versante veneto e friulano, nonché in

quello piemontese, dove alla tradizionale emigrazione di balie e di serve, per altro comune anche all‟Italia

centrale, si aggiunge quella delle lavoratrici non qualificate in fabbriche italiane e straniere” (Sanfilippo,

2001: 82). 3 La legge n. 1075 del 2 agosto 1913

4 Il Testo Unico n. 2205 data 13 novembre 1913.

5 “Fin dall‟inizio – sottolinea Marucco – i dati sono tratti principalmente dai registri dei nulla osta dei

sindaci al rilascio dei passaporti e dalla pubblica notorietà degli espatri…Dopo il 1904 quando ad

occuparsi di tutti i problemi inerenti l‟emigrazione c‟è il Commissariato generale istituito nel 1901, la

Direzione della statistica trae i dati per i suoi lavori non più dai registri municipali dei nulla osta, bensì dai

registri dei passaporti concessi, tenuti dagli uffici di Pubblica Sicurezza nei diversi circondari” (Marucco,

2001: 69).

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movimento via aerea; dal 1950 al 1957 per i paesi continentali, in base alle nuove

cedole statistiche inserite nei passaporti e staccate dalla polizia di frontiera” (Federici,

1984: 484). Nei decenni successivi i flussi vengono registrati utilizzando criteri più

articolati, più volte sottoposti a revisioni al fine di arricchirli ed integrarli.

Nonostante la diversità e la eterogeneità delle definizioni e delle fonti che rendono

tutt‟altro che agevoli i confronti intertemporali, le statistiche ufficiali sulle migrazioni

possono comunque fornire un‟indicazione di massima “circa la consistenza della

corrente emigratoria italiana nel corso del tempo e le modificazioni intervenute nella sua

distribuzione secondo le varie destinazioni” (Federici, 1984: 568).

Come è stato evidenziato (AA.VV., 1978; Federici, 1984; Bevilacqua, De Clementi,

Franzina 2002), il flusso di espatri dal Paese ha attraversato diverse fasi in relazione ad

eventi interni ed internazionali, interessando in un primo tempo (all‟incirca fino al

1900) soprattutto le regioni settentrionali e successivamente (in particolare dall‟inizio

del secolo scorso e fino al 1913) quelle meridionali. La Campania tuttavia è l‟unica

regione del Mezzogiorno che – in base alle statistiche sugli espatri istituite nel 1876 –

evidenzia fin dalla prima fase delle correnti emigratorie nazionali flussi di una certa

consistenza, paragonabili per entità a quelli delle regioni settentrionali.

2.3 La prima fase dell‟emigrazione oltreoceano: dall‟unità d‟Italia alla prima

guerra mondiale. Il periodo 1876-1900

L‟emigrazione post-unitaria

Nei circa 25 anni che chiudono l‟ottocento, le partenze dal regno d‟Italia assommano a

oltre 5 milioni (5.159 mila), per il 50% circa dirette verso i paesi dell‟Europa, e per

l‟altra metà verso destinazioni oltreoceaniche: il 35,5% verso i paesi del Sud America e

il restante 12,2% verso i paesi del Nord America. In questa fase le migrazioni hanno un

carattere spontaneo e sono prevalentemente individuali (Federici 1984), ed interessano

soprattutto le regioni del Nord. A far registrare il maggior numero di espatri, in

particolare, sono tre sole regioni (Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte) che nel

loro insieme totalizzano quasi la metà (il 48,6%) delle partenze settentrionali.

La Campania è l‟unica regione del Mezzogiorno ad evidenziare già prima dell‟inizio del

Novecento significative quote di partenze – dopo di allora e fino allo scoppio della

prima guerra mondiale il Nord perderà il primato di principale esportatore di uomini a

favore del Mezzogiorno (anche se alcune regioni settentrionali continueranno comunque

ad evidenziare alte medie migratorie) (Sanfilippo, 2001). Dal 1876 al 1900, infatti, la

Campania fa registrare oltre mezzo milione di partenze (520,8 mila) (Graf. 1.1 e Tab.

1.1), con un‟incidenza sul totale degli espatri dal Mezzogiorno pari al 34,3%. E‟ una

cifra ragguardevole, che la colloca dietro il Veneto (940.7 mila) il Friuli-Venezia Giulia

(847,1 mila) e il Piemonte (719,1 mila) nella graduatoria delle regioni a più alto livello

di espatri6.

6 La tesi dell‟emigrazione meridionale come „emigrazione tardiva‟ raccoglie un ampio consenso tra gli

studiosi. Tuttavia alcuni storici hanno di recente messo in discussione tale tesi evidenziando come già

prima del Novecento la presenza di emigrati campani, abruzzesi e lucani fosse consistente negli Stati

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12

Tab. 1.1 – Espatriati in totale, quozienti emigratori medi annui (per 1000 abitanti) e peso

percentuale degli espatriati della Campania e del Mezzogiorno sul totale, 1876-1988

Anni Campania Mezzogiorno

v.a.

(in migliaia)

‰ ab.

%(a) v.a.

(in migliaia)

‰ ab.

%(b)

1876-1880 29,6 2,3 42,4 70,0 1,3 12,8

1881-1890 162,9 6,1 32,3 504,2 4,5 26,8

1891-1900 328,3 11,7 34,8 944,2 7,9 33,3 1876-1900 520,8 7,7 34,3 1518,4 5,3 28,9

1901-1910 699,9 23,9 24,9 2816,3 22,2 46,7

1911-1915 255,3 16,7 22,3 1143,2 17,4 41,7

1901-1915 955,2 21,3 24,1 3959,5 20,5 45,2 1876-1915 1476,0 13,0 26,9 5477,9 11,5 39,1

1916-1920 130,4 8,2 23,8 547,0 8,1 50,4

1921-1930 156,4 4,7 19,1 797,45 5,8 32,0 1931-1940 32,7 0,9 13,2 183,52 1,6 35,3

1921-1940 189,0 2,7 17,7 981,0 3,6 32,8

1941-1945 0,1 0,0 10,4 0,9 0,0 5,2 1946-1950 82,6 3,9 18,8 439,7 5,2 39,0

1951-1960 345,8 7,7 21,0 1650,7 9,3 56,2

1961-1970 414,1 8,6 22,7 1826,9 10,1 69,0

1971-1980 130,7 2,5 19,5 671,2 3,5 62,0 1946-1980 973,2 5,9 21,2 4588,5 7,2 58,9

1981-1988 62,3 1,4 20,2 307,7 1,9 55,9

(a) Sul totale Mezzogiorno; (b)

Sul totale Italia.

Fonte: Ns elaborazioni su dati ISTAT.

Analizzando i quozienti migratori che permettono di apprezzare meglio le variazioni del

fenomeno in relazione alla popolazione presente si osserva come, nell‟arco temporale in

parola, la regione evidenzi un quoziente migratorio con l‟estero che sale dal 2,3‰ in

media all‟anno nel quinquennio 1876-1880, all‟11,7‰ in media all‟anno nel decennio

Uniti, pari a circa 24 mila, in grado di reggere il confronto con “gli 11 000 piemontesi e i 9000 lombardi

approdati in Argentina. Senza contare che, mentre gli arrivi settentrionali negli Usa superarono appena le

2000 unità, circa 30 000 meridionali defluirono nel sub continente americano” (De Clementi 2001: 200).

Graf.1.1 - Campania: espatri, rimpatri e saldo migratorio,

1876-1915

-80

-60

-40

-20

0

20

40

60

80

100

18761879

18821885

18881891

18941897

19001903

19061909

19121915

(in migliaia)

Saldo Espatri Rimpatri

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13

1891-19007 un valore quest‟ultimo non molto distante dal 12,9‰ fatto registrare nel suo

insieme dal Centro-Nord-Est, l‟area a più forte intensità emigratoria in questo periodo.

Se si considerano comparativamente i quozienti emigratori della Campania e del

Mezzogiorno (Graf. 1.2) è possibile osservare come la regione mostri cicli di espansione

e di contenimento dei relativi flussi in uscita più accentuati rispetto a quelli

ripartizionali – almeno fino ai primi anni del novecento – mentre in seguito, sia nella

cosiddetta fase dell‟esodo di massa – che durerà fino allo scoppio della prima guerra

mondiale – che nelle fasi successive, i quozienti emigratori campani si manterranno

stabilmente al di sotto della media meridionale. Dunque, il volume e il ritmo di accrescimento dei flussi in uscita dalla regione per l‟estero fanno della Campania

l‟iniziatrice e la principale protagonista della grande emigrazione che, nel primo

decennio del „900 e fino alla vigilia della prima guerra mondiale, consentirà al

Mezzogiorno di raggiungere la posizioni di testa nelle correnti emigratorie che

lasceranno la penisola, rendendo evidente – nei diversi ritmi di crescita del fenomeno –

la manifestazione di una «questione meridionale» e l‟esplicitazione di una frattura

economico-sociale del paese in due o più «Italie» (Sori, 1979).

A costituire le mete continentali privilegiate delle partenze dalla Campania in questo

periodo, sono in particolare la Francia e la Svizzera – soprattutto in occasione

dell‟apertura dei cantieri per la realizzazione dei grandi trafori alpini a cavallo tra

Ottocento e Novecento (Meyer Sabino, 2002) –, mentre nel caso delle mete d‟oltre

oceano ad orientare il grosso dei flussi sono in prevalenza il Brasile e gli Stati Uniti –

che nell‟ultimo quarto del secolo XIX accolsero circa 800 mila italiani (De Clementi,

2001; Vecoli, 2002) – ma anche stati più piccoli come la Colombia, dove si diressero

numerosi emigranti provenienti dalla provincia di Salerno (Cappelli, 2002).

Tuttavia, a fronte del sostenuto flusso di espatri dalla regione altrettanto intenso è il

flusso dei rimpatri (non documentato ufficialmente se non a partire dal 1905), proprio a

causa delle caratteristiche (non solo meridionali) della grande emigrazione dell‟ultimo

terzo del secolo, caratterizzata – come ha evidenziato la ricerca storica, demografica e

7 Va precisato che in termini relativi, sia in questa prima fase della vicenda emigratoria nazionale che

nelle successive, è la Basilicata a far registrare i valori più alti del quoziente emigratorio nell‟ambito delle

regioni meridionali (AA.VV. 1978; Birindelli 1989).

Graf. 1.2 -Tassi emigratori con l'estero della Campania e del Mezzogiorno,1876-

1915

0

5

10

15

20

25

30

35

1876 1879 1882 1885 1888 1891 1894 1897 1900 1903 1906 1909 1912 1915

‰ ab.

Campania

Mezzogiorno

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14

sociologica – da rinnovate partenze e altrettanto ripetuti ritorni8. Ciò ha delle ovvie

conseguenze sulla quantificazione delle perdite effettive cui gli espatri danno luogo.

Poiché infatti molti attraversano le frontiere o l‟oceano più di una volta, le cifre ufficiali

vanno considerate semplici registrazioni dei transiti e dunque opportunamente

ridimensionate, e la perdita migratoria effettiva cui dà luogo questo movimento da e per

l‟estero è necessariamente di gran lunga inferiore rispetto all‟entità delle fuoriuscite. Per

avere dunque una valutazione di massima dell‟incidenza della componente migratoria

sulla dinamica della popolazione campana è allora necessario ricorrere all‟analisi del

bilancio demografico intercensuale, che consente di stimare il saldo migratorio come

differenza tra il saldo totale e il saldo naturale (Birindelli, 1989).

Nell‟intervallo tra il censimento del 1871 e quello del 1901 la Campania fa registrare un

saldo migratorio negativo di oltre 300 mila unità (-312,4 mila), cifra ben al di sotto

dunque dei circa 500 mila espatri denunciati dalle statistiche ufficiali (Tab. 1.2). Tale

valore corrisponde a circa il 10% della popolazione al 10 febbraio 1901 (data del

censimento che inaugura il nuovo secolo), e pur ridimensionando il flusso delle partenze

va comunque considerato una stima per eccesso della perdita migratoria della Campania

perché, tra l‟ altro, comprensiva anche della quota di migrazioni interne interregionali a

carattere definitivo, le quali sia pur meno intense del movimento migratorio

intraregionale sono tutt‟altro che trascurabili. Infatti, pur scontandosi una minore

attitudine alla mobilità interna a carattere definitivo delle regioni meridionali rispetto a

quelle centro-settentrionali, è stato stimato che, prima dell‟inizio del grande esodo verso

l‟estero, la proporzione di coloro che risiedevano stabilmente in comuni diversi da

quello di nascita si attestava nel Mezzogiorno continentale e nelle isole sotto il 10%

mentre al Centro-Nord essa oscillava tra il 20 e il 30% (Del Panta, 1996)9.

Per quanto riguarda l‟entità relativa delle perdite, va sottolineato come la regione

evidenzi un decremento della bilancia migratoria pari al – 3,5‰ in media all‟anno,

superiore a quello medio ripartizionale (pari al – 2,9‰), a fronte di un incremento

naturale leggermente inferiore (pari all‟8,1‰) rispetto a quello del Sud, che nel suo

insieme mostra un ritmo di accrescimento naturale medio annuo pari al +9,6‰.

8 Sori (1979) a questo proposito parla di un‟emigrazione temporanea ripetuta. Studi successivi hanno

confermato questa tesi documentando ad esempio come in questo periodo “…la forza-lavoro eccedente

della pianura padana emigra temporaneamente verso la Francia e il Belgio, oppure, ma è più raro, verso la

Svizzera e la Germania, per realizzare nel più breve tempo possibile il capitale necessario per acquistare

terra nei luoghi d‟origine” (Sanfilippo, 2001: 88). 9 In generale, gli indici di mobilità interregionale (dati dal rapporto tra le persone residenti in regioni

diverse da quelle di nascita e la popolazione) conosceranno una forte crescita soprattutto nei primi

trent‟anni del nuovo secolo. Come rileva la Federici: “relativamente ancor più notevole è l‟incremento

registrato dalle migrazioni interregionali: infatti, la proporzione di censiti presenti in una regione diversa

da quella di nascita appare poco meno che raddoppiata dal 1901 al 1931, risultando nei quattro

censimenti; 4,0%; 4,8%; 7,3% (nel 1936 gli spogli relativi a questo carattere non furono eseguiti).

Nonostante lo scarso significato dei valori numerici, perturbati da varie circostanze e principalmente dalla

non coincidenza della data di censimento, la tendenza all‟incremento appare indiscutibile” (Federici,

1984: 505); le regioni del Sud, in particolare, faranno registrare alti valori dell‟indice a partire dal

secondo dopoguerra (Golini 1974). In ogni caso, alla tabella 2 pubblicata in appendice al suo lavoro sulle

migrazioni interne nell‟Italia fascista, la Treves indica per la Campania nel 1901 un rapporto tra emigrati

non più residenti nella regione di nascita per ogni 100 censiti nella regione pari al 3,6%. Cfr. Treves

(1976: 169).

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Tab. 1.2 Popolazione presente e variazione intercensuaria della popolazione presente della

Campania e del Mezzogiorno. Censimenti 1871 e 1901

Popolazione presente* Variazione

1871 1901 Totale Naturale Migratoria

Valori assoluti (in migliaia)

Campania 2755,0 3160,0 405,0 717,4 -312,4

Mezzogiorno 10396,0 12745,0 2349,0 3345,0 -996,0

% composizione Quozienti medi annui per 1000 ab.

Campania 26,5(a) 24,8(a) 4,6 8,1 -3,5

Mezzogiorno 38,8(b) 39,2(b) 6,8 9,6 -2,9

* Confini dell'epoca; (a) Sul totale Mezzogiorno; (b) Sul totale Italia.

Fonte: dati ISTAT.

Sulla scorta della nota tesi, secondo cui i movimenti migratori interni sono inversamente

correlati a quelli di espatrio (Sori, 1979), la dinamica della popolazione campana ha

suggerito ad alcuni studiosi l‟ipotesi della complementarietà dei movimenti migratori

interni ed esteri10

: “In alcune province delle Marche, degli Abruzzi, della Campania –

sottolinea a questo proposito Del Panta – …ad una forte e perdurante emigrazione

temporanea verso l‟interno si è accoppiata, a partire dagli ultimi decenni dell‟Ottocento,

un‟ugualmente intensa emigrazione verso l‟estero” (Del Panta, 1996: 196). Tale

complementarietà avrebbe configurato una strategia di sopravvivenza che, volta a

fronteggiare l‟incombente crisi agraria, si sarebbe basata dapprima su spostamenti

interni, e poi, laddove questi mostravano i propri limiti, si sarebbe orientata verso

l‟esterno, con il riscorso all‟espatrio (De Clementi, 1990)11

.

Le differenze intraregionali

La geografia dell‟emigrazione campana in questa fase lungi dall‟essere omogenea ha

interessato in maniera fortemente differenziata le singole province. A questo livello

analitico è possibile osservare, infatti, grandi differenze d‟intensità negli espatri tra una

provincia e l‟altra, corrispondenti “alle grandi differenze fra le province stesse per

colture, contratti agrarii, ceti di popolazione, altimetria, ecc.” (Livi Bacci, 1980). Sono

soprattutto le aree interne del napoletano e le zone povere e meno fertili del salernitano,

del beneventano, dell‟avellinese e del casertano12

ad alimentare quel pendolarismo

10

Ipotesi, per altro, fondata sulle analisi che illustri esponenti della sinistra storica come Francesco

Saverio Nitti avevano fatto del fenomeno emigratorio. Scrive infatti Nitti ne L‟emigrazione italiana e i

suoi avversari: “Nell‟alta Italia l‟emigrazione a tempo indefinito per paesi non europei si è aumentata

annualmente, in ragione diretta della diminuzione dell‟emigrazione temporanea per altre parti d‟Europa,

mentre nell‟Italia meridionale la emigrazione temporanea e la emigrazione permanente si sono sviluppate

insieme” (Nitti, 1980: 110). 11

Secondo questa interpretazione lo sviluppo demografico della seconda metà dell‟Ottocento non avrebbe

alterato completamente gli equilibri precedenti, e la maggior pressione demografica sul mercato del

lavoro locale avrebbe trovato una valvola di sfogo in processi di redistribuzione della popolazione

conseguenti alla mobilità intraregionale e interregionale a carattere prevalentemente stagionale. Come

ricorda la De Clementi: “Ad eccezione della provincia di Napoli, la regione era dunque percorsa da una

fitta trama di correnti migratorie stagionali che muovevano da una provincia all‟altra e da queste alle

regioni circonvicine. Abruzzo, Puglia, Basilicata e Calabria formavano, assieme alla Campania, un unico

vasto mercato del lavoro salariato agricolo, caratterizzato da una notevole mobilità e dall‟interazione si

sofisticate strategie di sopravvivenza” (De Clementi, 1990: 387-388). 12

Come nel caso di Boiano Matese i cui immigrati si diressero in prevalenza in Argentina.

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transnazionale e transoceanico che caratterizza la regione, mentre invece la città di

Napoli, ex capitale del Regno delle Due Sicilie, pur trovandosi di fronte al problema di

riorientare le sue attività e la sua economia in funzione di un nuovo ruolo su scala

nazionale, non risulta quasi per nulla toccata dal fenomeno13

. In ogni caso, gli intensi

movimenti migratori interni ed esterni provocano vistosi fenomeni di spopolamento

delle zone interna della regione: “Le zone più spopolate coincisero con una fascia

appenninica relativamente omogenea e compatta, che abbracciava il versante sud-

orientale e sud-occidentale del Matese e le zone montagnose del Sabato, del Sele, e del

Calore. Confluivano qui lembi dell‟Irpinia, del Sannio, del Casertano e del Salernitano.

Essa corrispondeva a un epicentro del malessere agrario del Mezzogiorno continentale.

Vi si combinavano la desolazione della montagna desertificata dal disboscamento, la

coltura estensiva, la proprietà polverizzata e dispersa, la precarietà” (De Clementi, 1990:

384).

A guidare la graduatoria delle province con la maggior perdita emigratoria c‟è Salerno

con un‟incidenza di espatri in rapporto alla popolazione pari al 37,8‰, seguita da

Avellino, 27,4‰, e Benevento, 24,6‰ (Tab. 1.3). Caserta in questa fase mostra un

quoziente emigratorio intermedio tra quello di Salerno e Avellino e quello di Napoli,

mentre conoscerà un‟impennata delle partenze nella fase migratoria successiva, tra il

1902 e il 1913, che la porterà a più che raddoppiare il suo quoziente emigratorio,

facendole superare la stessa Salerno.

Tab. 1.3 – Espatri medi annui (per 1000 abitanti) nelle province campane, 1876-1913

1876-1901 1902-1913

Avellino 27,4 41,6

Benevento 24.6 37.0

Caserta 15.9 34.0

Napoli 8.8 9.6

Salerno 37.8 31.5 Fonte: Sori, 1989.

Per quanto riguarda il profilo professionale degli espatriati, furono i piccoli proprietari

coltivatori ad iniziare la corrente, poiché – come osserva Livi Bacci – “La proprietà non

trattiene quando, più che benessere, dà sofferenza e fame”(Livi Bacci, 1979: 239).

Accanto ad essi, emigrano anche gruppi d‟artigiani provenienti quasi esclusivamente da

paesi marini. Anzi, secondo gli osservatori del tempo l‟emigrazione “è praticata in gran

parte dal mondo marittimo e da «carpentieri, marinai, contadini, merciai ambulanti,

13

Già Nitti osserva come le grandi città italiane hanno tutte un‟emigrazione assai esigua, e a proposito di

Napoli sottolinea come “questa grande città, che è la più popolosa d‟Italia, e che tende annualmente a

rendersi sempre più tale,…..ha un‟emigrazione inferiore a quella di ogni grossa borgata di Basilicata, del

Molise e delle Calabrie”. La ragione di ciò - secondo Nitti - andava ricondotta al fatto che “nelle grandi

città il numero di quelli che non posseggono assolutamente nulla, è assai maggiore che nelle campagne.

Ogni operaio disoccupato, per quanto sia stato economo, non ha mai raggranellato quanto possa bastare

per un viaggio fuori d‟Europa”. Inoltre “nelle grandi città….quando anche gli scioperi mettano molti

operai nella trista condizione di mendicar lavoro, è sempre assai difficile ch‟essi non riescano ad

occuparsi, magari in qualche altro mestiere. E poi gli operai delle città, se bene pagati, meglio assai di

quelli delle campagne, quand‟anche potessero farlo, non economizzano mai o quasi mai ciò che loro

supera, nel tempo in cui i salari sono elevati” (Nitti, 1980: 109).

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17

artigiani, calzolai, barbieri, sarti, ecc.», tant‟è vero che essa «non arreca alcun danno

alla nostra agricoltura» (Berrino, 1990: 399-400).

1.4 I flussi migratori nel periodo 1901-1915:

il picco della «Grande Emigrazione»

L‟inizio del nuovo secolo

I primi quindici anni del Novecento fanno registrare il massimo di espatri sia a livello

nazionale che nel Sud e in Campania. Questo periodo, che conclude la fase della

«Grande Emigrazione», riveste un‟importanza particolare nella storia dell‟emigrazione,

soprattutto meridionale, per varie ragioni. In primo luogo, per le dimensioni che assume

il fenomeno (dal 1901 al 1910 si registrano oltre 2.800 mila partenze dal Sud, mentre

fino allo scoppio del primo conflitto bellico gli espatri ammonteranno a quasi 4 milioni)

e per l‟enorme impatto socio-demografico che esso ha (come abbiamo visto, avviandosi

a diventare preponderanti a livello nazionale i flussi emigratori dal Sud denunciano

anche il nuovo carattere con cui si manifesta la «questione meridionale»). Poi perché è

in questo arco di tempo che si consolida e si accentua la corrente transoceanica (che

finisce per prevalere su quella europea), nella quale il flusso verso gli Stati Uniti diventa

preponderante. Inoltre, perché è proprio in riferimento a questa esperienza migratoria

“che gli italiani si vedono come un popolo di emigranti. Infine è quella esperienza che

ha maggiormente inciso sulle tradizioni culturali delle regioni italiane e del paese nel

suo complesso: la letteratura, la musica e più di recente il cinema hanno rappresentato

soprattutto quella emigrazione” (Pugliese, 2002: 15).

Per quanto riguarda la Campania, le partenze che si susseguono fino allo scoppio della

prima guerra mondiale dalla regione superano le 900 mila, ad un ritmo pari a circa 64

mila espatri in media all‟anno (Tab. 1.1). Si consideri che più di un terzo degli espatri

registratisi in centotrent‟anni dalla Campania si è avuto in questo quindicennio.

Ciononostante, l‟incidenza degli espatri dalla Campania in questo periodo si riduce a

circa un quinto delle partenze dal Mezzogiorno (il 24,1%), il che se da un lato segnala

anche una sorte di maturità dei flussi emigratori dalla regione, dall‟altra evidenzia,

soprattutto, come la nuova domanda di manodopera funzionale all‟espansione

dell‟industria e alla rapida urbanizzazione degli USA attiva un imponente flusso di forza

lavoro di origine contadina dalle altre regioni del Mezzogiorno, che finisce

inevitabilmente per ridimensionare il peso delle emigrazioni campane.

“I primi quindici anni del XX secolo – scrive Rudolph J. Vecoli a proposito

dell‟emigrazione italiana negli Usa – segnano il culmine dell‟immigrazione italiana:

circa tre milioni e mezzo di italiani sbarcarono negli Stati Uniti, in gran parte a Ellis

Island, anche se il tasso di rimpatrio dagli Usa, in questi anni, si mantenne alto (50%

circa). Si trattava, per lo più, di immigrati temporanei, in maggioranza giovani, maschi e

di origini contadine; ma tra loro era pure presente una significativa minoranza di

artigiani (meno del 20%). Pochi erano quelli che avevano una qualche istruzione o che

possedevano un capitale proprio; pochissimi i professionisti e i mercanti. Benché tutte le

regioni italiane fossero rappresentate, i quattro quinti circa degli immigrati italiani

provenivano dal Mezzogiorno, in particolare dalla Calabria, dalla Campania, dagli

Abruzzi, dal Molise e dalla Sicilia” (Vecoli, 2002: 57; De Clementi, 2001).

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Che il ridimensionamento del peso della Campania sia dovuto soprattutto al

protagonismo emigratorio delle altre regioni meridionali lo si evince analizzando i

quozienti emigratori medi annui tra il 1901 e il 1910 e nel quinquennio successivo

(Tab.1.1 e Graf. 1.2). Nel primo decennio del secolo, infatti, la Campania fa registrare

un quoziente emigratorio pari al 24‰ circa, più alto di quello medio ripartizionale (pari

al 22,2‰)14

, mentre nel successivo quinquennio esso scende al 16,7‰, collocandosi al

di sotto del quoziente di espatrio medio del Sud (pari al 17,4‰). Nei primi dieci anni

del secolo, dunque, la regione raggiunge sì il massimo di espatri (circa 700 mila) in

relazione alla popolazione ma ciò non è sufficiente a farle conservare il peso

emigratorio del passato, a causa dei consistenti flussi originatisi nel frattempo dal resto

delle regioni meridionali che, in un solo decennio, portano quasi a raddoppiare il

volume degli espatri dal Sud rispetto al periodo precedente15

. Nel quinquennio che

precede lo scoppio del primo conflitto bellico, invece, sia la Campania che il resto del

Mezzogiorno conoscono un complessivo rallentamento del relativo ritmo di crescita

delle partenze16

. Rispetto alle altre regioni meridionali, tuttavia, la contrazione degli

espatri dalla Campania risulta relativamente più marcata, il che spiega sia il consistente

ridimensionamento del suo quoziente emigratorio medio annuo (circa 7 punti per mille

in meno rispetto al quoziente emigratorio medio annuo del decennio appena trascorso)

sia la lieve flessione dell‟incidenza delle partenze dalla regione rispetto al Sud nel suo

insieme (circa 2,5 punti percentuali in meno rispetto al periodo 1901-1910).

Le differenze interprovinciali

Per quanto riguarda le aree di origine dei flussi interne alla regione, ad essere più colpita

dal fenomeno emigratorio è la provincia di Avellino, con un tasso emigratorio medio

annuo pari al 41,6‰, seguita dalle province di Benevento (37,0‰), Caserta (34,0‰) e

Salerno (31,5‰), mentre è quasi del tutto estranea al fenomeno la provincia di Napoli

(Tab. 1.3).

Alla crescita quasi generalizzata dei tassi di espatrio (fa eccezione Salerno) si

accompagna una tendenza alla concentrazione demografica – più accentuata nelle

province costiere rispetto a quelle interne – che induce una crescita dei comuni

14

L‟eccezionale crescita dei quozienti emigratori in questi anni è dovuta almeno in parte all‟istituzione,

con legge 31 gennaio 1901, del “Commissariato Generale dell‟Emigrazione” con il compito di

promuovere e tutelare l‟emigrazione italiana. Ciò fa sì che “la Direzione della statistica trae i dati per i

suoi lavori non più dai registri municipali dei nulla osta, bensì dai registri dei passaporti concessi, tenuti

dagli Uffici di Pubblica Sicurezza nei diversi circondari. Il ricorso al nuovo tipo di fonte è dettato dal

divario numerico tra coloro che chiedono il nulla osta e coloro che effettivamente ottengono il

passaporto. Tuttavia ciò significa anche una svolta nella scelta del terminale locale cui rivolgersi per la

raccolta dei dati, sia per quanto concerne la natura dell‟organo – polizia anziché amministrazione

municipale – sia per quanto concerne la circoscrizione – circondario anziché comune” (Marucco, 2001:

69). Tutto ciò, in buona sostanza, fa sì che si registri un miglioramento relativo della qualità dei dati. 15

Richiamare i tassi migratori con l‟estero di alcune regioni meridionali può fornire una sintesi icastica

dell‟imponente esodo che colpisce il Sud in questo periodo: “40 abitanti su mille espatriati dalla Sicilia

nel 1913; 45‰ dalla Calabria nel 1905, 37‰ dalla Basilicata” (Bavero, Tassello, 1978: 29). La Campania

fa registrare, invece, il suo tasso più alto nel 1906 con 30,6 espatri ogni mille abitanti, inferiore di circa 7

punti per mille al tasso della Basilicata e di quasi 14 punti per mille a quello Calabrese. 16

In realtà il periodo 1911-1915 conosce dapprima un triennio di fortissima crescita delle partenze,

durante il quale si registra il picco assoluto di partenze sia dalle regioni del Sud (ad accezione della

Puglia) e sia da quelle del Centro-Nord (con l‟eccezione del Veneto e del Friuli), e un successivo bienno

di drastico calo per l‟inizio delle ostilità belliche.

Page 19: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

19

maggiori17

. Inoltre, tra la dinamica migratoria interna e quella estera si osserva una certa

complementarietà, nel senso che la crescita dei comuni maggiori non sembra risentire

“dell‟emigrazione estera. I trend degli anni pre-migratori (1861-81), infatti, appaiono

coerenti e omogenei al dopo” (De Clementi, 1990: 379).

Le province interne – come anticipato – si discostano da questo quadro. Avellino e

Benevento nei primi quindici anni del nuovo secolo esercitano una capacità di attrazione

dei flussi interni18

.meno forte rispetto al resto delle province (Tab. 1.4).

Tab. 1.4 – Incidenza dei comuni superiori ai 4000 abitanti sul totale dei comuni nelle cinque

province della Campania, 1881-1931 (valori percentuali)

1861 1881 1901 1911 1931

Avellino 24 30 32 32 33

Benevento 14 19 21 19 20

Napoli 41 46 52 54 60

Caserta 32 36 45 51 49

Salerno 33 35 36 37 44

Fonte: De Clementi, 1990

I comuni maggiori (con più di 4000 abitanti) delle due province evidenziano una

crescita inferiore rispetto a quella dei comuni della stessa classe dimensionale di Caserta

e di Napoli, in particolare, dove invece la crescita è sensibile anche rispetto al periodo

precedente.

Se dunque nelle province costiere la concentrazione demografica e la tendenza ad

espatriare della popolazione mostrano trend crescenti, ad Avellino e Benevento si

registra un‟attenuazione della forza attrattiva dei flussi interni e un ritmo di crescita dei

tassi di espatrio superiore alla media regionale. Solo in queste ultime, durante i primi

trent‟anni del nuovo secolo, l‟emigrazione transoceanica (verso gli USA) ed europea

(verso la Francia19

) finisce per rallentare i movimenti interni di popolazione20

.

I rimpatri e il saldo migratorio

A partire dal 1905, e limitatamente alle sole mete transoceaniche, è possibile calcolare

anche i rimpatri nella regione. Negli anni 1905-1915 il numero di rimpatri in Campania

è stato di circa 374 mila, con un‟incidenza del 55% su totale degli espatri, mentre nel

17

I comuni compresi tra gli 8 mila e i 60 mila conobbero quasi un raddoppio, passando nel loro insieme

da 41 nel 1861 a 79 nel 1931 (De Clementi, 1990). 18

Va ricordato che “Le migrazioni interne furono … di breve e di medio raggio, orientate o verso il

comune della zona d‟origine ritenuto più promettente del proprio, o verso zone della stessa o di altre

province capaci di suscitare analoghe aspettative” (De Clementi, 1990: 383). In ogni caso, la maggior

parte dei flussi interni si muovevano entro i confini delle circoscrizioni provinciali. 19

Negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale i campani in Francia rappresentano

il 10% degli italiani lì emigrati. Come documenta Vial “Nel 1914, gli italiani di Francia sono per il 28%

piemontesi, per il 22% toscani, per il 12% lombardi, per il 10% emiliani, anche se per un 10%

provengono dalla Campania e dall‟Abruzzo” (Vial, 2002: 134). 20

Secondo alcuni storici dell‟emigrazione (De Clementi, 1990) ciò segnala una differenziazione delle

dinamiche tra province litoranee e province interne per la quale si può parlare di un modello migratorio

dicotomico. Tale modello separerebbe e distinguerebbe le zone interne (Avellino e Benevento) da quelle

litoranee (Caserta, Napoli e Salerno), in ragione delle marcate differenze che le zone in parola

evidenziano sotto il profilo della redistribuzione della popolazione tra aree di montagna e aree collinari e

pianeggianti.

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20

caso del Mezzogiorno i rimpatri (1507 mila) hanno rappresentato circa il 50% degli

espatri.

Pur scontando una certa lacunosità ed incertezza dei dati, si può dire che nell‟ambito del

Mezzogiorno, destinatario dei maggiori flussi di rientro soprattutto dal Nord-America,

la Campania è la regione che evidenzia il più accentuato tasso di rotazione migratoria

(rimpatri su 100 espatri) transoceanico, al punto che raccoglie quasi un quinto dei

rimpatriati a livello nazionale.

Ancora una volta per avere un‟idea della perdita migratoria effettiva della regione è

necessario calcolare la variazione intercensuaria della sua popolazione, scomponendola

nelle due diverse poste del bilancio naturale e del bilancio migratorio.

Rispetto al 1901 la Campania evidenzia al successivo censimento un incremento della

sua popolazione di 152 mila unità, a fronte di un incremento naturale di 318, 2 mila

unità (Tab.1.5). Il saldo migratorio calcolato per differenza indica una perdita di 166,2

mila unità, pari ad un ritmo di incremento negativo del 5‰ su base annua. Si consideri

che per il solo periodo 1905-1911 il saldo migratorio netto che si ricava dalle singole

poste del bilancio migratorio con l‟estero (rimpatri – espatri) è pari a – 245,5 mila: cifra

che – lo ricordiamo – rappresenta il saldo tra entrate ed uscite dalla regione da e per

destinazioni transoceaniche.

Conclusioni

In sintesi, tra il 1876 e il 1915 la Campania fa registrare 1476 mila espatri, pari a circa

13 partenze ogni mille abitanti, che incidono per oltre un quarto (26,9%) sul totale delle

partenze dal Mezzogiorno. La consistenza dei flussi in uscita dalla regione per

destinazioni extranazionali è già significativa durante gli ultimi vent‟anni

dell‟Ottocento, al punto che la Campania, unica regione meridionale, figura tra il

gruppo di testa delle regioni con i più consistenti flussi di espatrio, in questo primo

periodo monopolizzati dalle regioni settentrionali (Veneto e Friuli in primis).

Le correnti emigratorie campane sono ancora caratterizzate dalla prevalenza delle mete

europee (Francia, Svizzera), ma inizia anche la progressiva crescita degli sbocchi

d‟oltreoceano, sia del Sud America (Brasile, Colombia), in larga parte, che del Nord

America (USA). Ad essere interessata maggiormente dai movimenti emigratori è

soprattutto la provincia di Salerno, con quasi 38 espatri ogni mille abitanti, mentre ad

essere toccata marginalmente dal fenomeno è la provincia di Napoli, con meno di 9

espatri ogni mille abitanti.

Con l‟inizio del secolo la crescita degli espatri si fa impetuosa, soprattutto nelle regioni

meridionali che soppiantano le regioni del Centro-Nord nell‟alimentare le correnti

emigratorie con l‟estero. La Campania pur raggiungendo il picco massimo delle sue

partenze nel 1906, con un tasso del 30‰, perde peso nell‟ambito delle correnti

emigratorie meridionali, e la sua incidenza sugli espatri dal Mezzogiorno scende da un

terzo a poco meno di un quinto.

Per quanto riguarda le destinazioni, in questo periodo prevale la corrente verso gli USA,

e con essa anche l‟incidenza di professioni extr‟agricole.

In questo periodo Avellino soppianta Salerno nella graduatoria provinciale delle aree a

maggior intensità emigratoria, evidenziando un tasso emigratorio medio annuo del 41

per mille, mentre all‟estremo opposto c‟è ancora una volta Napoli con meno di 10

espatri ogni mille abitanti.

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21

I dati relativi ai rimpatri (disponibili soltanto a partire dal 1905 e solo per destinazioni

extraeuropee) consentono di avere una conferma del pendolarismo transoceanico che ha

fin qui caratterizzato l‟emigrazione campana (ma non solo), e che ha visto accanto a

consistenti flussi di partenze, altrettanto consistenti flussi di rimpatrio21

.

L‟analisi delle variazioni intercensuali della popolazione, infatti, ridimensiona di molto

la perdita demografica effettiva della regione, evidenziando un saldo migratorio

negativo di 478,6 mila unità nel quarantennio 1871-1911 (che include però anche i

trasferimenti di residenza interregionali).

Tab. 1.5 – Popolazione presente e variazione intercensuaria della popolazione presente della

Campania e del Mezzogiorno. Censimenti 1901 e 1911

Popolazione presente* Variazione

1901 1911 Totale Naturale Migratoria

Valori assoluti (in migliaia)

Campania 3160,0 3312,0 152,0 318,2 -166,2

Mezzogiorno 12745,0 13274,0 529,0 1387,7 -412,1

% composizione Quozienti medi annui per 1000 ab.

Campania 24,8(a)

25,0(a)

4,7 9,8 -5,1

Mezzogiorno 39,2(b)

38,3(b)

4,1 10,7 -3,2

* Confini dell'epoca; (a)

Sul totale Mezzogiorno; (b)

Sul totale Italia.

Fonte: dati ISTAT.

2.5 Il periodo tra i due conflitti bellici: 1916-1945

Gli anni tra il 1916 e il 1930

Il periodo tra le due guerre segna un punto di svolta nell‟emigrazione campana e italiana

in generale. Con il mutare delle condizioni politiche ed economiche in alcuni dei paesi

che costituivano lo sbocco privilegiato dei flussi emigratori oltreoceanici,

“l‟emigrazione italiana cominciò a mutare volto rispetto al modello di «maturità»

assunto nel primo decennio del secolo” (Sori, 1979: 419). Semplificando si può dire che

si conclude la fase della Grande Emigrazione oltreoceanica e con essa anche il modello

emigratorio rotatorio che l‟aveva caratterizzata, ed inizia una nuova fase di rapida

crescita dei movimenti migratori interni, soprattutto nel decennio 1930-1940.

Seguendo la periodizzazione introdotta dalla Federici (1984), possiamo suddividere

schematicamente questi anni in una serie di sotto-fasi e analizzarli distintamente.

Al termine del primo conflitto mondiale le partenze dalla regione riprendono vigore per

un brevissimo periodo dopo il quale già a partire dal 1921 e fino all‟inizio degli anni ‟30

iniziano progressivamente a contrarsi, sia in seguito ad eventi esterni, come la parziale

chiusura delle frontiere e all‟introduzione del sistema delle quote di ingresso negli

21

Sori riporta la dichiarazione di un contadino campano “che soleva fare di quando in quando una

scappata in America” in occasione delle cattive annate agricole (Sori, 1979: 343).

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22

USA22

, sia in relazione ad eventi interni, come l‟attuazione della politica anti-

emigratoria del regime fascista, che varata sin dal 1924 comincia a sortire effetti di un

certo peso soltanto a partire dal 1928.

In questo periodo le partenze dalla Campania assommano complessivamente a poco

meno di 287 mila, di cui quasi un quarto (il 38,9% pari a 111,6 mila) concentrate tra il

1919 e il 1920. In questo biennio, in particolare, la regione evidenzia un tasso

emigratorio medio annuo lievemente superiore a quello medio meridionale e

un‟incidenza delle partenze sul totale ripartizionale superiore ad un quinto (Tab. 1.1 e

Graff. 1.3 e 1.4). Nel decennio seguente, tra il 1921 e il 1930, invece, gli espatri

raggiungono la somma di 156,4 mila, con un rapporto espatri su popolazione pari al

4,67‰, mentre nel corso degli anni ‟30 essi crollano a circa 33 mila, poco meno di una

partenza ogni mille abitanti.

22

Sia il Quota Act del 1921 che il Johnson Act del 1924 introdussero drastiche riduzioni nella “possibilità

di ingresso negli USA stabilendo quote distinte per i diversi gruppi nazionali, esprime[ndo] un grado di

discriminazione crescente mano a mano che si passava dall‟Europa del Nord a quella del Sud: così la

grande ondata migratoria che aveva portato negli Stati Uniti milioni di italiani da ogni parte del paese, e

nell‟ultimo periodo in particolare dal Mezzogiorno, risulta forzosamente arrestata fin dagli anni Venti”

(Pugliese, 2002: 17).

Graf. 1.3 - Campania: espatri, rimpatri e saldo migratorio,

1916-1945

-80

-60

-40

-20

0

20

40

60

80

100

1916

1918

1920

1922

1924

1926

1928

1930

1932

1934

1936

1938

1940

1942

1944

(in migliaia)

Saldo Espatri Rimpatri

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23

Va osservato come, pur conservando la Campania un peso relativamente immutato

nell‟ambito degli espatri dal Sud rispetto ai primi 15 anni del secolo, la ripresa delle

partenze nell‟immediato primo dopoguerra vede protagoniste soprattutto le altre regioni

meridionali, che accrescono il peso degli espatri dal Mezzogiorno rendendoli

maggioritari nella corrente emigratoria nazionale (dal 1916 al 1920 le partenze incidono

per oltre il 50% sul totale degli espatri dal Paese). Nel decennio successivo l‟incidenza

della corrente emigratoria dalla Campania su quella dal Mezzogiorno cala, scendendo al

di sotto di un quinto, ma il peso degli espatri dal meridione sul totale degli espatri totali

cala in misura maggiore, scendendo poco al di sotto di un terzo, per risalire leggermente

nel decennio successivo23

, allorquando gli espatri dalla Campania rappresenteranno

appena il 13,2% delle partenze dal Sud. Dunque, ancora una volta la regione evidenzia

andamenti peculiari rispetto alla media meridionale, che ne differenziano in qualche

modo la dinamica emigratoria rispetto al modello migratorio del Sud.

23

Infatti, dal 1921 in poi torna a prevalere, “anche se di poco, l‟emigrazione in partenza dalle regioni

settentrionali: essa costituisce il 52% degli espatri nel 1921-1925, il 51% nel 1926-1930, il 50% nel 1931-

1935, il 47% nel 1936-1940” (Bavero, Tassello, 1978: 32).

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24

Per quanto riguarda le destinazioni, se nel quinquennio 1916-1920 sono ancora gli USA

ad assorbire il grosso dell‟emigrazione campana e meridionale, nel successivo decennio

il regime delle quote introdotto negli USA tende a produrre una ristrutturazione dei

flussi emigratori e ad orientarli verso altre mete. Molti campani che si trovavano negli

Stati Uniti sono costretti a restare oltreoceano e ad adeguare il proprio progetto

emigratorio alle mutate condizioni del contesto. Iniziano allora a richiamare spezzoni di

famiglia per stabilirsi definitivamente, attivando un flusso di ingressi per

ricongiungimenti familiari di cui si ha un riflesso sulla stessa trasformazione della

struttura per sesso della corrente emigratoria24

.

Tra il 1920 e il 1930, infatti, nel mentre cala vertiginosamente il tasso di rimpatrio

(rimpatriati in % degli espatriati) degli italiani dagli Stati Uniti, passando dal 63,2% del

decennio 1910-1920, al 25,6% (Livi Bacci, 1961: 35), cresce contestualmente in misura

notevole l‟incidenza femminile nei flussi d‟espatrio che conduce ad un rapido

riequilibrio della loro composizione per sesso (AA.VV, 1978).

Come era già avvenuto in passato, le restrizioni all‟ingresso negli USA sviluppano un

flusso compensativo verso il Sud – America, e in particolare verso l‟Argentina. Inoltre,

a fronte delle difficoltà incontrate nelle destinazioni oltreoceaniche dall‟emigrazione

campana – ma in generale da tutta l‟emigrazione italiana – cresce l‟emigrazione verso i

paesi dell‟Europa, soprattutto verso la Francia25

e la Svizzera, al punto che la corrente

europea supera per entità quella extraeuropea (Sori, 1979).

Anche i rimpatri conoscono un‟accelerazione nell‟immediato dopoguerra, dovuta ad una

serie di fattori tra cui il “concentrarsi dei ritorni in patria rinviati durante gli anni di

guerra, soprattutto da oltreoceano, [..]l‟amnistia concessa ai renitenti, [...]

l‟apprezzamento valutario del dollaro (rimpatri per operazioni di investimento in Italia)

e, successivamente, [..]la crisi economica che colpisce gli Stati Uniti nel 1920-1921”

(Sori 1979: 405).

Nel quindicennio 1916-1930 la Campania fa registrare 157 mila rimpatri (41 mila circa

nel periodo 1916-1920 e i restanti 116 entro la fine degli anni ‟20) con una media di

circa 10,5 mila rientri all‟anno, e un‟incidenza sul totale dei rimpatri meridionale pari al

26%. La perdita migratoria che denuncia la regione in questo periodo, al netto dei

rimpatri, assomma a 129,4 mila unità – il 70% delle quali nel solo quinquennio 1916 –

1920. Su base annua ciò corrisponde mediamente ad una emigrazione netta di 8,6 mila

unità, mentre in rapporto alla popolazione presente equivale a 2,6‰ espatri definitivi

ogni mille abitanti, valore che si colloca al di sotto del tasso medio meridionale pari,

invece, al 3,6‰.

24

Per spiegare il deficit migratorio netto che si registra in questo periodo, Sori individua una serie di

fattori tra cui il “più importante […] riguarda il maturare della emigrazione definitiva come scelta ex-

post, quando, soprattutto per il grande mercato nord-americano e poi via via anche per altri paesi, viene

sconvolta la principale regola del giuoco su cui si basava questo modello emigratorio, la libertà di

ingresso, con le rigide barriere che si levano tra il 1917 e il 1924. Chi era all‟estero decise di rimanervi,

per timore di non poter più rientrare, e certo la natura di classe e la politica economica del fascismo in

Italia non invogliavano a tornare in patria” (Sori, 1979: 340). Anche la ricerca antropologica ha

documentato le trasformazioni intervenute nelle strategie familiari dei migranti in funzione della

possibilità di espatriare liberamente. Gabriella Gribaudi ha ricostruito la vicenda emigratoria di una

famiglia di Castelvetere di Valfortore nel Beneventano, e dall‟analisi della discendenza emerge come un

ramo della famiglia si stabilirà definitivamente a New York proprio a partire dal 1920. Cfr. (Gribaudi,

1990). 25

Secondo Vian “si contano 420 000 italiani nel 1921, 760 000 nel 1926, 880 000 nel 1931, un terzo degli

stranieri presenti nel paese, quasi il doppio dei polacchi, il triplo degli spagnoli, il quadruplo dei belgi.

Considerando i clandestini e gli stagionali, è possibile che si arrivasse a un milione” (Vian, 2002: 138).

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25

Tuttavia la dinamica migratoria acquista maggiore rilievo se confrontata con il relativo

incremento naturale della popolazione. Nel decennio intercensuale 1921-1931, in

particolare, a fronte di un tasso migratorio netto medio annuo pari al – 2,0‰ la

Campania evidenzia un incremento naturale di circa il 15‰, il più alto tra quelli

registrati a partire dal censimento del 1871 (Tab. 1.6). E andamento analogo presenta

anche il Sud nel suo insieme.

Tab. 1.6 Popolazione presente e variazione intercensuaria della popolazione presente

della Campania e del Mezzogiorno. Censimenti 1921 e 1931

Popolazione presente* Variazione

1921 1931 Totale Naturale Migratoria

Valori assoluti (in migliaia)

Campania 3080,0 3495,0 415,0 479,2 -64,2

Mezzogiorno 13064,0 14528,0 1464,0 1902,5 -438,5

% composizione Quozienti medi annui per 1000 ab.

Campania 23,6(a)

24,1(a)

12,6 14,6 -2,0

Mezzogiorno 34,4(b)

35,3(b)

10,6 13,8 -3,2

* Confini dell'epoca; (a)

Sul totale Mezzogiorno; (b)

Sul totale Italia.

Fonte: dati ISTAT.

In sostanza, proprio nel momento in cui i principali paesi di immigrazione pongono

freni alla libertà di emigrare, la Campania e il Mezzogiorno conoscono una forte ripresa

della natalità, compressa dalla parentesi bellica, che contribuisce ad aggravare le

condizioni socio-economiche soprattutto nelle campagne26

. Ciò comporterà una

mobilitazione territoriale interna della popolazione, che comincerà ad indirizzarsi sia

verso le aree più industrializzate del paese sia verso le grandi città del Centro-Nord, sia,

infine, verso altre regioni del Sud, anche se in misura minore – al censimento del 1931

infatti risultano residenti in Puglia oltre 5300 campani (Treves 1976).

Dal 1931 al 1945

Dopo il 1930 e fino al 1945 una serie di eventi come la crisi economica che segue al

crollo della borsa di Wall Street, la decisa azione anti-emigratoria del fascismo, e il

coinvolgimento bellico del Paese, finiscono per ridurre al minimo le emigrazioni

all‟estero. Gli espatri dalla regione scendono sotto i 33 mila (pari a circa 3,3 mila in

media all‟anno), meno di 1 espatrio ogni mille abitanti in media su base annua, mentre i

rimpatri si attestano invece sui 32 mila circa. Le due poste del bilancio danno luogo così

ad un saldo migratorio negativo di -1,7 mila unità.

26

Al peggioramento della situazione occupazionale e ad una riemergente tensione nei rapporti di

produzione nelle campagne contribuì la crisi agricola del 1925 che “inaugurò un lungo periodo di

«forbici» tra prezzi e soprattutto redditi contadini, da una parte, e prezzi e salari extra-agricoli dall‟altra.

Una simile situazione, che si poteva immaginare duratura per l‟arretrata e poco produttivistica agricoltura

italiana, minacciava di mettere in moto un massiccio processo di mobilizzazione della popolazione rurale,

non fronteggiabile né dalla crescita dell‟occupazione nei settori extra-agricoli, né da un adeguato

assorbimento emigratorio, sempre più stentato e selettivo” (Sori, 1979: 428).

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26

Continuano a verificarsi, invece, spostamenti definitivi a lungo raggio all‟interno del

Paese, per effetto della capacità attrattiva della capitale e di alcune aree del Nord più

interessate dallo sviluppo economico27

. Inoltre, riprendono quota, soprattutto dal 1935,

anche le migrazioni stagionali, con la ripresa economica e una nuova ondata di

migrazioni interne definitive, e di esodo montano (Sori, 1979).

E‟ possibile avere un‟idea del forte aumento della mobilità interna considerando le cifre

ricavabili dal censimenti del 1951, ancora scarsamente influenzate dal vasto processo di

redistribuzione della popolazione che caratterizzerà poi il secondo dopoguerra.

Nell‟intervallo intercensuario 1931-1951 la Campania denuncia una perdita migratoria

di quasi 229 mila individui, ad un ritmo di quasi 3 residenti su mille in meno in media

ogni anno. Per il Mezzogiorno nel suo insieme in valori assoluti la perdita migratoria è

oltre 1350 mila unità, ad un tasso migratorio media annuo par al 4,2‰ (Tab. 1.7).

Un altro aspetto dei processi di mobilità della popolazione campana che riveste un certo

interesse è quello relativo agli spostamenti, da un lato, verso le regione centro-

settentrionali e, dall‟altro, verso le altre regioni meridionali.

Tab. 1.7 – Popolazione presente e variazione intercensuaria della popolazione presente della

Campania e del Mezzogiorno. Censimenti 1931 e 1951

Popolazione presente Variazione

1931 1951 Totale Naturale Migratoria

Valori assoluti (in migliaia)

Campania 3495,0 4312,0 817,0 1045,5 -228,5

Mezzogiorno 14528,0 17433,0 2905,0 4257,9 -1352,9

% composizione Quozienti medi annui per 1000 ab.

Campania 24,1(a)

24,7(a)

10,5 13,4 -2,9

Mezzogiorno 35,3(b)

37,0(b)

9,1 13,3 -4,2

* Confini dell'epoca; (a)

Sul totale Mezzogiorno; (b)

Sul totale Italia.

Fonte: dati ISTAT.

Per quanto riguarda la mobilità interripartizionale, la Campania dal 1901 al 1951

evidenzia, rispetto alla media meridionale, una più alta quota di popolazione che nata

nella regione risiede in un comune del Centro-Nord. Si passa dalle circa 41 mila unità

dell‟inizio del secolo (pari all‟1,3% della popolazione campana residente contro lo 0,9%

della media meridionale), alle circa 72 mila unità del 1931 (il 2,2% della popolazione

della regione contro il 2,2 della media ripartizionale), per scendere alle circa 70 mila

unità del 1951 (l‟1,7% della popolazione campana contro l‟1,3% della media

meridionale). Valori maggiori si riscontrano nel caso di quanti, nati nella regione,

risiedono in una regione del Sud. In valori assoluti si passa dai circa 62 mila del 1901, ai

100 mila del 1931, per scendere poco sotto le 100 mila unità nel 1951, con un‟incidenza

sul totale della popolazione rispettivamente del 2,1%, del 3,1% e del 2,4% (i

corrispondenti valori percentuali della media ripartizionale sono: 1,4%, 2,0% e 1,9%).

27

Ciononostante “mentre andava rafforzandosi una corrente migratoria est-ovest che dal Veneto

convogliava manodopera verso le regioni del triangolo industriale, i flussi extra-regionali dalle aree del

Mezzogiorno continuarono, in grande prevalenza, a dirigersi verso i paesi esteri” (Del Panta, 1996: 211).

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27

La Campania, dunque, nei primi trent‟anni del secolo28

evidenzia una più accentuata

tendenza della propria popolazione alla redistribuzione sia intraripartizionale che

interripartizionale (verso le regioni del Centro-Nord) rispetto al resto del Sud, che,

invece, mostra un più forte ritmo di espatri verso gli Stati Uniti, l‟Europa e l‟Africa

settentrionale (Tunisia e Algeria soprattutto).

Da ultimo va accennato al fatto che la politica di incoraggiamento della colonizzazione

demografica della Libia da parte del regime fascista – che prese slancio proprio nel

decennio 1930-1940 – vide soprattutto la predominanza di meridionali tra i coloni. Nel

1935, ad esempio, “quasi il 40% dei coloni insediati in Libia proveniva dalla Sicilia;

seguivano il Veneto (13%), la Campania (8%) e l‟Emilia (8%) (Ipsen 1992: 170).

In conclusione durante il periodo tra le due guerre mondiali gli espatri dalla Campania si

riducono a circa 319 mila, mentre i rimpatri aumentano a 188 mila. La differenza tra

rimpatri ed espatri della regione viene ad assommare a circa 131 mila unità, pari ad un

tasso migratorio netto medio annuo dell‟ 1,2‰ sulla popolazione presente. A seguito

delle restrizioni sulle migrazioni all‟estero il modello emigratorio regionale comincia a

perdere il carattere rotatorio che aveva caratterizzato le emigrazioni italiane fino ad

allora, e si avviano processi di stabilizzazione soprattutto negli USA. Inoltre, acquista

rilevanza crescente la presenza femminile nei flussi man mano che questi si

contraggono.

Sul fronte interno l‟alternanza di periodi di crisi, fasi di ristagno e stentate riprese,

nonché l‟incremento di popolazione che si registra soprattutto tra il 1911 e il 1921, sono

alla base di un ritmo di urbanizzazione che, nonostante i tentativi del regime, attiva

consistenti flussi immigratori sia di lungo che di breve periodo. Rispetto al periodo

1901-11, che vedeva uno scambio di popolazione molto limitato tra ripartizioni, regioni,

province e comuni, gli anni tra le due guerre fanno registrare un‟impennata della

mobilità territoriale a tutti i livelli.

Anzi, secondo alcuni studiosi “la struttura dei flussi migratori interregionali che lo

sviluppo economico del secondo dopoguerra utilizzerà ampiamente è, nelle sue linee

essenziali, già definita dalle vicende migratorie di questo periodo, specie se si considera

che il flusso Sud-Nord, alla metà degli anni ‟30, è già consistente” (Sori, 1979: 460-1).

Il processo di urbanizzazione intraregionale

Cessata o quasi l‟emigrazione all‟estero, e in presenza di una massiccia disoccupazione

e sottoccupazione latente, si accentua il fenomeno dell‟abbandono dei comuni minori e

cresce la tendenza da parte della popolazione campana ad accentrarsi nei centri

maggiori, nei comuni capoluogo, i quali, d‟altra parte, si pongono come tappe di

itinerari migratori che portano dalle aree «deboli» alle aree «forti» del paese (Treves,

1976; Sori 1979). I cinque comuni capoluogo di provincia della Campania evidenziano

una diversa forza di attrazione dei flussi immigratori, la quale si ripercuote sia

sull‟accrescimento demografico dei comuni più grandi (che rientrano nei confini

amministrativi di ogni provincia), sia sugli stessi ritmi di incremento dei comuni

capoluogo.

28

Ma la tendenza, come si è visto, prosegue anche nel corso dell‟intervallo intercensuale 1931-1951.

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28

Per quanto riguarda il primo aspetto, entrambe le province di Napoli e di Salerno

evidenziano nell‟intervallo intercensuario 1911-1931 una consistente crescita dei

comuni superiori ai 4000 abitanti, che passano, rispettivamente, dal 54% al 60% e dal

37% al 44% del totale; nella provincia di Avellino e di Benevento invece i comuni di

questa classe dimensionale conoscono una lievissima crescita della loro incidenza sul

totale, mentre nella provincia di Caserta scendono dal 51 al 49% (Tab. 1.4).

Se dal livello provinciale si passa a quello delle città capoluogo osservandone gli

incrementi di popolazione, si vede come siano soltanto due i comuni capoluogo,

Benevento e Salerno, a far registrare un consistente incremento di popolazione, mentre

gli altri evidenziano incrementi poco sopra il 5‰29

– superiori in ogni caso

all‟incremento medio annuo regionale (2,7‰) e a quello del Mezzogiorno (4,5‰) (Tab.

1.8).

Tab. 1.8 Popolazione residente e incremento intercensuale dei capoluoghi di provincia

della Campania, 1901-1931

1901 1911 1931

(in 000) (a)

‰ (b)

(in 000) (a)

‰ (b)

(in 000) (a)

‰ (b)

Avellino 24,5 2,3 24,7 0,8 27,4 5,3

Benevento 24,1 6,1 23,8 -1,5 36,0 21,1

Caserta 33,3 3,5 32,0 -4,1 35,9 5,7

Napoli 547,5 6,5 666,6 19,9 743,3 5,5

Salerno 42,5 16,0 46,2 8,5 61,1 14,1

(a)Confini dell‟epoca;

(b)tasso di incremento composto medio annuo intercensuale (1881-1901; 1901-11;

1911-31).

Fonte: De Clementi (ns elaborazioni).

A questo proposito la De Clementi osserva come: “Solo Salerno, in pratica riuscì ad

esercitare un‟attrazione pressappoco paragonabile a quella coeva delle grandi città

italiane, anche se a livelli numericamente inferiori. Lo stesso può dirsi per Benevento,

dove l‟incremento fu rispettabile ma ben lungi dal promuoverla a vero e proprio centro

urbano” (De Clementi 1990: 383).

Napoli, viceversa, esercita una formidabile forza di attrazione sulla popolazione

campana come provincia, ma evidenzia una relativa immobilità come capoluogo. Ciò

“si spiega con la diffusione dei mezzi di comunicazione extraurbani e l‟aumento degli

affitti. Questi avevano favorito, per un verso, il pendolarismo settimanale degli operai

urbani e, per l‟altro, il deflusso degli strati più abbienti verso i centri contigui di

Secondigliano, Marano, Acerra, Aversa, ecc.” (De Clementi, 1990: 384-5). Nel

complesso, dunque, la popolazione della regione nell‟intento di migliorare le sue

condizioni di partenza, a fronte dell‟impraticabilità dello sbocco emigratorio all‟estero,

si orienta, da un lato, verso le occupazioni urbane a Salerno e a Napoli e in pochi altri

29

E‟ necessario tuttavia tener presente che queste cifre vanno prese cum grano salis, a causa di una serie

di provvedimenti che il regime fascista prese, finalizzati a modificare le circoscrizioni politico-

amministrative di molti comuni, soprattutto nel corso degli anni ‟20. La Treves sottolinea come in questo

modo “molti centri registrarono variazioni di popolazione vertiginose, in nessun modo ipotizzabili con il

solo sviluppo naturale o migratorio, mentre altri scomparvero del tutto sia dalle statistiche censuarie, sia

dalla realtà urbanistica” (Treves 1976: 35). Nonostante la difficoltà di valutare separatamente il peso della

componente politica e di quella demografica sulla crescita di popolazione dei grandi comuni, non

mancano motivi, in ogni caso, per ritenere valide le indicazioni di massima desumibili dai livelli di

incremento della popolazione.

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29

centri industriali della regione, dall‟altra verso il lavoro agricolo nelle zone più

sviluppate.

2.6 La ripresa dell‟emigrazione verso l‟Europa: 1946-1980

Dopo la parentesi della seconda guerra mondiale, l‟emigrazione campana, così come da

tutto il Mezzogiorno, riprende significativamente a causa di un contemporaneo

rafforzamento dell‟effetto di «richiamo» (indotto, in alcuni paesi europei, dalla

domanda di manodopera non qualificata da impiegare nell‟industria manifatturiera) e

della persistenza di un effetto «spinta» rappresentato dal sottosviluppo del Mezzogiorno

(Pugliese, 2002). Nel periodo compreso tra il 1946 e il 1980 – anno nel quale si può

considerare abbastanza conclusa la grande vicenda delle migrazioni intraeuropee del

dopoguerra – gli espatri assommano a poco più di 970 mila persone, pari mediamente a

quasi 6 ogni mille abitanti all‟anno.

L‟incidenza sul totale delle migrazioni meridionali si colloca su valori non distanti e

appena inferiori all‟incidenza registrata all‟epoca della Grande Emigrazione. Dopo la

fase iniziale, pionieristica, quando la Campania contribuiva per oltre un terzo al totale

delle migrazioni meridionale, il peso della regione sui flussi emigratori meridionali è

andato progressivamente calando fino alla prima guerra mondiale quando – come

abbiamo visto – equivaleva a circa un quinto. Ora invece il valore medio del periodo

1946-80 è pari al 21,2% mentre per il successivo periodo 1981-88 scenderà al 20,2%.

Disaggregando il periodo in esame, notiamo come la portata massima dei trasferimenti

si registra nel decennio 60-70, con 414 mila contro valori non distanti per il decennio

precedente e valori molto più modesti negli anni ‟80, quando gli espatriati sono solo 130

mila. Il fenomeno è messo in più chiara evidenza e con riferimento agli andamenti annui

nel grafico 1.5. Il picco si verifica tra il 1961 e il 1965, quando si registrano i valori

massimi sia per gli espatri che per i rimpatri e per i saldi. Il saldo migratorio, che è

consistente già a partire dagli inizi degli anni ‟50, ha un crescente incremento fino alla

metà degli anni ‟60, con una flessione della curva intorno al 1958-59.

Graf. 1.5 - Campania: espatri, rimpatri e saldo migratorio,

1946-1999

-40

-20

0

20

40

60

80

100

19461950

19541958

19621966

19701974

19781982

19861990

19941998

(in migliaia)

Saldo Espatri Rimpatri

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30

Un fatto noto che però vale la pena di ribadire è che il massimo numero di ritorni si

verifica proprio nel momento in cui massime sono le partenze. Per quanto riguarda il

rapporto tra la regione e il resto del Mezzogiorno, il grafico 1.6 aiuta a comprendere il

processo e conferma quanto già affermato. In questo caso la variabile presa in

considerazione non è la portata del fenomeno quanto il modo in cui esso incide sul

totale della popolazione regionale. Come si può osservare, da questo punto di vista, le

tendenze e la dimensione relativa del fenomeno non sono diverse tra Campania e

Mezzogiorno. L‟unica differenza è che il grafico mostra con netta evidenza e

sistematicità come la Campania sia regione leggermente meno”migratoria” del resto del

Sud. E‟ ciò è ovviamente comprensibile se si considera l‟elevata capacità attrattiva che

nel Mezzogiorno hanno avuto le aree di pianura rispetto alle aree collinari e di

montagna e, nel caso della Campania, all‟area metropolitana di Napoli.

Per quanto riguarda le destinazioni, in questi anni la maggior parte del flusso migratorio

campano si indirizza verso l‟Europa, soprattutto Svizzera, Germania e Francia. In

particolare, nella seconda metà degli anni ‟60, la Svizzera assorbe quasi i due quinti dei

flussi diretti verso il Nord-Europa, mentre la Germania ne intercetta un quarto (Tab.

1.9). In ogni caso, a partire dagli anni Sessanta il flusso emigratorio verso i paesi

europei si affievolisce progressivamente per poi avviarsi anch‟esso a una sostanziale

conclusione.

Graf. 1.6 - Tassi emigratori con l'estero della Campania e del Mezzogiorno, 1946-

1999

0

5

10

15

20

25

30

35

1945 1948 1951 1954 1957 1960 1963 1966 1969 1972 1975 1978 1981 1984 1987 1990 1993 1996 1999

‰ ab.

Campania

Mezzogiorno

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31

Tab.1.9 Espatri medi annui dalla Campania per paesi di destinazione, 1959-1982

Anni

Ger

man

ia

Fed

erale

Fra

nci

a

Sviz

zera

Tota

le

paes

i

euro

pei

Can

ad

a

US

A

Au

stra

lia

Tota

le

paes

i

extr

a-

euro

pei

Tota

le

medie annuali (in migliaia)

1959-1964 - - - 43,6 1,7 2,6 1,5 8,3 51,9

1965-1969 8,9 1,2 13,4 25,6 2,2 4,6 1,2 8,8 34,4

1970-1974 5,7 0,5 7,5 14,6 0,4 2,6 0,5 4,0 18,7

1975-1979 3,4 0,3 3,8 8,1 0,2 1,1 0,2 1,9 10,0

1980-1982 3,5 0,3 3,7 8,1 0,2 0,8 0,2 1,6 9,7

valori in percentuale

1959-1964 - - - 83,9 3,2 5,0 2,9 16,1 100,0

1965-1969 25,9 3,5 38,9 74,4 6,4 13,2 3,4 25,6 100,0

1970-1974 30,5 2,9 40,4 78,4 2,3 14,1 2,6 21,6 100,0

1975-1979 33,6 2,8 38,2 80,7 2,1 11,4 1,9 19,3 100,0

1980-1982 36,0 2,8 37,9 83,3 2,5 8,3 1,7 16,7 100,0

Fonte: Ns elaborazioni su dati ISTAT.

I flussi d‟oltreoceano si indirizzano invece soprattutto verso gli USA, il Canada e

l‟Australia, che da soli assorbono quasi il 70% dell‟intera corrente emigratoria. Il flusso

transoceanico tuttavia perde progressivamente peso nel momento in cui si intensifica la

corrente emigratoria verso l‟Europa (Graf. 1.7).

2.7 Le migrazioni interne: 1955-1999

Il periodo compreso tra il 1955 e il 1975 non è solo una fase di intensa emigrazione

estera ma anche la fase della più intensa emigrazione dal Sud verso le regioni del

Centro-Nord, e in primo luogo, verso quelle del triangolo industriale.

Nel periodo 1955-1959 si registrano circa 23 mila cancellazioni anagrafiche

(corrispondenti in teoria alle partenze) in media all‟anno, mentre le iscrizioni

(sostanzialmente dei ritorni) si mantengono attorno ai 10 mila. Il saldo negativo che ne

deriva, pari a una perdita migratoria di circa – 13 mila unità, segnala la rilevanza che il

fenomeno comincia ad assumere per la regione se si considera che si è ancora alla

vigilia degli anni del cosiddetto miracolo economico (Pugliese, 2002).

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32

Le cancellazioni proseguono con un ritmo sostenuto fino alla metà degli anni ‟70,

quando sfiorano le 50 mila (in media su base annuale), con un saldo migratorio negativo

pari a circa 27 mila unità (Tab. 1.10). Negli anni seguenti, e fatta eccezione per il

decennio ‟80, le cancellazioni non scenderanno mai al di sotto delle 30 mila unità medie

annue, mentre i saldi si terranno stabilmente sopra le 10 mila unità (sempre medie

annue), evidenziando l‟intensità ma anche il carattere tendenzialmente definitivo delle

emigrazioni dalla regione.

Caratteri socio-demografici delle migrazioni interne negli anni ‟90

Nel decennio ‟90 l‟andamento dei saldi mostra un comportamento differenziato da parte

della regione (Graf. 1.8). Da una parte, infatti, si ha, con l‟eccezione del 1991 e del

biennio 1993-94, un saldo migratorio positivo con l‟estero, dall‟altra si ha una perdita

nell‟interscambio interno che tende a crescere nella seconda parte del decennio,

arrivando a raggiungere le 28 mila unità a fine periodo. Il sistema migratorio regionale

appare così articolarsi su una capacità di attrazione nei confronti dell‟estero e su una

persistente e più intensa subalternità verso le altre regioni. Infatti, la risultante

complessiva di questa duplice dinamica è una perdita migratoria sostanzialmente

crescente negli anni più recenti.

Graf. 1.7 - Campania: Numeri indici (1959=100) degli espatri verso paesi europei ed

extraeuropei, 1959-99.

0

50

100

150

200

250

300

1959

1961

1963

1965

1967

1969

1971

1973

1975

1977

1979

1981

1983

1985

1987

1989

1991

1993

1995

1997

1999

Espatri per paesi europei

Espatri per paesi extra-europei

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Tab. 1.10 Flussi e saldo migratorio interni tra Campania e Centro-Nord e Mezzogiorno e

Centro-Nord. 1955-1999 (valori medi annui in migliaia)

Campania Mezzogiorno

Emigra-

zione

Immigra-

zione

Saldo

migratorio

Emigra-

zione

Immigra-

zione

Saldo

migratorio

1955-59 22,9 10,1 -12,9 122,1 41,1 -81,0

1960-64 44,5 15,3 -29,2 257,9 72,4 -185,5

1965-69 42,5 18,8 -23,7 196,8 88,1 -108,7

1970-74 49,2 22,3 -26,9 213,9 99,7 -114,2

1975-79 35,1 21,0 -14,2 140,1 92,8 -47,3

1980-84 31,0 18,1 -12,8 119,7 91,9 -27,8

1985-89 27,7 14,0 -13,7 108,8 69,9 -38,9

1990-94 23,8 11,5 -12,3 107 63,0 -44,0

1995-99 30,3 18,5 -11,8 121,1 59,2 -61,9

Fonte: ns elaborazioni su dati ISTAT.

Il quadro d‟insieme dei flussi migratori mostra una regione che nell‟interscambio

regionale perde sia con il Centro-Nord che con il resto del Mezzogiorno (Tab. 1.11).

Perdite, ovviamente, di intensità ben diversa: nel 1999, ad esempio, quella verso l‟Italia

centrosettentrionale è stata pari a 26.400 unità, mentre quella con il Mezzogiorno si è

fermata a 1.600. In tutti e due i casi, però, si è in presenza di caratteri stabili e duraturi

delle migrazioni campane, visto che si presentano entrambi regolarmente lungo tutto

l‟arco degli anni novanta. Altre caratteristiche tipiche del sistema migratorio regionale

durante gli anni novanta possono essere individuate – rispetto ai livelli del Mezzogiorno

non insulare e del paese – in una più elevata mobilità intraregionale e in un più basso

volume di arrivi dalle altre regioni, mentre, rispetto al dato nazionale (ma non a quello

del Meridione) si nota una maggiore intensità delle uscite verso il resto del paese. Il

volume di iscrizioni dall‟estero risulta più basso di quello complessivo nazionale e

risente delle regolarizzazioni degli immigrati stranieri, mentre quello delle cancellazioni

appare sostanzialmente stabile. I tassi di migrazione netta interna sono cresciuti nella

Graf. 1.8 - Campania: saldo migratorio interregionale, internazionale e totale,

1990-1999

-30,0

-20,0

-10,0

0,0

10,0

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000

(in migliaia)

Saldo migratorio interregionale Saldo migratorio internazionale Saldo migratorio totale

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seconda metà dello scorso decennio, arrivando al – 4,8 per mille nel 1999, mentre quelli

con l‟estero raggiungono un massimo dell‟1,3 per mille nel 1996.

Se dal livello regionale passiamo a quello provinciale notiamo come le province della

Campania presentano tutte una perdita nell‟interscambio interregionale durante gli anni

novanta, con un massimo negativo del – 4,6 per mille di Napoli nel quinquennio 1995-

99 (Tab. 10). Nei confronti dell‟estero si ha generalmente una bilancia migratoria

positiva, con l‟eccezione di Benevento tra il 1990 e il 1994 e di Avellino in entrambi i

periodi considerati. Nell‟interscambio intraregionale è Napoli a perdere popolazione nei

confronti di tutte le altre province, il che porta l‟intensità della perdita migratoria

complessiva del capoluogo al – 4,9 e al – 5,7 per mille. La principale area metropolitana

del Mezzogiorno appare così interessata sia da una perdita verso le altre regioni che

verso il resto della Campania. Con ogni probabilità tale situazione è il risultato del

sovrapporsi degli effetti di due dinamiche differenti: da una parte, agisce infatti la

persistente fragilità del sistema economico napoletano relativamente alle aree più

avanzate del paese, dall‟altra si ha l‟attivarsi di dinamiche di decentramento abitativo e

residenziale tipiche in questa fase delle grandi aree metropolitane.

Tab. 1.11 Flussi e quozienti delle migrazioni interne ed internazionali, 1990-1999,

(valori assoluti e per 1.000 abitanti).

Anni e aree

geografiche

Flussi interregionali Saldi migratori

Iscritti

da

Cancellat

i per

Iscritti

da

Cancellati

per

Inter

regionali

Con

l'estero

Inter

regionali

Con

l'estero

Centro-Nord Mezzogiorno (v.a.) (x mille

ab.)

1990

Campania 14.072 30.482 4.988 6.386 -17.808 5.711 -3,2 1,0

Mezzogiorno 43.099 83.479 19.552 20.190 -41.018 16.588 -3,0 1,2

Italia 175.097 229.856 147.204 92.445 0 110.765 0,0 2,0

1995

Campania 12.787 27.852 4.768 5.626 -15.923 1.232 -2,8 0,2

Mezzogiorno 39.182 72.987 18.098 18.419 -34.176 4.440 -2,4 0,3

Italia 160.229 206.908 127.571 80.892 0 53.407 0,0 0,9

1996

Campania 12.797 31.559 4.396 5.609 -19.975 7.392 -3,5 1,3

Mezzogiorno 38.170 80.726 17.331 17.748 -42.973 18.373 -3,0 1,3

Italia 157.489 216.893 138.694 79.290 0 124.457 0,0 2,2

1997

Campania 14.259 33.999 4.556 5659 -20.843 5.378 -3,6 0,9

Mezzogiorno 41.937 83.641 17.821 18.136 -42.019 10.575 -3,0 0,7

Italia 164.843 223.036 142.443 84.250 0 116.584 0,0 2,0

1998

Campania 13.311 36.332 4.684 5.821 -24.158 3.355 -4,2 0,6

Mezzogiorno 41.533 89.609 17.797 18.698 -48.977 8.295 -3,5 0,6

Italia 172.338 240.794 152.514 84.058 0 110.996 0,0 1,9

1999

Campania 13.930 40.335 4.749 6.397 -28.053 3.051 -4,8 0,5

Mezzogiorno 40.918 95.885 19.026 19.052 -54.993 5.093 -3,9 0,4

Italia 175.310 252.285 160.450 83.475 - 120.177 - 2,1

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT.

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3. L‟emigrazione campana di Francesco Calvanese

3.1. Premessa

E‟ noto che le grandi migrazioni degli anni ‟50 e ‟60 hanno visto consolidarsi la

componente meridionale dei flussi. Infatti, come si è visto in altre parti del Rapporto

Filef (cfr:Sabatino), per quel che riguarda l‟emigrazione campana si si può costatare che

in tale periodo, a partire dal 2° dopoguerra, si è registrata la sua massima espansione,

favorendo così l‟apertura di nuovi spazi migratori.

Contemporaneamente, dopo una prima fase, riferibile all‟inizio degli anni ‟50, in cui le

destinazioni transoceaniche hanno avuto ancora un peso rilevante, è venuto

successivamente ad affermarsi, diventando prevalente, la destinazione europea. Come si

vedrà in seguito, ciò ha comportato significative modificazioni sia in termini

quantitativi sia sul piano qualitativo, facendo sì che tendesse a rafforzarsi anche una

specifica connotazione campana, oltre che meridionale, dell‟intero movimento.

A tale proposito va ricordato, come sostengono diversi studiosi (Cotugno,

Pugliese,Rebeggiani, 1990), che “si è trattato di una vicenda svoltasi sostanzialmente in

un quindicennio tra la seconda metà degli anni ‟50 e la fine degli anni ‟60.

Essa ha avuto una funzione essenzialmente in negativo, vale a dire in termini di

scardinamento dell‟ordine economico e sociale preesistente e della vecchia struttura

occupazionale, piuttosto che in termini di innovazione, rappresentando comunque il più

grande evento dal punto di vista economico, sociale e demografico.” A dimostrazione

del fatto che l‟emigrazione va fatta risalire soprattutto a fenomeni di contraddizione

dello sviluppo, piuttosto che a situazioni di estrema povertà (Jackson, 1991) si può

sicuramente riconoscere, almeno per quel che riguarda la Campania, che essa ha assunto

notevoli proporzioni dopo che la Riforma agraria degli anni ‟50 ha creato un‟eccedenza

di forza lavoro nelle campagne, e dopo l‟avvio delle politiche industriali dei primi anni

‟60, meglio conosciute come politiche dei “poli di sviluppo”.

Queste ultime, pur catalizzando in alcune specifiche aree investimenti ed occupazione,

hanno favorito l‟insorgere di solchi profondi tra domanda ed offerta di lavoro

favorendo, oltre che, come si è visto, l‟abbandono delle terre, in molti casi anche la fuga

dalle stesse aree metropolitane, in particolare da parte delle nuove generazioni. Come

hanno dimostrato diversi studi (Rosoli, 1977; Fabiani-Vellante, 1990; Reyneri, 1979;un

numero monografico della rivista Inchiesta, 1984) mentre la ricerca dell‟innovazione e i

primi effetti della scolarizzazione di massa incoraggiavano una modernizzazione

complessiva della struttura produttiva e producevano una quota significativamente più

alta di laureati e diplomati, di pari passo venivano a maturazione quei processi di

dualismo territoriale che si sarebbero tradotti spesso in nuove forme di disoccupazione e

malessere sociale.

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3.2 Alcuni riferimenti teorici

Fatta questa premessa è opportuno soffermarsi sulle caratteristiche degli spazi migratori

che, in quegli anni, sono andati a configurarsi. Innanzitutto è bene precisare il concetto

di spazio migratorio. Esso, secondo il geografo francese Simon (1978), permette di

individuare lo spazio relazionale tra gli emigrati e la loro regione di origine. In un certo

senso tende a superare un limite che ha caratterizzato gran parte delle ricerche

sociologiche, le quali fino al 1973 (inizio delle politiche di stop e delle nuove

immigrazioni nell‟Europa meridionale; cfr: Calvanese,1983) si occupavano

prevalentemente di studiare il rapporto degli immigrati con il paese nel quale

svolgevano la loro attività lavorativa. Sulla base di una ricerca sui lavoratori tunisini in

Francia, Simon costruisce uno schema interpretativo che punta a valorizzare un

particolare tipo di corrispondenza biunivoca tra le aree di origine e le aree di

immigrazione, che gli consente di individuare una coerenza o una continuità di

comportamenti relazionali, individuali o di gruppo, tra le comunità di partenza e di

arrivo. Nell‟ambito di una metodologia di indagine che fa riferimento alla teoria dello

spazio migratorio, lo studioso italo-belga Dassetto (1990) fa notare che esso si sostanzia

di pratiche di connessione: trasferimento di denaro, di beni, di saperi, di forze e di

persone. Queste pratiche cioè, consistono innanzitutto nelle attività attraverso le quali

si organizzano i rapporti tra le comunità all‟estero e le comunità di origine, non viste

come realtà statiche bensì in forte cambiamento. Attraverso le pratiche si definiscono

progressivamente non solo due spazi e due luoghi identitari, ma anche due tempi, quelli

precedenti e quelli che hanno seguito l‟emigrazione, che con le strategie di connessione

vanno sovrapposti. La studiosa portoghese Rocha Trindade (1990) evidenzia le modalità

della doppia appartenenza dei migranti, o meglio, della loro appartenenza multipla,

derivante dal fatto che soprattutto le società di accoglienza rappresentano il crogiuolo di

più culture. “A mano a mano che i periodi di permanenza si prolungano, che le

generazioni si moltiplicano, che dei mixage si producono tra persone di culture ed etnie

diverse, le comunità di origine perderanno il loro carattere straniero e le loro

appartenenze sfumeranno, ma non perderanno per questo la loro identità culturale: dei

sincretismi si saranno naturalmente stabiliti; le tracce delle culture di origine possono

essere meramente autentiche o fabbricate per circostanza, senza perdere pertanto il loro

valore simbolico di identificazione; la lingua di origine può diventare minoritaria in

seno al gruppo, ma con il tempo, in numero crescente i giovani (della seconda ma anche

della terza generazione) vorranno conoscerla almeno un poco.”

3.3. Le destinazioni e le modalità di sviluppo dell‟emigrazione campana

negli anni ‟50 e „60

Precisati i riferimenti teorici dell‟analisi che si andrà ad evidenziare, è a questo punto

necessario soffermarsi su quanto accade nell‟emigrazione campana, negli anni ‟50 e

‟60, quelli, come si è detto, di maggior sviluppo del fenomeno. Mentre come è noto,

negli anni ‟50, nell‟ ambito di un movimento complessivo rappresentato da 400 mila

espatri, si è registrato un equilibrio tra destinazioni europee e destinazioni

transoceaniche, negli anni ‟60, nell‟ambito di un movimento complessivo di 414 mila

espatri, vi è una netta prevalenza della destinazione europea: la cosiddetta emigrazione a

tempo e scopo definito (Reyneri, cit.), caratterizzata sia da progetti migratori meno

improvvisati, da parte dei migranti, sia dalla possibilità di prevedere ritorni dopo un

certo periodo di esperienza all‟estero, sia anche, in molti casi, da un forte turnover e/o

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rotazione all‟interno dei flussi di uscita e ritorno. Per quel che riguarda le destinazioni

europee, va evidenziato che, alla prevalente direttrice verso l‟Europa occidentale

(Francia, Gran Bretagna, Belgio) si sostituisce la prevalente direttrice verso l‟Europa

centrale, in particolare verso la Germania e la Svizzera. Per quel che riguarda le

destinazioni transoceaniche alla prevalente destinazione verso i paesi dell‟America

latina, viene preferita dagli emigranti campani la direttrice verso gli Stati Uniti, il

Canada e l‟Australia.

Inoltre, è bene sottolineare che, quegli anni, l‟arrivo nei paesi di emigrazione di

contingenti sempre più numerosi di lavoratori originari della Campania, non va riferito

unicamente ad un fenomeno di entrainement sociale, una sorta di reazione a catena che

si svilupperà a partire dall‟impulso dato nel corso del periodo precedente. Senza dubbio,

il gioco della solidarietà familiare e sociale, l‟efficacia delle filiere migratorie, agiscono

fortemente, permettendo il conservarsi di un senso ancora molto forte dei valori

tradizionali e imponendo all‟individuo la legge del gruppo al quale appartiene. In

diversi casi, osservando il comportamento dei migranti nei paesi di emigrazione, si

potranno individuare forme di resistenza spontanea ai tentativi di controllo del potere

amministrativo, al fine di preservare la propria identità e di ritardare l‟integrazione nel

paese ospite, in considerazione del fatto che tale esperienza non viene considerata

definitiva. Ma all‟interno degli spazi determinati dalle migrazioni, esisteranno anche

delle forze molto potenti che daranno impulso a questi movimenti.

Si tratta dei processi di integrazione economica e spaziale, che si manifestano attraverso

l‟intensificazione degli scambi commerciali, lo sviluppo del turismo internazionale e,

sul piano generale, a causa dell‟ineguaglianza dei rapporti fra i due partner, il paese di

arrivo-emigrazione e il paese di partenza, nel nostro caso – la Campania. Quest‟ultima,

all‟epoca si trovava situata in una posizione di inferiorità e di dipendenza, dovuta

all‟arretratezza della sua economia. Ciò vale innanzitutto per quel che riguarda le

destinazioni europee dove la nascita del Mercato Comune svilupperà un‟associazione

più stretta tra la Regione e lo spazio economico europeo, in particolare per quel che

riguarda tre ordini di fattori che eserciteranno una grande influenza sulla mobilità

esterna della popolazione campana: l‟intensificarsi delle relazioni commerciali, lo

sviluppo del turismo europeo nella regione, i progressi dei mezzi di trasporto.

Infatti il lavoro all‟estero contribuisce, in quegli anni, a rafforzare la dipendenza

commerciale, nella misura in cui si diffondono nella regione le tecniche, le abitudini di

consumo del paese di emigrazione e si determina, in seguito ad uno sviluppo della

domanda, un aumento delle importazioni provenienti dai paesi di emigrazione. Lo

sviluppo del turismo internazionale, principalmente europeo, rappresenterà uno dei

fattori di maggiore crescita dell‟economia campana a partire dagli anni ‟50, rafforzando

i legami tra la stessa regione e l‟Europa, favorendo l‟incremento dei flussi di

manodopera verso quei paesi e in particolare verso la Germania. Sul piano concreto, un

certo numero di giovani campani, riescono a trovare lavoro in Europa grazie ai nuovi

contatti con imprenditori che vengono a passare l‟estate nella regione.

Allo stesso modo, un nuovo sistema di trasporti legato alla crescita della rete

autostradale e ferroviaria italiana, così come l‟aumento significativo del trasporto aereo

faciliterà la mobilità delle persone e renderà meno traumatico l‟esodo. Inoltre, per quel

che riguarda le migrazioni transoceaniche, il traffico marittimo verso i paesi di oltre

Oceano verrà progressivamente sostituito dal trasporto aereo.

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3.4. La percezione delle disparità economiche fra la regione e i paesi di

emigrazione.

La letteratura delle migrazioni (cfr: Reyneri cit. ed altri) ha messo in evidenza come i

differenti processi di integrazione spaziale, sviluppino relazioni tra spazi economici in

cui i livelli di sviluppo sono profondamente differenti. L‟ineguaglianza della situazione,

e la sua percezione da parte della popolazione locale, nel nostro caso la popolazione

campana, come si vedrà, costituiscono uno dei fattori di maggiore incidenza nella

dinamica del movimento migratorio.

3.4.1 Espansione dell‟economia europea e appello alla manodopera straniera.

Dalla seconda metà degli anni ‟50 fino alla crisi petrolifera del 1973 l‟economia

dell‟Europa centro-settentrionale (e in generale dei paesi più industrializzati del mondo)

persegue la sua espansione ad un ritmo particolarmente sostenuto: del 5-6% all‟anno.

Lo spazio degli stessi paesi conosce una grande mutazione, testimoniata dall‟apertura di

nuove autostrade, dalla costruzione di porti ed aeroporti, dalla creazione di notevoli

complessi industriali e infine dal lancio di grandi programmi di sviluppo urbano. Questa

trasformazione profonda dei paesaggi e delle strutture produttive si realizza grazie ad

una partecipazione importante della manodopera straniera, italiana, meridionale e

campana. L‟utilizzazione crescente di questa manodopera costituisce una delle

caratteristiche dell‟evoluzione dei mercati del lavoro negli stati più industrializzati. Gli

Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svezia, i Paesi Bassi, il Belgio, la Germania Federale,

non possono in alcun modo privarsi dei servizi di questi lavoratori, la cui importanza

nella popolazione attiva è compresa tra il 5% e il 22% (la Svizzera). La domanda di

forza lavoro corrisponde alla necessità di soddisfare bisogni quantitativi e qualitativi.

Infatti malgrado l‟arrivo sul mercato del lavoro dei paesi più industrializzati di una

nuova leva di giovani nazionali, in seguito alla ripresa demografica, e nonostante

l‟accresciuto ruolo delle donne nell‟attività economica, il peso degli inattivi sulla

popolazione attiva non cessa di aumentare: in media (negli stessi paesi) per 100 attivi se

ne contano 127 inattivi nel 1954, 147 nel 1962, 151 nel 1961 e 154 nel 1971 (Maillard,

1968). Diversi fattori sono responsabili di questa evoluzione: il prolungamento della

scolarità, l‟abbassamento dell‟età pensionistica e soprattutto l‟aumento della speranza di

vita. In queste condizioni l‟arrivo di una popolazione adulta, il cui costo economico e

sociale, nell‟età formativa, non ricade sulle diverse collettività dei paesi di

immigrazione, permette di compensare lo squilibrio crescente nel rapporto tra attivi e

inattivi, rispondendo ai bisogni di un‟economia in piena espansione. Si calcola infatti

che un terzo dei nuovi impieghi creati in quegli anni, nei paesi più industrializzati, sia

stato occupato dagli stranieri. Contemporaneamente il movimento di richiamo di nuovi

lavoratori si amplifica in relazione ai mutamenti che avvengono all‟interno dei vari

mercati del lavoro nazionali, in funzione del rapporto fra l‟individuo e il lavoro. I

lavoratori dei paesi più industrializzati abbandonano agli immigrati alcuni impieghi

manuali più faticosi, pericolosi, (si ricordi a tal proposito la tragedia – tutta italiana – di

Marcinelle in Belgio), o a carattere ripetitivo. Inoltre l‟affermarsi nelle società

occidentali di un sistema di valori che accorda una crescente importanza alle capacità

tecniche e intellettuali rispetto ai lavori manuali, non sostituiti dalla meccanizzazione,

determina un fenomeno di forte riduzione della considerazione sociale di quei lavori,

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che gioca un ruolo altrettanto importante, per quel che riguarda la disaffezione dagli

stessi da parte dei lavoratori nazionali, rispetto ai limiti delle remunerazioni ad essi

corrispondenti. Pertanto il movimento di sostituzione della manodopera immigrata ai

lavoratori nazionali trova terreno fertile nella specificità dell‟impiego riservato agli

stranieri e il suo carattere strutturale si manifesta in seno all‟economia di quei paesi

nella ripartizione per categorie socio-professionali: negli anni di riferimento, infatti,

circa i 3/4 degli immigrati in Europa occidentale sono operai, in particolare nelle

costruzioni e nell‟industria,, mentre solo 1/3 dei lavoratori nazionali sono impegnati in

attività riferibili alla condizione operaia. Inizia in tale periodo lo sviluppo del cosiddetto

doppio mercato del lavoro (Berger-Piore, 1992), l‟uno accessibile ai nazionali,

caratterizzato da una forte attrazione del settore terziario e da una certa mobilità

professionale e sociale, l‟altro riservato, o più esattamente abbandonato ai lavoratori

stranieri, che caratterizzerà profondamente negli anni più recenti i mercati del lavoro dei

paesi più ricchi.

E‟ a partire dal consolidarsi di questo fenomeno dualistico, e in riferimento ad

all‟evoluzione del movimento migratorio, con le connotazioni già descritte, che nel

corso degli anni, secondo i Ministeri del Lavoro di tutti i paesi dell‟Europa occidentale

(Simon, cit.) si assisterà al decrescente progressivo peso dell‟immigrazione italiana in

Europa, dovuto in parte allo sviluppo occupazionale che conosce l‟Italia nello stesso

periodo, in parte al ruolo sostitutivo svolto dalle migrazioni interne, in seguito all‟

allineamento dell‟economia dell‟Italia settentrionale con le economie europee più

sviluppate. Di conseguenza anche l‟emigrazione campana subirà un ridimensionamento,

in parte dovuto anche al fatto che l‟esperienza migratoria appare meno desiderabile e

con minori prospettive di promozione sociale.

3.4.2 Debolezza dell‟economia meridionale e campana e squilibri del mercato

del lavoro.

Malgrado l‟apparizione di alcuni segnali di crescita economica, il Mezzogiorno d‟Italia

e la Campania negli anni ‟50 e ‟60, restano un‟area di sottosviluppo. Ne consegue che la

mediocrità delle condizioni di vita, la precarietà degli impieghi, la povertà dei modelli

di vita sono visibili dappertutto. La vita quotidiana è difficile nei quartieri popolari delle

città e nella maggior parte delle zone rurali, come è testimoniato dalla diffusione dei

piccoli mestieri, dalla debolezza dei salari, dal sovrappopolamento e dal degrado delle

abitazioni nei vecchi insediamenti, pur in corrispondenza di un miglioramento dei

servizi collettivi (scuola, salute, trasporti), in particolare a partire dalla seconda metà

degli anni ‟60. Contemporaneamente i bassi tassi di attività e la larga diffusione del

sotto impiego (e di conseguenza la sotto-utilizzazione delle capacità lavorative), di

particolare rilevanza nelle aree meridionali, si scontrano con le nuove aspirazioni dei

giovani in materia di ricerca dell‟impiego (Pugliese,2002).

Il problema non è solamente di ordine quantitativo, è anche di tipo qualitativo. In effetti

la grande maggioranza dei giovani che si presentano sul mercato del lavoro, sono usciti

dalla scolarizzazione di massa e sono interessati ai modelli culturali delle società più

sviluppate. Si allontanano pertanto dai mestieri tradizionali e dalle campagne, aspirano

ad impieghi a tempo indeterminato (il cosiddetto posto fisso), a dei livelli di

remunerazione che l‟economia locale non può offrire loro, soprattutto nelle aree rurali.

La capacità attrattiva del lavoro lontano dai paesi di origine li accomuna: infatti essa è

sentita sia da coloro che sono stati eliminati dal sistema scolastico, sia da coloro che

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sono in qualche modo usciti da esperienze formative. Con alcune differenze al loro

interno: una maggiore predisposizione all‟emigrazione da parte dei giovani originari

delle zone rurali del Mezzogiorno e della Campania (come è ben descritto nel capitolo

curato in questo rapporto da Sabatino), una partecipazione attiva alla vita delle realtà

urbane (si veda al riguardo la capacità attrattiva esercitata dalle città di Napoli e di

Salerno: Sabatino, cit.).

3.4.3 Le implicazioni derivanti dal mutamento sociale

La difficile corrispondenza tra le aspirazioni suscitate dall‟evoluzione socio-culturale

della popolazione e le possibilità reali dell‟economia locale, gioca un ruolo attivo nella

crescita dei flussi di manodopera in direzione delle società più sviluppate. Se pure

l‟acquisizione di un diploma o anche il possesso di un piccolo bagaglio scolastico

permette a un certo numero di giovani di ottenere un impiego nei servizi e talvolta di

esercitare una funzione, per quanto modesta,nel settore amministrativo, ciò non appare

sufficiente. Il lavoro all‟estero appare per molti come la sola possibilità, tanto più che si

è fatta strada, come si è detto, ai fini della promozione sociale, una maggiore

importanza data al denaro e alla ricchezza rispetto ai tradizionali valori legati al

prestigio familiare e professionale. Una volontà di autonomia e anche di indipendenza

(Piselli, 1981) caratterizza molti giovani celibi e scolarizzati, ma anche le aspettative

delle nuove coppie, che si presentano sul mercato del lavoro e che intraprendono un

nuovo percorso di promozione sociale. L‟emigrazione delle donne, che accompagnano

il marito nell‟esperienza migratoria o che lo raggiungono qualche anno dopo, ha i tratti

della stessa aspirazione: essa simboleggia in qualche modo il passaggio dalla grande

famiglia, tipica soprattutto delle aree rurali, al ménage coniugale.

Infine, il lavoro all‟estero, in considerazione dei risparmi che si suppone di realizzare e

malgrado i prevedibili sacrifici che essa comporta, appare come una delle principali

possibilità di raggiungere rapidamente un livello di vita sufficiente, di modernizzare le

abitazioni, di soddisfare le aspirazioni. Di tutti i fattori socio-culturali, sicuramente, la

generalizzazione dell‟istruzione è quello la cui influenza incide maggiormente

sull‟accelerazione dei flussi di partenza verso i paesi europei, verso gli Stati Uniti ma

anche verso l‟Italia settentrionale. Molto sensibile ai modelli di vita occidentali, la

gioventù scolarizzata è tanto più attirata da tali realtà quanto più sono le difficoltà

crescenti che incontra a collocarsi in posizione accettabile sul mercato del lavoro locale.

Infatti, diversamente da un‟opinione largamente diffusa, la partenza per l‟estero non

riguarda solo i disoccupati. Come dimostrano diverse ricerche (cfr.Lapeyronnie, 1990;

Cordeiro, 1990; Maehrlaender, 1990) questa categoria non rappresenta la maggioranza

dell‟insieme degli immigrati presenti nei grandi paesi di immigrazione. Per quel che

riguarda gli emigrati provenienti dalla Campania, un analogo riscontro si è avuto in una

ricerca tra i nostri corregionali presenti in Argentina e in Uruguay, curata dall‟estensore

di questo testo (Calvanese, 1992) La preponderanza di lavoratori provvisti di un‟attività

permanente in Campania, che appariva a prima vista, come un dato sorprendente, va

riferita alla combinazione di più fattori: a) di natura economica, perché esiste una soglia

di povertà che non permette di affrontare le spese della prima fase dell‟esperienza

migratoria; b) di natura professionale, perché permette a chi è provvisto di una qualche

qualifica di aspirare a remunerazioni comparativamente più gratificanti rispetto al paese

di origine; c) di natura culturale, perché viene vista, in particolare dalle donne, come

una grande chance di emancipazione dai tradizionali vincoli della società di origine.

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3.5. Uno spazio di vita organizzato

L‟attaccamento dei lavoratori campani alla famiglia e ai paesi di origine, la loro

appartenenza a un sistema socio-culturale solido malgrado i rischi di perdita della loro

identità culturale derivanti dall‟emigrazione, i ritorni – specie dai paesi europei –

abbastanza frequenti in Campania, hanno permesso il mantenimento di una solida rete

di legami umani, in aggiunta alle relazioni economiche rese più stabili in seguito al

trasferimento di manodopera. Tre fattori, a diversi livelli di importanza, hanno

contribuito a unificare e organizzare lo spazio umano costituitosi tra aree di partenza e

aree di arrivo dei nostri migranti:

- la ricostituzione parziale della comunità italiana e della comunità regionale

all‟interno dei paesi di immigrazione;

- il mantenimento delle relazioni familiari, soprattutto nel quadro delle migrazioni

temporanee;

- l‟inquadramento della popolazione emigrata dalla nostra regione dentro un sistema

sempre più stretto di rapporti organizzati dai consolati, dalle associazioni o da altre

forme di partecipazione, in qualche modo legate all‟Italia.

3.5.1 Inserimento e ricostituzione della comunità campana nelle grandi città dei

paesi di emigrazione

La grande città costituisce il luogo per eccellenza di radicamento dei campani nei paesi

di emigrazione, sia in Europa sia nei paesi di oltre Oceano: così Buenos Aires, S.Paolo,

Caracas, Montevideo, le grandi città degli Stati Uniti, del Canada, dell‟Australia e di

tutta l‟Europa centro-occidentale, si riempiono di nostri corregionali. Sono

evidentemente predominanti i fattori economici nella scelta di concentrarsi nelle aree

più urbanizzate; ma bisogna tenere conto anche di una certa predisposizione culturale a

questo tipo di inserimento. La maggioranza dei lavoratori campani/italiani, infatti, anche

quando provengono da aree rurali, hanno una certa pratica della vita di città o per lo

meno hanno esperienza del rapporto città-campagna. Inoltre la rapida capacità di

apprendimento della lingua locale, in molti casi superiore a quella degli immigrati di

altre nazionalità, permette loro di integrarsi nell‟universo complesso delle grandi

metropoli. Infine, sul piano della percezione dello spazio, questa popolazione ha

un‟immagine molto forte della città, secondo un‟immagine che deriva dal sistema

urbano campano/italiano.

Questo tipo di inserimento all‟interno dello spazio urbano, spesso si organizza con la

ricostituzione spontanea della comunità di origine in alcune zone o quartieri, e

raramente si trasforma in segregazione sociale nei paesi di accoglienza. A tale proposito

si possono individuare, a seconda dei paesi di emigrazione, diversi tipi di localizzazione

e di situazioni urbane: i quartieri centrali, le vecchie aree industriali e urbane, le aree più

marginali e le periferie. I quartieri centrali rappresentano la scelta privilegiata dei

campani/italiani. Ad esempio a Buenos Aires e a Marsiglia circa la metà dei campani

opta per questa soluzione (Calvanese, cit.). Ciò deriva dalla ricerca di una maggiore

vicinanza ai luoghi di lavoro, dalla vicinanza alle strutture di servizio (uffici ecc.) e del

tempo libero (migliore qualità della vita, ecc), ma anche dal desiderio di ritrovare i

propri corregionali/connazionali e di ricreare la comunità culturale di origine.

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L‟opzione verso i quartieri periferici invece, si sviluppa soprattutto in seguito ai

ricongiungimenti familiari, quando i costi per il mantenimento di tutta la famiglia

riunita diventano più alti. Come diversi studi sociologici (Maehrlaender, cit.) hanno

dimostrato questa scelta comporta anche problemi di integrazione sociale, non esistendo

adeguate politiche urbane nei confronti dell‟immigrazione ed esistendo una forte

dispersione dei poteri fra numerosi attori: lo stato, le municipalità, le organizzazioni

associate di imprenditori e di lavoratori, le associazioni private. Ciascuna di queste

istanze, infatti, ha una propria politica, che raramente si armonizza con quella di altri

organismi responsabili.

3.5.2 Il sistema delle relazioni familiari con il paese di origine

A mano a mano che il sistema di vita comunitaria si è sviluppato nei paesi di

emigrazione, i legami familiari hanno formato l‟elemento essenziale e il pilastro delle

relazioni umane fra i campani/italiani e i paesi di origine. E‟ ad esempio questo il caso

degli uomini sposati ancora lontani dalle loro mogli e dai loro figli. Questa situazione,

comune a tutti i paesi esportatori di manodopera, dove le strutture familiari avevano una

grande coesione, esplicita la solidarietà del gruppo familiare nell‟evoluzione del

movimento migratorio, l‟intensa circolazione umana che portava periodicamente i

lavoratori emigrati nelle realtà di origine, il ruolo essenziale del trasferimento di danaro,

delle rimesse, nell‟economia domestica. Si può affermare infatti, che a seconda della

situazione familiare dei migranti varia anche l‟intensità dei legami familiari. Come è

noto, nella maggior parte dei casi sono partiti per l‟estero i giovani celibi, e nei primi

anni dell‟esperienza migratoria, il loro ruolo è prevalente all‟interno del flusso

campano/italiano.

Tuttavia nonostante che per essi l‟emigrazione fosse anche conseguenza della ricerca di

emancipazione dalla propria famiglia e dal loro gruppo sociale, molti hanno sviluppato

legami con il proprio nucleo familiare, anche se meno stretti rispetto agli uomini

sposati, che hanno lasciato moglie e figli in Campania. In alcuni casi inoltre,

l‟emigrazione ha favorito la realizzazione di progetti matrimoniali, permettendo ai

lavoratori di accumulare il denaro per le spese della cerimonia e per il mantenimento

della coppia. Infine, l‟invio delle rimesse ha permesso al marito di assicurare alla

moglie un reddito stabile, spesso superiore a quello medio del paese di origine e di

soddisfare così ai suoi obblighi materiali, sia nei riguardi della famiglia sia verso il

gruppo sociale di appartenenza. Va comunque fatto presente che ragioni sociologiche,

più che economiche o materiali, spiegano la separazione temporanea della coppia. Agli

occhi del marito, le preoccupazioni morali e culturali sono il principale motivo che

impedisce e/o ritarda il ricongiungimento familiare.

I timori più frequentemente avvertiti dai migranti riguardano l‟impatto con società di

accoglienza, in cui è forte la contaminatio multiculturale, che potrebbe mettere in

discussione i valori consolidati della propria comunità di origine, o anche, specie per

quel che riguarda l‟Europa, una certa critica al degrado dei costumi che caratterizza le

società occidentali più sviluppate. Ha pesato anche, all‟epoca, un certo pregiudizio

maschilista, che considerava una minaccia per la predominanza maschile, tipica dei

paesi di origine, il trasferimento in realtà sociali nelle quali erano più avvertite le istanze

di parità fra i sessi. Le donne invece, prima di considerare le possibilità di emigrare,

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hanno spesso temuto la paura dell‟isolamento, dell‟allontanamento dalla comunità

femminile familiare e/o del paese. Si temeva poi che i bambini, introdotti nel sistema

scolastico dei paesi ospiti, perdessero completamente la pratica della lingua italiana e

finissero per dimenticare i legami verso la comunità di origine: inoltre, almeno fino a

quando la scelta migratoria non veniva ad assumere carattere definitivo, il ritorno in

patria veniva visto problematico sia per il reinserimento scolastico sia verso future

possibilità lavorative. Sul piano economico, i prevalenti timori riguardavano la non

chiarezza delle prospettive, l‟insufficiente reddito che permetteva il mantenimento della

famiglia nel paese di origine, ma si considerava come non soddisfacente per le esigenze

della famiglia nel paese di emigrazione, e, in diversi casi l‟adesione ad un progetto

migratorio temporaneo, che rendeva sopportabile in qualche modo la separazione. Non

a caso, per le ragioni sopra esposte, tale caratterizzazione ha riguardato prevalentemente

la componente più debole dell‟emigrazione, quella meridionale e al suo interno quella

campana (Calvanese, cit.).

Quanto sinora descritto ha evidenziato come i ritardi che hanno condizionato in qualche

modo l‟evoluzione del progetto migratorio dei campani abbiano fatto da freno ai

ricongiungimenti familiari, pur non impedendone, nel corso degli anni, secondo tempi e

modalità caratterizzati da una certa gradualità, la loro realizzazione. In diversi casi la

scelta definitiva di restare, si è anche espressa con il ricorso a matrimoni misti con

donne conosciute nello stesso paese di emigrazione, considerati anche come una

possibilità di più facile integrazione nella società ospite.

3.5.3 La solidarietà all‟interno del gruppo familiare

Presa in considerazione la diversità delle situazioni matrimoniali, va fatto rilevare che la

solidarietà familiare si è esercitata in un doppio quadro familiare, quello della propria

famiglia e quello del gruppo familiare più esteso. Naturalmente all‟interno della propria

famiglia si è sviluppato un più ampio campo di relazioni. La propria famiglia ha

compreso non solo la coppia e i figli, ma anche i parenti diretti. Infatti, le relazioni

familiari fra paese di partenza e paese di arrivo si sono espresse prevalentemente con:

- l‟emigrazione di altri componenti attivi della famiglia (fratelli, cugini ecc). Da ciò

si può dedurre come la famiglia abbia giocato un ruolo essenziale nell‟attivazione

delle catene migratorie;

- il ricongiungimento delle coppie nel paese di emigrazione;

- la partecipazione al reddito familiare della famiglia restata in Campania. Questa

assistenza materiale della famiglia è stato evidentemente il principale motore dei

flussi finanziari diretti verso la regione.

Il ruolo della solidarietà familiare è stato ugualmente significativo, anche se più debole,

in riferimento al gruppo familiare esteso, cioè la grande famiglia fondata sulla comune

appartenenza ad un‟antica comunità. Le relazioni sono state organizzate grazie

all‟attivazione di una rete di servizi tra il luogo di partenza e il luogo di arrivo: scambio

di notizie e informazioni, ricerca del lavoro, compartecipazione a problemi di

disoccupazione e di malattia, e talvolta anche alle spese per il ritorno. A tale proposito

va rilevato che il sistema dei legami familiari è stato più largo e incisivo nelle antiche

comunità rurali che hanno preservato la loro coesione, piuttosto che nelle grandi città,

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dove ha prevalso una certa dispersione, o anche nelle campagne destrutturate in seguito

alla Riforma agraria e all‟esodo rurale.

Due tipi di flusso esprimono meglio la solidarietà familiare esercitata fra i due poli dello

spazio migratorio:

- il ritorno periodico della popolazione migrante;

- il trasferimento delle rimesse.

Infatti, il movimento di ritorno periodico in Campania, è stata la manifestazione più

visibile dei legami che hanno unito i corregionali espatriati con i luoghi di origine.

Ovviamente tale movimento è stato più sensibile per quel che ha riguardato

l‟emigrazione in Europa. Diverse ricerche (Musillo, 1981) hanno mostrato come circa

due terzi dei campani adulti sono rientrati quasi ogni anno dai paesi europei. Questo

dato è superiore a quello dell‟insieme degli emigrati italiani. Come è noto, tale pratica si

è realizzata soprattutto in estate e durante le feste natalizie e pasquali. Le visite ai

parenti e a tutta la famiglia, agli amici, hanno animato i paesi degli emigranti,

determinato una circolazione intensa di automobili e riacceso la vita di quei paesi.

Spesso si è approfittato di tali periodi di vacanza per realizzare o fare avanzare un

progetto di ritorno definitivo: l‟acquisto di un terreno, la costruzione o il miglioramento

di una casa, ne sono state le testimonianze più visibili. Alcuni hanno anche svolto

piccoli lavori, altri hanno affollato i caffè in piazza, altri hanno portato le famiglie in

vacanza lungo le coste della Regione. I giovani celibi hanno sviluppato relazioni con le

ragazze locali, e anche fatto conoscenza delle turiste straniere.

Questo periodo di ritorno periodico ha evidenziato senza dubbio, l‟attaccamento degli

emigrati verso la propria famiglia e i propri paesi di origine. Esso costituisce pertanto il

momento più importante, sul piano affettivo, dello spazio-tempo migratorio. In seguito,

con il passare degli anni e con la definizione dei progetti migratori degli emigrati e la

conseguente stabilizzazione nei paesi di origine tale fenomeno ha subito una riduzione,

che ha inciso sui tempi di soggiorno nel paese di origine, senza tuttavia scomparire. Un

altro fattore che ha provocato la diminuzione dei ritorni temporanei è stato senz‟altro il

timore della perdita del posto di lavoro, a causa delle difficoltà economiche e dei

processi di ristrutturazione produttiva, che hanno spesso coinvolto diversi paesi europei

negli anni settanta.

3.5.4 La circolazione finanziaria vitale per l‟economia domestica

I trasferimenti delle rimesse hanno rappresentato un elemento meno visibile in

confronto ai ritorni periodici. Tuttavia il carattere vitale dell‟invio dei risparmi è

apparso con forza nei primi studi sulle aree meridionali di esodo (Boccella, 1977),

talvolta rappresentate in termini di vera e propria dipendenza. E‟ stata messa in evidenza

anche l‟estrema sensibilità di questo spazio sociale (paese di partenza-paese di arrivo) in

riferimento a qualsiasi perturbazione del sistema economico, come ad esempio in

coincidenza con i periodi di crisi economica che hanno coinvolto i paesi di

immigrazione.

Nella prima fase dell‟esperienza migratoria circa i due terzi dei lavoratori

campani/meridionali emigrati nei paesi europei ha trasferito risparmi alle famiglie

(Calvanese,cit). Questo dato non va sottovalutato perché, ad esempio, secondo

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un‟inchiesta F.N.S.P. (1975) in Francia, nel periodo considerato, si poteva rilevare che

gli italiani e gli spagnoli erano tra coloro che inviavano il flusso più basso di risorse nei

paesi di origine (in media 3.089 F all‟anno gli italiani e 4.822 F gli spagnoli. Va

comunque tenuto presente che l‟emigrazione in Francia, di più antica data, aveva già

subito processi di maturazione e assunto carattere permanente, influenzando così il

trasferimento di danaro, visto che bisognava provvedere al mantenimento della famiglia

in loco.

Il ritorno del risparmio è stato effettuato secondo diverse modalità:

- per via postale: il mandato che l‟emigrato ha trasferito nel paese di origine, è stato

percepito, in sede locale, come simbolo del legame finanziario che ha unito

l‟emigrato alla famiglia;

- attraverso il canale bancario: di uso più recente;

- altri trasferimenti visibili e invisibili: ad esempio i depositi effettuati durante i

periodi di periodico ritorno, il trasferimento di beni, le spese effettuate direttamente

nei paesi di origine.

Da quanto esposto, si può dedurre che il risparmio migratorio reale sia stato superiore

alle valutazioni ufficiali.

Inoltre, sulla base di indagini (Reyneri, cit.) che hanno misurato la quantità di tali

risparmi nell‟ordine di 30 milioni di lire per ogni emigrante, in seguito ad esperienze di

lavoro nei paesi europei a tempo e scopo definito (tra i 5 e i 10 anni), è emerso che

mentre le rimesse hanno avuto un ruolo essenziale nel sostegno all‟economia familiare,

non altrettanto è accaduto in merito ad una loro destinazione finalizzata alla

realizzazione di investimenti produttivi, limitandosi spesso a favorire soltanto la

costruzione e/o la modernizzazione dell‟abitazione dell‟emigrato, e nella maggior parte

dei casi, solo quando si era fatta strada la decisione di un ritorno definitivo.

3.6. Uno spazio di relazioni vissuto con difficoltà

L‟analisi fin qui svolta ha dimostrato che la solidarietà economica realizzata tra paese di

partenza e paese di arrivo, l‟attaccamento degli emigrati alle loro famiglie e i loro ritorni

periodici, come anche la conservazione dei legami culturali, abbiano fatto sì che lo

spazio praticato dai lavoratori campani all‟estero divenisse prevalentemente uno spazio

di relazioni. Infatti, l‟insieme del sistema relazionale sviluppato dagli emigrati, con il

concorso anche di un articolato sistema consolare e associativo, ha in qualche modo

favorito la coesione e l‟unità di questo spazio migratorio, lo scambio sociale, associando

aree separate geograficamente, con differenti livelli di sviluppo e appartenenti a culture

diverse.

L‟unità di tali spazi relazionali è stata una realtà effettivamente percepita e vissuta dagli

emigrati. Ma questo spazio di relazioni ha imposto a coloro che l‟hanno animato e

praticato un‟esistenza difficile, contraddittoria, perché poco condivisa e dichiarata. La

doppia appartenenza ha pesato e non poco. Per meglio chiarire il concetto, può essere

citato a titolo di esempio, il caso riguardante le origini del tango argentino. Secondo il

napoletano Discepolo, uno dei suoi più noti inventori, il tango può essere definito “un

pensiero triste che si balla”. Cioè esso realizza l‟incontro tra la cultura del gaucho della

Pampa e la tristezza dell‟emigrante.

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Questo semplice e suggestivo esempio mostra più di ogni approfondita analisi, quanto

complesso e faticoso sia stato il cammino dell‟integrazione nelle società di accoglienza,

almeno per gli emigrati di 1a generazione.

In sintesi: la rottura della vita affettiva e sociale ha richiesto agli emigrati un grande

sforzo di adattamento, ed ha qualche modo reso necessaria la valorizzazione del gruppo

di appartenenza, che, nella maggior parte dei casi, ha ricostituito nell‟anonimato e

nell‟indifferenza delle metropoli di arrivo il quadro spaziale e temporale di cui

l‟emigrato aveva bisogno.

3.7. L‟emigrazione negli anni ‟70 e „80

3.7.1 Premessa

Nei due decenni successivi all‟analisi fin qui svolta, cioè negli anni ‟70 e ‟80, le

migrazioni intraeuropee e le tradizionali migrazioni tra la Campania e i paesi di oltre

Oceano hanno registrato una sensibile diminuzione dei flussi, alla quale si è

accompagnata la progressiva stabilizzazione dei nostri corregionali nei paesi di arrivo.

Di conseguenza la letteratura dell‟emigrazione, occupatasi in precedenza soprattutto dei

lavoratori immigrati, ha rivolto il suo principale interesse alle problematiche riguardanti

l‟immigrazione di tipo stanziale. Essa, inoltre, per quanto abbia analizzato diversi

modelli di inserimento nelle società locali, ha posto al centro del dibattito alcune

questioni:

a) l‟integrazione residenziale e professionale;

b) la partecipazione alle società locali;

c) le politiche specifiche e le politiche del diritto comune, in grado di favorire

l‟integrazione locale.

Contemporaneamente il principale protagonista degli studi sulla vicenda migratoria non

è stato più soltanto l‟immigrato prevalentemente celibe, operaio e lavoratore, bensì si è

assistito ad uno spostamento di interesse verso l‟intera comunità immigrata, e al suo

interno verso le problematiche coinvolgenti in particolare i giovani di 2° e 3°

generazione e le donne. Inoltre, nei paesi di immigrazione è stata dedicata una

particolare attenzione alle strategie di valorizzazione delle risorse etniche all‟interno

dei processi di integrazione. In Italia, al contrario, la tematica migratoria è stata studiata

soprattutto dal punto di vista della società di partenza, e in seguito al boom dei ritorni,

dalla seconda metà degli anni ‟70 in poi, in riferimento alle politiche di reinserimento

degli emigrati rientrati. Si avverte ancor oggi l‟assenza o per lo meno l‟episodicità degli

studi sulle nostre comunità all‟estero. Tale carenza è ancora più marcata quando la

riferiamo alle comunità regionali, nonostante il loro emergere negli anni più recenti,

come vedremo, sulla scena politica e culturale. Pertanto, alcune dei risultati emersi

nell‟insieme della ricerca Filef, possono contribuire a fare un passo in avanti in tale

direzione.

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3.7.2 Gli aspetti quantitativi del fenomeno migratorio

Nel periodo 1971-1988 (data di confine per l‟utilizzo dei tradizionali strumenti di

rilevazione statistica), come è noto, si è registrato un andamento decrescente dell‟intero

movimento migratorio italiano, passato da circa 300 mila persone all‟anno a circa 100

mila persone all‟anno. E‟ proseguita cioè una tendenza manifestatasi dal 1967 in poi,

che dalla seconda metà degli anni ‟70 ha visto il movimento migratorio stabilizzarsi su

valori sostanzialmente poco variabili da un anno all‟altro (Birindelli, 1988).

A partire dal 1973, inoltre, i saldi migratori espressi in funzione della mobilità

complessiva (espatri+rimpatri), hanno teso a compensarsi, sia in ambito europeo, dove

ovviamente ha giocato un ruolo non secondario una qualche forma di turnover dei

migranti, sia in riferimento alle migrazioni extraeuropee. Questo generale equilibrio tra

espatri e rimpatri è durato per tutti gli anni ottanta, con un‟incidenza nettamente

superiore (per i 3/4) dei flussi intraeuropei. Va comunque fatto rilevare che le tendenze

manifestatesi nelle migrazioni extraeuropee hanno presentato alcune differenze. Si è

infatti maggiormente consolidata l‟area di destinazione dell‟Australia al punto che

l‟emigrazione italiana in quel paese, a partire dagli anni ‟80 è diventata più consistente,

in termini assoluti di quella nell‟America del Nord (CNEL,1992), mentre le gravi crisi

economiche che hanno coinvolto i paesi dell‟America Latina hanno dato ulteriore

incremento ai ritorni.

In tale contesto il flusso migratorio che ha interessato la Campania ha nella maggior

parte dei casi seguito l‟andamento nazionale, e in particolare, si è uniformato a quella

più generale tendenza che ha visto dal 1975 in poi, il saldo migratorio diventare

positivo, e su valori modesti, anche nella nostra regione. Dai dati pubblicati dal

Ministero degli Affari esteri sulle comunità italiane all‟estero (1988), disaggregati per

regioni, a(con la sola eccezione, per problemi di rilevazione statistica, dei dati relativi

all‟America del Nord), si è potuto rilevare che la consistenza dell‟emigrazione campana

(rappresentata da coloro che erano in possesso della cittadinanza italiana) raggiungeva

la cifra di 400 mila persone, corrispondente al 7% dell‟intera comunità italiana.

S‟intende che tale cifra non comprende gli originari della Campania presenti nei paesi di

emigrazione, che hanno ormai acquisito la cittadinanza dei paesi di residenza e che non

sono neppure in possesso della doppia cittadinanza. Da un esame della loro

distribuzione per grandi aree, risulta un sostanziale equilibrio tra quanti si trovavano

all‟epoca nei paesi europei e quanti invece erano presenti nei paesi dell‟America Latina.

A tale proposito, va sottolineato, che è questa una specificità dell‟emigrazione

meridionale, visto che per quanto riguarda l‟Italia nel suo complesso, già all‟epoca si

osservava una più marcata della presenza nell‟area europea.

Quanto da tale specificità si possa risalire ad una caratterizzazione più tradizionale

dell‟emigrazione meridionale, di più antica data e con una forte incidenza dei gruppi

familiari, è ancor oggi argomento tutto da approfondire. Proseguendo nell‟analisi dei

dati, si può anche rilevare che, in valori percentuali, l‟emigrazione campana in

Australia, per quanto di origine più recente, negli anni „80 raggiunge gli stessi livelli di

quella residente in Europa e in America latina, collocandosi percentualmente intorno al

7% dell‟insieme dell‟emigrazione italiana. Diversamente le nuove destinazioni asiatiche

e africane, che rappresentano le mete della cosiddetta emigrazione tecnologica, al

seguito delle imprese o conseguenti alle politiche di cooperazione con i paesi in via di

sviluppo, sono ancora tra le meno preferite dai campani.

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Entrando più nel dettaglio, si osserva che, mentre per quel che riguarda l‟Europa la più

folta comunità campana è presente in Germania (57.890 persone) in America Latina si

registra una sostanziale parità tra le comunità campane in Brasile (52.051) e in

Argentina(52.028). Calcolando l‟entità dell‟emigrazione campana rispetto all‟insieme

dell‟emigrazione meridionale e all‟insieme dell‟emigrazione campana, emergono altre

interessanti indicazioni. La prima riguarda il fatto che in valori percentuali, il primato

spetta alla comunità campana presente in Gran Bretagna, corrispondente al 48,52 %

dell‟emigrazione meridionale e al 12,26% dell‟emigrazione italiana.

Mentre in America Latina tale primato viene diviso tra la comunità campana residente

in Venezuela (il 35,945 dell‟emigrazione meridionale) e la comunità campana residente

in Brasile (il 14,69% dell‟emigrazione italiana). In verità una percentuale più alta viene

raggiunta, nel periodo di riferimento, dalla comunità campana residente in Colombia (il

38,83% dell‟emigrazione meridionale e il 10,98% dell‟emigrazione italiana), ma tali

cifre non hanno grande rilevanza, visto che in valori assoluti sono solo 9.293 gli italiani

presenti in quel paese.

Come si può dedurre da quanto già detto in merito alla distribuzione dell‟emigrazione

campana nelle principali aree di residenza, la sua presenza, nel periodo considerato, si

attesta su valori leggermente superiori in America Latina, rispetto alla stessa Europa.

Infatti in valori percentuali, l‟emigrazione campana in Europa rappresenta il 6,63%

dell‟emigrazione italiana e il 21,50% dell‟emigrazione meridionale, mentre in America

Latina raggiunge il 7,71% dell‟emigrazione italiana e il 20,35% dell‟emigrazione

meridionale.

Tali valori sono superati, oltre che, come si è visto, in Gran Bretagna, anche in

Germania (rispettivamente il 10,63% e 23,18%9) e in Grecia(8,23% e 34,25%). Ma in

quest‟ultimo paese, come nel caso della Colombia, essi riguardano soltanto 425

emigrati. In un altro grande paese di immigrazione, la Svizzera, con percentuali

rispettivamente del 6,71% e del 20,82% ci si allinea invece alla media europea.

Molto più articolata appare la situazione in America Latina. E‟ in un certo senso

davvero sorprendente che la percentuale dei campani in Argentina corrispondesse,

all‟epoca, solo al 4,39% dell‟emigrazione italiana e al 13,17% dell‟emigrazione

meridionale: ma bisogna tener conto che l‟Argentina è il paese nel quale è di gran lunga

più numerosa la collettività italiana (nel 1988 ben 1.139.700 persone conservano la

cittadinanza italiana). Questo in parte spiega la sottorappresentazione relativa della pur

folta comunità campana.

Al 1988, data considerata come spartiacque dall‟ indagine statistica svolta secondo i

tradizionali criteri di rilevazione, come in precedenza rilevato, tuttavia mancavano i dati

disaggregati circa la consistenza delle comunità regionali in Canada e negli Stati Uniti.

Essa veniva stimata, con tutte le avvertenze dovute alla limitatezza delle fonti statistiche

di riferimento, in circa 12.500 campani in Canada e in 25.000 campani negli Stati Uniti.

(Calvanese, cit.)

3.7.3 L‟identità culturale dei migranti e l‟associazionismo

Il tema dell‟identità culturale dei migranti, nello schema tradizionalmente utilizzato

dagli studiosi, ha riguardato soprattutto (come si è visto finora) l‟individuazione del

sistema di relazioni intercorrente tra il paese di arrivo e il paese di partenza. Le relazioni

tra le nostre comunità all‟estero e le comunità in patria sono state viste nel quadro di un

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forte cambiamento, nel quale sono stati individuati soprattutto i processi di integrazione

nelle società di accoglienza. A questo stadio dell‟evoluzione del fenomeno migratorio,

come è noto, si riducono i trasferimenti di beni materiali, per far posto in primo luogo

allo scambio culturale. Risulta decisivo al riguardo il ruolo che svolgono le istituzioni di

riferimento degli emigrati (in particolare la rete consolare) nel paese di arrivo e in quello

di partenza, per favorire o meno l‟intreccio e lo strutturarsi di tali relazioni. Non a caso,

quindi, cresce nel periodo di riferimento l‟importanza dell‟associazionismo.

Questo tema, come si potrà notare, è ampiamente trattato nella presente Ricerca Filef

(cfr: Carchedi), anche con dettagliate informazioni di tipo quantitativo in riferimento

alle comunità campane, tuttavia può essere utile riprenderla in questa sede per

comprendere come si sia sviluppata la ricerca di nuove modalità organizzative in grado

di preservare, rafforzare e rinnovare, l‟identità culturale degli emigrati.

Non è infatti di poco conto che l‟associazionismo degli emigrati, si sia posto come

importante fattore di intermediazione culturale e di riaffermazione identitaria, che

anziché indebolire, da sempre rappresenta un importante indicatore di integrazione. Tale

nuova caratterizzazione dell‟associazionismo può essere fatta risalire alla seconda metà

degli anni sessanta, in seguito alla costituzione delle associazioni nazionali

dell‟emigrazione (Filef, Anfe, Istituto Santi ecc.). In quegli anni, prevalso il

convincimento del carattere strutturale dell‟emigrazione, sia per quel che riguarda

l‟Italia, sia per quel che riguarda i paesi di destinazione, si fa strada la necessità di

provvedere alle esigenze dei migranti con un‟adeguata politica di inserimento: Si

superano in tal modo vecchi pregiudizi ideologici, ad esempio quelli che esprimevano la

ferma ed esclusiva condanna dell‟emigrazione, considerata principalmente come un

male da estirpare e si avviano in controtendenza nuove strategie di sviluppo dei paesi di

esodo. Tali pregiudizi avevano limitato di fatto la crescita e l‟evoluzione dello stesso

movimento associativo. Negli anni seguenti, in particolare a partire dagli anni settanta,

in relazione al concorrere di più significativi mutamenti dello scenario internazionale, si

è determinato un quadro più consono all‟azione delle associazioni dei migranti.

Esso può essere messo in relazione a:

- l‟adozione a livello europeo di “politiche di stop”, di contingentamento degli

ingressi e di integrazione, oltre che di incoraggiamento ai ritorni nei paesi di

origine;

- lo sviluppo di una dimensione non solo economica dell‟Unione europea, che

porterà a una più pressante rivendicazione dei diritti di parità;

- una più esplicita concorrenza sul mercato del lavoro, legata alle nuove direzioni

dei flussi migratori, provenienti dai paesi del terzo Mondo;

- il diffondersi di nuove forme di cooperazione internazionale, basate soprattutto

sugli accordi bilaterali fra gli stati (esportatori o importatori di manodopera).

Si potrà convenire col fatto che si tratta di problematiche di una certa rilevanza, che

possono in parte contribuire a spiegare le nuove esigenze di protagonismo del

movimento associativo: tuttavia non si dimostrano ancora sufficienti per cogliere

appieno tutte le ragioni del suo sviluppo e della sua riconversione organizzativa. La

principale di queste ragioni va ricondotta invece alle specificità del flusso migratorio

italiano. Tra la fine degli anni sessanta e l‟inizio degli anni settanta, si era compie infatti

un processo di maturazione delle cosiddette catene migratorie (Reyneri, cit.), cioè di

quel processo che aveva portato molti paesi dell‟Italia, e in particolare del nostro

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Mezzogiorno, allo sradicamento di intere comunità locali, trasferitesi in blocco in

specifici territori dell‟Europa occidentale o anche delle Americhe e dell‟Australia.

Tali catene, fortemente caratterizzanti per organizzare l‟esodo dalle aree meno

sviluppate del nostro paese, conoscevano in quegli anni un processo di esaurimento:

avevano cioè concluso la loro funzione propulsiva rispetto al movimento migratorio.

Ben altra importanza, le stesse catene, invece assumevano, rispetto alle politiche di

integrazione nel paese ospite e alla necessità di radicare le strutture associative nel

nuovo contesto di riferimento, in quanto che emergeva con forza la necessità di

rappresentare le nuove esigenze dei migranti, in termini di partecipazione e

valorizzazione della loro presenza.

Esse si dimostravano in qualche modo uno strumento utile per la crescita del

movimento associazionistico, pur nei limiti di una loro prevalente connotazione di tipo familiare, o anche del più semplice richiamo alle origini di paese, di città o di un

determinato territorio. Sono nate così ad esempio, per limitarci esclusivamente alle

comunità campane, le associazioni degli avellinesi, degli originari di Monte S.Giacomo

o di Atrani, e altre che pure hanno svolto una significativa opera di rappresentazione

delle istanze della nostra emigrazione.

Attraverso queste associazioni gli emigrati si sono organizzano attraverso forme di

partecipazione per piccoli gruppi, secondo caratteristiche e modalità diverse (comunità

di origine, destinazione, localizzazione, anzianità di emigrazione, ruoli occupazionali). “

In alcuni casi vi era una quasi completa identità per il migrante tra vita associativa e vita

di lavoro” (Passigli, 1969).

Tuttavia, nel periodo, le stesse strutture associative conoscono importanti

trasformazioni, che possono essere fatte risalire al maturare dell‟obiettivo di giocare un

ruolo politico nel rapporto con le istituzioni del paese di residenza. Tali trasformazioni

sono conseguenti a un processo interno agli stessi gruppi di emigrati. Talvolta laddove

le opinioni politiche dei membri di un‟associazione risultavano sufficientemente vicine,

esse diventavano un ulteriore fattore di coesione e la politica veniva incorporata quale

parte integrante della cultura del gruppo (Passigli,cit) Su scala più ampia si potrebbe

pensare che esse abbiano scelto un percorso imitativo delle modalità e delle forme

organizzative dei partiti politici e delle organizzazioni di massa (ad esempio i sindacati):

le strutture associative hanno teso sempre più ad assomigliare alle organizzazioni

periferiche e di base, laddove si poteva realizzare una singolare commistione tra attività

sociali e attività politiche.

Non a caso verso questo tipo di associazionismo, si orienta l‟azione prima dei partiti

politici, dei patronati e sindacati, poi delle associazioni nazionali più rappresentative.

Infatti le associazioni nazionali più radicate e presenti all‟estero quali la Filef, le Acl i,

l‟Anfe, l‟Ucei, l‟Istituto Santi, incominciano a sviluppare una politica di affiancamento

e di collaborazione (fino talvolta ad incorporarle) con le nuove già descritte forme

associative sorte nei paesi di emigrazione, aspirando ad una più ampia rappresentazione

degli interessi degli emigrati. Fino ad allora (siamo a ridosso dello svolgimento della Ia

Conferenza nazionale dell‟emigrazione,1975), le associazioni nazionali indirizzavano la

loro prevalente funzione verso i problemi del lavoro: il patrocinio dei conflitti al

Tribunale del lavoro, vari tipi di consulenza (pratiche per pensioni, malattie, ecc.),

l‟organizzazione di corsi di lingua e di formazione professionale. (Issoco-Formez,

1976).

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Una prima conseguenza del formarsi di questo nuovo orizzonte di intervento è

rappresentata dalla crescita impetuosa della stampa di emigrazione, che moltiplicherà in

quegli anni il numero dei periodici, in molti casi editi dalle stesse associazioni, e che

impegnerà significative battaglie per la partecipazione dei migranti nelle società locali,

contro l‟assimilazione, rivendicando l‟interculturalismo, e, soprattutto facendo emergere

un nuovo profilo dell‟emigrante non più impregnato di retorica e soprattutto più

propenso a collaborare ai processi di trasformazione della società di appartenenza

(Vercellino, 1992).

La I^ Conferenza nazionale dell‟emigrazione (1975), rappresenta il vero e proprio

spartiacque, per quel che riguarda la crescita del movimento associativo,

caratterizzandolo profondamente sia in termini di nuove strategie sia in termini

organizzativi. L‟emigrazione “a catena” che già aveva conosciuto la necessità di

emergere sulla scena dei paesi di emigrazione (Alberoni-Baglioni,1965) e che si era

sposata con l‟associazionismo di tipo politico e sindacale, si incontra con il movimento

regionalista e le Consulte regionali dell‟emigrazione, nate in seguito alla Conferenza.

Tra queste la Consulta regionale campana. Fino ad allora l‟origine regionale era stata

poco considerata e pressocchè ininfluente nelle politiche migratorie, nelle stesse

associazioni l‟essere avellinese o salernitano non comprendeva affatto il riconoscimento

di una comune identità campana, sconosciuta ai più. Le Leggi regionali

dell‟emigrazione istitutive delle Consulte, prevedendo specifiche azioni e fondi del

bilancio, rivolti alle associazioni regionali presenti all‟estero, contribuiscono ad

incrementare in modo notevole la loro diffusione e il loro radicamento, e inoltre

valorizzano il loro potere di rappresentanza nel paese di origine.

Viene altresì ridimensionato il ruolo delle associazioni nazionali, perché ritenute

inadeguate a coprire l‟esigenza di una partecipazione più vasta e di un più significativo

accompagnamento alle politiche di integrazione. Infatti la funzione di mediazione svolta

dalle associazioni nazionali verso gli stati (quello di origine e quello di residenza) viene

considerata, seppure utile per la semplice tutela, poco incidente sui livelli di decisione

degli stessi. Questa nuova forma associativa, su base regionale, appare agli emigrati più

diretta e incisiva, sia nei confronti della Regione, sia più ricca di potenzialità dal punto

di vista della mediazione istituzionale nei confronti degli stati. Inoltre il riconoscimento

della comune origine, permette alle preesistenti e tradizionali associazioni di tipo

familiare, di paese, di città e di territorio, in qualche modo di svincolarsi dalla tutela

politica e di riconoscersi appieno in una nuova e più confacente dimensione regionale.

Le stesse associazioni nazionali dovranno adattarsi alla nuova situazione, modificando e

rendendo più articolati gli ambiti del loro intervento, organizzandosi in strutture

regionali, sia nei paesi di emigrazione sia nello stesso territorio nazionale, al fine di

sviluppare rapporti più ravvicinati con gli emigrati e su tematiche più complessive quali

ad esempio: la difesa della cultura di origine, la valorizzazione del patrimonio

rappresentato dall‟esperienza migratoria, le problematiche proposte dagli emigrati di

seconda e terza generazione. Contemporaneamente nelle nuove associazioni regionali

emergono nuove figure e personaggi, preminenti nelle comunità, meno legati a processi

di selezione politica e a ruoli svolti nei paesi di origine e più opinion leader, sulla base

del ruolo acquisito nella società di accoglienza, in base a una loro migliore condizione

economica, ad un migliore livello di istruzione, ad una migliore integrazione nelle

società locali. (Calvanese,cit.)

Essi coinvolgono la nostra comunità regionale in un processo di riconversione

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dell‟identità regionalista che appare in maggiore sintonia con le trasformazioni

prodottesi all‟interno dell‟emigrazione.

3.7.4 L‟affermazione e lo sviluppo dell‟identità regionalista

Va innanzitutto fatto rilevare come, pur nel quadro delle citate trasformazioni, il ruolo

svolto dalla famiglia per il mantenimento del legame con le zone di origine, continua a

rappresentare un riferimento ancora essenziale. Al punto da contagiare anche le giovani

generazioni.

La famiglia, protagonista della socializzazione primaria degli emigrati, che ha permesso

di consolidare il processo di inserimento definitivo, ha inoltre svolto un ruolo frenante

rispetto all‟ipotesi del ritorno. Essa rappresenta il veicolo principale sia per il

mantenimento dei rapporti con il paese di origine, sia per quel che concerne l‟impegno a

sviluppare un solido legame con gli altri corregionali emigrati, favorendo il diffondersi

di una solidarietà che rararamente si desidera abbandonare.

Non a caso, ad esempio, la partecipazione alle feste o alle altre iniziative campane (o

italiane e campane contemporaneamente) avviene senza differenze di generazione, così

come la loro organizzazione trova coinvolti la maggior parte degli emigrati. Si

comprende inoltre come passi in secondo piano e appaia puramente legato ad

opportunità contingenti, il fatto di possedere o meno la cittadinanza italiana, o anche

come non sia determinante, a questo riguardo, il fatto che la lingua del paese ospite sia

considerata la lingua maggiormente frequentata. Tuttavia nel passaggio dalla prima alle

successive generazioni di immigrati la situazione ha subito in qualche modo

un‟evoluzione.

La lingua italiana, da parte delle nuove generazioni, è stata utilizzata come seconda

lingua, prendendo il posto del dialetto (diversamente da quanto accadeva per la 1a

generazione), mentre si è sviluppato un maggiore intreccio tra le tradizioni campane e

quelle italiane. Ad esempio, già a partire dalla 2a generazione le tradizioni sono state

vissute diversamente: è accaduto che la partecipazione alle attività religiose, molto alta

nella 1a generazione, abbia lasciato il passo alle attività più genericamente culturali e

ricreative, o anche, per fermarci alle tradizioni culinarie, che alle zeppole agli struffoli e

al sanguinaccio (dolci tipici della Campania in occasione del Natale o del Carnevale) sia

stata preferita la pasta italiana, alla pizza napoletana (aglio origano e pomodoro) la pizza

italiana, conosciuta a livello internazionale e più elaborata. Un altro aspetto da

considerare per quel che concerne il mantenimento delle relazioni familiari e

comunitarie, può essere individuato nella conservazione e nello sviluppo di una rete

informativa molto attiva, che ha largamente utilizzato le potenzialità offerte dai mezzi di

comunicazione di massa. Si è fortemente diffusa, infatti, una rete di associazioni

regionali che aspirano ad entrare in contatto con le Istituzioni regionali della Campania,

mentre altrettanto significativo è stato il radicamento di una rete di emittenti radio-tv

locali, gestite direttamente da campani o nelle quali questi ultimi hanno la possibilità di

trasmettere programmi di informazione sulla regione di origine. Infine, mentre si sono

moltiplicate le visite fra familiari, da e verso la propria regione, sono aumentate anche le

aspettative di cooperazione economica e culturale, tra i due poli dell‟emigrazione,

mettendo in parte in secondo piano le richieste di tipo assistenzialistico (anche nelle

realtà più svantaggiate dell‟America Latina).

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Si è cosi prodotta una certa selezione delle problematiche di interesse degli stessi

emigrati, che ha avviato, in specie per quel che riguarda le giovani generazioni, un

discorso valido in prospettiva e in grado di individuare il nesso tra la tradizione e le

nuove possibili sintesi identitarie.

Infatti nei paesi di oltre Oceano le nuove generazioni composte dai figli e dai nipoti di

campani, trovandosi spesso in competizione con gli altri gruppi nazionali, ma anche con

gli altri giovani di origine italiana, (ai quali li accomuna una certa posizione di

vantaggio per la già acquisita integrazione nella società locale), hanno scoperto il

bisogno di riconvertire i propri riferimenti identitari a livelli più alti: avendone la

possibilità in considerazione di una preparazione scolastica e professionale superiore a

quella dei genitori. Mentre in Europa essi hanno sentito l‟esigenza di superare vecchie

divisioni e di costruire, insieme con i giovani locali e con gli altri immigrati, una

comune identità europea.

Da quanto detto si può evincere come l‟associazionismo di tipo regionalista presente in

emigrazione si sia trovato a cimentarsi con problematiche che sempre più hanno assunto

i caratteri di battaglie di civiltà, dovendo rendersi protagonista di un cambiamento

epocale. Esso, più che un riferimento di tipo organizzativo, è diventato anche un

riferimento culturale, avendo contribuito a far emergere tra gli emigrati un‟identità

regionalista, in precedenza del tutto latente, la quale si è fortemente intrecciata con

l‟identità nazionale. Si può affermare anzi che le comunità all‟estero, diversamente da

quanto è accaduto in Italia (si veda ad esempio il fenomeno delle Leghe), si sono poste

positivamente come protagoniste di un regionalismo, caratterizzato da una profonda

solidarietà nazionale, nei grandi processi di trasformazione delle società multiculturali.

3.8. L‟ emigrazione di ritorno

Pur nel quadro dei già descritti fenomeni di stabilizzazione della nostra emigrazione, a

partire dai primi anni ‟70 si è registrata, nonostante il ridimensionamento complessivo

del movimento migratorio, una maggiore rilevanza del fenomeno dei rientri.

Questi ultimi “sono stati di frequente il prodotto finale di un processo di scrematura

delle collettività emigrate, con l‟eliminazione della parte più debole e marginale (specie

gli ultimi arrivati): sono i meno difesi, i più precari, i più disinformati e sfruttati a far

ritorno, mentre le politiche di inserimento mirano a trattenere i lavoratori migliori e più

qualificati”. (Tassello 1983)

Nel periodo di riferimento, anni ‟70 e ‟80, va fatto presente che, in analogia con quanto

accade a livello nazionale, “ il rientro campano affolla il primo decennio, mentre si

dispone con maggiore regolarità nel secondo decennio”. (Imbucci, 1993) “In vent‟anni

la Campania assorbe circa 120.000 persone, di cui quasi 80.000 nel primo decennio”.

(Imbucci cit.) Meno del 30% degli emigrati proviene dai paesi di oltre Oceano, mentre

prevalgono nettamente i rientri dai paesi europei, distribuendosi parimenti in direzione

delle diverse province campane e senza una netta divaricazione fra città e campagna.

Sono solo in parte influenzati dalle capacità attrattive delle zone di esodo.

L‟emigrazione di ritorno non presenta differenze significative tra i sessi, a riprova del

fatto che si tratta di ritorni familiari. Tornano in età matura, ma ancora disponibili alla

ricerca del lavoro nella propria regione Per quel che riguarda la composizione

professionale dei rientrati, si osserva che nel primo decennio solo il 33% ha avuto

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esperienze di lavoro all‟estero, mentre nel secondo decennio questa percentuale sale al

37%, il resto è rappresentato dai familiari a carico.

Provengono da attività svolte in agricoltura e nell‟industria, con il prevalere del settore

primario nel primo decennio e del settore secondario negli anni ‟80, mentre il settore

terziario che negli anni ‟70 non aveva dato corso all‟emigrazione di ritorno, restituisce

alla nostra regione una quota significativa di nostri corregionali. Quindi ad una prima

fase caratterizzata dai rientri del vecchi emigranti poco scolarizzati e impegnati

soprattutto nel bracciantato agricolo, segue negli anni ‟80 una fase nella quale l‟identikit

dell‟ emigrato di ritorno va riportato ad una figura senz‟altro più evoluta, proveniente

dai comparti più moderni (industria e terziario) e fornita di sufficienti “competenze

tecniche, esperienze e specializzazioni”.Tuttavia i rientrati, sia del primo che del

secondo decennio, “non esprimono particolari volontà imprenditoriali, sebbene godano

di un discreto patrimonio di esperienze lavorative.” (Imbucci, cit.)

Si conferma anche in questo caso come l‟ipotesi del ritorno innovativo e produttivo

dell‟emigrato di ritorno, non solo, come si vedrà non abbia conseguito alcun

significativo risultato, ma anche difficilmente fosse pronosticabile.

Infatti, facendo riferimento ad una ricerca condotta dall‟estensore di queste note nel

1978 (Calvanese, 1987), si può rilevare come la maggioranza degli emigrati motivasse

l‟esperienza del ritorno con il concludersi del preventivato progetto migratorio e come

tra le ragioni più incidenti vi fossero quelle familiari, in particolare quelle riguardanti le

possibilità scolastiche dei figli. Infine una qualche importanza era assegnata alla

propagandata disponibilità del governo e delle istituzioni regionali a incrementare

misure di assistenza e di aiuto all‟impiego.

L‟aspettativa di tipo scolastico e professionale riguardante i figli, va collegata da una

parte con l‟età piuttosto avanzata degli emigrati rientrati (intorno ai 42 anni: la

cosiddetta scrematura prima citata) e dall‟altra con le aspettative in essi suscitate dalle

modificazioni strutturali e dai cambiamenti avvenuti negli anni ‟70 nel Mezzogiorno e

nella stessa regione. Si può notare inoltre, come nella decisione di rientrare abbia avuto

un ruolo importante la crescita del mercato del lavoro irregolare: il 10% degli

intervistati ha ammesso di aver fatto ricorso ad attività non dichiarate, il 28% contava su

attività non dichiarate svolte dalla moglie, il 46% che esercitavano un secondo lavoro

non dichiarato. Tale situazione va messa in relazione col fatto che gli interventi di

sostegno al reinserimento si dimostrano esclusivamente come interventi di tipo

assistenziale, vanificando in questo modo il potenziale utilizzo di eventuali qualifiche ed esperienze svolte all‟estero. Per tali ragioni l‟impiego irregolare o anche i sussidi e le

pensioni, hanno avuto un ruolo di integrazione e di compensazione del reddito ottenuto

mediante il ritorno alle attività svolte già prima dell‟esperienza migratoria o nei nuovi

settori dell‟edilizia e del piccolo commercio, stimolati dall‟uso di modesti risparmi.

Questi ultimi (come si è detto: in media 10 milioni di lire a testa) sono stati indirizzati

per oltre la metà per l‟acquisto e la ristrutturazione della casa, per circa il 30% per

l‟acquisto di beni di consumo e per il resto sono stati depositati in banca o negli uffici

postali.

Diverso è il caso dell‟emigrazione di ritorno negli anni ‟80. Come si è detto in

precedenza, i rientrati nel periodo, anche se spesso occupati in settori marginali,

avevano vissuto all‟estero pienamente l‟esperienza della società industriale, dei suoi

bisogni e delle sue aspirazioni. Tornando, in alcuni casi (come si è visto anche per il

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maturarsi di nuove aspirazioni scolastiche e professionali difficili da conseguire nella

realtà di emigrazione), si sono trovati in concorrenza con i propri concittadini e compaesani nella ricerca del lavoro, oppure hanno avvertito come declassante il

passaggio nel lavoro dipendente della pubblica amministrazione, o nel piccolo

commercio (il negozio, le attività artigiane ecc.).

Nella scala sociale questa mobilità è stata considerata di tipo inverso, cioè in senso

discendente.

Tale situazione si è potuta registrare sia nelle zone interne della Campania, a

caratterizzazione agricola, sia nelle aree più urbanizzate. Nelle prime gli emigrati

rientrati hanno rappresentato una delle componenti più appariscenti della vita locale.

Tuttavia la loro presenza si è manifestata più sul piano dello sviluppo delle abitazioni e

del miglioramento delle condizioni di vita che su quello di una crescita

dell‟occupazione, specie di quella industriale. Nelle seconde, le aree urbane, la grande

maggioranza degli emigrati di ritorno, quando ha trovato un lavoro stabile si è occupata

soprattutto nel terziario, dipendente e indipendente, mentre sia in partenza sia

nell‟esperienza all‟estero non apparteneva a questo settore. A questo proposito va

sottolineato che, almeno in quegli anni, era possibile utilizzare le risorse dello stato

assistenziale nel mezzogiorno, per collocarsi in questo settore di attività. Questi esiti

dell‟esperienza migratoria si sono accompagnati, come già evidenziato, con la nuova

vitalità dimostrata dalle attività precarie.

Spesso, quando i rientrati non sono riusciti a trovare lavoro nella pubblica

amministrazione (a livelli socialmente bassi nella maggioranza dei casi) e nelle piccole

iniziative commerciali, hanno ripiegato sulle attività svolte prima della partenza,

chiudendo un ciclo caratterizzato da precarietà iniziale e da precarietà, sia pure con

aspetti nuovi, dopo il ritorno. Di conseguenza si sono in un certo senso realizzate le

condizioni per un turnover del flusso migratorio di nuovo tipo, garantendo un settore

privilegiato di reimpiego per quei lavoratori che, tornati dall‟estero non hanno trovato

altra possibilità che quella del lavoro nei settori caratterizzati dalla diffusione delle

attività precarie. In questo caso i risparmi sono serviti soprattutto per mantenere a livelli

dignitosi le condizioni di vita di questi lavoratori costretti ad accettare condizioni di

particolari discontinuità del lavoro e bassi salari.

La situazione non si è modificata sostanzialmente neppure in occasione di particolari

eventi. Ad esempio, all‟indomani del terremoto del 23 novembre del 1980, che ha

colpito in particolare le aree interne dell‟Irpinia e del salernitano, diversi studiosi e

meridionalisti (Rossi Doria, Marselli, Rosoli, 1981) mettevano in rilievo come nella

ricostruzione potessero svolgere un ruolo decisivo gli emigrati di ritorno. Ma anche in

questo caso si può parlare di occasione mancata: il risultato più appariscente emerso da

quella fase, non è stato tanto il coinvolgimento dei rientrati, quanto invece quello delle

forze giovanili locali. Si è trattato quindi di un risultato parziale, seppur positivo, perché

in quegli anni ha impedito ulteriori emorragie di popolazione dalle tradizionali zone di

esodo, ma non ha affatto riguardato il reinserimento degli emigrati di ritorno.

3.9. Caratteristiche dell‟emigrazione campana negli anni più recenti. Prospettive

Come è noto negli anni più recenti, in particolare negli anni ‟90, prosegue la tendenza,

già descritta, ad un forte ridimensionamento del movimento migratorio di entrata e

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uscita. Nel decennio circa 54 mila campani emigrano per l‟estero o per altre regioni

italiane, mentre a loro volta 30 mila persone sono immigrate nella regione: in questa

cifra sono compresi gli emigrati di ritorno e gli immigrati stranieri. Come dimostra

Sabatino (cit.) nel presente Rapporto, se si osservano le migrazioni campane da e verso

l‟estero, si può affermare che le migrazioni dei campani, nel periodo, subiscono rispetto

ai decenni precedenti un ulteriore ridimensionamento, mostrando nel complesso un

saldo migratorio positivo, ad eccezione del 1991 e del biennio 1993-1994. Il dato nuovo

è rappresentato dall‟aumento delle migrazioni intraregionali e dalla ripresa

dell‟emigrazione verso l‟Italia settentrionale. A differenza del periodo di maggior

sviluppo del fenomeno, gli anni ‟60, però le destinazioni sono diverse: le mete preferite

non sono più quelle tradizionali del triangolo industriale, bensì quelle del nord-est

dell‟Italia.

La composizione dei flussi e quasi totalmente giovanile, il mercato del lavoro di

riferimento è quello del lavoro a tempo determinato, parziale o anche precario. Cioè i

nostri giovani hanno ricominciato ad andare via dalla regione, ma senza progetti

migratori di lungo periodo. Come giustamente sostiene Pugliese (2002) tale andamento

del fenomeno, fa giustizia di quelle tesi, secondo le le quali la notevole crescita

dell‟immigrazione straniera nell‟Italia settentrionale, dovrebbe essere fatta risalire

prevalentemente ad un processo sostitutivo delle nostre migrazioni interne, Non è così:

sono le particolari condizioni del mercato del lavoro, con il proliferare delle occupazioni

meno garantite, che favoriscono contemporaneamente l‟ingresso nel mercato del lavoro

secondario sia degli immigrati sia della componente più debole della nostra offerta di

lavoro.

Questo specifico comportamento del movimento migratorio campano, ed in generale

meridionale, non può comunque essere considerato l‟aspetto principale della questione

migratoria. La principale caratterizzazione della nostra emigrazione è invece legato ai

processi di stabilizzazione della nostra comunità all‟estero, alle problematiche

dell‟integrazione e del rilancio, sotto nuove forme e modalità, delle pratiche di

connessione: si pensi ad esempio all‟impetuosa crescita delle reti telematiche e delle

potenzialità di internet per rendere rapide ed efficienti le comunicazioni con i nostri

emigrati e le loro associazioni. In questo quadro si comprenderà come la principale

attenzione delle istituzioni campane, in primis della regione Campania-Settore

emigrazione, ma anche degli studiosi, delle Università e degli istituti di ricerca, siano

oggi rivolte, in prevalenza, verso i giovani figli e nipoti dei nostri emigrati, che hanno

riscoperto l‟esigenza di collegarsi in forme nuove alla comunità di origine, e che si

presentano sul mercato del lavoro dei paesi di residenza, con diverse ambizioni rispetto

ai padri, e talvolta puntano a risolvere i problemi di integrazione e di identità culturale

anche recuperando il patrimonio di relazioni e di cultura del paese di origine.

3.9.1 La Seconda e Terza generazione della nostra emigrazione in Europa

A proposito di quanto detto finora, può essere utile fare cenno ad una ricerca condotta

dalla Filef nel 1999 in Belgio, Francia, Germania e Gran Bretagna, su La domanda

formativa dei giovani migranti italiani (per incarico del Ministero del Lavoro e della

Previdenza sociale). Il campione analizzato è stato alquanto significativo: 900 interviste

sono state effettuate nei 4 paesi, secondo una ripartizione proporzionale alla presenza

degli italiani: rispettivamente il 41% in Germania, il 27% in Francia, il 18% in Belgio e

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il 14% in Gran Bretagna. La ripartizione per sesso degli intervistati è stata praticamente

paritaria, mentre per quanto riguarda l‟età “la classe modale (il 32%) è stata costituita

dai giovani tra 25-28 anni, seguita dai giovani infra 21enni con il 28%, mentre quelli

compresi tra i 22 e i 24 anni e gli ultra 28enni si collocano agli ultimi posti con il 22% e

il 17% “(Melchionda, 1999). Di questi giovani circa il 23% provengono dalle regioni

meridionali e il 7% della Campania.

Queste cifre salgono notevolmente se si fa riferimento ai paesi di origine dei genitori,

nel caso in cui i giovani intervistati sono nati direttamente nel paese di emigrazione: il

44% sono di origine meridionale e l‟11% sono di origine campana. Sono in

maggioranza per il 42% figli di operai e per il 16,6% figli di impiegati: i loro genitori

invece, nel paese di partenza, per la quasi totalità avevano conseguito titoli di studio

limitati, nella maggior parte dei casi, alla scuola dell‟obbligo (43%) e alla scuola media

superiore(28,3%). A dimostrazione del fatto che l‟emigrazione ha significato una certa

promozione sociale, si è accertato che la situazione di questi giovani è sicuramente

migliore: infatti, per il 54% hanno il titolo della scuola media superiore e per il 21,3%

sono laureati. Molti di essi, circa il 70%, ha frequentato altri corsi oltre quelli offerti dal

sistema scolastico.

Tra questi prevalgono con circa il 50% i corsi di lingua, a dimostrazione della necessità

di conoscere perfettamente la lingua del paese ospite, ma anche, per collocarsi al meglio

sul mercato, l‟inglese. Seguono i corsi di informatica per il 19,3%, di arte grafica per il

10%, di contabilità e gestione per il 9,6%, i corsi universitari post lauream per l‟8,4%,

nonché vari tipi di corsi di formazione professionale. L‟identikit del giovane figlio di

emigrati è pertanto quello di un giovane istruito, buon conoscitore delle lingue e delle

tecniche informatiche, che si propone sul mercato del lavoro europeo ben preparato e

con sufficienti pregresse esperienze lavorative (per circa il 50%), anche se di tipo

saltuario e /o stagionale: operaio, barman-cameriere, impiegato-contabile, nella maggior

parte dei casi. Inoltre la situazione professionale evidenzia che gli studenti

rappresentano poco più del 20% nei tre paesi, mentre in Germania, dove è più

sviluppato il sistema formativo, raggiungono il 35%, gli occupati sono circa il 50% in

tutti e quattro i paesi, mentre i disoccupati raggiungono in media il 17%. Lavorano per

lo più nel settore turistico, in quello della diffusione della cultura italiana, nella

ristorazione, nella trasformazione dei prodotti alimentari, nell‟assistenza socio-sanitaria,

nell‟edilizia, nel commercio internazionale, nel cinema e nella moda: per lo svolgimento

di tali attività sono impegnati prevalentemente in aziende (il 70%) e per il 27% in

organizzazioni del settore no profit.

Per quel che attiene al sistema di relazioni frequentate, essi mostrano di avere buoni

rapporti con le istituzioni pubbliche (33,8%), con le associazioni culturali (24,7%), con

le associazioni locali (11,4%) mentre i partiti politici e i sindacati sono poco frequentati.

Diverso è il caso delle richieste rivolte allo stato italiano e alle istituzioni regionali, e fra

esse la Regione Campania. Si tratta soprattutto di: richieste di formazione professionale,

di alfabetizzazione linguistica, di alfabetizzazione informatica, di consulenza al lavoro

autonomo, di stage, di allestimento di servizi finalizzati all‟inserimento

socioprofessionale in Europa.

Si tratta, come è facile evincere dai dati finora riportati, di giovani ad un certo livello di

preparazione, difficilmente riconducibili all‟immagine tradizionale dell‟emigrato, che

rivolgono al paese di origine e alla propria regione istanze ben articolate e consapevoli,

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non rivolte al ritorno, quanto invece alla possibilità di integrarsi perfettamente nelle

società di accoglienza.

Di particolare interesse (Melchionda, cit.) è il discorso riguardante le problematiche

inerenti alla identità e alla cultura italiana. Per la grande maggioranza infatti la cultura

italiana è considerata un vantaggio:anche se con il crescere dell‟età ne viene

ridimensionata l‟importanza. In generale essa è individuata come di sicura utilità ai fini

del miglioramento della situazione professionale da parte dei giovani che lavorano, oltre

ovviamente da quelli che studiano. Infatti più dell‟80% ritiene di avere interesse per un

lavoro che valorizzi l‟identità italiana e più del 47% immagina di poter svolgere

un‟attività che promuova contatti con l‟Italia e la propria regione: per il 34% nel campo

dell‟import-export, per il 19% nell‟ambito delle attività culturali e per il 12% in quelle

del turismo.

Per concludere: l‟indagine Filef ha mostrato, pur nell‟ambito di alcune differenze e di

una segmentazione dell‟inserimento dei nostri giovani emigrati nei più avanzati paesi

europei, una notevole capacità di adattamento nella società di accoglienza e una

maturazione delle richieste di sostegno allo stato italiano e alla Regione in particolare.

Esse possono essere riassunte in richieste di sostegno: – alla crescita professionale dei

giovani occupati; – all‟inserimento lavorativo per i giovani disoccupati; – al

mantenimento e allo sviluppo dell‟identità italiana e dei contatti con la propria regione;

– alla promozione del lavoro autonomo; – all‟incremento e all‟evoluzione delle reti

associative. Quest‟ultima istanza, l‟indagine l‟ha significativamente evidenziato, è

considerata una nuova opportunità e una chance, anche in molti casi una necessità, visto

che i nostri giovani ritengono le società di accoglienza, esclusivamente attente ad una

politica assimilazionista e incapaci di vedere i problemi specifici della componente della

stessa società, appunto rappresentata dagli immigrati, e in particolare dai giovani di 2a e

3a generazione.

3.9.2 La situazione nei paesi di oltre Oceano

Al fine di completare il discorso fin qui svolto, ci si avvarrà di quanto emerso nelle più

recenti indagini svolte dalla Filef nei paesi di oltreoceano, nell‟ambito di progetti

realizzati per conto del Ministero del Lavoro e del Ministero degli esteri, in particolare

nei paesi dell‟America Latina, in Australia e nel Quebec-Canada, nonchè di

un‟importante ricerca curata dalla Missione International organization for Migration e

dal CEMLA di Buenos Aires, in Argentina (2002).

In generale esse si sono occupate della larga diffusione dei fenomeni di indigenza,

soprattutto nei paesi dell‟America Latina, laddove si è calcolato che circa il 39% degli

italiani ultrasessantenni, (per la metà di origine meridionale e per 1/10 di origine

campana), vivendo nella maggior parte dei casi con la sola insufficiente pensione del

paese di residenza, si trovano a dover fare ricorso agli aiuti del consolato italiano o a

quello dei familiari, per spese relative all‟alimentazione, all‟alloggio e ai medicinali. Si

tratta di una fascia di popolazione a rischio la cui situazione denuncia in qualche modo

il fallimento dell‟esperienza migratoria, senza vedere altresì segnali di via d‟uscita. E‟

evidente che le politiche regionali rappresentano per essi, con tutte le difficoltà connesse

all‟attivazione di reti di solidarietà, la sola speranza di miglioramento.

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L‟altra faccia della situazione è invece rappresentata dalle piccole e medie imprese

avviate da italiani o emigrati di origine italiana: i campani sono rappresentati in

proporzione alla loro presenza per il 7%.

Tali imprese, in particolare in America Latina, sono soprattutto di tipo familiare (per

l‟88%), con meno di 10 unità lavorative: limite superato soltanto dal 10% delle stesse.

Più di un quinto dei proprietari è italiano di nascita, i 2/5 sono figli di italiani, gli altri

sono nipoti di italiani. Al loro interno solo il 15% ha la cittadinanza italiana. Circa 1/3

mantengono vincoli, per lo più sporadici, con il paese di origine. “Benché i settori di

attività siano molto diversificati, prevalgono nettamente i servizi e il commercio (60%),

quasi 1/4 corrisponde a piccole industrie, meno di 1/3 ad agricoltura/allevamento e a

imprese di tipo misto che gestiscono la lavorazione e la vendita di prodotti tradizionali,

quali i prodotti gastronomici, tessili e le calzature” (OIM, cit.). Le principali attività, di

tipo industriale di queste imprese, riguardano la produzione di gruppi elettronici, di

pompe idrauliche, di tecnologie e attrezzature sanitarie, o fanno capo al settore

metalmeccanico e al settore minerario. Da tale disamina, che evidenzia la quasi

esaustiva afferenza di tali imprese ai settori tradizionali, si può comprendere come

l‟ambito di mercato in cui operano sia nella quasi totalità il mercato locale e nazionale.

Infatti loro livelli di esportazione sono alquanto bassi e soprattutto rivolti ai paesi

confinanti: mentre davvero poco sviluppate sono le esportazioni verso l‟Europa e gli

Stati Uniti.

La situazione si è di molto aggravata negli ultimi 5 anni, in particolare dopo il 2001, in

seguito alle gravi crisi economiche che hanno interessato quei paesi.

Per reagire alcuni imprenditori hanno ricercato nuove nicchie di mercato e trasformato

le loro attività, ora orientate prevalentemente verso l‟agricoltura, l‟allevamento e in

generale verso il settore dei servizi. In quest‟ultimo settore hanno fatto passi in avanti

quei ristoranti che offrono piatti regionali, o quelle botteghe che richiamano prodotti

dell‟artigianato regionale o religioso.

Si tratta di attività che potrebbero sicuramente trovare in futuro corrispondenza con

iniziative di cooperazione attivate dalla nostra regione.

Infine, per quel che riguarda le richieste avanzate dagli emigrati/imprenditori, esse

possono così essere riassunte: 2/3 degli stessi imprenditori propongono nuove misure di

finanziamento, 1/3 ha bisogno di assistenza per il rinnovo dei macchinari, mentre una

significativa percentuale (intorno al 50%) ritiene essenziale la formazione professionale

e l‟aiuto all‟esportazione. Le diverse categorie di bisogni ovviamente si sovrappongono

fra loro. Ma veniamo alla questione di maggior pregnanza oggi, anche nei paesi di oltre

Oceano, quella che riguarda i giovani di origine italiana, in generale, e campana, più

nello specifico. Dalle indagini Filef, sopra citate, in particolare svolte con interviste

somministrate agli utenti dei corsi di formazione, emerge un quadro chiaro e preciso.

Questi giovani, hanno livelli di preparazione scolastica simili a quelli dei giovani

migranti nei paesi europei, sono quindi ben istruiti, buoni conoscitori delle lingue e

delle tecniche informatiche, con esperienze di lavoro per lo più saltuarie e/o stagionali.

Rispetto ai loro coetanei europei, in America Latina, soffrendo di una situazione di

maggiore marginalità rispetto ai mercati del lavoro locali, dimostrano più forti

motivazioni ed interesse verso le politiche di cooperazione allo sviluppo. Le loro

richieste di orientamento al lavoro e alla creazione di impresa sono di gran lunga più

pressanti che in Europa.

Dalle testimonianze degli intervistatori, oltre da un‟analisi più completa, (che in questa

sede per brevità viene tralasciata), si può dedurre, rispetto alla situazione europea, (ma

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anche di altre realtà come quelle dell‟America del Nord o dell‟Australia, dove spesso in

alcuni casi i nostri giovani di 2a e 3a generazione risultano meglio inseriti anche dei

lavoratori locali), una particolare potenzialità dei nostri giovani corregionali presenti nei

paesi dell‟America Latina.

In questi paesi, esse, ben a ragione possono essere considerati più disponibili a

organizzare nuove forme di partenariato e di collaborazione con la regione Campania,

nel solco dell‟innovazione e dei nuovi programmi di sviluppo umano. Rappresentano

per il futuro i potenziali, più credibili agenti, delle politiche regionali per l‟emigrazione

e, in generale delle politiche di cooperazione.

Ne consegue, a proposito di programmi, che meritano ampia condivisione quelle

strategie, indicate negli ultimi anni, nelle Linee Guida per i campani nel mondo,

proposte e avviate, già con qualche risultato, dalla regione Campania-settore

emigrazione. Esse possono contribuire anche a rimuovere quegli ostacoli, ad esempio

tipici del nostro associazionismo, come le stesse ricerche hanno dimostrato, spesso

devono essere fatti risalire ai ritardi nella riconversione delle stesse associazioni, verso

attività e progetti più corrispondenti alle esigenze dei nuovi migranti. Si pensi, ad

esempio, solo a quale limite al rinnovamento sia rappresentato dal fatto che circa il 20%

dei presidenti di queste associazioni, sono in carica da oltre 10 anni, e poco più della

metà da oltre 5 anni.

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4. Le Associazioni dei campani. Distribuzione continentale ed

alcune caratteristiche strutturali di Francesco Carchedi

4.1. I dati statistici sulle Associazioni

4.1.1 Le associazioni iscritte e quelle non iscritte

Le associazioni dei campani nel mondo possono iscriversi (sulla base di alcuni specifici

requisiti richiesti) ad un registro regionale istituito presso l‟Assessorato alle Politiche

sociali, all‟occupazione, all‟emigrazione e all‟immigrazione. Tale iscrizioni è possibile,

attualmente, sulla base della normativa regionale di riferimento, ossia la Legge n. 2 del

febbaraio 1996 (“Interventi regionali in favore dei cittadini campani residenti

all‟estero”). Gli articoli che riguardano specificamente la materia sono quelli che vanno

dall‟art. 28 all‟art. 3130

. Questi prevedono l‟istituzione del Registro (in continuità con

quanto prevedeva la precedente normativa)31

, i criteri di riconoscimento delle

associazioni (in base a particolari requisiti), le modalità di iscrizione e le certificazioni

corrispondenti, nonché la possibilità di formare Federazioni di associazioni e le

modalità per accedere ai contributi regionali previsti (dalla legge citata).

Quando furono emanate queste nuove indicazioni normative quasi tutte le associazioni

hanno dovuto modificare gli statuti originari, rivedere la composizione degli organi

statutari, aggiornare e ridefinire meglio le attività da svolgere. Ossia per effetto della

promulgazione della legge i rapporti tra la Regione e le associazioni dei cittadini

campani residenti all‟estero sono diventati più chiari e più strutturati. Infatti, queste

ultime, tra le altre cose, hanno potuto armonizzare le rispettive configurazioni

organizzative e giuridico-legali sulla base di quanto previsto dalla normativa. Cosicché

tra 1997 e il 1998 si è avviato il processo di registrazione da parte delle Associazioni

campane e che in parte continua ancora adesso (ottobre 2003).

Il risultato del processo di iscrizione avviatosi nella seconda metà degli anni Novanta è

sintetizzato nella Tab. 4.1, laddove si evince il numero delle associazioni attualmente

iscritte al registro regionale e quelle, pur attive nelle rispettive aree geografiche di

insediamento, ancora non lo sono. Il totale delle une e delle altre ammonta a 159 unità,

di cui 124 sono le associazioni iscritte e 35 quelle non iscritte. Occorre sottolineare,

tuttavia, che le associazioni che risultano non iscritte al registro non possono fruire dei

contributi previsti dalla normativa vigente. Sono però segnalate e in qualche modo

30

La Legge in questione è attualmente oggetto di revisione (ottobre 2003) in quanto alcune parti non

rispondono più alle mutate esigenze dell‟associazionismo campano. Le parti concernenti le modalità di

iscrizione, come riferito dai funzionari direttamente coinvolti nella revisione, resteranno sostanzialmente

le stesse e non subiranno pertanto variazioni. Prima della legge 2/96 le iscrizioni al registro venivano

effettuate in base alle altre legge che regolavano l‟emigrazione, sin da quella emanata il 1 aprile del 1975. 31

La precedente normativa – la legge regionale n. 10 del marzo 1984 - istituiva il Registro delle

associazioni nell‟art. 26 (“Interventi regionali nel settore della emigrazione e della immigrazione”). La

materia emigratoria era regolata sin dal 1975 con la legge regionale del 1 aprile, emanata all‟indomani

dell‟istituzione delle Regioni.

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riconosciute dalla Regione, anche perché alcune di esse stanno perfezionando la

documentazione per arrivare alla richiesta di iscrizione.

Tab. 4.1 Associazioni di campani iscritte e non iscritte (di cui si ha conoscenza)

al Registro regionale nei paesi esteri di insediamento (v.a. e %, al settembre 2003)

Nazioni Associazioni iscritte Associazioni non

iscritte Totale

v.a. % v.a. % v.a. %

Argentina 23 18,5 4 11,5 27 16,9

Australia 28 22,5 4 11,5 32 20,1

Belgio 7 5,6 1 2,8 8 5,0

Brasile 11 8,8 - - 11 6,9

Canada 18 14,5 1 2,8 19 11,9

Cile 1 0,8 - - 1 0,6

Francia 1 0,8 - - 1 0,6

Germania 2 1,6 - - 2 1,2

Inghilterra 2 1,6 - - 2 1,2

Lussemburgo 1 0,8 - - 1 0,6

Olanda 1 0,8 - - 1 0,6

Stati uniti 11 8,8 19 54,4 30 18,8

Sud africa 1 0,8 - - 1 0,6

Svezia 1 0,8 - - 1 0,6

Svizzera 10 8,0 3 8,5 13 8,1

Uruguay 1 0,8 - - 1 0,6

Venezuela 5 4,0 3 8,5 8 5,0

Totale 124 100,0 35 100,0 159 100,0

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Come è possibile riscontrare dalla citata tabella il maggior numero di associazioni

conosciute a livello regionale ma non iscritte, operano soprattutto negli Stati uniti (11

iscritte e 19 non iscritte); mentre qualcun‟altra è attiva in Argentina, in Australia e in

Venezuela. La distribuzione di quelle regolarmente iscritte appare invece più equilibrata

per alcune grandi aree geografiche e molto meno per altre (Tab. 4.2). Le prime sono

quelle distribuite sul territorio europeo (con il 21,8%), su quello nordamericano (23,2%)

e su quello australiano (con il 22,4%); le seconde, al contrario, sono le associazioni che

operano in America meridionale (con il 32,8%) e quelle operanti nell‟Africa

meridionale ma dove ne risulta iscritta soltanto una.

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Tab. 4.2 Associazioni di campani iscritte al Registro regionale in diverse aree geografiche

per numero degli associati rilevati (v.a. e %)

Aree geografiche Associazioni iscritte Numero associati

M F

Totale

v.a. % v.a. v.a. v.a. %

Europa 25 21,8 2575 1091 3666 15,3

America del Nord 29 23,2 1760 912 2672 11,2

America del Sud 41 32,8 6516 5834 12350 51,4

Australia 28 22,4 3494 1729 5223 21,7

Sud Africa 1 0,8 70 34 104 0,4

Totale 124 100,0 14145

(58,9)

9600

(41,1)

24015

(100,0)

100,0

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

L‟area geografica dove si concentrano più associazioni – comprese cioè quelle non

iscritte al Registro regionale – è l‟Australia (con 32 associazioni), seguita dagli Stati

uniti (con 30) e l‟Argentina (con 27). In Australia, infatti, è operante circa il 20% di

tutte le associazioni campane conosciute (cioè una su cinque). In ciascuna area

geografica – e specificamente in ciascun paese estero dove sono presenti almeno due

associazioni di campani o a prevalenza di campani o di discendenti diretti – sono attive

anche delle Federazioni di associazioni, come sintetizzato nella Tab. 4.3. Come è

possibile leggervi le Federazioni sono complessivamente otto ed aggregano circa il 90%

delle associazioni iscritte al registro regionale (111 unità sul totale di 124).

Per quanto riguarda l‟Europa le Federazioni sono due: una operante in Belgio e l‟altra in

Svizzera. Stesso numero si riscontra nell‟America settentrionale (una in Canada e l‟altra

negli Stati Uniti). In America latina, invece, sono quattro: tre in Argentina e l‟altra in

Venezuela. Infine, una Federazione di associazioni campane è attiva nell‟area

meridionale dell‟Australia (essendo quella a maggior concentrazione di campani). Le

Federazioni svolgono sostanzialmente un ruolo di trasmissione e circolazione di

informazioni tra le più variegate, di sostegno “politico-sociale” alle attività delle

associazioni federate, di aiuto alle singole associazioni in caso di particolari necessità.

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Tab. 4.3 Federazioni iscritte al Registro regionale per area geografica, denominazione e

numero delle Associazioni federate iscritte (settembre 2003)

Aree

geografiche/Paese di

riferimento

Acronimo Denominazione delle Associazioni Numero

di Ass.ni

federate

Europa

Belgio FAC-BEL Federazioni Ass.ni Campane Belgio 8

Svizzera F.A.C.S. Federazioni Ass.ni Campani in Svizzera 11

America del Nord

Canada FACC Federazione Ass.ni Campane in Canada 18

Stati Uniti Federazione Ass.ni Campane negli Stati Uniti 11

America del Sud

Argentina F.A.E.N.C.A. Federazione Argentina di Entità Campane 6

FE.NA.RE.CA. Federazione Nazionale Regione Campania 20

Nuova Federazione Campani in Argentina 15

Australia F.A.E.C.S.A. Federazione Ass.ni Emigranti Campani in

Australia

18

Totale Ass.ni federate 107

Totale Ass.ni iscritte 124

Differenza 17

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

4.1.2 Le associazioni campane in Europa

Le associazioni campane nei diversi paesi europei si distribuiscono in maniera diversa,

come si riscontra nella Tab. 4.4. Il numero maggiore di associazioni si trova in Svizzera

(10 su 27) e in Belgio (7 su 27). In altri paesi, quali la Francia, l‟Inghilterra, la

Germania, il Lussemburgo, la Svezia e l‟Olanda, la presenza di associazioni iscritte al

registro ammonta a poche unità. Certamente è possibile correlare il numero delle

associazioni alle consistenze numeriche delle presenze campane in generale e, non

secondariamente, al numero delle micro-comunità paesane.

.

Questo perché l‟aggregazione associazionistica molto spesso ricalca la comunità del

paese di origine (inteso come comune o municipio). Le iscrizioni sono avvenute in gran

parte dopo il ‟96 (sulla base dell‟ultima legge regionale), ma non mancano quelle che si

sono iscritte prima degli anni Novanta (una decina) e nel primo quinquennio successivo.

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Tab 4.4 Europa - Associazioni campane iscritte al Registro regionale per numero di associati e

per sesso (settembre 2003)

Denominazione sociale Anno di

iscrizione Iscritti, di cui:

TOTALE

M F

Belgio

Ass.ne campani culturale e sportiva 1990 180 120 300

Ass.ne dei campani emigrati in Belgio 1995 225 116 341

Ass.ne immigrati campania 1995 66 38 104

Ass.ne regionale lavoratori emigrati campani 1996 265 48 313

Ass.ni campani emigrati in Belgio di Anderlues 1995 121 57 178

Ass.ne campani "Matilde Serao" 1996 92 115 207

Cir.lo italiano arte e cultura regione Campania 1992 102 38 140

Francia

Ass.ne nazionale famiglie emigrati in Le Creusot 2000 113 68 181

Germania

Ass.ne dei campani all'estero 1995 53 6 59

Cir.lo campani di Norimberga 1997 77 29 106

Inghilterra

Ass.ne campani nel mondo 1998 61 17 78

Cir.lo calabrittano Maria SS. della Neve 1997 22 3 25

Lussemburgo

Ass.ne regionale campani Lussemburgo 1993 87 45 132

Olanda

Ass.ne campani in Olanda 1993 28 10 38

Svezia

Fais-ir delegazione campana 1997 141 170 311

Svizzera

Ass.ne campana di Coira 1994 83 0 83

Ass.ne campana di Flawil 1996 75 28 103

Ass.ne campana di Herisau 1996 55 2 57

Ass.ne campana F. De sanctis 1997 135 21 156

Ass.ne campana Lucerna 1992 43 39 82

Ass.ne campani di Basilea 1996 35 32 67

Ass.ne culturale Luigi Sturzo 1991 125 44 169

Ass.ne campania Felix 1996 54 0 54

Ass.ne campana di Winterthur 1995 50 2 52

Nuova ass.ne dei campani di Zurigo 1997 210 22 232

Totale 2575 1091 3666

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Di una buona parte delle associazioni non è stato possibile risalire all‟anno di nascita,

proprio per i motivi esplicitati sopra. Disponiamo questo dato soltanto di poche

associazioni. Infatti, tra queste se ne riscontrano alcune molto anziane, essendo nate una

trentina di anni fa. La maggior parte di esse, invece sembra nata in anni più recenti. Tra

quelle nate quasi una trentina di anni addietro (cioè a metà anni Settanta) si registra

quella operante in Svizzera denominata Campania Felix (del 1976,); mentre tra quelle

nate negli anni Ottanta vanno segnalate: l‟Associazione Campana di Lucerna (del 1982,

sempre in Svizzera) e quella di Lussemburgo (del 1983), nonché quella dei “lavoratori

emigrati campani” in Belgio (nel 1985).

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Considerando il numero di iscritti – e la loro composizione tra maschi e femmine – si

riscontra che:

a. la maggior parte delle associazioni ha una forte preponderanza maschile e

addirittura in qualcuna di esse la componente femminile è pressoché assente o

numericamente marginale. Questa asimmetria si riscontra sia nelle associazioni più

anziane che in quelle di più recente costituzione. In pratica l‟ammontare della

componente maschile si aggira intorno al 70% del totale dei soci (circa 3.600 unità)

che risultano iscritti nelle associazioni campane presenti nei diversi paesi in europei;

b. un terzo delle associazioni ha un numero di soci inferiore a cento unità (alcune

raggiungono appena 50 soci): un altro terzo un numero compreso tra 100 e 200 unità

e una parte inferiore – pari a sei unità – registra un numero di soci superiore a 300

unità (con una punta massima di 341 unità relativa all‟associazione campani in

Belgio).

Nell‟insieme le associazioni possono essere suddivise in “generaliste” allorquando

aggregano i campani in generale (a prescindere cioè dalle provincie e dai comuni di

provenienza) e in “localiste”, allorquando aggregano cittadini dei singoli e particolari

comuni di provenienza (la denominazione più diffusa in questi casi è: “associazione

campana” o “associazione di campani”, oppure “associazioni di emigrati campani”).

Secondo tale suddivisione in Europa le associazioni appartengono quasi nella loro

totalità alla prima categoria (25 su 27), mentre alla seconda se ne possono collocare

soltanto due: il Circolo di Calabritto (paese dell‟Alto Sele salernitano) e l‟associazione

di Coira.

L‟ubicazione delle associazioni nei diversi paesi europei – come emerge dalla Tab. 4.5

– è quasi sempre urbana, rispecchiando in questo la caratteristica peculiare

dell‟emigrazione italiana all‟estero. Infatti, si tratta spesso di città medio-grandi

(Norimberga, Zurigo, Basilea, Liegi) o di metropoli (come Londra, Bruxelles,

Stoccolma, Berlino, eccetera). L‟aggregazione associazionistica, dunque, appare, tra le

altre cose, anche come una strategia mirata a costruire simbolicamente un legame tra

quanti vivono un spazio urbano di particolare complessità e grandezza.

Della maggior parte delle associazioni – come riscontrabile nella Tab. 4.6 – si hanno

anche i dati complessivi riguardanti le provincie campane di provenienza degli iscritti

(per un totale di 2.389 unità, pari al 65,2% del totale, ossia 3.666 iscritti). Il numero più

alto degli associati proviene dalla provincia di Avellino (con circa il 40,0% dei casi sul

totale, appunto, di 2.389 iscritti). La maggior parte di essi è iscritta ad associazioni

belghe, in particolare: l‟Associazione dei campani emigrati in Belgio e l‟Associazione

regionale dei lavoratori emigrati campani che nell‟insieme raggiungono circa la metà

del totale degli iscritti avellinesi (488 su 951).

L‟altra città natale maggioritaria degli iscritti alle associazioni presenti nei paesi europei

sono i napoletani con 573 unità, pari a circa un terzo del totale complessivo.

L‟Associazione con il maggior numero di iscritti provenienti da Napoli è operante in

Svezia (denominata “Fairs – Ir Delegazione campana”) con 144 unità, seguita

dall‟Associazione regionale campani in Lussemburgo con 101 unità.

Page 72: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

72

Gli iscritti alle associazioni provenienti da Salerno e da Caserta ammontano,

rispettivamente, al 12,5% e al 10,5%. I primi hanno la loro roccaforte in Belgio

nell‟Associazione campani “Matilde Serrao” e nell‟Associazione dei campani emigrati

in Belgio. Fanalino di coda degli iscritti sulla base della provincia di provenienza sono i

beneventani (con il 5,4%) aggregati maggiormente nell‟Associazione Campani nel

mondo presente a Londra.

Tab. 4.5 Europa - Associazioni campane iscritte al Registro regionale per paese estero

città di ubicazione (settembre 2003)

Denominazione sociale Città

Belgio

Ass.ne campani culturale e sportiva Herstal

Ass.ne dei campani emigrati in Belgio Liegi

Ass.ne immigrati Campania Maasmechelen

Ass.ne regionale lavoratori emigrati campani La Hestre

Ass.ni campani emigrati in Belgio di Anderlues Anderlues

Ass.ne campani "Matilde Serao" Grace - Hallogne

Cir.lo italiano arte e cultura regione Campania Bruxelles

Francia

Ass.ne nazionale famiglie emigrati in Le Creusot Le Creusot

Germania

Ass.ne dei campani all'estero Berlino

Cir.lo campani di Norimberga Norimberga

Inghilterra

Ass.ne campani nel mondo Londra

Cir.lo calabrittano Maria SS. della Neve Londra

Lussemburgo

Ass.ne regionale campani Lussemburgo Niederanven

Olanda

Ass.ne campani in Olanda Vr den haag

Svezia

Fais-ir delegazione campana Stoccolma

Svizzera

Ass.ne campana di Coira Chur

Ass.ne campana di Flawil Flawil

Ass.ne campana di Herisau Herisau

Ass.ne campana F. De Sanctis Zurigo

Ass.ne campana Lucerna Lucerna

Ass.ne campani di Basilea Oberwil - basilea

Ass.ne culturale Luigi Sturzo Basilea

Ass.ne campania Felix Dubendorf

Ass.ne campana di Winterthur Winterthur

Nuova ass.ne dei campani di Zurigo Zurigo

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Page 73: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

73

Tab. 4.6 Europa – Associazioni campane iscritte al Registro regionale ubicate in paesi esteri

per Provincia di origine degli associati (v.a. e %, al settembre 2003)

Associazioni Provincia

Napoli Salerno Caserta Avellino Benevento Altro Totale

Belgio

Ass.ne campani culturale e sportiva N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne dei campani emigrati in Belgio 52 49 12 192 20 16 341

Ass.ne immigrati Campania N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne regionale lavoratori emigrati campani 1 -. 3 296 - 4 304

Ass.ni campani emigrati in Belgio di Anderlues N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campani "Matilde Serao" 18 56 17 83 3 - 177

Cir.lo italiano arte e cultura regione Campania 76 15 32 13 2 - 138

Francia

Ass.ne nazionale famiglie emigrati in Le Creusot 39 9 18 28 11 - 105

Germania

Ass.ne dei campani all'estero N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Cir.lo campani di Norimberga 74 16 - 4 - 12 106

Inghilterra

Ass.ne campani nel mondo 25 34 22 88 41 66 276

Cir.lo calabrittano Maria SS. della Neve - 6 3 7 - 9 25

Lussemburgo

Ass.ne regionale campani Lussemburgo 101 19 30 26 8 52 236

Olanda

Ass.ne campani in Olanda 14 9 11 - 2 2 38

Svezia

Fais-ir delegazione campana 144 33 35 4 - - 216

Svizzera

Ass.ne campana di Coira 6 5 18 101 6 - 136

Ass.ne campana di Flawil 17 18 28 31 6 - 100

Ass.ne campana di Herisau N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campana F. De Sanctis N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campana Lucerna 1 7 5 56 3 10 82

Ass.ne campani di Basilea N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne culturale Luigi Sturzo N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campania Felix 1 16 14 10 12 N.P. 53

Ass.ne campana di Winterthur 4 8 5 12 19 9 56

Nuova ass.ne dei campani di Zurigo N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Totale 573

(29,9)

300

(12.5)

253

(10,5)

951

(39,8)

130

(5,4)

182

(7,6)

2389

(100,0)

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

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74

Prospetto A Federazioni Campane in Svizzera e in Belgio

F.A.C.S. (Federazione Associazioni Campane in Svizzera)

Denominazione sociale Città

1 Associazione Campana Oberdorf Oberdorf

2 Associazione Campana Coira Chur

3 Associazione Campana Zugo Zug 2

4 Associazione Campana Felix Dubendorf

5 Associazione Campana La Rocca Francesco Herisau

6 Associazione Campana Basilea Oberwil

7 Associazione Campana Guatieri Giuseppe Flawil

8 Associazione Campana Francesco De Santis Zurigo

9 Associazione Campana Postfach 7007 Lucenrna

10 Associazione Campana Eifangstr. 8 Winterthur

11 Associazione Campana Rorschach Rorschach Ost

Federazioni Campane in Belgio

FAC-BEL (Federazione Associazione Campane in Belgio)

Denominazione sociale Città

1 Associazione Campana Culturale e Sport di Oupeye Oupeye

2 Associazione Campana Prov. "M. Serao" Liegi

3 Associazione Campana Emigrati in Belgio Liegi

4 Associazione Campana Emigrati in Belgio Anderlues-Charleroi

5 Associazione Immigrati Campani Maasmechelen

6 Circolo Italiano Arte e Cultura

7 Associazione Lavoratori Emigrati Campani La Louvière Centro

8 Associazione Campani "Flavio Gioia" Anversa

4.1.3 Le associazioni campane in America del Nord e in America del Sud

America del Nord

Le associazioni campane presenti nell‟America settentrionale – come si evince dalla

Tab. 4.7 – ammontano, come sopra accennato, a 31 unità, di cui 18 in Canada e 11 negli

Stati Uniti.

A differenza delle associazioni campane presenti nei paesi europei le associazioni

dell‟America settentrionale sembrano appartenere maggiormente a quella categoria che

abbiamo definito “localistica”, ossia quel tipo di associazioni che aggregano cittadini

campani provenienti dallo stesso comune di origine (24 sul totale di 29). Di questa

natura appaiono soprattutto quelle operanti in Canada (18 su 18), mentre quelle operanti

negli Stati Uniti si dividono quasi equamente tra “generaliste” (in numero di sei) e

“localistiche” (in numero di cinque).

Per quanto riguarda le associazioni campane in Canada non abbiamo dati disaggregati:

né relativamente all‟anno di iscrizione e né al numero degli iscritti suddivisi tra

Page 75: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

75

componenti maschili e femminili. Fanno eccezione soltanto tre associazioni:

l‟Avellinese di Hamilton, Le Famiglie San Pietresi di Montreal e il Circolo sociale e

culturale di San Gesualdo. Queste tre associazioni nell‟insieme hanno un totale di 680

associati, di cui 369 maschi e 311 femmine. Gli stessi dati, in maniera più significativi,

li abbiamo invece relativamente alle associazioni presenti negli Stati Uniti.

In quest‟ultima area geografica il totale degli iscritti alle associazioni ammonta a 1.888

unità, di cui 1.331 sono maschi e 557 femmine (rispettivamente il 70,5% e il 29,5%). Le

percentuali di iscritti tra maschi e femmine nelle associazioni campane negli Stati Uniti

sono uguali a quelle riscontate nelle associazioni presenti nei Paesi europei. Le

associazioni presenti in Canada sono collocate maggiormente nell‟area urbana di

Montreal (soltanto due sono collocate in città diverse: Hamilton nell‟Ontario e Ville

Saint Laurent nella provincia di Quebec). Le associazioni presenti negli Stati Uniti sono

polarizzate principalmente su due aree: una parte è ubicata nell‟area metropolitana di

New York e l‟altra in quella del New Jersey (soltanto una associazione è attiva a

Chicago)32

(Tab. 4.8)

32

Di queste associazioni non abbiamo nessun dato per quanto concerne la loro provincia campana di

origine.

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76

Tab 4.7 America del Nord - Associazioni campane iscritte al Registro regionale

per anno di iscrizione, per numero di associati e per sesso (settembre 2003)

Denominazione sociale Anno di

iscrizione Iscritti di cui

TOTALE

M F

Canada

Ass.ne alifana di Montreal N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne avellinesi di Hamilton 2002 245 200 445

Ass.ne Cerreto Sannita N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne cervinarese del Quebec N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne culturale e ricreativa di Amorosi N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne culturale e ricreativa Volturara Irpina N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne famiglie di Rocca D'evandro N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne famiglie San Pietresi di Montreal N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne Marzanellese 2002 61 62 123

Ass.ne Pontelandolfese N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne S. Bartolomeo in Galdo N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne socio culturale di Puglianello N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne Valle del Volturno N.P. N.P. N.P. -

Cir.lo sociale e culturale di San Gesualdo N.P. N.P. N.P. -

Club social st. Simon 2002 63 49 112

Club sociale Gallucciano inc. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne avellinese - I fedeli di San Gerardo di Maiella

di Irpinia

2002

91

103

194

Societa' culturale Campania N.P. N.P. N.P. -

Stati uniti

Ass.ne Caggianesi D'america 1997 101 28 129

Ass.ne campania del New Jersey 1997 28 25 53

Ass.ne ieri, oggi e domani 1997 96 40 136

Ass.ne regionale Campania dello stato dell'Illinois 1990 60 11 71

Centro culturale italiano inc. 1997 30 27 57

Club Aquilonese S. Vito martire 1997 31 24 55

Itaco U.S.A., inc. np 41 33 74

The Pontelandolfo community inc. 1996 572 8 580

Ass.ne Monte San Giacomo 1997 170 168 338

Ass.ne regionale della Campania 1997 111 90 201

Ass.ne figli di Castello Matese 1991 60 44 104

Totale 1760 912 2672

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Page 77: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

77

Tab. 4.8 America del Nord - Associazioni campane iscritte al Registro regionale per paese estero

e città di ubicazione (al settembre 2003)

Denominazione sociale Città

Canada

Ass.ne alifana di Montreal Montreal

Ass.ne avellinesi di Hamilton Hamilton, ontario

Ass.ne Cerreto Sannita Montreal

Ass.ne cervinarese del Quebec Montreal

Ass.ne culturale e ricreativa di Amorosi Montreal

Ass.ne culturale e ricreativa Volturara Irpina St. Leonard

Ass.ne famiglie di Rocca D'evandro Montreal nord

Ass.ne famiglie San Pietresi di Montreal Montreal

Ass.ne Marzanellese Montreal

Ass.ne Pontelandolfese Montreal

Ass.ne S. Bartolomeo in Galdo Montreal

Ass.ne socio culturale di Puglianello Montreal

Ass.ne Valle del Volturno Montreal nord

Cir.lo sociale e culturale di San Gesualdo Montreal

Club social st. Simon Montreal

Club sociale Gallucciano inc. St. Leonard – Montreal

Ass.ne avellinese – I fedeli di San Gerardo di Maiella di Irpinia Montreal

Societa' culturale Campania Calgary

Stati uniti

Ass.ne Caggianesi D'america Rutheford n.j.

Ass.ne campania del New Jersey Lyndhurst n. J.

Ass.ne ieri, oggi e domani Rutheford n.j.

Ass.ne regionale Campania dello stato dell'Illinois Chicago

Centro culturale italiano inc. New york

Club Aquilonese S. Vito Martire Montclair n. J.

Itaco U.S.A., inc. New york

The Pontelandolfo Community inc. Waterbury

Ass.ne Monte San. Giacomo Hoboken n.j.

Ass.ne regionale della Campania Norristown

Ass.ne figli di Castello Matese New york

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

America del Sud

Le associazioni campane presenti in America latina – come si evince dalla Tab. 4.9 –

ammontano, come accennato, a 41 unità. Il numero maggiore di queste associazioni si

trovano in Argentina e in Brasile, seguite dal Venezuela. Il Cile e il Uruguay hanno una

associazione campana per ciascuno. Della maggioranza di queste associazioni non ne

conosciamo l‟anno di nascita. Le poche informazioni che abbiamo riguardano soltanto

una decina di associazioni. Da queste informazioni sappiamo che una è nata agli inizi

degli anni Cinquanta (l‟Associazione madonna della Libera di Buenos Aires in

Argentina), un‟altra nel 1956 (il Circolo Collese di Buenos Aires in Argentina) ed

un‟altra ancora alla fine dello stesso decennio (l‟Associazione Beneficiante Amigos de

Casalbuono di San Paulo in Brasile). Le altre – di cui abbiamo informazioni al riguardo

– nascono nel corso degli anni Ottanta.

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78

L‟iscrizione al registro regionale, invece, varia nel tempo, ma comunque avviene per la

gran maggioranza delle associazioni nella seconda metà degli anni Novanta, a ridosso

della promulgazione della legge regionale (n. 2/96). Complessivamente gli iscritti alle

associazioni latino-americane raggiungono le 12.350 unità, quasi il doppi degli iscritti

alle associazioni campane in Australia, quasi il triplo degli iscritti alle associazioni

campane nei Paesi europei e quasi il quadruplo di quelli delle associazioni campane

nordamericane. Le associazioni che risultano più grandi – dal punto di vista delle

iscrizioni – sono, nell‟ordine: l‟Associazione Italo/argentina Figli di Lioni (con 1.264

unità), l‟Associazione emigranti regione Campania in Uruguay (con 1.200 unità), il

Circolo campano de La Plata (con 1.128 iscritti), l‟Associazione campani di Lara e

l‟Associazione Civile Campani dello Stato di Aragua, rispettivamente, con 1118 e 1.002

iscritti (entrambe del Venezuela), seguite dall‟Associazione Massalubrense (con 888

iscritti).

Tra gli iscritti la componente maggioritaria è quella maschile (con 6.474 unità), a fronte

delle 5.870 di quella femminile ma con percentuali molto più equilibrate di quelle

riscontrate nelle altre aree geografiche. In Argentina, ad esempio, si riscontrano alcune

associazioni che hanno una maggior presenza di donne rispetto ai maschi. Si tratta

dell‟Associazione massalubrense (di Buenos Aires) dove le componenti femminili

raggiungono 751 unità a fronte delle 137 maschili; oppure il Centro campano di San

Nicolas (nella provincia di Santa Fè) con 360 iscritte (e 173 iscritti) o il Centro Famiglia

Campana di Rosario con 171 donne e 130 maschi.

La componente femminile maggioritaria si ritrova anche nell‟Associazione

“Italo/argentina dei Figli di Lioni” (dove le iscritte raggiungono le 658 unità e i maschi

606) e nell‟Associazione Civile Campani di Caracas (in Venezuela) dove le donne

ammontano a 397 unità e i maschi a 370. Inoltre, si rileva, in maniera specifica, una

Associazione femminile della Campania (in San Paulo del Brasile). Questa supremazia

femminile non si ritrova in nessun altra associazione: né latino-americana, né

nordamericana o europea ed australiana.

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79

Tab 4.9 America del Sud - Associazioni campane iscritte al Registro regionale

per anno per numero di iscritti e per sesso (v.a. e % al settembre 2003)

Denominazione sociale Anno di

iscrizione Iscritti di cui TOTALE

M F

Argentina

Ass.ne Madonna della Libera N.P. 103 94 197

Ass.ne Massalubrense 1997 137 751 888

Ass.ne regionale campana di Mar del Plata N.P. 173 99 272

Centro famaglia campana di San Nicolas 1995 96 360 456

Centro famiglia campana di Rosario 1996 130 171 301

Cir.lo campano di La Plata 1986 N.P. N.P. N.P.

Cir.lo Collese N.P. 80 109 189

Ass.ne italiana "Regione Campania e meridionale" 1997 86 199 285

Ass.ne Reinese in Argentina 1993 289 291 580

Centro campano di Villa Regina 1999 25 36 61

Ass.ne Buccinese 1994 87 86 173

Ass.ne italiana culturale ricreativa Montemaranese 1991 88 94 182

Ass.ne Cassano Irpino 1995 71 20 91

Ass.ne italo/argentina figli di Lioni 1986 606 658 1264

Brasile

Ass.ne campani Rio de Janeiro 1996 55 32 87

Ass.ne culturale della campania "E. De Filippo" 1996 58 33 91

Ass.ne dei campani nel mondo e amici della Campania 1991 50 34 84

Ass.ne figli della Campania 1997 107 1 108

Ass.ne italiani Campania 1996 407 234 641

Ass.ne Monte San Giacomo 1997 299 16 315

Ass.ne uniao beneficiente Amigos de Casalbuono 1996 362 45 407

Nucleo de cultura italo-brasileira ass.ne campana 1991 224 207 431

Ass.ne campani Altavilla viva in Brasile 1997 98 77 175

Ass.ne campana Eduardo De Filippo 2002 91 77 168

Ass.ne femminile della Campania in Brasile 2000 42 156 198

Cile

Ass.ne Campania Cile 1997 162 120 282

Uruguay

Ass.ne emigrati Regione Campania in Uruguay 1996 780 420 1200

Venezuela

Ass.ne campana di Lara 1997 619 499 1118

Ass.ne campana Tachira 1997 115 46 161

Ass.ne campania Carabobo-c/o centro social italo venez. 1997 106 70 176

Ass.ne civile campani dello Stato di Aragua 1997 600 402 1002

Ass.ne civile campani in Venezuela di Caracas 1997 370 397 767

Totale 6516

(52,8)

5834

(47,2)

12350

(100,0)

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

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80

La preponderanza femminile e la sostanziale equidistanza tra maschi e femmine che si

riscontra in alcune associazioni e la preponderanza maschile che si riscontra invece in

altre associazioni risponde, con molta probabilità, a sistemi diversi di iscrizione dei soci.

Ad esempio, in alcune associazioni l‟iscrizione coinvolge tutto il nucleo familiare: non

solo la moglie o il marito, ma anche i figli e le figlie, in altre ancora soltanto il coniuge

(sovente la moglie). Questa pratica può spiegare, almeno in parte, la forte presenza

femminile in alcune associazioni e la pressoché mancanza in altre (la maggior parte).

Certamente non si può escludere la presenza di associazioni prettamente femminili o a

maggioranza femminili, in quanto orientate specificamente alle loro esigenze e necessità

(come la sopracitata l‟Associazione femminile della Campania di San Paulo), ma alla

fin fine appaiono piuttosto minoritarie.

Anche per l‟America latina l‟ubicazione privilegiata delle associazioni appare quella

urbano-centrica, in quanto dalla lettura della Tab. 4.10 sono le grandi città che appaiono

in prima fila: Buonos Aires, Rosario e Mar del Plata per l‟Argentina; San Paulo, Rio De

Janeiro e Belo Horizonte per il Brasile; Santiago, Montevideo e Caracas,

rispettivamente, per il Cile, l‟Uruguay e il Venezuela. Si evidenzia, dunque, ancora una

volta, una stretta correlazione tra le aree urbane storicamente significativa per

l‟emigrazione campana e la nascita e lo sviluppo di forme di auto-organizzazione

associazionistica. Aspetto che può apparire tanto logico ma che nella sostanza non lo è,

giacchè rileva linee di sviluppo associazionistico correlabili agli insediamenti migratori

urbani.

Per quanto riguarda la distribuzione in relazione alla provincia di origine degli iscritti

(campani o di origine campana) è rilevabile dalla Tab. 4.11. Il numero totale di iscritti

ammonta a 7.013 unità (pari al 57,0% del totale degli iscritti equivalente a 12.350 casi).

Il gruppo provinciale più folto appare quello salernitano con una percentuale pari a circa

un terzo del totale (il 35,7%). Questa componente è numericamente significativa in

Argentina, in quanto i salernitani ammontano a circa 1.600 unità. I due terzi di queste

(pari a circa 1.100 unità) sono associati nell‟Associazione Italo/argentina “I figli di

Lioni” operante nella città di Santa Fè. Gli altri 500 associati di origine salernitano sono

distribuiti nelle altre associazioni argentine e venezuelane.

Gli associati di origine napoletana e avellinese ammontano, rispettivamente, intorno alle

850 unità (pari a circa il 12% del totale). Ma mentre i napoletani, seppur predominanti

in Argentina (con 385 unità), sono presenti anche in Brasile e in Venezuela gli

avellinesi si concentrano maggiormente in Argentina (tra Buenos Aires e Santa Fè). I

beneventani e i casertani appaiono piuttosto minoritari rispetto alle altre componenti.

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Tab. 4.10 America del Sud - Associazioni campane iscritte all‟Albo regionale per paesi esteri e città

di ubicazione (al settembre 2003)

Denominazione sociale Città

Argentina

Ass.ne campani nel mondo di Rosario Santafe

Ass.ne famiglia campana di general S. Martin S. Martin Mendoza

Ass.ne famiglia campana di Mendoza Mendoza

Ass.ne Madonna della Libera Buenos Aires

Ass.ne Massalubrense Buenos Aires

Ass.ne regionale campana di Mar del Plata Mar del Plata

Centro famaglia campana di San Nicolas San Nicolas

Centro famiglia campana di Rosario Rosario

Cir.lo campano di La Plata La plata – Bueno Aires

Cir.lo Collese Buenos Aires

Ass.ne italiana “Regione Campania e meridionale” Temperley

Ass.ne reinese in Argentina Martin Coronado

Centro campano di Villa Regina Villa Regina

Ass.ne Buccinese Ciudad Madero Bueno Aires

Ass.ne italiana culturale ricreativa Montemaranese Martin Coronado Bueno Aires

Ass.ne Cassano Irpino Buenos Aires

Ass.ne italo/argentina Figli di Lioni Santafe

Brasile

Ass.ne campani Rio de Janeiro Rio de Janeiro

Ass.ne culturale della campania “E. De Filippo” San Paolo

Ass.ne dei campani nel mondo e amici della Campania Belo Horizonte

Ass.ne figli della Campania Curutibia – Parana

Ass.ne italiani Campania San Paolo

Ass.ne monte San Giacomo San Paolo

Ass.ne uniao beneficiente Amigos de Casalbuono San Paolo

Nucleo de cultura italo-brasileira ass.ne campana Valença – estado Rio de Janiero

Ass.ne campani Altavilla viva in Brasile San Paolo

Ass.ne campana Eduardo De Filippo Belo horizonte

Ass.ne femminile della campania in Brasile San Paolo

Cile

Ass.ne Campania Cile Santiago

Uruguay

Ass.ne emigrati Regione Campania in Uruguay Montevideo

Venezuela

Ass.ne campana di Lara Barquisimeto

Ass.ne campana Tachira San Cristobal - Tachira

Ass.ne campania Carabobo Valencia

Ass.ne civile campani dello Stato di Aragua Maracay

Ass.ne civile campani in Venezuela di Caracas Caracas

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

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Tab 4.11 America del sud - Associazioni campane iscritte al Registro regionale ubicate in paesi

esteri per Provincia di origine degli associati (v.a. e %, al settembre 2003)

Denominazione sociale Provincia

Napoli Salerno Caserta Avellino Benevento Altro Totale

Argentina

Ass.ne campani nel mondo di Rosario 28 95 4 48 149 1 325

Ass.ne famiglia campana di General S. Martin 73 47 12 - - 2 134

Ass.ne famiglia campana di Mendoza N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. - Ass.ne Madonna della Libera N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne Massalubrense N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne regionale campana di Mar del Plata 118 5 4 7 2 135 271

Centro famaglia campana di San Nicolas - 80 - 32 104 - 216 Centro famiglia campana di Rosario 41 6 - 82 80 - 209

Cir.lo campano di La Plata 37 93 59 22 27 - 238

Cir.lo Collese N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne ital. "Regione Campania e merid.le" 40 16 20 22 13 - 111 Ass.ne reinese in Argentina N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Centro campano di Villa Regina 48 - - 6 7 - 61

Ass.ne Buccinese - 173 - - - - 173

Ass.ne ital. cult.le ricreativa Montemaranese - - - 182 - - 182 Ass.ne Cassano Irpino - - - 64 - - 64

Ass.ne italo/argentina Figli di Lioni - 1095 - 129 - 40 1264

Brasile

Ass.ne campani Rio de Janeiro N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. - Ass.ne culturale Campania "E. De Filippo" 35 43 - 6 2 5 91

Ass.ne campani nel mondo e amici della Campania 8 74 - - - - 82

Ass.ne figli della Campania N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne italiani Campania N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. - Ass.ne Monte San Giacomo 15 280 - - - 20 315

Ass.ne uniao beneficiente Amigos de Casalbuono 111 - - - - 9 120

Nucleo de cultura italo-brasileira ass.ne campana N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campani Altavilla viva in Brasile 10 145 2 6 4 8 175 Ass.ne campana Eduardo De Filippo N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne femminile della Campania in Brasile 67 48 - - - 83 198

Cile

Ass.ne Campania Cile 56 14 20 6 9 177 282

Uruguay

Ass.ne emigrati regione Campania in Uruguay N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Venezuela

Ass.ne campana di Lara 42 106 5 29 54 882 1118 Ass.ne campana Tachira 82 16 8 156 71 385 716

Ass.ne campania Carabobo 14 98 - 57 7 - 176

Ass.ne civile campani dello Stato di Aragua 49 70 20 41 25 287 492

Ass.ne civile campani in Venezuela di Caracas N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Totale 874

(12,5)

2504

(35,7)

154

(2,1)

895

(12,89

554

(7,9)

2034

(29,09)

7013

(100,0)

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il

Settore Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Page 83: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

83

Prospetto B

NUOVA FEDERAZIONE CAMPANI IN ARGENTINA

N° Associazioni Città

1 C.I. Avellino* Lanus

2 U.D.A.I.A. Martin Coronado

3 Circolo Napoletano Florida

4 Ass.ne San Antonio Saradi

5 Ass.ne Culturale Montemaranese* Renedios de Escadada

6 Ass.ne S. Gregorio Magno Ciudadela

7 Ass.ne Reinese Martin Coronado

8 Ass.ne Italiana Regione Campania Temperly

9 Ass.ne Cassano Irpino* El Palomar

10 Ass.ne Frigentina S. Rocco El Palomar

11 Ass.ne S. Rosalia di Lentiscosa Villa Adelina

12 Ass.ne S. Antonio da Padova Moron

13 Ass.ne S. Michele Arcangelo* Lanus

14 Ass.ne Massalumbrese Capital Federal

15 Circolo Campano La Plata La Plata

FE.NA.RE.CA.

1 C.I. Avellino* Lanus

2 Ass.ne Buonalberguesa Zapiales

3 Ass.ne Campani di Buenos Aires Capital Federal

4 Ass.ne Campani in Argentina Capital Federal

5 Ass.ne Madonna dell‟Abbondanza Capital Federal

6 Ass.ne Giovanile Regione Campania Valentin Alsina

7 Ass.ne Campania di Junin Junin

8 Ass.ne Molinarese* Temperly

9 Ass.ne Madonna della Libera Capital Federal

10 Ass.ne Campania di S. Teresita P.cia Buenos Aires

11 Circolo campano di Lanus P.cia Buenos Aires

12 Ass.ne Madonna SS. Dell‟Incoronata P.cia Buenos Aires

13 Ass.ne campana di Mercedes P.cia Buenos Aires

14 Ass.ne S. Michele del Serino Lomas de Zamora

15 Circolo Collese* P.cia Buenos Aires

16 Ass.ne Buccinese* P.cia Buenos Aires

17 Ass.ne Madonna SS. Montevergine Lanus

18 Ass.ne Campania di Temperly Temperly

19 Ass.ne San Bartolomeo P.cia Buenos Aires

20 Ass.ne Campanos di Olavania P.cia Buenos Aires

F:A:E.N.C.A.

1 Ass.ne Regionale di Mar del Plata Mar del Plata

2 Centro Famiglia campana di Rosario Rosario

3 Ass.ne Famiglia campana di S. Martin Mendoza

4 Ass.ne Campani nel Mondo di Rosario Rosario

5 Ass.ne Famiglia campana di Mendoza Mendoza

6 Centro Famiglia Campana di S. Nicolas San Nicolas

Significativoinvece è l‟amontare degli iscritti discendenti di campani, aggregati sotto la

voce “Altro”. Si tratta nella gran maggioranza di parenti e soprattutto figli e discendenti

diretti degli associati. Questi rappresentano circa il 30% del totale complessivo, anche

se la loro distribuzione per area geografica appare disomogenea.

Infatti, circa i tre quarti del numero di questi discendenti (di seconda e terza

generazione) appare iscritta a tre Associazioni diverse presenti in Venezuela: la prima è

l‟Associazione Campana di Lara (con 882 iscritti), la seconda è l‟Associazione

Campana di Tachira (con 385 iscritti) ed infine l‟Associazione Civile dei campani dello

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84

Stato di Aragua (con 287 iscritti). E‟ interessante notare che gli iscritti di queste ultime

Associazioni si dividono equamente (con il 50% per ciascun gruppo) tra quelli nati in

Venezuela - o meglio nelle città dove operano le associazioni medesime – e quelli nati

in Campania e poi emigrati in queste aree.

4.1.4. Le associazioni campane in Australia

Le associazioni campane presenti in Australia – come è possibile leggere dalla Tab.

4.12 – sono 28. Le associazioni dei campani operanti in diverse aree australiane

sembrano appartenere maggiormente a quella categoria che abbiamo definito

“localistica”. Infatti, su 28 associazioni ben 20 si richiamano ai comuni e ai municipi di

provenienza e soltanto otto hanno nella loro denominazione il richiamo ai Campani in

generale. Rispetto all‟anno di nascita delle associazioni non abbiamo molte

informazioni; quelle che abbiamo riguardano soltanto cinque di esse. Da queste scarne

notizie apprendiamo che qualcuna risale agli anni Cinquanta (il periodo delle prime

migrazioni verso l‟Australia) e qualcun'altra agli anni Settanta. Maggiori informazioni

le abbiamo, ovviamente, in relazione all‟anno di iscrizione al Registro regionale delle

associazioni. Da queste possiamo dedurre che l‟iscrizione è avvenuta – per la gran

maggioranza di esse – nella seconda metà degli anni Novanta; cioè a ridosso della

promulgazione della legge n. 2/96 (come del resto la maggior parte delle associazioni

all‟esame).

Il numero complessivo di iscritti alle associazioni operanti in Australia è di 5.223 unità,

di cui 3.394 rappresentati dalle componenti maschili e 1.679 da quelle femminili. Tra

l‟una e l‟altra si registra una sostanziale differenza: il gruppo femminile raggiunge un

terzo del totale, ciò vuol dire che le percentuali maschili raggiungono circa il 70%;

percentuale uguale a quelle riscontrate per le associazioni che operano nei paesi europei

e statunitensi. Rapporto che ritorna costantemente in evidenza, quasi marcando una

caratteristica strutturale dell‟associazionismo campano all‟estero. Per quanto riguarda la

collocazione spaziale delle associazioni va sottolineato il fatto che una buona parte di

esse (pari a circa la metà) si trovano nell‟area meridionale dell‟Australia, soprattutto

nella provincia di Adelaide (Tab. 4.13). Un‟altra area di ubicazione delle associazioni è

quella di Sidney e di Camberra. Le provincie di origine degli iscritti alle associazioni è

rapportabile a 2.961 unità (pari a circa il 57,0% del totale degli iscritti equivalente a

5.223 casi), come evidenziato dalla Tab. 4.14. Il gruppo provinciale più consistente

appare quello beneventano con una percentuale pari a poco più di un terzo del totale (il

36,1%).

Page 85: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

85

Tab 4.12 Australia - Associazioni campane iscritte al Registro regionale per anno per numero di

iscritti e per sesso (v.a. e % al settembre 2003)

Denominazione sociale Anno di

iscrizione

Iscritti di cui TOTALE

M F

Altavilla Irpina sports e social club 1997 109 8 117

Ass.ne Madonna Dell'arco 2002 78 49 127

Ass.ne battenti San Pellegrino Martire N.P. N.P. N.P. N.P.

Ass.ne beneventani 1997 100 50 150

Ass.ne campani di Perth - w.a. 1997 146 113 259

Ass.ne napoletana 1997 46 4 50

Ass.ne regione Campania di Canberra 1996 312 275 587

Ass.ne salernitana 1997 48 24 72

Ass.ne salernitani del Victoria N.P. N.P. N.P. N.P.

Campania club Brisbane 1997 65 22 87

Campania sports & social club inc. 1997 607 65 672

Campania Vesuvio sport & social club inc. 1991 568 640 1208

Comitato cultura tradizionale di S. Giorgio La Molara 1997 35 15 50

Comitato culturale di Altavilla Irpina inc. 1996 228 12 240

Comitato di San Donato 1997 30 18 48

Gruppo di preghiera Padre Pio 1996 51 64 115

Gruppo folkloristico "La Taccarata" 1997 59 45 104

Il Pietrelcina comitato sociale e ass. Padre Pio 1997 47 35 82

Molinara social e sports club 1997 231 19 250

Salerno ass.ne del south Australia 1997 30 25 55

San Giorgio La Molara - community centre inc. 1997 333 33 366

San Pellegrino Martire 1997 48 35 83

Ass.ne st. Andrea Irpina 1997 151 65 216

St. Nicolas society inc. 1997 31 30 61

Ass.ne avellinese del Victoria 1995 76 42 118

Ass.ne Benevento e provincia 1997 N.P. N.P. N.P.

Ass.ne dei Sanniti del Victoria 1997 32 20 52

Comitato San Marco festa 1997 33 21 54

Totale 3494

(66,9)

1729

(33,19

5223

(100,0)

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Page 86: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

86

Tab. 4.13 Australia - Associazioni campane iscritte al Registro regionale per città di ubicazione

(al settembre 2003)

Denominazione sociale Città

Altavilla Irpina sports e social club Adelaide

Ass.ne Madonna Dell'arco Adelaide

Ass.ne battenti San Pellegrino Martire Hectorville

Ass.ne beneventani Sydney

Ass.ne campani di Perth - w.a. Perth

Ass.ne napoletana Sidney

Ass.ne regione Campania di Canberra Canberra

Ass.ne salernitana Maroubra

Ass.ne salernitani del Victoria Ascot vale victoria

Campania club Brisbane Brisbane

Campania sports & social club inc. Adelaide

Campania Vesuvio sport & social club inc. Pascoe vale

Comitato cultura tradizionale di S. Giorgio La Molara Adelaide

Comitato culturale di Altavilla Irpina inc. Newton

Comitato di San Donato Adelaide

Gruppo di preghiera Padre Pio Adelaide

Gruppo folkloristico "La Taccarata" Adelaide

Il Pietrelcina comitato sociale e ass. Padre Pio Adelaide

Molinara social e sports club Adelaide

Salerno ass.ne del south Australia Adelaide

San Giorgio La Molara - community centre inc. Payneham

San Pellegrino Martire Adelaide

Ass.ne st. Andrea Irpina St. Port kembla

St. Nicolas society inc. Adelaide

Ass.ne avellinese del Victoria Clayton

Ass.ne Benevento e provincia Carlton

Ass.ne dei Sanniti del Victoria Bondi

Comitato San Marco festa Adelaide

Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

Page 87: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

87

Tab 4.14 Australia - Associazioni campane iscritte al Registro regionale ubicate in paesi esteri

per Provincia di origine degli associati (v.a. e %, al settembre 2003)

Denominazione sociale Provincia

Napoli Salerno Caserta Avellino Benevento Altro Totale

Altavilla Irpina sports e social club N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne Madonna Dell'arco 100 - 12 - - - 112

Ass.ne battenti San Pellegrino Martire - - - 69 14 - 83

Ass.ne beneventani N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne campani di Perth - w.a. 4 19 43 73 - - 139

Ass.ne napoletana 26 13 5 3 3 - 50

Ass.ne regione Campania di Canberra N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne salernitana N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne salernitani del Victoria 8 31 - - 4 - 43

Campania club Brisbane 8 62 4 4 8 5 91

Campania sports & social club inc. 240 84 114 150 620 - 1208

Campania Vesuvio sport & social club

inc.

N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Comitato cultura tradizionale di S.

Giorgio La Molara

- - - - 50 - 50

Comitato culturale di Altavilla Irpina

inc.

- - - 99 - - 99

Comitato di San Donato - - - - 69 - 69

Gruppo di preghiera Padre Pio - - 6 23 65 21 115

Gruppo folkloristico "La Taccarata" - - - 4 85 15 104

Il pietrelcina comitato sociale e ass.

Padre Pio

N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Molinara social e sports club - 240 - - - 10 250

Salerno ass.ne del south Australia 1 83 - - 27 2 113

San Giorgio La Molara - community

centre inc.

N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

San Pellegrino Martire N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne st. Andrea Irpina - - - 195 - - 195

St. Nicolas society inc. - - - - 70 - 70

Ass.ne avellinese del Victoria - 10 - 95 4 9 118

Ass.ne Benevento e provincia N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Ass.ne dei Sanniti del Victoria - - - - 50 2 52

Comitato San Marco festa N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. N.P. -

Totale 387

(13,1)

542

(18,3)

184

(6,2)

715

(24,1)

1069

(36,1)

64

(2,1)

2961

(100,0) Fonte: ns. elaborazione su dati del Registro regionale delle Associazioni Campane nel mondo presso il Settore

Emigrazione – Assessorato al mercato del lavoro, all‟immigrazione e all‟emigrazione

L‟associazione che aggrega più della metà dei beneventani è quella denominata

“Campania Sports e Social Club” (di Adelaide) che conta ben 620 soci provenienti tutti

dalla stessa provincia. Anche gli avellinesi sono ben rappresentati. Essi ammontano,

infatti, al 24,1% del totale complessivo (con 715 unità), distribuiti per una buona metà

in due associazioni: quella che aggrega gli emigranti di “San Pellegrino Martire”

operante ad Adelaide (con 195 casi) e quella citata per i beneventani (ossia “Campania

Sports e Social Club). La terza componente provinciale – in ordine decrescente di

importanza numerica – è quella salernitana. Questa componente ammonta

complessivamente a circa 550 unità (pari al 18,3% del totale).

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88

Il gruppo più rappresentato è quello iscritto all‟Associazione Molinara Social e Sports

Club con 240 unità e in subordine a quello iscritto alla già citata “Campania Sports e

Social Club” (associazione piuttosto trasversale, anche per il tipo di offerta che

propone). Questa formula – a parte la specificità provinciale degli iscritti – basata sullo

sport e sull‟offerta di spazi ricreativi sembra tuttavia essere piuttosto aggregante.

I napoletani e i casertani appaiono numericamente minoritari: il primo gruppo ammonta

al 13% e il secondo al 6%.

Anche la componente formata dai discendenti non appare significativa dal punto di vista

numerico (anche se occorre ricordare che probabilmente tale aggregato varia anche sulla

base delle modalità di registrazione che, come sopra ricordato, non sono sicuramente

omogenee).

La componente napoletana è aggregata nella quasi totalità in due associazioni: una è

quella della “Madonna dell‟Arco” (Comune in provincia di Napoli) – e pertanto di tratta

di una associazione localistica – e l‟altra è quella già più volte ricordata, ossia la

“Campania Sports e Social Club” (di Adelaide) di carattere più “generalista”.

Prospetto C – Federazioni Campane in Sud Australia

FAECSA (Federazione delle Associazioni Emigrati Campani in Sud Australia)

Denominazione sociale Città

1 Campania Sports & Social Club Modbury North

2 Altavilla Irpinia Sports & Social Club Beulah Park

3 Associazione Padre Pio di Pietralcina Newton

4 Associazione Madonna dell'Arco Highbury

5 Molinara Sports & Social Club Inc. Windsor Gardens

6 San Donato Comitato Festa Klemzig

7 San Giorgio Martire Comitato Festa Campbelltown

8 San Marco Comitato Festa Newton

9 San Nicola Comitato Festa Payneham

10 Amministrazione San Pellegrino Martire Prospect

11 Comitato San Rocco di Paduli Athelstone

12 Associazione di Cultura Tradizionale di San Giorgio La Molara Hectorville

13 San Giorgio La Molara Community Centre Inc. Payneham

14 Salerno Associazione of south Australia Inc. Findon

15 Pietralcina Comitato Sociale & Associazione Padre Pio da Pietralcina Hectorville

16 Comitato Culturale di Altavilla Irpina Inc. Newton

17 Gruppo Folcloristico Campano "La Taccarata" Hope Valley

18 Ital. Uil Social & Cultural Service Stepney

4.2 Le associazioni campane all‟estero. L‟analisi dei questionari

4.2.1 Il questionario epistolare come scelta obbligata

Questa parte dell‟indagine riporta i risultati dell‟analisi di dati ed informazioni acquisiti

attraverso l‟invio di un questionario ai responsabili delle associazioni appositamente

predisposto, al fine di comprendere alcuni aspetti specifici della vita delle stesse

associazioni. La scelta del questionario postale è stata piuttosto vincolante, in quanto le

associazioni oggetto di indagine sono distribuite – come abbiamo evidenziate nel

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89

capitolo precedente – nei cinque continenti, anche se in misura differenziata. A tale

scopo è stato predisposto un apposito indirizzario sulla base di quello in possesso del

Settore emigrazione competente, selezionando – già in maniera preventiva – quelle

associazioni il cui indirizzo appariva completo e comprensibile.

Sulla base di questa prima selezione il questionario è stato inviato in tre spedizioni

successive a tutte le associazioni iscritte e non iscritte all‟Albo regionale, ossia a 159

unità complessive. Dalle diverse spedizioni effettuate sono tornate indietro circa 45

questionari (pari al 38% circa del totale), di cui soltanto trenta ben compilati (quindici,

infatti, sono stati scartati perché in bianco o incompleti). Oltre a questi, però, ne sono

tornati indietro con la dicitura “indirizzo sbagliato” o “destinatario non reperibile”

almeno un‟altra trentina (18 con la prima e 12 con la seconda dicitura). Pertanto,

togliendo questi ultimi dalle 159 unità totali, abbiamo sostanzialmente ricevuto trenta

questionari utilizzabili su 120 presumibilmente arrivati a destinazione e che in pratica

hanno formato l‟universo di riferimento.

A questi trenta arrivati per posta ne abbiamo aggiunti altri otto, in quanto sono stati

acquisiti in parte (in numero di cinque) da interviste effettuate direttamente durante la

missione svolta dalla Filef in Argentina e in Brasile meridionale ed in parte (in numero

di tre) dalle informazioni in possesso del Settore emigrazione dell‟Assessorato.

Informazioni che hanno permesso di compilare adeguatamente il questionario. Per

molte altre associazioni ciò non è stato possibile, giacchè le informazioni, al contrario,

non erano sufficienti per completare l‟insieme delle domande previste nel questionario

medesimo.

Complessivamente, dunque, i ritorni – in termini percentuali – hanno raggiunto il 25%

del totale dei questionari inviati e che ipoteticamente sono arrivati a destinazione33

.

Aggiungendo a questo 25% gli altri otto acquisiti in maniera diretta si arriva a circa il

32% del totale, ossia a quasi un terzo dell‟intero universo totale complessivo. Questa

ultima percentuale seppur considerevole dal punto di vista dei ritorni dei questionari

epistolari, appare piuttosto modesta per poter avanzare delle analisi generalizzabili a

tutto l‟universo delle associazioni dei campani che operano all‟estero. Altri otto

questionari sono arrivati sopo che il gruppo di ricerca aveva “chiuso” il tempo previsto

per i rientri dei questionari. Infatti, questi ultimi sono arrivati tra novembre e dicembre

2003.

Ma la non generalizzazione non implica l‟impossibilità di avanzare delle riflessioni al

riguardo, anche se con le dovute cautele che si impongono ad un “campione” limitato.

Per questo le analisi verranno effettuate utilizzando sempre i valori assoluti e non quelle

percentuali che rischierebbero di sfalsare di fatto l‟analisi medesima.

33

Secondo Kenneth P. Baily tra le ricerche effettuate mediante l‟utilizzo del questionario postale “sono

molto più numerose … (quelle) che ottengono tassi di risposta variabili tra il 10 e il 20 % che non quelle

che arrivano al 90%”. Tale tasso dipende da diverse variabili, non secondaria è la distanza, l‟interesse dei

destinataria a rispondere ad un questionario spedito da Enti con cui non hanno rapporti correnti, la facilità

con cui sono poste le domande, il grado di istruzione dei destinatari, eccetera. Cfr. K. P. Baily, Metodi

della ricerca sociale, Il Mulino, Bologna, 1991, p. 201 e segg.

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90

4.2.2 Le caratteristiche degli interpellati

Il questionario è stato inviato espressamente al Presidente dell‟associazione in quanto

Testimone-chiave della vita delle associazioni all‟esame. La figura del Presidente nelle

associazioni dei campani all‟estero – oltre all‟importanza formale che rivestono

generalmente in tutte le associazioni – ha una sua specifica significatività, giacchè in

molti casi è anche il fondatore dell‟associazione. Aspetto che lo pone in una posizione

conoscitiva non indifferente che va al di là delle conoscenze contingenti e specifiche

che si possono avere di una associazione.

Queste caratteristiche hanno fatto pensare ad una figura di intervistato diligente e

propenso, quindi, ad offrire la sua collaborazione all‟indagine, anche perché

direttamente collerabile alle attività istituzionali del Settore emigrazione regionale.

Questo profilo, infatti, ha avuto una prima conferma nel fatto che ad una prima mandata

di questionari (aprile-giugno 2003) i ritorni sono stati piuttosto alti (circa il 20% del

totale). Questo primo risultato ha fatto sperare che ad una seconda mandata si potesse

raggiungere un tasso di rientri altrettanto alto e significativo. Fatto che invece non si

manifestato, giacchè i rientri sono stati progressivamente minori rispetto al primo. Nel

senso che i solleciti non hanno prodotto l‟effetto sperato: quello cioè di arrivare ad un

tasso di rientri stimato dal gruppo di ricerca intorno al 40%.

In effetti, questo obiettivo è stato raggiunto, considerando il totale complessivo dei

rientri registrati (circa il 38%); cioè il totale comprensivo dei questionari utilizzati e di

quelli non utilizzati perché in parte bianchi o non riempiti come richiesto e in parte

riempiti ma con risposte parziali e non congruenti. Questo dato fa pensare, ciò

nonostante, che i destinatari del questionario una significativa corrispondenza alla

ricerca l‟hanno comunque garantita; così come hanno ben recepito le sollecitazioni che

man mano venivano fatte per aumentare il tasso di rientri dei questionari. Il gran

numero di questionari non utilizzati perché riempiti solo parzialmente (circa quindici

unità) fa pensare, inoltre, alla difficoltà che una parte dei Presidenti-destinatari hanno

potuto avere nel redigere il questionario medesimo: sia per la lunghezza delle domande,

sia per le difficoltà linguistiche che possono aver incontrato, eccetera34

.

I Presidenti-destinatari del questionario – come risultava dall‟indirizzario approntato –

erano in gran maggioranza maschi e questa maggioranza si è riflessa proporzionalmente

nel numero dei questionario ritornati e complessivamente utilizzati, cioè 38 unità. Tra

quanti hanno risposto a questi questionari, infatti, ben 33 sono maschi e soltanto cinque

femmine (Tab. 4.15).

Tab 4.15 Presidenti di Associazioni per sesso

Sesso v.a.

Maschi 33

Femmine 5

Totale 38

34

Nel redigere il questionario semi-strutturato ci siamo trovati di fronte ad un problema, abbastanza

comune, ossia: costruirne uno “leggero” (con poche chiare domande) o uno “pesante” (con un numero di

domande maggiore e con quesiti più complessi)? Noi abbiamo optato per il secondo, poiché nel primo

caso possono sorgere gli stessi problemi di comprensione e non avere così informazioni sufficienti. Con

un questionario più lungo e più complesso è possibile, o meglio è quantomeno ipotizzabile, che

comunque una base informativa si riesce ad avere. Questo approccio, infatti, ha dato i suoi risultati e

permesso di descrivere le caratteristiche di base delle Associazioni esaminate.

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91

La carica di Presidente dell‟associazione è tradizionalmente appannaggio maschile; le

donne – quando sono presenti ed attive nelle associazioni – rivestono il ruolo che hanno

comunemente nelle famiglie tradizionali: quello di organizzare momenti di socialità,

cucinare nelle feste e fare in modo che tutto funzioni come da programma. Questa

suddivisione dei ruoli – in forma così marcata – è ancora molto presente, quasi a

prescindere dalle caratteristiche storiche dell‟emigrazione e soprattutto dai contesti di

insediamento.

Le eccezioni – come abbiamo riscontrato – sono poche, e soltanto quando a Presidente-

donna corrispondono associazioni composte da sole donne o a forte prevalenza

femminile.

4.2.3 I paesi di insediamento delle associazioni, le esperienze associazionistiche

dei fondatori e i profili sociali dei responsabili

Come abbiamo già accennato nel capitolo precedente le associazioni dei campani sono

distribuite in diversi paesi in maniera differente, sulla base delle caratteristiche storiche

dell‟emigrazione campana nelle diverse e specifiche realtà di insediamento. Le

associazioni all‟esame – ossia quelle che hanno risposto al questionario postale – sono

ubicate in maniera diversa, come si evidenzia dalla Tab. 4.16.

Questa distribuzione deriva in primo luogo dall‟interesse dimostrato per gli obiettivi

della ricerca da parte dei Presidenti-destinatari del questionario e in secondo luogo

anche dal cambiamento di sede o dall‟irreperibilità di una parte delle associazioni (cfr. i

questionari ritornati perchè il mittente era “sconosciuto” o “non reperibile”). Non è

secondario, al riguardo, comunque, il fatto che una piccola parte delle interviste in

America Latina – in particolare in Argentina e in Brasile – sono state fatte vis a vis.

Tab. 4.16 Paese di ubicazione delle Associazioni rispondenti

Aree geografiche Associazioni iscritte Associazioni rispondenti

v.a. % v.a. %

Europa, di cui:

- Belgio

- Svizzera

- Lussemburgo

25

(7)

(10)

(1)

20,2 3

(1)

(1)

(1)

7,9

America del Nord, di cui:

- Canada

- Usa

29

(1)8

(11)

23,3 6

(4)

(2)

15,8

America latina, di cui:

- Argentina

- Brasile

- Uruguay

- Venezuela

41

(23)

(11)

(1)

(5)

33,1 26

(16)

(7)

(1)

(2)

60,4

Australia 28 22,6 3 7,9

Sud Africa 1 0,8 - -

Totale 124 100,0 38 100,0

Le associazioni campane – come de resto anche quelle degli italiani originari di altre

regioni – sono molto spesso il risultato congiunto di esperienze associazionistiche

maturate in ambiti diversi. Ossia di esperienze sviluppatesi in gruppi parrocchiali di

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92

base, in organizzazioni sindacali o all‟interno di partiti politici e finanche nelle vecchie

società di Mutuo soccorso operanti nei paesi di emigrazione fino al secondo anteguerra.

Buona parte delle attuali associazioni sono spesso il risultato di disaggregazioni di

associazioni più grandi formate non da “cittadini campani” ma da “cittadini italiani”.

Questo processo di disaggregazione avviene in gran parte a cavallo tra la prima e la

seconda metà degli anni Settanta, allorquando l‟istituzione delle Regioni – e delle

seguenti disposizioni normative in favore degli emigrati – contemplava, tra le altre cose,

anche una timida attenzione all‟associazionismo su base locale. Infatti, come si evince

dalla Tab. 4.17, che mette in luce la provenienza dei soci fondatori, la maggior pare di

essi provengono, appunto, da “altre associazioni di italiani”. Insomma, a forme

associazionistiche “generaliste” (come vengono definite dagli stessi intervistati nel

capitolo che segue) susseguono forme associazionistiche di tipo localistico che

aggregano cittadini della stessa comunità paesane di origine.

Tab. 4.17 Esperienza maturata in altre organizzazioni dai soci fondatori

Organizzazione v.a.

Società di Mutuo soccorso 7

Sindacato, partiti politici 9

Parrocchia o organizzazioni religiose 23

Altre Associazioni di Italiani 27

Altre Associazioni di Italiani ed altri stranieri 6

No, in nessun altra 2

Totale 74

Un‟altra provenienza importante dei soci fondatori è quella parrocchiale, nonché quella

delle organizzazioni religiose. Ad una esperienza più legata agli aspetti religiosi della

vita segue una esperienza legata più agli aspetti socio-culturali, tipici delle associazioni

di emigranti. Importante, come accennato, appaiono le provenienze dalle Società di

Mutuo soccorso, dalle organizzazioni sindacali e dai partiti politici. Sono strutture

piuttosto diverse tra loro, in quanto le prime – già nel secondo dopo guerra – appaiono

già residuali, mentre le secondo appaiono in piena evoluzione35

. Ciò nonostante queste

diverse provenienze, nel loro insieme, manifestano al contempo, e in maniera più

specifica, delle appartenenze sociali multiple da parte dei fondatori. Ossia, alla

frequentazione dei gruppi parrocchiali o sindacali si affianca contemporaneamente

l‟esperienza dell‟associazione, dell‟aggregazione dei compaesani e dei corregionali.

Ma chi sono – dal punto di vista sociale – i Presidenti delle associazioni? Sulla base di

quale profilo sociale vengono eletti e considerati punti di riferimento significativi

nell‟ambito delle comunità locali formatesi nei paesi di insediamento. Una prima

risposta si ricava sinteticamente dalla Tab. 4.18, laddove si evince che i Presidente sono

le persone che hanno – più degli altri membri della comunità – uno spiccato “spirito

altruistico”. Intendendo con tale termine una persona disponile all‟ascolto dei

compaesani, capace di mobilitare risorse in favore della comunità e finanche risorse a

35

Per un approfondimento di questi aspetti dell‟associazionismo italiano all‟estero, soprattutto in America

latina, cfr. Alicia Bernasconi, Le associazioni italiane nel secondo dopo guerra: nuove funzioni per nuovi

immigrati, in Gianfranco Rosoli (a cura di), “Identità degli italiani in Argentina. Reti sociali, famiglia,

lavoro”, Edizioni Studium, Roma, 1993, p. 321 e segg.

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beneficio dei singoli membri, soprattutto in condizioni di svantaggi sociali ed

economici.

Queste persone hanno altresì capacità di “influire culturalmente” nelle scelte e nelle

decisioni comunitarie, di orientare i percorsi comuni. Insomma, una persona capace di

aggregare la comunità, capace di produrre una cultura solidaristica, capace di creare le

condizioni di rendere coesa l‟associazione e (per approssimazioni) l‟intera comunità.

Anche le capacità politiche – e quindi la capacità di negoziazione tra conflitti interni ed

esterni all‟associazione – appaiono un bagaglio necessario per rafforzare il profilo

sociale del Presidente. Essere persone di successo o soltanto persone che hanno studiato

più degli altri non appaiono doti particolarmente attraenti per essere scelti come

Presidenti di associazione da parte della comunità più organizzata.

Tab. 4.18 Chi sono i Presidenti

Profilo socio-economico v.a.

Coloro che sono più Influenti culturalmente 12

Coloro che hanno più Successo economico e sociale 3

Coloro che hanno più Spirito altruistico 20

Coloro che hanno più Capacità politiche 9

Coloro che si presentano come candidati 7

Coloro che hanno studiato di più 3

Coloro che hanno maggiori contatti con le istituzioni dei paesi di accoglienza 14

Altro 3

Totale 71

C‟è da registrare, tuttavia, che i Presidenti hanno una longevità della carica piuttosto

significativa. Sono infatti Presidenti mediamente da una decina di anni e in alcuni casi

anche di più. Aspetto che limita, ovviamente, il ricambio generazionale e rischia di

limitare la partecipazione dei giovani o comunque spingerla all‟indietro e collocarla,

all‟interno dell‟associazione, in modo subalterno.

4.2.4 L‟anno di fondazione, la struttura organizzativa e l‟ambito territoriale

di intervento

Le associazioni all‟esame nascono in maggioranza nel corso di un ventennio, ossia tra

gli inizi degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta (Tab. 4.19). La loro fondazione e

l‟avvio delle attività sociale quasi coincide per tutte: sia quelle più anziane – nate cioè

prima del 1970 – che per quelle più giovani, nate dopo il 2000. Queste datazioni fanno

pensare (come già detto) che l‟associazionismo campano – e con molta probabilità

anche quello delle altre regioni – nasce e si sviluppa con le disposizioni normative che

vengono promulgate con la costituzione delle Regioni italiani (nel 1973). Come

risultato formale di un processo di aggregazione perlopiù spontaneo iniziato cioè con le

nuove migrazioni avvenute nel secondo dopoguerra e proseguite – in linea di massima –

per tutti gli anni Sessanta in concomitanza con un flusso di rientri in patria

considerevole36

.

36

Secondo Enrico Pugliese “per comprendere il movimento migratorio” dell‟epoca … “bisogna guardare

non solo ai saldi ma anche al numero degli espatri e dei rimpatri. Allora l‟immagine si capovolge: gli

espatri sono in tutto 6.712.000, oltre due terzi dei quali (4.533.000) partiti per destinazioni europee e solo

2.178.000 partiti per destinazioni transoceaniche. Ma, mentre queste ultime partenze sono in larga parte

definitive (in tutto il periodo i rimpatri sono poco più di mezzo milione), quelle europee sono molto

frequentemente accompagnate da ritorni. Il saldo migratorio tra l‟Italia e l‟Europa di 1.521.000 persone è

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Tab. 4.19 Anno di nascita e anni di inizio attività

Anni di nascita Fondazione Inizio attività

Prima del 1970 3 3

1971 - 1980 5 5

1981 - 1990 19 17

1991 - 2002 9 11

N.R. 2 2

Totale 38 38

Sembrerebbe, appunto, che nella prospettiva di restare nel paese di emigrazione sia

sorto il fabbisogno di aggregazione, superando piano piano quello di tipo più

spontaneistico per abbracciare quello più strutturato, più formalizzato e a dimensione

regionale. Aspetto non indifferente in quanto presuppone il desiderio di protrarre

l‟aggregazione, e quindi in qualche modo “istituzionalizzarla” (renderla cioè

perpetuabile), nel tempo; trasmetterla – se possibile – alle seconde generazioni,

eccetera. Infatti, come emerge dalla lettura delle Tabb. 4.20 e 4.21 i livelli di

formalizzazioni delle associazioni è molto alto per due ordini di motivi: l‟uno interno, al

fine di garantire il massimo di democraticità e di scambio sociale reciprocamente

trasparente; l‟altro esterno, sia nell‟ottica della legittimità della rappresentanza legale e

quindi della definizione identitaria come organizzazione in grado di effettuare anche

transazioni economiche (ricevere quote associative, contributi istituzionali, donazioni,

eccetera), sia perché richiesto dalle disposizioni normative regionali (come accennato

nel capitolo precedente).

Tab. 4.20 Presenza degli Atti formali

L'Organizzazione è dotata di: Si No

Atto costitutivo 32 6

Statuto 33 5

Regolamento 19 19

Tab. 4.21 Presenza delle cariche dirigenziali e di controllo

L'Organizzazione è dotata di: Si No

Presidente 38 -

Tesoriere 36 2

Organi Esecutivi 23 15

Organi di controllo 22 16

Nello specifico si rileva che quasi tutte le associazioni (32 su 38) sono in possesso di un

Atto costitutivo dell‟associazione e contemporaneamente dello Statuto che ne istituisce

gli obiettivi e le modalità attraverso le quali i medesimi obiettivi vengono perseguiti. Un

numero inferiore di associazioni possiede anche un regolamento attuativo, laddove –

generalmente – lo Statuto non provvede a declinare le modalità di implementazione

delle attività da perseguire. Gli Statuti 37

ricalcano quasi tutti uno schema tipico, anche

se rispecchiano orientamenti socio-culturali variamente articolati nelle diverse

il risultato di quattro milioni e mezzo di partenze contro tre milioni circa di ritorni”. E. Pugliese, L‟Italia

tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 23 37

Soprattutto quelli che abbiamo potuto leggere - in quanto depositati nel Registro delle associazioni

campane all‟estero presso il Settore emigrazione dell‟Assessorato omonimo – rivestono quasi tutti uno

schema piuttosto tipico, suddiviso in diversi Capitoli che trattano aspetti diversi della vita associativa.

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associazioni. Ad esempio, lo Statuto dell‟associazione “Famiglia Campania” di General

Martin (Mendoza, Argentina) è suddiviso in sei Capitoli.

Il primo tratta degli aspetti anagrafici dell‟associazione, la sua durata nel tempo,

l‟oggetto sociale e la missione che si trova a fondamento dell‟associazione medesima. Il

secondo, affronta le questioni giuridiche e legali dell‟associazione, la sua

rappresentatività verso l‟interno e verso l‟esterno, nonché del patrimonio e delle

modalità di gestione dello stesso, e delle direttrici di sviluppo. Il terzo tratta delle

modalità attraverso le quali i candidati possono accedere all‟associazione e quali sono i

criteri di ammissione, basati soprattutto su comportamenti – “antecedenti, presenti e

futuri” – irreprensibili, che siano “nati in Campania o che siano discendenti oriundi

della Campania oppure che manifestano simpatia alle tradizioni, alla cultura e alla storia

della Campania”. Questo capitolo tratta, ovviamente, anche le modalità di espulsione e

di sospensione dalle cariche e dalle attività associazionistiche dei soci indesiderati

perché eticamente incompatibili con la mission dell‟associazione.

Il Capitolo quattro affronta le questioni concernenti la direzione e l‟amministrazione

dell‟associazione, quelle degli organi di controllo e delle modalità di elezione delle

stesse cariche direttive. Sono esplicitate le funzioni del Presidente e le attribuzioni di

competenza. Il capitolo cinque e sei, trattano, rispettivamente, le questioni riguardanti

l‟organizzazione delle Assemblee dell‟associazione e i poteri che queste detengono

nella vita complessiva dell‟associazione, nonché le modalità di riforma o di revisione

dello Statuto e la cessazione delle attività da parte dell‟Assemblea in seduta

straordinaria38

.

La figura del Presidente, dunque, è piuttosto centrale nelle associazioni, così pure quella

del tesoriere. Rappresentano infatti l‟anima “politica” e l‟anima “amministrativa”

dell‟organizzazione. Aspetti che prescindono dall‟ampiezza dell‟associazione, dal

numero degli associati e dalla robustezza economica della stessa. Inferiore è, invece, la

presenza degli organi esecutivi (direttori, responsabili di area di intervento, eccetera) e

di quelli di controllo (sindaci, ispettori interni, eccetera). Queste ultime cariche

dipendono spesso dall‟entità numerica dell‟associazione e dall‟ampiezza delle

transizioni economiche che l‟associazione stessa effettuata. Si tratta, in sostanza, di

livelli di specializzazione che nelle piccole associazioni sovente non sono contemplate,

ma che molto spesso vengono svolte da altri associati laddove i rapporti fiduciari sono

molto stretti e le transazioni sono minori o pressochè assenti.

L‟Assemblea, tuttavia, come in tutte le associazioni, è la struttura sovrana, da cui

dipendono – in maniera diversamente articolata – tutte le altre strutture interne. E‟

l‟Assemblea pertanto, come si evince dalla Tab. 4.22, che promulga con maggior

frequenza le decisioni più importanti, anche se in una parte delle associazioni

l‟autonomia del Presidente e dei suoi più stretti collaboratori nel prendere decisioni

appare abbastanza significativa. Mentre appare importante il fatto che il Presidente da

solo non prende mai decisioni che possono influire direttamente sulla vita

associazionistica (infatti le risposte al riguardo sono zero).

38

Per un‟analisi di tipo antropologico e linguistico di uno Statuto di associazioni di emigranti campani,

cfr. Giuseppe Colitti, Lo Statuto di emigranti sanzesi a Brooklyn. Aspetti linguistici e antropologici, in

Gianfranco Pecchinenda, Memorie migranti, Ipermedium, Padula (Salerno), 1997, p. 73 e segg.

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Tab. 4.22 Chi prende generalmente le decisioni più importanti

Organi decisionali 1° risposta 2° risposta

Assemblea plenaria 21 7

Nei singoli gruppi dirigenti 6 9

Dal Presidente e dai suoi collaboratori 13 16

Dal Presidente da solo 0 6

Totale 38 38

4.2.5 La mission e gli ambiti di intervento delle attività svolte dalle associazioni

La mission

Gli scopi fondamentali delle associazioni – ossia la mission, l‟obiettivo primario e

caratterizzante – sono sintetizzati nella Tab. 4.23. Come è possibile leggere tra le varie

risposte il concetto di cultura è presente dappertutto e caratterizza qualsiasi risposta. Da

una parte la mission per circa un terzo delle risposte si identifica come la “difesa e la

conservazione della cultura di origine”. Cultura di origine concepita nella sua accezione

quasi sacrale, quindi da difendere e al contempo mantenere intatta come se si trattasse di

un baluardo, di una postazione che rischia di soccombere in quanto circondata da insidie

e da pericoli soverchianti.

Tab. 4.23 Missione principale delle Associazioni (risposte multiple)

Mission v.a.

Difendere, conservare la cultura di origine 16

Diffondere la cultura italiana e campana tra gli emigrati e tra la popolazione del paese di

accoglienza

13

Trasmettere ai giovani discendenti la cultura e le tradizioni campane 5

Tenere unita e integrata la comunità campana con attività culturali, sportive e ricreative 11

Aiutare i connazionali in difficoltà 6

Questa visione statica della “cultura di origine” appare piuttosto conservatrice, giacchè

appare legata più ad elementi ideologici che non ad elementi caratterizzanti la vita

comunitaria e al flusso quotidiano che la informa.

Dall‟altra, invece, una parte delle associazioni affermano di avere una mission più

correlata alle condizioni sociali che caratterizzano l‟emigrazione; ossia allo scambio

continuo che si sviluppa di fatto tra le componenti di nuovo insediamento – appunto gli

emigranti stessi – e la popolazione autoctona già presente ed operante nel paese che li

accoglie e che progressivamente tende ad inserirli nel tessuto produttivo e sociale

ordinario. Infatti, questa componente associazionistica intende la sua mission come la

“diffusione della cultura italiana e campana sia tra gli emigranti stessi che tra questi e la

popolazione nativa” del paese di insediamento.

Per altri ancora la mission è finalizzata a “trasmettere ai giovani discendenti la cultura e

le tradizioni regionali campani”. L‟associazione è concepita come il luogo della

memoria e al contempo il luogo della trasmissione della stessa alle nuove generazioni.

Ma anche la memoria non è qualcosa di stagnante di fissato: essa va coltivata e

continuamente rivisitata senza snaturarla; in modo che le nuove generazioni la possano

comprendere e collegarla nelle loro prospettive culturali. Ne consegue che anche le

associazioni debbono modificare le modalità di mantenere la “memoria” e soprattutto

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quelle che si pongono il problema della sua trasmissione, usando, allo scopo, linguaggi

adeguati alla simbologia e alle espressioni culturali delle seconde generazioni.

Per altre associazioni la mission trova la sua fondamentale importanza nel “tenere unita

e integrata la comunità campana attraverso l‟organizzazione di attività culturali, sportive

e ricreative”. Per queste l‟obiettivo principale da raggiungere sembrerebbe

prioritariamente la coesione comunitaria; coesione che si raggiunge – o quantomeno di

rinnova e si riproduce – mediante attività collettive, non solo di carattere culturale ma

anche con attività di carattere ludico e sportivo. Insomma, lo stare insieme – tipico delle

associazioni – finalizzato specificatamente alla costruzione di eventi collettivamente

condivisi.

Infine, per un‟altra piccola parte di associazioni la mission è quella derivante dalla

consapevolezza di poter “aiutare i connazionali in difficoltà, in quanto in condizione di

svantaggio sociale”. Si tratta di una consapevolezza di particolare sensibilità, giacchè

pone la propria attenzione a quei segmenti di popolazione emigrante più marginale e

bisognosa di supporti e di aiuti di carattere sociale. In queste l‟obiettivo è di reintegrare

quanti vengono spinti ai margini della comunità dei campani e più in generale ai

margini delle società di stabilizzazione. L‟associazione è concepita, quindi, anche come

strumento di reintegrazione sociale per quanti vengono spinti ai margini, per quanti non

riescono a restare in carreggiata, per quanti si scoprono deboli ed insofferenti e pertanto

bisognosi di aiuto.

L‟origine geografica dei beneficiari e gli ambiti di svolgimento delle attività

Le associazioni svolgono le rispettive attività in maniera non profit, ossia non si registra

nessuna intenzione lucrativa. In qualche caso alcune prestazioni sono a pagamento –

come, ad esempio, la vendita di prodotti alimentari o bevande – ma finalizzate alla

formazione di un fondo sociale che l‟associazione utilizza per svolgere le attività oppure

realizza delle migliorie o per effettuare la manutenzione della sede sociale, eccetera.

Tutte le attività sono rivolte a favore dei soci o prevalentemente a favore dei soci e

quindi tutte le attività sono concepite per favorire gli associati. Questi ne sono i soli

beneficiari.

L‟origine campana o – più in generale italiana – non discrimina per nulla la possibilità

di fruire delle prestazioni promosse dall‟associazione. La possibilità che cittadini

campani o semplicemente italiani possano beneficiare delle attività delle associazioni

dipende esclusivamente dalla loro presenza o assenza nel territorio di azione

dell‟associazione medesima. Infatti, laddove ci sono campani – ed italiani, ossia

cittadini di altre regioni – la fruizione delle attività è identica e intercambiabile.

Invece, come si evidenzia nella Tab. 4.24 per una metà delle associazioni all‟esame la

partecipazione dei nativi appare piuttosto consistente. Per nativi si intendono sia i

discendenti diretti dei campani che i discendenti dei cittadini di altre regioni italiane.

Nell‟altra metà delle associazioni la loro presenza appare più discreta, meno

appariscente ma comunque presente. Non potrebbe essere altrimenti, soprattutto

laddove le associazioni inglobano e stimolano la partecipazione di associati di diverse

generazioni. Questa presenza dipende direttamente dall‟anzianità della Comunità

campana e pertanto dalla presenza della seconda e terza generazione; nonché dalla

capacità attrattiva dell‟Associazione verso le generazioni giovanili.

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Tab. 4.24 Grado di partecipazione dei nativi

Grado di partecipazione v.a.

Consistente 16

Discreta 17

Nulla 2

Totale 38

Per quanto concerne le attività svolte e gli ambiti dove queste attività vengono

prevalentemente svolte è possibile leggerle nella Tab. 4.25. Le attività maggiormente

svolte dalle associazioni sono quelle a carattere culturale e ricreativo, come – tra l‟altro

– anticipato in precedenza. Queste attività sono svolte pressoché da tutte le associazioni

all‟esame, giacchè conciliano lo stare insieme e la riflessione culturale. Le altre attività

che riscuotono un significativo successo sono anche quelle di carattere formativo e

scolastico e socio-assistenziale. Nel primo caso perché è diffuso tra le associazioni

l‟organizzazione di corsi di lingua italiana correlati – molto spesso – a lezioni di storia e

storia dell‟arte; nel secondo perché è quasi implicito nello spirito associazionistico la

solidarietà e l‟attenzione alle fasce deboli e svantaggiate presenti nelle diverse

comunità; attività quest‟ultima, svolta in maniera quasi del tutto “spontaneistica” e

quasi per nulla professionale, poiché si tratta, nella sostanza, di organizzazioni di

volontariato. Altre associazioni organizzano attività sportive, attività medico-sanitarie e

finanche sindacali e previdenziali. Le attività sportive sono correlabili spesso a quelle

ricreative, mentre quelle medico-sanitarie – in genere più difficili da praticare – a quelle

socio-assistenziali; giacchè – come si dirà meglio in seguito – alcune associazioni sono

dirette da Presidenti – o da suoi stretti collaboratori – che svolgono professionalmente

l‟attività di medico, sia presso ambulatori privati che presso ospedali pubblici.

Tab. 4.25 Attività svolte per numero di Associazioni che le svolgono

Attività Si No

Sportiva 9 29

Ricreativa 33 6

Culturale 32 6

Formativa/scolastica 19 19

Socio-assistenziale 14 24

Medico-sanitaria 4 34

Sindacale/previdenziale 5 33

Imprenditoriale, commerciale 1 37

Attività che spesso effettuano anche a favore degli associati. Una sola associazione

svolge anche attività di carattere imprenditoriale e commerciale, anche se con un peso

percentuale che abbiamo definito basso, come emerge dalla Tab. 4.26.

In questa ultima tabella, infatti, abbiamo cercato di comprendere il peso che le singole

attività – diversamente aggregate – hanno nel volume complessivo delle attività che

l‟associazione svolge regolarmente. Solo una piccola parte delle associazioni all‟esame

sembrerebbe quasi specializzata per singole attività. Infatti, le associazioni che

dichiarano di svolgere delle attività in misura superiore al 70% del totale sono soltanto

otto (su 32), di cui: 4 in ambito culturale, 2 in ambito formativo-scolastico e una per

ciascuno in ambito sportivo e ricreativo.

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Tab. 4.26 Attività svolte per numero delle Associazioni e percentuale stimata per ciascuna attività

svolta

Attività Bassa fino 30% Media dal 40 al 60% Alta + del 70%

Sportiva 7 1 1

Ricreativa 18 14 1

Culturale 15 13 4

Formativa/scolastica 17 - 2

Socio-assistenziale 12 2 -

Medico-sanitaria 2 2 -

Sindacale/previdenziale 3 2 -

Imprenditoriale, commerciale 1 - -

Questi ambiti, a parte quello sportivo, sono quelli di maggior impegno delle

associazioni. Difatti, le attività ricreative, culturali e formativo-scolastico interessano –

ma con percentuali considerate basse (cioè fino al 30% del peso complessivo delle

attività svolte) – una consistente fetta delle associazioni allo studio. Se a queste si

aggiungono quelle che hanno un peso considerato medio – oscillante cioè tra il 40 e il

60% – si raggiunge la quasi totalità delle attività svolte dall‟insieme delle associazioni

che hanno risposto al questionario.

Le attività ricreative, culturali e formativo-scolastiche per essere organizzate e realizzate

non occorre un corredo professionale e logistico particolarmente sofisticato. Come

servirebbe, al contrario, per praticare certe attività sportive o attività medico-sanitarie e

finanche sindacali-previdenziali. L‟ambito geografico entro il quale vengono svolte

queste attività è prevalentemente circoscrizionale o cittadino.

Le attività svolte e le prestazioni erogate

L‟insieme delle associazioni producono una quantità e qualità di interventi che appare

molto difficile sintetizzare. Infatti, nelle tabelle che seguono è possibile leggere soltanto

quelle attività – e prestazioni specifiche – che più delle altre si prestano ad una qualche

aggregazione e non quella varietà di prestazioni che quotidianamente vengono svolte in

favore degli associati. Inoltre, molte di queste attività vengono svolte a vantaggio di

particolari gruppi di associati oppure dall‟intero bacino associato e per tale ragione

anche una singola attività può avere una valenza collettiva di particolare significatività.

Ad esempio, per quanto riguarda le attività sportive e ricreative organizzate dalle

associazioni – sintetizzate nelle Tabb. 4.27 e 4.28 – le attività che maggiormente

risaltano numericamente sono: da un lato, le partite di calcio e, dall‟altro, le feste

comunitarie, le cene e i pranzi a scopo sociale, nonché gli incontri culturali. Attività che

coinvolgono molto spesso oltre alle persone che organizzano gli eventi anche quelle che

ne fruiscono gli spettacoli. Così per le feste patronali che coinvolgono l‟intera comunità

di riferimento per giorni interi, creando le condizioni per manifestazioni collettive di

particolare importanza e socialità. Non secondarie appaiono le altre attività sportive e

ricreative: dalle partite di bocce e di tennis fino alle passeggiate e ai giochi collettivi.

Per quanto riguarda le attività più specificamente culturali e scolastico-formative (Tabb.

4.29 e 4.30) spiccano da un lato le attività musicali e le attività di alfabetizzazione,

dall‟altro le attività musicali e quelle di formazione professionale e di servizi di

biblioteca e di navigazione su Internet. Attività che vengono organizzate dalle

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100

associazioni piuttosto regolarmente e spesso, ossia mediamente tre/quattro volte per

anno. Le attività musicali e quelle teatrali hanno bisogno di spazi e strumentazione

logistica e materiale diversa e pertanto – è ipotizzabile – che coinvolgoano componenti

diverse delle associazioni promotrici.

Le attività scolastico-formative, seppur minoritarie rispetto a quelle più propriamente

culturali, manifestano una tendenza interessante. Infatti, le associazioni che le

organizzano sembrano spaziare in ambiti tematici piuttosto innovativi, quale: la

formazione di operatori per attività di sviluppo nei paesi terzi, ricerca sociale e

documentazione, formazione per volontari per lo svolgimento delle attività delle stesse

associazioni. Insomma, questi ultimi appaiono tematiche che vengono affrontate più da

organizzazioni che si richiamano al così detto “terzo settore” (ovvero cooperative

sociali) che non ad associazioni tradizionali di emigranti di tipo prettamente volontario.

Tab. 4.27 Attività sportive svolte almeno una volta dalle Associazioni (ultimi 3 anni)

Attività sportive v.a.

Calcio 9

Bocce 3

Tennis 3

Ginnastica con atrezzi 2

Nuoto 2

Calcetto 1

Corsa ciclismo 1

Pallacanestro 1

Passeggiate ed escursioni 1

Tiro a piattello 1

Yoga 1

Totale 26

Tab. 4.28 Attività ricreative svolte almeno una volta dalle Associazioni (ultimi 3 anni)

Attività ricreative v.a.

Feste 8

Cene / pranzi 8

Incontri culturali 8

Feste patronali 7

Giochi collettivi 6

Giochi da tavolo 6

Ballo 4

Gioco delle carte 4

Gite culturali in italia ed all'estero 4

Bocce 3

Gite 3

Musica dal vivo 3

Attività sociale 2

Attività a carattere religioso 5

Pic-nic 1

Ricreazione terza età 1

Totale 73

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101

Tab. 4.29 Attività culturali organizzate dalle Associazioni e frequenza del loro svolgimento

Dibattiti ed incontri politico-culturali Spesso Qualche volta

Partecipazione a coordinamenti territoriali 2 11

Difesa dei diritti civili 6 9

Presentazione libri/documenti 7 9

Forme di lotta contro le discriminazioni

Forme di lotta al razzismo 0 2

Altre attività

Incontri a carattere religioso 9 5

Mostre fotografiche 2 9

Mostre di pittura 3 9

Attività teatrali 12 9

Attività musicali 20 10

Totale 61 73

Tab. 4.30 Attività formativo-scolastiche organizzate dalle Associazioni e frequenza

del loro svolgimento

Quali sono le attività formative e scolastiche… Spesso Qualche volta

Seminari/corsi di alfabetizzazione in italiano 11 4

Corsi scolastici generali di base 4 1

Servizi di supporto scolastico ai bambini 2 2

Seminari/stage di formazione professionale 7 1

Educazione allo sviluppo con paesi terzi 5 1

Seminari di formazione volontari per l'Associazione 5 2

Produzione di materiale didattico/formativo 3 2

Ricerca sociale/documentazione 4 6

Servizio di biblioteca/Internet 8 5

Totale 49 24

Le attività socio-assistenziali, quelle medico-sanitarie e quelle sindacali-previdenziali

(Tabb. 4.31, 4.32 e 4.33) vengono svolte in misura minore dalle associazioni. Ciò

nonostante rivestono una loro importanza dal punto di vista qualitativo, giacchè si

sviluppano in ambiti particolarmente difficili per una associazione poichè

presuppongono professionalità piuttosto sviluppate. E‟ importante dunque rilevare che

alcune associazioni svolgono attività di supporto e sostegno psicologico alle persone più

fragili e vulnerabili. Oppure che vengano svolte visite e colloqui domiciliari in favore di

persone anziane o portatori di handicap o attività di segretariato sociale ed invii ad altre

organizzazione (pubbliche e private) per interventi di tipo specialistico.

4.2.6 I volontari, le caratteristiche di base degli associati e l‟utenza di riferimento

I volontari, il tempo dedicato alle attività e il numero degli associati

Le attività delle associazioni vengono svolte nella loro totalità da personale volontario

in numero differenziato, come si evidenzia dalla Tab. 4.34 (nessuno a risposto “con

personale retribuito fisso” o “retribuito a prestazione”.

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102

Tab. 4.31 Attività socio-assistenziali organizzate dalle Associazioni e frequenza del loro svolgimento

Attività socio-assistenziali… Spesso Qualche volta

Interventi di sostegno psicologico 5 1

Piccoli interventi di sostegno economico 5 2

Visite e colloqui domiciliari 6 1

Servizi di aiuto domestico 2 1

Invio ad altre organizzaz. per interventi specialistici 5 4

Segretariato sociale 4 2

Assistenza legale 1 1

Accompagnamento al disbrigo di documenti 9 2

Raccolta sangue 0 3

Attività di rieducaz./reinserimento scol./lavorativo 1 1

Disponibilità vestiario 2 1

Totale 38 19

Tab. 4.32 Attività medico-sanitarie organizzate dalle Associazioni e frequenza del loro svolgimento

Attività medico-sanitarie Spesso Qualche volta

Visite mediche generiche 2 0

Visite mediche specialistiche 0 1

Accertamento e certificazione stato di salute 1 0

Piccoli interventi di pronto soccorso 1 2

Analisi e diagnosi mediche 0 1

Interventi terapeutici con farmaci 0 2

Invio a servizi specialistici 2 1

Interventi dentistici 0 0

Interventi psichiatrici/neuroligici 1 0

Totale 7 7

Tab. 4.33 Attività sindacali/tutelative organizzate dalle Associazioni e frequenza del loro

svolgimento

Attività sindacali/tutelative Spesso Qualche volta

Conteggi, retribuzioni e ferie 1 0

Consulenze per cessazione rapporti di lavoro 0 1

Avvio e sostegno legale per vertenze di lavoro 1 1

Patrocinio in sede giudiziaria 0 1

Informazioni e consulenza sulla normativa … 2 2

Verifica posizione previdenziale 3 2

Avvio e sostegno legale per recupero crediti 0 0

Denunce per evasione oneri previdenziali 1 0

Stimolo e supporto all'aggregazione sindacale 0 3

Totale 8 10

Tab. 4.34 – Volontari impegnati nelle svolgimento delle attività delle Associazioni

Per svolgere le attività vi avvalete di personale: Maschi Femmine

Volontario

Nessuno 3 3

Da 1 a 9 13 21

Da 10 a 20 15 12

Da 21 a 40 5 1

Oltre 40 2 1

Totale 38 38

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103

Il volontariato, dunque, rimane la caratteristica peculiare dell‟associazionismo campano

all‟estero. Aspetto che non meraviglia in quanto le associazioni non perseguendo scopo

di lucro non acquisiscono proventi economici derivanti da transazioni commerciali da

dividere o da investire in personale più o meno specializzato.

Il numero di volontari impegnati varia da associazione ad associazione anche in misura

della sua estensione associativa e alla frequenza dello svolgimento delle attività

programmate. La media dei volontari impegnanti si aggira intorno alle 15 unità. Queste

attività vengono svolte quindi nel tempo libero, in particolare la sera dopo il lavoro o lo

studio oppure il sabato e la domenica. Il tempo, in termini di ore, dedicato

all‟associazione varia da “meno di 5 ore alla settimana” fino alle dieci. In qualche caso

il tempo dedicato e anche maggiore (Tab. 4.35). Tab. 4.35 – Tempo medio dedicato alle attività delle Associazioni

Ore dedicate v.a.

Meno di 5 ore settimanali 13

Tra 5 e 10 ore settimanali 18

Tra 11 e 15 ore settimanali 2

Oltre 15 ore settimanali 5

Totale 38

Le persone che a diverso titolo ruotano intorno all‟associazione possono essere

suddivise in tre categorie che nell‟insieme formano altrettanti cerchi concentrici in

relazione all‟impegno nell‟organizzare le attività, alla mera iscrizione all‟associazione e

alla frequenza assidua e regolare alle attività svolte (Tab. 4.36). Il primo cerchio è

formato dai soci più impegnati ed oscillano da un minimo di 650 unità ad un massimo

di 980, mentre i soci iscritti oscillano – complessivamente per le associazioni all‟esame

–, a loro volta, da un minimo di 11.014 unità a 16.000 ed infine il numero di persone

che frequenta regolarmente le associazioni durante lo svolgimento delle attività sociali

si attesta nell‟insieme a circa 6.550 unità39

.

Tab. 4.36 – Stime del numero dei soci più impegnati degli iscritti e dei frequentatori

Tipo di soci Min. Max

Soci più impegnati (gruppo che porta avanti le attività) 650 (a) 980 (aı)

Soci iscritti all‟Associazione 11.014 (b) 16.000 (bı)

Persone, altri soci che frequentano l‟Associazione 6.550 (c) 6.550 (cı)

Nota: Rapporti b: a = 16,9 bı: aı = 16,3

b: c = 1,6 bı: cı = 2,4

c: a = 10,0 cı: aı = 6,6

39

Le stime sono state effettuate a partire dai dati acquisiti dal numero delle associazioni che hanno

risposto del questionario moltiplicato le diverse classi con le quali avevamo suddiviso gli item di risposta.

Ad esempio, i “soci più impegnati” erano divisi nelle seguenti classi: da 10 a 20 (a cui avevano risposto

24 associazioni), tra 21 e 50 (a cui avevano risposto 10 associazioni), più di 50 (a cui avevano risposto 4

associazioni). In tal maniera abbiamo: 10x24=240 (valore minimo) e 20x24=480 (valore massimo)

eccetera. La loro somma porta ad un valore complessivo minimo di 650 unità e uno massimo di 980 unità.

Stesso procedimento è stato fatto per la stima degli associati e delle persone che frequentano più

regolarmente le associazioni.

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I rapporti tra le differenti grandezze sono:

a. rispetto ai valori minimi: per ogni socio impegnato si registrano 16,9 iscritti alle

associazioni e 10 persone (iscritti e non) che frequentano regolarmente

l‟associazione durante lo svolgimento delle diverse e variegate attività;

b. rispetto ai valori massimi: per ogni socio impegnato si registrano gli stessi iscritti

(cioè 16,3) alle associazioni e 6,6 persone (iscritti e non) che frequentano

regolarmente l'associazione durante lo svolgimento delle diverse e variegate

attività.

Tra il numero dei soci impegnati sia in relazione alla stima minima che a quella

massima e gli iscritti i rapporti sono piuttosto simili, mentre – come abbiamo riscontrato

– variano (relativamente alle stesse stime) i rapporti tra i soci impegnati e quelli che

fruiscono delle attività sociali.

L‟età degli associati

La questione giovanile – ossia come e in che maniera coinvolgere i giovani nelle attività

delle associazioni in modo che essi stessi possano col tempo gestirle e svilupparle

perpetuandone i valori e la cultura di origine – è la problematica più importante che

investe le associazioni campane all‟estero. A proposito abbiamo cercato di stimare

questa presenza, come si evince dalla Tab. 4.37. Da questa emerge che poco meno della

metà delle associazioni all‟esame non hanno giovani in età inferiore ai 30 anni, mentre –

al contrario – in nessuna associazione manca la classe di età superiore ai 65 anni.

Tab. 4.37 – Classi di età dei soci e numero di Associazioni di riferimento

Fino a 30 anni + di 30 fino a 45 anni + di 45 fino a 65 anni + di 65 anni

Fino al 20% 16 21 9 5

Dal 21 al 40% 4 7 20 8

Oltre il 40% 2 - 4 25

Nessuno 16 10 5 -

Totale 38 38 38 38

Ciò vuol dire che, da un lato, ci sono associazioni prive di giovani, dall‟altro tutte le

associazioni hanno associati ultra sessantacinquenni. In pratica una buona metà delle

associazioni allo studio sembrerebbe non avere un ricambio generazionale e pertanto

appaiono – se non si registrerà una inversione di rotta – destinate ad esaurire

progressivamente la loro spinta propulsiva e probabilmente ad esaurire l‟esperienza

associazionistica. Un numero di associazioni altrettanto grande dichiara al riguardo di

avere una componente giovanile che si attesta entro il 20% dell‟intero corpo associato.

Percentuale, quest‟ultima, che può considerarsi come un debole e fragile spartiacque, in

quanto: da un lato può infondere la speranza che tale percentuale possa crescere e

superare la soglia di pericolosità per la vita stessa delle associazioni direttamente

coinvolte; dall‟altro invece che tale percentuale possa decrescere ancora e rischiare così

di far imboccare alle associazioni coinvolte un percorso di rischioso declino anagrafico.

Una posizione meno problematica è riscontrabile soltanto in due delle associazioni

all‟esame, giacchè affermano di avere un bacino di giovani in età inferiore ai 30 anni

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che supera complessivamente il 40% del totale degli iscritti e soltanto quattro

associazioni con una presenza giovanile compresa tra il 21 e il 40%.

Consistente appare anche il numero di associazioni che hanno associati in età compresa

tra i 30 e i 45 anni, ma soprattutto entro il 20%. Al contrario le classi di età superiori

coinvolgono un significativo numero di associazioni: 24 associazioni su 38 hanno gli

iscritti in età compresa tra i 45 e i 65 anni e altrettante ben oltre i 65. In termini

percentuali l‟ammontare delle differenti classi di età presenti nelle associazioni si

riscontra nella Tab. 4.38. Dalla tabella emerge che la componente giovanile non supera

mediamente il 20% del totale degli iscritti, mentre gli ultra sessantacinquenni si

attestano al 25%.

Tab. 4.38 – Stima dell‟età dei soci per sesso

Classi di età Stima v.% di cui donne

Fino a 18 anni - -

+ di 18 fino a 30 anni 20,0 7,0

+ di 30 fino a 45 anni 25,0 10,0

+ di 45 fino a 65 anni 30,0 10,0

+ di 65 anni 25,0 5,0

Totale 38 38

Questo dato appare piuttosto significativo in quanto sta a significare che l‟intero corpo

associazionistico – preso cioè nella sua interezza – ha un suo sostanziale equilibrio

demografico; equilibrio che – come accennato – non si riscontra, purtroppo, a livello di

singole associazioni. Infatti, una metà delle associazioni si trovano in una situazione di

rischio abbastanza accentuato, mentre altre molto meno. Con questa situazione non

stupisce il fatto che – come registra la Tab. 4.39 – soltanto una decina di associazioni

ritengono la partecipazione giovanile “molto soddisfacente” e la gran parte di esse

invece soltanto “abbastanza soddisfacente” e un‟altra parte – tra l‟altro più piccola

numericamente – “per nulla soddisfacente”. Tab. 4.39 Valutazione della partecipazione dei giovani alla vita associativa

Grado di valutazione v.a.

Molto soddisfacente 10

Abbastanza soddisfacente 21

Per nulla soddisfacente 7

Totale 38

Questa parziale o totale insoddisfazione viene interpretata dalle associazioni in maniera

diversa, come emerge dalla Tab. 4.40. Le interpretazioni sembrerebbero quattro:

a. la prima spiega la non partecipazione dei giovani in quanto essi sono attratti per

metà dalla cultura italo-campana e per l‟altra metà da quella del paese di

insediamento. Questa “scissione” farebbe vivere la partecipazione associazionistica

come soddisfacente di una sola componente culturale a discapito e a sfavore

dell‟altra considerata altrettanto importante e degna di essere coltivata e sviluppata;

b. la seconda pone l‟accento sul fatto che i giovani non hanno interesse per la cultura

campana perché viene presentata e coltivata dagli adulti in maniera statica e priva di

interesse pratico. Appare cioè ancorata ad una cultura adulta, sedentaria e

influenzata troppo dalla nostalgia; nostalgia che può apparire ancora mistica ed

esagerata. Caratteri che non possono essere – o sono poco – attrattivi per le giovani

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generazioni. Di conseguenza l‟incapacità degli adulti dell‟associazione a proporre la

cultura italo-campana in maniera diversa e più consona alle aspettative e ai desideri

della componenti giovanili rende tutto più difficile e problematico;

c. la terza pone l‟accento alla carenza di risorse economiche in cui versano le

associazioni: senza denaro non si possono attivare interventi finalizzati

specificamente alle componenti giovanili e pertanto queste si allontanano cercando

di soddisfare le loro curiosità e le loro aspettative altrove. Senza risorse non si

possono ristrutturare le sedi e renderle congruenti, ad esempio, agli spazi e agli

ambienti più favorevoli alle necessità dei giovani, ai loro incontri, alla loro musica,

alle loro attitudini artistiche ed espressive;

d. la quarta, minoritaria rispetto alle altre, pone l‟accento sulla cultura emigratoria che

ha accompagnato le attuali componenti adulte nel corso dell‟esperienza migratoria

stessa. Cultura che non ha saputo rinnovarsi fino in fondo e che per tale ragione non

sa parlare alle nuove generazioni, non sa comprendere le loro ragioni e per questo

esse tendono ad allontanarsi.

Tab. 4.40 – Motivi della parziale o totale insoddisfazione

Motivi v.a.

I giovani sono attratti per metà dalla cultura campana e per metà da quella del paese che li ospita 8

Non hanno interesse per la cultura campana o italiana come viene presentata dagli adulti 7

Non abbiamo risorse economiche per investire in favore dei giovani 10

Siamo rimasti ancorati alla nostra emigrazione e non capiamo i nostri figli 3

Non risponde 10

Totale 38

Il titolo di studio e la posizione lavorativa degli associati

Un‟altra stima prodotta è quella concernente i livelli di scolarizzazione presenti

mediamente all‟interno degli associati, secondo la valutazione dei Presidenti delle

associazioni. Da questo punto di vista si rileva (Tab. 4.41) che circa un terzo delle

associazioni non hanno associati senza nessun titoli di studio (ossia analfabeti) e

neanche senza licenza elementare. Considerando l‟età avanzata che si registra in una

parte significativa delle associazioni si tratta di un dato piuttosto significativo e

importante. Di converso, però, un altro terzo delle associazioni hanno al loro interno

associati analfabeti o con la semplice licenza elementare in una percentuale che arriva

fino al 20% ed altre sette con percentuali superiori al 20 fino al 40% ed oltre.

Tab. 4.41 – Titoli di studio per numero delle Associazioni di riferimento

Licenza elementare Diploma scuola

superiore

Laurea Post Laurea

Fino al 20% 16 16 28 10

Dal 21 al 40% 5 9 4 1

Oltre il 40% 2 9 - 2

No, nessuno 13 4 6 25

Non risponde 2

Totale 38 38 38 38

Allo stesso tempo pochissime associazioni non hanno al loro interno diplomati alle

scuole superiori (solo 4) o laureati (solo 6). I diplomati sembrano essere presenti –

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107

anche se in misura variegata – in tutte le associazioni. Sono concentrati maggiormente

nella percentuale che arriva fino al 20% (16 unità), ma anche oltre (con le altre 19

unità); in questo ultimo caso si registrano 9 associazioni i cui diplomati superano il 40%

degli iscritti. Anche i laureati sono ben rappresentati: in 28 associazioni almeno il 20%

degli iscritti è titolare di laurea e in 4 di esse tale percentuale va anche oltre (compresa

tra il 21 e il 40%). I livelli di scolarizzazione appaiono, dunque, piuttosto elevati, anche

in considerazione dei diplomi post-laurea. Infatti, 13 associazioni dichiarano di avere tra

i propri iscritti persone con un grado di istruzione anche superiore alla laurea: 10 di esse

fino al 20%, una di esse dal 21 al 40% ed infine altre 2 oltre il 40% degli iscritti.

Complessivamente, tenendo anche presenti le classi di età che tendono a sbilanciarsi in

maniera significativa verso le classi più alte, sembrerebbe che le associazioni all‟esame

abbiamo mediamente un livello di scolarizzazione medio-alto. Laddove in presenza di

gruppi di associati che registrano livelli minimi di scolarizzazione coesistono gruppi di

associati numericamente più consistenti che registrano, al contrario, livelli più elevati e

significativi di scolarizzazione.

Questi livelli di scolarizzazione si ripercuotono, in linea di massima, anche sulle

professioni mediamente registrabili tra i dirigenti delle associazioni, come si evince

dalla Tab. 4.42. Tab. 4.42 – Stima della distribuzione percentuale dei dirigenti per numero di Associazioni di

riferimento

Op

eraio

Imp

iegato

Art

igia

no

com

mer

cian

te

lavora

tore

au

ton

om

o

Lib

ero

pro

fess

ion

ista

Dir

igen

te

Imp

ren

dit

ore

Fino al 20% 15 25 13 25 17 19

Dal 21 al 40% 16 7 16 3 - 2

Oltre il 40% 4 1 2 4 - 0

Nessuno 2 5 7 6 21 17

Non risponde 1 - - - - -

Totale 38 38 38 38 38 38

Tutte le posizioni lavorative e professionali sono piuttosto rappresentate nei gruppi

dirigenti. Le attività lavorative più tradizionali – come quella di operaio o impiegato –

sono presenti in circa una trentina di associazioni: le prime distribuite equamente nelle

associazioni con una copertura del 40% dell‟intero corpo dirigenziale; le seconde con

una distribuzione più concentrata fino al 20% del gruppo dirigente (25 associazioni) ma

presente anche nella fascia compresa tra il 21 e il 40%.

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Anche la distribuzione degli artigiani, dei commercianti e degli altri lavoratori autonomi

copre un numero piuttosto alto dei dirigenti delle associazioni, con una copertura che

arriva fino al 40% del loro totale. Presenze significative di liberi professionisti, di

dirigenti di impresa e di imprenditori sono altrettanto presenti, soprattutto nella fascia

fino al 20% di copertura dell‟intero corpo dirigenziale. In 3 associazioni, tra l‟altro, i

dirigenti che esercitano la libera professione arrivano a coprire il 40% dell‟intero

gruppo; la stessa copertura si rileva in altre due associazioni laddove i dirigenti

svolgono una attività imprenditoriale.

Questa composizione professionale dei gruppi dirigenti colloca le associazioni dei

campani in una posizione piuttosto privilegiata, giacché possono, da un lato, offrire

lavoro agli associati (la così detta “imprenditoria etnica”); dall‟altro, attivare relazioni e

reticoli sociali che possono favorire l‟inserimento lavorativo delle componenti giovanili

e rafforzare rapporti sociali ed economici con il resto della società di insediamento e

finanche con quella di origine. Propensione che resta strettamente legata alla tradizione

più profonda dell‟associazionismo40

. Oltre agli imprenditori collocati nei gruppi

dirigenti – come abbiamo poc‟anzi rilevato – si registrano imprenditori anche tra i

semplici associati. Si tratta di imprenditori che dirigono piccole e medie imprese, come

si può dedurre dalla lettura della Tab. 4.43.

Tab. 4.43 – Tipo di imprese degli imprenditori presenti nelle Associazioni e numero dei lavoratori

(risposta multipla)

Tipo di impresa e classi di addetti v.a.

Nelle imprese artigiane (fino a 5 lavoranti) 26

Nella piccolissima impresa (da 6 a 15 lavoranti) 28

Nella piccola impresa (da 16 a 100 lavoranti) 18

Nella media impresa (da 100 a 500 lavoranti) 4

Nella grande impresa (più di 500 lavoranti) 0

Una parte significativa delle associazioni – oscillanti tra le 26 e le 28 unità – registra al

proprio interno imprenditori che hanno alle loro dipendenze fino a 5 lavoranti e da 6 a

dieci. Altre associazioni (in numero di 18), invece, registrano presenze imprenditoriali

che hanno alle loro dipendenze maestranze più consistenti, giacchè superano le 16 unità

e arrivano anche a picchi di 100. Inoltre, in altre 4 associazioni sono presenti

imprenditori con imprese ancora più consistenti, in quanto registrano maestranze

comprese tra le 100 e le 500 unità.

Questi imprenditori svolgono sia attività specificamente industriali che attività

artigianali e commerciali, come evidenziato nella Tab. 4.44. Tra le prime le attività

imprenditoriali maggioritarie sono quelle nel settore alimentare, della meccanica e del

tessile, nonché dell‟edilizia e del mobilio. Non secondarie appaiono quelle del settore

chimico, dei trasporti e della metallurgia. Tra le attività artigianali emergono quelle

legate alla lavorazione del legno e alla muratoria edilizia, nonché alla sartoria e

all‟alimentare. Infine tra le attività commerciali primeggiano quelle alimentari e della

ristorazione, anche se non mancano quelle correlabili all‟abbigliamento alla vendita di

automobili, delle ceramiche e degli elettrodomestici.

40

Cfr. ancora L. Bernasconi, Le associazioni … cit., p. 322. Storicamente, le loro associazioni, attraverso

la loro dirigenza, “rimanevano strettamente legate con altre istituzioni della comunità che svolgevano

attività sociali, bancarie, commerciali, eccetera, e questa interelazione era alimentata da una mutua

aspettativa di vantaggi”.

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Tab. 4.44 – Settori dove sono collocate le attività imprenditoriali degli associati

Attività industriali v.a Attività commerciali v.a.

Alimentari 8 Alimentari 12

Meccanica 7 Ristoranti 10

Tessile 7 Abbigliamento 5

Edilizia 6 Automobili 3

Mobili 6 Ceramiche 3

Chimica 5 Elettrodomestici 3

Trasporti 4 Tessile 3

Metallurgica 3 Editoria locale 2

Scarpe 2 Materiali edili 2

Eletrodomestici 1 Oreficeria 2

Idraulica 1 Articoli da regalo 1

Odontotecnico 1 Cosmetici 1

Attività artigianali V.A. Ferramenta 1

Falegnami 12 Immobiliare 1

Muratori 9 Pasticcerie 1

Sarti 5 Turismo 1

Alimentari 3

Barbieri/parrucchieri 3

Elettricisti 3

Fabbri 3

Ristoratori 3

Ceramiche artistiche 2

Pellettieri 2

Agricoltori tradizionali e biologici 1

Meccanici 1

Tassisti 1

4.2.7 Gli aspetti logistici, economico-finanziari e relazionali

La sede sociale e le relazioni istituzionali e non

Le associazioni, pur tuttavia, hanno una rete di relazioni piuttosto consistente ed

articolata, come risulta dalla Tab. 4.45. Essa spazia, infatti, dai rapporti con le

amministrazioni locali dei paesi di insediamento ai rapporti istituzionali e non con le

amministrazioni italiane operanti all‟estero (in primis i Consolati e le Ambasciate) e

secondariamente con le amministrazioni campane regionali, provinciali e comunali.

Non mancano rapporti e relazioni con le Camere di commercio, con istituti bancari e

commerciali da un lato e con Enti sportivi/ricreativi e culturali/formativi dall‟altro. I

rapporti con queste organizzazioni sono considerati dalla maggior parte delle

associazioni “molto buoni” e in misura minore “abbastanza buoni”.

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Tab. 4.45 – I rapporti sociali delle Associazioni

Istituzioni del paese estero di insediamento v.a.

Comune 24

Provincia 16

Regione 13

Istituzioni Italiane

Ambasciata 20

Consolato 30

Camere di commercio 14

Istituti bancari 6

Regione Campania 27

Altro

Enti sportivi/ricreativi 9

Enti culturali/formativi 15

Per lo svolgimento delle attività le associazioni necessitano di attrezzature, di arredi e di

spazi da adibire a sede oppure spazi per poter affrontare adeguatamente le necessità

derivanti dall‟organizzare eventi, manifestazioni e feste sociali. Per quanto riguarda la

sede sociale le situazioni nella quale si trovano le associazioni allo studio – come

emerge dalla Tab. 4.46 – sono principalmente quattro:

a. la prima riguarda una sede di proprietà ed interessa 13 associazioni;

b. la seconda riguarda una sede in affitto ed interessa 10 associazioni;

c. la terza riguarda una sede che le associazioni hanno in uso gratuito presso altre

organizzazioni (situazione che riguarda 7 associazioni);

d. la quarta riguarda quelle associazioni prive di sedi, nel senso che non hanno un

luogo fisico adeguato alle loro esigenze.

Tab. 4.46 – Condizione legale della sede sociale e anno del suo acquisto

Condizione legale v.a.

In proprietà 13

- Prima del 1960 3

- Dal 1971 al 1980 6

- Dal 1981 al 1994 4

In affitto 10

In uso gratuito presso altre associazioni 7

Non abbiamo nessun locale 6

Altro 2

Totale 38

Per quanto riguarda le sedi di proprietà alcune di esse sono state acquistate prima degli

anni Sessanta, ossia nelle prime fasi emigratorie; un‟altra parte (6) tra gli anni Settanta e

gli anni Ottanta, allorquando era chiaro ormai – soprattutto per i gruppi fondatori – che l‟esperienza emigratoria sarebbe diventata stabile. Un altro piccolo gruppo, invece,

acquista i locali della sede successivamente, finanche negli anni Novanta. La sede

acquistata è una forma di prestigio enorme per le associazioni, anche perché sono state

acquistate – e in diversi casi letteralmente costruite – dallo sforzo congiunto degli

associati. Avere uno spazio di proprietà significava – e continua a significare – avere un

particolare status sociale, un particolare posto nella scala del successo emigratorio

collettivo.

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111

Le entrate economiche

A queste associazioni proprietarie fanno da contraltare quelle associazioni più modeste

dal punto di vista economico, in quanto svolgono le attività sociali ed organizzano gli

eventi associazionistici presso la sede di altre associazioni. Spesso si tratta di

associazioni formate da altre comunità regionali italiane, altre volte si tratta della “Casa

degli italiani” (spazi storicamente costruite dalla comunità italiana durante la “grande

emigrazione” di fine Ottocento e di inizio Novecento e piuttosto diffusi in America

Latina); altre volte ancora si tratta di spazi utilizzati per attività sindacali o per

salvaguardare gli aspetti previdenziali (ad esempio, locali dei patronati). Le entrate

economiche delle associazioni sono il punto dolente. Sono poche e ricadono quasi

completamente sugli associati. D‟altra parte non potrebbe essere altrimenti, in quanto si

tratta di organizzazioni senza scopo di lucro e perlopiù di carattere ricreativo-culturale.

Dalla Tab. 4.47 si evincono le modalità di acquisizione dei denari ordinari che entrano

nelle associazioni e ne formano – di fatto – la struttura economico-finanziaria

complessiva. Tab. 4.47 – Modalità delle entrate economiche

Nel corso dell'ultimo anno avete beneficiato di v.a.

Donazioni di singole persone 16

Donazioni di Fondazioni 1

Contributi da imprese 4

Quote associative 25

Contributi dai soci 22

Contributi da sostenitori 7

Autotassazione dei soci (una tantum) 5

Attività di autofinanziamento 9

Totale 89

Si tratta – come si può ben vedere – perlopiù di donazioni che effettuano singole

persone, in genere sono gli associati maggiormente coinvolti nella direzione e nella

gestione dell‟intera organizzazione. Più delle volte si tratta delle quote associative

annuali e contributi degli associati per sostenere particolari eventi sociali. In alcune

associazioni le entrate avvengono anche per auto-tassazione (una tantum) per progetti di

particolare rilevanza sociale o per concessioni da parte di sostenitori esterni. Non

mancano le attività di auto-finanziamento specifiche, come feste sociali, incontri

musicali, cene mirate all‟acquisizione di fondi, lotterie e giochi aventi le stesse finalità.

L‟ammontare complessivo delle associazioni che hanno risposto al quesito indiretto

“Indicare le spese sostenute dall‟organizzazione nell‟ultimo anno” (in 9 non hanno

risposto) si aggira tra i 210.000,00 e i 390.000,00 euro (Tab. 4.48).

Tab. 4.48 – Stima delle spese sostenute nell‟ultimo anno (giugno 2002 – giugno 2003)

Stima in Euro

Spese sostenute v.a. Min. Max

Fino a 1.000,00 2 2.000,00 2.000,00

da 1.001,00 a 5.000,00 5 5.000,00 25.000,00

da 5.001,00 a 10.000,00 8 40.000,00 80.000,00

da 10.001,00 a 20.000,00 12 120.000,00 240.000,00

oltre 21.000,00 2 42.000,00 42.000,00

N.R. 9 - -

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112

Si tratta di una cifra piuttosto modesta41

, soprattutto per una metà di quante hanno

risposto (15 casi) poiché le spese che hanno dichiarato di sostenere non superano i

10.000,00 euro. Cifra che certamente non permette di effettuare particolari investimenti,

di promuovere migliorie alla sede o di prenderne in affitto una oppure – come riportato

da alcuni Presidenti – realizzare attività in grado di coinvolgere maggiormente le

componenti giovanili. Un‟altra parte di associazioni – di quelle che hanno risposto (14

casi) – hanno sostenuto spese maggiori. Con molta probabilità di tratta di quelle più

attive sul versante dell‟organizzazione di eventi culturali finalizzati all‟acquisizione di

contanti da poter reinvestire nella gestione dell‟organizzazione complessiva.

Anche le quote associative – tra le altre cose – non sono semplici da riscuotere,

soprattutto in quelle aree geografiche che negli ultimi anni hanno avuto forti e

persistenti crisi economiche, come i paesi dell‟America latina. In questi casi una parte

delle associazioni si trovano attualmente in serie difficoltà economiche che ne minano la

sopravvivenza. Alcuni strati degli associati si trovano in una condizione di precarietà

economica non indifferente, al punto che anche una modesta sottoscrizione per

l‟associazione diventa un vincolo non facilmente superabile.

4.2.8 Punti di forza e punti di debolezza

Per quanto riguarda la percezione dei rispettivi punti di forza e di debolezza delle

associazioni ne emerge un quadro piuttosto articolato dalla Tab. 4.49.

Tab. 4.49 – Punti di forza e punti di debolezza

Punti di forza v.a.

La nostra coesione interna e radicamento nella comunità 11

Motivato nucleo di soci 8

Corsi di lingua e cultura 8

Conservare usi e costumi 4

Capacità organizzativa 4

Apporto dei giovani 3

Totale 38

Punti di debolezza v.a.

Crisi economica per svolgere le attività 12

Limitata partecipazione 6

Non abbiamo una sede propia 6

Indifferenza delle istituzioni (regione consolato ecc.) 5

Mancanza di contributi pubblici 4

Poca attrattiva per i giovani 4

Siamo discriminati dal Consultore, che favorisce solo quelli del suo giro 1

Totale 38

Tra i punti di forza maggiori risalta “la coesione interna” delle associazioni e il forte

“radicamento all‟interno della comunità” di appartenenza. Coesione e radicamento che

trovano modalità di rafforzamento nelle relazioni sociali, nello svolgimento di attività

sociali e culturali che rispondono ad esigenze diffuse nella comunità, che rispecchiano –

nel bene e nel male – la mentalità che circola e si sviluppa all‟interno della medesima.

41

Trattandosi una informazione «sensibile» con molta probabilità alcune associazioni hanno ridotto la

cifra, mentre per altre è possibile che sia quella riferita.

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113

Ma la coesione e il radicamento di una organizzazione all‟interno di una comunità ben

definita, con una sua specifica identità collettiva, possono – in particolari condizioni –

trasformarsi anche nel loro contrario. Ossia possono far ripiegare l‟associazione su se

stessa, chiuderla nella propria identità e renderla così chiusa verso l‟esterno. In questi

casi delle qualità intrinseche e peculiari dell‟associazione possono trasformarsi in un

peso, in un vincolo ed in un ostacolo che ne arresta e ne frena l‟eventuale sviluppo. In

alcuni casi – come accennato in precedenza – le difficoltà di coinvolgere i giovani fanno

pensare ad una chiusura culturale dell‟associazione, anche in presenza di una forte

coesione interna ed un radicamento nella comunità di appartenenza.

Un altro aspetto di particolare importanza è la motivazione che hanno i soci fondatori

(“nucleo motivato di soci”) a portare avanti il programma associazionistico, a perseguire

con particolare passione la missione sociale. Questo nucleo è quello che compartecipa a

determinare la conservazione degli “usi e costumi campani”, inteso come punto di forza

dell‟associazione giacché la missione è quella della salvaguardia del cultura di origine.

Altro punto di forza sono i corsi di lingua italiana organizzati dall‟associazione,

finalizzati a mantenere viva la lingua di origine e a coinvolgere le nuove generazioni

nell‟apprendimento della lingua genitoriale. Per altre un punto di forza importante è

l‟apporto giovanile alla gestione dell‟organizzazione.

I maggiori punti di debolezza, di converso, appaiono quelli correlabili alla crisi

economico-finanziaria dei paesi di insediamento. Crisi che coinvolge anche segmenti di

popolazione campane e di conseguenza va ad influire anche sulla vita associativa.

Infatti, ne limita le contribuzioni annuali, ne limita le contribuzioni straordinarie e ne

limita le entrate in occasione delle feste sociali che si organizzano proprio a tale scopo.

Altro aspetto che appare importante è la limitata partecipazione alla vita associativa di

segmenti rilevanti di iscritti. Una parte degli iscritti – presumibilmente – non partecipa

attivamente, ma in maniera passiva. Nel senso che porta il suo contributo con la quota

associativa (quando è possibile), partecipa a qualche festa sociale ma non si preoccupa

degli altri problema che può avere l‟organizzazione.

Un punto di debolezza senz‟altro altrettanto significativo è dato dall‟assenza della sede

sociale. Condizione che non permette nessuna pianificazione delle attività, nessuna

strategia di sviluppo, nessuna possibilità di pensare a progetti per coinvolgere altri

compaesani e soprattutto le componenti giovanili. Senza sede si è nomadi. Si passa da

uno spazio all‟altro senza mettere radici, senza sviluppare una specifica identità

associazionistica e distintiva di una scelta sociale e culturale precisa e peculiare.

Altri lamentano una indifferenza da parte delle amministrazioni campane da un lato e

italiane in generale dall‟altro. Lamentano, di conseguenza, una scarsa carenza di

contributi, di incentivi economici per favorire lo sviluppo associazionistico, per favorire

l‟avvicinamento dei giovani alle associazioni medesime. Aspetti che riducono

l‟attrattiva delle associazioni, soprattutto alla vista delle componenti giovanili della

comunità.

Per alcuni dei punti di debolezza le possibili soluzioni, sulla base di quanto rilevato dai

questionari, sono diverse (Tab. 4.50). Le proposte che trovano maggior attenzione dagli

intervistati sono quelle che ritengono che i problemi che attanagliano le associazioni dei

campani possano essere affrontati adeguatamente con l‟aumento dei contributi che la

Regione eroga in favore delle stesse. Una maggior capacità economica da parte della

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Regione Campania permetterebbe – questa è l‟ipotesi – una maggior capacità di crescita

delle associazioni, di un loro sviluppo e quindi una maggiore attrattività verso i giovani

compaesani e discendenti. Questa proposta trova un adeguato rafforzamento se correlata

con l‟altra proposta che ha riscosso maggior attenzione.

Tab. 4.50 – Soluzioni proposte

Soluzioni proposte v.a.

Intervento del Settore Emigrazione della Regione 1

Scambio scolastico con la Regione 1

Maggiore aiuto economico dalla Regione/Provincia 8

Le istituzioni dovrebbero essere più vicine alle Associazioni formando quadri giovanili 7

Accellerare le pratiche burocratiche per i contributi 3

Favorire la ricerca di un posto di lavoro per i giovani campani 2

Maggiore partecipazione dei soci 2

Trovare il modo di coinvolgere i giovani 4

Aiuto dall'italia 1

Autofinanziarci di più 1

Avere una sede propia 1

Borse di studio per i giovani 1

Contributi agli insegnanti agli insegnanti di italiano 1

Stabilire il vero ruolo dei Consultori e stabilire delle sanzioni in caso di comportamento scorretto 1

Vendita di prodotti campani 4

Cioè la possibilità da parte della regione di trovare il modo di stare più vicina alle

associazioni, monitorarle ed assisterle nel percorso di sviluppo, anche formando quadri

dirigenti giovani. In tal modo questi giovani – formati a gestire adeguatamente le

associazioni – possono, in presenza di contributi, progettare interventi più efficaci e

soprattutto gestirli in maniera anche professionale. La professionalità dei giovani

potrebbe contribuire non poco a rivitalizzare le associazioni, anche con il

coinvolgimento delle altre componenti giovanili. Infatti, altri intervistati pongono

l‟attenzione sui giovani per trovare modalità diverse di gestire e far crescere le

associazioni.

Altri propongono, di fatto, il passaggio da associazione assolutamente non profit ad

associazione prevalentemente non profit, nel senso che propongono per uscire dalle crisi

economiche anche la possibilità di commercializzare i prodotti campani. Dalla vendita

dei prodotti si potrebbero ricavare le risorse economiche per gestire l‟ordinaria

amministrazione e non pesare eccessivamente sui soci, soprattutto nei periodi di

maggior difficoltà. Questo ultimo aspetto appare in linea con quanto accade a molte

associazioni italiane, in quanto alle attività specificamente non profit hanno con tempo

affiancato attività commerciali (di diversa entità e peso economico) che permettono di

gestire con minore difficoltà le attività volontarie.

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115

4.3 Le associazioni attraverso il racconto dei protagonisti42

4.3.1 L‟emigrazione dei fondatori. Il profilo lavorativo e socio-culturale

La partenza e il viaggio per l‟espatrio

Le persone che abbiamo intervistato in qualità di Presidenti o membri delle associazioni

campane che operano all‟estero sono tutte emigrate nella gran maggioranza dei casi tra i

primi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. In qualche caso si tratta di emigrazione

successiva – ossia avvenuta negli anni Settanta ed finanche Ottanta – con motivazioni e

caratteristiche migratorie significativamente diverse dalle precedenti. L‟età degli

intervistati – al momento della partenza – era piuttosto giovane: in molto casi si trattava

di minori, in altri casi ancora di giovani con una età intorno ai venti/ventidue anni. I

maschi emigrati – dai racconti raccolti – erano, almeno all‟inizio, un numero maggiore

delle donne; numero che ben presto è aumentato con il progredire dell‟esperienza

migratoria, delle forme e delle modalità di insediamento, nonché dei piccoli o medio-

grandi successi lavorativi raggiunti.

Fattori che hanno permesso di attivare – soprattutto da parte delle componenti maschili

– processi di richiamo dei familiari disposti anch‟essi all‟emigrazione e dei

ricongiungimenti dei coniugi (soprattutto donne e figli). “Le donne sono arrivate dopo

un anno circa che ero partito, afferma un intervistato… l‟usanza era quella che partivano

prima gli uomini, trovavano lavoro, si sistemavano e poi piano piano venivano

richiamate le mogli quando c‟erano, oppure le fidanzate o le sorelle. Quando sono

partito avevo 16 anni. Era il 1954. Mio padre era già in Argentina. Era lì da prima della

guerra. Era marinaio e con lo scoppio della seconda guerra la sua nave fu requisita dalla

marina argentina. Non gli fecero nulla, ma non poteva tornare in Italia… Dopo la guerra

– erano passati quasi sette anni – ci arrivò inaspettatamente una sua cartolina… non era

morto, dunque. Era vivo e voleva riabbracciarci. Noi pensavamo che fosse morto o che

fosse disperso. Non era mai stato possibile comunicare … allora era molto difficile.

Così dopo la cartolina e l‟invito a raggiungerlo io partii. C‟erano con me anche mia

madre e mia sorella”.

“Al paese non si stava bene. Mio padre era ciabattino ed io stavo imparando il mestiere.

Mio padre – non ricordo come – decise di partire. Decise di partire per il Brasile. Là

c‟era suo zio. La persona che gli aveva insegnato il mestiere. Gli aveva scritto. C‟era

possibilità di lavorare insieme. Fare soldi, davvero. Mio padre vendette delle capre e

partì di venerdi. Pioveva tantissimo. Una macchina doveva portarlo a Napoli per poi

prendere il treno per Genova. La nave era la Toscanini, me lo ricordo ancora perché fu

quella che prendemmo anche io e mia sorella per raggiungerlo due anni dopo…Quando

partii ero molto impaurito. Il viaggio …la nave. Non ero mai stato a Napoli, eppure

distava una cinquantina di Km dal mio paese. Vivevamo vicino Salerno, un paese di

1000 anime. Monte San Giacomo. A Salerno siamo andati a piedi: io e due fratelli. Ci

42

Questo capitolo è stato redatto utilizzando le informazioni acquisite mediante interviste in profondità

effettuate vis a vis a Presidenti e a membri dei Consigli direttivi delle associazioni in occasione di una

missione svolta dalla Filef in tre paesi latino-americani: l‟Argentina, l‟Uruguay e il Brasile (del Sud). In

tale occasione, appunto, sono state effettuate 22 interviste con registratore e successivamente debitamente

sbobinate.

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sembrava già una città enorme. Poi Napoli, poi Genova e poi via per Buenos Aires. Non

sembrava vero. Io sulla nave per andare oltre l‟oceano a trovare mio padre che

ricordavo molto poco”.

“Avevo 8 anni. Ero il più grande di 5 fratelli. C‟era anche la mamma. Siamo partiti da

Solofra – in provincia di Avellino – in direzione di Buenos Aires. Ho pianto tutto il

viaggio. Piangevo e giocavo sul ponte. Correvo e piangevo. Ho pianto tanto anche

durante i primi sei mesi di permanenza a Buenos Aires. Volevo stare con i miei amici,

stare nella mia scuola, giocare con il mio pallone nel campetto della mia chiesa. Era

terribile… Penso di aver davvero sofferto molto il distacco … l‟emigrazione a quell‟età

poi è qualcosa di inumano. Era una esperienza che sentivo come tragica. Da un giorno

all‟altro ti ritrovi in un paese completamente diverso, con una lingua che non capivo,

con delle persone che non conoscevo. Ero partito a Novembre coperto da capo a piedi

per il freddo e arrivo in piena estate, con un caldo che ancora ricordo come torrido …

come ricordo tante, ma tante mosquitos … animali che non conoscevo e mi facevano

paura. Il mangiare non mi piaceva. Ero dimagrito tantissimo, al punto che i miei genitori

si erano preoccupati molto per la mia salute”.

Insomma, per tutti la partenza ha significato una rottura non indifferente; rottura di

consuetudini, di relazioni strutturate, di abitudini climatiche ed alimentari. Partire,

inoltre, da piccoli centri e proiettarsi in direzione delle grandi metropoli ha disorientato

molte persone e a creato non pochi problemi di adattamento sociale e culturale, nonché

problemi non indifferenti nella sfera lavorativa. “Non è stato facile partire … ero

completamente spaesato. Ho provato una prima volta ma sono tornato indietro. Sono

arrivato a Napoli dal mio paese e ho ripreso la corriera e nel pomeriggio sono tornato a

casa. Non ce l‟ho fatta a emigrare. I miei fratelli non ci potevano credere. Avevo paura.

Ho anche pianto davanti a loro. Ma dopo un paio di mesi sono invece partito. Sono

arrivato a San Paolo. Abbastanza contento. Le paure le avevo superate. Avevo bisogno

di pensarci ancora di più prima di partire, di lasciare il mio paese”.

Questi aspetti, nel loro insieme, assumono connotazioni diverse a seconda del punto di

vista che si assume nell‟analizzarli: quello soggettivo, del singolo emigrante, e quello

collettivo, cioè del flusso migratorio che si costruisce anche in funzione della direzione

che prenderà. Nondimeno assumono connotazioni diverse a seconda della metà

migratoria che gli emigranti – nella loro soggettività o nel loro insieme – scelgono sulla

base delle opportunità che possono far valere nell‟accellerare e facilitare il processo di

insediamento e al contempo di inserimento socio-economico. La metà migratoria è

strettamente correlata e funzionale alle risorse che si pensa di poter utilizzare una volta

arrivati, alle opportunità che i parenti e i compaesani affermano di disporre e di poterne

permettere l‟accesso e fruibilità a quanti arrivano successivamente.

L‟arrivo e l‟insediamento. Il lavoro, la casa, la famiglia

L‟arrivo per molti è stato un avvenimento gioioso, per altri – come abbiamo sopra

accennato – piuttosto traumatico e sofferente. Dall‟analisi delle interviste emerge

tuttavia una correlazione tra l‟età dei migranti, la presenza o meno di un genitore

durante il tragitto – o di qualche amico – e le difficoltà di adattamento iniziali. Ovvero:

sembrerebbe che minore è l‟età dei migranti e maggiori sembrerebbero le difficoltà di

adattamento a causa della rottura dei rapporti scolastici, dell‟abbandono dei maestri e

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dei professori di riferimento, dell‟interruzione delle relazioni affettive con gli amici e il

gruppi dei pari e di prossimità in generale, eccetera. Di converso, maggiore è l‟età dei

migranti e minore sembrerebbero – almeno in maniera esplicita – le difficoltà iniziali di

adattamento ed inserimento. Con l‟età adulta la consapevolezza di ciò che si lascia è

sicuramente maggiore, come è maggiore la sopportabilità della rottura iniziale.

Questo, per dirla con le parole di un intervistato “avviene perché in qualche modo sei

preparato. L‟emigrazione è una tappa di una preparazione che avviene nei mesi

precedenti … o anche degli anni precedenti, allorquando si ha un parente stretto che già

sta vivendo questa esperienza. Più è vicino questo parente e più c‟è una specie di

identificazione con esso. Anche tu – nel caso che questo parente è identificabile con tuo

padre – sogni da emigrante. Ti pensi accanto al tuo papà a Caracas o a Francoforte …

oppure a Sidney. Stai lì con lui. Parli con lui e scopri di sapere molto di Caracas. Dalle

sue cartoline, dalle sue lettere, dalle sue telefonate e dai messaggi che ti portano i suoi

amici o conoscenti quando tornano per le vacanze o per qualche altro evento della

famiglia”.

Insomma, dice un altro: “l‟Argentina era nella mia testa prima di arrivarci. Sulla nave

guardi la costa che si allontana e ti viene un po‟ di malinconia, mentre quando sei in alto

mare non vedi l‟ora di scorgere l‟altra costa, l‟altro paese. Io ho lasciato mia madre al

porto di Napoli e ho trovato mio padre al Porto di Buenos Aires. Questa doppia

emozione rimane dentro. Un emigrante resta sempre con questa emozione. L‟emozione

forte si stampa dentro di te e convivi con essa. Sei una cosa quando parti e sei già

un‟altra cosa quando arrivi. Due cose in una, per sempre. Rimani sempre come

sdoppiato. Anche quando vai ha trovare lavoro, quando vai a cercare una casa, quando

vai al bar. Sempre. Questa doppia anima a volte ti aiuta, a volte è come un peso

insopportabile... Una la soddisfi stando con la tua famiglia e con i tuoi compaesani,

quelli stretti, quelli del tuo quartiere (quando sei fortunato), l‟altra la soddisfi sul lavoro

a fianco dei lavoratori nativi”.

Molti degli intervistati quando sono arrivati nelle diverse destinazioni avevano già la

possibilità di inserirsi in una occupazione che i parenti – coloro che li avevano

richiamati – avevano già negoziato per essi: avevano già stabilito l‟ammontare del

salario, avevano già predisposto l‟alloggio, avevano già informato del nuovo arrivo gli

altri compaesani e una parte della comunità campana. Sapevano già quale sarebbe stato

il tuo tenore di vita e il ritmo della tua giornata lavorativa e cosa avresti fatto nelle ore

serali, nonché quanto avresti risprmiato per mandare soldi a casa. “Pur nella semplicità

l‟accoglienza di un paesano che arrivava a destinazione era sempre motivo di festa, dice

un intervistato. Al suo arrivo veniva vezzeggiato, oggetto di scherzi e di ricordi comuni.

Veniva messo al corrente di come bisognava trattare con il datore di lavoro, con

l‟affittuario della casa (quando era diversa da quella del parente richiamante), con gli

altri operai nativi o di altre nazionalità … e cosa si faceva la sera”.

L‟attività lavorativa che veniva svolta dagli emigranti adulti era quasi sempre diversa –

in alcuni casi molto diversa e lontana – di quella che si svolgeva al paese di origine. Tra

i nostri intervistati sono presenti molti artigiani – da barbieri a sarti, da falegnami a

carpentieri, da meccanici a tessitori, eccetera – che una volta arrivati a Buenos Aires o a

Montevideo – oppure a San Paulo – diventavano muratori, facchini, carbonai o

negozianti di frutta e di altri generi alimentari. Al contrario, muratori e manovali o

braccianti diventavano autisti di auto da trasporto oppure facchini e uomini tuttofare nei

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ristoranti. L‟impatto iniziale, che emerge dalle interviste, è quello di un adattamento

immediato ai lavori che per primi venivano trovati, anche se lontani e distanti da quelli

svolti prima della partenza. Anche nei casi di operai specializzati; in emigrazione la

qualifica all‟inizio non serviva quasi mai.

Non mancano casi di inserimento immediato in aziende agricole o manifatturiere di

media e finanche di grande ampiezza. Inserimento che interessa all‟inizio solo una parte

dei migranti, per aumentare negli anni e svilupparsi ancora negli anni successivi. Questa

evoluzione occupazionale che si caratterizza anche per la sua significativa mobilità da

un settore produttivo all‟altro e – all‟interno di questi – nei diversi ambiti lavorativi, è

caratterizzata alla fin fine da una corrispondente evoluzione sociale ed economica dei

diretti interessati. Quasi tutti gli interessati raccontano di successi economici e di

traguardi sociali raggiunti, anche se la fatica e spesso la solitudine sono strutturali e

sovente caratterizzano tutta l‟esperienza raccontata. “Anche se il tempo cancella le cose

brutte, le sofferenze e le durezze dell‟emigrazione – dice una intervistata – e

contemporaneamente valorizza quelle più belle, quelle più positive, come se le prime

fossero solo dei brutti sogni”.

“La famiglia è stata la vera protagonista dell‟emigrazione, racconta uno degli

intervistati. La famiglia nel suo insieme: sia per gli anticipi versati per il viaggio, sia per

la stabilità affettiva che si produce in emigrazione. Senza l‟apporto familiare, la

presenza di amici e dei compaesani l‟emigrazione sarebbe stata insopportabile”. “La

famiglia diventa più importante di quella che normalmente è”, afferma un altro.

“Quando i genitori tiravano i soldi da sotto il materazzo … e li contavano quasi di

nascosto … e poi li ricontavano ancora.. Più volte. Erano il soldi del biglietto, del

viaggio. Erano soldi destinati a fruttarne degli altri, così dicevano i vecchi. E

aggiungevano, con una certa amarezza: ma lontano dal paese. In un altro luogo.

Sconosciuto. Sconosciuto come il lavoro che ti attendeva e le persone che avresti

incontrato. Ma senza questi soldi iniziali non ci sarebbe stata emigrazione”.

La casa è l‟altro aspetto strettamente connesso al lavoro. “Con il lavoro non c‟erano

problemi. Il problema vero era quello di avere una casa adeguata. Non bella. Non

grande. Ma sicura e accogliente. Era la cosa più difficile. Per due mesi ho dormito in

terra. Nella cucina di mio fratello. Poi altri sei mesi in un letto talmente basso che

toccavo con il peso del mio corpo per terra. Altri paesani dormivano al porto di Buenos

Aires, dietro le balle di stoffe che si spedivano via mare. Oppure dormivano nelle grandi

scatole di legno che servivano per l‟imballaggio, con cartoni e carta per materasso.

Spesso davano una mancia al guardiano del porto: denaro, tabacco, qualche vestito in

più; vestito che in quelle condizioni era solo ingombrante. Così ci lasciava dormire. Era

una regola per tutti quelli che non avevano ancora trovato una abitazione”.

Per un altro intervistato il problema dell‟alloggio si risolveva gradualmente. “A volte

risolvevi il problema in maniera veloce, ma quasi sempre lentamente. Occorrevano mesi

e anche anni quando avevi famiglia. Alloggio dopo alloggio. Tentativo dopo tentativo.

Prendevi un alloggio e lasciavi il “vecchio” ad altri migranti e così di seguito. Quelli

che lavoravano ed avevano più successo facevano da battistrada a quelli meno capaci e

meno fortunati. Chi aveva un buon lavoro dopo qualche mese – a volte dopo sei/sette

mesi – trovava sempre una sistemazione migliore. Anche perché non era difficile – se

potevi pagare – trovare un letto al posto di un giaciglio di cartoni o di balle di stoffe.

Anche se molto spesso dovevi trasferirti ed andare in periferia, quasi in campagna.. ai

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limiti della città. Per questo è nata tutta la vasta periferia di Buonos Aires: abitazioni

dopo abitazioni, abitazioni sempre più esterne al perimetro centrale per i migranti

italiani e spagnoli, ma anche agli immigrati di altre nazionalità”.

L‟abitazione in periferia significava ulteriori sacrifici per raggiungere il posto di lavoro.

Infatti, “se lavoravi in centro della città – come ricorda un altro intervistato – era

difficile poi muoversi. Allora non c‟erano autobus comodi e le macchine erano ancora

dei miraggi per ricchi. Si camminava molto a piedi e in qualche caso in bicicletta,

quando riuscivi a comprarla. Non certo i primi mesi o il primo anno di soggiorno”. Le

aziende più grandi avevano un servizio di trasporto messo a disposizione dall‟esercito.

Gli operai si facevano trovare in un determinato luogo e venivano poi caricati su camion

e portati al lavoro; alla fine del turno si veniva riportati nello stesso posto e così per

l‟indomani. Erano dei punti di raccolta che andavano bene alla maggior parte degli

operai e soprattutto ai conduttori dei camion. Col tempo sono stati sostituiti dai mezzi

pubblici e dalle prime automobili e servizi pubblici”.

“Comunque l‟emigrazione è stata molto pesante per tutti. Anche se molti ormai non lo

riconoscono più, continua un altro intervistato. Tutti hanno cercato di sopravvivere.

Perché gli emigranti erano tutti molto poveri dal punto di vista economico. Non poteva

quindi avere la vita facile. Doveva fare i lavori più umili e malpagati. Soprattutto qua in

Argentina: sia a Buenos Aires che a Rosario. Molti lavoravano la terra oppure

nell‟edilizia. Erano i lavori che gli argentini o gli stranieri ormai insediati e ben integrati

non volevano fare più. Questa è l‟amara verità. Sembra banale ricordarlo ma è così. Si

soffriva e si soffriva. Punto. Era duro. Soltanto il 10/15% della prima emigrazione di

italiani è riuscita a fare carriera e a fare soldi. Anche oggi la maggior parte degli italiani

vive con 150 pesos al mese. Quelli che sono arrivati negli ultimi dieci/quindici anni, al

contrario, hanno fatto passi in avanti migliori. Infatti, chi è arrivato per ultimo aveva

una laurea, aveva un diploma e quindi l‟inserimento nei posti importanti non è stato

difficile. Questi stanno molto bene, compatibilmente con la situazione generale”.

Le aggregazioni informali e le reti dei compaesani

Quando si arrivava a Buonos Aires – o in qualsiasi altro posto – i primi contatti (dopo le

pratiche di sbarco) erano due: con i parenti o i paesani che sapevano del tuo arrivo

perché erano stati avvisati per lettera e il datore di lavoro perché – nel caso della

chiamata nominale o della negoziazione effettuata dai parenti o amici con il datore

medesimo – aveva stabilito il giorno di inizio attività. Questi contatti non sempre

avvenivano senza problemi. Alcuni intervistati raccontano di aver incontrato senza

problemi i loro parenti o il personale dell‟azienda addetto al loro recupero appena

sbarcati al porto; mentre altri raccontano di disguidi e appuntamenti sbagliati con i

parenti (sovente si trattava di persone con poca scolarizzazione e quindi con poca

dimestichezza nella scrittura e nella lettura e finanche con la lingua italiana) con i

conseguenti problemi che ne sono derivati.

Un intervistato racconta: “Mi sembrava quasi incredibile che dopo quindici giorni di

navigazione e dopo anni e anni che non vedevo mio padre poterlo ritrovare sulla

panchina del porto di Santos ad aspettarmi. Puntuale come forse non avrei mai

immaginato. Era lì sulla banchina con il cappello di paglia per ripararsi dalla luce del

giorno, scuro e bruciacchiato dal sole e quasi elegante nei suoi pantaloni chiari e con le

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sue scarpe sporche di fango. Non potevo quasi crederci. Era mio padre. Di lui avevo

soltanto una vecchia foto dove compariva soltanto il viso e i suoi baffi scuri. Vederlo lì

che mi aspettava ho avuto un leggero smarrimento e ho finanche esitato nel

riconoscerlo. Ma era lui. Dopo gli abbracci e i pianti di commozione siamo saliti sulla

macchina di un suo amico e parlando parlando siamo arrivati a San Paolo. Lì ho

conosciuto gli amici di mio padre e la persona con cui dopo qualche giorno sarei andato

a lavorare. Infatti, come un orologio svizzero tre giorni dopo il mio arrivo lavoravo in

un cantiere edile che stava costruendo un grande edifico commerciale”.

“Il fatto che mi colpì di più in quei tre giorni iniziali della mia permanenza era che una

cerchia abbastanza larga di paesani venivano a trovare mio padre perché avevano saputo

dell‟arrivo del primo figlio maschio. Questa notizia aveva mobilitato molta gente.

Ognuno che veniva a trovarci ci salutava, parlottava un po‟ con mio padre e poi

rivolgendosi a me faceva i suoi complimenti. Si complimentavano per la mia

espressione e per lo sguardo che ricordava quello della famiglia, si complimentavano

per la mia giovinezza, si complimentavano per i miei studi, si complimentavano del

fatto che avevo attraversato l‟atlantico senza problemi di salute, eccetera. Dopo tante

attenzioni ciascuno di loro iniziava a darmi dei soldi e poi salutando se ne andava.

Ciascuno non dava molto per la verità. Ma nell‟insieme alla fine avevo fatto un piccolo

gruzzolo che mio padre stimava “niente male”. Ero stupito per quei soldi. Mio padre mi

disse che era una usanza tra compaesani per sostenere i nuovi arrivati nella prima fase di

emigrazione. Era una forma di mutuo soccorso per sostenere la fase di adattamento

iniziale. Anche lui lo faceva quando arrivavano altri paesani. Ed anche io lo avrei fatto

in seguito”.

Per un altro intervistato, invece, l‟arrivo non è stato dei più facili. Infatti racconta che:

“quando sono arrivato a Santos (la città di attracco delle navi con passeggeri diretti nel

Sud del Brasile, tra cui San paolo) non c‟era nessuno ad aspettarmi e a prendermi. Ho

aspettato per ore l‟arrivo di mio fratello e di mio nipote ma invano. Non sapevo che

fare. Altri paesani che avevo incontrato sulla nave erano già stati prelevati dagli amici o

dai parenti. Mentre passava il tempo aumentava anche il timore che si fossero

dimenticati di me…. Insomma, ho dormito con altre persone al porto. Mio fratello è

arrivato soltanto quattro giorni dopo. C‟era stato un equivoco sulla data del mio arrivo.

Sono stati quattro giorni particolari. Vivere in un posto sconosciuto non è una cosa

facile. Avevo un po‟ di paura e di nostalgia. Avevo solo 16 anni e non era mai andato

via dal mio paese natale. Ma stando al porto – dopo la prima notte passata camminando

perché avevo paura di dormire, di chiudere gli occhi ed addormentarmi – ho conosciuto

degli emigranti piemontesi e mi hanno “adottato” per tutto il tempo che sono rimasto a

Santos. Facevano parte di una associazione che si chiamava “Famiglia piemontesa”.

Non lo dimenticherò mai”.

La rete dei parenti e dei compaesani è una componente costitutiva dell‟emigrazione, non

solo nella fase di richiamo e di formazione della decisione ad espatriare, ma anche al

momento dell‟arrivo nel paese di destinazione. Le forme solidaristiche attraverso il

quale si manifesta la solidarietà sono tante quante sono le esigenze dei nuovi arrivati: da

quelle più materiali, quali il dormire, il mangiare, il cambio dei vestiti, a quelle più

immateriali: la vicinanza affettiva, il richiamo ai valori culturali del paese di origine, il

sentirsi a “casa propria”, alla cura complessiva e all‟attenzione alle necessità più

immediate. Insomma, la “presa in carico” – da parte della comunità, soprattutto nella

sua componente più strutturata – dell‟emigrante appena insediatesi; presa in carico che

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avviene nei limiti e nelle possibilità mediamente consentite dalle condizioni generali

che caratterizzano la comunità medesima e le sue articolazioni più strutturate, come le

associazioni e le altre “istituzioni” degli emigranti.

D‟altra parte chi emigra è il membro più forte, quello che può comunque cavarsela da

solo e che in qualche modo resta fedele alla famiglia; ossia non si dimentica dei doveri

familiari che deve assolvere una volta espatriato. Per questa ragione i nuovi arrivati

vengono accettati: sono “coraggiosi come lo siamo stati noi. Hanno fatto quello che

abbiamo fatto noi e probabilmente avranno gli stessi problemi che abbiamo avuto noi”,

afferma un intervistato. “L‟emigrante – pur nella sua apparente fragilità – rappresenta la

gioventù più forte del paese… quella più intraprendente … quella più disposta a

rischiare e a farsi in quattro per riuscire a sviluppare la sua vita – e quella della famiglia

– nella direzione sperata e in qualche modo progettata”. La ragione principale che tiene

uniti gli emigranti dello stesso paese e spesso della stesa famiglia – in senso largo – “è il

fatto che ciascuno sorregge l‟altro … se cade può trovare conforto … tutti lo sanno …

Non può essere diverso … in emigrazione più stai col gruppo e più stai al sicuro. Anche

se a volte il gruppo è opprimente e desideri abbandonarlo”.

La nascita dell‟associazione e la sua formalizzazione

La propensione a “prendersi cura” dei nuovi arrivati – secondo i principi del mutuo

soccorso, ossia la ripartizione – e quindi la possibilità di gestire dei potenziali rischi – e

la propensione all‟aggregazione gruppo-centrica tipica delle comunità di emigranti

hanno innescato meccanismi progressivi di auto-organizzazione. Auto-organizzazione

che per aggregazioni progressive di gruppi diversi e variegati (per area geografica di

provenienza, per riferimenti culturali e politico-sociali, per attaccamento e pratica dei

valori religiosi) ha determinato, col tempo, la sua trasformazione, fino alla formazione

delle associazioni di migranti, tra cui quelle campane.

Associazioni che hanno assunto dapprima una configurazione poco più che

spontaneistica per passare successivamente ad una configurazione organizzativa

caratterizzata da livelli minimi di strutturazione; da questi le associazioni hanno, infine,

intrapreso – mediante ulteriori articolazioni interne finalizzate alla gestione più efficace

dei compiti e degli obiettivi da perseguire collettivamente – la strada del

consolidamento e della formalizzazione (anche di tipo) statutaria con l‟assunzione e il

rispetto di regole di funzionamento condivisibili e controllabili congiuntamente. Il

passaggio quindi da semplice gruppo di solidarietà mutualistica a gruppo formalizzato

che persegue obiettivi più complessi è avvenuto nel corso di interi decenni e a seguito

l‟evoluzione che ha caratterizzato l‟emigrazione nel suo insieme.

“Quando sono arrivato a Montevideo la prima cosa che ho fatto è stata quella di

frequentare i compaesani. Alcuni di questi frequentavano una vecchia Società di mutuo

soccorso. Mi avevano invitato a dargli una mano perché si era saputo che era arrivato un

giovane campano che prima di emigrare lavorava nel Comune di Atena Campana ed era

contabile e quindi sapeva fare di conto. Così sono entrato nella Società di mutuo

soccorso che si chiamava “Centro amici d‟Italia”. Poi questa è stata chiusa ed è

confluita nella “Casa d‟Italia”. Quest‟ultima era formata da emigranti settentrionali ed

emigranti meridionali… Io però già negli anni Cinquanta e Sessanta volevo fare una

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associazione di soli campani perché a Montevideo siamo tantissimi: quasi 35/40.000 tra

discendenti e campani con il passaporto e non c‟era nessuna associazione del genere”.

Alle esperienze in associazioni “generaliste” (ossia formate da connazionali a

prescindere dall‟area di provenienza) vissute anche da altri intervistati si passa – tra la

fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta – alle associazioni localistiche,

formate cioè su base regionale e su base municipale. Continua il nostro intervistato di

Montevideo: “dopo tante esperienze in altre organizzazioni di migranti siamo riusciti a

formalizzare quella di soli Campani nei primi anni Ottanta. Perché di soli Campani? Le

ragioni sono due: la prima è la lingua e le sfumature che attribuiamo ai valori più

importanti grazie ad essa; la seconda, la possibilità – con il rafforzamento delle

Amministrazioni regionali – di avere un rapporto diretto con la Regione Campania e di

conseguenza con i Municipi di riferimento delle diverse collettività locali. Le Regioni,

ormai, sono molto più vicine – almeno teoricamente – agli emigranti che non le

istituzioni nazionali”.

“Il passaggio nel nostro caso non é stato difficile perché le mie competenze si sono

rivelate sempre preziose tra i connazionali. Fare di conto bene è una competenza

preziosa in emigrazione. Facevo sempre i bilanci dell‟associazione, riscuotevo le quote

associative, proponevo spese per la manutenzione e il consolidamento dell‟associazione

medesima. Queste necessità hanno costretto tutti a ragionare in modo razionale e in

modo chiaro. La gestione delle quote era – ed è tuttora – la parte più delicata

dell‟associazione ed è quella che determina anche tutta l‟attività, sia in senso

quantitativo che qualitativo.” “Gestire i soldi dei compaesani è la cosa più difficile che

abbiamo dovuto superare, ricorda un altro di San Paolo. Si può dire che stare in una

associazione vuol dire sostanzialmente – oltre a tutti gli aspetti esterni che concorrono

alla crescita e allo sviluppo delle relazioni sociali – gestire in maniera condivisa il

patrimonio economico. Gestire in maniera corretta vuol dire essere trasparenti,

dimostrare sempre cosa si è speso e come si è speso, coinvolgere i gruppi dirigenti a

questa gestione e garantire ai soci la possibilità di verificare quanto speso”.

Soltanto con una gestione patrimoniale corretta e verificabile dagli associati si possono

poi proporre attività specifiche, con la consapevolezza che saranno ben accettate dai

consociati, afferma un intervistato di Rosario. “Anche se il patrimonio associazionistico

è modesto occorre che tutta la trasparenza contabile sia adeguata. Non deve mai sorgere

il dubbio. Ne va della fiducia dei soci. Aspetto che può determinare la fine

dell‟associazione. Le attività che si organizzaono per gli associati devono essere

conformi allo stato economico dell‟associazione. Nè più e né meno. Questo vuol dire

avere gruppi dirigenti capaci, che riscuotono la fiducia degli associati, che possono

dimostrare la bontà delle loro scelte in relazione al mandato ricevuto. Questo, a mio

parere, vuol dire stare in una associazione formalizzata, cioè rispettare le regole e i

codici di comportamento condivisibili”.

Il profilo socio-professionale dei fondatori e degli associati

I Campani che hanno dato vita alle rispettive associazioni svolgevano le stesse attività

lavorative che svolgevano gli altri compaesani associati. Anche se occorre specificare

che – nonostante le professioni fossero del tutto simili – da un punto di vista

strettamente soggettivo coloro che materialmente hanno stilato gli statuti, predisposto

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tutte le procedure, promosso e gestito l‟aggregazione degli altri potenziali associati,

erano persone di particolare esperienza organizzativa. Infatti, non mancano emigranti

che avevano maturato in patria esperienze – più o meno significative – nel sindacato e

nelle organizzazioni politiche, nonché nei partiti più tradizionali. Non mancano persone

che avevano partecipato nel dopo guerra all‟occupazione delle terre incolte, oppure

persone che avevano studiato un po‟ di più degli altri; ossia più della media

riscontrabile tra le collettività locali di riferimento. Oppure – come nel caso sopracitato

– persone che lavoravano nei Municipi o persone che erano stati insegnanti e maestri

elementari e pertanto sapevano far di conto e leggere bene, nonché parlare in maniera

comprensibile a tutti.

Non secondaria, tra i fondatori di associazioni, è la figura del piccolo imprenditore o

dell‟artigiano che aveva maturato esperienze dirette di organizzazione, seppur limitata

agli affari della bottega o della piccola impresa. Infatti, questi ultimi sono abbastanza

comuni: si tratta di piccole imprese agricole, di piccole imprese meccaniche, di piccole

imprese edili e manifatturiere. In qualche caso si tratta anche di professionisti: sia

emigranti – per motivi diversi – che hanno poi contribuito a fondare o hanno

direttamente fondato associazioni; sia giovani e giovanissimi emigrati al seguito dei

genitori – o che si sono ricongiunti con essi – che dopo aver studiato nel paese di

emigrazione hanno raggiunto livelli professionali elevati e da tale posizione hanno

contribuito a fondare le associazioni. Stesso ruolo hanno giocato i gruppi intellettuali

presenti nelle diverse collettività di emigranti.

Queste persone hanno – ed hanno avuto storicamente – un ruolo ed una funzione

significativa all‟interno delle associazioni: sia perché hanno garantito (e garantiscono)

in qualche modo l‟aggancio dell‟associazione anche all‟èlite economiche comunitarie

(ad esempio, in diversi casi, l‟aggancio è utile per il supporto economico che ricevono);

sia perché la loro presenza contribuisce a rendere le associazioni delle organizzazioni in

grado di porsi al centro della vita comunitaria ed essere un punto di riferimento per

l‟intera collettività; sia perché la loro presenza ha facilitato storicamente la possibilità di

inserire nel mondo del lavoro quelle parti di compaesani che avevano difficoltà ad

inserirsi nei mercati del lavoro locali ed hanno in sostanza permesso alle reti

intracomunitarie di trovare uno sbocco positivo alle richieste di aiuto provenienti dalle

componenti più svantaggiate.

Questi profili professionali, come accennato, sono riscontrabili in parte anche negli

associati, in quanto l‟associazione ha nella sostanza aggregato componenti emancipate

di migranti. L‟adesione all‟associazione per molti emigranti rappresenta un evento

importante, come ricorda l‟intervistato di Montevideo ed anche quello di Rosario e di

San Paolo. Per il primo: “l‟adesione all‟associazione per molti associati rappresenta

simbolicamente l‟adesione incondizionata al mantenimento dei valori del paese

originario. Ossia dei valori che si erano portati con sé in emigrazione”. Per il secondo:

“Le espressioni culturali nell‟associazione hanno potuto mantenersi, hanno potuto

conservarsi. Senza l‟associazione si sarebbero sicuramente persi definitivamente.

L‟adesione all‟associazione, dunque, per molti è qualcosa di più profondo, di più

irrazionale e di fortemente simbolico. E‟ molto di più del semplice stare insieme. Per il

terzo: “l‟associazione è un pezzo del tuo paese che si manifesta, una porzione del tuo

municipio, una parte di contrada che si perpetua nel tempo fuori dallo spazio originario.

E‟ un segmento di ciò che resta impresso nella mente. Di ciò che era il paese da cui si è

partiti”.

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“L‟associazione è come uno specchio in cui si intravede l‟immagine rarefatta di quello

che potrebbe essere il paese di origine, afferma un altro. Per gli associati aderire

all‟associazione significa rispecchiarsi continuamente con il proprio mondo. Quel

mondo che sta ormai nella fantasia e nell‟immaginario collettivo dei migranti. Ma che

per loro rappresenta – in quanto sentire collettivo – una specie di realtà concreta e

fattiva. Iscrivere tutta la famiglia all‟associazione vuol dire simbolicamente farla

partecipare, fargli condividere questo rispecchiamento. La sola adesione acquista un

significativo peso simbolico. Contribuire con le quote associative – questo valeva più

per il passato – significava costruire qualcosa di duraturo. Se era la sede, ad esempio,

tutti si impegnavano, come se fosse la propria casa”.

Tra gli associati le professioni sono le più varie e rappresentano nel loro insieme uno

spaccato puntuale delle società di emigrazione in relazione alle generazioni di

riferimento e all‟evoluzione dei sistemi di produzione delle società di insediamento. Ciò

vuol dire – ad esempio – che esiste oggettivamente una marcata differenza tra le

generazioni più anziane e quelle più giovani e, all‟interno di queste ultime, tra quanti

sono nati e cresciuti nei paesi di emigrazione e quanti sono arrivati al seguito dei

genitori in qualità di piccoli migranti oppure che li hanno raggiunti nelle fasi successive.

Come esiste una marcata differenza tra le prime componenti di emigranti che svolgono

una attività lavorativa diversa da quella svolta all‟inizio della fase migratoria. Nella

prima fase molti svolgevano attività collegate alla lavorazione della terra, alle attività

agricole e a quelle zootecniche che poi nel corso degli anni Sessanta e Settanta – ed in

parte fino agli anni Ottanta – hanno progressivamente abbandonato per entrare nei

settori del lavoro manifatturiero. Pur tuttavia si riscontrano – oltre agli imprenditori –

anche molti artigiani ed operai impiegati nelle piccole e medie imprese. Non mancano,

naturalmente, medici, avvocati, ingegneri, professionisti nelle diverse discipline ed arti.

Insomma, intorno alle associazioni – per usare le parole di un intervistato di Buenos

Aires – “c‟è una parte intera della società ospite che riproduce tutte le professioni, tutte

le categorie lavorative e professionali, tutti i settori produttivi e tutti i servizi possibili ed

immaginabili. Questo per una sola ragione: le comunità campane sono una parte

importante e significativa delle società che ci hanno ospitato e di cui siamo

orgogliosamente cittadini”.

4.3.2 I fabbisogni associativi e la costruzione dell‟identità bipolare

Diventare visibili

Un altro aspetto si rivela piuttosto importante nella progressiva formazione e

costruzione dell‟associazione. Quello che in sintesi possiamo definire – per usare le

parole di un intervistato – “il desiderio di diventare visibili”. L‟emigrante e tutti i suoi

compaesani trascorrono una parte iniziale del processo di insediamento divisi tra il

lavoro (in genere caratterizzato da un lungo orario) e la socialità familiare (quando è

presente il corrispettivo nucleo di riferimento); oppure tra la socialità e le modalità di

aggregazione che si manifesta e si sviluppa tra celibi in giovane età e soprattutto soli. Il

desiderio di diventare socialmente visibili diventa il fabbisogno delle componenti di

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emigranti prime arrivate, ossia quelle che si sono installate per prime nelle aree di

insediamento e che provenivano direttamente dalle differenti aree della Campania.

La definizione di primi migranti implica due aspetti: l‟uno necessita di una specifica

delimitazione temporale, ossia un periodo specifico – ad esempio – il secondo

dopoguerra; l‟altra è riferibile ai primi migranti che entrano per la prima volta in un

paese. Assumendo il secondo dopoguerra – ad esempio – come periodo di riferimento

possiamo, a ragione considerare i nuovi primi ingressi, di conseguenza, quelli entrati

all‟epoca (nel 1946). Anche se nel concreto queste nuove componenti si aggiungono e si

integrano con quelle precedenti, mediante le così dette catene migratorie.

Di fatto, appoggiandosi ad esse, fruiscono sostanzialmente delle risorse che le

componenti insediatesi prima e durante il secondo conflitto mondiale hanno

storicamente sviluppato. Rappresentano cioè la cultura migratoria della comunità

campana all‟interno di quei specifici percorsi migratori che si stratificano tra le zone di

esodo e le zone di arrivo ed insediamento, e affondano le loro radici in tempi ancora più

lontani. Ma i nuovi flussi, tali perché composti da generazioni di emigranti diversi,

(espatriati nel secondo dopoguerra) rivivono in parte le esperienze di quanti li hanno

preceduti rielaborandole da diversi punti di vista, non ultimo quello generazionale. Per

tale ragione maturano al contempo una continuità con i flussi precedenti e al contempo

una rottura generazionale che gli permette di vivere l‟esperienza migratoria in maniera

del tutto differente.

Questo diverso approccio in sostanza reinterpreta l‟esperienza migratoria dando un

significato più estensivo e particolare – perché generazionale – anche alla costituzione

delle associazioni. Queste, nei racconti degli emigranti degli anni Cinquanta e Sessanta,

appaiono del tutto diverse da quelle costituite negli anni a cavallo delle due guerre

mondiali e queste – a loro volta – appaiono del tutto diverse da quelle costituite fino alla

così detta Grande guerra. Ma cosa hanno di diverso? In primis – per usare le parole di

un intervistato – “le associazioni degli immigrati del secondo dopoguerra non si

basavano principalmente sul mutuo soccorso ma bensì sulla conservazione dell‟identità

di origine, della necessità di conservare la lingua, nella necessità di non perdere i

caratteri culturali. In sostanza: da un lato l‟italianità e dall‟altro la campanità. In

secondo luogo – conservando questa fisionomia – rendersi visibili socialmente proprio

in virtù di questa scelta identitaria”.

Di fatto la necessità di rendersi visibili è la necessità di essere riconosciuti con queste

fattezze, con questa fisionomia. Fisionomia che acquista valore solo per il fatto che

interloquisce con le altre componenti sociali e culturali. “Quando ho pensato – insieme

ad altri campani – di formare una associazione, racconta uno degli intervistati, la prima

cosa che ci siamo chiesti è stato come avremmo dovuto comparire in pubblico in quanto

emigranti campani. Quindi non tanto come fatto interno alla comunità (in questo caso

non ce n‟era neanche bisogno), ma quanto come fatto che avrebbe avuto una sua

importanza nelle relazioni esterne alla comunità. Volevano, insomma, che ci vedessero

e ci considerassero dei campani e poi degli avellinesi, dei salernitani eccetera”. Con la

possibilità di essere riconosciuti all‟esterno nei fatti “era come aver confezionato un

vestito e con quel vestito potevamo andare a qualsiasi matrimonio”, secondo la metafora

di un altro intervistato.

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Con questo “vestito confezionato da noi stessi, continua l‟intervistato, potevamo

renderci riconoscibili come Campani, come la Famiglia campana – nella sua accezione

più estesa – come Gruppo campano e dialogare con le altre associazioni di italiani e

straniere, ad esempio spagnole, tedesche o argentine (come nel nostro caso) con pari

status, con pari dignità, con pari legittimazione”. L‟associazione così fatta assumeva

caratteri diversi da quelle storiche, basate cioè sull‟aiuto reciproco in mancanza di

servizi sociali specializzati di riferimento in caso di necessità. L‟associazione come

espressione identitaria si staccava da quelle considerate tradizionali in quanto finalizzata

alla conservazione dell‟identità originaria, ossia di quello che la comunità intendeva per

identità originaria.

La partecipazione sociale e politica

Ma l‟identità dell‟associazione – che come afferma un intervistato “cambia col

cambiare della comunità ma sembrando sempre se stessa” – necessità di un

riconoscimento continuo da parte di quanti interagiscono con l‟associazione medesima.

Non è data una volta per sempre. “L‟associazione nel corso dei suoi venti anni ha

assunto aspetti diversi in ragione dei suoi gruppi dirigenti e dei gruppi di associati che

più degli altri partecipavano alla sua vita sociale e politica. Aspetti assunti anche in

funzione dell‟ambiente politico esterno. Si pensi ai periodi dittatoriali, non solo in

Argentina. Erano anche queste persone che gli imprimevano all‟associazione una

identità particolare, in quando infondevano in essa la loro personalità, i loro modi di

pensare e di svilupparsi”. “Le associazioni – racconta un altro – sono cambiate anche in

base alle caratteristiche occupazionali dei dirigenti che le hanno dirette: gli artigiani

avevano uno stile, gli operai un altro (anche perché erano anche sindacalizzati) e gli

imprenditori un altro ancora. All‟esterno era sempre la stessa, ma all‟interno le

differenze si sentivano e si vedevano eccome”.

La partecipazione sociale e politica – anche se molti intervistati tengono a precisare che

l‟associazione è apolitica e aconfessionale – in alcuni periodi era esplicita in altri era

mascherata. “In Argentina abbiamo avuto regimi militari che non vedevano di buon

occhio l‟associazionismo degli emigranti, soprattutto quelle degli italiani che avevano

una nomea di aggregazioni anarchiche e comuniste. Il ripiegarsi nell‟associazionismo

localistico – ad esempio campano e addirittura del singolo municipio – in alcuni

momenti storici ha avuto lo scopo di auto-difenderci dalle pressioni politiche dei

militari”. Secondo un altro intervistato le associazioni hanno assunto una configurazione

apolitica in quanto “la neutralità che aveva assunto l‟Argentina nella seconda guerra

mondiale non permetteva nessun comportamento partigiano delle diverse comunità

immigrate. Soprattutto tra quelle che si battevano su fronti diversi”.

Per alcuni intervistati – nonostante le associazioni abbiano assunto storicamente

posizioni politiche tendenzialmente in campo democratico e progressista – una certa

imprimatur apolitica iniziale (dettata dalle pressioni militari delle Giunte che si sono

susseguite nel tempo), con modalità e tempi diversi, si è protratta bene o male fino ai

giorni nostri. Questo non ha impedito però alle associazioni – se non a tutte,

quantomeno ad una parte più avanzata delle stesse – di schierarsi di fatto contro le

Giunte militari. Fatto che si rileva sia in Argentina, sia in Uruguay che in Brasile.

Anche perché in molti casi i gruppi dirigenti delle associazioni e delle comunità

campane più in generale erano contemporaneamente dirigenti sindacali, leader di

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raggruppamenti territoriali, èlite che si contrapponevano (nelle modalità permesse dal

clima di ciascun paese sopra citato) al modello di società che i militari cercavano di

imporre e che per periodi più o meno lunghi sono riusciti ad imporre.

In pratica – per alcuni intervistati – le associazioni hanno vissuto diversi cicli vitali che

si sono caratterizzati a seconda delle configurazioni politico-sociali che hanno assunto

le rispettive società di riferimento: nei momenti di grande tensione politico-sociale – e

quindi con il rischio di subire violenze ad alta intensità – le associazioni assumevano

connotazioni minimali, si mimetizzavano fortemente all‟interno della comunità

campana, si appiattivano strumentalmente su di essa, ne assumevano le sembianze fino

a sovrapporre i rispettivi confini di demarcazione. Confini che diventano labili e

sfumati, quasi fino a scomparire. Al contrario, nei momenti che la tensione politico-

sociale scendeva a livelli di bassa intensità le associazioni riemergevano dalla loro

dimensione minimale, riacquistavano le sembianze organizzative usuali, definivano i

campi di intervento, riacquistavano il senso identitario necessario alla inter locuzione

con l‟esterno comunitario più ampio, ovvero quello della società circostante.

Questa strategia ha caratterizzato, ovviamente, non solo le associazioni campane ma

tutte quelle di origine italiana. Non è secondario, infatti, al riguardo, che le associazioni

campane (e anche le altre) ricevessero una sorta di status e di legittimazione in quanto

legalmente riconosciute dalle Regioni italiane di provenienza. Anche il loro legame con

i Consolati e le Ambasciate ha contribuito alla loro sostanziale protezione, soprattutto in

Argentina dove le Giunte militare hanno “governato” fino alla fine degli anni Ottanta.

“In alcuni periodi del regime militare avevamo spesso la visita della Guardia civil.

Erano visite di routine che comunque ci facevano stare in discreta tensione. Anche se

non avevamo nulla da temere. L‟associazione era apolitica, dicevamo sempre. Anche se

legami con i movimenti politici dell‟opposizione erano frequenti. Ma non come

associazione. Lo erano individualmente, ma l‟associazione a volte faceva da filtro e da

raccordo”, ricorda uno dei Presidenti intervistati.

Altre associazioni, invece, erano apolitiche per davvero. “Non abbiamo mai teorizzato

la partecipazione politica in nessun schieramento. Nell‟associazione ognuno la pensava

a modo suo e questo modo era da tutti rispettato. Per questo nell‟associazione c‟erano

diverse posizioni. Anche in favore dei militari. E ovviamente c‟erano anche coloro che

erano fermamente in contrasto con la loro politica repressiva. Ma l‟associazione in

quanto tale – per consenso unanime – doveva restarne fuori per non essere lacerata dai

contrasti interni. Adesso, in tempo di pace, i membri delle associazioni hanno la

possibilità di schierarsi in teoria come meglio credono. Non lo fanno però. Forse ormai

per abitudine”.

Una parte delle “associazioni tendono ad evitare lacerazioni che potrebbero sorgere tra i

membri che appartengono a campi politici contrapposti. Questo non vuol dire che non

stimoliamo la partecipazione, ma questa deve mantenere un carattere sociale e non

sfociare a favore di singoli partiti o movimenti politici. Se così fosse diventeremmo un

partito politico e perderemmo la configurazione di una associazione di emigranti”.

Un‟altra parte, invece, non disconosce l‟impegno politico e sociale, anche se mediato

dalle attività specifiche dell‟associazione.

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L‟identità bipolare e la doppia appartenenza

L‟associazione – rappresentando una parte strutturata della comunità campana

all‟estero–, si configura anche come il luogo della conservazione delle identità

collettiva. L‟associazione, però, per molti, non rappresenta un luogo amorfo di mera

conservazione della “cultura di origine”, o un deposito o un magazzino dei valori

tradizionali … come un museo amorfo e statico, ma un luogo in cui le conoscenze

crescono, si sviluppano e si intrecciano. E, mentre, crescono vengono criticate dai

giovani, vengono sottoposte a discussioni e a riflessioni continue. Queste enunciazioni

però sono diversamente articolate dai diversi intervistati, giacché per una parte – seppur

piccola – l‟identità campana non è altro che lo stare insieme ai propri compaesani

rimembrando le contrade, le chiese e i Santi patroni del paese. “Certo…, come afferma

uno di questi intervistati, il Santo patrono del paese è la figura emblematica che

sintetizza l‟anima del paese. I Santi non tutti uguali. E quando un paese sceglie un santo

lo fa anche in relazione a come il paese intero si percepisce e si rappresenta. C‟è in

pratica una identificazione con il Santo e questa identificazione permane lo spirito della

collettività di riferimento. “Far piacere al santo vuol dire far piacere ai paesani tutti.

Questo è un vecchio detto del mio paese, dice con reverenza l‟intervistato”.

Su questa posizione – anche se con sfumature diverse – si ritrovano anche altri

intervistati. “Abbiamo ricostruito la statua del Santo patrono del paese – afferma uno di

questi – e l‟abbiamo fatta venire fino qui. Abbiamo fatto una colletta durata quasi due

anni e alla fine abbiamo messo su anche i soldi per la costruzione della statua del Santo

… nonché i soldi per poi farla arrivare qui a Montevideo. Piazzeremo la statua nella

Chiesa principale del quartiere dove vive la quasi totalità dei Campani. Il parroco di

questa Chiesa è di origine campana. In tal maniera abbiamo in pratica ricostruito un

pezzo importante della nostra identità originaria. Quella del nostro paese natale. Per noi

questa è la nostra identità”. Per altri, invece, l‟identità è quella condizione esistenziale

che si determina quando si entra in relazione con i Campani, soprattutto in emigrazione.

Qui scatta un meccanismo che un intervistato definisce “l‟immagine riflessa dei nostri

tratti somatici in quelli degli altri che provengono dalla stessa area geografica e

soprattutto dallo stesso paese”. L‟identità – continua lo stesso intervistato – “è quello

stato d‟animo che ritrovi quando ritorni – anche per poche settimane o addirittura per

qualche giorno – al tuo paese natale”. Ad esempio: “Io ho cinquant‟anni e sono partito

per l‟Argentina – e in modo specifico per Rosario – quando ne avevo dieci. Dopo quasi

quarant‟anni sono tornato al mio paese. Sono arrivato e nessuno lo sapeva. Volevo fare

a tutti i parenti rimasti una sorpresa; parenti che, tra l‟altro, ricordavo vagamente. Sono

arrivato di sera e ho iniziato a camminare sulla strada principale del paese. Non sapevo

dove andare ma ero sicuro che avrei incontrato qualche parente. Ad un certo punto ho

incontrato una donna col fazzoletto in testa. Ci siamo guardati e io ho visto nel volto di

quella donna i tratti somatici della mia famiglia. lei si è avvicinata e mi ha detto: tu sei

Antonio. E io di rimando: tu sei mia zia”.

“Dopo il riconoscimento gli ho detto di non dire a nessuno del mio arrivo. Volevo

ancora vagare senza meta per il paese. Volevo in effetti trovare la mia casa natale. La

casa dove ero nato e vissuto prima dell‟emigrazione. Camminavo e ricordavo i giochi

che si facevano nella piazza principale, le corse con gli altri bambini, gli animali da

lavoro che passavano e i contadini – sempre sporchi di terra, polvere o fango che li

tiravano verso di loro. Gironzolando con questi pensieri sono arrivato ad un incrocio ed

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ho avuto la sensazione forte di essere arrivato a casa. In effetti era solo un incrocio con i

resti di un rudere ormai coperti da cespugli. Ho iniziato a commuovermi davanti a quel

rudere perché ero sicuro che si trattasse della mia ex casa paterna. Mi sono seduto in

terra. Guardavo i paesani passare e mi tornavano in mente le scene che si svolgevano

davanti l‟uscio di casa quarant‟anni addietro. Anche allora c‟era già un incrocio ma non

era trafficato come adesso. Insomma, ho pianto di gioia. Questo per me è l‟identità

campana. Emozionarsi e piangere davanti a qualcosa di familiare, di qualcosa che non

c‟è più ma che simbolicamente è pregnante di ricordi ”.

Per altri intervistati, più giovani degli altri, l‟identità è qualcosa che si potrebbe

“suddividere quasi a metà: da una parte quella dei genitori e quella dei paesani

emigranti, dei ricordi che si hanno della Campania e del paesino di provenienza;

dall‟altra quella delle amicizie, dell‟infanzia e dell‟adolescenza che ti formi a scuola

attraverso le discussioni che si intavolano con i tuoi coetanei – campani o argentini non

importa – delle relazioni che si hanno tra adulti, eccetera. Non c‟è solo l‟Italia, la

Campania e il paese natale, ma c‟è anche Rosario, l‟Argentina e l‟America latina. Realtà

che sento forte, dentro di me. Sono l‟uno e l‟altro. Ma sono anche né l‟uno e né l‟altro.

Sono un‟altra cosa ancora diversa. Sono quello che voglio essere e sicuramente quello

che divento quando mi prende l‟emozione, e quando sto con le persone care e meno

care. Ad esempio, quando sento solidarietà per quanti nel mondo muoiono letteralmente

di fame. Sono anche quello che soffre se crolla un grattacielo perché attaccato da

terroristi. L‟identità è mutevole. Diventa quello che noi vogliamo in concomitanza di

cosa diventiamo e come ci sviluppiamo dal punto di vista culturale e sociale”.

L‟identità quindi come espressione diretta del nostro modo di crescere e svilupparci.

Concetto che viene ripreso, in maniera leggermente diversa anche da un'altra giovane

intervistata a Rosario. “la mia identità è binaria: sono Campana di origine – perché i

miei genitori sono Campani – anche se per me la Campania è una astrazione simbolica

perché ci sono andata una sola volta per un mese e basta. Tutto il resto è il frutto dei

racconti dei miei genitori. E‟ una astrazione però importante che mi permette di

comunicare e stare con la massima facilità con persone provenienti dalla stessa area

geografica. Ma nello stesso tempo sono argentina. Mi sento e faccio tutto quello che

fanno gli argentini della mia età, della mia formazione scolastica, della mia condizione

sociale, eccetera. Sono un prodotto meticciato. Sono un prodotto che assume in sé

l‟italianità e l‟argentinità, ma anche tutte quelle sfumature delle popolazioni indios delle

zone settentrionali e di quelle della Patagonia… Questo io sono e questo voglio essere.

Sono due cose insieme. In questa maniera si può guardare in più direzioni, far

funzionare la fantasia lungo percorsi culturali che appartengono a storie diverse, a paesi

diversi, intrecciarle e fonderle insieme continuamente. Questo il bello degli emigranti…

e dei discendenti degli emigrati”.

Trasmettere la lingua, trasmettere l‟italianità e la campanità?

La lingua e la sua trasmissione ai giovani è “l‟ossessione dei migranti”, dice un

intervistato di San Paolo. “E‟ una ossessione. Si. Perché se non la insegni ai più giovani,

ai discendenti, a quelli che tutto sommato si considerano italiani e campani a chi

dovresti insegnarla. Sono i nostri discendenti che devono acquisirla per continuare a

mantenere viva la comunità campana. Per far questo occorrono corsi di formazione,

insegnanti madre-lingua che possano insegnarla alle giovani generazioni. Senza la

lingua si perde tutto il sapere. Tutto quello che i migranti hanno fatto a San Paolo o a

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Rio de Janeiro. Ma anche a Montevideo o a New York. Se muore una lingua muore la

comunità che la parlava. Se muoiono le generazioni che la sanno parlare e quelle nuove

non l‟apprendono va a finire che sparisce un patrimonio importante”. “E‟ questo che i

vecchi emigranti non vorrebbero che si verificasse, afferma un altro”.

La questione della lingua, tuttavia, a parte alcuni degli intervistati, viene generalmente

sovrapposta alla cultura. La maggior parte degli intervistati (soprattutto tra i più anziani)

è del parere che ci sia un rapporto diretto tra la conoscenza della lingua italiana – e

qualcuno anche tra il dialetto del paese di origine – con la cultura italiana (e la cultura

del paese specifico) nel suo insieme. Ossia che sussista – e per questo è quasi

indiscutibile – l‟equazione “conoscenza della lingua uguale conoscenza della cultura

italiana”. Quest‟ultima però è intesa in senso ampio, in quanto comprende non solo il

territorio nazionale italiano ma soprattutto – e in maniera specifica – il comune di

nascita e finanche la sua area circostante, comprendendo le contrade e i villaggi dove la

maggior parte degli emigranti è concretamente nato e cresciuto prima dell‟emigrazione.

Il paese di origine dunque è una entità geografica dai confini mobili ed estensibili a

secondo delle specifiche località di nascita e il corrispettivo comune amministrativo di

registrazione43.

Posizione che trova, ovviamente, articolazioni intermedie e maggiormente sfumate. Il

fatto che appare interessante è che la componente generazionale al riguardo gioca un

ruolo determinate. Maggiore è l‟età degli intervistati e maggiore è la tendenza ha

sovrapporre la lingua alla cultura italiana, anche nell‟articolazione dialettale e locale. Al

contrario, minore è l‟età e maggiore appare la distanza nel concepire la lingua

sovrapponile alla cultura tout court.

“Gira gira la lingua del tuo paese di origine dà l‟impronta alla cultura italiana, afferma

un altro emigrante (non anziano, insegnante di filosofia a San Paolo). Se non ti esprimi

con quella lingua è difficile trasmettere i valori che consideri italiani o campani. Ma

detto questo non è facile circoscrivere la cultura italiana. I valori umani sono universali,

ma ci piace pensare che hanno una connotazione storica particolare e un modo di essere

articolati e conseguentemente espressi che appartiene a specifici gruppi di popolazione

che vive in specifiche aree geografiche. Come Avellino, ad esempio. La lingua è

comunicazione e comunicazione vuol dire socialità, comunanza. Noi agiamo

comunicando e mentre comunichiamo agiamo, facciamo le nostre cose quotidiane:

andiamo al lavoro, incontriamo gli amici, torniamo a casa, eccetera… Se mi esprimo a

San Paolo sono un brasiliano del Sud, se mi esprimo ad Avellino sono campano. Ma

non solo perché parlo brasiliano o campano, ma perché agisco e comunico (agendo) in

43

Pertanto quando si parla di conservazione della “cultura di origine” una certa confusione è quasi

obbligatoria, giacché i nostri intervistati intendono diverse cose tutte insieme: da una parte viene indicata

la cultura italiana in generale quale espressione dell‟intero territorio nazionale. Dall‟altra viene indicata in

riferimento alla Campania in quanto regione di origine e poi a scendere sulla scala geografico-territoriale

si intende la cultura prodotta dagli usi e costumi tradizionali del comune più grande del circondario –

ossia quello che dà il nome all‟area di esodo nella sua espressione più ampia – e poi ancora a scendere

quella prodotta dal villaggio o dalla contrada di nascita. Questa articolazione può diventare ancora più

dettagliata fino a comprendere il ramo familiare nella sua accezione più ampia e così i rami cadetti ad

essa subordinati, fino ai singoli individui e alle eventuali discordanze o conflitti che si producevano tra di

essi. Da questo punto di vista, dunque, il concetto di origine a cui attribuire la fonte culturale diventa

abbastanza evanescente. Tant‟è che molti emigranti – soprattutto quelli più grandi di età – ricordano

spesso il nome del villaggio e della contrada e poco quello del comune più grande, anche perché la

delimitazione dei confini comunali in molti paesi sono cambiati nell‟ultimo cinquantennio.

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contesti doversi. E‟ il contesto che dà corpo e valore alla mia comunicazione, non è solo

la lingua anche questa è importante”.

Altri intervistati, una piccola minoranza ma formata soprattutto da giovani di seconda

generazione, è del parere diverso. In sostanza affermano che parlare la lingua italiana –

ad esempio – non vuol dire assolutamente conoscere la cultura italiana. Non c‟è quindi

nessuna equazione, nessuna corrispondenza diretta. Anche perché i più giovani parlano

sì italiano, ma in una forma non sempre corretta, come – tra l‟altro – affermano, con

molta consapevolezza, anche loro stessi.

Ma d‟altra parte per poter intrecciare i linguaggi, le storie familiari con quelle che si

sviluppano nel paese di emigrazione devi poter comunicare nelle differenti lingue. “Nel

nostro caso – racconta una giovane intervistata – devi poter parlare argentino e allo

stesso tempo italiano. E‟ la loro conoscenza che determina molto spesso – almeno a

livello superficiale – la doppia appartenenza, il sentirsi allo stesso tempo italiana e

argentina; e all‟interno di questa doppia appartenenza che diventa altrettanto importante

il sentire comune che hai con la gente che vive nella regione di Santa Fè … (e in

particolare a Rosario, la mia città di nascita) e quella della regione Campania (… e in

particolare quella del paese di nascita dei miei genitori)”.

Con la lingua si può pensare ed esternare i pensieri nelle differenti maniere, anche se la

lingua da sola non assolve del tutto la doppia identità, secondo il ragionamento di un

altro giovane intervistato (si tratta del fratello, ndr.).

“La lingua rappresenta una parte significativa dell‟identità argentina e di quella italiana-

campana, ma la lingua non è tutto; non esaurisce l‟identità, non la copre, non la

completa”. Per la sua completezza – continua un altro giovane presente – “occorre che

sia usata nell‟area territoriale dove si vive, dove si lavora, dove si hanno relazioni

sociali. In altre parole lo spazio ambientale di residenza, inteso come luogo dello

sviluppo personale che non è altro che il risultato di un processo continuo di relazioni

… il prodotto della somma delle relazioni sociali che costruiamo continuamente. Questa

è l‟identità... “.

Per questo motivo “siamo argentini di origine italiana … perché tutta la nostra storia

presente si è sviluppata in Argentina”, continua un altro intervistato.

“La Campania è uno spazio territoriale simbolico, importante ma simbolico. Diventa

concreto quando andiamo là. Infatti, quando “siamo in Campania – io vado spesso e

particolarmente a Solofra – diventiamo immediatamente campani e solofrani. Questo

cambio automatico a volte ti stupisce. Stai a Buenos Aires o a Mar del Plata è sei

argentino come tutti quelli che incontri e che vedi in strada… arrivi a Napoli e poi a

Solofra i pensieri diventano altri, cambiamo sapore, cambiano sfumature. Il posto fisico

influenza direttamente i pensieri e i modi di comunicare e di essere. Parli il dialetto di

Solofra e ti senti solofrano e campano, parli il dialetto di Buonos Aires e ti senti e sei

percepito come argentino della capitale. Questo vuol dire una cosa sola: il luogo, la

lingua che si usa per comunicare e le relazioni che intrattieni mediante la

comunicazione determinano direttamente la tua argentinità o la tua italianità o la tua

campanità e così via”.

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4.3.3 Gli aspetti organizzativi ed economici

Le cariche formali e la pluralità dei compiti

La riflessione che avviene negli ambiti associazionistici appare piuttosto significativa,

in quanto coinvolge sia le componenti più anziane che quelle più giovanili, anche se

queste ultime sono numericamente minoritarie (ma il loro peso specifico, come vedremo

più avanti, è piuttosto significativo). Tutte le associazioni – i cui Presidenti sono stati

intervistati – hanno il gruppo dirigente eletto dalle assemblee degli associati. Le elezioni

– sia per le associazioni più grandi che quelle più piccole (dal punto di vista numerico)

sono considerati momenti importanti e significativi. Si registra – a detta di alcuni

intervistati – una certa “allegra e paesana concorrenza” tra i diversi gruppi che tendono

a caratterizzarsi per appartenenza municipale.

Nel senso che nelle associazioni dove sono presenti campani delle diverse provincie – e

a loro volta campani dei diversi municipi locali – si decidono alleanze e si attivano

strategie finalizzate ad eleggere i propri rappresentanti. “E‟ molto bello e ancora

divertente, racconta un anziano Presidente, tutta la fase elettorale. Per tutti è una cosa

seria. Si svolgono delle vere e proprie campagne elettorali, con alleanza tra paesani dei

diversi paesi e contrade e poi alleanze di tipo provinciale: quelli della provincia di

Avellino da una parte e quelli della provincia di Salerno dall‟altra. Si fanno i conteggi;

si rifanno ancora fino a quando si capisce – sulla base del numero di associati per ogni

componente in concorso – chi sono i probabili vincitori. A volte i conteggi sono sballati,

ma quasi sempre esce come Presidente la persona più rappresentativa dell‟associazione

ed in genere della comunità campana della città di riferimento”.

Quando le associazioni sono invece omogenee per municipio di origine tutta la strategia

concorrenziale si attiva principalmente intorno alle famiglie più rappresentative: sia per

meriti professionali (generalmente le persone di maggior successo economico ed

imprenditoriale, oppure perché professionisti riconosciuti a livello cittadino ed oltre) e

sia per meriti di carattere sociale. Ossia per meriti dovuti alla sensibilità e generosità che

dimostrano queste famiglie nell‟aiutare quelle componenti comunitarie – o segmenti

della stessa associazione – che sono portatrici di svantaggi socio-economici e che si

trovano pertanto in condizione di povertà. Le elezioni dunque rappresentano una fase

particolare della vita associativa caratterizzato dall‟esercizio e della pratica democratica

e coinvolge tutta l‟associazione e l‟intero corpo associato degli iscritti.

Certo la partecipazione non coinvolge tutti gli associati in tutte le associazioni con la

stessa identica intensità. Le associazioni più grandi, generalmente composte da

differenti gruppi interni suddivisi per composizione municipale, praticano forme elettive

miste: sia di carattere formale che di carattere informale. In questo ultimo caso

dapprima si svolgono delle elezioni tra i diversi gruppi; cioè una sorta di conteggio tra

candidati diversi delimitato al gruppo a base municipale e successivamente per gruppi

provenienti/discendenti da municipi della stessa area provinciale che si alleano con altri

gruppi municipali e così via. Per quelle più piccole le elezioni, per ovvie ragioni,

avvengono più in fretta. Ma una volta eletti i Presidenti e il Consiglio direttivo

dell‟associazione vengono poi – di conseguenza – eletti gli altri membri che in

definitiva costituiscono il gruppo dirigente, cioè: gli organi di controllo – ovvero i

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sindaci – il tesoriere ed eventualmente, a seconda dell‟ampiezza della base associativa, i

responsabili delle area di intervento.

Le cariche dirigenziali sono rieleggibili, in genere, per due mandati, anche se in qualche

associazione di fatto si arriva anche a tre e finanche a quattro. In quasi tutte c‟è la

“sezione giovanile” – composta appunto da giovani (in genere figli o parenti stretti degli

associati più anziani) – che svolge attività calibrate sulle proprie esigenze. Anch‟essi in

genere hanno una rappresentanza nei Consigli direttivi e possono, per tale ragione,

portare il punto di vista della componente giovanile dell‟associazione. In alcune

associazioni le componenti giovanili hanno maggior spazio ed attenzione, in altre invece

il loro spazio è minore e anche inesistente. Le dinamiche tra le componenti più anziane

e quelle più giovani sono sovente al centro della vita di molte associazioni, ma con

capacità di dialogo reale molto spesso insufficiente.

Per usare le parole di uno degli intervistati “i giovani hanno poco spazio perché i gruppi

dirigenti delle associazioni molto spesso hanno una età mediamente alta e pertanto non

capiscono le loro reali esigenze. Nonostante che questi gruppi dirigenti parlano e

discutono molto – e con reale sincerità – di come coinvolgere nelle decisioni

dell‟associazione i giovani. Ma spesso le associazioni sembrano avere delle difficoltà

reali, anche se una piccola parte, al contrario, riesce a mantenere con i giovani un

rapporto piuttosto significativo. Non è facile. Lo scoglio generazionale è reale e spesso

appare, erroniamente, come un vincolo invece di essere vissuto come un grosso punto di

forza”.

I giovani, certamente in misura diversa nelle differrenti associazioni, si sentono

emarginati, anche se teoricamente sono al centro dell‟attenzione dei gruppi dirigenti.

“Emarginazione non manifesta e discriminatoria, per carità – dice uno di loro – ma

fattiva, concreta, tangibile. Spesso quello che proponiamo non si può fare, non

pertinente, non è condiviso dagli adulti. Ma noi vorremmo fare cose che hanno senso

solo per noi. Non sempre il senso che si attribuisce a ciò che facciamo deve trovare

l‟approvazione dei gruppi dirigenti. Possono essere solo condivise dal gruppo giovanile

perché, appunto, gruppo giovanile e basta”.

I rapporti istituzionali e le forme di auto-finanziamento

Le associazioni hanno molteplici rapporti sociali e si muovono ed agiscono all‟interno

di reticoli piuttosto complessi, in quanto spaziano da quelli di carattere lavorativo-

occupazionale a quelli sindacali, da quelli di carattere politico-istituzionale (ad esempio,

attraverso relazioni con le istituzioni locali dei contesti territoriali di riferimento) a

quelli di carattere civile e religioso; ossia le altre associazioni di emigranti (sempre di

origine italiana oppure di origine campane e finanche con quelle di altri emigranti

provenienti da altri paesi europei e non) e con le parrocchie di riferimento. Non

secondari sono i rapporti che mantengono con i municipi di origine e anche con le

istituzioni regionali della Campania. Insomma, dalle interviste emerge una fitta rete di

relazioni non solo collettive – ossia quelle attivate attraverso l‟associazione – ma anche

individuali che spesso si intrecciano e si sviluppano parallelamente.

Le associazioni, dunque, rappresentano uno dei terminali di riferimento più significativi

delle comunità campane e uno degli strumenti delle comunità medesime di interloquire

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con le istituzioni locali del paese di insediamento e con le istituzioni locali – e nazionali

– dei paesi di provenienza, sia municipali che regionali. Questa prerogativa, pur tuttavia,

per dirla con le parole di uno dei Presidenti intervistati “non sempre porta acqua al

mulino dell‟associazione… ossia risorse economiche soprattutto. Cioè quelle risorse che

permetterebbero alle associazioni di essere ancora più importanti e funzionali all‟interno

della comunità campana di appartenenza. Da questo punto di vista si registra da sempre

una certa disattenzione da parte istituzionale. C‟è da dire che le istituzioni argentine non

hanno mai dato un supporto concreto alle associazioni di emigranti, così pure le

istituzioni consolari italiane e le istituzioni regionali”.

“Questa scarsa attenzione è storica, dice un intervistato di San Paolo. Le istituzioni

Brasiliane non hanno mai avuto una politica di supporto alle associazioni di migranti,

così pure in generale le istituzioni italiane. Ma un decennio a questa parte una maggiore

attenzione si avverte da parte delle Regioni, anche perché la questione migratoria è stata

regionalizzata”. Dello stesso parere sono i Presidenti e gli altri intervistati in Argentina e

in Uruguay. “La regionalizzazione – afferma uno di essi – ha dato un certo impulso alle

associazioni, le ha aiutate a mettersi in regola con gli statuti, con il registro degli

associati, a costituire delle Federazioni nazionali e a razionalizzare tutte le procedure di

accesso ai contributi, eccetera. Ma il problema di come rafforzare le relazioni e i

rapporti con le istituzioni rimane se queste non attivano una strategia specifica

dell‟attenzione e dell‟ascolto delle esigenze delle associazione medesime e, al

contempo, non progettano interventi tesi a superare le reciproche diffidenze

storicamente determinatesi”.

“C‟è una certa disattenzione per la vita delle associazioni. Però per correttezza devo

riconoscere – come riporta un altro intervistato di Montevideo – che non sempre la

responsabilità è da attribuire alle istituzioni locali uruguayane o alle istituzioni regionali

della Campania. Anche le associazioni, almeno nella maggior parte, si sono un po‟

invecchiate, nel senso che restando in mano agli anziani non si adeguano fino in fondo

ai cambiamenti sociali e culturali che la società nel suo insieme produce. Gli anziani,

infatti, proprio perché tali, non riescono a stare al passo con i tempi, ossia a

comprendere che le istituzioni – soprattutto quelle italiane, comprese quelle della

Regione Campania – hanno bisogno di garanzie di trasparenza contabile quando

erogano contributi alle associazioni di emigranti.

Capita – ad esempio – che la Regione invia dei contributi e poi le associazioni non

riescono a spendere perché non ne sono capaci; nel senso che poi non riescono a

giustificare la spesa sostenuta. Non perché i soldi vengono spesi diversamente dagli

obiettivi progettuali, ma quanto perché il sistema fiscale e di rendicontazione in

Uruguay – e finanche in Argentina e in Brasile – è piuttosto debole rispetto a quello che

vige in Italia e nelle Regioni italiane. Diverse associazioni argentine e finanche

venezuelane una volta ricevuto il finanziamento regionale lo hanno dovuto restituire

perché non in grado di gestirlo come previsto dai regolamenti fiscali italiani”.

Se da un lato, dunque, “desideriamo avere contributi regionali – continua la stessa

intervistata dell‟Uruguay – dall‟altro ne abbiamo un po‟ paura. Abbiamo cioè l‟interesse

a ricevere contributi e allo stesso tempo il timore di non poter essere all‟altezza della

gestione economica. In questa situazione di stallo le uniche maniere per auto-finanziarci

restano quelle tradizionali, ossia il ricorso ai soci che possono pagare – oltre la quota

annuale rinnovabile con il tesseramento – anche dei contributi una tantum su specifici

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progetti associativi”. Il ricorso a soci che possono sponsorizzare iniziative specifiche è

la pratica di auto-finanziamento più diffusa, insieme a quella ordinaria (praticata solo da

una parte delle associazioni) che avviene con il rinnovo annuale della tessera. Molte

associazioni, infatti, organizzano delle iniziative (mediamente due o tre per anno) per

l‟auto-finaziamento.

“In genere sono delle cene sociali – come racconta un intervistato a Mar del Plata (in

Argentina) – dove sono invitati tutti i soci ed anche gli amici degli associati. Insomma,

si cerca di essere più persone possibili e soprattutto paganti. Anche perché più persone

partecipano alla cena e più sono gli incassi dell‟associazione. L‟organizzazione della

cena sociale è volontaria. Il luogo è generalmente la Casa degli italiani, con una grande

sala capiente. Ogni città ha un luogo deputato alle cene sociali che si riceve gratis

oppure pagando una somma “politica” in modo da sostenere l‟ente gestore dello spazio.

Gli alimenti vengono offerti sovente da negozianti campani: il vino, la carne o il pesce,

la pasta e l‟olio, eccetera. Tutto quello che serve. Questi alimenti non vengono pagati

dall‟associazione ma offerti dai singoli soci che possono offrirli come contributi

indiretto. Non pagando gli alimenti, ma facendo pagare la cena, in sostanza si ha un

incasso pulito da devolvere nelle casse dell‟associazione”.

“Due o tre cene di questo tipo – continua l‟intervistato – e l‟associazione riesce ad avere

soldi sufficienti a svolgere anche attività collaterali. A queste cene partecipano anche le

altre associazioni di italiani, se lo spazio lo permette. Vengono inviate anche le autorità

cittadine: il sindaco (che in genere contribuisce in qualche modo) e i consiglieri

comunali di origine italiana che si trovano in quasi tutte le città di emigrazione. Ne

abbiamo anche di Campani a Mar del Plata… ma anche a Santa Fè e a Rosario…e

finanche a Montevideo, in questo momento (febbraio 2003, ndr.)”. Altri modi di auto-

fianziamento sono che prevedono spettacoli musicali di gruppi giovanili locali: o nella

sede dell‟associazione o affittando un teatro capiente, come racconta un altro

intervistato di Rosario. Stesso meccanismo si riscontra anche a San Paolo, utilizzando –

anche in questo caso – la Casa degli italiani.

Nonostante queste modalità di auto-fianziamento che potremmo definire classiche,

giacchè sono quelle storicamente praticate dall‟associazionismo campano (ma anche

quello delle altre realtà regionali), le entrate economiche delle associazioni sono appena

sufficienti all‟ordinaria amministrazione.

Anche perché non tutte le associazioni riescono ad organizzare queste “cene sociali” a

scopo di autofinanziamento.

Negli ultimi anni, tra l‟altro, a causa delle forti crisi economiche che hanno

caratterizzato in fasi diverse tutti i paesi latino-americani, anche le forme di auto-

finanziamento tradizionali sono entrate in crisi. “Molti associati – ricorda un intervistato

di Buenos Aires – fanno fatica a contribuire economicamente alle attività

dell‟associazione e alcune frange fanno fatica anche a pagarsi la quota della cena

sociale.

A Buenos Aires abbiamo calcolato che la crisi dell‟estate 2001 ha impoverito in

maniera assoluta almeno trecento famiglie italiane, tra le circa tremila che fanno parte

delle diverse associazioni. Sono famiglie che stiamo cercando di aiutare ancora

concretamente, ossia a trovare il modo di aver garantito almeno il pasto giornaliero e le

medicine di prima necessità”.

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Il problema dell‟aggregazione giovanile

Come sopra accennato all‟interno delle associazioni c‟è una profonda riflessione

intergenerazionale: gli anziani che vorrebbero trasmettere aspetti della cultura italiana e

campana ai giovani e affidargli progressivamente la gestione delle associazioni, in

quanto luogo depositario della cultura medesima. I giovani, sovente di seconda

generazione, nati dunque nei paesi di insediamento (nel nostro caso Argentina, Uruguay

e Brasile meridionale), che seppur interessati al mantenimento della cultura dei genitori

si trovano, nei fatti, e non potrebbe essere diversamente, a doverla condividere con

quella appresa a scuola, nelle relazioni con i gruppi di pari, nelle relazioni con gli

insegnanti e con tutta la letteratura e produzione culturale locale.

Per gli uni, dunque, sarebbe auspicabile che i giovani continuassero a parlare la loro

lingua, a relazionarsi e a intrattenere rapporti sociali con i loro stessi costumi, gli altri –

per ragioni anagrafiche e di nascita – vorrebbero che gli anziani li lasciassero decidere

secondo la loro inclinazione e secondo la loro particolare situazione linguistica (sovente

sono bilingue) e relazionale (hanno rapporti interni alla comunità campana ma anche

rapporti all'esterno di essa). Gli anziani – agli occhi dei loro giovani discendenti –

appaiono chiusi nella loro associazione e nei loro reticoli comunitari tradizionali;

mentre i giovani si percepiscono come proiettati all‟esterno della comunità, sono

proiettati a dialogare con le altre componenti della popolazione senza disdegnare la loro

origine campana. Anzi. Da quello che abbiamo appreso dalle interviste per loro essere

di origine italiana e campana è vissuto come una risorsa aggiuntiva e come una chance

in più rispetto ai coetanei argentini, brasiliani e uruguayani.

Questa duplice capacità di relazionarsi con la “comunità genitoriale allargata” e con

l‟intera popolazione locale (formata dunque anche dai nativi e non solo dalle

componenti immigrate) comporta una estensione dello spazio simbolico e geografico

entro il quale potersi muovere ed agire anche professionalmente. Ne consegue che da

questa prospettiva così estesa lo spazio che gli anziani sono disposti a concedere ai

giovani all‟interno delle rispettive associazioni appare limitato e ristretto. Condizione

che viene avvertita e pertanto viene vissuta dalle componenti giovanili con riserva.

Quasi con un certo distacco, con una certa auto-emarginazione. “L‟associazione così

come funziona adesso – dice uno giovane intervistato – non è molto attrattiva. Noi

abbiamo la possibilità di riunirci, di discutere delle nostre problematiche, ascoltare la

nostra musica, di parlare della politica che fanno i governi nazionali e quella che fa il

governo italiano, ma tutto all‟interno di uno spazio che sentiamo che ci è concesso ma

che non è il nostro spazio.

“Siamo quasi ospiti … – riflette un altro – ci sentiamo come ospitati e non possessori

dello spazio. E‟ una specie di concessione di fatto ma non di diritto … anche se siamo

associati non abbiamo diritti al pari degli anziani. Loro si sentono di avere più diritti

perché hanno creato l‟associazione. Per avere questi spazi dobbiamo essere “campani”,

dobbiamo far emergere la nostra appartenenza alla Campania. E come se la componente

argentina – nel nostro caso – deve essere in parte sacrificata. Perché è una associazione

campana e quindi tende, di fatto, a ridurre la nostra doppia appartenenza ad una

soltanto: quella campana. Questa riduzione per noi non è possibile. E‟ come mutilarci”.

“Significa, insomma, afferma un altro, dover rinunciare ad una parte importante e

significativa di noi stessi. Parte che si è creata e sviluppata proprio in virtù

dell‟esperienza emigratoria dei nostri genitori. Non possiamo limitarla, come vorrebbe

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quella componente anziana più conservatrice. Per loro dovremmo svilupparci come

campani – anzi, come sono cresciuti loro – dimenticando che siamo nati nel paese di

emigrazione e pertanto ne abbiamo acquisito la mentalità, la cultura, i modi di essere e

di percepire il mondo”.

Le componenti giovanili, pur tuttavia, all‟interno delle associazioni svolgono attività

folkloristiche e questo – con i limiti sovraesposti – li coinvolge piuttosto da vicino. “A

noi piacciono le tradizioni campane. Il modo di vedere le cose, il modo di mangiare, il

modo di cantare e il modo di contestare le ingiustizie sociali. Ma le vediamo come

qualcosa di aggiuntivo a quello che facciamo regolarmente e non di sostitutivo a quello

che apprendiamo correntemente per il fatto di non vivere in Campania ma a Rosario, in

Argentina”, come ricorda un giovane intervistato. “Io sono stata a Napoli qualche anno,

poi anche in altre città italiane. Sono stata bene … ho pensato anche di restarci a Napoli.

Era tutto bello … era tutto molto attraente. Ma a Rosario ho la mia famiglia e i miei

amici più cari. Nell‟associazione cerco di far capire ai nostri anziani che noi non siamo

più solo Campani. Per loro è molto difficile comprendere questa nostra situazione

esistenziale e culturale”.

“Certo se all‟interno delle associazioni avessimo l‟opportunità di dialogare da pari a pari

penso che potremmo essere più attivi di quanto lo siamo stati fino ad ora”, afferma un

giovane campano di Montevideo. “Il problema è come organizziamo lo spazio che

abbiamo nell‟associazione. Per gli anziani noi dovremmo soltanto fare quello che loro

hanno fatto fino adesso. Non pensano che noi abbiamo altre esigenze per il fatto

semplice che non siamo più soltanto Campani”. “Noi vorremmo imparare meglio la

lingua italiana, ad esempio, afferma un altro. Molti di noi la lingua italiana la studiano a

scuola e molti altri hanno iniziato ad apprenderla all‟interno dell‟associazione. Ma il

punto principale non è la lingua e il fatto che noi viviamo qui, lontano dalla Campania.

Siamo ben felici di essere italiani, ma siamo anche ben felici di essere brasiliani.

L‟associazione dovrebbe essere intestata agli italo-brasiliani discendenti di campani.

Questa dizione sarebbe più corretta”.

“Anche se abbiamo delle critiche da fare ai dirigenti delle nostre associazioni resta

intatta la stima che proviamo per loro e per tutto il percorso associazionistico che hanno

svolto negli anni. Dovrebbero soltanto capire che come loro hanno in qualche modo

sostituito le vecchie “società di mutuo soccorso” che nel secondo dopo guerra si

limitavano soltanto alle attività ricreative, ad organizzare i matrimoni e i battesimi, a

comprare le tombe nei cimiteri del paese (quello ubicato in Campania) noi dovremmo

sostituire le associazioni attuali con organizzazioni più corrispondenti alle nuove

necessità. Tutto nel rispetto della tradizione, ma non facendoci soffocare da essa”.

4.3.4 Le principali attività svolte. I soci beneficiari e l‟utenza di riferimento

Le sedi delle associazioni e l‟influenza che giocano nello svolgimento delle attività

sociali

La sede delle associazioni sono variegate e differenziate: per anzianità, per grandezza e

per il fatto di appartenere o meno all‟associazione stessa. Le sedi nella loro

configurazione fisica e simbolica rappresentano, alla fin fine, un certo status delle

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associazioni medesime. Da questo punto di vista – sulla base delle informazioni

acquisite – emergono tre profili principali di associazioni.

Il primo, sono le associazioni che hanno una sede propria (tra quelle intervistate sono

quattro), nel senso che ne sono proprietari. E‟ una sede acquistata nel tempo, all‟incirca

tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Ossia nella prima fase emigratoria. E‟ una sede in

genere prestigiosa, molto ampia e funzionale alle attività dell‟associazione. Queste sedi

sono state acquistate e costruite dai soci; nel senso che oltre ai contributi economici e

monetari i soci stessi le hanno anche fisicamente costruite pietra su pietra. Impiegando

cioè parte del loro tempo libero a costruirle, a renderle agibili, a ristrutturarle quando era

necessario e ad ampliarle quando era possibile. Sono sedi suddivise in spazi precisi a

secondo delle attività che vi vengono svolte. In genere hanno spazi ampi per

l‟organizzazione delle feste sociali (per l‟auto-finanziamento), per il gioco delle carte ed

altri giochi da tavolo. Alcune di esse hanno campi da tennis e addirittura di calcetto,

altre hanno il campo da bocce e la biblioteca o sala di lettura.

Queste sedi (almeno due di esse) sorgono su terreni di proprietà dell‟associazione

acquistati a pochi soldi sul finire degli anni Cinquanta in zone della città paludose ed

estremamente periferiche. Questa collocazione spiega il fatto che per il loro acquisto è

bastato relativamente poco denaro. Sono aree però che nel corso degli anni Settanta e

Ottanta si sono sviluppate e pertanto valorizzate. “Quando il prezzo del terreno si era

ben valutato ne abbiamo venduto una piccola parte e con il denaro ricavato abbiamo

iniziato a costruire ed edificare la sede. Siamo stati abbastanza fortunati, perché il

terreno fu acquistato da una compagnia tedesca che doveva costruire un grande centro

commerciale che poi in effetti costruì ed è tuttora funzionante”.

“Il proprietario del futuro centro commerciale, nonché direttore dei lavori – continua lo

stesso intervistato – era un emigrante tedesco che quando ha saputo quale era l‟uso che

volevamo fare della costruzione che ci apprestavamo ad edificare ci ha molto aiutato. Il

fatto che stavamo costruendo una sede per la comunità campana del luogo lo ha

letteralmente emozionato che ha iniziato a regalarci materiali edili adatti alla

costruzione della sede; oppure a comprare questi materiali a prezzi più conveniente

anche per noi. Quello che ci regalava era materiale che lui stesso comprava per portare

vanti la costruzione del centro commerciale. Cosicché la costruzione della nostra sede e

quella del centro commerciale andò di pari passo. La nostra costruzione è finita prima

(anche perché molto piccola) e la spesa complessiva non è stata alla fine per nulla

onerosa, grazie alla generosità del nostro vicino tedesco”.

“La fortuna non è finita, continua il giovane del gruppo dell‟associazione intervistata,

perché la cinta muraria che abbiamo costruito per circoscrivere il perimetro esterno

della sede è stata affittata negli anni Ottanta ad una grande compagnia di pubblicità per

l‟applicazione di cartelli pubblicitari a grandezza naturale. Affitto che ci ha permesso, a

partire dagli anni Ottanta, di avere una rendita fissa al mese per poter svolgere tutte le

attività dell‟associazione. La parte pubblicitaria rende economicamente abbastanza

perché c‟è una forte richiesta di spazi essendo ormai da circa venti anni una delle zone

di San Paolo dove si concentrano le industrie, le aziende di vario tipo, le banche e i

servizi tra i più diversi, nonché i grandi magazzini e i centri commerciali della città. Noi

praticamente stiamo al centro di tutta questa area ad alto valore commerciale. E pensare

che negli anni Cinquanta quando abbiamo comprato altri compaesani ci prendevano per

matti da legare. Oggi l‟associazione ha una sede di quasi quattrocento metri quadri, con

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un piccolo campo sportivo, con campi da tennis e spazi diversi; incluso un ristorante che

abbiamo affittato ad un esterno da qualche anno e che ci garantisce ancora un‟altra

significativa rendita economica”.

Altre associazioni hanno sedi di proprietà e la storia della loro acquisizione è diversa da

questa appena citata, ma l‟andamento e lo sviluppo è abbastanza simile. Ossia il

modello acquisizione della sede da parte dell‟associazione appare lo stesso ma con

alcuni aspetti ovviamente diversi. “La sede l‟abbiamo comprata agli inizi degli anni

Ottanta quando abbiamo deciso di formare l‟associazione dei Campani. L‟edifico all‟ora

era piuttosto periferico e si trovava in una zona industriale dismessa di Montevideo. Era

molto distante dal centro cittadino dove viveva allora la maggior parte della popolazione

campana. Era fuori da tutto. Però l‟abbiamo comprata. Ci furono molte discussioni tra

chi voleva comprare e chi non voleva comprare. Ha vinto la prima fazione, anche

perché era quella maggioritaria. Oggi tutti sono contenti. Avremmo bisogno di un po‟ di

soldi per fare delle modifiche strutturali, come spazi per i giovani dell‟associazione.

Spazi che possono usare anche per la loro musica e per il loro gruppo di danza

folcloristica, vorremo cioè insonorizzare una parte da far gestire ai gruppi giovanili”

Il secondo profilo è quello delle associazioni che hanno una sede in affitto, i cui

problemi in questa fase storica sono piuttosto grossi per la crisi economica che investe i

paesi dell‟America latina. Alcune di queste associazioni non hanno particolari problemi

perché sono ospiti all‟interno di altre associazioni più grandi con sede di proprietà, ma

comunque l‟agibilità è molto più limitata in quanto deve essere negoziata con i legittimi

proprietari. “Le nostre attività sono limitate da quando non riusciamo più a pagare

regolarmente l‟affitto della sede, ma non possiamo farci niente. Andremo avanti lo

stesso con le difficoltà che abbiamo. All‟associazione comunque non rinunciano,

afferma uno degli intervistati”. Il terzo profilo è quello delle associazioni che invece non

hanno più una sede o un posto dove riunirsi e dove svolgere parte delle attività sociali.

In questi casi la sede legale è stata spostata nell‟abitazione del presidente ed alcune

attività – quelle minime per l‟auto-finanziamento – vengono svolte affittando i locali

presso altre associazioni più grandi.

“Non abbiamo la sede da almeno quattro anni, ma non ci arrendiamo. Le poche attività

le svolgiamo presso l‟associazione “Famiglia piemontesa” pagando un po‟ di affitto o

approfittando della loro gentilezza e solidarietà, dice uno dei Presidenti intervistati la

cui associazione è senza sede. “Questa crisi economica per l‟Argentina è stata molto

dura, in quanto è iniziata almeno cinque/sei anni fa. Il corralito (il nome dato dagli

argentini alla crisi dell‟estate del 2001) è stato solo l‟ultima goccia che ha fatto

traboccare il vaso. Noi non ce l‟abbiamo fatta. Per noi è molto difficile attualmente

avere una sede propria ma è quello a cui miriamo con più forza. Non è facile. Ma è una

sfida che l‟associazione vuole portare avanti e non abbandonare”.

Mentre le associazioni che hanno una sede propria possono, in ultima analisi, avere

delle entrate economiche aggiuntive affittando (anche se a prezzi “politici”) gli spazi ad

altri compaesani senza sede, questi ultimi si trovano, al contrario, a sostenere spese

aggiuntive in condizione di sostanziale precarietà economica. Ossia, alla precarietà

derivante dal fatto di non avere una sede agibile si aggiunge quella di dover pagare ad

altre associazioni degli spazi una tantum per poter svolgere quelle poche ma necessarie

attività di base che permettono di ricavare risorse minime per non chiudere. Da questo

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punto di vista la condizione generale delle associazioni è abbastanza critica e per alcune,

soprattutto per quelle più piccole per numero di soci, ancora più problematica.

Le attività ricreative, culturali e sportive

Con questa situazione strutturale – derivante dall‟agibilità che le associazioni hanno in

relazione agli spazi necessari per l‟organizzazione delle attività sociali - anche la vita

associativa ne risente direttamente. Maggiore stabilità si riscontra nella gestione degli

spazi sociali e maggiore è la possibilità di attivare iniziative ed organizzare eventi. Al

contrario, in condizioni di precarietà per la gestione degli spazi anche le attività non

possono che caratterizzarsi come discontinui, frammentari e legate a singole

performance. Diventa oltretutto complicato mantenere attivo lo spirito solidaristico

degli associati in assenza di un luogo di ricomposizione simbolica e fisica della mission

sociale; oppure di un luogo provvisorio che seppur raccoglie gli associati su specifici

eventi non è né percepito e né vissuto come habitat dell‟associazione. Questa situazione

determina una sorta di instabilità continua che riduce di molto la coesione sociale ed

associativa di queste organizzazioni, ossia di quelle maggiormente spiazzate in quanto

prive di un luogo di incontro riconosciuto e stabile.

Anche perché l‟obiettivo principale di tutte le associazioni intervistate – come sopra

accennato – è quella della “conservazione dinamica” (come l‟ha definita un giovane

intervistato di San Paolo) della cultura di origine, intendendo per questa sia quella

italiana che quella della Campania e specificamente quella del comune di nascita o

quantomeno dell‟area di esodo. Allo stesso tempo – soprattutto per i più anziani –

l‟associazione è anche un luogo ricreativo, dove passano il tempo chiaccherando,

discutendo, giocando. Dove cioè il trascorrere del tempo ha un forte senso collettivo.

Giacchè si trovano nell‟associazione che hanno costruito e che hanno reso come il luogo

della loro memoria emigratoria e non.

“Molti soci tra quelli più anziani – diciamo la fascia di età compresa tra i Sessanta e i

Settantacinque anni – preferiscono passare il tempo con i loro paesani piuttosto che

stare a casa. A casa ci vanno la sera, ma il giorno – soprattutto il primo pomeriggio –

amano riunirsi nella sede sociale dell‟associazione, racconta il Presidente

dell‟associazione di Montevideo. Questo loro stare insieme e assistere alle prove del

gruppo folkloristico dei giovani, sentire la musica del loro paese, mangiare qualcosa

cucinato con lo stile campano – o che ricorda i cibi campani tenuto conto della

differenza degli alimenti e dei sapori – insieme agli amici è molto apprezzato”. Anche a

San Paolo le parole di un altro Presidente sono simili: “La sede quando è aperta ai

giovani e agli anziani è la prova che le generazioni possono comunicare, possono

trasmettere valori o semplici informazioni. Gli anziani passano il tempo giocando alle

carte o a bocce, i giovani discutono di politica o di calcio (a seconda dei gruppi,

specifica l‟intervistato) e organizzano le loro attività: ricreative o culturali e anche

sportive, poiché l‟associazione è legata ad una grande squadra di calcio cittadina e

pertanto ci sono possibilità di utilizzare spazi sportivi attrezzati”.

Mentre molte delle associazioni intervistate svolgono ed organizzano attività culturali e

religiose (ad esempio, la messa in comune o nello stesso orario) e contemporaneamente

ricreative – quando gli spazi lo permettono – ma non tutte svolgono ed organizzano

eventi sportivi. Questi sono più rari, in quanto occorrono spazi ed attrezzature che non

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tutte le associazioni sono in grado di avere. Alcune però, tra quelle più grandi, hanno

squadre di calcio che giocano col nome dell‟associazione. “Quasi ogni anno

organizziamo tornei di squadre composte da campani e quelle che vincono giocano a

loro volta con le altre squadre cittadine, racconta il Presidente di una associazione di

San Paolo”.

Tra le attività culturali più comuni ci sono le feste patronali, ossia il festeggiamento del

Santo patrono del comune campano di provenienza. I preparativi della festa

coinvolgono tutta l‟associazione ed anche i campani non associati che provengono dallo

stesso paese. Le associazioni più grandi hanno nel tempo messo insieme soldi per la

costruzione di una statua del Santo – debitamente benedetta dal vescovo – che viene

posta nella chiesa di riferimento della Comunità campana e dell‟associazione. Altre

attività culturali, ad esempio, sono quelle svolte con le radio indipendenti locali,

laddove è possibile gestire degli spazi per le comunità di emigranti. “Io – in qualità di

Presidente di una associazione – gestisco uno spazio settimanale, il sabato mattina, di

cultura musicale campana… faccio sentire canzoni su richiesta, discuto con gli

ascoltatori delle ultime novità discografiche e dei nuovi cantanti campani. Sono

centinaia le persone che mi ascoltano. Porto avanti questa trasmissione da circa venti

anni”.

Uno spazio simile – ma all‟interno di una Tv locale – è gestito da un gruppo di giovani

della associazione di Montevideo. “Ogni sabato pomeriggio mandiamo in onda una

episodio, un fatto di cronaca culturale o sportiva della comunità campana di

Montevideo. A volte intervistiamo i nostri anziani, altre volte i giovani del gruppo

folkloristico o di pallavolo. In occasione di ricorrenze ufficiali – ad esempio l‟arrivo di

un personaggio politico – montiamo sempre un pezzo sull‟evento. La comunità

campana è quella che segue di più questo spazio televisivo, anche perché parla dei suoi

problemi e lo fa con persone della comunità stessa. Insomma, è come se la comunità

riflette su se stessa attraverso questo spazio televisivo fisso”.

Le attività socio-assistenziali e sanitarie

Le attività socio-assistenziali sono presenti soltanto in una piccola parte delle

associazioni intervistate. Si tratta di associazioni che hanno al loro interno anche delle

competenze specifiche per poterlo fare e soprattutto una cultura adeguata. Nel senso che

al proprio interno sono presenti assistenti sociali, infermieri e medici occupati negli

ospedali cittadini. Sono tuttavia persone che hanno il senso dell‟associazione – intesa

nella sua accezione più tradizionale – e al contempo avvertono che l‟associazione stessa

deve estendere le proprie competenze ed attività anche sul versante più sociale. Ossia

non focalizzarsi eccessivamente – come fanno una buona parte di esse – sugli aspetti

culturali. Aspetti che sono piuttosto importanti ma che richiamo di scivolare – anche

senza volerlo – nella trappola del culturalismo (ideologizzando cioè la “cultura di

origine” e rendendola di conseguenza asettica, stereotipata e statica).

“Facciamo attività sociale, racconta una Presidente donna di San Paolo – perché al

nostro interno abbiamo molti anziani soli senza nessuna protezione sociale e qualcuno

anche senza pensione. Sono italiani emigrati prima della Seconda guerra mondiale e

rimasti soli. Noi li aiutiamo in alcune faccende quotidiane, come il fare la spesa,

chiamarli durante il giorno per sentire come stanno. Li andiamo anche a trovare,

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compatibilmente con le nostre forze. E‟ un lavoro di assistenza che facciamo da diversi

anni e pensiamo di estenderlo ancora maggiormente. Anche perché abbiamo aggregato

delle giovani donne – discendenti di campani – che vogliono fare volontariato. Due di

queste ragazze hanno maturato una discreta esperienza al riguardo durante un soggiorno

a Salerno presso una associazione parrocchiale ed ora la vogliono riprodurre qui con i

nostri anziani. Noi siamo ben lieti di aprire questo intervento, perché di queste

attenzioni ce ne sono ancora molto poche”.

Un caso simile lo abbiamo riscontrato a Rosario e a San Nicolas. Anche se il versante di

intervento per entrambe le associazioni è più quello sanitario. “Si sono medico, dice

l‟intervistato di Rosario. E cerco di aiutare anche gli associati che non hanno possibilità

economiche oppure perché non possono fruire dell‟assistenza medica pubblica, in

quanto non hanno potuto versare contributi. Oppure perché sono molto poveri e versano

in condizioni di precarietà. Li faccio venire all‟ambulatorio e li visito come tutte le altre

persone. Il tramite per molti di loro è l'associazione., per altri sono gli amici e i

conoscenti comuni; per altri ancora, invece, il rapporto si stabilisce quando arrivano.

Comunque c‟è sempre qualcuno che li informa del lavoro medico che facciamo per

quelle persone che rischiano di rimanere fuori dall‟assistenza medica. Stiamo pensando

a come razionalizzare meglio questa attività, dato che nell‟associazione ci sono altri

giovani medici disposti a svolgere attività di volontariato per le persone più

svantaggiate e deboli della comunità”.

“Anch‟io sono medico, ricorda l‟intervistato di San Nicolas. Sono medico e

nell‟associazione ci sono altri medici ed infermieri che lavorano all‟ospedale cittadino.

Spesso offriamo assistenza anche ai membri dell‟associazione meno fortunati. Abbiamo

un grosso problema di assicurare l‟assistenza medica ad un centinaio di famiglie che si

trovano in condizione di malattie abbastanza serie. Non abbiamo però le medicine

adatte e soprattutto in quantità adeguate. Dalla Regione Campania abbiamo avuto un

aiuto in questa direzione nel corso del corrente anno (2003, ndr.) ed abbiamo tamponato

una serie di emergenze piuttosto delicate e complesse. Ma servirebbero altre medicine

salva-vita che qui in Argentina in questa periodo non si trovano”.

“Questa esperienza – continua lo stesso intervistato – ci ha fatto maturare di più l‟idea

di attrezzare l‟associazione anche sul versante medico-assistenziale, sia perché ci sono

le competenze adatte e sia perché ce ne sarebbe bisogno giacché l‟assistenza pubblica

non è sufficiente, soprattutto in momenti di forte crisi economico e sociale come adesso.

Con la crisi scoppiano anche malattie depressive, malattie cardiocircolatorie e malattie

tra le più varie che dovremmo essere in grado di contrastare, anche mobilitando

l‟associazione”.

“Quando nell‟associazione servono interventi di tipo sanitario – spiegano gli intervistati

di Montevideo – c‟è una immediata mobilitazione da parte di alcuni associati che hanno

esperienze medico-infermieristiche. Sono dei tecnici bravi che stanno a disposizione

dell‟associazione. Ma solo in caso di necessità. L‟associazione come attività ordinaria

non ha quelle di tipo medico e neanche quelle assistenziali. Però c‟è una attenzione a

questi problemi molto alta: sia perché abbiamo molti anziani e sia perché abbiamo soci

con queste competenze disponibili sempre a darci una mano quando occorre”.

Le attività collateriali di tipo lavorativo, sindacale e di snodo informativo

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Le associazioni – oltre alle attività culturali e ricreative, nonché sportive e socio-

assistenziali e mediche (come negli ultimi casi descritti) – svolgono anche una serie

piuttosto articolata di attività che potremmo definire collaterali e per certi versi anche

marginali. Sono marginali non perché poco importanti, ma soltanto perché non

caratterizzano in maniera specifica l‟insieme delle attività erogate. Si tratta di attività

che ruotano intorno al mondo del lavoro da una parte e intorno al mondo sindacale e

della tutela del lavoro e della previdenza sociale dall‟altro. Nel primo caso le

associazioni – per la verità più nel passato che nella fase attuale – svolgevano una

attività specifica di collocamento informale per la ricerca attiva del lavoro dei

compaesani che arrivavano senza la chiamata nominale.

L‟associazione rappresentava anche il luogo di incontro della domanda e dell‟offerta di

lavoro, nel senso che gli imprenditori che facevano parte dell‟associazione avevano

anche l‟opportunità di trovare i lavoratori che gli servivano per la propria azienda.

Questa pratica ha caratterizzato le associazioni almeno fine alla fine degli anni Settanta.

“Era una attività informale, certo – come ricorda un intervistato – ma dava l‟opportunità

ad un bel numero di compaesani di trovare con relativa facilità una occupazione e allo

stesso tempo agli imprenditori di origine campana di selezionare – mediante

l‟associazione – le maestranze di cui avevano bisogno. Questa pratica col tempo si è

molto ridotta. Oggi esiste ancora, ma ha cambiato natura. Nel senso che gli imprenditori

campani associati sono un po‟ di meno che nel passato e poi sono ormai piuttosto

conosciuti quindi la mediazione dell‟associazione serve sempre di meno. C‟è ancora,

s‟intende. Ma avviene in maniera più discreta e meno emblematica. Il fatto ancora

importante è che gli associati più anziani si sentono solidali nel trovare ai giovani una

occupazione adeguata”.

Questi aspetti sono correlabili anche ai rapporti che le associazioni mantengono con le

organizzazioni sindacali locali e con le rappresentanti di quelle italiane principali. Nelle

associazioni – soprattutto quelle con una forte presenza di operai delle aziende

manifatturiere – il rapporto con i sindacati è quasi connaturato, anche se formalmente

non traspare. “Di fatto le nostre associazioni sono molto vicine alle organizzazioni

sindacali, in quanto i nostri associati provengono nella grande maggioranza dal mondo

del lavoro dipendente e dal lavoro autonomo e professionale. Ma la prevalenza è stata

soprattutto quella del lavoro dipendente, a partite dagli anni Settanta fino alla metà degli

anni Novanta, cioè prima della grande crisi e dei conseguenti licenziamenti che hanno

interessato molti lavoratori”. “Storicamente molti dirigenti di associazioni erano anche

sindacalisti aziendali e qualche volta anche di livello superiore. L‟emigrazione è sempre

stata legata al mondo del lavoro e non deve stupire questa vicinanza culturale con le

organizzazioni sindacali. Certo alcune associazioni lo sono di più mentre altre lo sono di

meno, ma tutte hanno ramificazioni a differenti livelli con il mondo sindacale”.

Anche sul versante della tutela e della previdenza le associazioni hanno svolto un lavoro

collaterale, nel senso che hanno sempre consigliato gli associati per le questioni legate

alla previdenza di rivolgersi ai patronati riconosciuti, tra l‟altro, dalle autorità consolari

già da molti anni. Le associazioni hanno svolto un lavoro capillare di invio ai patronati,

di sostegno alle loro attività stimolando i propri associati ad iscriversi presso di essi

sulla base dei loro orientamenti politico-culturali. Sintetizzando, usando le parole di un

intervistato, “la storia delle associazioni, quelle delle organizzazioni sindacali e quelle

dei patronati per la tutela previdenziale si è sviluppata su binari paralleli ma abbastanza

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ravvicinati, al punto che in alcune circostanze si sono anche sovrapposti e hanno

strettamente interagito”.

Attualmente i confini sono più netti, anche perché queste organizzazioni svolgono

compiti molto diversi e la mano d‟opera attiva tra le componenti emigranti di origine

campana è molto più ridotta rispetto al passato. Ossia la componente molto ampia

risulta essere quella non attiva, cioè in pensione.

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5. L‟emigrazione italiana e campana in alcuni paesi transoceanici

ed europei

5.1.1 Il caso dell‟Argentina

di Miguel Angel García

5.1.2 Premessa

L‟Argentina (come l‟Uruguay e in misura minore, anche il Brasile) ha ricevuto

dell‟Italia un‟impronta demografica e culturale caratterizzante più che un contingente

migratorio. Altrove gli italiani e i discendenti d‟italiani sono delle minoranze più o

meno corpose; nell‟Argentina sono la maggioranza della popolazione, e la principale

componente dell‟identità del paese.

In una situazione del genere è difficile trovare elementi di omogeneità sociale tra gli

italiani e i discendenti d‟italiani. Sono presenti in tutte le classi sociali, in tutte le

professioni, in tutte le condizioni umane che si ritrovano nella società generale. Uno

studio sugli italiani e i discendenti d‟italiani nell‟Argentina, insomma, rischia di

diventare uno studio complessivo sulla società argentina.

5.1.2 I precedenti storici

Negli ultimi anni del settecento si stabilirono a Buenos Aires diverse famiglie di

commercianti liguri, attratte dalle franchigie dell‟Impero verso il nuovo vicereame. Le

comunità inglese e francese erano legate agli “asientos” (centri della tratta di schiavi

africani) e al grande commercio; gli spagnoli erano generalmente burocrati e militari. I

genovesi si ritagliarono uno spazio nella navigazione di cabottaggio, nel commercio al

dettaglio e nella cantieristica navale (Burgin, 03) (Sebreli, 09).

Queste famiglie portarono migliaia di liguri, piemontesi e lombardi in qualità di

dipendenti delle loro aziende44

. La comunità ligure si estese nell‟interno del paese

attraverso una rete di piccoli stabilimenti collegati, le “pulperías” o “almacenes”, le

quali vendevano ai gauchos i beni di prima necessità, e acquistavano da loro pelli

pregiate, cuoio e piume di struzzo. La corrente commerciale di andata e ritorno era

convogliata a Buenos Aires, e da lì a Genova e all‟Europa. A metà dell‟ottocento la rete

ligure arrivava fino al Cile e il Peru (Halperín Donghi, 20).

Non è strano che due tra i capi della rivoluzione d‟indipendenza, Belgrano e Castelli,

fossero figli di famiglie genovesi: in esse circolavano ampiamente le idee liberali

(Scobie, 04) (Chiaromonte, 05).

Tra gli anni 20 e 50 dell‟Ottocento si produsse nell‟area pampeana un‟immigrazione di

pecorai irlandesi e baschi e di allevatori inglesi e francesi, i quali popolarono un vasto

territorio. Anche la comunità italiana crebbe notevolmente, però la sua presenza era

prevalentemente urbana (García, 06) (Halperín Donghi, 19).

Nella seconda metà dell‟Ottocento, chiuso il ciclo delle guerre civili, e occupato

militarmente dallo Stato un enorme territorio spopolato, i liguri presero in mano l‟affare

44

Usavano il sistema de la servitù a tempo: per sette anni gli immigrati dovevano lavorare gratuitamente e

in modo coatto, per pagare le spese sostenute dal “bacan” per portarli nel paese. Poi potevano risparmiare

e mettersi in proprio, cosa che fecero molti. Questo sistema era comune, ad esempio, nelle colonie

britanniche dell‟America del Nord (Halperín Donghi, 18).

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146

della migrazione di massa. Le aziende di Genova reclutavano gli immigrati (prima in

Liguria, Piemonte, le Savoie francesi, la Svizzera e la Lombardia; successivamente nel

Veneto, il Trentino, Friuli e la Venezia Giulia). Poi armavano le navi che portavano

immigrati al sud del Brasile, all‟Uruguay e all‟Argentina, e riportavano indietro cereali

e lana. Infine presentavano ai governi argentini “progetti di colonizzazione” per stabilire

gli immigrati.

Le imprese d‟immigrazione ebbero una sempre maggiore dimensione e organizzazione

fino alla crisi degli anni 20. Oltre ai capitali genovesi parteciparono compagnie inglesi,

francesi, danesi, tedesche e perfino fondazioni benefiche, como la società presieduta dal

Barone Hirsch per salvare gli ebrei ucraini e polacchi dai progrom, o quella promossa

dal governo tedesco per i germani del Volga, discriminati dall‟impero russo. I profitti

provenivano da diverse fonti: vendita della terra a credito agli stessi immigrati, contratti

di lunga durata per l‟acquisto della loro produzione e, sempre di più nel tempo,

speculazioni generalmente in combinazione con le compagnie ferroviarie sul valore

della terra, che la “colonia” stessa valorizzava con la sua presenza (García, 06).

Le “colonie” avevano una limitata autonomia culturale; nella pratica il governo

installava subito la scuola, il commissariato di polizia, le Poste e la piena vigenza delle

leggi nazionali, inclusa la proibizione di chiuderle alla radicazione di persone di altre

etnie, religioni od origini nazionali. Anche se la comunità fondatrice manteneva una

spiegabile egemonia culturale, in una generazione la “colonia” diventava una normale

cittadina argentina. Completava l‟opera il sistema scolastico, una „macchina‟ messa a

punto dal presidente Sarmiento, che incorporava i coloni alla lingua castigliana

argentina e ad una cultura nazionale di forte impronta occidentale, enfatizzata

nell‟identità simbolica nazionale. Era il “crisol de razas”, equivalente sudamericano del

melting pot.45

Negli anni 70 dell‟Ottocento l‟ondata migratoria ruppe tutti gli argini; le esperienze di

immigrazione organizzata delle “colonias” rimasero relegate ad un ruolo marginale.

Una popolazione di 1,8 milioni di persone ricevette un flusso migratorio di 3,2 milioni

di persone in 40 anni, quasi due immigrati per ogni nativo (il concetto di “nativo”

include già i discendenti della corrente migratoria precedente), qualcosa di unico nel

mondo. È sorprendente che il paese abbia retto allo sconvolgimento sociale, il che va a

merito dell‟Organizzazione nazionale di Sarmiento e Alberdi (García, 07).

5.1.3 La “grande migrazione” 1870-1920

Se nel primo ciclo migratorio la partecipazione italiana fu notevole, nel secondo,

conosciuto come „la grande migrazione‟, l‟Italia fu il protagonista incontrastato. Un

60% degli immigrati erano italiani; prima delle regioni del Nord, poi della Calabria, la

Sicilia, la Campania e le Marche, e infine anche delle regioni del centro, anche se in

proporzione assai minore. Negli anni 90 dell‟Ottocento i prezzi della terra, sotto

l‟influsso della prosperità causata dal lavoro degli stessi immigrati, diventarono

45

Il sistema prendeva l‟immigrante dal suo primo passo nel nuovo paese, per mezzo degli “Hoteles de

Inmigrantes”. Questi erano molto di più che centri di accoglienza; i nuovi arrivati dovevano partecipare a

corsi elementari di lingua e cultura, a corsi per l‟uso delle macchine agricole e industriali, e perfino di tipo

igienico e per l‟uso delle cucine a gas, l‟acqua corrente e i vari oggetti di uso domestico. Il “crisol de

razas” ebbe dei risultati notevolmente buoni; negli anni 20 c‟era già una ben definita identità argentina,

che derivava dall‟integrazione di molteplici correnti migratorie.

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147

proibitivi.46

Le ultime leve di immigrati rurali arrivarono come braccianti,

frequentemente in forma transitoria, come “golondrinas”.47

Gran parte di loro tuttavia

rimase nelle città. La società argentina si modernizzava velocemente, crescevano la

industria, le costruzioni e il terziario, e queste attività attraevano migliaia di lavoratori48

(Bourde, 29).

Una conseguenza non desiderata della migrazione di massa fu la perdita di prestigio

della comunità italiana. Prima del 1870-90 le famiglie italiane erano parte dell‟élite, o

come minimo dalla classe media; intellettuali e politici come De Angelis o Pellegrini,

ad esempio.49

Sul filo dei due secoli l‟aflusso di centinaia di migliaia di poveri ogni

anno, frequentemente analfabeti, infiltrati da mafiosi e da violenti fece crollare

quest‟immagine. Le lotte dei lavoratori, cappeggiate dagli attivisti anarchici e socialisti,

convinsero nel contempo la classe dominante della pericolosità dell‟immigrazione

italiana; seguí un periodo di crescente discriminazione50

(Gori, 18).

5.1.4 Il periodo intermedio 1920-1946

Negli anni 20 il sistema argentino cadde in una crisi prolungata; i paesi dell‟Europa

continentale, uno dietro l‟altro, chiusero le loro frontiere alle derrate alimentarie

d‟oltreoceano. La Gran Bretagna continuò a praticare il libero scambio fino al 1932,

quando stabilì ad Ottawa un accordo protezionistico con i suoi “dominions”.

L‟Argentina, con una capacità produttiva di alimenti enorme e di grande efficienza,

rimase isolata e priva di mercati. Reagì applicando l‟unica politica che le era rimasta: il

protezionismo industriale, la sostituzione delle importazioni con nuove produzioni

locali (García, 06) (Azaretto, 25).

46

Con l‟esportazione di sempre maggiori volumi di derrate alimentarie i prezzi della terra crebbero due

volte e mezzo in vent‟anni. Le concessioni ferroviarie e le compagnie di colonizzazione crearono inoltre

grandi monopoli delle terre più fertili e meglio posizionate rispetto del trasporto. Le grandi società

proprietarie di terre obbligarono gli immigrati ad accettare contratti di affitto, in condizioni sempre più

onerose. Dopo i motti agrari degli anni 10 del novecento e lo sviluppo del cooperativismo la situazione

cambiò, oggi prevale la piccola e media proprietà dei discendenti degli immigrati (piccola in termini

americani, in realtà le superfici medie sono quindici o venti volte superiori a quelle europeee). 47

Golondrina significa “rondinella”. Questi lavoratori facevano due raccolti annui: prima in Italia, poi in

Argentina, poi di nuovo in Italia, approffitando le stagioni rovesciate. I proprietari agricoli (includendo

numerosi immigrati italiani già stabiliti) pagavano frequentemente il viaggio di andata e ritorno. Sono

stati eliminati negli anni 50 e 60 dalla meccanizazzione dei raccolti, tranne in coltivazioni particolari

(come il the, l‟ulivo e la vite) dove sono stati sostituiti da immigrati latinoamericani (García, 08). 48

In Argentina prevalse per molto tempo una ideologia ruralista che considerava una sciagura

l‟urbanizzazione. In realtà quel che succedeva nel paese era la stessa cosa che succedeva in tutto il

mondo: l‟occupazione industriale superava quella rurale, e poi il terziario superava le altre due. Il profilo

sociale dell‟Argentina è normalissimo, e non si vede perché gli immigrati dovevano per forza stabilirsi in

campagna, rinunciando ai buoni posti di lavoro in città. Vedi: Miguel Angel García, Argentina, ed.

italiana Mazzotta, Milano 1975 49

La famiglia De Angelis era d‟origine napolitano. Napoli, poco presente nell‟immigrazione di massa,

appare invece in un‟immigrazione d‟elite, di intellettuali e artisti, e in una più marginale però di elevata

creatività, come i napolitani rom che introdussero l‟organetto, e i tanti commedianti, musicisti, cantanti e

artisti che si trovano nella storia del tango e dell‟arte popolare, come ad esempio i fratelli Discepolo. 50

L‟emigrazione italiana (come oggi quelle dei nordafricani o degli slavi in Europa) era costituita

sostanzialmente da onesti lavoratori. C‟era tuttavia la minoranza indesiderata dei trafficanti di donne, dei

soggetti del crimine organizzato, dei piccoli delinquenti e dei marginali di vario tipo. Anche allora c‟era

l‟entrata clandestina, con la complicità delle navi di carico o delle carrette del mare che incagliavano

volutamente sulla costa atlantica: le stime parlano di un 10% di entrate clandestine. Fino alle misure

restrittive degli anni 20 e 30 i clandestini senza precedenti penali erano in genere ammessi, e puniti i

trafficanti (Aguirre, 11).

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La situazione determinò una profonda modificazione dei flussi migratori. Diminuì a

livelli trascurabili la tradizionale immigrazione italiana, spagnola, francese e tedesca,

che fu sostituita da nuovi flussi migratori dalla Siria e il Libano attuali, dall‟Europa

dell‟est, dalla Grecia e – nonostante gli ostacoli – dalle popolazioni ebree perseguitate in

Ucraina, nel Baltico, nella Polonia, nella Germania e nei Balcani.51

Sono arrivati inoltre

dei profughi politici, prima gli antinazisti dalla Germania, poi i rifugiati della Spagna

repubblicana sconfitta dagli eserciti nazifascisti (García, 07).

L‟industrializzazione sostitutiva delle importazioni iniziata a metà degli anni trenta

diventò un‟attrattore di flussi migratori latinoamericani; prima dal nordovest del paese,

virtualmente svuotato demograficamente, poi dai vicini paesi Paraguay, Bolivia, Cile,

Peru e Uruguay. Questa industrializzazione favorì l‟ascesa sociale della comunità

d‟origine italiana. Decine di migliaia di immigrati sono passati da operai a piccoli

imprenditori; alcuni di loro, negli anni 40 e 50, erano ormai riusciti ad arrivare alla

grande proprietà industriale. L‟immagine dell‟immigrazione italiana cambiava

celermente; la presenza di una seconda generazione di figli di immigrati laureati e

dottorati completò la rivincita (Rapoport, 02).

5.1.5 Il consolidamento e l‟integrazione della comunità d'origine italiana.

Dal dopo guerra agli anni Sessanta

Il dopoguerra

La faticosa scalata sociale poteva essere erosa nel dopoguerra dalla seconda grande

ondata di migranti italiani; questi tuttavia erano in media più educati e „moderni‟ che i

loro predecesori. Si sono inseriti virtualmente tutti nei settori in espansione

dell‟industria e dei servizi urbani: la campagna era in un‟accelerata fase di

meccanizzazione che diminuiva la domanda di mano d‟opera. C‟erano imprenditori di

grande valore, come Agostino Rocca e suo figlio Roberto, o come Cesare Civita.52

C‟erano inoltre i tradizionali braccianti e manovali, adesso in prevalenza meridionali e

non settentrionali come nella prima ondata. Ma la grande novità era una numerosa

„classe media‟ fatta di operai qualificati, di tecnici, di artigiani e di piccoli imprenditori.

Venivano da tutte le regioni italiane, parlavano la stessa lingua (nella prima migrazione

prevalevano i dialetti, in particolare ligure, piemontese, lombardo e veneto) e avevano

come minimo un livello d‟istruzione elementare.53

Non era ormai una migrazione in

51

In questo periodo è arrivato anche un contingente, piccolo ma di elevata qualità, di ebrei italiani

perseguitati dalle leggi razziali, che ha avuto un ruolo importante nello sviluppo delle scienze e delle arti. 52

I Rocca fondarono nel 1947 la Techint con l‟aiuto decisivo del governo di Perón; l‟azienda è oggi la

principale multinazionale argentina nel campo della siderurgia, con investimenti anche in Italia. Civita

fondò l‟impero mediatico Abril, il cui centro fu successivamente spostato al Brasile. Quasi tutti questi

imprenditori erano stati personaggi di rilievo nel fascismo italiano, ed ebbero nell‟Argentina un rapporto

preferenziale con il peronismo. Ciò non pregiudica la loro capacità imprenditoriale, d‟altronde è difficile

che avessero potuto sviluppare tali capacità nell‟Italia del regime senza essere fascisti, per convinzione o

per convenienza. 53

Un capitolo enfatizzato di quest‟ondata migratoria è la presenza di criminali di guerra nazifascisti

fuggiti dall‟Europa e accolti dal governo di Perón. Ci furono veramente, anche se i numeri sono di

modesta entità: 150 criminali nazisti che salgono a 3 o 4 mila se si aggiungono gli italiani, croati, romeni,

ucraini e lituani. Nonostante lo scarso numero queste persone hanno avuto una nefasta influenza in

Argentina, attivi in particolare nella tortura, la provocazione e la repressione delle successive dittature

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„colonie‟ rurali organizzate; Bononia, l‟ultimo esperimento di questo genere, la colonia

emiliana nella città più australe del mondo, Ushuaia, ebbe una vita breve e difficile.54

Era una migrazione di lavoratori e di tecnici, frequentemente con la famiglia al seguito,

attratti da un mercato del lavoro argentino trainato dalla sostituzione delle importazioni

e dalla prosperità di posguerra (Korn, 15) (Sebreli, 10).

Nel 1957 arriva alla presidenza argentina il primo figlio di immigrati italiani, Arturo

Frondizi; la famiglia era di Gubbio, Umbria. Questo traguardo simbolizzava lo

sfondamento in tutta la linea dell‟ascesa sociale della comunità d‟origine italiana,

presente ormai in tutte le professioni e in tutte le istituzioni del paese. L‟ondata

migratoria del secondo dopoguera fu l‟ultima grande migrazione italiana in Argentina;

dagli ultimi anni 60 l‟immigrazione italiana cesò quasi completamente.

Il lungo ciclo migratorio lasciò una nazione che è la più italiana del mondo dopo

dell‟Italia; 20 milioni di persone, cioè il 60% degli argentini nativi, hanno degli antenati

italiani. Bisogna tuttavia considerare questa informazione nel contesto di una società

che è una delle più permeabili nei rapporti interetnici; meno del 10% degli argentini

nativi ha degli antenati mono-etnici, un quinto ha cinque o più origini etnico-nazionali

diversi, la media ne ha 2,8.55

Più le generazioni si allontanano dell‟atto migratorio

iniziale più si estende il suo effetto demografico e più si incrocia con altri contributi

etnico-nazionali. Come gli archi concentrici prodotti dalla caduta di pietre di diverse

dimensioni in uno stagno. Questo significa che nell‟Argentina è inutile cercare le Little

Italies, l‟influenza italiana è troppo estesa e articolata56

(García, 08).

La situazione attuale

Gli italiani nati in Italia erano 328 mila nel censimento del 1991, in gran parte anziani,

in maggioranza pensionati.57

Erano tuttavia un buon 20% degli immigrati legali in

Argentina (Tab. 5.1). L‟Argentina è ancora un paese fortemente immigratorio, con un

5% di nati all‟estero nella popolazione.58

È comunque visibile la transformazione del

profilo dell‟immigrazione; i latinoamericani hanno sorpassato ampliamente gli europei,

con significative differenze delle medie di età dei due gruppi.

(vedi: “Comision de Esclarecimiento de las Actividades Nazis en la Argentina”, Buenos Aires 1998, e

Saul Sosnowski, “Contando nazis en Argentina”, 1999) (Goñi, 30). 54

Vedi “Bononia/Ushuaia”, ricerca di Adriana Bernardotti, Susana Bonaldi e Miguel Angel García

commissionata dalla Regione Emilia-Romagna nel 1992. 55

Miguel Angel García, “Indagine sui giovani italiani all‟estero, rapporto di ricerca Brasile e

Argentina”, Iref, Cespi, Siares, Roma luglio 2002. Studio parziale su un campione di giovani inseriti nelle

associazioni italiane in Argentina che coincide interamente con i calcoli per la popolazione generale. 56

Molte Regioni italiane hanno deciso piani di aiuto all‟Argentina o agli immigrati argentini sulla base,

non solo dell‟origine italiana (di per sé assai discutibile) ma addirittura dell‟origine regionale. Con tutto il

rispetto che meritano queste iniziative solidarie, i promotori sembrano credere che i discendenti di

italiani, dopo due, tre, quattro e più generazioni, si sposano solo con persone originarie dello stesso paese

e della stessa Regione! Perché non aiutare semplicemente gli argentini in difficoltà, senza odiose

differenziazioni etnico-razziali? 57

L‟Italia è diventato un paese d‟immigrazione sui generis, così come l‟Argentina è un paese di

emigrazione sui generis; 328 mila italiani in Argentina sono sempre di più che i 70 mila argentini in Italia. 58

I dati del censimento del 1991 (quelli del 2001 non sono ancora disponibili per quanto riguarda

l‟immigrazione) si riferiscono all‟immigrazione legale. La successiva sanatoria evidenziò che c‟era un

altro milione e mezzo di immigrati non regolari, la quasi totalità latinoamericani. Questo fa un 10% della

popolazione totale.

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Tab. 5.1 Popolazione immigrata nel 1991

Nati all'estero 1.615.473 100,0

Italia 328.113 20,3

Paraguay 250.450 15,5

Cile 244.410 15,1

Spagna 224.500 13,9

Bolivia 143.569 8,9

Uruguay 133.453 8,3

Brasile 33.476 2,1

Polonia 28.811 1,8

Peru 15.939 1,0

Germania 15.451 1,0

Portogallo 13.285 0,8

Ex-Jugoslavia 12.858 0,8

Resto 171.158 10,6

6 paesi europei 623.018 38,6

6 paesi latinoam. 821.297 50,8

Altri 171.158 10,6 Fonte: INDEC, Censo Nacional de Población y Vivienda 1991, Serie C - Parte 2

Se immaginiamo la comunità d‟origine italiana come una cipolla, intorno ai 328 mila

nati in Italia ci sono qualcosa come 650 mila argentini che hanno ottenuto la

cittadinanza italiana (doppia cittadinanza) o sono in procinto di farlo. Questo secondo

strato non è costituito da persone necessariamente “più italiane” delle altre, ma da italo-

argentini che per diverse ragioni, alcune culturali e altre pratiche, ci tengono di più alle

proprie radici etniche, o alla parte delle loro radici etniche che si trova in Italia, e che ci

sono riuscite (o sono in procinto di farlo) ad ottenere la difficile doppia cittadinanza.

L‟interesse culturale coinvolge qualcosa come altri 3 milioni di argentini, utenza

„teorica‟ delle associazioni d‟origine italiana. Intorno a loro ci sono una decina di

milioni di persone che sanno di avere degli antenati italiani, senza dare al fatto

particolare rilevanza, e infine il resto della popolazione (con e senza antenati italiani),

permeata, non sempre consapevolmente, da elementi culturali italiani59

(García, 08).

59

Nella lingua castigliana argentina ci sono diverse centinaia di parole di origine italiana o di dialetti

italiani, da „gamba‟ e „birra‟ a „pibe‟, „belin‟, „bacán‟, „chanta‟ (cianta), „chapar‟ (ciappar), pastenaca,

pelandrun, ecc. ecc.; l‟influenza italiana nella cucina argentina è determinante: la bistecca alla milanese,

la pizza, la fainà (farinata di ceci genovese), la torta pasqualina, i ravioli, la bagna cauda, il pesto

genovese, i gnocchi, sono i piatti principali del paese. Importante è l‟influenza italiana

nell‟abbigliamento, nell‟edilizia, nel disegno industriale, nella viticultura, e in tanti altri settori.

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La “cipolla” si sovrappone alla normale stratificazione della società argentina.

Geograficamente la comunità d‟origine italiana si estende in tutto il paese, ma la sua

presenza è più intensa nella parte centrale, da Mendoza, al piede delle Andi, a Córdoba

e Santa Fe a nord, Río Negro a sud e Buenos Aires a est. Questa estesa regione di clima

temperato e rilievo caratterizzato da pianure (le “pampas”) contiene 80% della

popolazione, gran parte dell‟attività economica del paese, e tutte le grandi città.

5.1.6 Italiani, italo-argentini e mercato del lavoro

L‟immigrazione d‟origine italiana è largamente “matura”, anche nelle sue componenti

più recenti (secondo dopoguerra). Nella dinamica occupazionale di un paese di

immigrazione ciò significa che è uscita ormai dalle frange precarie e malpagate del

mercato del lavoro. In una comunità d‟origine tanto larga quanto quella italiana in

Argentina il movimento ascendente non può essere tuttavia omogeneo; ci sono persone

di origine italiana nell‟alta borghesia, nelle professioni liberali, nelle imprese, tra i

coltivatori diretti e tra gli operai e impiegati, ma ci sono anche nelle “villas miseria”

(baraccopoli) e nella forza di lavoro non qualificata.

Detto questo si può verificare che le proporzioni non sono le stesse: le persone di

origine italiana sono relativamente poco presenti nella marginalità e nelle frange

inferiori del mercato del lavoro, e relativamente molto presenti nella frangia intermedia,

in particolare nel lavoro autonomo, nella piccola imprenditorialità, nelle professioni e

negli impiegi del terziario, incluso il pubblico impiego. Nel basso della scala sociale

sono stati sostituiti (com‟è sempre accaduto nella storia) da nuove leve di immigrati,

adesso di origine latinoamericana.

Tentiamo di sovrapporre la „cipolla‟ della comunità d‟origine italiana al profilo del

mercato del lavoro:

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Tab. 5.2 Popolazione attiva nel 1991

Popolazione di 14 anni e più 23.288.242

Popolazione economicamente attiva 13.202.200 56,7

di cui: occupata 12.368.328 93,7

di cui: disoccupata 833.872 6,3

Popolazione economicamente non attiva 10.016.463

Pensionati 2.864.173 28,6

Studenti 2.111.847 21,1

Altro 5.040.443 50,3

Non indicata 69.579 0,7

Pensionati su popolazione attiva 21,7 Fonte: INDEC, Censo Nacional de Población y Vivienda 1991, Serie C - Parte 2

- considerando il livello di attività ci sono approssimativamente 4 milioni di

persone d‟origine italiana consapevole che fanno parte della popolazione attiva.

Tra questi non c‟è quasi nessun italiano nativo (sono virtualmente tutti

pensionati), e rimangono forse 300 mila dell‟area della doppia cittadinanza

(almeno metà di loro ha emigrato, in Italia e altrove, in particolare negli Stati

Uniti).

- 1,1 milioni appartengono all‟area culturale-associativa, e il resto all‟area di

minima consapevolezza dell‟origine italiana. Queste persone si definiscono per

la loro identità come argentini, e rivendicano l‟italianità, in diverso grado, come

radice culturale. Sono in genere di „classe media‟, livello di studi medio-alti e

occupazione nel terziario.

Tab. 5.3 Livello di istruzione della popolazione attiva (1991)

Superiore e Universitario Completo 15,8

Superiore e Universitario Incompleto 13,0

Secondario Completo 20,2

Secondario Incompleto 19,8

Primario Completo 23,2

Primario Incompleto 7,4

Senza istruzione 0,6

Fonte: INDEC, Censo Nacional de Población y Vivienda 1991, Serie C - Parte 2

Il livello di istruzione della popolazione attiva argentina è già piuttosto alto (vedi tabella

precedente); il gruppo che abbiamo definito „comunità d‟origine italiana‟ si situa nella

parte alta della tabella, dal secondario completo in su. Ovviamente ci sono delle persone

con antenati italiani anche nelle frange di bassa scolarità, con una frequenza

comparabile; queste tuttavia hanno una propensione minore ad identificare le proprie

radici etniche come parte della loro identità (García, 08).

La definizione che abbiamo dato della comunità d‟origine italiana, che implica una

consapevolezza culturale, corrisponde alla realtà di fatto per quanto riguarda

all‟immagine che la comunità ha di sé stessa, e alle caratteristiche delle persone che

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girano intorno alle associazioni e partecipano alle iniziative. In questo modo la

collocazione sociale corrisponde alla parte „visibile‟ della comunità, che è quella che si

manifesta come tale (Korn, 15).

La lunga recessione argentina della seconda metà degli anni 90, e la crisi acuta del

2001-2002, colpirono in particolare le frange occupazionali indicate, con una

diminuzione della tassa di impiego, e un‟aumento della tassa di disoccupazione a due

digiti, della sottoccupazione e della difficoltà di accesso al primo lavoro (Rapoport, 02).

Tab. 5.4 Calcolo reale della disoccupazione e sottoccupazione(% sulla forza lavoro)

Tasso di attività 56,5

Tasso di impiego 46,4

Tasso di disoccupazione 17,9

Tasso di sottoccupazione oraria 19,9

Tasso di sovraoccupazione oraria 28,8

Tasso di domandanti impiego 44,6

Fonte: INDEC, Censo Nacional de Población y Vivienda 1991, Serie C - Parte 2

La comunità d‟origine italiana fu colpita in diversi modi: (a) fallimento o chiusura di

numerose piccole aziende e attività autonome; (b) licenziamento di persone di più di 50

anni, senza la possibilità di trovare nuovo impiego; (c) disoccupazione prolungata di

giovani e neolaureati, senza possibilità di accesso al primo impiego, ed estensione di

numerose forme di lavoro precario e malpagato; (d) ampliazione dell‟area della

marginalità per la rovina di nuclei familiari di classe media; (e) penalizzazione dei

pensionati, per mezzo della riduzione pura e semplice delle pensioni, del pagamento

parziale in buoni dello Stato, della privatizzazione del sistema sanitario.

Non è sorprendente che, nello stesso periodo degli anni 90, ci fosse in Argentina

un‟intensificazione dell‟immigrazione latinoamericana (in particolare peruviana e

boliviana). Le retribuzioni basse e precarie erano pagate in pesos quotati alla pari del

dollaro, e quindi di valore elevato nei paesi d‟origine (tra quattro e cinque volte nel caso

del Peru) (Rapoport, 02) (Casaravilla, 31).

Tab. 5.5 Partecipazione nella forza di lavoro (1991)

Immigrati da più di cinque anni 31,9

Immigrati da meno di cinque anni 4,5

Argentini nativi 61,2

Condizione ignorata 2,3

Fonte: INDEC, Censo Nacional de Población y Vivienda 1991, Serie C - Parte 2

Come nel passato, anche se con una modifica degli origini nazionali, gli immigrati

hanno una presenza nella forza di lavoro molto superiore alla loro partecipazione nella

popolazione generale60

.

60

Gli immigrati recenti sono in maggioranza in età di lavorare, se rimangono disoccupati tornano indietro

o scelgono un diverso paese di destinazione, e accettano condizioni salariali e di lavoro anche sgradite ai

nativi. Questi vantaggi tendono a sparire tra 15 e 30 anni dopo l‟ondata migratoria, per ricongiungimento

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Nella fase acuta della crisi del 2001-2002 la popolazione fu colpita dalla fuga di capitali

e la conseguente paralisi economica, dal sequestro dei depositi bancari delle persone

(„corralito‟) e dalla caduta verticale della domanda interna.61

Tutti i nodi del periodo

precedente (privatizzazioni truffaldine, corruzione generalizzata, sprofondamento del

sistema del welfare, marginalizzazione di una parte consistente della popolazione) sono

arrivati al pettine, con fenomeni sociali dirompenti come la morte di bambini per fame

(in uno dei principali produttori di alimenti del mondo, che nel contempo otteneva i

migliori raccolti della storia), il dilagare del delitto e della disperazione62

.

Tra il 2002 e il 2003, svalutato il peso ad un terzo rispetto del dollaro, la ricuperazione è

diventata sostenuta. Senza riuscire finora a ricostruire il sistema delle banche e della

finanza, centro della crisi. Rimpatriarono 300 mila immigrati latinoamericani, perché la

ragione della loro permanenza in posti di lavoro molto malpagati dipendeva della parità

uno a uno rispetto del dollaro. Il mercato del lavoro è ancora lontano dalla normalità; la

sregolazione del periodo precedente ha sconvolto ogni logica salariale, e portato indietro

di un secolo la sicurezza nelle fabbriche e la legislazione sociale. I guasti determinati

dalla lunga marginalizzazione di un terzo della popolazione si pagheranno ancora per

anni: nella salute della popolazione, nel livello scolastico, nelle abitudini di lavoro, nella

propensione al delitto (e dunque nella sicurezza generale).

5.1.7 Gli italo-argentini e l'Italia

Lo stereotipo dell‟emigrato pateticamente legato ad una patria d‟origine che non esiste

più, perché è irreversibilmente mutata; integrato di fatto ad una patria di destinazione

che fatica a considerare propria, condannato ad una nostalgia che è una doppia straneità,

corrisponde semmai ad una parte dei vecchi sopravvisuti dell‟ultima ondata migratoria

italiana in Argentina, forse 80 o 100 mila persone.

La comunità d‟origine italiana nell‟Argentina è costituita quasi completamente da quel

che in Italia chiamano „oriundi‟, e che loro stessi insistono in dire „italo-argentini‟63

.

Un soggetto mal definito e poco conosciuto in Italia. Gli italo-argentini sono

esenzialmente argentini, per la loro educazione, psicologia, pregi e diffetti. Perfino le

loro caratteristiche italiane, come l‟amore per certi piatti e certe musiche, o il

temperamento, o i comportamenti sul piano affettivo, corrispondono a aspetti italiani

della cultura generale argentina, condivisi con discendenti di spagnoli, svizzeri, siriani o

ebrei ucraini.

Hanno dell‟Italia un‟immagine molto positiva, perfino mitizzante; ma questa non deriva

dalle narrazioni degli antenati italiani, in genere negative o poco attrattive (bellezze

paesaggistiche e miseria, golfo di Napoli e fame). Deriva dall‟immagine mediale di

familiare o formazione di nuove famiglie. Nell‟Argentina si trovano nella „finestra di elevata attività‟ solo

gli immigrati latinoamericani, e ne sono usciti gli europei e i mediorientali. 61

La disoccupazione (esclusi i programmi di emergenza) salì al 23,6% nel 2002. La popolazione sotto il

limite della povertà raggiunse nello stesso anno il 57,5%. 62

Il quadro non è in realtà tanto fosco; nel paese c‟è stato un risveglio della solidarietà, con migliaia di

iniziative ingeniose per soppravvivere alla crisi. 63

Un 7,4% degli intervistati si definisce „argentino‟ e basta; un 50% preferisce dirsi „argentino d‟origine

italiana o argentino con doppia cittadinanza‟; un 40% si definisce „italo-argentino‟. Nessun intervistato ha

scelto „oriundo‟, che è considerato peggiorativo. Le stesse tendenze si sono verificati nel Brasile. (Miguel

Angel García, “Indagine sui giovani italiani all‟estero, rapporto di ricerca Brasile e Argentina”, Iref,

Cespi, Siares, Roma luglio 2002)

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155

Italia nel mondo: modernità con un tocco latino, disegno industriale, moda, sport,

identità europea, stabilità democratica, cultura raffinata.

Relativamente pochi parlano e meno ancora leggono e scrivono l‟italiano, nonostante

essa sia la terza lingua straniera studiata nel paese (dopo dell‟inglese e del portoghese

brasiliano). Si trova una minima percentuale di persone più o meno in grado di

interloquire in italiano solo tra il secondo e il terzo strato della „cipolla‟, per riprendere

la metafora.

La volontà di emigrare in Italia (il cosiddetto “rientro” di chi non è mai stato in Italia) è

molto più bassa di quanto si può dedurre delle due o tre „corse al passaporto‟ dell‟ultimo

decennio. Ci sono in Italia 70 mila argentini, dei quali più o meno 50 mila hanno la

cittadinanza italiana per juris sanguinis (su 650 mila che hanno o avranno la doppia

cittadinanza). Ciò è quasi la stessa quantità di 15 anni fa; negli anni della prosperità

dollarizzata di Menem-Cavallo sono rientrati in numero considerevole in Argentina, e

negli anni successivi della recessione e della crisi c‟è stato un nuovo movimento verso

l‟Italia, ma il volume complessivo è rimasto modesto64

65

(García, 08).

La cittadinanza italiana è servita più frequentemente per emigrare negli Stati Uniti, il

Canada e paesi europei diversi dell‟Italia, in particolare Francia e Spagna. L‟Argentina

tuttavia non è un paese di emigrazione; ci sono 500 mila argentini all‟estero (quattro

quinti in tre paesi: Stati Uniti, Canada e Spagna), il che è molto poco, sia in termini

assoluti (40 volte meno del Messico, e metà del picolissimo Uruguay) che in termini

relativi alla popolazione complessiva (José Luis Rhi Sausi ed altri, 24).

Una parte importante di questa emigrazione inoltre (più di 100 mila persone)

corrisponde a scienziati, tecnici e intellettuali emigrati ai paesi centrali, sia per la

collocazione periferica dell‟Argentina che per la regressiva politica nazionale di

investimenti in ricerca. Un problema che l‟Italia conosce da vicino.

Si dovrebbe dunque rovesciare la domanda, e chiedersi perché gli italo-argentini, colpiti

da una crisi senza precedenti, emigrano tanto poco, e „rientrano‟ in Italia quasi per nulla.

Crediamo che bisogna considerare un insieme di fattori:

a. l‟ottenzione della cittadinanza italiana è una pratica lunga e difficile, ostacolata

inoltre da bizantine barriere burocratiche; non è un‟alternativa reale per i poveri,

e meno ancora per le frange marginalizzate; riesce a raggiungerla solo quella che

abbiamo denominato „la comunità d‟origine italiana‟, di classe media e livello di

scolarità elevato.

b. Emigrare in Italia è quasi impossibile per argentini senza la cittadinanza italiana;

non ci sono quote, gli aspetta solo la clandestinità, il lavoro marginale e

l‟espulsione. Con un costo di viaggio molto elevato.

c. La „comunità d‟origine italiana‟ viene da un processo di ascesa sociale nel

paese, che ha portato le famiglie dal bracciantato e le attività più umili alle lauree

universitarie e il riconoscimento sociale. Tornare a fare le mansioni squalificate

64

I dati consolari argentini indicano poco più di 30 mila persone, ma non tutti si iscrivono alle liste

consolari. I dati consegnati corrispondono all‟inchiesta realizzata dall‟ARCS nel 1991, coordinata da José

Luis Rhi Sausi, e diretta per la parte italiana da Miguel Angel García, e per la parte argentina da Luis

Favero (“Gli argentini in Italia, una comunità di immigrati nella terra degli avi”, ed. Synergon Bologna

1992). 65

L‟ultima ondata di argentini in Italia corrisponde in gran misura a ricongiungimenti familiari di

precedenti emigrati.

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dei nonni nel paese d‟origine è per loro un incubo, al quale preferiscono qualsiasi

sacrificio.

d. Gli italo-argentini sarebbero perfino disponibili a fare lavoretti precari per un

ragionevole periodo di integrazione linguistica e culturale, prima di accedere al

mercato di lavoro „alto‟. Non è questo tuttavia quel che l„Italia offre. Una

combinazione di politica di investimenti in ricerca quasi tanto regressiva quanto

quella dell‟Argentina, di barriere corporative che rendono impossibile l‟accesso

di nuovi soggetti nelle professioni e di stagnazione nello sviluppo della piccola

imprenditorialità rende disponibili ai nuovi arrivati (anche se cittadini italiani)

solo posti di lavoro squalificati e precari a vita.

e. L‟Italia non ha una politica per attrarre e integrare immigrati di alta qualità,

come i paesi concorrenti. Né dell‟Argentina, né dell‟India, il Pakistan, l‟Egitto o

la Romania. Piuttosto produce essa stessa emigranti di alta qualità verso gli Stati

Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, ecc.

f. Per le ragioni dette gli italo-argentini non accettano le spaventose condizioni di

vita e di alloggio nelle quali devono vivere gli immigrati afroasiatici ed europei

dell‟est. Potrebbero accettarle le frange marginalizzate argentine, ma esse non

riescono ad emigrare in Italia.

I fattori elencati spiegano in gran parte il fallimento di diversi progetti regionali di

agevolazione all‟immigrazione di argentini (Veneto, Lombardia, Friuli, Emilia

Romagna, ecc.). Il resto deriva dalle bizzarrie dei progetti stessi, che introducono dei

condizionamenti impossibili. È già difficile trovare infermieri laureati e con esperienza

disponibili ad emigrare in Italia, perché il settore non è particolarmente colpito dalla

disoccupazione. Ma essi devono avere inoltre la cittadinanza italiana, e devono avere

degli antenati originari della regione in questione. Una volta in Italia i loro titoli non

sono riconosciuti (l‟Università argentina forma ottimi medici e paramedici, ma tant‟è), e

gli si offre lo stipendio di portantino per fare l‟infermiere. L‟alloggio è in una foresteria

collettiva, il che rende impossibile il ricongiungimento familiare.

La via dell‟immigrazione di qualità rimane chiusa, e la sua apertura richiede una

modifica molto profonda del sistema Italia (investimenti significativi in ricerca,

rimozione delle barriere corporative universitarie e no, un sistema agile di comparazione

degli studi e riconoscimento dei titoli, agevolazione e crediti per l‟affitto o l‟acquisto

della casa). È vero che questa strada dovrebbe essere percorsa se non altro per diminuire

l‟emigrazione di giovani italiani di qualità, e per revertire la tendenza alla stagnazione

tecnologica.

Il problema è che oggi è chiusa perfino la strada dell‟immigrazione corrente di

argentini, per la inadeguatezza delle condizioni richieste e la povertà di quanto offerto.

L‟Italia ha quasi perso un‟opportunità: quella di avere duecento o trecentomila

immigrati altamente integrabili, come lo sono tutti gli argentini per l‟influsso della

cultura italiana nel loro paese. Anche l‟Argentina ha perso, in termini di rimesse che

potrebbero contribuire ad uscire definitivamente dalla crisi.

5.1.8 La Campania nell‟immigrazione italiana nell‟Argentina

L‟emigrazione campana verso l‟Argentina è relativamente tardiva, e si organizza in tre

ondate, la prima delle quali tra il 1885 e il 1905, la seconda nel primo dopoguerra, e la

terza nel secondo dopoguerra. La Campania è la sesta o la nona regione italiana, a

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seconda di che si considerino i flussi o i saldi. Era un‟emigrazione con elevatissimi tassi

di rientro, per la natura della sua principale componente: l‟ingaggio di braccianti

agricoli, in particolare di Caserta. Frequentemente questi lavoratori rientravano nella

categoria dei “golondrinas” (vedi nota di pagina 3); le stesse persone registravano

diverse entrate in Argentina, per periodi che quasi mai arrivavano ai sei mesi.

Gli agricoltori delle regioni del nord già stabiliti nella regione pampeana “importavano”

contingenti di lavoratori in particolare per i raccolti, prima dalle regioni nordorientali

(Veneto, Friuli) poi da regioni del sud (Sicilia, Calabria, Campania). Alcuni di questi

lavoratori decidevano poi di rimanere in Argentina, altri (in particolare da contesti

urbani) emigravano senza passare dal lavoro stagionale.

C‟è stato un contingente di emigranti campani impiegati nella pesca, che si sono radicati

in città atlantiche (Mar del Plata e Miramar) assieme a liguri e siciliani. Hanno portato

abitudini organizzative, come le paranze, e anche feste tradizionali. Oggi l‟attività

peschiera di piccole dimensioni è stata quasi del tutto sostituita dalla pesca su basi

industriali, in particolare d‟altura (l‟Argentina ha una cattura annua di quasi un milione

di tonnellate di pesce, in particolare merluzzo e tonno).

Nell‟Argentina ci sono oggi 60 mila campani, metà dei quali nati in Italia (gli altri sono

discendenti di campani con doppia cittadinanza); sono organizzati in nove associazioni

campane e due federazioni.

5.1.9 L'associazionismo della comunità d'origine italiana nell'Argentina

Tra il 1870 e gli anni 20 del novecento nacquero migliaia di associazioni di mutuo

soccorso nell‟emigrazione italiana in Argentina. Queste associazioni ebbero

un‟importanza decisiva nello sviluppo di una comunità italiana. Non era un fatto

scontato; gli immigrati italiani parlavano frequentemente lingue diverse (ligure,

piemontese, veneto, lombardo, siciliano, francese, tedesco), avevano diverse tradizioni,

abitudini alimentare, culture. Tante quante ce n‟erano nel mosaico di identità sul quale

poggiava lo Stato italiano.

L‟associazionismo argentino era nato negli anni 50 del ottocento, nell‟alveo

dell‟immigrazione multinazionale. Aveva due grandi tronconi: l‟associazionismo di

mestiere e l‟associazionismo a base etnica. Il primo era naturalmente integratore: univa

immigrati di svariati origini nazionali, e anche nativi, sulla base dell‟interesse

professionale. Più universale era la sua iscrizione, più efficiente era nel diffendere gli

interessi dei propri associati. Questo associazionismo evolse dopo nella forma dei

sindacati, delle cooperative e delle rappresentanze settoriali agrarie e industriali.

L‟associazionismo a base etnica era invece un‟associazionismo della particolarità, della

differenza. Nacque sulla nostalgia dei compaesani, sulle feste locali da riproporre nel

nuovo mondo, per farlo sembrare più familiare; sulla consolante pratica di parlare ogni

tanto la lingua materna, di scambiare notizie sul campanile lontano, di risentire gli odori

del pesto, della bagna cauda, della busecca, della polenta fritta. Ma il suo scopo sociale

non era semplicemente nostalgico e festaiolo: il mutuo soccorso supponeva unire

debolezze per fare una forza, risolvere in comune i problemi della salute, della

comunicazione con il paese d‟origine, dell‟abitazione, del sostegno ai loro membri

colpiti dalla sfortuna, dell‟educazione nella lingua nazionale di origine (Favero, 16).

La base etnica di questo associazionismo produceva una permanente frammentazione:

c‟erano associazioni per regione, per città, perfino per campanile o per variante

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localissima del dialetto. Questa frammentazione doveva tuttavia ricomporsi nel

momento della negoziazione: le controparti erano quasi sempre lo Stato Argentino e le

rappresentanze consolari dei paesi di origine. La natura delle controparti determinò un

processo di retroalimentazione positiva, nel quale le associazioni italiane fecero quel

che lo Stato italiano faceva a suo modo in Italia: inventare un‟identità nazionale. Si

potrebbe dire che l‟italiano non è emigrato, perché è nato simultaneamente in patria e

nell‟emigrazione. È nelle associazioni che questa identità italiana è nata (Baily, 12).

Anarchici e socialisti trovarono naturalmente una base nell‟associazionismo di mestiere

prima, e nei sindacati e le leghe agrarie dopo. I liberali, mazziniani e masoni

svilupparono associazioni a base etnica regionale, molto legate al mondo degli affari e

della banca66

. Nell‟associazionismo etnico più popolare invece, la dialettica politica si

produsse tra socialisti e cattolici. Il movimento cattolico, che si riprendeva allora dalla

botta dell‟unità italiana per mezzo di una vera e propria rifondazione dal basso67

, trovò

uno spazio naturale nell‟associazionismo di mutuo soccorso. La forma rudimentale di

questo spazio era il Santo patrono, la confraternita da processione, la cultura religiosa

del localismo. Ma evolse rapidamente verso modalità più ampie, portate avanti

dall‟attivismo e l‟indubbia capacità organizzativa della Chiesa. Cattolici e socialisti, per

i loro motivi, tendevano a superare la chiusura localista, e premevano verso

un‟interpretazione più universalista del mutuo soccorso, in termini nazionali italiani (lo

Stato è la dimensione della politica) e in termini nazionali argentini, cioè interetnici68

(Devoto, 13) (Rosoli, 17).

Fino alla prima guerra mondiale l‟associazionismo di mutuo soccorso fu una risposta

alla mancanza di politiche sociali da parte dello Stato di destinazione e di quello di

origine. Prevaleva una visione strettamente liberista dello Stato nel mondo di allora, che

escludeva qualsiasi funzione di assistenza. Gli emigrati italiani erano degli orfani,

abbandonati a sé stessi nel grande sradicamento, guardati con sospetto o con spirito

utilitaristico dal paese di destinazione, e con fastidio o con un interesse limitato alle loro

rimesse dal paese di origine. L‟associazionismo era una risposta a questa doppia

orfanezza (Oddone, 14). La comunità italiana (come le altre comunità d‟immigrati)

diede a sé stessa ospedali, biblioteche, casse di risparmio, scuole, istituzioni di

assistenza, luoghi di culto. Questa imponente intelaiatura fu nel periodo successivo

strumento dell‟ascesa sociale della classe media immigrata, e dunque della sua

integrazione definitiva nel paese di destinazione (Devoto, 13). Negli anni 30 e 40 si

svilupparono nell‟Argentina le istituzioni dello Stato del Benessere: sindacati

riconosciuti, sistema pensionistico, sistema sanitario pubblico, servizi di assistenza, ecc.

Le strutture delle comunità immigrate furono in gran parte riassorbite nei sistemi

nazionali. Avevano tuttavia realizzato, non solo il loro scopo primario, ma anche quello

secondario di ascesa e definitivo riconoscimento della nuova classe media di origine

immigratorio.

L‟associazionismo italiano iniziò una fase di profonda trasformazione, che è tuttora in

corso. Luogo dell‟identità, della cura del patrimonio di tradizioni e culture, ma anche

66

Alcune di queste associazioni avevano una struttura che le faceva assomigliare sia ai Rotary Club et

similia che alle lobbies di tipo statounitense, anche se con una forte valenza politica, non solo rispetto

della politica dei paesi sudamericani, ma anche dell‟Italia, quale un “partito nell‟esilio” (il partito dei

repubblicani liberali); come gli irlandesi negli USA. 67

In particolare dall‟enciclica “Rerum Novarum” in poi (1891). 68

I socialisti svilupparono a Buenos Aires società di mutui soccorsi aperte a tutte le nazionalità immigrate

e ai nativi, che in gran parte confluirono poi nel movimento cooperativo (come “El Hogar Obrero”); tra i

cattolici in particolare i Salesiani crearono delle associazioni di mutuo soccorso di tipo cosmopolita.

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spazio di mediazione nei rapporti tra i discendenti d‟italiani e l‟Italia.

Un‟associazionismo che invecchia, che fa fatica ad attrarre i giovani. E che in

quest‟ultimo compito si gioca il proprio futuro.

5.1.10 La situazione presente

In una popolazione tanto grande e composita sarebbe un errore fare delle

generalizzazioni. Gli italo-argentini sono oggi una componente maggioritaria e ben

integrata della popolazione argentina, senza discriminazioni, barriere, ghetti o

separazioni culturali. Condividono con il resto della popolazione argentina, di qualsiasi

origine etnico o nazionale, una forte influenza culturale italiana, che penetra nella

lingua, nella cucina, nella tradizione, nell‟architettura e in molti altri campi. La forte

integrazione, l‟immagine positiva dell‟Italia in particolare e dell‟immigrazione in

generale nella cultura argentina, l‟elevata proporzione di incrocio interetnico del paese,

fanno sì che i rapporti intergenerazionali (nonni, padri e figli) rientrino nei profili

normali del paese per i diversi gruppi sociali.

Le persone nate in Italia sono ormai una quantità residuale, costituita in gran parte da

anziani pensionati, e per il resto da una élite di dirigenti di impresa, di tecnici e di

“nuovi emigranti”, giovani con un‟elevato livello scolastico. Una parte minoritaria ma

significativa degli italo-argentini partecipa attivamente nelle associazioni e istituzioni

della comunità italiana. Non si riscontra un rapporto con la maggiore o minore

vicinanza all‟evento migratorio, o con il numero di antenati nati in Italia. Vi partecipano

figli di italiani, ma anche argentini che contano con uno o due nonni o bisnonni italiani.

Prevale un movente squisitamente culturale, la “riscoperta delle radici”, e a volte

l‟interesse legittimo di mediare nei rapporti politici ed economici tra i due paesi.

Non è prevedibile un movimento di emigrazione verso l‟Italia di una certa entità,

nonostante la profondità della recente crisi economica e le successive “corse al

passaporto”. La modesta ondata emigratoria causata da questa crisi si è focalizzata negli

Stati Uniti, la Spagna, il Canada e il Messico, e nel 2003 prevalgono ormai i ritorni.

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5.2 Il caso dell‟Uruguay di Miguel Angel García

5.2.1 Premessa

L‟Uruguay è un paese molto piccolo nel contesto dell‟Atlantico sud; le sue dimensioni

relative e la sua storia difficile e travagliata spiegano alcune delle particolarità dei suoi

processi migratori comparati con quelli dei suoi vicini. È uruguaiana l‟1,6% della

popolazione del Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay). Se prendiamo un

gruppo di paesi europei comparabili per la loro interrelazione (Germania, Francia,

Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo) troviamo che il Belgio rappresenta il 6,1% della

popolazione sommata, e il Lussemburgo lo 0,3%. L‟Uruguay si trova, in relazione alla

popolazione totale della sua regione, ben al di sotto del Belgio, anche se sopra il

Lussemburgo. Di questi due paesi ha il destino futuro: quello di essere il fulcro del

mercato regionale e della futura unione federale, sede delle istituzioni comuni e cerniera

del sistema finanziario e di trasporti. Quando i paesi del Mercosur arrivino ad una vera

unione política per l‟Uruguay si chiuderà un paradosso storico: il territorio insanguinato

che fu il campo di battaglia delle guerre civili e internazionali della regione per più di un

secolo sarà anche il centro del processo unitario.

5.2.2 I precedenti storici

Nel seicento c‟erano due vere colonie europee nell‟America del Sud: il Perù spagnolo

negli attuali Peru, Bolivia ed Ecuador, e il Brasile portoghese in una stretta frangia

costiera da Natal a Rio de Janeiro.69

Le due colonie erano divise da un immenso

territorio di giungle, foreste e altopiani, migliaia di kilometri di un niente che nessun

europeo era riuscito ad attraversare, percorso solo da sparute tribù nomadi. La strategia

delle due potenze coloniali fu allora la marcia verso sud.

A sud c‟era la frangia temperata dell‟America meridionale, la parte maggiore della

quale era la conca del Plata, una piana grande quanto l‟Europa innervata da un sistema

di fiumi di proporzioni titaniche che confluiscono nel Rio de la Plata. Nel cuore di

questa regione i gesuiti, in maggioranza austriaci, svilupparono una delle grandi utopie

illuministe: la trasformazione degli indiani guaranì, popolo nomade dei grandi fiumi con

un‟incipiente agricoltura, all‟agricoltura sedentaria, l‟artigianato e il cristianismo.70

Gli

spagnoli scessero da ovest ai grandi fiumi, fondando Asunción del Paraguay, Santa Fe e

Buenos Aires; i portoghesi scessero da est occupando São Paulo (che era stata fondata

69

La richezza del Peru era l‟argento, e quella del Brasile lo zucchero. Per difenderle furono create catene

di guarnigioni militari, porti e nodi di transito, che successivamente divennero vere città. Come Panama,

Cartagena, Caracas, Bogotá e Guayaquil da parte spagnola, e Belem, Fortaleza e lo stesso Rio de Janeiro

dalla parte portoghese. 70

I gesuiti ebbero fortuna: trovarono un popolo all‟orlo della civiltà, come i greci dell‟epoca pre-classica.

L‟Ordine agì da partera della modernità: portò una lingua già sviluppata dall‟oralità alla scrittura,

introdusse canoni razionali nell‟architettura, nella musica e nel calcolo, legò il loro primitivo commercio

al mercato mondiale. Gli europei impedirono tuttavia l‟uso d‟armi di fuoco agli indiani, determinando la

loro sconfitta nei confronti dei trafficanti, e deviarono il loro sviluppo verso il bracciantato. I guaranì

furono la prima base demografica dell‟Uruguay (le Misiones Orientales).

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dai gesuiti). Le due colonie entravano in contatto, con i pacifici guaranì in mezzo

(Halperín Donghi, 20).

Nel settecento la regione fu sconvolta da una guerriglia quasi permanente. I portoghesi

arrivarono al Rio de la Plata, dove fondarono l‟attuale città di Colonia do Sacramento,

furono cacciati, tornarono e furono ancora espulsi. Gli spagnoli stabilirono una

guarnigione militare a Montevideo; persero, rioccuparono e persero ancora l‟attuale

stato brasiliano di Rio Grande. I guaranì furono le vittime di tutte le guerre, cacciati e

venduti come schiavi dai „bandeirantes‟ portoghesi, ma anche dagli spagnoli di

Asunción e Buenos Aires (De Angelis, 32).

Un territorio grande quanto l‟Europa, quasi spopolato (la popolazione superava appena

le 250 mila persone, metà delle quali concentrata in due o tre città) era percorso da

gruppi di selvaggi cavalieri, i gauchos, formati da disertori europei, fuggiaschi di ogni

origine, indiani emancipati, ex-schiavi africani e meticci (García, 33).

Nell‟Ottocento due nuovi Stati indipendenti, le Province Unite del Rio de la Plata e

l‟Impero Brasiliano ereditarono sia la guerra internazionale che il caotico disordine

della „frontiera‟. Di nuovo la banda orientale del fiume Uruguay fu il principale campo

di battaglia. Nel 1814 la regione s‟incorporò alle Province Unite, sotto il mando di José

Artigas, uno dei grandi dirigenti del movimento anticoloniale americano. Poco tempo

dopo la nuova repubblica entrava in crisi: Buenos Aires, con l‟apoggio di Tucumán e

Mendoza, voleva uno Stato centralizzato, perfino una monarchia; la Lega Federale

capeggiata da Artigas, con tutte le provincie del litorale più Córdoba, s‟ispirava al

sistema nordamericano, con in più la riforma agraria e l‟autonomia culturale dei

guaranì.71

La guerra civile nelle Province Unite fu interrotta dall‟invasione brasiliana della Banda

Orientale, poi ricuperata dagli eserciti platensi nella battaglia di Ituzaingó. Nel periodo

successivo prevalse la guerra civile; tra il 1828 e il 1830 la Banda Oriental si dichiarò

indipendente (questa è la data „ufficiale‟ dell‟indipendenza uruguaiana); ma nello stesso

periodo si erano dichiarate indipendenti quasi tutte le province componenti l‟Unione, il

che relativizza assai tale dichiarazione. Nella realtà sia il liberale Rivera che il

conservatore Oribe (fondatori degli attuali partiti Colorado e Blanco) parteciparono

ancora attivamente nella guerra civile argentina, nella quale il primo fu uno dei capi

degli unitari, e il secondo il braccio armato di Rosas, repressore delle province del

nordovest (Burgin, 03).

Nel 1852 fu sconfitto Rosas a Buenos Aires, si chiuse così il ciclo delle guerre civili

argentine, e nacque come conseguenza l‟Uruguay indipendente. Il processo di

organizzazione degli Stati della regione fu completato tra il 1865 e il 1870 con la

sanguinosa guerra nella quale Argentina, Brasile e Uruguay sconfissero il Paraguay. Nel

decennio successivo l‟Argentina lanciò una campagna di sterminio contro gli indiani

della Pampa, consolidò l‟occupazione dei territori ex-paraguaiani del Chaco, e occupò

la parte maggiore della Patagonia. Il Brasile nel contempo, cavalcando il boom del

caucciù, estese il suo territorio a quasi tutta l‟Amazzonia. L‟Uruguay e il Paraguay

rimassero chiusi nei loro territori, come Stati tampone tra i due grandi.

Nel lungo ciclo delle guerre civili la città di Montevideo si trovò quasi

permanentemente sotto assedio; il paese aveva 74 mila abitanti, divisi a metà tra

71

La guerra di Artigas contro l‟Impero e contro Buenos Aires, con una truppa di orgogliosi guaranì e

generali di talento come l‟indiano Andrés Guacurarì e il suo secondo irlandese, fu una epopea

monumentale.

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164

Montevideo e il resto del territorio. Nonostante il quadro generale la città continuò a

ricevere immigrati stranieri, in particolare italiani, francesi e spagnoli. Tra questi c‟era

Giusseppe Garibaldi, chi ebbe un ruolo dirigente nel partito liberale e nella lotta contro

Rosas. Nel 1852, normalizzate le relazioni internazionali, molti di loro riemigrarono a

Buenos Aires; nel censimento di quell‟anno l‟Uruguay era arrivato a 132 mila abitanti,

34 mila dei quali a Montevideo, 50 mila considerando l‟area agricola più vicina alla

città (Finch, 38) (Dujovne Ortiz, 44).

Le guerre civili continuarono in Uruguay fino ai primi anni del novecento; erano

diventate un fenomeno sociale permanente grazie all‟identificazione dei „caudillos‟ tra

potere militare e proprietà della terra. Questa era organizzata nelle „estancias‟,

stabilimenti di migliaia di ettari che allevavano bovini e ovini. I padroni delle estancias

avevano una truppa di cavalieri che erano nel contempo guerrieri, vaccari e manovali;

controllavano completamente i loro territori, dei quali erano governatori e giudici, e si

facevano la guerra a nome delle loro rispettive ideologie. Le moderne istituzioni dello

Stato liberale rimanevano vigenti solo nello spazio della città di Montevideo e di un

ridotto hinterland.

Dal 1875 al 1903 dominano la scena Latorre e i suoi successori. È un periodo di

modernizzazione (ferrovie, telegrafo, opere portuali, sistema scolastico), e anche di

immigrazione europea. Ma i „caudillos‟ non sono stati vinti né convinti; lo Stato

uruguaiano, in un quarto di secolo punteggiato da connati insurrezionali, fonda la

legalità su un patto che lascia ai padroni delle estancias il controllo di gran parte del

territorio72

(Arteaga, 42).

5.2.3 La “grande migrazione” e il secondo dopo guerra

Fino al 1870/80 la prima ondata migratoria in Uruguay somiglia molto a quella

argentina: i soliti liguri, francesi, inglesi e baschi (anche se cambiano le proporzioni, e

la quantità totale è assai più piccola). Nella seconda ondata, quella della „grande

migrazione‟, l‟Uruguay si distanzia sempre di più dell‟Argentina e del sud del Brasile,

fatica ad attrarre un forte flusso di immigrati. Il paese non ha grandi territori freschi di

conquista e virtualmente disabitati da offrire alle colonie di popolamento; a dire il vero

non può contare neanche sul suo territorio storico, pegno della pace interna con i

caudillos-estancieros (Barrán, Nahum, 37).

Fino alla prima guerra mondiale entrarono al paese 220 mila immigrati, 90 mila dei

quali italiani. Si stabilirono in grande maggioranza a Montevideo, con quantità minori a

Canelones (nei dintorni della capitale) e sul fiume Uruguay, in particolare a Salto.

L‟agricoltura ebbe un modesto sviluppo, e l‟economia del paese continuò a poggiare

sulle esportazioni di carne e lana.

Fino al 1890 le componenti regionali dell‟immigrazione italiana somigliavano a quelle

argentine: prevalenza del nord (anche se di poco nel caso uruguaiano) e dentro del nord

dei liguri e lombardi, con una poco significativa presenza di piemontesi, veneti, friulani

e svizzeri, importanti invece nell‟Argentina. Dal 1890 al 1914 nell‟Uruguay prevalgono

notevolmente le regioni del sud, e in particolare la Campania, che arriva al 48,9% degli

72

Un simile patto era stato convenuto anche in Argentina da Roca e i suoi successori. La differenza è che

l‟Argentina disponeva di milioni di ettari di terra fiscale (quattro quinti del territorio), che poteva dedicare

alle colonie agricole.

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immigrati italiani nel quinquenio 1890-94, e che nel periodo non scende comunque del

36% (Rama, 39).

Dalla prima guerra mondiale in poi l‟immigrazione europea nel paese discende

gradatamente, fino al rovesciamento degli anni 60. Tra gli anni 30 e 60 non si estende

all‟Uruguay il flusso migratorio latinoamericano che tanta importanza ebbe

nell‟Argentina; anzi, gli stessi uruguaiani partecipano alla migrazione verso le grandi

città argentine, iniziando il ciclo migratorio che determina oggi la presenza all‟estero di

un milione di emigranti uruguaiani, in un paese che supera di poco i tre milioni di

abitanti73

(Rama, 39).

Le migrazioni straniere ebbero una importanza determinante nella formazione

demografica dell‟Uruguay, quasi spopolato a metà dell‟ottocento. La minore intensità

del fenomeno determinò tuttavia una maggiore supervivenza di minoranze etniche

„pure‟ di afroamericani (Montevideo) e indiani guaranì (interno). L‟Uruguay diventò

uno scrigno di tradizioni culturali e musicali, importanti ad esempio negli origini del

tango74

.

Un‟altra conseguenza di questa minore intensità migratoria fu l‟importanza degli

esperimenti comunitari di base ideologica e religiosa. Il più noto e riuscito è quello della

chiesa Valdese, a lungo perseguitata dagli Stati cattolici in Europa. Nel 1856 un gruppo

di 11 valdesi italiani e svizzeri fondò in Uruguay Colonia Valdense. Nel mezzo secolo

successivo arrivarono numerosi contingenti di valdesi, in particolare italiani; fu fondata

Colonia Cosmopolita, acquistate nuove terre, e stabiliti nuovi nuclei a Ombúes de

Lavalle, Riachuelo, Artilleros, Rincón del Sauce, Tarariras-Quinton e San Pedro.

L‟esperienza valdese si è caratterizzata per la sua intensa vita comunitaria; nonostante

ciò la terra fu distribuita in proprietà privata familiare, fu privilegiata l‟educazione e

un‟integrazione nel paese di destinazione con un impegno civile e democratico.

Nel 1940 emigrò dalla Germania la comunità pacifista Bruderhof, perseguitata dal

regime nazista. Si stabilirono prima nel Paraguay, nella Estancia Primavera, e poi

nell‟Uruguay, nella colonia El Arado, nelle vicinanze di Montevideo. Il fondatore del

movimento, Eberhard Arnold, sosteneva che la società capitalistica era esenzialmente

corruttora e violenta, e che poteva essere cambiata solo per mezzo della trasformazione

dei comportamenti individuali. Riprendeva dunque la tematica amish e menonnita, ma

in una versione collettivista e simultaneamente aperta alla scienza e la tecnologia

moderna.75

La esperienza fu di inspirazione per altre comunità di ideologia assai

diversa, come gli anarchici capeggiati da Pedro Scaron e i mistici di Lanza del Vasto

(Oved, 34).

73

Gli emigranti uruguaiani sono presenti in particolare negli Stati Uniti, Australia e Canada, con presenze

significative in Europa, in Argentina e in Brasile. La stima di un milione di emigranti sembra discutibile,

forse include anche i discendenti di uruguaiani all‟estero. Nel 1991 erano emigrate 300 mila persone, e

non sembra credibile che in 12 anni l‟abbiano fatto 700 mila. Una stima più ragionevole potrebbe essere

di 500 o 600 mila emigrati, comunque molti considerando la popolazione del paese. 74

La presenza afroamericana era molto alta anche a Buenos Aires; in questa città tuttavia le dimensioni

del flusso migratorio europeo furono tali che la popolazione afro si sciolse, perdendo la sua integrità

culturale, a differenza di Montevideo. Le radici del tango si trovano nella cultura musicale afroamericana,

sia direttamente, per via delle creazioni locali, il candombe e la milonga, che indirettamente, per

l‟influenza dell‟habanera cubana. Su questa base africana s‟innestò il talento melodico italiano ed ebreo

centroeuropeo. 75

Gli ebrei argentini e uruguaiani ebbero un ruolo importante nella nascita e nello sviluppo dei kibutz in

Israele. Molti di loro realizzarono pratiche nella comunità El Arado.

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L‟Uruguay successivo agli anni 20 è tuttavia un paese demograficamente stabile, nel

quale l‟immigrazione esterna è sostanzialmente cessata, e l‟immigrazione interna legata

all‟urbanizzazione è assai limitata perché le campagne ebbero sempre una popolazione

scarsa. La tassa di crescita della popolazione è molto bassa, e la declinante tassa di

natalità fa assomigliare il suo profilo a quello dei paesi europei.

L‟Uruguay è inoltre un paese invecchiato, nel quale gli 1,4 milioni della popolazione

economicamente attiva devono sostenere 650 mila pensionati. Le piccole dimensioni del

mercato interno fecero impossibile la strategia della sostituzione delle importazioni:

oggi metá del valore prodotto dall‟industria manufatturiera corrisponde ad alimenti,

bevande e tabacco. Il paese invece ha una spiccata vocazione finanziaria, o meglio

ancora, di rifugio off-shore per i capitali argentini e brasiliani. Questa tendenza fu

accentuata consapevolmente dalla dittatura 1974-1979, che introdusse il segreto

bancario e privatizzò la banca sotto completa proprietà straniera. Negli anni 90

l‟ammontare dei depositi bancari equivaleva al 60% del Prodotto Lordo del paese, nella

quasi totalità depositi di particolari dei due grandi vicini. L‟altra grande fonte di ingressi

è il turismo, in particolare degli argentini, che trovano a Punta del Este e spiagge vicine

uno spazio turistico a pochi kilometri da Buenos Aires (Martínez Moreno, 41).

La strategia finanziaria dell‟Uruguay ha messo il paese in una critica situazione nei

primi anni del 2000; la crisi argentina ha prodotto conseguenze dirompenti nel piccolo

paese.

5.2.4 La comunità d'origine italiana nel mercato del lavoro

Un 40% dei 3 milioni di uruguaiani ha degli antenati italiani; vale quanto detto per la

comunità italiana in Argentina, anche se nell‟Uruguay l‟incrocio interetnico è stato

leggermente più basso. Ci sono ancora 10 mila persone nate in Italia (su 41 mila

europei), quasi tutti anziani pensionati. L‟origine prevalente è lombardo, e in secondo

luogo campano e ligure.

Gli 1,2 milioni di persone di origine italiana (totale o parziale) sono nella quasi totalità

italo-urugaiani, cioè persone non nate in Italia. Vivono in tutto il paese, ma sono

concentrati in particolare nella città di Montevideo e nelle immediate vicinanze (non

meno di quattro quinti del totale). Sono presenti in tutta la società, ma si concentrano

nella classe media e negli strati più qualificati della classe operaia. 76

Nell‟Uruguay non c‟è stata una svalutazione e discriminazione della comunità d‟origine

italiana; essa è integrata nella classe media immigratoria di Montevideo, ed ebbe

dall‟ottocento il prestigio derivato della sua europeità culturale. Ci sono persone di

origine italiana in tutte le professioni e ruoli sociali. Non si verifica una particolare

tendenza all‟emigrazione verso l‟Italia; gli uruguaiani preferiscono di gran lunga gli

Stati Uniti e l‟Australia, o i vicini Brasile e Argentina (Benvenuto, 40).

La popolazione economicamente attiva dell‟Uruguay è di 1,4 milioni di persone, delle

quali un 16% è disoccupato. Rimane poco più di un milione di persone, l‟11,8% è

occupato nell‟agricoltura, l‟allevamento e la pesca, 24,9% è occupata nell‟industria e i

servizi produttivi, e un 63,3% nel terziario (INE, 35).

76

I numeri sono stati calcolati sulla base dei dati storici dell‟INE (Instituto Nacional de Estadísticas del

Uruguay) (INE, 35).

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La comunità d‟origine italiana si concentra in particolare nel terziario urbano, con una

presenza importante nel commercio, il turismo e la ristorazione, e nei ceti professionali

e impiegatizi.

Negli anni 80 e 90 la popolazione uruguaiana fu meno colpita dalla politica neoliberale

che quella argentina; furono mantenute alcune delle strutture dello Stato sociale e della

protezione delle industrie locali. La „finanziarizzazione‟ del paese compensò le perdite.

Le prime avvisaglie della profonda crisi vennero dal fallimento della politica delle „zone

franche‟ offerte al capitale internazionale per penetrare nel Mercosur e delle grandi

opere che dovevano far diventare il paese il territorio obbligato di transito del mercato

regionale77

.

La crisi argentina del 2001-2002 causò infine ferite profonde. Cadde verticalmente il

turismo, in particolare come conseguenza del „corralito‟ argentino, e si spostarono in

massa i depositi „caldi‟ dei particolari, affondando il sistema bancario. Le conseguenze

hanno colpito in pieno i settori dove la comunità italiana è più presente. Segmenti

importanti della classe media sono sprofondati nella miseria.

5.2.5 L'associazionismo della comunità d'origine italiana nell'Uruguay

Nella Montevideo sotto assedio permanente dell‟ottocento le associazioni dei residenti

stranieri ebbero un ruolo notevole, costituendo a tratti un vero governo comunale, e

assicurando la difesa della città con le loro milizie. Le più importanti erano quelle delle

comunità francese, inglese e italiana (ligure-lombarda). Di fatto erano corporazioni di

commercianti e artigiani, partiti armati del liberalismo radicale e comunità di interessi

dei paesi di origine. Le logge massoniche legavano queste associazioni con i notabili

locali, in particolare del Partito Colorado, costituendo l‟ossatura del movimento

politico.

L‟orizzonte di riferimento delle associazioni era sì locale, ma si riferiva all‟intera

regione, includendo il Brasile e l‟Argentina, e non solo la Banda Orientale. Le

associazioni erano integrate con altre di Buenos Aires, di Rosario, di Rio Grande e di

São Paulo, e contrapposte ad altre delle stesse nazionalità vincolate alle fazioni

dominanti. Le logge univano, non solo montevideani, ma anche unitari argentini (una

parte dei quali era rifugiata precisamente a Montevideo, e partecipava attivamente al

governo locale e ai combattimenti) e farrapos brasiliani (rivoluzionari liberali del sud)

(García, 33).

Le comunità straniere partecipavano di fitte reti commerciali che coprivano l‟intero

atlantico del sud, e penetravano fino al Cile e il Peru. Queste reti erano nel contempo

imprenditoriali (crearono cospicue fortune) e politico-culturali, non di rado direttamente

eversive.

77

Era evidente che i due grandi partners dell‟Uruguay nel mercato regionale non avrebbero tollerato

un‟iniziativa unilaterale per mezzo della quale l‟Uruguay speculava con i mercati interni altrui, creando

delle „maquiladoras‟ che avrebbero distrutto le industrie regionali, senza beneficiare realmente il paese

promotore. In quanto alle grandi opere di comunicazione, in particolare il mega ponte sul Rio de la Plata,

era un progetto di costo impossibile, e causa di gravi danni ambientali. Il Rio de la Plata è largo quanto il

mare Adriatico; il ponte sarebbe stato in gran parte una diga di cemento e terriccio, che avrebbe sconvolto

completamente il regime delle acque e avrebbe accumulato sedimenti in quantità tale da chiudere il porto

di Buenos Aires e impedire la navigazione sul fiume Parana. Sembra ormai definitivamente accantonato.

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La comunità italiana era la più debole e la più radicale delle comunità straniere. Non

aveva dietro un forte Stato, come Francia o Gran Bretagna, con una politica per la

regione della quale la comunità nazionale era espressione. Anzi, la comunità italiana era

un „partito nell‟esilio‟, liberale e repubblicano, che cospirava per l‟unità d‟Italia prima,

e per la democratizzazione repubblicana del nuovo Stato dopo.

È da sottolineare l‟originalità della matrice originaria delle associazioni di origine

nazionale uruguaiane. Altrove le associazioni di questo genere rappresentano

minoranze, se no discriminate, almeno indebolite dalla loro condizione di immigrati in

terra straniera. A Montevideo la formula sembra del tutto rovesciata: le associazioni

rappresentano un embrione di potere locale, forma originaria della borghesia,

dell‟intellettualità e dello Stato.

Nell‟ultimo quarto del secolo XIX le associazioni realizzarono, anche se no nella forma

che prevedevano, il loro programma. Nell‟Atlantico sud c‟erano quattro nuovi Stati,

saldamente in mano ad elites liberali. La vittoria svuotò in gran misura di contenuto le

associazioni stesse: i suoi dirigenti s‟integrarono nelle classi dominanti dei rispettivi

Stati, i suoi iscritti si sciolsero nella possente ondata dell‟immigrazione di massa.

Quest‟ultimo fenomeno determinava tuttavia un grande bisogno di associazioni, questa

volta del tipo del mutuo soccorso. Con il supporto delle più forti e antiche associazioni

argentine si svilupparono dunque anche nell‟Uruguay le associazioni, sul doppio binario

socialista e cattolico.

Nell‟Uruguay la costruzione di uno Stato del benessere precede di molto lo stesso

processo in Argentina e in Brasile. Nel 1903 il governo di José Batlle introdusse un gran

numero di leggi sociali e inaugurò l‟attivo intervento dello Stato nell‟economia. In

questo modo l‟Uruguay si risparmiò i profondi sconvolgimenti sociali che portarono i

paesi vicini all‟orlo della guerra civile, guadagnandosi la fama di paese pacifico e felice,

la cosiddetta „Svizzera delle Americhe‟ (senza risparmiarsi tuttavia le dittature di destra

degli anni 30 e 70)78

(Martínez Moreno, 41).

Le associazioni straniere di mutuo soccorso dell‟Uruguay, poco tempo dopo la loro

nascita, si trovarono in gran parte disciolte nelle nuove istituzioni dello Stato del

benessere, e tagliate fuori del mutuo soccorso, orientandosi dunque verso il ricupero e la

difesa delle radici culturali originarie.

Dagli anni 80 in poi la riorganizzazione delle associazioni delle comunità d‟origine

italiano all‟estero (Comites) e il rinnovato interesse delle Regioni italiane

nell‟emigrazione determinarono la creazione di nuove associazioni nell‟Uruguay, e il

declino di quelle più antiche, di base non regionale. Attualmente ci sono 32 associazioni

di origine nazionale italiano a Montevideo, e 30 nell‟interno. Sono rappresentate la

quasi totalità delle regioni italiane.

L‟Uruguay è, in termini relativi, il più „campano‟ dei paesi sudamericani. Nel 1986,

come conseguenza di un‟iniziativa promossa dalla Regione Campana, fu costituita

un‟associazione di origine nazionale, l‟AERCU (Associazione Emigrati Regione

Campania in Uruguay). L‟associazione riunisce campani e discendenti di campani (con

78

Forse la declinazione del flusso migratorio straniero, e la relativa stabilizzazione demografica della

società, spiegano la minore drammaticità dello scontro sociale e politico. Se così fosse, l‟Uruguay di

Batlle avrebbe potuto introdurre misure sociali avanzate precisamente perché il paese invecchiava e

stagnava.

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ovvia prevalenza di questi ultimi) e realizza attività prevalentemente culturali, di

riscoperta delle radici. Mantiene inoltre intensi rapporti con la regione italiana.

5.2.6 La situazione presente

Dopo dell‟Argentina l‟Uruguay è tra i paesi a più alta intensità dell‟immigrazione

italiana nel mondo: un 40% degli uruguayani ha antenati italiani. Ha ricevuto la prima e

la seconda ondata migratoria, anche se quest‟ultima si è arenata per la mancanza di

territori liberi per la colonizzazione agraria; ha perso la terza ondata: ormai lo stesso

Uruguay era diventato un paese di emigrazione.

È dunque da più di mezzo secolo che l‟immigrazione si è virtualmente fermata nel

paese, dopo un periodo di diminuzione graduale di altri 30 anni. Questo significa che gli

uruguaiani attuali sono di terza, quarta o quinta generazione; una minoranza poco

significativa è nata in Italia, o è figlia di italiani.

L‟influenza italiana nella cultura del paese è tuttavia molto forte; per l‟importanza dei

liguri e lombardi nella costituzione di una classe dirigente, per la presenza degli italiani

(prevalentemente meridionali, con una significativa presenza campana) nella classe

media urbana e nell‟intellettualità. Come nella vicina Argentina l‟influenza linguistica e

dialettale nella lingua castigliana uruguaiana è visibile, così come l‟egemonia nella

cucina e nelle tradizioni culturali.

Anche nell‟Uruguay si verifica un movimento di ricerca delle radici tra i giovani italo-

urugaiani. Parte di questo processo è la richiesta della nazionalità italiana, anche se con

effetti trascurabili nel cosiddetto “rientro”. Nonostante l‟Uruguay sia un paese di

emigrazione, con non meno di un quarto della propria popolazione all‟estero, le

destinazioni preferite sono gli Stati Uniti e l‟Argentina, con presenze significative in

Canada e Australia.

L‟incrocio interetnico è elevato, quasi come nella vicina Argentina. È difficile trovare

delle famiglie che possano essere definite “oriunde italiane”; prevale l‟uruguaiano che

rivendica le sue radici italiane, che consistono in uno o più nonni o bisnonni. Non si

verificano differenze significative di comportamento o di cultura tra gli uruguaiani con

o senza antenati italiani.

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5.3 Il caso del Brasile di Miguel Angel García

5.3.1 Premessa

Il Brasile è stato uno dei maggiori paesi di destinazione dell‟emigrazione italiana nel

mondo, con saldi più o meno equivalenti a quelli dell‟Argentina. A differenza di

quest‟ultimo paese tuttavia le persone di origine italiano sono una minoranza nella

popolazione totale, anche se molto importante e concentrata regionalmente.

5.3.2 I precedenti storici

Non è facile dire quando è nato il Brasile, grande colonia di un piccolo paese. Forse nel

1654, quando i coloni brasiliani, abbandonati dalla metropoli, sconfiggono e cacciano

via gli olandesi, che avevano occupato Recife e le principali piantagioni di zucchero, e

che proseguono dopo la controffensiva riconquistando e governando la colonia africana

di Angola, fornitrice di schiavi. Forse nel 1808 quando, minacciata da vicino dagli

eserciti napoleonici, la Corte di Portogallo si traslada in massa a Rio de Janeiro, e fa

diventare il Brasile una paradossale colonia metropolitana. Forse nel 1820 quando il re

Dom João torna a Lisbona per reprimere la sollevazione repubblicana, e lascia al suo

figlio Dom Pedro come governatore del Brasile. Il quale, cavalcando un movimento

indipendentista che non può resistere, lancia il “Grido di Ipiranga” che fa diventare il

paese un Impero indipendente retto da una monarchia costituzionale e parlamentare.

Forse nel 1889, quando la rivoluzione repubblicana sconfigge Pedro II, e fonda il

Brasile federalista e presidenzialista di oggi (Werneck Sodré, 46).

Dietro questa lunga transizione c‟è un movimento unico di espansione territoriale del

nucleo originario, con una corrente principale verso sud e una corrente minore ma

significativa verso nordovest, verso le foce del Rio delle Amazzoni e il controllo della

conca. L‟ascesa delle colonie olandesi, inglesi e francesi nelle Antille riduceva via via i

mercati per lo zucchero del nordest brasiliano, che decadeva lentamente; la risposta

espansionistica era nel contempo fuga, conquista e permanente rinnovamento. Una

frontiera in movimento, che dava speranze agli audaci, limitava la cristalizzazione dei

rapporti sociali, rimetteva ogni volta in gioco richezza e povertà. Una miscella attrattiva

per i migranti del mondo nell‟ottocento.

Nel contempo l‟espansione brasiliana entrava nella sua penultima tappa. Decadeva il

boom dell‟oro e delle pietre preziose di Minas Gerais e quello della piantagione

schiavistica razionalizzata di Rio, e l‟asse di gravità economica si spostava verso sud,

verso gli altopiani fertili di São Paulo, le terre dei guaranì e il Rio de la Plata. Le nuove

richezze erano il caffè e gli sterminati allevamenti del sud temperato. Nel caffè la

tradizionale mano d‟opera schiava era troppo scarsa79

e poco redditizia,

nell‟allevamento di bestiame era direttamente impossibile. Il combustibile del nuovo

polo di sviluppo era l‟immigrazione, prima costituita dal flusso di centinaia di migliaia

di portoghesi analfabeti e famelici, poi dagli italiani, dai tedeschi e dal variopinto

79

Era stato vietato il traffico, e dichiarata la libertà dei figli di schiavi, anche se non ancora quella di essi

stessi.

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esercito delle migrazioni internazionali, nel quale si distacca nel novecento il flusso

giapponese (Furtado,50).

Il sud fu per il vecchio Brasile un boccone di difficile digestione, che minacciò la sua

disintegrazione e causò la caduta dell‟Impero e lo stabilimento della repubblica

federalista. L‟impero si trovò impelagato nelle interminabili guerre civili delle Province

Unite, destabilizzato dalla stessa popolazione anarchica, individualista e insofferente

all‟ordine stabilito che tanto aveva pugnato per annettersi. In particolare i “gaúchos” di

Rio Grande, ardentemente liberali e repubblicani, intrapprendenti ma anche

contrabbandieri, evasori fiscali e cospiratori. Tra questi c‟era l‟attiva colonia ligure,

legata a Montevideo e Buenos Aires da associazioni pubbliche e segrete, e da attive reti

commerciali (Halperín Donghi,20).

I liguri portarono nel sud del Brasile i primi contingenti di immigrati italiani, come la

“colonia” Nova Italia del 1836 in Santa Caterina. La fase di “immigrazione organizzata”

raggiunse tuttavia poveri risultati fino al 1879: qualcosa come 22 mila persone entrate,

con un saldo di meno di 15 mila. Le condizioni istituzionali e politiche dell‟Impero non

erano propizie; la situazione delle regioni del sud, sempre sull‟orlo della secessione, lo

erano ancora di meno. Nel 1889 fu proclamata la Repubblica: la sua prima misura fu

un‟amnistia generale per gli immigrati legali o clandestini, i quali ebbero la cittadinanza

brasiliana. Negli anni successivi fu abolito lo schiavismo e modernizzato, anche se

limitatamente, il regime delle terre.

5.3.3 La “grande migrazione” 1870-1920

Negli ultimi anni dell‟Impero si estese la produzione di caffè a São Paulo, con forti

difficoltà di mano d‟opera per la crisi dello schiavismo. L‟immigrazione di massa

risolse il problema. Tra il 1890 e il 1899, nonostante la forte crisi economica del paese

(“O Encilhamento”) entrarono nello Stato di São Paulo 735 mila immigrati stranieri,

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173

430 mila dei quali (58,5%) erano italiani.80

Molti di questi furono impiegati come

braccianti dalle grandi fattorie caffetaliere, in condizioni di lavoro spaventose. Alcuni

parteciparono a esperienze di immigrazione organizzata nella frontiera di espansione del

caffè ad ovest di São Paulo. La maggioranza riuscì ad accedere alla piccola produzione

rurale, o si stabilì nei centri urbani dello Stato. Tra il 1900 e il 1949 entrarono a São

Paulo 1,5 milioni di immigrati, dei quali 377 mila (24,3%) erano italiani (Mont‟Alegre,

48).

São Paulo è il maggiore centro di concentrazione di popolazione di origine italiana,

nonostante che la sua importanza relativa tra le origini immigratorie (38%) sia assai

inferiore a quella che ha in Santa Caterina e Rio Grande, che corrisponde al livello

argentino (60%). Nel 1920 era questa la situazione per Stati:

Tab. 5.6 Saldi migratori nel 1920

Q. %

São Paulo 398.797 71,3

Rio Grande do Sul 49.136 8,8

Minas Gerais 42.943 7,7

Espirito Santo 12.553 2,2

Santa Caterina 8.602 1,5

Rio de Janeiro 31.929 5,7

Outros 14.985 2,7

558.945 100,0

Fonte: Memorial do Imigrante de São Paulo

Come si vede una forte concentrazione nel centro-sud del paese, che riunisce il 97% del

totale. La situazione è cambiata, e lo sarà ancora di più, se si considera la popolazione di

“oriundi”, diseminata dalle migrazioni interne in tutto il paese, anche se il centro-sud è

ancora di gran lunga la regione di maggiore concentrazione (Maffei Hutter, 55).

80

I dati statistici di questo capitolo sono del Memorial do Imigrante de São Paulo, della Fondazione

Agnelli (Lucy Maffei Hutter) e di Franco Cenni.

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L‟italiana è la prima minoranza tra gli immigrati in Brasile; seguono i portoghesi, gli

spagnoli, i tedeschi, i giapponesi, i russi, gli austriaci, i siriano-libanesi, i polacchi, i

romeni, gli inglesi, i lituani, i jugoslavi, gli svizzeri, i francesi e varie altre cittadinanze.

Tab. 5.7 Immigrazione in Brasile tra il 1884 e il 1939

Nazionalità Totale %

Tedeschi 170.645 4,1

Spagnoli 581.718 13,99

Italiani 1.412.263 33,96

Giapponesi 185.799 4,49

Portoghesi 1.204.394 28,96

Siriani e turchi 98.962 2,38

Altri 504.936 12,14

Totale 4.158.717 100

Fonte: Fondazione Agnelli

Le fonti ufficiali stimano in 23 milioni le persone di origine italiano in Brasile, su una

popolazione totale di 170 milioni circa (13,5%)81

.

5.3.4 Il periodo intermedio 1920-1946

Negli anni tra le guerre europee, cessate le migrazioni italiane, aumentano quelle dei

portoghesi e, come nell‟Argentina, alcuni flussi extraeuropei, tra i quali acquisiscono

molta importanza i giapponesi, i siriani e i libanesi.

Se si fa eccezione della presenza d‟italiani nella classe alta del sud “gaúcho”

l‟immigrazione italiana nel Brasile ha cominciato dai gradini più bassi della scala

sociale, vicino ai discriminati afro-brasiliani, se non del tutto nella realtà, almeno

nell‟immaginario sociale82

. Durante la prima metà del novecento gli italiani e i loro

discendenti dovettero realizzare una faticosa ascesa sociale, di fatto esclusi dalla politica

e dalle istituzioni, controllate dagli orgogliosi “quatrocentão” (cioè i discendenti dei

81

Ci sono delle disparità tra i calcoli ufficiali di “oriundi” per il Brasile e per l‟Argentina. Quest‟ultimo

paese appare con meno persone discendenti d‟italiani in termini assoluti, anche se il saldo migratorio

d‟italiani è più alto. Non siamo riusciti ad ottenere i rispettivi metodi di calcolo: dai nostri tuttavia risulta

sopravvalutato il totale brasiliano, e sottovvalutato il totale argentino. I calcoli di discendenza di un dato

contingente di immigrati sono di grande complessità, forse i più difficili della statistica demografica. Se i

migranti s‟incrociassero solo all‟interno del gruppo (endo-incrocio) la crescita dipenderebbe solo della

fertilità delle donne del contingente in questione. Situazione ben lontana di quelle dell‟Argentina e del

Brasile, dove l‟exo-incrocio (matrimonio fuori del contingente migratorio) è molto alto. Risulta un

„effetto ventaglio‟: la discendenza è maggiore quanto più antica e tendente all‟exo-incrocio è la comunità

immigrata, allargando il ventaglio nella popolazione presente. Il fattore tempo può essere considerato

pari, e non ci sono ragioni per considerare che le donne italiane e/o non italiane sposate con italiani o con

discendenti d‟italiani siano state più fertili in Brasile che in Argentina. Se dobbiamo rischiare delle stime

senza una ricerca specifica, possiamo ipotizzare tra 20 e 22 milioni di discendenti d‟italiani in Argentina

(su 36 milioni di abitanti), e tra 15 e 18 nel Brasile (su 170 milioni). Forse nelle stime ufficiali hanno

pesato considerazioni diplomatiche e di equilibri interni del Cgie e dei Comites. 82

Il «Jornal do Comercio» di Rio de Janeiro dell'11 giugno 1874 scriveva: “il colono non ha altra scelta

che essere il servo del proprietario e l'immigrante europeo si distingue dagli schiavi solo per il colore

della pelle”.

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brasiliani del 400 o sedicenti tali, perlopiù portoghesi e olandesi). La crescita

dell‟influenza del fascismo nella comunità italiana negli anni 30, e l‟entrata dei

brasiliani in guerra dalla parte degli alleati83

interruppero questo processo, molti italiani

furono perfino internati, altri persero i loro beni (Vanni, 51).

Nella società civile paulista tuttavia si producevano dei cambiamenti che sarebbero

emersi nel periodo successivo; l‟industrializzazione sostitutiva delle importazioni creava

ampi spazi di opportunità per gli immigrati intrapprendenti. Molti italiani e discendenti

di italiani riuscirono allora ad iniziare piccole attività industriali, artigianali e

commerciali, che crebbero velocemente nell‟enorme mercato interno brasiliano.84

Dietro di loro arrivarono migliaia di italiani e discendenti di italiani (frequentemente

incrociati con persone di altri origini migratori, e anche con nativi brasiliani migrati dal

centro-nord) che emigravano dalle zone rurali verso i nuovi centri

dell‟industrializzazione, e che a poco avrebbero costituito l‟ossatura di una nuova classe

operaia (Mont‟Alegre, 48).

Nel Brasile il bisogno di manodopera dell‟industria e i servizi urbani non è stato coperto

da una nuova immigrazione latinoamericana, come in Argentina; c‟era un‟immensa

riserva di manodopera nel nordest. La migrazione verso le grandi città e verso i distretti

industriali è stata una migrazione interna85

.

Tab. 5.8 Migranti nel Brasile (2000)

Migliaia persone %

Migranti internazionali 684 0,40

Migranti interni 15.534 9,14

Popolazione totale 169.873 100,00

Fonte: censimento brasiliano del 2000

5.3.5 Consolidamento e integrazione della comunità d'origine italiana

Negli anni 40 e 50 il flusso migratorio di italiani verso il sud America si è concentrato

nell‟Argentina, e poi nel Venezuela. L‟emigrazione verso il Brasile è stata poco

significativa se comparata sia internazionalmente che in termini storici brasiliani.

Tab. 5.9 Immigrazione in Brasile, per nazionalità, suddivisa in lustri

Nazionalità 1945-1949 1950-1954 1955-1959

Tedeschi 5.188 12.204 4.633

Spagnoli 4.092 53.357 38.819

Italiani 15.312 59.785 31.263 Portoghesi 26.268 123.082 96.811

Giapponesi 12 5.447 28.819

Altri 29.552 84.851 47.599

Fonte: Brasil: 500 anos de povoamento. Rio de janeiro: IBGE, 2000

Apêndice: Estatísticas de 500 anos de povoamento. p. 226

83

I brasiliani parteciparono ai combattimenti in Italia, a Montecassino e negli Appennini. 84

Nell‟industria alimentare e dell‟abbigliamento si sviluppò una classe media imprenditoriale in una rete

di piccole aziende, alcune delle quali riuscirono a sfondare. Nella metalmeccanica le nuove imprese si

svilupparono intorno ai grandi stabilimenti, come “indotto” di fornitori di parti e di servizi. 85

L‟attuale presidente del Brasile, Lula da Silva, è un immigrato nordestino a São Paulo.

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176

La fermata del flusso migratorio ha favorito l‟integrazione, l‟ascesa sociale e

l‟immagine della comunità d‟origine italiana, costituita dagli anni 80 quasi

esclusivamente da italo-brasiliani, cioè da persone non nate in Italia86

(Trento, 53).

Negli anni 60 si verifica l‟entrata masiccia di capitali italiani in quasi tutti i comparti

industriali, in particolare nella metalmeccanica.

Apparve un nuovo tipo di residente straniero italiano: il dirigente o tecnico aziendale,

che vive transitoriamente nel Brasile, come tappa della propria carriera in Italia.

La presenza delle marche italiane contribuisce a migliorare ancora l‟immagine della

comunità; “italiano” non è più da tempo sinonimo di povero contadino analfabeta,

significa invece design, modernità, tecnologia.

Come nell‟Argentina si verifica simultaneamente un allargamento e diluzione

dell‟italianità: ci sono sempre più brasiliani che possono rivendicare antenati italiani, e

nel contempo questi antenati sono di meno e più lontani nel tempo per i singoli

individui.

5.3.6 Composizione regionale dell‟emigrazione italiana nel Brasile

L‟emigrazione italiana è originaria prevalentemente da regioni settentrionali, il Veneto

in primo luogo.

Considerate le singole regioni tuttavia segue alla prima una regione meridionale, la

Campania, e ancora una seconda regione meridionale, la Calabria (La Cava, 52).

86

Bisogna ricordare che l‟emigrazione italiana fu interrotta dagli anni 20 alla seconda guerra, e che dopo,

nel caso del Brasile, riprese solo in piccola scala. Negli anni 80 le persone nate in Italia erano ridotte ad

un piccolo contingente di anziani sopravvisuti, più i centomila immigrati nel dopoguerra, neanche loro

tanto giovani…

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Tab. 5.10 Emigrazione italiana nel Brasile per regioni (1870-1959)

Aggregazione regionale %

Nord 53,3

Centro 14,6

Sud 32,1

100,0

Regione %

Veneto 26,6

Campania 12,1

Calabria 8,2

Lombardia 7,7

Toscana 5,9

Friuli-venezia giulia 5,8

Trentino-alto adige 5,3

Abruzzo 5,0

Emilia-romagna 4,3

Basilicata 3,8

Sicilia 3,2

Piemonte 2,8

Puglia 2,5

Marche 1,8

Molise 1,8

Lazio 1,1

Umbria 0,8

Liguria 0,7

Sardegna 0,4

Val d'aosta 0,0

Fonte: Franco Cenni

Si può osservare che, tranne la Val d‟Aosta, sono presenti tutte le regioni italiane, e che

la regione che ha iniziato l‟emigrazione nel Brasile, la Liguria, è una delle meno

rappresentate. Questo non significa tuttavia che sia meno presente nell‟ascendenza degli

attuali italo-brasiliani; la propagazione demografica di un certo origine nazionale o

regionale dipende, non solo dalla quantità iniziale, ma anche dalla propensione all‟exo-

incrocio, dalla quantità media di discendenti e dal tempo trascorso (quantità di

generazioni). I liguri hanno, mettiamo sui campani, tra 50 e 90 anni di vantaggio, e tra le

due e le quattro generazioni in più (García, 08).

5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel Brasile

Le differenze tecniche tra la coltivazione del caffè e le colture cerealicole proprie delle

Pampas argentine spiegano la minore importanza di una figura, lo stagionale

transoceanico (“golondrina”), che è stata di grande importanza nell‟emigrazione verso

l‟Argentina dalle regioni meridionali, e che è quasi assente nel Brasile.

I 180 mila campani emigrati nel Brasile (seconda regione italiana per contributo) non

hanno tuttavia avuto una vita più facile; hanno dovuto partire da un bracciantato

squalificato e da forme di mezzadria molto ineguali, nelle “fazendas” dove hanno

sostituito gli schiavi afrobrasiliani, e nelle fattorie di altri italiani arrivati prima.

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Tra le due guerre i campani e i loro discendenti si sono spostati masicciamente verso i

centri urbani, dove alcuni si sono ritagliati buone posizioni nel commercio e

nell‟industria, e altri si sono inseriti nel ceto impiegatizio e nella classe operaia. Oggi tra

i discendenti di campani è alto il livello di scolarità, e c‟è una proporzione soddisfacente

di laureati.

Ci sono nove associazioni di discendenti di campani nel Brasile, cinque delle quali nella

città di São Paulo, due a Belo Horizonte, una a Curitiba (Parana) e una a Rio de Janeiro.

5.3.8 Gli italiani, italo-brasiliani e mercato del lavoro

Sia la popolazione economicamente attiva che la mano d‟opera impiegata possono

essere informazioni ingannevoli nel Brasile. Il paese presenta una disparità geografica

dello sviluppo molto accentuata, molto di più di quella italiana, già notevole. Un sud

industriale, tecnologicamente evoluto e ricco contrasta con un nord povero, colpito dalla

disoccupazione e la fame (Ferreira Lima, 58).

Tab. 5.11 Brasile, popolazione economicamente attiva nel 1990

87

Settore Persone %

Agrario 14.180.159 22,8

Industria manufatturiera 9.410.712 15,2

Costruzioni 3.823.154 6,2

Altre attività industriali 860.453 1,4

Commercio 7.975.670 12,8

Servizi alle persone 11.136.869 17,9

Servizi alle aziende 2.023.389 3,3

Area Sociale 5.417.210 8,7

Trasporti e comunicazioni 2.439.920 3,9

Amministrazione pubblica 3.117.005 5

Altre attività 1.715.598 2,8

Totale 62.100.499 100,0 Censimento brasiliano del 1990

A questo contrasto geografico si somma un‟accentuata polarizzazione della ricchezza e

la povertà nella stessa regione ricca del sud. Nelle grandi città come São Paulo e Rio de

Janeiro non manca una corposa popolazione marginata, i “favelados”.

Queste caratteristiche limitano la crescita del mercato interno, per cui risultano in un

limite al notevole progresso del paese, che l‟ha fatto diventare una delle maggiori

economie industriali. Limitano inoltre tante altre cose, dalla democrazia e l‟ordine

pubblico alla qualità de la mano d‟opera disponibile.88

Un buon indicatore di

quest‟ultimo limite può essere il livello scolastico della popolazione lavoratrice.

Si osservi che nel breve periodo della tabella la PEA senza istruzione e di livello

primario è passata da tre quarti a due terzi del totale, e che quella di livello secondario

87

La popolazione economicamente attiva nel 2001 era di 84.725.701 persone. 88

Sia il precedente governo di Cardoso, che l‟attuale di Da Silva mettono la riduzione di questo divario

storico tra i loro principali obiettivi. Il capitalismo brasiliano ha bisogno di riunificare sia il mercato di

consumo che la forza lavoro nazionale, per contare come un paese di 180 milioni di persone, e no come

uno di 70-80.

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incompleto e completo si è radoppiata.89

La media è nonostante ciò molto più bassa,

non solo rispetto dei paesi dell‟Ocse, ma anche rispetto dei partners del Mercosur,

l‟Argentina e l‟Uruguay.

Tab. 5.12 Popolazione economicamente attiva e dipendenti occupati, per livello scolastico

1992 % 2001 %

PEA 72.959.053 100,0 84.725.701 100,0

Senza istruzione 7.391.488 10,1 5.244.888 6,2

Livello primario completo e no 48.074.703 65,9 47.609.391 56,2

Livello medio incompleto 13.675.070 18,7 26.070.215 30,8

Livello medio completo 3.672.903 5,0 5.516.927 6,5

Laurea o dottorato 144.888 0,2 284.281 0,3

Occupati 68.189.462 100,0 76.801.992 100,0

Senza istruzione 7.174.075 10,5 5.008.747 6,5

Livello primario completo e no 44.834.899 65,8 43.337.205 56,4

Livello medio incompleto 12.458.522 18,3 22.861.581 29,8

Livello medio completo 3.578.843 5,2 5.316.155 6,9

Laurea o dottorato 143.123 0,2 278.305 0,4 Fuente: Pesquisa Nacional por Amostra de Domicílios - PNAD (micro datos) del Instituto Brasileiro de

Geografia e Estatística (IBGE).

La situazione cambia significativamente se si considera la divisione geografica del

paese. Il centro-sud e il sud si avvicinano notevolmente all‟Argentina, e il nordest si

allontana; un paese a due scalini dunque90

.

Gli immigrati europei, e tra di essi gli italiani, possono vantarsi dalla superiorità del

centro-sud rispetto del nord, e attribuirla alla loro influenza culturale e al loro lavoro;

ma avrebbero ragione solo in parte. Se loro si sono stabiliti nel sud e no nel nord è

precisamente perché era la regione più dinamica del paese già prima del loro arrivo.

Abbiamo dunque una popolazione d‟origine italiana presente nella sua quasi totalità

nella regione brasiliana di maggiore sviluppo, e di conseguenza nelle frangie più

favorite del mercato del lavoro. Nel centro-sud e sud gli italo-brasiliani si ritrovano in

tutti i ceti e le condizioni sociali, dall‟alta borghesia alla classe operaia e i contadini

poveri. Il flusso di migranti interni dal nordest tende tuttavia a diluire la presenza degli

italo-brasiliani nelle frange basse del mercato del lavoro, per quanto la frequenza

dell‟incrocio permette distinguerli in quanto tali.

5.3.9 Gli italo-brasiliani e l‟Italia

Può essere utile la metafora della cipolla (che abbiamo utilizzato nel caso argentino); il

nucleo interno della comunità d‟origine italiana nel Brasile è costituito da qualcosa

come 80 mila persone nate in Italia e un milione e mezzo di italo-brasiliani consapevoli

delle loro origini. Intorno a loro c‟è uno strato di due o tre milioni di persone che sanno

di avere degli antenati italiani senza dare maggiore importanza al fatto, e un‟imprecisata

89

Se si prende un periodo più ampio (diciamo un terzo di secolo) il balzo drammatico è tra “senza

istruzione” e “livello primario”. 90

Gli europei sono abituati ad associare “nord” con freddo, ricchezza, sviluppo, e “sud” con caldo,

povertà, sottosviluppo. Conviene ricordare tuttavia che il Brasile, l‟Argentina e l‟Uruguay si trovano

dall‟altra parte della linea equatoriale, e che là “nord” si associa con caldo, povertà e sottosviluppo, e

“sud” con freddo, ricchezza e sviluppo. Niente di più relativo che i punti cardinali.

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quantità, forse di 10 o 12 milioni di persone che hanno degli antenati italiani senza

saperlo o senza considerare ciò in nessun modo significativo91

(García, 08).

Questo metodo di analisi può sembrare sbrigativo, e in fondo evanescente, perché si

definisce la comunità di origine sulla base di un fatto di coscienza, di una

consapevolezza. Ma non sembra esserci una diversa strada; nessuno può considerare

seriamente come “italiani” o italo-brasiliani i 18 o 23 milioni di brasiliani che hanno

uno o più antenati italiani. L‟osservazione empirica ci mostra che l‟area dell‟italianità

culturale, che può essere considerata la sfera di influenza potenziale delle associazioni

di comunità, non supera i due o tre milioni di persone, e con grandi differenze interne.

C‟è il filone della tradizione, che si ritrova più in linee familiari che campanilistiche;

famiglie che fondano la loro identità e coesione negli origini italiani. Questo filone è più

presente nelle classi alte che in quelle basse, e nelle campagne più che nelle città.

L‟identità custodita è sovente più veneta, campana, lombarda o calabra che italiana; non

di rado si limita ad una memoria condivisa del traumatico atto migratorio dell‟antenato

(che contralta soddisfattoriamente con l‟attuale situazione agiata), senza tramandare né

la lingua né abitudini distintive.

C‟è il filone della “riscoperta delle radici”, del quale sono protagonisti giovani

professionisti, intellettuali e artisti in forma prevalente. I soggetti hanno un interesse

attivo per l‟Italia e la sua cultura, imparano la lingua, se possono viaggiano come turisti,

tentano di ritrovare eventuali parenti nella peninsola, prendono la doppia cittadinanza.

Alcuni di loro raccolgono gli scampoli di memoria tramandati dalle famiglie, e tentano

di ricucire narrazioni a volte bellissime92

.

C‟è infine il filone della doppia identità di scambio; i soggetti utilizzano la presenza di

antenati italiani nel proprio albero genealogico per mettersi come agenti di scambio tra

il Brasile e l‟Italia. Sono operatori del commercio e dei servizi, quadri delle imprese

industriali, piccoli imprenditori. Imparano l‟italiano, stabiliscono rapporti di lavoro con

l‟Italia, viaggiano (García, 08).

È poco presente invece il filone dell‟emigrazione, importante nel caso dell‟Uruguay,

relativamente importante nel caso dell‟Argentina. I brasiliani (di origine italiana e no)

sono molto orgogliosi della loro nazione, e sono sicuri che c‟è e ci sarà ancora di più

spazio per la loro intraprendenza. Non hanno sofferto una “crisi di futuro”, come gli

uruguaiani e gli argentini. Sono al limite più interessati a borse di studio o viaggi di

conoscenza che a trasferimenti definitivi. Questo non vuol dire che non ci siano

emigranti brasiliani; ci sono emigranti negli altri paesi del Mercosur, compensati dagli

immigrati dagli stessi paesi, come parte del fenomeno di libera circolazione che gli

italiani conoscono nella Comunità Europea. Ci sono gli ultimi debordamenti di

emigranti agricoli, nelle frontiere con il Paraguay e con l‟Uruguay, anche se i tempi

dell‟espansionismo brasiliano sono finiti. Ci sono infine gli emigranti di qualità,

scienziati, artisti e intellettuali che devono cercare nei paesi centrali (non diversamente

degli italiani) quel che non trovano nel paese proprio.

91

Le osservazioni di questo capitolo e quello successivo derivano dalla ricerca diretta da Miguel Angel

García nel 2002 per conto del Cespi, Iref e Siares, tra giovani italo-brasiliani di São Paulo (“Indagine sui

giovani italiani all‟estero: Argentina e Brasile”, Miguel Angel García, Cespi, Iref e Siares, Roma 2002). 92

La riscoperta delle radici è un movimento culturale brasiliano generale, che coinvolge, non solo i

discendenti di italiani, ma anche quelli di tedeschi, giapponesi, spagnoli, ecc.

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5.3.10 L'associazionismo della comunità d'origine italiana nel Brasile

L‟associazionismo delle comunità di origine nazionale è molto antico a São Paulo e nel

sud del paese, viene dalla metà del secolo XIX. Per la sua genesi, evoluzione e

contraddizioni interne è molto simile a quelle dell‟Argentina, e ci rimettiamo al capitolo

corrispondente.

Un‟osservazione curiosa che emerge della ricerca del 200293

è che, mentre in Italia si

vedono i Comites e le Associazioni all‟Estero come complementari del sistema

diplomatico-consolare, dall‟ottica degli italo-brasiliani appaiono come contrari, e in un

certo senso contropparti dello Stato italiano. Dalla loro ottica le associazioni sono una

loro iniziativa per far fronte all‟abbandono al quale sono stati condannati dall‟Italia.

Il rapporto tra gli emigrati e i loro discendenti con lo Stato italiano ha una lunghissima

storia di disappori e di veri e propri scontri. Dall‟interventismo rivoluzionario del secolo

XIX da parte degli immigrati, al quale gli statarelli italiani, e poi la monarchia,

rispondevano con poliziotti e spie, al velato disprezzo del regime fascista (del quale gli

emigranti erano in maggioranza simpatizzanti), all‟assenteismo distratto degli anni

successivi.

Questa storia ha sviluppato una sfiducia fastidiata verso lo Stato italiano e il sistema

consolare, rinforzato dalle defficienze organizzative e di formazione del personale di cui

esso indubbiamente soffre. Riprendiamo un paio di risposte all‟inchiesta del 2002

(García, 08).

Intervistati

L. F. P. (São Paulo)

“… credo sia una mancanza di rispetto da parte loro, perché noi tutti, che abbiamo una

cartella al consolato, loro hanno il nostro indirizzo, potrebbero inviare ogni tanto leggi,

misure, dritte, anche indicazioni culturali. Il problema è che siamo a San Paolo, con un

consolato estremamente segregazionista, in cui ti ricevono malissimo, con una assurda

mancanza di rispetto, con una prepotenza immane, ed è complicato. E questo tipo di

atteggiamento certamente non aggrega la comunità. È un peccato, perché, guarda, tu

devi fare… ad esempio, devi fare un documento, devi andare lì e ti trattano male. In

casa, non ricevi nulla, nessuna informazione, neanche culturale. Che so, verrà tal

cantante, tal pittore, un‟esposizione tale. No, non esiste nulla, nessun incentivo a portare

una mostra, al Masp, alla Pinacoteca, a portare qualcosa di italiano. Ci sono francesi,

spagnoli, portoghesi. E d‟italiani, nulla. E quando dico nulla, è nulla. Sono in Brasile da

4 anni e mezzo, non sono andato ad un‟unica esposizione di un maestro di pittura

italiano. Un concerto? Neanche. È una cosa molto strana.”

G.L. (São Paulo)

“Non ne so molto. Ho la vaga impressione che non ci sia nessun tipo di politica… come

dire sono un lettore attento, sono una persona abbastanza informata anche per lavoro e

non conosco programmi specifici su questo. Forse anche, in Argentina io ho sentito

comunque che in situazione particolarmente di crisi, appunto, quando c‟e gente di

origine italiana che sta molto male economicamente, ci sono delle politiche d‟interventi.

Anche qui, i patronati, ogni tanto su casi specifici degli anziani, su pensioni,

intervengono, danno un aiuto e così via però non essendo una situazione di grave

calamità, non conosco interventi specifici da parte del governo italiano.

93

Miguel Angel García, op. cit.

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Per le imprese è un‟altra questione. La rappresentanza diplomatica e consolare… la mia

impressione è la peggiore possibile, perché, per esempio, anche come italiano, se hai

bisogno di qualcosa in un consolato… soprattutto dal consolato di San Paolo, che è

quello che serve più gente, milioni di persone qui, è un dramma. File chilometriche, non

puoi prendere un appuntamento, ti trattano abbastanza male, cioè, non è un‟esperienza

piacevole averci a che fare.

E per quanto riguarda le imprese italiane, occupandomi io per lavoro di cose

economiche, posso dire che non c‟è proprio paragone, cioè quanto al tipo di appoggio

anche economico, appoggio politico e diplomatico che danno alle proprie imprese, non

so, tutti i diplomatici americani, o francesi o inglesi o tedeschi e il poco che viene fatto

qui dagli italiani. Io come dire, lì sì è un‟azione di lobby e di pressione molto più forte

sarebbe assolutamente necessaria, e devo dire che.. ecco, non si può generalizzare, qui

ogni tanto ci sono ottimi quadri diplomatici, però la media, quelli con cui ho avuto a che

fare per lavoro, non mi hanno mai entusiasmato. Sì, qualcuno, ogni tanto arrivi e dici

questo è bravo, però la media è tutt‟altro che entusiasmante. Parli con consoli politici o

economici di consolati americani e francesi, è tutt‟altra cosa…”

A São Paulo ci sono 180 associazioni di comunità d‟origine italiana, quasi due terzi di

quelle che esistono in tutto il paese. È una rete molto ricca, accanto alla quale ci sono le

scuole italiane, i patronati, i giornali in italiano (come “La settimana del Fanfulla”).

Sono rappresentate tutte le regioni italiane, oltre alle antiche associazioni non di

regione. Altre istituzioni (come l‟ospedale italiano) hanno perso la loro condizione di

servizio esclusivo della comunità italiana, come logica conseguenza dell‟integrazione

degli italiani nella società generale, e sono ormai entità del privato sociale (García, 08).

5.3.11 La situazione presente

Nel Brasile le persone di origine italiano, a differenza dell‟Argentina, ne sono

massiciamente consapevoli, subiscono le conseguenze (come nei periodi “neri” di inizi

di secolo e della seconda guerra mondiale) o godono dei vantaggi (come nel presente,

per il prestigio dell‟Italia). Questo accade sostanzialmente perché la comunità italiana è

in Brasile una minoranza, anche se una minoranza di grandi dimensioni, e perché

l‟incrocio interetnico è stato minore, sovente riservato ad altre origini nazionali europee.

La separazione non arriva alla formazione di ghetti, di quartieri tipicamente italiani94

sul

profilo delle Little Italy statounitensi. Gli italo-brasiliani sono pienamente integrati,

orgogliosi della loro condizione di brasiliani, liberi di ogni forma di discriminazione

fondata sull‟identità etnica. Ci sono degli italo-brasiliani in tutte le professioni e in tutti i

livelli dello Stato e delle istituzioni.

L‟italianità appare come un attributo secondario, e tuttavia importante e sentito; più un

modo di essere brasiliano che un‟identità separata. È vissuta in modi diversi a seconda

della classe sociale, della famiglia e del livello culturale. Per alcuni l‟essere italiano (e

più ancora, l‟essere veneto, calabrese, campano o friuliano) è qualcosa che rimanda ad

una dimensione domestica, alla famiglia e gli affetti. Per altri è un‟emozionante ricerca

delle radici, in una dimensione prevalentemente culturale. Per altri ancora è condizione

94

I quartieri di São Paulo che mi sono stati segnalati come tali sono in genere quartieri di classe media,

dove ci sono molti discendenti di italiani, ma anche di tedeschi, giapponesi, portoghesi e tante altre

nazionalità. Nota di M.A.G.

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di una strategia di inserimento professionale, nelle aziende italiane, nel commercio

estero, ecc.

Il mondo delle associazioni della comunità italiana riflette questa complessità. Ci sono

infine i “nuovi immigrati” che dall‟Italia scoprono il Brasile come terra di opportunità;

non è più come nei tempi dell‟immigrazione di massa, i nuovi immigrati sono un‟élite

di tecnici, intellettuali e artisti (García, 08).

Gli italo-brasiliani non desiderano “rientrare” in Italia, vedono invece con molto

interesse le borse di studio, gli stages e qualsiasi altra forma di residenza temporanea

che permetta loro conoscere un paese che giudicano affascinante.

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5.4 Il caso della Svizzera di Stefania Pieri, Renato D’Arca e Francesco Carchedi

5.4.1. La Svizzera da paese di emigrazione a paese di immigrazione

La Svizzera – come del resto altri paesi dell‟Europa settentrionale - prima di diventare

paese di immigrazione straniera è stato per un determinato periodo paese di emigrazione

e per un altro – in una fase successiva – sia paese di emigrazione che di immigrazione.

Una delle forme storicamente prevalenti di emigrazione dalla Svizzera è stata quella –

piuttosto particolare – di esportazione temporanea di soldati mercenari95

; soldati che

per guadagnarsi da vivere lasciavano i rispettivi cantoni ed accettavano “contratti di

lavoro” (mirati su specifici obiettivi, diremmo oggi) da potenze straniere, perlopiù

europee96

. In epoca relativamente più recente – cessata l‟esperienza di vendere la

propria forza fisica e la propria destrezza militare – dalla Svizzera si formano per tutta

la seconda metà dell‟Ottocento flussi migratori a carattere definitivo in direzione delle

Americhe (sia settentrionale che meridionale).

Contemporaneamente, ma soprattutto nell‟ultimo ventennio dell‟Ottocento, anche in

concomitanza di flussi in uscita verso le Americhe, iniziano a registrarsi, al contrario,

flussi di immigrati stranieri, provenienti soprattutto dai paesi limitrofi: dalla Germania,

dalla Francia e in ultimo dall‟Italia. Queste popolazioni si insediamo in aree geografico-

territoriali che potremmo considerare come “spazi naturali”, date le forti similitudini

linguistiche e culturali che le accumunava. Come, ad esempio, il Ticino che anche sotto

il profilo economico fa parte di un sistema produttivo e commerciale che si estende

verso il Piemonte da un lato e verso la Lombardia dall‟altro; oppure l‟area territoriale di

San Gallo, di Basilea e di Coira che si affaccia verso la regione tedesca del Baden-

Wurttemberg o quella di Ginevra e Losanna dirimpettaie dell‟area lionese97

.

95

Questo fenomeno è stato molto significativo al punto che questi soldati – una volta lontani dal loro

cantone e dalla loro casa – tendevano ad ammalarsi. Un giovane medico alsaziano di nome Johannes

Hofer – Come ricorda Maurizio Bettini - presentò nel giugno 1688 a Basilea una “Dissertatio medica de

nostalgia”: un testo ordinato, in cui la spiegazione dell‟essenza di questa malattia segue la dimostrazione

della sua esistenza, la descrizione dei soggetti che più vi sono esposti, l‟individuazione della parte colpita,

quella delle probabili cause che determinano l‟insorgere del male, e via di seguito. (…) La ragione dello

studio di Hofer, e del conio della parola scientifica “nostalgia”, stava nel fatto che gli svizzeri, sembra

più di qualsiasi altro popolo, soffrivano, appunto, di nostalgia. Questa era la malattia che affliggeva i

giovani emigrati dalle valli … e soprattutto i soldati che tradizionalmente andavano a servire per l‟Europa

e soprattutto Francia e Belgio. Questi ultimi erano dispersi in guarnigioni remote, in reggimenti sempre

più lontani dalle loro terre di origine e quindi si ammalavano” con tutte le conseguenze del caso: “febbri

ardenti da nostalgia”, “diserzioni” e inefficienza durante la battaglia; il ritorno a casa diventava una “idea

fissa che spingeva il soldato a rientare in patria o a morire”. Cfr. Maurizio Bettini, Introduzione.

Nostalgici e indiscreti, in M. Bettini (a cura di), Lo straniero, ovvero l‟identità culturale a confronto,

Laterza, Bari, 1992; 96

Come è noto ancora oggi la Guardia pontificia – ossia l‟esercito della Città del Vaticano - è

scrupolosamente di nazionalità svizzera. 97

Sono gli operai a migliaia che provengono dalla regione del Voralberg, della riva tedesca del Reno e

della Savoia costretti, per trovare lavoro, ad emigrare nei centri in fase di espansione della Svizzera

(Zurigo, Basilea e Ginevra), subito seguiti dagli operai italiani, numericamente ancora più significativi.

Cfr. Edo Paglia, Le migrazioni: problema strutturale del sistema capitalista. L‟immigrazione in Svizzera

dal 1963 ad oggi, in AA.VV., L‟immigrazione in Svizzera, Edizioni Sapere, Milano - Roma, 1975, p. 71;

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Questi flussi di immigranti hanno ripopolato una buona parte dei cantoni a più forte

vocazione emigratoria. Secondo S. Soldini gli stranieri in Svizzera ammontavano nel

1850 al 3% del totale della popolazione autoctona per passare agli anni che precedettero

la prima guerra mondiale a circa il 13%; ossia ad una sua quadruplicazione nel giro di

circa sessanta anni. Infatti, il saldo passivo che si registra tra gli anni „50 e la fine degli

anni ‟80 - ammontante a circa 177.000 unità” - viene compensato da un saldo attivo che

matura tra gli anni ‟90 e il 1914 della stessa entità numerica98

.

In sostanza nei decenni a cavallo tra l‟Ottocento e il Novecento la Confederazione

Svizzera recupera, in termini numerici, le componenti di popolazione emigrata verso le

Americhe mediante l‟afflusso di componenti di popolazione immigrata. Sempre Soldini

è del parere che la carenza di mano d‟opera nei grandi centri industriali della Svizzera

era dovuta al fatto che all‟epoca non si era verificato con sufficiente significatività il

fenomeno dell‟urbanizzazione dalla campagne alle città industriali. Il motivo di tale

“resistenza” era causato da tre ordini di problemi:

a. da un lato, alla diffidenza dei contadini svizzeri verso il lavoro industriale e

all‟insopportabilità delle trasformazioni che questo avrebbe comportato

sostanzialmente alle loro abitudini culturali e ai corrispondenti stili di vita;

b. dall‟altro, il contadino svizzero preferiva emigrare all‟estero e ricollocarsi nel

settore agricolo mantenendo la sua cultura e il suo stile di vita e non cambiare

quindi attività lavorativa anche se in patria;

c. infine, al basso tasso di natalità che caratterizzava gran parte dei cantoni alla fine

dell‟Ottocento e quindi al conseguente restringimento della piramide delle classi

di età99

; si determinava così una struttura anagrafica sfavorevole alle esigenze

dello sviluppo industriale, per cui l‟immigrazione di mano d‟opera straniera

diventava fisiologicamente necessaria.

La mano d‟opera straniera – quindi - entrava in Svizzera in base alle reali possibilità di

trovare lavoro, nel senso che fino a dopo il primo conflitti mondiale c‟era nella sostanza

la possibilità entrare e muoversi liberamente. Vigeva, in altre parole, la libertà di

circolazione: sia per entrare nella Confederazione e sia per muoversi in essa100

. Questa

libertà era fortemente funzionale ai ritmi di sviluppo del sistema produttivo e pertanto

qualsiasi tentativo di regolamentazione all‟epoca andava ad infrangersi con la volontà

contraria dell‟intero ceto industriale. Ma questa libertà di ingresso e di movimento,

tuttavia, creava dei problemi seri alle organizzazioni sindacali e al potere contrattuale

98

Sandro Soldini, L‟immigrazione di mano d‟opera estera in Svizzera dalle origini alla seconda guerra

mondiale: dalla libera circolazione all‟immigrazione controllata, in AA.VV, L‟immigrazione … cit., p.20; 99

La Svizzera nella seconda metà dell‟Ottocento si collocava – in una graduatoria sui tassi di natalità tra

15 paesi – subito dopo la Francia, con 29,9 nati su 1000 abitanti (la Francia ne aveva 26,3) rispetto ai 33 e

ai 40 che registravano i paesi limitrofi. Questa situazione non è migliorata e si è protratta fino alla fine

degli anni ‟40 del Novecento. Cfr. S. Soldini, cit., p. 23; 100

Serrati –spiegando le difficoltà che incontravano gli attivisti socialisti nell‟organizzare i lavoratori

italiani in Svizzera – affermava che ciò dipendeva “dalle condizioni del mercato del lavoro, per cui in un

dato centro confluisce o meno la massa migrante. Ad esempio, nel luogo x abbonda il lavoro, accorrono

gli italiani, la colonia diventa numerosa, le condizioni di lavoro sono buone … poi il lavoro diminuisce, la

massa emigrante si disperde di nuovo … “ e si aggrega da un‟altra parte e così via”. Cfr. Anna Rosada,

Serrati nell‟emigrazione 1899-1911, Editori riuniti, Roma, 1972, p.43;

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che esse esprimevano nel salvaguardare le aspettative di miglioramento delle condizioni

di vita della popolazione autoctona.

Non di rado le componenti immigrate – soprattutto quelle italiane – venivano accusate

di crumiraggio e di arretratezza nella comprensione delle dinamiche sindacali.

Lavoravano molto e in maniera intensiva. Così De Michelis descriveva l‟operaio

italiano (soprannominato “il granito”): “Esso va al caffè il sabato e la domenica; si

corica presto ed al mattino è il primo a giungere al cantiere. E‟ frugale e non ha bisogno

di lunga digestione; non perde tempo e non rallenta la sua energia produttiva; non teme

la pioggia, le intemperie, non rifiuta il lavoro festivo, né quello notturno, perché l‟unica

sua preoccupazione è quella di aumentare il proprio guadagno”101

.

5.4.2. Profilo della presenza italiana e campana in Svizzera

fino alle “politiche di stop”

Gli albori dell‟emigrazione italiana

All‟interno di questo quadro generale, l‟emigrazione italiana in Svizzera prende

consistenza verso la metà dell‟Ottocento. Prima di allora erano presenti nei diversi

Cantoni della Confederazione solo piccoli gruppi di fuoriusciti dalla penisola alimentati

principalmente da due correnti migratorie: i protestanti, provenienti dall‟Italia

settentrionale, il cui arrivo è databile attorno al XVI secolo, e gli esuli di epoca

napoleonica e risorgimentale, che affluivano in Svizzera a causa del fallimento dei

movimenti repubblicani e indipendentisti102

.

Le prime tracce di emigrazione economica verso la Svizzera sono documentabili negli

anni Cinquanta del XIX secolo. Gruppi di lavoratori si trasferivano dall‟Italia centro-

settentrionale sull‟attrazione che determinava il processo di industrializzazione della

Confederazione e la vantaggiosa remunerazione che da tale processo ne conseguiva. I

flussi aumentarono in misura considerevole nel corso dei decenni: nel 1860 gli italiani

ammontavano a 10.000 unità per passare a 117.059 nel 1900; nel primo decennio del

secolo scorso raddoppiano, arrivando così a 202.809 presenze. Il settore di maggiore

occupazione degli emigranti italiani era quello edile, in quanto l‟ampliamento e

l‟ammodernamento degli opifici industriali e la costruzione di infrastrutture (in primis la

rete ferroviaria e stradale) e delle abitazioni dei lavoratori stessi che si dirigevano verso

le aree industriali era piuttosto dinamico e significativo. Questi emigranti, tra l‟altro,

dettero un contributo fondamentale alla costruzione dei grandi trafori alpini, come il

Sempione e il Gottardo.

In quel periodo storico la Svizzera – oltre all‟accoglienza di emigranti italiani - riceveva

immigrati anche da altri paesi dell‟Europa mediterranea e transalpina (dalla vicina

Francia meridionale e dalla vicina Germania). Negli anni Venti – dopo circa un

ventennio di immigrazione piuttosto sostenuta - la percentuale di stranieri in Svizzera

raggiunge la quota, molto elevata, del 15,4% rispetto alla popolazione totale. Questo

periodo, forse il primo di rilevante immigrazione, è caratterizzato ancora – dal punto di

101

Cit. in nota da A. Rosada, Serrati …, cit. p.33; 102

Si veda Gatani, I rapporti italo-svizzeri attraverso i secoli, Messina, 1988-97

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vista politico-amministrativo – per l‟assenza di un quadro normativo sistematico

finalizzato a regolamentare i flussi di ingresso e di mobilità geografica interna.

Anche se al contempo si tratta del periodo in cui la riflessione delle autorità elvetiche

prende in considerazione il fatto di coniugare – in maniera diretta – il permesso di

soggiorno con il permesso di lavoro. Tant‟è che nel 1925 viene introdotto nella

giurisprudenza elvetica l‟articolo 69ter della Costituzione, che prevedeva - da parte del

parlamento - il diritto di legiferare in materia di ingresso, soggiorno, domicilio e

fuoriuscita degli stranieri. Avvalendosi di questa normativa, la Confederazione potette

emanare una serie di leggi federali in tema di immigrazione, che avviano una

razionalizzazione delle procedure di ingresso e di soggiorno e ad un rigido

inquadramento giuridico dell‟intero fenomeno (che in gran parte sussiste ancora).

In questi anni, tra le altre cose, oltre ai lavoratori stranieri provenienti dall‟Italia

settentrionale – e soprattutto a partire alla costruzione del traforo del Sempione, i cui

lavori iniziano nel 1898 – compaiono per la prima volta quelli provenienti dalle regioni

italiane meridionali, in particolare dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia. Questa

nuova ondata migratoria – tra l‟altro non significativa sul piano numerico - porta con sé

una novità importante per l‟epoca: gli emigranti tendono infatti a trasferirsi in Svizzera

insieme alle proprie famiglie; superando così quel modello di emigrazione stagionale o

temporanea fino ad allora prevalente e caratteristico di coloro che provenivano dalle

località più vicine alla Svizzera, siano essi emigranti lombardi o veneti oppure

provenzali e bavaresi.

Il lavoro da svolgere nelle costruzioni edili (soprattutto per le grandi opere) facilita la

programmazione dell‟emigrazione su differenti anni e pertanto, di conseguenza, facilita

la definizione di progetti migratori altrettanto pluriennali. Tale caratteristica strutturale –

insieme alla distanza che percorrono gli emigranti meridionali per recarsi in Svizzera –

comporta, per questi, un radicale trasformazione del sistema migratorio: da sistema

basato prevalentemente sulla presenza di lavoratori maschi senza famiglia o senza

famiglia al seguito ad un sistema che contempla (per la prima volta in maniera

numericamente significativa) la presenza di nuclei familiari.

Questo modello dell‟emigrazione meridionale era quello prevalente per le emigrazioni

transoceaniche: dapprima verso le Americhe e successivamente verso l‟Australia, ossia

paesi lontani dove il trasferimento per molti emigranti appariva pressoché definitivo. La

pluriennalità dei contratti di lavoro, dunque, se da una parte attrae maggiore forza

lavoro per la garanzia che offre sul piano della continuità, dall‟altra pone agli emigranti

un problema di convivenza familiare non indifferente, soprattutto per quelle componenti

che arrivano da molto lontano.

In sintesi la durata pluriennale dei contratti non permette alle componenti emigrate una

altrettanta assenza prolungata dalla famiglia. Questa forma occupazionale comporta

trasferimenti di lungo periodo, non solo di una parte degli emigranti italiani del

settentrione, ma anche di quelli meridionali, dove le distanze sono molto più consistenti

ed impegnative (almeno per l‟epoca). Non a caso i gruppi familiari più consistenti

all‟epoca risultano essere quelli “meridionali”, giacchè rappresentano il prodotto

dell‟effetto incrociato tra la durata del contratto, la distanza migratoria e – non

secondariamente - la possibilità di impiego nelle medesime attività degli altri membri

della famiglia, inclusi i minori. Questo afflusso di emigranti italiani – e il cambiamento

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strutturale del sistema migratorio a carattere pluriennale - determina anche l‟auto-

organizzazione degli istituti di protezione sociale, in quanto parallelamente al crescere

del flusso emigratorio e alla dimensione problematica dello stesso si vanno

organizzando le strutture assistenziali e associative della comunità.

Nascono così le prime Missioni cattoliche italiane ad opera principalmente della

Congregazione Salesiana e Bonomelliana; si costituiscono inoltre, sul versante laico, le

Leghe dei lavoratori cattolici e le organizzazioni di stampo socialista, come

l‟Umanitaria di Milano103

. Più tardi le prime si organizzeranno attorno alle ACLI

(Associazione dei lavoratori cattolici italiani) e le seconde attorno alla struttura delle

Colonie libere italiane. E‟ importante notare che tuttora le radici più profonde e solide

del tessuto associativo della comunità italiana in Svizzera sono quelle promosse

all‟epoca; ossia nella fase pionieristica da questi primi gruppi che progressivamente –

non scevri di contraddizioni e finanche di conflitti interni – tendono ad organizzarsi e a

strutturare la comunità italiana stessa, a prescindere dalle diverse aree geografiche di

provenienza104

.

L‟emigrazione nel secondo dopoguerra

Gli anni tra le due guerre mondiali sono caratterizzati dall‟attenuarsi dell‟emigrazione

economica, mentre riprende vigore il flusso degli esuli politici, in fuga questa volta dal

regime fascista.105

Con la fine della seconda guerra mondiale l‟emigrazione dall‟Italia

riprende con forza. E. Pugliese106

considera il massiccio spostamento dei nostri

connazionali verso l'Europa del dopoguerra come una delle “due grandi emigrazioni

italiane”, unitamente a quella transoceanica verso le Americhe. Seppure l'epoca delle

grandi migrazioni intraeuropee abbia coperto uno spazio temporale breve, almeno nella

sua fase di fenomeno di massa a cavallo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, “si è

trattato di una emigrazione – continua Pugliese - i cui effetti sul tessuto sociale delle

regioni di partenza107

sono paragonabili - e probabilmente superiori a quelli della

„grande emigrazione‟ verso gli Usa; anche perché si sommavano in maniera interessante

a quelli delle migrazioni interne, anche esse trainate dall'intenso sviluppo industriale”.

La Svizzera, d‟altronde, grazie alla sua neutralità bellica (non avendo cioè partecipato

alla seconda guerra mondiale) manteva tutto l‟apparato produttivo e logistico-

infrastrutturale intatto e funzionante. In questa particolare condizione continua ad

essere la protagonista di un eccezionale sviluppo economico: nel periodo 1945-60 il

103

L‟Umanitaria era una Società di Mutuo Soccorso che nasce nel 1902 a Milano ad opera di un

filantropo di nome P.M. Loria e tra le attività che svolge c‟è quella di svolgere una attività di

collocamento della mano d‟opera italiana, indirizzandola dove i salari erano più alti e il lavoro più sicuro

dal punto di vista della nocività e del rischio di infortuni. Nel far questo però avvertiva gli aspiranti

emigranti che non dovevano accettare bassi salari ed essere concorrenti con la mano d‟opera che già

aveva conquistato posizioni salariali consolidate, nonché non dovevano accettare di svolgere funzioni di

crumiraggio. Cfr. A. Rosada, Serrati …, cit., p. 99; 104

G. Meyer Sabino, In Svizzera, in Storia dell‟emigrazione italiana, vol. II - Arrivi, Donzelli, 2002. 105

M. Cerutti, Fra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Milano 1986. Tra i più

importanti fuoriusciti è bene ricordare le figure di Luzzatto, Pacciardi e Fernando Schiavetti, fondatore,

nel 1943 assieme ad altri, delle Colonie libere italiane in Svizzera. 106

Si veda Enrico Pugliese, L‟Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna, Il

Mulino, 2002. 107

Tra le provenienze regionali del Sud d‟Italia in Svizzera la Campania ha un rilievo particolarmente

importante, come si vedrà in seguito.

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prodotto nazionale lordo raddoppia e il reddito nazionale per abitante cresce del 60%,

grazie soprattutto all‟esportazione di prodotti di qualsiasi natura.

In questi anni la Svizzera – sulla scia di un “miracolo economico” destinato a durare un

trentennio – importa ancora di più manodopera straniera. A partire dal 1947- 48 si

afferma una nuova politica migratoria, sviluppata attraverso nuovi provvedimenti

legislativi e con la firma di una serie di Accordi bilaterali con i paesi esportatori di

manodopera, tra cui, nel 1948, con l‟Italia. Anche se nella Confederazione, secondo C.

Calvaruso, “alcune remore, di natura psicologica, persistevano nei riguardi di

promuovere un appello massiccio alla mano d‟opera straniera. Il ricordo della crisi degli

anni 1927-33 (come conseguenza della crisi mondiale del ‟29) era ancora molto forte ed

avrebbe caratterizzato, almeno fino agli anni Sessanta, tutte le politiche migratorie

elvetiche”108

. Crisi – che come ricorda Soldini – nel ‟36 aveva determinato, per l‟epoca,

un apparente paradosso; infatti, a fronte di una disoccupazione indigena di 90.000 unità

vi erano circa 110.000 lavoratori stranieri”, quasi del tutto occupati109

.

Il modello proposto dalla Confederazione presenta una serie di provvedimenti che

facilitano i flussi migratori a rotazione (annuale e stagionale) per andare incontro alle

esigenze delle imprese e non confliggere con le organizzazioni sindacali. Questo

meccanismo viene definito della “politica della rotazione”. Con il “modello rotatorio” si

intendeva controllare il tipo di migrante a cui veniva permesso di essere impiegato in

Svizzera, privilegiando coloro che erano privi di carichi familiari; questo al fine di

limitare quanto più possibile il rischio di una stabilizzazione definitiva di questi

lavoratori sul territorio elvetico. Si fece anche strada (all‟inizio degli anni ‟60) l‟idea di

perseguire un principio di rotazione della manodopera straniera, tendente al ricambio,

ogni due-tre anni, dell‟intera quota di immigrati; ciò per evitare che questi ultimi

raggiungessero un periodo di permanenza di 10 anni che consentisse loro di ottenere il

permesso di residenza e quindi una parità di diritti con i lavoratori nazionali110

.

In questo quadro viene proclamata l‟uguaglianza di condizioni di lavoro e di salario con

i lavoratori svizzeri ma, allo stesso tempo, viene creato un binario legislativo parallelo

per la manodopera straniera, che non può accedere all‟insieme dei diritti sociali, come -

ad esempio - alle assicurazioni per la disoccupazione e alle misure di tutela in caso di

infortunio. Ai lavoratori stranieri, allo stesso tempo, viene impedito di cambiare lavoro

e sono soggetti all‟obbligo di svolgere esclusivamente l‟occupazione per la quale sono

entrati nel paese, come previsto esplicitamente nell‟Accordo Italo-svizzero del 1948. La

Confederazione continua inoltre a proibire qualsiasi forma di ricongiungimento

familiare per gli stagionali, reso possibile invece per residenti e annuali. Il passaggio da

soggiorno stagionale a annuale è previsto solo dopo cinque anni di lavoro stagionale111

consecutivo.

108

Claudio Calvaruso, Emigrazione e sindacati, Coines Edizioni, Roma, 1974, p. 79; 109

S. Soldini, L‟immigrazione …, cit., p.35; inoltre, per un approfondimento dell‟apparente paradosso –

che si spiega con la teoria della segmentazione del mercato del lavoro, cfr. E. Pugliese e E. Rebeggiani,

Occupazione e disoccupazione in Italia (1945-1995), Edizioni lavoro, Roma, 1997, p- 62 e segg.; 110

Si veda, al riguardo, il documento del governo elvetico “Le problème de la main d‟ouvre étrangère”,

citato in: Claudio Calvaruso, Emigrazione e sindacati, Coines Edizioni, Roma, 1974; si soffermano

inoltre su questi argomenti: Soldini S., Rossi M., Poglia E., Pellicciari G., Persico L., Cavalli F.,

L‟immigrazione in Svizzera, Sapere Edizioni, Milano 1970; Rosada A., Serrati nell‟emigrazione (1899-

1911), Editori Riuniti, Roma, 1972. 111

Si vedano i citati testi di Bade, Castelnuovo Frigessi e Meyer Sabino.

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191

Lo sviluppo delle politiche migratorie della Confederazione elvetica si indirizza con

maggior forza e determinazione verso una maggior funzionalità e correlazione alle

caratteristiche delle dinamiche del mercato del lavoro e al contesto socio-politico in cui

sono state promosse. Nel corso degli anni Cinquanta – con una particolare accelerazione

nel secondo dopoguerra – si è andato dunque definendo nel paese un sistema

occupazionale sviluppato su tre livelli a cui corrispondono altrettanti sistemi di

regolamentazione dell‟immigrazione estera, e cioè:

a. un mercato del lavoro libero riservato ai lavoratori locali e agli stranieri dotati di un

permesso di soggiorno a lunga scadenza;

b. un mercato del lavoro controllato, destinato ai lavoratori stranieri annuali, stagionali

e frontalieri;

c. infine un mercato del lavoro irregolare occupato dagli immigrati non autorizzati (in

condizione di irregolarità rispetto al permesso di soggiorno e al contratto di lavoro).

Da questa suddivisione emergono, in sintesi, le cinque tipologie di immigrati stranieri

che hanno caratterizzato (e in parte caratterizzano ancora oggi) lo status dei lavoratori

italiani in Svizzera: residenti dotati di un permesso di soggiorno di lunga durata;

immigrati con l‟autorizzazione a risiedere e lavorare nel paese per la durata di un anno;

stagionali; frontalieri (residenti in una località di un paese confinante con la Svizzera e

autorizzati giorno per giorno a entrare nel paese) e lavoratori irregolari112

. Tra queste

tipologie - è bene sottolineare - che quella più diffusa tra gli italiani, in linea con la

tendenza generale che riguarda tutto l‟insieme degli stranieri, è in questa fase storica

quella dell‟emigrazione con permesso annuale (fino a 9 mesi), con una significativa

presenza costante degli stagionali.

Negli anni compresi tra il 1946 e il 1951, quando cioè l‟emigrazione italiana riprende

con intensità, dirigendosi anche verso altri paesi europei, la sola Svizzera assorbe quasi

la metà dell‟intero flusso in uscita (il 48%)113

. Gli italiani diventano in breve tempo la

comunità straniera più numerosa: 140.000 unità nel 1950 (49% del totale degli

stranieri), e 160.000 nel 1955 (59% del totale degli stranieri).

L‟estensione delle aree di emigrazione e le restrizioni normative

Negli anni successivi – quelli che intercorrono tra il 1955 e il 1965-, si assiste ad una

ulteriore radicale trasformazione – in termini estensivi - delle aree di provenienza dei

flussi italiani. Se infatti nel 1955 il 70% degli italiani era originario delle regioni del

Nord e soltanto l‟11% di quelle del Centro e quasi il doppio, rispetto a queste ultime

(con il 19%) di quelle del Sud e delle Isole, un decennio dopo – ossia nel 1965 - la

situazione si capovolge quasi completamente. Infatti il 60% degli italiani in Svizzera

risulta provenire dalle regioni del Sud e dalle Isole, in particolare dalla Campania e dalla

Sicilia (nonché dalla Calabria), ma non sempre con la famiglia al seguito come era stato

per i trasferimenti avvenuti all‟inizio del secolo scorso.

112 Sulla distinzione tra le differenti tipologie di status si vedano i testi citati di Meyer Sabino e Castelnuovo Frigessi.

Per un inquadramento complessivo si veda C.Buccianti, Le disposizioni elvetiche in materia di immigrazione e il movimento migratorio italiano, in “Studi emigrazione”, 87, 1987. 113

Si veda K. Bade, L‟Europa in movimento, Roma-Bari 2001.

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A metà anni Sessanta l‟emigrazione meridionale tocca lo zenit verso la Svizzera (e

finanche verso gli altri paesi europei, in particolare la Germania): Zurigo, Berna,

Lugano e Ginevra sono le mete più attraenti. Il lavoro si trova facilmente, anche senza

chiamata diretta. Molti meridionali partono soltanto dietro indicazione dei compaesani,

dietro indicazione dei parenti più prossimi. Questi ultimi, infatti, dopo aver concordato

con il datore di lavoro le condizioni contrattuali che regoleranno il nuovo rapporto di

lavoro fanno venire i loro congiunti e nel giro di qualche giorno iniziano a lavorare. La

regolarizzazione all‟epoca – data la dinamicità del mercato del lavoro - è piuttosto

semplice e priva di impedimenti particolari.

Il 1965 resta, per altri versi, un anno abbastanza particolare. Oltre al fatto di essere

l‟anno che registra uno dei picchi più alti per quanto riguarda gli ingressi degli

emigranti meridionali verso la Svizzera, è anche l‟anno della tragedia della diga di

Mattmark. In questo enorme cantiere circa mezzo milione di metri cubi di ghiaccio si

riversò sugli operai che vi stavano lavorando, mettendo così a nudo le precarie

condizioni di sicurezza114

. Nonostante la scoperta della precarietà delle norme di

sicurezza nei cantieri edili – anche in quelli maggiormente controllati in quanto

realizzavano grandi opere - l‟emigrazione italiana, dal punto di vista numerico, non

subisce contraccolpi. Anzi. Per tutto il decennio l‟emigrazione meridionale continua a

crescere, tra cui quella Campana.

Ma a causa delle proteste provenienti dalle componenti immigrate e dai rispettivi paesi

di provenienza per le restrizioni introdotte nella Confederazione in materia di garanzie

sociali ed economiche e a causa delle significative modifiche avvenute nel mercato del

lavoro le autorità elvetiche accettano la ridefinizione delle proprie leggi in materia di

immigrazione; queste trovano una diretta applicazione nel nuovo Accordo firmato con

l‟Italia nel 1964. La nuova politica migratoria viene definita di “stabilizzazione”: cerca

non solo di riorganizzare i meccanismi di entrata e uscita dal paese, ma anche di

incentivare le forme di integrazione degli stranieri e delle rispettive famiglie.

In questo senso, il periodo di lavoro necessario per poter usufruire del permesso di

residente viene abbassato a 18 mesi. Inoltre, viene stabilita la possibilità di cambiare

lavoro dopo cinque anni dall‟ingresso e dopo altri cinque anni successivi è prevista la

possibilità che la posizione dello straniero venga completamente equiparata a quella del

lavoratore locale. Restano tuttavia una serie di elementi discriminatori, principalmente

in tema di cittadinanza: gli stranieri sono infatti esclusi in ogni modo – almeno

formalmente - dalla possibilità di partecipare alla vita politica dei Cantoni. Viene inoltre

organizzato un sistema di quote per limitare la presenza di immigrati in determinati

settori economici: la cosiddetta “plafondizzazione aziendale”.

Ossia, il tentativo di limitare le presenze straniere in alcuni settori dove poteva essere

maggiore la concorrenza con i lavoratori autoctoni e favorirla in altri laddove la

concorrenza era inesistente. Questo perché maturò la consapevolezza che il mercato del

lavoro era segmentato e i diversi segmenti soltanto raramente avevano scambi di mano

d‟opera. Pertanto potevano convivere fenomeni di disoccupazione autoctona e fenomeni

di eccesso di mano d‟opera straniera, in quanto la prima restava tale anche perché le

aspettative di trovare un impiego adeguato erano più alte, mentre quelle degli stranieri

erano decisamente più basse e meno vincolanti.

114

In tale tragedia i morti furono 83, di cui 57 italiani e in buona parte meridionali. Questa tragedia viene

ricordata ancora oggi dalla comunità italiana.

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193

5.4.3. Gli anni Settanta e la diminuzione della consistenza numerica

delle comunità italiane e campane

Nel 1975 la popolazione italiana in Svizzera tocca la punta più alta, con 573.085

presenze (di cui circa il 50/60% provengono dalle regioni meridionali, con una

consistente comunità campana formata soprattutto da casertani e da avellinesi),

raggiungendo la quota record del 16,7% sulla popolazione totale. A partire dalla metà

degli anni Settanta, tuttavia, le conseguenze della crisi petrolifera (il cosiddetto “primo

shock petrolifero”) e le trasformazioni nel mercato internazionale del lavoro – nonchè le

sue conseguenze su quelli nazionali - portano a una progressiva riduzione della

comunità italiana (anche come effetto delle “politiche di stop”). La comunità italiana

passa a 411.913 unità nel 1985, a 361.649 nel 1990, fino ad arrivare alle 319.641 unità

censite nel 2000 e alle 308.255 dell‟anno successivo, il 2002115

.

L‟andamento della presenza italiana in Svizzera, in cui si evidenzia una flessione della

consistenza numerica negli ultimi 30 anni, emerge anche dalla seguente tabella (tab.

5.1), dove si riportano i flussi di emigranti italiani. La dimensione di questi flussi è stata

ricavata confrontando i risultati dei Censimenti svolti ogni 10 anni (quindi nei periodi

intracensuali). Questa fonte non fornisce informazioni sulla presenza stabile degli

italiani nel paese elvetico (essendo un dato di flusso e non di stock), ma indica,

analogamente alle cifre menzionate in precedenza, una diminuzione quantitativa della

emigrazione italiana a partire dalla seconda metà degli anni Settanta.

Tab. 5.1. Flussi di emigrazione italiana in Svizzera, 1861-2001

Periodi Emigrati Periodi Emigrati

1861-1870 38.000 1931-1940 258.000

1871-1880 132.000 1946-1950 330.000

1881-1890 71.000 1951-1960 1.420.000

1891-1900 189.000 1961-1970 593.000

1901-1910 655.000 1971-1980 243.000

1911-1920 433.000 1981-1991 106.000

1921-1930 157.000 1991-2001 63.000

Fonte: Annuario statistico italiano, annate varie

Dalla tabella si riscontra che il decennio di maggior emigrazione è quello compreso tra

il 1951 e il 1960; se a questo aggiungiamo le consistenze degli emigranti partiti nel

decennio successivo – tra il 1961 e il 1970 – si arriva ad una cifra di circa 2.000.000 di

unità. Gli anni Sessanta, tuttavia, rispetto al decennio precedente, segnano il declino dei

flussi italiani verso la Svizzera: in dieci anni la riduzione dei flussi si aggira intorno ad

40% circa, passando, infatti, dalle 1.400.000 unità alle 600.000. Ancora: negli anni

Settanta i flussi si dimezzano ulteriormente, così negli anni Ottanta e negli anni Novanta

(arrivando a circa 60.000 unità).

Ciò nonostante, la Svizzera ospita, ancora oggi, una tra le più grandi comunità di italiani

emigrati all‟estero. Facendo riferimento a un‟altra fonte di dati (di stock)116

, l‟Archivio

Italiani residenti all‟estero (Aire), con cui si “misura” la consistenza numerica delle

115

Gugliemi Silvano, Situazione e dati sull‟emigrazione in Svizzera, Studi Emigrazione, 150, 2003. pp.

397-408 116

Le cifre menzionate in precedenza si riferiscono alle fonti censuarie e alle registrazioni anagrafiche del

governo elvetico (affermazione da controllare)

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comunità italiane in diversi paesi, sono 416.591 gli iscritti all‟inizio del 2002. Si

calcola, al riguardo, che nella Confederazione Elvetica vive il 14,5% del totale degli

“italiani nel mondo”. Inoltre, in base ai dati delle Anagrafi Consolari la consistenza

della comunità italiana risulta ancora maggiore, essendo 525.383 gli iscritti registrati

alla medesima data.

La presenza dei cittadini campani è decisamente rilevante, in quanto il loro ammontare

– sia per i dati dell‟Aire che per quelli delle Anagrafiche consolari – è secondo soltanto

alla Lombardia, come si evince dalla Tab. 5.2. La rilevanza della comunità campana

all‟interno della migrazione italiana in Svizzera risulta anche dall‟analisi del dato

relativo ai trasferimenti di residenza, riportato nella tabella seguente (Tab. 5.3). Da

questo quadro è possibile rilevare la consistenza del movimento migratorio dei campani

verso e dalla Svizzera, che conferma l‟importante volume di questo flusso migratorio

assieme a quello di tutte le altre regioni del meridione d‟Italia (“Sud e Isole”).

Tab. 5.2 Cittadini italiani residenti in Svizzera al 31.12.2001, secondo l‟AIRE e

le Anagrafi consolari

Regioni italiane AIRE

Anagrafi consolari

*

31.1.2001 Valore % 31.1.2001

Piemonte 16.860 4,0 21.263

Valle d'Aosta 1.405 0,3 1.772

Lombardia 62.466 15,0 78.779

Trentino 10.599 2,5 13.367

Veneto 34.809 8,4 43.899

Friuli 14.545 3,5 18.343

Liguria 4.945 1,2 6.236

Emilia R. 14.077 3,4 17.753

Toscana 9.537 2,3 12.028

Umbria 3.383 0,8 4.266

Marche 7.934 1,9 10.005

Lazio 14.385 3,5 18.142

Abruzzo 6.221 1,5 7.846

Molise 6.397 1,5 8.068

Campania 54.407 13,1 68.615

Puglia 51.507 12,4 64.958

Basilicata 11.887 2,9 14.991

Calabria 28.155 6,8 35.508

Sicilia 50.313 12,1 63.452

Sardegna 6.148 1,5 7.754

Non ripartiti 6.611 1,6 8.338

Totale 416.591 100,0 525.383

Nord ovest 85.676 20,6 108.050

Nord est 74.030 17,8 93.363

Centro 35.239 8,5 44.441

Sud 158.574 38,1 199.985

Isole 56.461 13,6 71.206 L'origine regionale degli italiani iscritti alle Anagrafi consolari è stata ricavata in base alla suddivisione percentuale

degli iscritti all'AIRE. Anche per questo motivo la colonna dei valori percentuali è unica.

Fonte: ns. elaborazioni su dati AIRE e delle Anagrafi consolari

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Tab. 5.3 Cittadini italiani iscritti/cancellati per trasferimento di residenza dalla e per la

Svizzera. Anni 1990 – 1999 (Campania e ripartizioni nazionali)

Numero iscrizioni per anno, dalla Svizzera in Italia

Regioni 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999

Campania 549 494 493 280 562 457 512 328 305 341

Nord ovest 874 729 743 717 1.023 593 789 1.061 1.045 1.148

Nord est 1.152 849 1.029 787 981 623 914 829 820 913

Centro 536 483 500 489 587 330 478 671 667 766

Sud 1.926 1.884 2.126 2.284 2.363 2.105 2.264 1.204 1.189 1.326

Isole 884 788 1.076 1.080 749 741 726 725 675 764

ITALIA

5.372

4.733

5.474

5.357

5.703 4.392 5.171 4.490 4.396

4.917

Numero cancellazioni per anno, dall‟ Italia alla Svizzera

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999

Campania 1.322 2.623 1.631 966 2.915 758 639 464 414 707

Nord ovest 1.430 1.316 1.250 1.235 1.356 850 944 1.295 1.267 1.575

Nord est 591 658 545 423 515 225 302 833 835 934

Centro 727 587 635 497 506 214 349 549 699 877

Sud 4.297 5.855 4.762 5.040 6.036 2.400 2.280 1.828 1.748 3.178

Isole 1.620 1.440 1.405 2.309 1.766 616 954 1.386 1.346 2.072

ITALIA

8.665

9.856

8.597

9.504

10.179 4.305 4.829 5.891 5.895

8.636

Fonte: elaborazioni su dati Istat

La ripartizione per Provincie di provenienza dei campani – in riferimento ai cittadini

iscritti e cancellati per trasferimenti di residenza dalla/per la Svizzera, si evidenzia dalla

Tab. 5.4. Dal 1996 al 19999 – come accennato – le iscrizioni tendono a ridursi,

passando dalle 549 unità alle 341, pari ad una variazione negativa (che riflette una

riduzione) del 33,3%. Nello stesso periodo la variazione degli iscritti che si registra a

livello medio nazionale è invece del 4,9%.

Gli emigranti campani, insomma, all‟interno di un quadro nazionale che vede ridursi gli

effettivi in emigrazione dalla Svizzera – soprattutto per i rientri in patria – si registra, al

contempo, un aumento – seppur leggero – dell‟emigrazione campana. Infatti, questi

sono tra quelli che continuano a trasferire la loro residenza in Svizzera, mentre – in

genere - le variazioni percentuali delle cancellazioni, nello stesso periodo, si attestano

introno al 10% circa.

Rispetto alle singole provincie Campane quella di Napoli registra maggiori iscrizioni

(più 74, nel periodo compreso tra il 1996 e il 1999) e un numero quattro volte maggiore

di cancellazioni, mentre le altre Provincie registrano un trend negativo sia nelle

iscrizioni che nelle cancellazioni che tendono sostanzialmente ad uguagliarsi.

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Tab. 5. 4 Cittadini italiani iscritti e cancellati per trasferimento di residenza da e

per la Svizzera. 1996 – 1999

Province Iscrizioni Cancellazioni

1996 1997 1998 1999 1996 1997 1998 1999

Avellino 133 50 54 49 212 143 73 75

Benevento 108 18 20 42 132 59 49 59

Caserta 148 61 48 69 115 48 32 65

Napoli 33 123 111 107 42 98 164 345

Salerno 90 76 72 74 138 116 96 163

CAMPANIA 512 328 305 341 639 464 414 707

ITALIA 5.171 4.490 4.396 4.917 4.829 5.891 5.895 8.636

Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat

5.4.4. L’integrazione selettiva nelle politiche migratorie

La legislazione della Confederazione segue sostanzialmente la strategia della cosiddetta

“integrazione selettiva”. Vengono varati provvedimenti per ampliare la sfera dei diritti

sociali degli stranieri (soprattutto per quanto riguarda le assicurazioni sociali, in

particolare tra il 1967 e il 1971). Ma allo stesso tempo si registrano numerose restrizioni

all‟ingresso di nuovi immigrati; restrizioni che culminano nel 1972 con la creazione del

Registro centrale degli stranieri, finalizzato al controllo sistematico delle comunità di

immigrati. Inoltre, nell‟anno successivo, con la nascita dello Statuto dei lavoratori

stagionali, si tenta di orientare e a limitare la mobilità geografica, sociale e

occupazionale degli stagionali esteri117

.

Queste restrizioni, tuttavia, innescano significative contestazioni, non solo da parte degli

immigrati ma anche da parte di settori importanti della popolazione elvetica.

Contemporaneamente, a partire dal primo quinquennio degli anni Sessanta, si

diffondono movimenti sociali e politici apertamente ostili alla presenza degli stranieri e

agli interventi pubblici emanati in loro favore. Questo atteggiamento, di una parte della

popolazione elvetica, produce una lunga stagione di referendum finalizzati a limitare

fortemente la presenza straniera.

Seppure a partire dal 1965 fino ad oggi questi referendum siano stati bocciati

regolarmente dall‟elettorato, in molti casi (come nel 1965 e nel 1969) la bocciatura è

avvenuta solo per una manciata di voti; tali iniziative stavano ad evidenziare comunque

una diffusa e costante ostilità di parti significative della popolazione verso gli

immigrati.

Pur tuttavia, nonostante questa ostilità, la percentuale degli stranieri sul totale della popolazione è continuata a crescere fino a raggiungere il 19,9% nel 2002 (pari a

1.447.196 unità), di cui 308.000 italiani (pari al 21,31% del totale degli stranieri); tra

questi si stimano, ancora, circa 60.000 campani (considerando anche i diretti

discendenti, ossia la seconda generazione). Appare ormai evidente – e questo sembra

117

Si veda Castelnuovo Frigessi, op. cit.

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essere anche accettato da ampi settori della popolazione svizzera - che la presenza

straniera è strutturalmente necessaria all‟economia del paese.

Ma nonostante ciò occorre ricordare che fino al 1990 l‟ingresso e il soggiorno degli

stranieri sul territorio elvetico è stato governato in base al Regolamento del 1970,

successivamente modificato soprattutto in materia di diritto di asilo. L‟estensione dei

diritti di cittadinanza agli stranieri è avvenuta lentamente; gli stessi italiani – come gli

altri “europei” – hanno potuto usufruire del voto amministrativo nella maggior parte dei

Cantoni solo alle soglie del 2000.

La novità principale dell‟ultimo ventennio in materia di politiche migratorie tra Italia e

Svizzera è costituita dalla politica dei Tavoli di confronto delle trattative bilaterali, con

lo scopo di risolvere le questioni più urgenti (relative soprattutto a lavoratori stagionali e

frontalieri). L‟entrata in vigore nel giugno 2002 dei nuovi Accordi bilaterali tra

l‟Unione europea e la Svizzera sta parzialmente modificando le relazioni internazionali

della Confederazione, anche per quanto riguarda la mobilità dei lavoratori118

.

In base agli archivi del Consolato di appartenenza degli iscritti queste presenze sono

distribuite in tutto il territorio elvetico, come si evidenzia dalla Tab. 5.5. Va sottolineato,

tuttavia, che le comunità numericamente più significative sono quelle di Zurigo

(22,7%), di Lugano (15,5%), di Basilea (14,4%) e di Losanna (11,3%).

In relazione a quanto finora esposto vengono presentate qui di seguito due tabelle. La

prima riguarda la distribuzione degli italiani in Svizzera secondo le provenienze

regionali, riportando il confronto tra i dati dell‟AIRE e quelli delle Anagrafi Consolari.

In entrambi i casi si può osservare l‟importanza della comunità campana nel flusso

emigratorio italiano. La seconda illustra la diffusione della comunità italiana nei diversi

cantoni elvetici, secondo i dati forniti dalle Ambasciate Cantonali, dai Consolati e dai

Consolati Generali.

Tab. 5.5 Diffusione nel territorio elvetico della presenza italiana

Cantoni Dati assoluti Valori %

A.C. Coira 11.467 2,2

A.C. Neuchatel 17.913 3,4

A.C. Sion 18.044 3,4

A.C. Wettingen 17.481 3,3

C. Berna 41.828 8,0

C. San Gallo 43.621 8,3

C.G. Basilea 75.575 14,4

C.G. Ginevra 39.787 7,6

C.G. Losanna 59.372 11,3

C.G. Lugano 81.239 15,5

C.G. Zurigo 119.056 22,7

Totale 525.383 100,0

Fonte: Anagrafi consolari. A.C. =Ambasciata Cantonale; C=Consolato; C.G.=Consolato generale

118

Gli accordi riguardano l‟agricoltura, gli appalti pubblici, la ricerca, il trasporto aereo e quello terrestre

e, infine, la libera circolazione delle persone. Un esame completo del dibattito che li ha accompagnati e

della loro articolazione si può leggere sul sito www.parlament.ch

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5.4.5 Le politiche di inserimento sociale ed economico

Alcuni aspetti del processo di stabilizzazione

I settori occupazionali nei quali si è inserita l‟emigrazione italiana del secondo

dopoguerra sono principalmente tre: l‟edilizia, l‟industria metalmeccanica e il settore

alberghiero119

. Lo sviluppo in questi anni degli arrivi degli italiani ha determinato la

formazione di vere e proprie comunità nazionali. Con le opportunità offerte dalla

legislazione della Confederazione – piuttosto scarse fino alla metà degli anni Sessanta –,

molti lavoratori italiani partiti in precedenza da soli si fanno raggiungere in un secondo

tempo dalle rispettive famiglie.

La ricomposizione familiare determina col tempo la nascita e il consolidamento della

seconda generazione di immigrati italiani: una generazione portatrice di istanze ed

esigenze differenti rispetto ai primi arrivati. Si pongono in modo più evidente, quindi,

problemi relativi all‟inserimento scolastico, alla formazione professionale,

all‟integrazione socio-culturale, alla partecipazione politico-sociale, alle dinamiche più

generali della società elvetica.

Una importante indagine sulla seconda generazione di immigrati, realizzata dall‟Istituto

Fernando Santi nel 1983120

, ne ritrae le caratteristiche e i bisogni relativi all‟istruzione,

all‟occupazione e all‟inserimento sociale. Dal punto di vista dell‟istruzione emergeva

che, nella maggior parte dei casi, la scuola dell‟obbligo era stata terminata da un numero

significativo di discendenti italiani, ma solo una minoranza di essi aveva proseguito

negli studi. Dal punto di vista professionale, invece, la seconda generazione sembrava

orientata verso settori leggermente più specializzati rispetto alle occupazioni che

avevano coperto i genitori.

Infatti, la prima generazione era prevalentemente impiegata nel comparto edile,

meccanico e alberghiero, la seconda mostrava maggiore interesse per il settore elettrico,

meccanico-industriale e contabile-aziendale. A causa delle difficoltà nell‟accesso alla

formazione professionale, però, le prospettive di mobilità socio-professionale

risultavano piuttosto scarse e la collocazione in una posizione di lavoro subalterno era

praticamente inevitabile.

Da tale indagine veniva anche messo in evidenza, tra le altre cose, che i giovani italiani

(siamo nei primi anni ottanta) dichiaravano di parlare prevalentemente italiano e di

avere difficoltà evidenti nell‟esprimersi con le lingue locali; aspetto che non poteva che

rendere difficile e in parte complicato l‟inserimento socio-culturale nelle rispettive aree

di insediamento. Gli ambienti di riferimento – dove si sviluppa e si rafforza la

socializzazione primaria e secondaria – rimangono ancora quasi esclusivamente italiani.

Un altro aspetto particolare dell‟inserimento sociale e lavorativo riguarda la componente

femminile e dei minori, le quali, come in tante altre “storie migratorie”, hanno

incontrato problemi maggiori delle altre ad aver accesso, più o meno legittimamente,

nella società svizzera. A questo riguardo è bene ricordare che in tutto il periodo

119

D. Castelnuovo Frigessi, Elvezia il tuo governo, Einaudi, 1979. 120

Istituto F. Santi, Aspetti e problemi occupazionali della seconda generazione in Germania e Svizzera,

Roma, 1983.

Page 199: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

199

considerato perdura un flusso di emigrazione italiana irregolare verso la Svizzera, flusso

che sfugge quasi del tutto alle statistiche ufficiali. Se negli anni tra le due guerre

mondiali l‟emigrazione aveva ragioni soprattutto politiche, nel secondo dopoguerra sarà

esclusivamente di natura economica. Particolarmente rilevante, soprattutto a partire

dalla metà degli anni Settanta, risulta il lavoro irregolare delle donne italiane che

arrivavano in Svizzera per lo più illegalmente (spesso per raggiungere il marito).

Tali ingressi seguivano molto spesso provvedimenti legislativi di tipo restrittivo in

materia di ricongiungimenti familiari o dei diritti di soggiorno per le mogli. Una volta

entrate irregolarmente, queste donne trovano da lavorare principalmente nell‟ambito dei

servizi di pulizia, negli ospedali, negli alberghi. Il lavoro era senza contratto sindacale,

proprio perché prive del contratto di soggiorno. Al fenomeno della presenza di donne

clandestine e irregolari faceva seguito quello dei bambini irregolari. Il numero dei

bambini clandestini, era valutato nel 1971 attorno alle quindicimila unità. Si tratta di

bambini nati da uno o entrambi i genitori illegalmente soggiornanti in Svizzera o entrati

irregolarmente nel paese, non tutelati dalla legislazione della Confederazione e costretti

quindi alla clandestinità121

, al soggiorno non autorizzato.

La Svizzera nel corso del secondo dopoguerra mantiene un tasso di mobilità sociale

verso l‟alto particolarmente marcato, ma per molti anni gran parte degli immigrati

italiani ne viene esclusa e, pertanto, continua a essere confinata all‟interno dei comparti

produttivi meno qualificati. Con l‟inizio degli anni Ottanta, invece, si assiste alla

crescita delle attività imprenditoriali degli italiani, legate in molti casi a un‟evoluzione

nello stesso ambito lavorativo di partenza: da manovali a capi-cantiere, da

metalmeccanici a proprietari di officine, da camerieri a titolari di bar, pizzerie e

ristoranti, da semplici dipendenti a titolari di imprese di pulizie122

.

Questo percorso è anche correlabile alla capacità della comunità italiana di far penetrare

la propria cultura e lo stile di vita italiano nella società di accoglienza, facilitando in tal

modo la diffusione di attività economiche ad esso legate, dalla ristorazione

all‟abbigliamento e alla distribuzione alimentare, nonché nelle aziende di trasporto

privato.

Nei primi anni Novanta la crisi economica colpisce molte comunità di immigrati, ma gli

italiani non subiscono gravi conseguenze come era avvenuto un quindicennio prima. In

questo nuovo contesto di crisi i disoccupati italiani vengono inseriti nei programmi di

assistenza alla disoccupazione e di formazione professionale e, allo stesso tempo, molti

accettano la soluzione di un pensionamento anticipato, possibile grazie al supporto,

sviluppo negli anni precedenti, di un sistema previdenziale finanziato parimenti dai

datori di lavoro e dagli stessi lavoratori123

.

Nell‟attuale comunità italiana convivono ormai quattro generazioni di italiani, molti dei

quali nati e cresciuti nella Confederazione, ma cittadini italiani. E‟ interessante notare

come la maggior parte degli italiani mantenga un solido rapporto con le zone di origine,

sia in termini affettivi, sia in termini di progettualità economica. Per la generazione più

anziana – ormai in pensione – si pone inevitabilmente il dilemma del ritorno.

121

G. Stella, L‟orda. Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, 2002. 122

E. Piguet, Les migrations créatrices. Étude de l'entreprenariat des étrangers en Suisse, Paris,

L'Harmattan, 1999. 123

G. Meyer Sabino, op. cit.

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200

Secondo un sondaggio effettuato nel 1999 dall‟Università di Losanna, gli italiani della

fascia di età compresa tra i 55 e i 65 anni si caratterizzano per una forte pendolarità. Al

campione di intervistati era stato richiesto di indicare dove volesse trascorrere la propria

vita da pensionati. La maggior parte (41%) ha risposto che vorrebbe alternare periodi di

soggiorno in Italia a periodi in Svizzera; il 39% ha dichiarato che preferisce restare in

Svizzera; solo il 20% degli intervistati ha manifestato l‟intenzione di tornare in Italia.

Secondo tale sondaggio, sono le donne a esprimere maggiormente la volontà di restare,

per rimanere accanto a figli e nipoti, anche perché in Svizzera hanno potuto beneficiare

di un percorso di emancipazione culturale e sociale.

Negli ultimi anni, la quantità annuale di ritorni si è attestata attorno alle 9.000 unità.

L‟ultima impennata si è verificata nel 1992, quando, a causa della crisi economica e

temendo di non poter ritirare interamente i fondi depositati nelle casse-pensione, i

ritorni furono ben 15.332124

.

La presenza dei lavoratori stranieri e italiani nel mercato del lavoro

La presenza di lavoratori immigrati nel mercato del lavoro svizzero è stata costante

negli anni, pur con andamento altalenante in riferimento alle oscillazioni congiunturali.

Tra anni „80 e „90 tale presenza si è evoluta nel senso di una maggiore stabilizzazione

dei flussi e delle condizioni della popolazione immigrata; questa stabilizzazione si è

accompagnata alla crescita di presenza e ruolo delle seconde e terze generazioni, nonché

all‟incremento delle naturalizzazioni.

Nel tempo si è assistito ad una “specializzazione lavorativa” dell‟immigrazione che ha

riguardato sia i settori occupazionali che i gruppi nazionali. Attualmente la presenza di

immigrati è fondamentale nell‟edilizia, dove si è sviluppata a partire dal „50 e „60,

seguita dal settore dell‟industria, dove l‟inserimento è avvenuto prevalentemente tra gli

anni „70 e „80. I recenti flussi migratori – grossomodo quelli degli anni ‟90 - si sono

indirizzati essenzialmente verso il terziario, dove la crescita di lavoratori stranieri è stata

molto forte. Tale crescita ha raggiunto livelli significativi e strutturalmente importanti in

alcune nicchie caratterizzate da bassa qualificazione, come i servizi (ristorazione,

alberghi, servizi domestici)125

.

I lavoratori stranieri, anche escludendo la componente dei pendolari frontalieri (ancora

ben presenti nelle aree di confine, come quelle di Basilea, di Ginevra e del Ticino) e

quella degli stagionali (ormai ridottisi a poche migliaia), rappresentano – a partire dal

1995 - circa il 20% delle maestranze occupate residenti in Svizzera126

. Ancora nel

2001, quando questa tipologia sembrava esaurirsi, la statistiche rilevavano la presenza

di circa 5.000 lavoratori italiani stagionali. La distinzione tra questi differenti statuti

lavorativi rispecchia le differenti occupazioni degli italiani.

124

Si vedano Meyer Sabino op. cit., e Bade, op. cit. 125

ECAP, Rapporto di attività, 2001. La Fondazione ECAP è uno dei principali enti di formazione

continua operanti in Svizzera e, probabilmente, l‟istituzione più significativa al servizio dell‟integrazione

degli stranieri in territorio elvetico. 126

ECAP, Progetto Way of Access, 1995. Fondazione ECAP-Svizzera, Zurigo, “Progetto Way of Access”,

Analisi delle politiche di formazione professionale nei confronti delle componenti immigrate: bisogni

formativi, orientamento, modalità di accesso alla formazione e offerta di formazione in Svizzera e in tre

paesi del mediterraneo [Rapporto Finale di Ricerca], condotto nell‟ambito del Programma Leonardo

dell‟UE, 1995.

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201

Gli stagionali sono impegnati soprattutto nell‟edilizia, mentre gli annuali nel settore

metalmeccanico. Entrambe le categorie tuttavia sono escluse dalla possibilità di

svolgere lavoro autonomo, che è previsto solo per i residenti. L‟ammontare complessivo

dei lavoratori italiani stagionali ammonta (al 31 agosto 2002) a circa 5.000 unità,

secondi soltanto ai portoghesi (con 21.000 unità)127

. Di questi stagionali la presenza dei

campani non è quantificabile, ma ha una consistenza significativa. Infatti, informazioni

a riguardo si hanno da uno studio dell‟Università di Salerno sulle migrazioni dell‟Alto

Sele, in particolare nella zona industriale di Zurigo e di Basilea e Coira. Si tratta, spesso,

di lavoratori già rientrati, che mantengono con i datori di lavoro rapporti di fiducia che

gli permettono di fruire di particolari garanzie di lavoro stagionale128

.

Su una popolazione complessiva di poco inferiore ai 7 milioni di abitanti, gli immigrati

superano il milione e trecentomila unità; si tratta una quota che non ha paragoni negli

altri paesi europei (a parte il Lussemburgo). La presenza straniera in Svizzera – come in

tutti i paesi di veccia emigrazione (ma anche in quelli di nuova, in parte)- è fortemente

radicata nel tessuto sociale e produttivo, al punto che sarebbe oramai impensabile la sua

fuoriuscita. Infatti, nonostante la crisi occupazionale che perdura dal 1991, la presenza

degli immigrati non conosce ancora significativi ridimensionamenti e riduzioni di sorta.

L‟immigrazione in Svizzera è un fenomeno di lungo periodo; si riconoscono perciò

nelle statistiche i segnali di una forte maturazione dei flussi, come la presenza oramai

stabile di nuclei familiari, di soggetti appartenenti alla terza età che preferiscono oramai

restare in Svizzera, di giovani delle seconde e delle terze generazioni. La presenza

straniera è una realtà molto articolata, rilevabile su tutto il territorio nazionale, con

punte di particolare concentrazione nei Cantoni industrializzati; ma anche in molte

realtà periferiche caratterizzate da economie miste (come Ginevra e il Ticino). In alcuni

comparti economici la manodopera straniera raggiunge una rilevanza percentuale

superiore al 20% (come si illustra nella Tab. 5.6).

Tra le diverse e variegate componenti straniere la comunità italo-svizzera contava, al

dicembre 2000, circa 320.000 unità; cifra che rappresenta in assoluto la comunità di

stranieri più folta, residente nel paese129

.

Tab. 5.6 Lavoratori stranieri in Svizzera per settore di attività, in migliaia

Settori Uomini Donne Totale

stranieri

Totale

occupati

% stranieri

Agricoltura 0 0 0 153 0,00

Energia 0 0 0 28 0,00

Industria manifatturiera 149 55 204 687 29,69

Edilizia 75 0 75 244 30,74

Commercio 89 72 161 716 22,49

Trasporti 18 12 30 215 13,95

Banche, assicurazioni 63 38 101 542 18,63

Altri servizi 56 92 148 787 18,81

Pubblica amministrazione 7 9 16 170 9,41

TOTALE 457 278 735 3542 20,75

Fonte: ECAP, Progetto Way of Access, 1995.

127

Nel 2002, con l‟abolizione dello statuto degli stagionali, il dato non viene più rilevato nelle statistiche

della Confederazione Elvetica. 128

Parsec – Università di Salerno, Facoltà di sociologia del lavoro, L‟emigrazione e l‟immigrazione

nell‟Alto Sele, Rapporto di ricerca, Roma, gennaio, 2003

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202

La vicinanza geografica tra l‟Italia e la Svizzera favorisce – ormai storicamente - un

consistente flusso di migrazioni lavorative legate ai movimenti stagionali e di

pendolarismo transfrontaliero. In base ad una indagine condotta dalle autorità svizzere

nel 2001130

, gli italo-svizzeri occupati nei vari settori dell‟economia sono, in totale,

167.606; di questi i lavoratori indipendenti raggiungono le 11.285 unità131

. Per quanto

riguarda i dipendenti, i lavoratori italo-svizzeri occupati nel settore agricolo

rappresentano una entità piuttosto marginale (soltanto 412 unità) rispetto a quelli

occupati, invece, nel settore dell‟industria (61.880 unità) e, ancor più se si guarda al

settore dei servizi (94.029). Passando a un altro argomento, relativo alle dimensioni

delle aziende in cui operano i lavoratori italo-svizzeri (compresi gli oriundi), le

indicazioni più interessanti che emergono da questa indagine suggeriscono che essi

siano inseriti negli stabilimenti di maggiore importanza, dato che sia nel caso del settore

secondario che in quello del settore terziario, si tratta soprattutto di imprese di medie e

grandi dimensioni.

Nel settore secondario, infatti, 10.585 sono dipendenti di imprese che impiegano 20-49

lavoratori; 16.833 lavorano in imprese che ne impiegano dai 100 ai 499; 4.647 in

imprese con oltre 1000 impiegati. Nel terziario, invece, 10.238 sono dipendenti di

imprese che impiegano dai 20 ai 49 lavoratori; 14.253 di imprese che ne occupano dai

100 ai 499; 15.375 di imprese che ne impiegano più di 1000. Questi dati sono riportati

nella tabella seguente (tab. 5.7), che offre un quadro generale di tale situazione.

Per quanto riguarda, invece, la classe imprenditoriale e manageriale italo-svizzera, le

informazioni disponibili indicano che la loro numerosità assume un certo rilievo, se si

considera che gli imprenditori e i direttori di nazionalità italiana residenti in Svizzera

sono in totale 2.861. Di essi:

5 operano nel settore primario;

717 sono attivi in quello secondario;

2.139 svolgono la loro attività nel settore terziario.

A questo riguardo è interessante osservare che tra questi imprenditori e direttori la

maggior parte fa capo ad imprese di medie dimensioni. Nel settore secondario è

consistente il numero di quelli che fanno capo ad imprese che occupano da 6-9 a 499

persone; nel settore terziario, invece, il numero di tali figure professionali risulta più

equamente distribuito tra imprese che occupano da 1 a oltre 1000 persone. Anche in

questo caso, la tabella seguente (tab. 5.8), che offre un quadro generale di questo

andamento.

129

ECAP, Rapporto di attività, 2001. 130

Dati forniti da ECAP. Si tratta di stime provvisorie, gentilmente concesse ma non ancora pubblicate,

oggetto di attuali elaborazioni e verifiche. 131

Si fa sempre riferimento all‟indagine delle autorità svizzere riportata dal rapporto ECAP.

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203

Tab. 5.7 Popolazione economica di nazionalità italiana residente in Svizzera

secondo il settore economico, la dimensione dell'azienda e lo status

di attività (2000)

Settori

Dimensione

azienda Totale Indipendenti Dipendenti

Non

ripartibile

Totale generale 160.697 10.498 143.780 6.419

Settore primario 0 impiegati

(dimens. ignota) 1.143 151 918 74

1 impiegato 12 6 6 0

2-3 impiegati 29 7 20 2

4-5 impiegati 24 1 22 1

6-9 impiegati 27 3 24 0

10-19 impiegati 51 0 48 3

20-49 impiegati 43 0 41 2

+ 50 impiegati 55 0 55 0

Totale settore 1384 168 1134 82

Settore secondario 0 impiegati

(dimens. ignota) 2.326 318 1.885 123

1 impiegato 1.363 812 528 23

2-3 impiegati 2.233 572 1.554 107

4-5 impiegati 2.108 206 1.813 89

6-9 impiegati 3.639 181 3.309 149

10-19 impiegati 6.553 114 6.229 210

20-49 impiegati 10.585 83 10.223 279

50-99 impiegati 8.623 54 8.361 208

100-499 impiegati 16.833 66 16.398 369

500-999 impiegati 4.241 14 4.140 87

>1000 impiegati 4.647 12 4.548 87

Totale settore 63151 2432 49898 1731

Settore terziario 0 impiegati

(dimens. ignota) 9.179 1.260 7.401 518

1 impiegato 5.346 2.545 2.634 167

2-3 impiegati 8.713 2.102 6.043 568

4-5 impiegati 5.676 732 4.624 320

6-9 impiegati 6.390 503 5.520 367

10-19 impiegati 8.048 281 7.360 407

20-49 impiegati 10.238 140 9.570 528

50-99 impiegati 6.892 64 6.510 318

100-499 impiegati 14.253 115 13.593 545

500-999 impiegati 6.052 41 5.767 244

>1000 impiegati 15.375 115 14.636 624

Totale settore 96162 7898 83658 4606

Fonte: Fondazione ECAP, 2001.

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Tab. 8 Imprenditori/direttori di nazionalità italiana residenti in Svizzera secondo

il settore economico e la dimensione dell'azienda (2000).

Settori Dimensione azienda Imprenditori e direttori

Totale 2.861

Settore primario 0 impiegati o dimensione sconosciuta 5

Settore secondario 0 impiegati o dimensione sconosciuta 53

1 impiegato 28

2-3 impiegati 69

4-5 impiegati 63

6-9 impiegati 91

10-19 impiegati 97

20-49 impiegati 120

50-99 impiegati 59

100-499 impiegati 95

500-999 impiegati 16

>1000 impiegati 26

Totale settore 722

Settore terziario 0 impiegati o dimensione sconosciuta 301

1 impiegato 201

2-3 impiegati 287

4-5 impiegati 187

6-9 impiegati 168

10-19 impiegati 207

20-49 impiegati 204

50-99 impiegati 110

100-499 impiegati 212

500-999 impiegati 128

>1000 impiegati 134

Totale settore 2139

Fonte: Fondazione ECAP, 2001.

Relativamente ai settori occupazionali e lo status lavorativo le professioni collegate al

settore dell‟edilizia sono ancora quelle maggiormente numerose, seguite da quelle del

settore commerciale ed amministrativo. Si tratta dei due settori dove più numerosa è la

presenza della forza lavoro italiana in Svizzera. In particolare va osservato come il

lavoro nei cantieri e nella costruzione delle grandi opere sia stato, fin dal secolo XIX, la

principale attrazione di manodopera dal nostro paese.

Per quanto riguarda, infine, l‟importanza dell‟Italia come partner commerciale per la

Svizzera, va sottolineato che negli anni più recenti la Confederazione Elvetica ha

assorbito tra il 3 e il 4% dell‟export Italiano. Se si considerano le dimensioni limitate del

Paese, si tratta di una quota rilevante, che fa dell‟Italia uno dei principali interlocutori

economici, fornendo alla Svizzera prodotti relativi a tutte le principali voci della

manifattura industriale. Prevalentemente si tratta di prodotti chimici, di quelli alimentari

e di quelli “classici” del made in Italy (moda, pelletteria, calzature, eccetera).

Inoltre va osservato come la Svizzera rappresenta anche un paese di destinazione molto

rilevante per gli investimenti diretti delle imprese italiane, che vi hanno destinato, nel

biennio 1999-2001, una media di circa un miliardo di Euro all‟anno.

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5.4.6. L‟organizzazione della Comunità Italiana in Svizzera

La realtà associativa

Secondo i dati raccolti nel 2000 in occasione della preparazione della Prima Conferenza

generale degli italiani nel mondo, sul territorio elvetico erano presenti 1.438

associazioni gestite da italiani e rivolte alla comunità italiana. La Circoscrizione

consolare caratterizzata dalla maggiore vitalità associativa era di gran lunga quella di

Basilea, seguita da quella di Zurigo, di Berna, di Lugano, di San Gallo, di Ginevra e di

Losanna.

Il tessuto associativo della comunità italiana in Svizzera appare tra i più ricchi d‟Europa,

particolarmente articolato e ben organizzato, nonché in grado influenzare le politiche

sociali ed economiche che riguardano le componenti straniere. Uno sviluppo così

capillare dell‟associazionismo si può far risalire a diversi fattori. In primo luogo la

necessità di difendersi dalle diffuse forme di discriminazione storicamente attuate

contro gli stranieri. E‟ importante ricordare che le prime Associazioni che nascono – in

coincidenza con le diverse ondate di immigrazione italiana - sono per lo più di iniziativa

politica, sociale e assistenziale; esse hanno lo scopo di mettere in campo forme di tutela

nei confronti degli italiani, soprattutto in ambito lavorativo.

In secondo luogo la necessità da parte degli emigrati di organizzare strutture aggregative

capaci di dare risposte a quelle esigenze della comunità che né le istituzioni elvetiche,

né le istituzioni italiane hanno storicamente soddisfatto: dall‟assistenza sindacale alle

manifestazioni musicali, dallo sport alle iniziative culturali. In terzo luogo, la particolare

situazione politica della Confederazione, che di fatto impediva agli stranieri di

partecipare alla vita pubblica dei Cantoni, cosicché le Associazioni hanno incoraggiato

forme diversificate di partecipazione politico-sociale; partecipazione organizzata e

rivolta perlopiù quasi esclusivamente all‟interno delle comunità di riferimento,

specialmente regionali.

Ciò nonostante, una delle caratteristiche più importanti del fenomeno relativo

all‟associazionismo italiano in Svizzera è stata sempre quella della presenza di strutture

di coordinamento tra le varie Associazioni, facilitata, tra le altre cose, anche dalle

dimensioni territoriali ridotte della Confederazione e dalla intensa densità demografica

della comunità italiana, soprattutto in determinate aree cantonali.

In questo senso è bene ricordare esperienze – tra le più “vecchie” – come quelle del

Comitato Nazionale d‟Intesa (CUI), nato nel 1970 e formato da esponenti delle diverse

aree politiche e culturali dell‟associazionismo. Il Cui è nato proprio in occasione

dell‟escalation delle iniziative referendarie finalizzate a ridurre la presenza e i diritti dei

lavoratori stranieri. In tempi più recenti e quindi tra le organizzazioni più giovani – è

importante ricordare la nascita, nel 2001, del FIM (Forum per l‟Integrazione dei

Migranti); si tratta di una sorta di Parlamentino composta da 150 membri rappresentanti

di tutti i gruppi immigrati presenti nella Confederazione. Una struttura, quindi,

istituzionale che si affianca alle strutture centrali della Confederazione per occuparsi

delle politiche per i migranti: alla presidenza del Forum – e nella Segreteria generale –

siedono proprio due rappresentanti delle Associazioni italiane.

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206

Inquadrando il fenomeno associativo in uno schema capace di far risaltare le finalità e le

caratteristiche di ciascuna Associazione, possiamo suddividere l‟insieme delle

Associazioni censite in sette grandi gruppi sulla base delle attività che svolgono, ognuno

dei quali presenta determinate tendenze che possono fornirci una descrizione

particolarmente dettagliata dell‟intero fenomeno.

Le attività, dirette sia all‟interno che all‟esterno delle comunità di appartenenza, si

articolano in differenti settori, quali:

assistenziale e medico-sanitario, in quanto le differenti comunità utilizzano, da un lato, modalità mediche e curative appartenenti alla loro tradizione e,

dall‟altro, con il progressivo livello di integrazione o l‟allargamento delle

relazioni sociali, modalità mediche e curative appartenenti alle agenzie sanitarie

dell‟area locale e cantonale di insediamento;

culturale e di protezione dei valori originari, in quanto – specialmente le prime

generazioni di immigrati – tendono a mantenere unite le rispettive comunità

attraverso il mantenimento della memoria collettiva di origine.

L‟associazionismo cerca di preservare questi valori e credenze trasmettendole

agli associati e ai membri della comunità allargata;

formativo-professionale, in quanto le associazioni tendono a fornire una sorta di

training propedeutico di base per diffondere le pratiche lavorative necessarie per

un adeguato inserimento nel mercato del lavoro locale. Tale attività facilita sia

gli inserimenti lavorativi che gli eventuali percorsi di formazione professionale

formalizzati;

politico-sociale e religiosa, in quanto tendono a costruire relazioni con le altre organizzazioni comunitarie nonché con le istituzioni/servizi locali di riferimento.

Si tratta in pratica delle diverse forme che assume la partecipazione espressa

dalle associazioni di emigranti come strumento di mobilitazione orientata alla

negoziazione di maggiori livelli di integrazione;

scolastico-educativa, si sostanzia attraverso l‟organizzazione di corsi di alfabetizzazione linguistica della comunità, soprattutto all‟origine, per la lingua

tedesca o francese (e finanche per il dialetto svizzero che si parla nei diversi

cantoni); nonché per la lingua italiana (anche se ormai è largamente insegnata

nelle scuole pubbliche) per i bambini e soprattutto per gli adulti. Viene inoltra

stimolata la partecipazione attiva dei genitori alla vita scolastica dei loro figli e

vengono organizzati momenti di socializzazione e di sostegno ai bambini

medesimi al fine di prevenire eventuali disagi e favorire l‟apprendimento in

generale;

sportivo-ricreativa, promovendo la pratica di attività sportive attraverso

l‟organizzazione di tornei di calcio/calcetto o di basket e di altre attività che non

necessitano di particolari attrezzature. Alcune associazioni organizzano anche

visite collettive ai musei e monumenti, oppure gite finalizzate alla scoperta delle

città d‟arte o per tornare, collettivamente, nei paesi di origine;

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207

sindacale-tutelativa, incoraggiando la fruizione delle prestazioni offerte dalle organizzazioni sindacali e dei patrnati, allo scopo di difendere diritti acquisiti

oppure di rafforzarne altri, in particolare nel mondo del lavoro e dei servizi

sociali.

Il livello di strutturazione organizzativa delle attività appena elencate è variegato, in

quanto riflette le dinamiche tra auto-organizzazione volontaria e militante delle

comunità italiane, tra cui anche quelle campane (come abbiamo rilevati nei capitolo 4).

Alcune organizzazioni si caratterizzano per la richiesta alle istituzioni locali di maggiori

opportunità integrative (domanda sociale), mentre altre per l‟erogazione di servizi

soprattutto su base volontaria a fianco di quelli pubblici (offerta di servizi)132

. Anche

questa seconda tipologia organizzativa svolge una funzione critica nei confronti delle

istituzioni locali di riferimento qualora, a causa delle medesime, la loro pratica

professionale risulti inadeguata alla qualità dei bisogni espressi da chi beneficia delle

attività dello stesso servizio sociale.

L‟associazionismo di origine regionale e locale

Le Associazioni che nascono con lo scopo di richiamarsi ad una appartenenza regionale,

provinciale o comunale italiana sono in grande crescita negli ultimi anni. Il Censimento

del 2000 ne segnalava 232, il 27% del totale. Le Regioni più coinvolte nello sviluppo di

questo associazionismo sono nell‟ordine: la Sicilia, la Puglia, la Calabria e la Campania.

La diffusione dell‟associazionismo di matrice locale segna un passaggio importante

nello sviluppo del fenomeno. L‟attivazione, infatti, di una serie di legami tra la Svizzera

e le zone di cui sono originari gli emigranti ha aperto dei canali interessanti dal punto di

vista economico e commerciale. Le Associazioni si fanno promotrici, ad esempio, anche

della diffusione dei prodotti tipici dei paesi di partenza e iniziano ad avere un ruolo

importante in un settore strategico dell‟economia italiana, come il turismo.

Il legame tra gli Stati tradizionalmente di emigrazione e i flussi turistici provenienti dai

paesi di insediamento è cresciuto molto negli ultimi decenni.. Anche in Italia si è

avviato un flusso del genere destinato a crescere di pari passo con l‟evoluzione delle

scelte economiche che la comunità italiana in Svizzera effettua. Scelte non più orientate

esclusivamente verso l‟acquisto della casa e della terra nel paese di provenienza ma

mirate anche – e sempre più – a forme di investimento di tipo imprenditoriale, in molti

casi legato al turismo.

Nelle località di mare dell‟Italia meridionale, in particolare in Campania e Puglia, non è

rara la presenza di turisti svizzeri orientati verso quelle zone proprio dagli emigranti

italiani: il ruolo di promozione e valorizzazione delle risorse locali che in questo

processo può giocare l‟Associazionismo è evidentemente molto importante.

L‟associazionismo italiano in Svizzera si distingue per una forte connotazione di tipo

sociale e assistenziale. Il fenomeno associativo infatti rispecchia la stratificazione

relativamente recente della comunità italiana, che, se confrontata con altre comunità

132

Per un approfondimento di tali aspetti, cfr. Michele Colucci, L‟associazionismo di emigrazione

nell‟Italia repubblicana, in P. Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina, Storia

dell‟emigrazione italiana, Donzelli Editore, Roma, 2001, p. 415 e segg.;

Page 208: “L‟emigrazione campana all‟estero. Occupazione ...emigrazione-notizie.org/public/upload/downloads/Emigrazione campana... · 5.3.7 La Campania nell‟immigrazione italiana nel

208

italiane nel mondo – ad esempio negli Stati Uniti o nel Canada, ma anche in Argentina e

in Brasile –, appare ancora giovane e in una fase di passaggio da forme “elementari” a

forme più “complesse”. Le Associazioni che vantano il maggior numero di soci e che

risultano essere più attive sono proprio quelle che hanno l‟obiettivo di assistere gli

emigrati italiani, in particolare gli anziani. In questo senso, si può notare come siano i

patronati, le Missioni, i Circoli sociali e ricreativi le punte più vitali

dell‟associazionismo italiano in Svizzera

I settori economici che per primi hanno scelto di avvalersi delle risorse

dell‟associazionismo sono la ristorazione, il turismo, la piccola e media impresa legata

all‟import-export di prodotti italiani, nei quali molto attive sono le Associazioni

regionali. L‟inizio del rapporto tra imprenditoria e associazionismo regionale si può far

risalire alla fine degli anni Settanta, a causa di due fattori: il crescente ruolo delle

competenze affidate alle Regioni in materia di emigrazione e la diffusione della piccola

imprenditoria in Svizzera come risposta alla crisi economica dei primi anni Settanta. In

seguito a questa crisi l‟intera comunità italiana ha attraversato un periodo di marcata

difficoltà che ha costretto diverse componenti ad una accentuata ridefinizione

complessiva del proprio ruolo e della propria collocazione economica.

Al‟interno di questo panorama generale le associazioni campane hanno giocato un ruolo

significativo: sia perché in diversi casi hanno fatto da collegamento con le

organizzazioni sindacali e religiose, sia perché hanno svolto una funzione

intermediatrice tra la comunità e le istituzioni locali svizzere e in parte anche con le

istituzioni locali dell‟area di provenienza. Il problema della trasmissione delle

associazioni alle seconde generazioni appare minore rispetto ad altri paesi, ad esempio

dell‟America settentrionale e meridionale. Infatti, anche da sopralluoghi effettuati nel

corso della ricerca, tale passaggio è abbastanza avanzato in una parte di esse (su 8

associazioni visitate almeno in 5 ciò stava avvenendo o era già avvenuto, non sempre in

maniera indolore). Nelle altre tre il passaggio era piuttosto difficile, ed infatti la

situazione era anche piuttosto conflittuale e le possibilità di riuscita erano piuttosto

remote.

L‟informazione e la stampa

Nella Confederazione Elvetica si contano a tutt‟oggi 43 giornali in lingua italiana rivolti

prevalentemente alla comunità italiana. All‟interno delle 43 testate possiamo

individuare una notevole articolazione culturale, nel senso che i giornali sono

espressione dei differenti indirizzi politico sociali e culturali presenti nella comunità. Il

giornale che vanta la maggiore tiratura è il settimanale “La pagina italiana” di Zurigo; la

sua tiratura arriva fino a 194.000 unità ed è ritenuta piuttosto considerevole.

Tra le varie testate si registra la prevalenza di mensili e settimanali, spesso legati a

esperienze di associazionismo locale: moltissimi, ad esempio, i giornali pubblicati dalle

Missioni Cattoliche. Una tendenza importante della stampa italiana in Svizzera è la

funzione di servizio che ancora riveste all‟interno della comunità. I giornali infatti

funzionano come veicolo di diffusione di notizie fondamentali di tipo amministrativo

per i residenti italiani, anche per questo è particolarmente ricercato il legame tra le

Agenzie diplomatiche e la stampa locale.

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209

5.4.7. I problemi attuali

Ancora oggi tra gli interventi più urgenti per l‟emigrazione italiana in Svizzera sono

innanzitutto quelli rivolti a due generazioni di italiani: i più giovani, figli di immigrati

della prima o seconda generazione e i più anziani, esponenti dell‟emigrazione degli anni

Cinquanta-Sessanta.

Nei confronti dei più giovani si evidenziano le difficoltà linguistiche, anche in relazione

all‟opportunità di valorizzare la lingua italiana; lo sviluppo non sempre efficace delle

azioni formative, in particolare nel settore della formazione professionale; la

persistenza, nonostante il positivo e diffuso inserimento economico, di difficoltà di

socializzazione con i coetanei svizzeri. Emerge la necessità di aggiornare le proposte di

formazione professionale che arrivano dall‟Italia, legate ad un contesto economico

superato e lente a recepire le novità e gli adattamenti formativi richiesti dai sistemi

produttivi condizionati dalla globalizzazione.

Oltre alle esigenze formative delle classi dei giovani, non meno problematica appare la

situazione della qualificazione e riqualificazione professionale dei lavoratori tra i 45 e i

55 anni; aspetto che interessa in specie i disoccupati in quanto necessitano di

opportunità di reinserimento lavorativo, e le cui condizioni si aggravano anche per la

mancanza, in genere, di titoli di studio e adeguati livelli di istruzione.

Particolarmente sentito risulta essere anche lo scarso coinvolgimento delle giovani

generazioni nell‟associazionismo di emigrazione, che trova di conseguenza difficoltà a

recepire e rappresentare le loro esigenze e a socializzarle nelle rispettive comunità. Per

gli anziani si conferma la persistente difficoltà nel definire e articolare la scelta su dove

trascorrere la propria vecchiaia e la mancanza di un ruolo istituzionale – sia da parte

italiana che da parte svizzera – nel sostenere questa scelta. La generazione più anziana –

piuttosto numerosa (sono circa 30.000 gli ultrassessantenni italiani in Svizzera) non ha

risolto del tutto le questioni relative al trattamento previdenziale. Su questi temi sono

impegnati da tempo gli Enti patronali italiani.

La strategia per affrontare e risolvere le contese in materia previdenziale prevede di

sostenere una politica di Accordi bilaterali statali, con il supporto di Patronati e delle

Associazioni. Non meno avvertita, poi, è la necessità di agevolare i meccanismi per il

trasferimento dei contributi dagli Enti previdenziali svizzeri a quelli italiani e di

promuovere iniziative mirate per gli anziani che si ritrovano a “dover” continuare a

vivere in Svizzera, per ragioni familiari o economiche, pur magari volendo ritornare in

patria. Un ulteriore aspetto di grande rilevanza, è ancora quello dei lavoratori frontalieri.

Si calcola che siano ancora oggi circa 50 mila unità, provenienti dalle province più

settentrionali. Non bisogna dunque dimenticare che l‟Italia – anche se in misura diversa

e minore che nel passato – continua ad essere un paese di emigrazione non frontaliera,

anche se la questione immigratoria riveste una importanza piuttosto significativa. Infatti,

nel periodo 1986-1997 gli espatriati sono stati 529.000 e i rimpatriati 509.000.

Attualmente gli espatri (circa 35.000) prevalgono sui rimpatri (30.000 unità)133

.

133

Ns elaborazione su dati Istat, 2002;

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210

Per quanto concerne i giovani di seconda generazione - sulla base di una ricerca134

svolta dalla Fondazione Ecap di Zurigo (in cui il 16% degli intervistati ha genitori

provenienti dalla Campania) – si evidenzia una significativa propensione alla mobilità

sociale nell‟inserimento lavorativo. A questo riguardo i ricercatori così si esprimono: “I

giovani al centro dell'indagine si inseriscono in modo non dissimile dai loro coetanei

dello stesso milieu sociale, anzi coronano in fin dei conti il sogno di terziarizzazione

occupazionale cullato sin da piccoli, alimentato dalle famiglie, in ragione di uno status

basso e di una vita di sacrifici che spinge a proporre la ricerca assillante del lavoro

stabile, sicuro, meno "sporco". In sintesi, i cittadini italiani e campani – secondo L.

Incisa di Camerana – sono diventati “i beniamini della Svizzera”, in base a ciò che

emerge da una indagine svolta dall‟Istituto di sociologia di Zurigo (nel 1998), giacchè –

afferma quasi la totalità degli intervistati – il loro apporto ha contribuito

“all‟arricchimento della cultura elvetica”135

.

134

Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera, I giovani italiani nel mondo tra integrazione e

ricerca delle radici storiche: il modello svizzero. Ricerca realizzata in collaborazione con la Fondazione

ECAP - Ufficio Studi e Ricerche, marzo 2002. 135

L. Incisa di Camerana, Il grande esodo. Storia dell‟emigrazione italiana nel mondo, Corbaccio Editore,

Milano, 2003, p. 356

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211

5.5 Il caso della Germania di Rodolfo Ricci, Stefania Pieri, Francesco Carchedi

5.5.1 La Germania come polo attrattivo di mano d‟opera

La Germania settentrionale, secondo J. Lucassen, citato da S. Sassen136

, quella che si

estende dai confini belga-olandesi fino alla città di Brema, rappresenta, soprattutto a

partire dal Settecento, una del sette grandi aree di immigrazione europee; essa si snoda,

per l‟esattezza, da Calais fino a Brema per circa 250 Km di lunghezza e circa una

cinquantina di larghezza. Si tratta di una vasta regione, caratterizzata dall‟intenso

sviluppo economico e da un‟ottima infrastruttura di trasporti, ricca di strade e porti, che

attira migranti da una distanza media di 350 km (ed oltre); al suo interno, alcuni territori

forniscono molta mano d‟opera migrante, mentre in altri emigrazione e immigrazione

stagionale non hanno nessuna rilevanza.

Questa vasta area risentiva direttamente l‟influenza dell‟economia belga che - tra i

diversi paesi europei – vantava all‟epoca uno sviluppo particolarmente significativo, al

punto che per Sidney Pollard il suo “modello di industrializzazone” era comparabile

soltanto a quello inglese (almeno fino alla seconda metà dell‟Ottocento)137

. Modello che

progressivamente – a cavallo tra la fine del Settecento e la prima metà dell‟Ottocento –

si alimentava attraverso l‟intercambio con altre regioni limitrofe: verso meridione

soprattutto nell‟area di Valenciennes e del Pas de Calais, verso oriente soprattutto nel

complesso industriale della Renania-Westfalia e in particolare nell‟area di

Dussenldorf138

, coprendo in buona parte l‟area descritta dalla Sassen. Questo

interscambio – basato anche sulla concorrenza e sulla competizione – determinò

connessioni e collegamenti talmente stretti che divenne nel tempo un unico grande

sistema industriale, con area produttive più omogenee delle altre.

Sistema che col tempo determina e sviluppa dei “poli industriali di crescita” – secondo

l‟accezione di Francoise Perroux139

- dislocati nei diversi paesi dell‟Europa settentrionali

(in particolare l‟area sopra descritta); che determinano, a loro volta, “complessi

industriali trainanti – definendo posizioni dominanti o addirittura monopolistici – e

creando intorno ad essi altri sub-sistemi industriali e di servizi alle imprese, anche a

136

Jan Lucassen – ispettore napoleonico incaricato di redigere un rapporto sulla mobilità delle

componenti maschili e dei migranti – produce una ricerca da cui Saskia Sassen acquisisce dati ed

informazioni sulle aree europee di maggior attrazione migratoria negli ultimi decenni del Settecento e i

primi dell‟Ottocento. Si tratta, come accennato, di sette aree o meglio di sette “sistemi migratori”: il

primo è quello londinese, e l‟area orientale, il secondo è quello parigino e l‟area settentrionale, il terzo è

quello madrileno e la Castglia in generale, il quarto è quello che copre la Catalogna fino alla Provenza, il

quinto è quello padano (con l‟area torinese e milanese), il sesto è quello della Toscana meridionale e il

Lazio (con la città di Roma) e il settimo, infine, è quello che si estende lungo le coste del Mar del Nord

(con le regioni settentrionali olandesi e tedesche). Cfr. S.Sassen, Migranti, coloni, rifugiati.

Dall‟emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano, , 1999, p. 33-34; 137

S. Pollard, La conquista pacifica. L‟industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, Il Mulino,

Bologna, 1981, p. 143; 138

Ibidem, p. 152 e p. 155; 139

F. Perroux è citato da S. Pollard, cit., p.p. 178-179 ed anche in, Stuart Holland, Le regioni e lo

sviluppo economico europeo, Laterza, Bari, pp. 910, nonché – per una applicazione della teoria

all‟emigrazione pp.32 e segg.

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212

livello macro-regionale. Questi differenti poli nel corso del secolo scorso vengono a

collegarsi attraverso le grandi opere ferroviarie, la navigazione di larghi fiumi (ad

esempio il Reno) accelerando così l‟interscambio e lo sviluppo di altre aree intermedie”.

Insomma, viene a determinarsi in tali aree un effetto diffusivo delle capacità produttive

del sistema industriale, un effetto di richiamo dei capitali e di investimenti redditizi,

nonché un effetto attrattivo della mano d‟opera nella quale la Germania ne diventa uno

degli assi portanti e di alimentazione.

Lo sviluppo di questa vasta area transnazionale – basato sul materie prime date dal

carbone e dal ferro e dalla possibilità di movimentarle attraverso la rete ferroviaria –

promosse significativi movimenti migratori: sia per la facilità degli spostamenti (anche

di più lunga percorrenza), sia per la diversa organizzazione del lavoro salariato, sia per

l‟impiego della tecnologia che riduceva in parte la fatica rispetto ai decenni precedenti.

Nella seconda metà dell‟Ottocento – soprattutto a causa degli effetti che producevano

le guerre (ad esempio, riducendo la popolazione maschile attiva) e alle rilevanti crisi

economiche che ne conseguivano (devastazioni e carestie) – si innesca un ulteriore

processo migratorio, più esteso e variegato dei precedenti.

La mano d‟opera proveniva in generale dalle campagne circostanti i “poli di crescita

industriale”, attingendo ai serbatoi di mano d‟opera dell‟epoca che non distingueva tra

lavoratori adulti e lavoratori minorenni. Alcune di queste aree industriali – già alla fine

dell‟Ottocento – avevano già esaurito il serbatoio di mano d‟opera regionale ed

interregionale (nazionale) ed iniziano – come nel caso del distretto della Ruhr – a

reclutare lavoratori stranieri, provenienti dall‟Est e dal Sud della Germania (soprattutto

Polacchi e Svizzeri e in misura molto minore di Italiani).

L‟emigrazione prima del Secondo conflitto mondiale

Questo sistema di reclutamento, basato per la “maggior parte da movimenti migratori

spontanei, senza programmazione e senza controlli”140

, resta quasi invariato per tutto

l‟Ottocento, allorquando il rafforzamento degli Stati nazionali introducono le prime

limitazioni sostanziali alla libera circolazione, anche se rimane in alcuni altri paesi

(come ad esempio in Svizzera fino al 1925). Al contempo, diventano poli di attrazione

anche altre aree della Germania (in direzione del basso Reno) e ai sistemi migratori per

lavoro si affiancano anche quelli per motivi politici (tra l‟altro sviluppatesi in forma più

rilevante a partire dal 1848), ossia dei richiedenti asilo.

“La Germania guglielmina – secondo Petersen - dopo il 1890, forte di una costante e

notevole crescita economica cambia da paese di emigrazione a paese di

immigrazione”141

, in riferimento alla mano d‟opera straniera. In effetti, per altri autori,

ad esempio, Klaus J. Bade142

”, alla fine dell‟Ottocento la Germania era ancora un paese

di emigrazione verso l‟estero, in particolare verso le Americhe (soprattutto per quella

140

Cfr. Jens Petersen, Introduzione, in J. Petersen (a cura di), “L‟emigrazione tra l‟Italia e la Germania”,

Piero Licata Editore, Bari-Roma, p. 5 e 6; 141

J. Petrsen, cit. p. 5; 142

Klaus J. Bade, Emigrazione -migrazione per lavoro- immigrazione: esperienze tedesche nel XIX e XX

secolo, in J. Petersen (a cura di), cit. p. 15 e 16

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213

settentrionale)143

; contemporaneamente, ma non senza contraddizioni di tipo socio-

culturale, la Germania stava caratterizzandosi anche come paese di immigrazione

straniera (che tendeva, tra l‟altro, all‟insediamento stabile) e finanche di paese di

transito di flussi migratori provenienti dall‟Est. Questi ultimi flussi - diretti

particolarmente verso gli Stati Uniti e il Canada - “furono di estrema importanza per le

navi di linea tedesche, i cui agenti … pur non provocando (nei paesi dell‟Est interessati)

la “febbre migratoria”, la stimolarono notevolmente per ricavarne enormi guadagni”144

.

Il movimento migratorio per lavoro della Germania all‟epoca si compone

principalmente da flussi che intraprendono percorsi sulla direttrice Est-Ovest, cioè

dall‟oriente agricolo verso l‟occidente industrializzato. Flussi che si dirigono

principalmente verso le città della Ruhr e in parte, specificamente cittadini polacchi145

ed austriaci, verso la regione “prussiana” e nell‟alta Sassonia; così come alcune

componenti di contadini svizzeri e italiani si dirigono verso l‟area Sud-renana e la

Baviera. Gli italiani partecipano più agevolmente al lavoro di costruzione delle grandi

infrastrutture e al lavoro in miniera (anche se in proporzioni molto minore), ossia

all‟interno di quei settori produttivi che Donna G. Gabaccia definisce – almeno per le

componenti maschili - “le nicchie economiche italiane146

. Edilizia e le miniere

soprattutto, ma anche – in subordine – occupazioni come bracciantato agricolo. Per le

donne, invece, le nicchie erano quelle del settore tessile, cioè l‟attività specializzata che

le italiane – oltre al lavoro domestico - esercitavano quasi in tutti i luoghi di

emigrazione nella quale si insediavano.

143

Nel 1890 il 30% degli immigrati presenti negli Stati Uniti sono tedeschi, percentuale che nel giro di

circa 40 anni si attesta al 10% circa. L‟emigrazione tedesca verso l‟estero si interrompe quasi

sbruscamente verso la fine dell‟Ottocento, ma non quella interna dalle regioni orientali a quelle

occidentali; quest‟ultima emigrazione proviene soprattutto dalla Posnania ed è composta dai “contadini

più poveri e dove i salari sono più bassi … i quali non dispongono del denaro necessario alla traversata

(verso l‟America) e neanche sono in grado di disporre delle reti di supporto già insediatesi (in America)

per organizzare una emigrazione a catena”. Cfr. S. Sassen, cit., p. 60; 144

Klaus J. Bade, cit., p. 16; 145

Con gli emigranti polacchi iniziano a generarsi, anche per rancori e conflitti storici, paure e diffidenze

da parte di significativi settori della popolazione tedesca., fino ad arrivare a manifestazioni razziste e

xenofobe; manifestazioni che – secondo la Sassen – non interessano le altre componenti immigrate, tra

cui quelle italiane. La preoccupazione dell‟invasione dall‟oriente e della possibile snaturalizzazione della

cultura tedesca ad opera dei polacchi irrigidisce la disposizioni normative relative all‟acquisizione della

cittadinanza. Nel 1913 acquisita forza il principio dello ius sanguinis ed una certa propensione ad

acquisire la cittadinanza agli stranieri attraverso un moderato uso dello ius soli. L‟intento era quello

dell‟assimilazione di gruppi elitari di immigrati, attraverso la possibilità di scelta di quale cittadinanza

mantenere. Questo valeva sia per gli emigranti tedeschi espatriati e sia per gli immigrati stranieri

stabilitesi in Germania. Per questi ultimi si prevedeva l‟acquisizione (moderata) della cittadinanza

tedesca (soprattutto per gli immigrati di lingua tedesca) in cambio della perdita di quella di origine.

Nonostante queste piccole aperture il rapporto con le componenti polacche rimane nel tempo piuttosto

conflittuale e le difese che il partito socialdemocratico prendeva in favore di una politica di maggior

attenzione a questi problemi l‟accusa che gli veniva rivolta era quella di adoperarsi per “annacquare la

nazione tedesca”. Cfr. S. Sassen, cit., pp. 66 e 67; 146

Secondo Donna Gabaccia, “gli italiani non accettano lavori a caso, perciò si può parlare a diritto di

nicchie economiche italiane all‟interno del mercato mondiale del lavoro. La nicchia occupazionale

italiana di gran lunga più rilevante a livello mondiale era rappresentata dal settore delle costruzioni, che

impiegava lavoratori di sesso maschile. Gli italiani fornirono il grosso della mano d‟opera nella

costruzione delle gallerie e delle linee ferroviarie transalpine (Sempione e San Gottardo, in particolare)

Tra il 1870 e il 1920. Essi costruirono ferrovie anche in Austria e nei Balcani, e si spinsero in Asia dove

divennero il 10% della forza lavoro impiegata nella costruzione della Transiberiana… (nonché) in Cina

… in Nord Africa e in Sud Africa”. Inoltre, negli Stati Uniti, in Canada, in Argentina e nella costruzione

del Canale di Suez. Cfr. Donna R. Gabaccia, Emigranti. La diaspora degli italiani dal medioevo ad oggi,

Einaudi, Torino, pp. 94 e 95.

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La costruzione delle ferrovie accorcia le distanze e i conseguenti tempi di percorrenza

per gli emigranti che si spostano dal luogo di origine a quello di destinazione, dando

così alle aspettative migratorie – soprattutto alle componenti che si formano in aree

geografiche più lontane - maggior possibilità di essere soddisfatte ed assolte147

. Oltre ai

lavoratori emigranti e agli esuli politici nella seconda metà dell‟Ottocento148

- fino agli

inizi del secolo successivo - si spostavano anche giorovaghi, musicisti ambulanti, artisti

di strada da un lato e al contempo artisti di statura nazionale che andavano a dirigere

lavori e grandi operare infratrutturali e palazzi signorili dall‟altro149

. Dopo il 1890 i tassi

di emigrazione dell‟Italia meridionale aumentarono, anche se in misura diversa in

relazione alle diverse regioni: “dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia partirono

più emigranti - secondo Donna R. Gabaccia - che non dalla Puglia e dalla Sardegna”150

.

Di questi soltanto una piccola parte si diresse verso l‟Europa, mentre la maggior parte

prese la strada degli Stati Uniti e dell‟America meridionale.

Nel dicembre 1900 vengono censiti in territorio tedesco 69.760 italiani, cifra da

considerare per difetto perché priva dei dati riguardanti gli emigranti temporanei. Una

decina di anni dopo, tra il 1908 e il 1910, gli italiani risultano essere circa 135.000, di

cui un migliaio occupato nel settore agricolo e il resto in quello industriale151

. Ma

secondo il governo tedesco occorreva aggiungere almeno altri centomila emigranti

temporanei italiani che svolgevano lavori stagionali e comunque limitati nel corso di un

anno; emigranti che una volta finita la stagione lavorativa tornavano al paese di origine

per rimpatriare l‟anno successivo. L‟emigrazione italiana era diretta – oltre che nelle

aree dove era possibile l‟occupazione nel settore edilizio, agricolo e tessile -, anche

nelle zone minerarie, verso le aree delle industrie metallurgiche e verso quelle della

147

Mentre nel Settecento la distanza massima di percorrimento degli emigranti è stata stimata a circa 350

Km, alla fine dell‟Ottocento diventa molto più alta, non solo per mare – che lo era almeno dalla fine del

Quattrocento - ma anche per via di terra. 148

Queste due categorie di “emigranti” – secondo Golini e Amato – corrispondono alle due questioni

principali che attraversa l‟Italia post unitaria: le precarie condizioni socio-economiche – rese ancora più

dure nel quinquennio 1873-79 soprattutto nelle aree agricole. “il binomio crisi economica e politica

liberale” – Crispi di fatto liberalizza l‟emigrazione con la normativa del 1888 – “sottende quindi

l‟emigrazione italiana” dell‟epoca; cfr. Antonio Golini e Flavia Amato, Uno sguardo ad un secolo e

mezzo di emigrazione italiana, in P. Bevilacqua, A. De Clementi e E. Franzina, Storia dell‟emigrazione

italiana, Partenze, donzelli, Roma, 2001, p. 48 e 49; 149

Matteo Sanfilippo, Tipologie dell‟emigrazione di massa, in P. Bevilacqua, A. De Clemente, E.

Franzina, Storia …, cit., pp. 84 –88; Donna R. Gabaccia ripartisce in tre grandi tipi l‟emigrazione

italiana: quella degli artisti (“grandi” e “piccoli”), quella degli esuli politici e quella per motivi di lavoro.

Un‟altra attività collaterale, ricorda la stessa autrice, fu quella del reclutatore. “Quando la domanda di

lavoro aumentò in tutto il mondo, i “girovaghi” e gli “esuli politici” divennero agenti di collocamento” e

reclutatori di mano d‟opera. All‟interno di questa pratica non mancò quella coercitiva e violenta che diede

spazio ai “mercati di carne”. “Se gli italiani vendevano le statuine di gesso in tutta l‟Europa, non potevano

vendere anche gli uomini? Il mercato mondiale dei lavoratori italiani meno specializzati fu costruito in

larghissima misura da agenti di lavoro e reclutatori di mano d‟opera”. Donna G. Gabaccia, cit., p. 78; 150

Donna G. Gabaccia, cit. p. 86; 151

R. Del Fabbro, Emigrazione proletaria italiana in Germania nel XX secolo, in J. Petersen, cit., p. 29;

inoltre, secondo le informazioni in possesso di Saskia Sassen, “nel 1914 entrano legalmente nel Reich

tedesco quasi 500.000 lavoratori agricoli stagionali e tra questi, accanto ad una prevalenza di polacchi

provenienti dai territori russi ed austriaci, vi sono anche italiani, scandinavi e russi bianchi”. Questi

lavoratori, come gli altri entrati in precedenza, pur essendo ormai indispensabili all‟agrico ltura e

all‟industria, rileva la Sassen citando il parere degli industriali tedeschi dell‟epoca, non sono equiparati

“con i lavoratori autoctoni, né finanziariamente, né giuridicamente. Tanto meno le autorità o i datori di

lavoro mettono in atto tentativi di integrazione: questi lavoratori sono, dunque, i veri antesignani dei

“Gastarbaiter”, dei “lavoratori ospiti” della nazione tedesca”. S. sassen, cit., p. 62;

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215

produzione di laterizi. Nel censimento del 1906 gli italiani risultavano essere la metà del

totale dei lavoratori impiegati nelle miniere tedesche.

Un‟alta concentrazione di immigrati italiani, dunque, si registrava in Vestfalia, in

Baviera, nel Wuttemberg, nella Renania e nell‟Alsazia-Lorena. Fino agli anni della

prima guerra mondiale si trattava di emigranti provenienti principalmente dall‟Italia

settentrionale, in particolare dal Veneto152

, e soltanto in piccola parte dal meridione

(come sopraccennato). Questi primi emigranti italiani verso la Germania provenivano

da aree agricole, solitamente con livelli di sviluppo insoddisfacenti a garantire una

adeguata sussistenza all‟intera fascia dei piccoli proprietari terrieri, dei lavoratori

agricoli, del bracciantato povero. Ma non per questo, ad esempio, secondo Del Fabbro,

queste componenti migratorie non avevano particolari specializzazioni professionali.

Anzi. Si potevano contare operai specializzati che ben si integravano nel lavoro

industriale o nel lavoro edile ai diversi livelli di mestiere153

. Dal censimento del 1907,

ricorda Del Fabbro, circa un quarto dei lavoratori italiani – ossia 30.000 unità su circa

130.000 - risultavano avere delle specifiche qualifiche, mentre gli altri svolgevano

mansioni che non ne richiedevano nessuna.

Lo scoppio della prima guerra mondiale – e lo spirito nazionalistico che ispira in

maniera restrittiva le disposizioni normative relative agli immigrati, e pertanto anche

quelli di origine italiana, soprattutto nel Nord America - determina una serie di eventi

che influiranno sulla composizione dei flussi migratori e la loro direzionalità geografica.

Dai paesi europei nel ‟14 rientrarono in Italia circa 300.000 lavoratori e si bloccarono

gli espatri dei giovani di leva; tra questi – secondo Bermani154

– soltanto una metà dei

rimpatriati riesce ad inserirsi nei mercati del lavoro locali. Sul versante Nord americano

– soprattutto negli Stati uniti – le misure restrittive chiudono, progressivamente, la

possibilità di espatrio agli italiani, modificando – di fatto – la direzione migratoria di

quanti erano propensi ad emigrare155

.

I paesi Nord europei – Lussemburgo, Francia, Svizzera, Belgio e Germania – diventano

nuove mete emigratorie per i nostri connazionali, all‟indomani della fine della prima

guerra mondiale. La crisi post-bellica e i conflitti sociali e politici che ne conseguono

spingono all‟espatrio circa 350.000 emigranti italiani per anno. Anche in questa nuova

ondata migratoria non partono soltanto braccianti agricoli e contadini poveri, “ma anche

152

E.Pugliese, In Germania, in AA.VV, Storia dell‟emigrazione italiana, vol.II, Arrivi, Donzelli, 2002.

Secondo Del Fabbro, inoltre, l‟80% degli emigranti italiani in germania a cavallo tra l?ottocento e il

Novecento era di origine settentrionale, in particolare provenienti da quattro regioni. La Lombardia, la

Toscana, l‟Emilia Romagna e il veneto; quest‟ultima raggiungeva una percentuale sul totale pari al 50%;

cfr. Renè Del Fabbro, Emigrazione proletaria italiana in Germania all‟inizio del XX secolo , in J.

Petersen, cit., pp. 28-29; 153

Renè Del Fabbro, cit., pp. 33-35; 154

Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell‟emigrazione italiana,

Bollati Boringhieri, Torino, 1998, pp. 3-4; 155

Inoltre, Anna Maria Martellone, La questione dell‟immigrazione negli Stati Uniti, p. 64 e 65, Secondo

la Martellone “I Quota Acts segnarono una svolta definitiva nella storia dell‟immigrazione negli Usa. E‟

errato, tuttavia, ritenere … che tali restrizioni abbiano segnato la fine dell‟immigrazione. Tra il 1930 e il

1970 sono entrati negli Usa sette milioni di persone. Ma la distribuzione degli ingressi annuali, che non

poteva oltrepassare le 153.000 persone, le basse quote assegnate a quei paesi dell‟area Sud-orientale

europea che avevano accesso gli unskilled … (comportò) che all‟Italia spettassero soltanto 5.802

ingressi”, una quota molto ridotta rispetto agli ingressi anteguerra. E‟ questa riduzione, a nostro parere,

che determina una riconversione delle mete migratorie, sia verso il Sud America che verso il Nord

Europa.

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216

uno strato di ceto medio contadino abbiente che assumeva – ad esempio nella Francia

meridionale – la titolarità di grosse aziende mezzadrili e acquista poderi” nelle aree di

insediamento…”. Altre componenti migratorie si trasferiscono in Belgio, a fare lavori

nelle miniere” e nei “territori occupati della Ruhr”156

.

Negli anni tra le due guerre, fino al 1937, si registra una riduzione del flusso di

emigrazione tra l‟Italia e la Germania. Nel 1937 il governo nazista, sulla scia della

collaborazione politica e militare con l‟Italia fascista, chiede ed ottiene l‟invio in

Germania alcuni contingenti di lavoratori agricoli: tra il 1937 e il 1938 partono quindi,

soprattutto da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, circa diecimila braccianti. Le

richieste tedesche si intensificano con l‟inizio della Seconda guerra e si calcola che tra il

1939 e il 1942 siano partiti circa trecentomila lavoratori italiani157

, diretti

principalmente nelle zone minerarie e industriali. Si trattava soprattutto di emigranti

delle regioni del Nord Italia, mentre dal Sud in proporzione i contingenti ancora

piuttosto esigui.

Si registrano, comunque, contingenti che partono dalla Sicilia, dalla Calabria, dalle

Puglie (in particolare da Bari) e dalla Campania (in particolare da Salerno e da

Napoli)158

. Queste emigrazioni, tuttavia, erano composte non solo da lavoratori che

sceglievano volontariamente di espatriare per motivi di lavoro, ma anche da componenti

di lavoratori che venivano letteralmente reclutati con la forza e la coercizione159

. Gli

“Accordi di mano d‟opera” sottoscritti dal Governo italiano con quello tedesco

prevedevano ben determinate e ben precise clausole sulle condizioni di vita e di lavoro

degli occupati, ma che venivano regolarmente eluse e non assolte. Ciò creava forme di

ribellismo e forme di conflitto sindacale diffuse nelle aziende tedesche che venivano

represse in maniera inflessibile come atti di indisciplina, di astensione dal lavoro e

finanche come atti di sabotaggio.

Queste forme di conflitto diffuso, secondo Bermani, avevano precise motivazioni ed

interessavano tutti i lavoratori italiani a prescindere dalla regione di provenienza. Ad

esempio, un gruppo di lavoratori napoletani che prima di espatriare “erano calzolai o

seggiolai, scalpellini o tranvieri, parrucchieri o fioristi, verniciatori o muratori e che

sono partiti spinti dal bisogno e allettati da possibilità di guadagno, vengono

sistematicamente utilizzati in un lavoro diverso da quello prospettato dal contratto

d‟ingaggio e messi a fare gli artificieri in una fabbrica di esplosivi; si trovano cioè a

lavorare in un ambiente nocivo, pieno di esalazioni di acidi che producono in molti di

loro sintomi di intossicazione”. Insomma, le tensioni e i conflitti nascevano soprattutto

dal fatto che appariva evidente l‟incompatibilità del lavoro che svolgevano in Germania

– risultante spesso solo in parte a quello previsto dal contratto di espatrio - e quello

156

C. Bermani, Al lavoro …, cit., p.4 e 5; 157

Si tratta di una stima che propone Ciro Poggiali – cit. da C. Bermani – contenuta in un articolo del

1941; secondo Bermani però tale cifra è sovrastimata, anche se descrive le professioni che esercitavano

questi lavoratori: erano soprattutto metallurgici e siderurgici, ma anche cementisti, carpentieri, muratori e

chimici, nonché: 15.000 minatori provenienti dalle solfatare siciliane; 70.000 lavoratori agricoli; 3.000

lavoratori del commercio e 8.000 esperti in materie sindacali e sociali. Tra gli edili è molto alta la quota di

specializzati. Op. cit. p. 19 e 19; 158

C. Bermani, cit. p. 18 e 39-40 e B. Mantelli, cit., p. 343; 159

Luz Klinlhammer, Reclutamento forzato di lavoratori e deportazione di ebrei dall‟Italia in Germania

1943-1945, in J. Petersen, cit., p. 75;

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217

svolto in precedenza160

che aveva caratterizzato la loro carriera professionale e di

mestiere.

Il governo italiano esportando mano d‟opera (con i contratti collettivi) e permettendo la

formazione di flussi verso la Germania otteneva, in cambio, l‟importazione di materie

prime. Contropartita che caratterizzerà anche i successivi Accordi di mano d‟opera con

il Belgio e quello con la stessa Germania quasi un decennio successivo. Le condizioni di

lavoro erano, mediamente, particolarmente dure e, dopo la firma dell‟armistizio del

settembre 1943, i disagi e i conflitti da parte dei lavoratori italiani da partesi

accentuarono anche ulteriormente161

fino alla fine della guerra.

5.5.2 Dal dopo guerra fino all‟Accordo italo-tedesco sulla manodopera

Nei primi anni che seguirono la Seconda guerra mondiale le mete dell‟emigrazione

italiana furono soprattutto la Francia e il Belgio, mentre la Germania all‟epoca attraeva

molto meno. Non solo attraeva di meno la manodopera italiana (anche per le esperienze

non sempre positive maturate dagli emigranti durante i Governi nazisti), ma anche

quella di altre nazionalità. Ma nonostante gli squilibri causati dal conflitto bellico,

secondo Romero, la Germania – seppur caratterizzata da una forte disoccupazione –

verso la fine degli anni Quaranta stava sostanzialmente “raggiungendo un parziale

equilibrio tra dinamica demografica e mercato del lavoro”, anche a causa dei cospicui

rientri dei suoi ex cittadini precedentemente “trasferiti” negli Stati orientali limitrofi

(Ungheria, Polonia, eccetera)162

. Equilibrio che era lontano da raggiungersi, ad esempio,

160

Si trattava in questi casi – secondo Vittorio Briani citato da Bermani, di “contratti collettivi”, in quanto

“l‟espatrio avveniva in gruppi organizzati e non quindi isolatamente; poteva essere stagionale o

occasionale nello stesso tempo, perché veniva svolto in epoche determinate per i lavoratori

dell‟agricoltura, senza rigida periodicità per le altre categorie; a tempo determinato, comunque, perché i

lavoratori espatriavano con un contratto, la cui durata era preventivamente prefissata (in generale in sei

mesi); ed infine volontario, ma dettagliatamente regolato”. (…) “Il contratto-tipo, sul cui schema veniva

firmato il contratto vero e proprio fra le singole ditte germaniche e i singoli operai italiani – dei quali era

ammessa anche la richiesta nominativa – regolava il reclutamento, l‟afflusso dei lavoratori, la durata e

l‟orario, il salario e i contributi dovuti, l‟invio di rimesse, il vitto, l‟alloggio e le ferie (pagate e con diritto

a passarle in Italia: normalmente 15 giorni ogni sei mesi) e ogni altro problema riguardante il paese di

emigrazione e il paese di immigrazione. In particolare la convenzione relativa alle assicurazioni sociali,

basata sul criterio della reciprocità, implicava per ogni lavoratore italiano in Germania il pagamento di

tutti i contributi dovuti ai tedeschi e lo stesso trattamento in caso di bisogno, unificando ad ogni effetto a

favore dell‟operaio i periodi trascorsi all‟estero con quelli trascorsi in Italia”. C. Bermani, cit., p. 9; 161

Cfr. Oltre a C. Bermani, da p. 12 a 20, cit., B. Mantelli, L‟emigrazione di manodopera nel Terzo

Reich, in AA.VV, Storia dell‟emigrazione italiana. Partenze, Vol. 1, Donzelli, Roma, 2001. 162

I “trasferiti” erano una particolare categoria di cittadini tedeschi che comprendeva cittadini tedeschi

che con la divisione della Germania si trovarono a vivere nell‟ex Repubblica democratica tedesca.

Questa categoria di cittadini tedeschi era sufficientemente tutelata e poteva riprendere la cittadinanza

tedesca. Aveva agevolazioni per quanto riguardava l‟assistenza per tutte le fasi dell‟inserimento

lavorativo, per l‟accesso all‟edilizia publica e sovvenzionata e per l‟accesso agli studi di ogni ordine e

grado. Il loro afflusso in Germania è stato piuttosto costante costante dai primi anni Cinquanta fino alla

costruzione del Muro di Berlino nel 1963 (con circa 20.000 arrivi per anno e circa 40.000 negli anni

precedenti al Crollo dello stesso Muro. Un‟altra categoria di cittadini tedeschi che ritornarono in Patria

dopo il conflitto furono i cosiddetti “evacuati”, ossia cittadini tedeschi o di origine tedesca, provenienti

dagli ex territori appartenuti al III Reich (al dicembre 1937), divenuti – per le vicende belliche – parti

integranti delle popolazioni dello Stato polacco, di quello Cecoslovacco, di quello Rumeno e di quello

Sovietico, oppure appartenenti a numerose minoranze linguistiche tedesche disseminate in altri paesi

dell‟Est e del Sud-est europeo. Cfr. Franco Valenti, Il caso della Repubblica federale tedesca, in Ireos (a

cura di), Immigrazione straniera. Situazione e prospettive nell‟esperienza di alcuni paesi europei e di

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in Francia o in Svizzera e pertanto restavano piuttosto disponibili all‟ingresso di

manodopera straniera.

Altri paesi, al contrario, in particolare dell‟Europa mediterranea (e quindi in primo

luogo l‟Italia) registravano una sovrappopolazione altrettanto significativa e pertanto

uno squilibrio sostenuto tra dinamica demografica e mercato del lavoro, soprattutto

nelle aree agricole e tra queste specificamente quelle meridionali. Si stimava all‟epoca

che la disoccupazione in Italia ammontasse a circa 2.000.000 di lavoratori163

ed

altrettanti erano le stime dei sottoccupati nell‟agricoltura. Di questi – si stimava altresì –

che almeno 400.000 lavoratori (pari a circa il 10%) potevano essere assorbiti

annualmente come immigrati dagli altri 15 paesi europei”164

sulla base degli Accordi

che tra essi iniziavano a sottoscriversi (e che progressivamente aprirono la strada alla

realizzazione del Mercato Comune europeo che verrà costituito nel 1957 con il Trattato

di Roma)165

.

alcuni paesi di emigrazione, Volume primo, Rapporto di ricerca, Ministero del lavoro e della previdenza

sociale, Roma, 1992, p.66-67; 163

A questi 2 milioni di disoccupati andava aggiunta – secondo quanto riporta L. De Rosa citando un

economista del tempo, Coppola D‟Anna - un‟altra cifra simile composta la lavoratori agricoli

sottoccupati che non coprivano in un anno le 110 giornate lavorative e un altro milione ancora di

braccianti che non riuscivano a trovare impiego nel settore per le pessime condizioni in cui versava. “Si

trattava di circa 5.000.000 di lavoratori esclusi da o a margine di ogni processo produttivo”. Per altri –

come riporta sempre De Rosa – questa cifra appariva eccessiva e non del tutto attendibile. “i Programmi

del Governo italiano si erano appuntati sul traguardo ottimale di una fuoriuscita di circa 450.000

lavoratori all‟anno per cinque anni, al fine di estinguere – nella sostanza – la disoccupazione. Ma benché

l‟Italia fosse il serbatoio di mano d‟opera dell‟Europa occidentale gli espatri tra il 1946-51 non

superavano le 150.000 unità circa all‟anno e quindi erano ben lontano dai desideri governativi”. Luigi De

Rosa, Lo sviluppo economico dell‟Italia dal dopoguerra a oggi, Laterza, Bari, 1997, p.23; Federico

Romero riporta una cifra di 4.000.000, di cui la metà disoccupati e l‟altra metà sottoccupati, stimata dalla

Direzione per l‟emigrazione del Ministero degli esteri. Lo stesso documento riportava altresì un “appello

agli altri paesi affinché accogliessero quote anche maggiori di emigranti”. F. Romero, Emigrazione e

integrazione europea 1945 – 1973, Edizioni lavoro, Roma, 1991, p. 31; 164

Queste cifre – secondo quanto riporta Luigi De Rosa – furono fatte in una Conferenza a Parigi in

occasione delle riunioni che si svolgevano per progettare politiche di implementazione del “Piano

Marshall” a livello nazionale, ossia dei 16 paesi europei che ne avrebbero beneficiato. Cfr. L. De Rosa,

cit., 23; Il Piano Marshall – così chiamato perchè era stato proposto dal Generale Georges Marshall

Segretario di Stato americano dell‟epoca – fu un piano di ricostruzione europea dai danni del conflitto

mondiale. Il piano ebbe a disposizione per i principali paesi europei circa 11 miliardi di dollari. Di questa

somma totale la Gran Bretagna ne ebbe il 24%, la Francia il 20%, la Germania occidentale l‟11% e

l‟Italia il 10%. Con questi capitali – secondo G. Lictheim - i paesi europei beneficiari nel 1951 avevano

raggiunto i livelli economici pre-bellici e poterono far fronte ai pagamenti sul commercio estero. Le cifre

spettanti a ciascun paese erano costituite da due voci principali: una era quella degli scambi economici e

commerciali con gli Stati Uniti ed un‟altra era quella che stabiliva il Fondo finanziario, ossia la

disponibilità contante di denaro. La prima parte, secondo quanto predisposto nel Piano, doveva anche

facilitare lo scambio commerciale tra i paesi OCDE, ossia i paesi occidentali associati (cfr. nota

successiva). G. Lichtheim, L‟Europa del Novecento, Laterza, Bari, 1972, p.406; 165

Si tratta dell‟Accordo costitutivo sottoscritto nell‟aprile 1948 da 16 Stati europei associati

nell‟Organizzazione europea per la cooperazione economica (OCDE), a cui aderisce la Germania l‟anno

successivo e nel 1950 gli Stati Uniti e il Canada come “membri osservatori ” e successivamente “alla

Jugoslavia comunista e alla Spagna fascista”. Oltre a questo Accordo, l‟Italia e la Germania ne

sottoscrissero un altro nel 1954 con la Francia, l‟Inghilterra, il Belgio, Olanda e Lussemburgo (che lo

avevano firmato già nel 1948 come patto di autodifesa preventiva contro i due ex nemici, ossia Italia e

Germania). Questo ultimo accordo, noto come l‟accordo di Bruxelles, mirava a consolidare la

cooperazione e lo scambio economico tra i diversi paesi in materia di dazi e politiche di frontiera per lo

scambio commerciale. Con l‟ingresso dell‟Italia e della Germania fu ribattezzato Unione dell‟Europa

occidentale (Ueo). Cfr. Gorge Lichtheim, L‟ Europa …, cit., pp. 405 - 407; l‟anno prima – cioè nel 1953

– fu sottoscritto tra sei paesi europei – ossia Belgio, Francia, Germania, Italia, Olanda e Lussemburgo –

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219

Questi Accordi – stipulati sotto la tutela e la sponsorizzazione americana per facilitare la

cooperazione e il coordinamento delle attività economiche mirate alla ricostruzione dei

paesi Europei – furono valutati dai Governi italiani166

come una possibilità di aumentare

gli interscambi su una scala geografica più estesa e come una possibilità di scambiare

con altri il prodotto maggiore che si aveva allora in esubero, ossia i lavoratori

disoccupati disponibili all‟espatrio167

. Con questa ottica tra il 1946 e il 1947 vengono

stipulati Accordi specifici sull‟impiego di manodopera italiana con il Belgio, con la

Francia, con la Gran Bretagna e con la Cecoslovacchia, fissando i contingenti da far

espatriare e le modalità del loro inserimento lavorativo, talvolta in cambio di carbone ed

altre materie prime (nello spirito cooperativistico, secondo quanto affermavano i

Governi italiani dell‟epoca, di alcune clausole previste tra l‟altro nel Piano Marshall).

Negli anni immediatamente successivi al dopo guerra emigrano mediamente, ogni anno,

circa 150/200.000 italiani, una buona percentuale dal meridione. Le condizioni della

Campania – e del capoluogo di Napoli – erano piuttosto precarie, giacchè lo squilibrio

tra capacità di assorbimento della forza lavoro era inversamente proporzionale

all‟andamento demografico. Napoli, come rilevava la Commissione d‟Inchiesta sulla

miseria in Italia (del 1951-1952), risulta essere una delle città italiane a più alto

incremento demografico e una delle città con la più alta densità di popolazione; le cause

principali di tale sovrappopolazione risiedono: nell‟aumento delle nascite, nella

diminuzione del tasso di mortalità (“è comune a quello di tutti i paesi civili”), nelle

difficoltà ad emigrare (almeno per qualche anno ancora) ed nell‟andamento

dell‟immigrazione intra-regionale (“arrivano mediamente 12.000 persone all‟anno”,

ossia più di quelle che da Napoli espatriavano all‟estero). Ciò che rende ancor più grave

un Accordo che prevedeva di procedere all‟integrazione economica per settori e il primo settore prescelto

era quello del carbone e dell‟acciaio. Per la prima volta queste materie prime non venivano sottoposte a

limitazioni e a dazi doganali e a politiche differenziate di prezzo, a restrizioni nei movimenti di capitali e

di manodopera“. Cfr. L. De Rosa, Lo sviluppo economico …, cit. , pp. 54 e 55; 166

Lo sbocco migratorio era considerato dai Governi centristi come una valvola di sfogo per alleviare le

tensioni sociali che una duratura sovrappopolazione - in presenza di insufficienti possibilità occupazionali

– poteva determinare. Anche perché – secondo Romero – il programma di ristrutturazione aziendale

complessivo e il riassorbimento strutturale della disoccupazione predisposto dal Governo italiano - e

sottoposto all‟Ocde nel 1948 - non era possibile realizzarlo nell‟arco dei quattro anni previsti.

Programma che prevedeva, tra l‟altro, anche il rientro di capitale corrente proveniente dalle rimesse degli

emigranti e dal conseguente riequilibrio della bilancia dei pagamenti che queste avrebbero comportato.

Quindi l‟emigrazione diveniva ancora una volta funzionale allo sviluppo del paese. Cfr. Federico

Romero, Emigrazione e integrazione europea 1945-1973, Edizioni lavoro, Roma, 1991, p. 30 e 31; 167

La riduzione dei conflitti sociali dovuti alla forte disoccupazione poneva i governi democristiani ad

esternalizzare in parte su un piano europeo le contraddizioni italiane. Non era solo un problema nazionale

la tenuta della democrazia in Italia, ma un problema che doveva interessare tutta l‟Europa, anche perché

in Italia l‟opposizione comunista era forte e ben organizzata. Infatti, “nella visione dei dirigenti

democristiani – ricorda Romero – la democrazia non poteva essere organizzata e difesa in un solo paese”.

(…). “Il governo italiano era mobilitato ai massimi livelli per ottenere impegni sull‟emigrazione dai

propri alleati (sia europei che americani): appellandosi all‟importanza della battaglia economica e sociale

contro il comunismo in Italia, esso aveva richiesto agli Stati Uniti che le priorità politiche della solidarietà

atlantica si traducessero in iniziative concrete per l‟assorbimento della disoccupazione”. F. Romero, cit.,

p. 34 e 47; tale ragionamento – esplicitato compiutamente da Alcide De Gasperi - trovò un‟eco

significativo soprattutto in Germania (dove Konrad Adenauer – anch‟egli democratico cristiano - feceva

propria la politica dell‟integrazione europea) e in Francia (dove Robert Schuman, Ministro degli esteri -

anch‟egli democratico cristiano – fu un sostenitore deciso nella costruzione della “Nuova Europa”), in

quanto le affinità politiche di questo “triunvirato” contribuirono significativamente a creare le condizioni

di una collaborazione stretta tra i maggiori paesi europei. Cfr. G. Lichtheim, L‟Europa del Novecento,

cit., p. 403;

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il fenomeno migratorio in Campania – secondo la Commissione – è il fatto che

fuoriuscivano lavoratori qualificati (come prevedono gli Accordi sulla manodopera

sottoscritti con i paesi europei settentrionali) ed entrano immigrati provenienti dalle

altre province senza nessuna qualifica168

o specializzazione.

Questa situazione, ma rovesciata, rappresentava il nocciolo della filosofia degli Accordi

sulla manodopera: il paese di immigrazione esprimeva il fabbisogno di manodopera

qualificata e attraverso l‟Accordo medesimo cercava di soddisfarlo ricorrendo ad

immigrati stranieri; il paese di emigrazione aveva, invece, tutto l‟interesse ad inviare e a

far fuoriuscire manodopera non qualificata ma generica oppure superflua all‟esigenze di

sviluppo interno e, pertanto, sottoutilizzabile. Da una parte insomma si puntava – dal

punto di vista del paese importatore - decisamente alla selettività della forza lavoro (al

diritto della “prima scelta”169

) basata sulle qualifiche e sulle professionalità; dall‟altra –

dal punto di vista del paese esportatore - si puntava a far espatriare contingenti non

qualificati per non depauperizzare ulteriormente le aree di esodo e privarle delle risorse

professionali che potevano attivare e gestire forme di sviluppo locale. Tale logica

rispondeva, ovviamente, al reclutamento collettivo che veniva praticato da agenti

istituzionali, in quanto non era possibile una sua rigida applicazione alle variegate forme

di reclutamento individuale che pure le affiancavano (praticato da agenti non

istituzionali e molto spesso utilizzando meccanismi anche illegali).

Queste riflessioni accompagnavano quasi sempre le fasi che precedevano la stipulazione

degli Accordi sulla manodopera e finanche tutto il processo di monitoraggio (non

sempre efficace per la verità). A metà anni Cinquanta il Governo italiano – sulla base di

un documento programmatico sulle previsioni di sviluppo – stimava in 800.000 unità il

potenziale emigratorio disponibile all‟espatrio per il quinquennio successivo e per

poterlo soddisfare adeguatamente doveva necessariamente stipulare altri Accordi di

manodopera con nuovi paesi europei e transoceanici. Si pensava nella fattispecie alla

Germania da un lato e ai paesi Latino americani e all‟Australia dall‟altro. Con la

Germania l‟Accordo viene stipulato nel 1955, dopo una trattativa durata circa due anni,

in quanto alle “pressioni italiane” - come ricorda Johannes-Dieter Steinert – non

corrispondevano, all‟inizio, conseguenti atti di disponibilità da parte tedesca poiché non

si riteneva ancora “maturo l‟arrivo di lavoratori italiani”170

.

Anche perché la disoccupazione autoctona in Germania (che nel ‟54 ammontava a circa

1.200.000 unità mentre per l‟anno successivo fu stimata intorno a 1.000.000) non era

del tutto riassorbita e destava tra le organizzazioni sindacali ancora forti preoccupazioni,

soprattutto per quei settori dove necessitava lavoro dequalificato e pertanto laddove

poteva attivarsi la concorrenza con i lavoratori autoctoni. Ma nonostante questa

168

Paolo Braghin (a cura di), Inchiesta sulla miseria in Italia 1951-1952. Materiali della Commissione

parlamentare, Einaudi, Torino, 1978, pp. 80 e 81 169

Johannes-Dieter Steinert, L‟Accordo di emigrazione italo-tedesco e il reclutamento di manodopera

italiana negli anni Cinquanta, in J. Petersen, cit., pp. 157-159; Steinert ricorda che il concetto di

“manodopera di prima scelta” fu proposto dall‟Unione federale delle associazioni imprenditoriali

tedesche intendendo la possibilità di selezionare direttamente la manodopera italiana. Inoltre chiese, tra le

altre cose, di non assumersi l‟onere del trasporto, dell‟alloggio e i costi per il reclutamento. Altra richiesta

avanzata fu quella di sostituire “stesse condizioni salariali” con gli autoctoni (proposta dal Governo e

osteggiata dalle organizzazioni sindacali) doveva essere sostituita con “stesse paragonabili prestazioni

salariali”. Questi aspetti furono motivo di trattativa fino alla firma definitiva dell‟Accordo. 170

Johannes-Dieter Steinert, L‟Accordo di emigrazione italo-tedesco e il reclutamento di manodopera

italiana negli anni Cinquanta, in J. Petersen, cit., p. 138 e 139;

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situazione nel 1955 venne stimato dal Governo tedesco il fabbisogno aggiuntivo di

manodopera necessaria per far fronte allo sviluppo economico in corso, pari a 800.000

unità171

. Per farvi fronte si accelerarono le procedure per sottoscrivere l‟Accordo con

l‟Italia (casualmente si trattava di una cifra uguale a quella stimata dal Governo italiano

sul potenziale migratorio nazionale) prima che questa concedesse – date le sue necessità

di sovrappopolazione disoccupatan - ulteriori contingenti alla Francia e al Belgio;

accordi che servivano per stabilire le quote – da punto di vista quantitativo e qualitativo

- di ingresso di lavoratori secondo procedure collettive ed istituzionalizzate.

A metà anni Cinquanta, dunque, il serbatoio di manodopera tedesca locale formato – in

aggiunta a quello maschile tradizionale – da rifugiati politici, da contadini e braccianti

autoctoni e dalla manodopera femminile; quest‟ultima era considerata la terza

componente fondamentale dell‟occupazione, giacchè – secondo Petroli e Trucco -

rappresentava circa il 30% dell‟intera forza lavoro occupata. Le componenti femminili

furono immesse in produzione non solo durante il conflitto per sostituire gli uomini in

armi, ma anche dopo la sua cessazione allo scopo di rimpiazzare quelli che per ragioni

diverse non potevano più lavorare. All‟insieme di queste componenti di forza lavoro,

ormai in riduzione costante, si aggiunsero quelle composte da immigrati non nazionali e

pertanto non di origine tedesca. Queste diverse categorie aggiuntive di forza lavoro

vengono periodicamente individuate, mobilitate e successivamente assorbite in

concomitanza degli stati di avanzamento dello sviluppo industriale della sistema tedesco

in generale172

.

Per l‟Italia “il reclutamento incominciò … nel 1956 con grandi aspettative e si concluse

– secondo Steinert - con disillusione”. Il contingente di manodopera necessaria era stato

stimato dall‟Istituto federale di Norimberga, in accordo con gli uffici regionali del

lavoro e con le organizzazioni imprenditoriali, a 31.000 unità che, d‟intesa con il

Governo italiano, erano stati così suddivisi: 13.000 per l‟agricoltura, 7.500 per l‟edilizia,

3.500 per il settore alberghiero e di ristorazione, 6.000 per l‟industria e 1.000 per i

restanti settori”. Raggiunsero però la Commissione tedesca, attiva a Milano, alla fine del

‟56, soltanto 10.000 richieste dalle aziende agricole e soltanto 7.000 per i restanti

settori; per queste offerte di lavoro la Commissione reclutò solo 10.273 lavoratori, di cui

5.801 per l‟agricoltura”173

. Ossia il reclutamento effettivo interessò soltanto un terzo di

171

Per assolvere a questo fabbisogno si pensò di reperire 100.000 persone tra le fila dei disoccupati,

50.000 tra gli ex tedeschi rimpatriati, 100.000 emigranti dalla repubblica Democratica e 20.000 stranieri

senza patria (in quanto a causa della guerra non avevano più una nazionalità). I resto – a questo punto –

doveva venire dall‟Italia mediante l‟Accordo progettato che a quel punto venne quasi di corsa sottoscritto

da ambo le parti. Cfr. J.D. Steinert, cit. p. 159; 172

Per Eleonora Petroli e Micaela Trucco, verso “la metà degli anni Cinquanta la situazione del mercato

del lavoro comincia a modificarsi profondamente: la forza-lavoro disponibile non è più sufficiente per

l‟ulteriore sviluppo del capitale. Le ragioni di questa scarsità vanno ricercate nell‟esaurirsi della riserva di

manodopera interna di forza-lavoro, compresa la manodopera agricola, anche per la ricostruzione

dell‟esercito che sottrae alla produzione no strato notevole di manodopera giovanile”. Inoltre, le conquiste

sindacali iniziano a produrre effetti nella razionalizzazione delle relazioni industriali e lavorative. Le

giornate di lavorano si accorciano, gli straordinari vengono ridotti, le festività vengono introdotte con un

complessivo alleggerimento dell‟orario di lavoro. E. Petroli, M. Trucco, Emigrazione e mercato del

lavoro in Europa occidentale, Franco Angeli, Milano, 1981, pp. 57-58; 173

Ibidem, pp. 160-161; secondo Steinert questa debole risposta è imputabile al fatto che

l‟amministrazione del lavoro e le organizzazioni imprenditoriali avevano completamente sopravvalutato il

fabbisogno di manodopera per quattro principali ordini di motivi: erano aumentati i movimenti migratori

interni e quindi l‟offerta degli autoctoni era aumentata, si registrava una relativa flessione nella

produzione che aveva scoraggiato gli imprenditori nell‟assumere altre maestranze, parecchi imprenditori

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222

quello programmato sulla base della stima del fabbisogno aggiuntivo di manodopera

alla quale concorsero, congiuntamente, le amministrazioni pubbliche e le organizzazioni

imprenditoriali.

Anche negli anni successivi la programmazione degli ingressi sottoscritti tra il Governo

tedesco e quello italiano non riuscì in pieno. Ad esempio, nel ‟59 (in pieno boom

economico), solo 14 mila italiani sui 24 mila ingressi previsti vennero reclutati dalla

commissione tedesca per l‟impiego di stranieri. Oltre 25.000 lavoratori, invece, data

appunto la congiuntura economica tedesca favorevole, entrarono in Germania attraverso

canali non ufficiali ed una volta entrati richiesero la “carta di legittimazione”, ossia la

documentazione necessaria per svolgere regolarmente l‟occupazione trovata.

Insomma, la “seconda via” era quella maggiormente preferita dai lavoratori italiani, sia

settentrionali che del meridione. Per accelerare le modalità di reclutamento dei

lavoratori italiani propensi all‟espatrio “il Governo federale tedesco ottenne dal

Governo italiano la possibilità di aprire – nel 1960 - una seconda sede a Napoli (la

prima fu aperta a Verona due anni addietro). Si trattò – come riporta Steinert – di una

mossa mirata per il reclutamento di massa nel centro della disoccupazione italiana

dell‟epoca”, anche se l‟espatrio – come già accennato – era perlopiù di carattere

temporaneo174

.

Infatti, come è noto, la Germania storicamente non si è mai considerata paese di

immigrazione e ha sempre considerato i lavoratori migranti come “gastarbeiter”, cioè

lavoratori ospiti. Questo ha comportato anche per i migranti italiani due tendenze

fondamentali: la provvisorietà e la rotazione. Perseguendo l‟obiettivo di mantenere i

migranti in situazione di provvisorietà, la Germania ha promosso tutte quelle politiche

in materia di ingresso, soggiorno e contratti di lavoro che potessero incentivare forme di

immigrazione temporanea, stagionale, annuale e a breve termine. La Ausslaenderplotik

che inizia compiutamente nel 1965 rappresenta quindi l‟applicazione di questa scelta di

fondo.

Gli immigrati possono entrare nel paese con un contratto annuale o stagionale, vengono

rigidamente controllati dalle forze dell‟ordine, non possono portare con sé la famiglia,

se non dimostrando di possedere una abitazione idonea; sono alloggiati in strutture

provvisorie di prima accoglienza, come baracche o villaggi situati generalmente al di

fuori dei centri urbani e vicino ai luoghi di lavoro, scoraggiando i ricongiungimenti

familiari; gli stranieri si trovano inoltre spesso impossibilitati a cambiare lavoro. Gli

stranieri, italiani compresi, pur con la possibilità di rinnovare il contratto di lavoro,

rimangono proiettati verso la prospettiva del ritorno definitivo in patria.

5.5.3 Il Mercato comune europeo e la libertà di circolazione

L‟anno di svolta è il 1957, per due ragioni fondamentali: l‟avvio del Mercato Comune

Europeo (MEC), al quale aderiscono fin dall‟inizio l‟Italia e la Repubblica federale

vennero a sapere che avrebbero dovuto pagare il viaggio e i salari secondo tariffa sindacale anche agli

stranieri ed infine perché le condizioni di lavoro previste nei contratti non erano corrispondenti alle

richieste fatte dai lavoratori italiani. Insomma, venne ammesso – anche dalle autorità dell‟Istituto federale

del lavoro tedesco – che il reclutamento si era dimostrato più difficile del previsto. 174

J.D. Steinert, L‟Accordo …, cit., p. 164-165;

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223

tedesca che prevedeva, tra le altre cose, una relativa libertà di circolazione delle forze

lavoro e la tragedia di Marcinelle, in Belgio175

. In seguito a quest‟ultima vicenda si

blocca in parte il reclutamento collettivo di italiani verso il Belgio e una parte

considerevole dei potenziali emigranti preferisce dirigersi verso la Germania, anche per

le sue migliori condizioni salariali. Ma la grande novità dell‟epoca è costituita, come

accennato, dalle conseguenze della libera circolazione prevista dal Trattato di Roma a

fondamento della nuova politica di cooperazione europea che veniva ad inagurarsi con il

Mercato comune europeo.

La libera circolazione, man mano che si estendevano le possibilità di utilizzarla176

,

facilitò lo sviluppo dell‟emigrazione italiana all‟interno della Comunità economica –

soprattutto verso la Germania - sulla base delle convenienze che i lavoratori medesimi

valutavano in corrispondenza del proprio progetto migratorio. Tra l‟Italia e la

Germania, dunque, dalla seconda metà degli anni Cinquanta a quella degli anni

Sessanta, si determinarono dei bisogni strutturali divergenti ma ad entrambe

reciprocamente funzionali: da una parte l‟eccesso di mano d‟opera, dall‟altro un ritmo

di sviluppo non in grado da essere soddisfatto dall‟offerta interna e pertanto predisposto

ad assorbire manodopera aggiuntiva anche dall‟estero; ossia, almeno per alla seconda

metà degli anni Sessanta da aree geografiche che comunque si trovavano all‟interno

dello stesso sistema formale di cooperazione previsto dal Mercato comune (anche se

all‟inizio, come già accennato, gli effetti furono molto modesti).

In questo modo la Germania diventa la meta di un costante flusso di emigrazione

temporanea proveniente dall‟Italia, concentrata in determinate stagioni e limitata ad un

massimo di nove mesi consecutivi all‟anno. Il mercato del lavoro tedesco richiedeva,

dunque - anche per le resistenze sindacali agli ingressi indiscriminati - manodopera

temporanea e flessibile, da adattare a seconda delle necessità economiche. La nuova

emigrazione italiana, d‟altro canto, si andava definendo ancora una volta come una

risorsa importante per integrare redditi familiari, ma con una differenza sostanziale: non

175

Su questi aspetti, cfr. Enrico Pugliese e Enrico Rebeggiani, Occupazione e disoccupazione in Italia

(1945-1995), Edizioni lavoro, Roma, 1997, p. 49; 176

Il Trattato di Roma del 1957 sancisce – negli artt. 48-51 – la libera circolazione dei cittadini

appartenenti ai paesi sottoscrittori. All‟inizio si trattò soprattutto in una dichiarazione di intenti che,

progressivamente, però, divenne più sostanziale in concomitanza delle integrazione delle integrazioni

normative successive: quella del 1961 e quella del 1968. Cfr. F. Romero, Emigrazione e integrazione

europea, …, cit. pp. 80-81 e pp. 90-91; sempre Romero (in “L‟emigrazione italiana negli anni 60 e il

Mercato comune europeo”, cit.) riporta le diverse normative che caratterizzavano i diversi Regolamenti

sulla libera circolazione: il primo Regolamento (n. 15 del 1961) pur richiamando i Stati membri , “a

considerare prioritariamente, nella formulazione della propria politica migratoria, la disponibilità di altri

partner comunitari con eccedenze di manodopera, ma si trattava solo del richiamo ad una vaga

solidarietà”; il secondo Regolamento (il n. 38 del 1964) emanato in pieno boom economico veniva

maggiormente incontro alla richiesta italiana di esportare quote maggiori di manodopera, anche questa

possibilità era più formale che sostanziale, anche perché necessitavano di servizi di collocamento più

efficienti di quello che erano nella realtà (non solo quelli italiani ma anche quelli degli altri paesi). Si

pensò allora di istituire una Agenzia tansnazionale per gestire le quote di manodopera dai paesi

esportatori a quelli importatori, ma non fu mai costituita; il terzo Regolamento (il n. 161 del 1968)

costituiva un ulteriore passo in avanti decisivo per facilitare la libera circolazione dei lavoratori, anche

perché l‟intero mercato del lavoro europeo era piuttosto dinamico e pertanto la domanda di lavoro era

piuttosto alta. In tale situazione i termini per la concessione e il rinnovo dei permessi di lavoro e di

residenza erano resi più elastici. E anche i movimenti dei familiari erano ulteriormente facilitati). “Il

Governo italiano fu particolarmente soddisfatto, tra l‟altro, sulle disposizioni delle assunzioni nominative:

data la presenza all‟estero di cospicue comunità di italiani, esse permettevano un facile afflusso di nuova

manodopera richiamata per canali familiari”, F. Romero, L‟emigrazione italiana … cit, pp. 122 e 123;

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224

si caratterizzava più come esclusiva e temporalmente definitiva, non solo per

l‟emigrazione settentrionale ma anche per i flussi migratori che provenivano dal

meridione177

.

Un simile sistema – definito appunto “rotatorio”178

perché non basato sulla

stabilizzazione definitiva della forza lavoro aggiuntiva - trova conferma nel fatto che la

presenza dei lavoratori italiani si caratterizzava per l‟elevato turn-over a carattere

stagionale. Questo ricambio appare una costante strutturale del flusso migratorio tra i

due paesi, fin dal decennio 1956-66. In questi dieci anni infatti risultano partiti

dall‟Italia per la Germania 1.750.000 persone, mentre dai dati del censimento del 1964 i

residenti italiani in Germania sono appena 299.378 unità; ciò a conferma di una

emigrazione che nella maggior parte dei casi non sceglie la strada del trasferimento

definitivo nel paese di destinazione179

. Inoltre, esprime, in pratica, il passaggio dalla

“contrattazione collettiva” – tipica degli Accordi sulla manodopera fino al secondo

Regolamento sulla libera circolazione del 1964 – alla contrattazione individuale e

nominativa, sulla base delle catene migratorie di richiamo di tipo familiari ed amicali

(anche a partire dalle disposizioni del Regolamento citato e degli altri che verranno

sottoscritti alla fine dello stesso decennio e anche oltre).

Infatti, da questa prospettiva – secondo Romero – i dati sulla “mobilità degli italiani

vanno visti in relazione a quelli, ancor più rivelatori, sul rapido abbandono delle forme

ufficiali ed assistite d‟emigrazione (…). Appena passata la fase iniziale del boom (1960-

1961) i lavoratori italiani cominciarono a muoversi sul mercato del lavoro tedesco in

modo individuale e autonomo, dipendente solo alla domanda di lavoro e dalle rete di

informazioni e assistenza offerta da familiari e conoscenti già occupati in Germania. Fu

questa, in definitiva, il primo e principale risultato della liberalizzazione comunitaria

che svincolava, sostanzialmente, la manodopera italiana dalla disciplina dei permessi e,

177

Pur tuttavia – secondo E. Pugliese – occorre distinguere, come fanno tra l‟altro altri studiosi, tra

emigrazione europea e transoceanica, giacchè nel dopo guerra, quest‟ultima, riprende con forza. Dal 1946

al 1973 emigrano circa 3.140.000 persone, di cui 1.620.000 oltreoceano e il restante 1.520.000 nei paesi

nordeuropei. “Ma per comprendere meglio il movimento migratorio in questo periodo bisogna guardare

non solo ai saldi ma anche al numero degli espatri e dei rimpatri. Allora l‟immagine (dell‟emigrazione

transoceanica e quella europea) si capovolge: gli espatri sono in tutto 6.712.000, oltre due terzi dei quali

(cioè 4.533.000) partiti per destinazioni europee e solo 2.178.000 partiti per destinazione transoceaniche.

Ma mentre queste ultime partenze sono in larga parte definitive (in tutto il perido – dal dopoguerra al

1973 - i rimpatri sono poco più di mezzo milione), quelle europee sono molto frequentemente

accompagnate da ritorni. Il sando migratorio tra l‟Italia e l‟Europa di 1.521.000 persone è il risultato di

quattro milioni e mezzo di partenze contro tre milioni circa di ritorni”. E. Pugliese, L‟Italia tra migrazioni

…, cit., Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 22 e 23; 178

L‟emigrazione italiana, forse più di ogni altra, in Germania ha seguito il modello rotatorio in quanto

corrispondente alla definizione che la Germania ha sempre dato di se stessa, cioè di “paese di non

immigrazione ma di soggiorno prolungato e temporaneo di lavoratori stranieri”. (…) La rotazione si

basava anche sulla prerogativa di cui i lavoratori italiani allora godevano in quanto cittadini del Mec

prima e della Cee dopo. E‟ per questa ragione che il tasso di avvicendamento degli immigrati italiani è

stato sempre più alto di quello delle altre nazionalità. Cfr. Enrico Pugliese, L‟Italia tra migrazioni

internazionali e migrazioni interne, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 25 e 35; 179

Questo gap statistico trova fondamento in diverse ragioni: la prima, quella più importante, secondo

Romero, nonostante l‟emigrazione coinvolgesse circa 9.000.000 di persone (comprensive anche delle

migrazioni interregionali interne) fino al 1961 “tali movimenti rimasero statisticamente invisibili a causa

del persistere della legge del 1939 che vietava, o perlomeno ostacolava, i trasferimenti dalle campagne

alle città”. Infatti, “con il suo annullamento, nel 1961, si registrò un balzo statistico nei trasferimenti

interni, soprattutto a causa delle mancate regolarizzazioni di quanti erano già partiti per le città del Nord

durante il decennio precedente” in maniera non autorizzata. F. Romero, l‟emigrazione …, cit., pp.94-95;

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225

di conseguenza, ne deregolarizzava ed atomizzava il rapporto con il mercato del lavoro”

tedesco.180

Cosicché i lavoratori italiani – a differenza di quelli di altri paesi al di fuori dal Mercato

Comune – potevano entrare ed uscire dalla Germania con grande facilità, cambiare le

occupazioni, cercarne di più retribuite, rientrare nel proprio paese di origine in Italia e

ripartire a loro piacimento. “Il movimento tra mercato del lavoro tedesco e quello

italiano si risolveva sempre più in un pendolarismo rotatorio tra l‟uno e l‟altro” e che –

per tale ragione - nel giro di pochi anni ne cambiò la struttura: sia perché gli

imprenditori tedeschi non potevano più fare molto affidamento sulla disciplina della

manodopera italiana, sia perché l‟alto turn over richiedava una continua e specifica

formazione professionale all‟interno dell‟azienda, sia perché in tal modo aumentava il

potere contrattuale e sindacale di questa manodopera che mal si conciliava con le

aspettative dei settori imprenditoriali più conservatori. La Germania - nell‟impossibilità

di gestire questa nuova situazione venutasi a creare con la manodopera italiana in

concomitanza del perdurare del boom economico - si rivolse ad altri partner

internazionali per l‟importazione di manodopera più vincolata alle normative nazionali

(tedesche) e non ai “privilegi” di quella appartenente a paesi del Mercato comune (nella

fattispecie quella italiana)181

.

In questo mutato quadro politico-istituzionale tra l‟Italia e la Germania - e il parallelo

sviluppo economico industriale nel nostro settentrione che attira manodopera sia dal

Sud che dagli altri paesi di emigrazione, tra cui la Germania stessa - tra la fine degli

anni Sessanta e Settanta la collettività italiana, pur aumentando in quantità, va

diminuendo progressivamente in rapporto alle altre nazionalità immigrate: gli italiani

ammontano a circa un terzo degli stranieri nel 1964, scendono al 28,3% nel 1968; nel

1973 si riducono alla metà del decennio precedente (il 16,7%) e ancora di qualche punto

percentuale qualche anno dopo. Il flusso di rientro definitivo dei lavoratori dalla

Germania era in qualche modo iniziato già a metà anni Sessanta, in quanto

l‟industrializzazione del Nord Italia (centro-occidentale) richiamava manodopera ad un

ritmo quasi uguale – in percentuale sugli occupati – a quelli che si registravano appunto

in Germania.

Da una parte la vicinanza al paese di origine (per quelli del meridione significava una

percorrenza minore per le ferie e per la cura degli “affari di casa”), dall‟altra i salari

altrettanto soddisfacenti rispetto a quelli percepiti in Germania al netto delle spese di

soggiorno e di sussistenza. Alcune componenti emigratorie italiane lasciano la

Germania per riemigrare a Torino o a Milano e ricongiungersi con altri membri della

famiglia, altri dopo due/tre fasi emigratorie in Germania restano al loro paese oppure –

dopo qualche anno – espatriano di nuovo al Nord e al Centro Italia.

5.5.4 Gli anni Settanta e Ottanta

Nel 1973, in coincidenza con la crisi petrolifera, viene varata la cosiddetta Anwerbestop

(politiche di stop) una politica caratterizzata da ulteriore restrizione alla permanenza

degli stranieri; gli italiani, in quanto lavoratori della Comunità economica, sono esclusi

180

F. Romero, Emigrazione italiana …, cit., pp. 126-127; 181

Tant‟è che la Germania sottoscrive Accordi con la Spagna, con la ex-Yugoslavia sul finire degli anni

Sessanta ed infine con la Turchia qualche anno successivo.

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dal provvedimento. In questo contesto di crisi generalizzata l‟obiettivo prioritario del

Governo tedesco è la difesa dei lavoratori autoctoni; infatti, nelle disposizioni che

accompagnano il provvedimento, viene esplicitato che la concessione del permesso di

lavoro per i lavoratori stranieri è condizionata in maniera prioritaria alla non

disponibilità dei lavoratori tedeschi a non coprire quei posti di lavoro. Le restrizioni

imposte nel 1973 hanno l‟effetto di aumentare il flusso di emigrazione italiana

irregolare, diretto soprattutto nei settori non industriali, come la ristorazione e le

imprese di pulizie182

e alla riduzione – ancora più evidente – delle componenti di

manodopera qualificata.

Di fatti, dal punto di vista della composizione professionale della presenza dei lavoratori

italiani in Germania, emerge, a partire dal 1975, un dato piuttosto significativo (che, tra

l‟altro, appariva già evidente in alcune statistiche degli anni precedenti), ossia che gli

operai non qualificati rappresentavano il 71,6% della comunità italiana occupata. Si

tratta di un dato che colpisce se confrontato con i medesimi dati che si riscontrano, nello

stesso anno, a livello medio generale in Europa, in corrispondenza di tutte le altre

comunità straniere occupate. Questo dato dei “non qualificati” si attesta al 46,4%, cioè

circa 25 punti percentuali in meno della percentuale italiana. Sempre secondo i dati del

1975, si rileva che le regioni dell‟Italia meridionale sono quelle più rappresentate in

Germania: dalla Sicilia provengono il 19,3% del totale degli emigranti, dalla Calabria il

13,5%, dalla Campania il 13,3%, dalla Puglia il 12,6% e dalla Sardegna il 10,5%.

Questo fa supporre che la bassa qualificazione della manodopera è dovuta all‟origine

contadina dell‟emigrazione meridionale.

Pur in presenza di simili politiche di taglio restrittivo, a metà degli anni Settanta, in

modo non estensivo e mirando soprattutto agli immigrati provenienti dai paesi

dall‟Europa meridionale (tra cui l‟Italia), vengono attivati dalla Germania

provvedimenti finalizzati a favorire un percorso definitivo di integrazione. Era infatti

evidente che, nonostante le molte difficoltà, diversi gruppi e famiglie italiane

risiedevano stabilmente in Germania da oltre un ventennio e, nonostante gli incentivi,

non avevano optato per il ritorno183

. Appariva più evidente, da un lato, la contraddizione

tra la volontà di far entrare nuova forza lavoro e, dall‟altro, non estendere e rafforzare i

programmi di integrazione di quelle componenti ormai di fatto stabili da più anni

dall‟altro. Questo “doppio senso” – riferibile alle politiche migratorie tedesche -

trovavano una significativa espressione in relazione all‟atteggiamento che si aveva

rispetto ai ricongiungimenti familiari: per certi versi venivano incentivati perché in tal

modo i congiunti già occupati potevano consolidare i loro rapporti lavorativi e

aumentare la loro propensione a restare; per altri versi i ricongiungimenti venivano

osteggiati e ristretti perché si temeva la formazione di flussi di ingresso secondari o

collaterali a quelli già esistenti per motivi di lavoro e, pertanto, incrementati rispetto a

quelli più o meno programmati.

182

P. Kammerer, Sviluppo del capitale ed emigrazione in Europa: il caso della Germania, Milano,

Mazzotta 1978. 183

Si passa – almeno formalmente – dal concetto di “lavoratore ospite” sottintendendo esplicitamente una

immigrazione temporanea (o meglio di “breve termine”) ad una immigrazione più definitiva e più

soggetta ad interventi di politiche sociali e di politiche finalizzate all‟integrazione economica. (almeno

per alcune collettività di migranti europei) che possa svilupparsi sul “lungo periodo”. Passaggio che

avviene nel 1963 dopo qualche anno di discussioni e dibattiti intorno al problema. Cfr. J.D. Steinert,

l‟Accordo …, cit., p.166-177;

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Uno dei terreni in cui queste politiche basate sulla provvisorietà e sulla rotazione hanno

colpito anche gli italiani è stato quello dell‟istruzione. La scuola tedesca infatti, nei

riguardi degli immigrati, ha sostenuto una strategia pedagogica e percorsi formativi

orientati non verso l‟integrazione sociale e culturale in Germania, ma verso il ritorno al

Paese d‟origine184

. L‟insistenza sull‟insegnamento fin dai primi anni della lingua

italiana a fianco a quella tedesca, la proliferazione di scuole destinate esclusivamente a

alunni italiani o di classi speciali per stranieri hanno prodotto non pochi problemi di

adattamento nella così detta seconda generazione. Tra i giovani italiani risulta infatti

piuttosto elevato, fin dai primi anni Settanta, il tasso di dispersione scolastica e di

diffuso disagio sociale185

. E‟ inoltre mancato per molto tempo, fino alla metà degli anni

Ottanta, un inquadramento dei giovani italiani nella formazione professionale, per cui la

possibilità di trovare impieghi qualificati o attività autonome è arrivata all‟interno della

comunità italiana piuttosto in ritardo186

.

Negli anni Ottanta la comunità italiana in Germania è ancora la più numerosa fra quelle

presenti in Europa e la seconda nel mondo, nonostante il calo progressivo che – come

accennato- inizia a manifestarsi a partire dal 1975. Si posiziona stabilmente come la

terza comunità straniera e la prima di provenienza europea (l„8,5% della popolazione

straniera all‟epoca è infatti italiana). Il Länder con maggior numero di connazionali è il

Baden-Württenberg, seguito dal Nord Reno-Westfalia. La fine degli anni Ottanta segna

per la Germania l‟inizio di una fase di immigrazioni caratterizzata inizialmente

dall‟afflusso di richiedenti asilo e in seguito, con la fine dei regimi socialisti nell‟Europa

dell‟Est, dall‟arrivo di lavoratori provenienti dai paesi dell‟ex Unione Sovietica. La

presenza italiana risulta ora meno radicata nei settori dell‟industria pesante, permane

significativamente nel comparto dell‟edilizia (con le prime esperienze di piccole e

medie imprese nate e gestite da italiani) e si radica particolarmente nelle piccole

imprese legate al terzo settore, alla ristorazione e al commercio del made in Italy187

.

5.5.5. Gli anni Novanta e i primi anni del 2000

Dal 1993 la tendenza alla diminuzione della comunità italiana in Germania si inverte, in

quanto si registrano nuovi ingressi; ingressi che configurano una crescita intorno al

migliaio di unità l‟anno (fino al 2000), nonostante un saldo negativo di immigrazione

negli anni 1998 e 1999188

. All‟inizio del 2002 risultavano residenti nel paese tedesco

476.531 italiani, il 16,5% del totale complessivo di quanti erano iscritti nell‟Anagrafe

degli Italiani Residenti all‟Estero (AIRE) del Ministero dell‟Interno. La presenza

italiana in Germania risulta ancora più numerosa secondo gli archivi delle Anagrafi

Consolari, ove alla medesima data risultavano iscritti quasi 700 mila persone (ovvero,

circa il 40% in più).

184

Bade, op.cit., Pugliese, op. cit. 185

Dossier Europa Emigrazione, II, 6, 1977; Istituto F. Santi, Aspetti e problemi occupazionali della

seconda generazione in Germania e Svizzera, 1983. 186

A. Portera, Europei senza europa. Storia e storie di vita di giovani italiani in Germania, Catania 1990;

Gli italiani in Germania, problemi linguistici e socio-culturali, in “Studi Emigrazione”, XXII, 79, 1985. 187

FILEF, Consistenza ed evoluzione del sistema di piccola e media impresa in emigrazione. Analisi dei

fabbisogni e delle esigenze di consulenza, orientamento ed assistenza nella prospettiva dello sviluppo

dell'associazionismo imprenditoriale e di un network di servizi. La Germania Federale, Emigrazione,

Roma 1999. 188

Istat, Annuario statistico italiano, 2001.

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Nel biennio 2000-2002 il governo tedesco avvia una generale ridefinizione della leggi

che regolano le politiche migratorie, riconoscendo il paese come un paese di

immigrazione. Questa ridefinizione, pur positiva in molti suoi aspetti, non ultimo quello

del riconoscimento della stanzialità e della non temporaneità della presenza degli

stranieri, è stata motivo anche di timori da parte della comunità italiana. Infatti,

anch‟essa ha avvertito un irrigidimento generale delle politiche migratorie, evidente nel

ripetuto inasprimento del dibattito sull‟immigrazione extracomunitaria. Sintomo di tale

contesto socio-politico sono le prese di posizione di rappresentanti delle istituzioni e

associazioni italiane che hanno denunciato il ripetersi, nel 2002 e nel 2003, di espulsioni

ingiustificate di cittadini italiani e di rimpatri forzati; espulsioni avvenuti contrariamente

a quanto prevedono gli Accordi sulla libera circolazione che vincolano l‟Italia e la

Germania a rispettare la mobilità dei cittadini di ambo i paesi all‟interno dell‟Unione

europea.

5.5.6 La rilevanza della emigrazione campana nell‟ambito del flusso migratorio

italiano

Otto italiani su dieci emigrati in Germania provengono dalle regioni meridionali e dalle

isole, mentre risulta originario del Nord del paese soltanto il 15% dei residenti. Dei 476

mila iscritti all‟AIRE (cfr. la Tab. 5.1) ben il 32% proviene dalla Sicilia con 149 mila

presenze. Dopo la Sicilia, nella graduatoria delle presenze maggiori vi sono, nell‟ordine,

la Puglia (79 mila), la Campania (57 mila), la Calabria (41 mila); segue a distanza la

Sardegna (24 mila) e il Veneto (17 mila), che risulta così sesto nella graduatoria (mentre

è la prima regione non meridionale per consistenza numerica).

La rilevanza della comunità campana all‟interno della migrazione italiana in Germania

risulta anche dall‟analisi del dato relativo ai trasferimenti di residenza, riportato nella

tabella seguente (Tab. 5.2). Da questo quadro è possibile rilevare la consistenza del

movimento migratorio dei campani verso e dalla Germania, che conferma l‟importante

volume di questo flusso migratorio assieme a quello di tutte le altre regioni del

meridione d‟Italia.

Per quanto riguarda, infine, la rilevanza delle provenienze provinciali all‟interno della

Campania, la tabella che viene presentata di seguito (Tab. 5.3) riporta i dati degli iscritti

e cancellati per trasferimento di residenza delle 5 province campane. Si può osservare

come i movimenti migratori più consistenti riguardano, soprattutto, le province di

Napoli e di Salerno.

5.5.7 L‟inserimento sociale ed economico degli italiani

Le destinazioni principali dei flussi migratori italiani verso la Germania sono stati i

grandi centri industriali della Baviera (Monaco-Augsburg) e della Renania. Gli

immigrati si sono inseriti anzitutto come lavoratori dipendenti in grandi stabilimenti

manifatturieri (metalmeccanica e chimica). In seguito l‟emigrazione, inizialmente solo

maschile, è andata gradualmente perdendo questa caratteristica: secondo le stime

dell‟Istituto Nazionale di Statistica tedesco (nel 2000) circa 250 mila delle 620 mila

unità residenti appartengono alla componente femminile.

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229

Tab. 5.1 Cittadini italiani residenti in Germania al 31.12.2001, secondo l‟AIRE

e le Anagrafi consolari

Regioni AIRE Anagrafi consolari *

31.1.2001 Valore % 31.1.2001

Piemonte 7.286 1,5 10.684

Valle d'Aosta 141 0,0 207

Lombardia 13.517 2,8 19.822

Trentino 14.369 3,0 21.071

Veneto 17.051 3,6 25.004

Friuli 8.350 1,8 12.245

Liguria 3.920 0,8 5.748

Emilia R. 5.848 1,2 8.576

Toscana 6.010 1,3 8.813

Umbria 2.156 0,5 3.162

Marche 4.554 1,0 6.679

Lazio 10.052 2,1 14.741

Abruzzo 9.295 2,0 13.630

Molise 4.356 0,9 6.388

Campania 57.811 12,1 84.776

Puglia 79.025 16,6 115.885

Basilicata 13.439 2,8 19.707

Calabria 41.178 8,6 60.385

Sicilia 149.801 31,4 219.673

Sardegna 24.576 5,2 36.039

Non ripartiti 3.796 0,8 5.566

Totale 476.531 100,0 698.801

Nord ovest 24.864 5,3 36.461

Nord est 45.618 9,6 66.896

Centro 22.772 4,8 33.394

Sud 205.104 43,4 300.771

Isole 174.377 36,9 255.712

* L'origine regionale degli italiani iscritti alle Anagrafi consolari è stata ricavata in base alla suddivisione

percentuale degli iscritti all'AIRE. Anche per questo motivo la colonna dei valori percentuali è unica.

Fonte: elaborazioni su dati AIRE e delle Anagrafi consolari

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230

Tab. 5.2 Cittadini italiani iscritti/cancellati per trasferimento di residenza dalla e

per la Germania. Anni 1990 – 1999 (Campania e ripartizioni nazionali)

Aree

geografiche Numero iscrizioni per anno, dalla Germania in Italia

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999

Campania 1.087 936 724 282 668 497 508 492 471 518

Nord ovest 668 549 408 413 948 526 509 1.604 1.558 1.777

Nord est 1.128 850 697 545 1.029 621 689 1.217 1.214 1.249

Centro 759 633 562 337 727 413 400 1.000 1.036 1.080

Sud 4.191 3.602 2.731 2.688 2.922 2.435 2.169 1.766 1.814 1.937

Isole 3.702 3.262 3.073 3.108 2.414 2.384 2.054 1.061 1.111 1.125

ITALIA 10.448 8.896 7.471 7.091 8.040 6.379 5.821 6.648 6.733 7.168

Numero cancellazioni per anno, dall‟ Italia alla Germania

1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999

Campania 1.471 1.974 1.405 860 2.915 755 709 663 538 1102

Nord ovest 828 636 511 535 1.266 807 746 1.890 1.943 2.353

Nord est 918 1.211 1.103 1.061 1.166 756 874 1.187 1.188 1.389

Centro 784 789 763 571 737 454 478 811 1.003 1.232

Sud 6.151 7.175 6.391 5.303 9.829 3.589 3.596 2.667 2.426 4.644

Isole 6.267 5.651 5.931 9.099 7.809 4.212 4.415 2.071 1.970 3.048

ITALIA 14.948 15.462 14.699 16.569 20.807 9.818 10.109 8.626 8.530 12.666

Fonte: elaborazioni su dati Istat

Tab. 5.3 Italiani iscritti e cancellati per trasferimento di residenza della Campania

da e per la Germania. 1996 – 1999

Province Iscrizioni Cancellazioni

1996 1997 1998 1999 1996 1997 1998 1999

Avellino 55 101 76 86 94 188 88 175

Benevento 44 45 48 44 44 58 66 82

Caserta 82 77 75 97 121 54 83 80

Napoli 157 156 157 171 159 183 175 514

Salerno 170 113 115 120 291 180 126 251

Campania 508 492 471 518 709 663 538 1.102

ITALIA 5.821 6.648 6.733 7.168 10.109 8.626 8.530 12.666

Fonte: elaborazioni su dati Istat

La comunità italiana residente in Germania evidenzia particolari differenze di genere

nel mercato del lavoro: il livello di partecipazione è stato (nel 1999) del 45% per le

donne e del 70% per gli uomini. Questa differenziazione riflette anche un diverso livello

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231

di qualificazione e di segmentazione del mercato del lavoro: nel 1976 le donne italiane

rappresentavano appena il 25% della forza-lavoro italiana nel paese. Ciò significa che il

mercato del lavoro dell‟epoca – relativamente alla tipologia delle mansioni che

potevano svolgere le donne – anche in base alle limitate qualifiche delle stesse in quanto

arrivate soprattutto per motivo di ricongiungimento familiare, appariva piuttosto

impermeabile alla offerta proveniente dai gruppi di forza lavoro femminile. Il divario tra

occupazioni maschili e femminili, solo parzialmente e con gli anni, si è andato

riducendo, in ragione della crescita che ha interessato significativamente il settore

terziario.

Storicamente, negli anni ‟80 e ‟90, in valore assoluto e in rapporto al totale della

popolazione straniera occupata, il numero degli occupati italiani è andato

progressivamente diminuendo, a seguito di un aumento generalizzato della

disoccupazione registrata agli inizi degli anni ‟80; questo andamento si è accentuato

anche in presenza di un aumento generale della popolazione straniera in Germania.

Negli anni „80 erano occupati 350 mila italiani su una collettività di 650 mila unità; nel

decennio successivo, invece, pur restando stabile l‟ammontare complessivo della

comunità, gli occupati si riducevano a 180 mila unità.

Durante i primi anni „90, inoltre, a causa di prepensionamenti e crisi dell‟industria che

ha caratterizzato la società tedesca, i lavoratori italiani occupati sono diminuiti ancora,

probabilmente a causa dell‟introduzione di tecnologie nuove. Queste hanno espulso

quelle componenti di forza lavoro poco qualificata; pertanto nelle aziende sono rimasti

soprattutto coloro che sono stati capaci di adattarsi189

alle nuove necessità della

produzione.

A metà degli anni ‟90, la quota dei lavoratori italiani occupati in agricoltura era molto

contenuta, mentre l‟occupazione nel settore secondario raggiungeva percentuali

ragguardevoli, soprattutto negli impieghi nell‟industria manifatturiera (poco più del

40% per la comunità italiana). Il terziario nello stesso periodo rappresenta il settore di

attività economica per circa il 50% degli italiani occupati, con una netta prevalenza

della componente femminile; questa è occupata non solo nel commercio, nel settore

alberghiero e della ristorazione, ma anche nelle occupazioni pubbliche (nel 1995, circa

il 15% erano impiegate nelle amministrazioni locali e nazionali).

Nel 1999, secondo le fonti statistiche censuarie tedesche, il tasso di partecipazione della

forza lavoro italiana in Germania era comunque molto alto, pari al 59% (rispetto ad un

livello del 49,8% riferito alla totalità delle comunità straniere presenti nel paese), mentre

il tasso di disoccupazione era arrivato al 12,2% (rispetto al livello del 17,6% medio

riferito alla totalità delle comunità straniere).

Quel che risulta sufficientemente chiaro è il fatto che il miglioramento dei tassi di

occupazione registrati sul finire degli anni ‟80 non è risultato sufficiente ad invertire la

tendenza negativa; infatti, a metà degli anni „80 gli italiani risultavano essere la

componente straniera col più alto tasso di disoccupazione (16%), superando anche

quella turca. Nel 1995, il numero di italiani disoccupati ha raggiunto le 44.158 unità.

Con riferimento al profilo lavorativo, la quota dei lavoratori specializzati è negli stessi

189

Fonte: intervista a Rodolfo Ricci, FILEF, Roma, 2002

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232

anni diminuita, scendendo, in base ai dati dei microcensimenti tedeschi, dal 29,7%

(1985) al 21,6% (1995).

L‟espansione in Germania del lavoro autonomo italiano e di quello straniero più in

generale è in controtendenza alla persistente riduzione del lavoro autonomo tedesco,

tanto da richiamare una crescente attenzione degli studiosi nell‟ultimo decennio (dati

ricavati dallo studio “Consistenza ed evoluzione del sistema di PMI in emigrazione”

pubblicato dalla FILEF nel 1999).

Come emerge da uno dei primi scritti sull‟argomento: "Nella discussione scientifica sul

fenomeno migratorio il lavoro autonomo degli stranieri non ha finora rappresentato un

terreno di ricerca. Negli anni ‟60 e primi anni ‟70 ci sono stati alcuni studi sui costi e

benefici economici dell‟occupazione straniera, cioè dell‟occupazione dipendente

straniera. Successivamente, prese a prevalere la cosiddetta ricerca sull‟integrazione, che

si concentrava nel rilevare le barriere che impedivano l‟inserimento dei lavoratori

immigrati nella nostra società. In primo piano emerse un dibattito sul fenomeno

migratorio condotto dal punto di vista dei rapporti fra culture diverse190

."

Dai dati dell‟Istituto Federale di Statistica191

emerge che la quota del lavoro autonomo

sul totale degli occupati scende per i Tedeschi dal 12,7 nel 1987 al 9,2 per cento nel

1994, mentre quella degli stranieri sale dal 5,7 all'8,2; all‟interno di tale crescita, quella

degli italiani passa in particolare, dal 9,6 al 13 per cento, venendo ad assumere una

posizione di punta.

Si osserva che la quota della popolazione attiva su quella complessiva è molto più

elevata per gli Italiani nei confronti degli stranieri considerati nel loro complesso e così

appare anche rispetto alla popolazione tedesca; questo vale sia per gli uomini (71%, a

fronte del 63 e 58% rispettivamente, per gli altri stranieri e per i tedeschi), sia per le

donne (43 a fronte 39 e 41%, per l‟una e l‟altra collettività).

In quello che è finora lo studio più approfondito apparso sul lavoro autonomo straniero

in Germania, svolto dall‟Istituto di ricerca economica di Essen, fornisce altri dati

interessanti sugli italiani: in base a stime fatte per il 1992 su 55.000 ristoranti e trattorie

gestite da stranieri, quelle condotte da italiani ammontavano a 18.000 unità e quelli

gestiti da campani si attestava a circa 2.500 unità. Molto diffusi sono anche i negozi di

alimentari e di specialità tipiche gestiti dagli italiani provenienti dalle differenti aree

regionali, tra cui la Campania. Secondo l‟Istituto, l‟elevata percentuale di lavoro

autonomo è da attribuire al numero elevato di Italiani che vivono in Germania; il lavoro

autonomo rappresenta, quindi, un potenziale sufficiente per lo sviluppo di una

corrispondente “economia di nicchia”, per esempio nel commercio al dettaglio.

Ad un livello più generale, occorre sottolineare come, sulla base di diverse inchieste

realizzate in Germania – tra cui uno studio della FILEF – la spinta verso il settore del

lavoro autonomo risulta motivata dalla ricerca di indipendenza, dalla prospettiva di un

reddito maggiore, di aspettative di avanzamento e di mobilità sociale nonchè dalla

190

(Heidrun Czock, Ausländische Betriebsgründungen als Ausbildungsstätten, in "Sozialwissenschaften

und Berufspraxis", vol. 12, 1989, n. 4, p. 313). 191

Un quadro sintetico del fenomeno si ricava dal microcensimento del 1994, dati pubblicati sul n. 3 di

"Wirtschaft und Statistik", Istituto Federale di Statistica.

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233

necessità di reagire alla crisi del mercato del lavoro soprattutto delle occupazioni alle

dipendenze.

Alla metà degli anni ‟90, sempre secondo i dati del microcensimento 1995 dell‟Istituto

federale di statistica, elaborati dalla FILEF, il quadro del lavoro autonomo appare

meglio definito (Tab. 5.4). La comunità italiana in Germania si caratterizza per una

quota elevata di popolazione attiva (60,2%) – al di sopra della media degli stranieri e dei

tedeschi in generale (rispettivamente pari al 50,2% e 49,2%) –, dato che trova una

ulteriore verifica anche disaggregando il dato maschile (il 71%) e quello femminile (il

43%).

Tab. 5.4 Il mondo lavorativo della popolazione italiana in Germania. Anno 1995

Posizione nella professione % su totale

pop. straniera

% su totale

pop. tedesca

Popolazione italiana totale 645.000 9,25 0,87

Popolazione attiva 388.000 10,66 1,06

(% su popolazione italiana totale) (60,16)

Occupati 344.000 11,54 1,04

di cui: lavoratori autonomi 45.000 18,37 1,48

(% di autonomi su occupati) (13,08)

Fonte: Statistisches Bandesamt – Wiesbaden (Istituto federale di statistica)

La natura economica dell‟emigrazione verso la Germania, evidenziata dall‟alta

percentuale di popolazione attiva, si affianca ad un numero elevato, in valori assoluti, di

occupati e, al suo interno, di lavoro autonomo. Questa configurazione, come indica lo

studio dell‟Istituto di ricerca economica di Essen192

sopracitato, corrisponde ad una

nicchia lavorativa piuttosto consolidata dell‟emigrazione italiana.

5.5.8 Il tessuto delle piccole e medie imprese (PMI) legate alla comunità italiana

Analizzando il profilo lavorativo e imprenditoriale degli italiani in Germania, occorre

tener conto della diversa struttura economico-produttiva tedesca rispetto a quella

italiana. Nel nostro paese predomina il settore delle PMI (imprese con meno di 20

addetti), che rappresenta il 60% del totale delle unità produttive, mentre in Germania la

percentuale delle stesse non arriva al 35%. Le piccole imprese italiane sono

praticamente presenti in tutti i settori economici: nell‟edilizia, soprattutto nel comparto

delle installazioni e delle rifiniture (dove ammontano al 70% del totale), nel settore del

commercio di intermediazione (dove ammontano all‟85% del totale) e nel commercio al

dettaglio (dove ammontano al 50%); così pure in alcuni comparti dei servizi privati,

come quelli alberghieri, della ristorazione e dei bar, che restano quelli di particolare

importanza per la comunità italiana; questi, infatti, ammontano all‟80% del totale. In questo comparto il segmento dei campani è piuttosto significativo per la rete delle

“pizzerie” e dei prodotti tipici ad esse correlabili (mozzarella, olio di oliva, pomodori,

farine, eccetera).

192

Rheinisch-Westfälisches Institut für Wirtschaftsforschung, Auslandische Selbstandige in der

Bundesreplubik, Quaderno 56, Berlin, Dunker und Humblodt, 1994-95.

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234

Nell‟industria manifatturiera il peso delle PMI è mediamente basso, anche se una quota

significativa si registra nelle aree di tradizionale vocazione del made in Italy; in

particolare nel comparto delle riparazioni delle macchine agricole, dell‟ottica, degli

strumenti musicali, nella lavorazione delle pietre preziose, nelle calzature artigianali,

nella sartoria e nelle attività affini all‟abbigliamento. Il settore dell‟abbigliamento

risulta, in particolare, già caratterizzato da una forte componente di lavoro autonomo

straniero e suscettibile di crescita anche nelle collettività regionali italiane.

Un elemento ulteriore da prendere in considerazione per tracciare il profilo lavorativo e

imprenditoriale della comunità italiana in Germania è la normativa nazionale. Nel

settore dell‟artigianato, dove si concentra la maggioranza delle PMI tedesche (oltre 4

milioni di addetti, pari alla metà degli occupati nazionali) è richiesta l‟iscrizione

all‟Albo delle imprese artigianali. L‟iscrizione è condizionata al possesso di diploma di

mastro artigiano, a meno che si tratti di cittadini dell‟UE – come nel caso degli italiani –

che abbiano esercitato in precedenza la professione. Questa normativa determina una

forte riduzione del numero di imprese artigianali gestite da stranieri, ma non di quelle

italiane (che arrivano a costituire il 22% delle imprese artigianali gestite da stranieri).

Sul piano retributivo, a livello comparato rispetto alle altre comunità straniere residenti

in Germania, sia gli uomini che le donne italiani ricevono in media, per un‟ora di

lavoro, una paga lorda appena superiore alla media.

Un interessante spaccato delle imprese italiane in Germania, infine, è offerto da una

indagine sul campo della FILEF svolta nel 1999193

e riferita a 250 unità, concentrate

soprattutto a Monaco e Francoforte. L‟80% delle imprese sono state costituite da meno

di 20 anni (dopo il 1982), il 43,4% ha meno di 10 anni. In altri termini, l‟imprenditoria

italiana in Germania è un fenomeno recente. Gran parte delle imprese sono società di

persone (pochissime quelle a responsabilità limitata). Nessuna delle imprese coinvolte

nell‟indagine citata ha un numero di addetti superiore a 50 unità. Si tratta di imprese di

piccole dimensioni, con scarsi dipendenti, con un fatturato modesto, che non ricorrono a

meccanismi di subfornitura, trattandosi spesso di servizi alle persone e ai consumatori

diretti.

La Germania – tra l‟altro – è storicamente il primo partner commerciale dell‟Italia. La

sua quota sulle esportazioni nazionali è però andata diminuendo negli anni più recenti,

dal 17-18% di metà anni Novanta è passata al 13-14% del 2001-2002. Le principali voci

dell‟export sono quelle tradizionali (metalmeccanica, tessile-abbigliamento e

pelletteria); decisamente sovrarappresentate sono le esportazioni di prodotti alimentari e

bevande, che rappresentano insieme oltre il 10% delle importazioni dalla Germania, e

quasi il 25% del totale dell‟export italiano in questi settori. Pure strettissimi sono i

legami industriali. La Germania negli ultimi anni è infatti stato il principale paese Ue di

destinazione degli investimenti diretti all‟estero delle imprese italiane (con flussi

compresi tra 500 e 1550 milioni di euro l‟anno nel periodo 1999-2000). La ridefinizione

del mercato creditizio su scala europea ha comportato rilevanti investimenti nel settore

finanziario, mentre gran parte degli investimenti in attività industriali sono stati rivolti a

imprese nei diversi settori della meccanica.

193

La ricerca è stata pubblicata all‟interno del quaderno di studi e ricerche sull‟emigrazione della FILEF,

precedentemente citato.

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235

5.5.9 La realtà associativa

I dati relativi al censimento delle Associazioni effettuato in occasione della Prima

Conferenza degli italiani nel mondo (Dicembre 2000) segnalavano la presenza in

Germania di 645 associazioni italiane. La zona di gran lunga più interessata del

fenomeno è la circoscrizione consolare di Stoccarda, con 332 Associazioni per un totale

di circa sessantamila soci; seguita da Francoforte sul Meno (57 Associazioni) e Monaco

di Baviera (con 48 Associazioni).

L‟associazionismo italiano in Germania si è sviluppato soprattutto negli anni Sessanta

del Novecento. Le ondate di immigrazione precedenti infatti difficilmente potevano dar

luogo a strutture di ambito sociale o ricreativo stabili perché si trattava di flussi

emigratori che, pur non esigui dal punto di vista quantitativo, non formavano comunità

immigrate strutturate trattandosi, per lo più, come accennato, di lavoratori temporanei.

Col crescere dell‟emigrazione in Germania si diffonde quasi contestualmente la rete

delle associazioni italiane. Infatti, molte di esse iniziano a formarsi proprio tra gli anni

sessanta e settanta. Le associazioni tuttavia risentono fortemente – anche in questa fase

storica – del carattere rotatorio, temporaneo e stagionale del flusso di emigrazione. Esse

infatti tendono a fornire servizi ben precisi in determinate aree geografiche, ma la loro

presenza e influenza nella realtà dell‟emigrazione non è paragonabile ad altri casi

europei, come – ad esempio – quello svizzero, dove l‟associazionismo gioca un ruolo

insostituibile negli equilibri delle comunità italiana in generale e delle singole realtà

regionali in particolare.

Il dato più interessante relativo agli anni Sessanta-Settanta è la presenza delle grandi

strutture associative che hanno un forte legame con l‟Italia, come i patronati sindacali e

le Missioni Cattoliche.

Superata la crisi della metà degli anni Settanta, in cui l‟associazionismo, compreso

anche quello di tipo sindacale, ha giocato un ruolo importante nel tentativo di contenere

le conseguenze negative sull‟emigrazione italiana dovute ai processi di ristrutturazione

industriale, è emersa con forza – soprattutto all‟inizio degli anni Ottanta – la novità

dell‟associazionismo di carattere regionale. Quando ormai le emergenze derivanti dalla

crisi economica erano state superate, possiamo identificare la progressiva

organizzazione di una vera e propria comunità italiana, con conseguenze molto

interessanti sul versante associativo.

La caratteristica più importante del nuovo associazionismo è la sua dimensione

economica e imprenditoriale, destinata a diventare sempre più importante con

l‟avvicinarsi agli anni più recenti. La riorganizzazione della comunità italiana è infatti

coincisa con il moltiplicarsi delle iniziative degli italiani nella piccola e media impresa,

per le quali lo strumento dell‟associazionismo si è rivelato una ottima occasione di

visibilità. Il segnale più interessante, in questo senso, è dato dalla nascita e dallo

sviluppo di strutture di coordinamento delle varie imprese gestite da italiani, dalle

associazioni che raggruppano ristoratori (in genere sottolineando la comune

provenienza regionale) alle realtà che si occupano di turismo, per cui le pubbliche

relazioni diventano fondamentali.

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5.5.10 Osservazioni conclusive

In Germania risulta ancora non facile il processo di integrazione sociale e culturale,

nonostante i decenni trascorsi dalle prime migrazioni fino ad oggi.

Esiste innanzitutto un problema di ambiguità nei permessi di soggiorno per gli italiani,

aggravato recentemente dall‟impennarsi del numero di connazionali espulsi e rimpatriati

dalla Germania. Esiste, inoltre, il perdurante problema dell‟elevato tasso di

disoccupazione degli italiani. Nel 2001 i disoccupati italiani ammontavano a 41.979

unità su 619.060 italiani censiti come residenti in Germania: una percentuale notevole,

quasi il 12% dovuta principalmente alla mancanza di qualificazione professionale194

.

Un ulteriore e perdurante problema riguarda le difficoltà scolastiche dei giovani.

Secondo statistiche del 2001 la percentuale di alunni italiani della scuola dell‟obbligo

che si trovano costretti a frequentare i corsi speciali nelle scuole dedicate agli studenti in

difficoltà (Sonderschulen) si aggira attorno al 10% del totale degli iscritti italiani alla

scuola dell‟obbligo. Una percentuale molto alta, che contrasta con la stabilità che da

tempo caratterizza l‟immigrazione italiana in Germania e che rappresenta una grave

anomalia del processo di integrazione e promozione sociale.

Particolarmente avvertita, e per certi aspetti rivelatrice della tendenza socio-demografica

in atto nelle comunità italiane all‟estero, è la necessità di approntare politiche e

interventi adeguati ai bisogni della terza età, le generazioni degli anziani, che non hanno

deciso di rientrare al Paese di origine, preferendo, per ragioni familiari o di adattamento

al contesto tedesco, di rimanere in Germania.

Particolarmente sottolineata, negli interventi dei rappresentati degli italiani all‟estero, è

la necessità di un maggiore coordinamento tra Camere di commercio, Istituto per il

commercio estero e associazioni imprenditoriali per la tutela e la promozione delle

piccole e medie imprese italiane, che spesso vivono un percorso economico e

finanziario del tutto autonomo e non sono assistite adeguatamente in sede istituzionale.

194

I dati sono tratti dal sito internet dell‟ambasciata italiana a Berlino, http://www.botschaft-italien.de/.