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Adriana Dadà Emigrazione e storiografia Primi risultati di una ricerca sulla Toscana La storiografia sui fenomeni emigratori nel- l’Italia unita si sta ampliando ed arricchen- do negli ultimi anni grazie a notevoli e validi contributi di analisi, come fra l’altro hanno dimostrato alcune rassegne di studi sull’emi- grazione italiana fra Otto e Novecento e su emigrazione e storie locali1. Molte delle ipo- tesi di ricerca e degli studi già avviati, af- frontando in un’ottica nuova il problema dei rapporti fra utilizzazione delle risorse economiche e umane, processi di industria- lizzazione e connessioni fra aree economica- mente sviluppate e aree arretrate, influisco- no in modo certamente non marginale sul dibattito ancora aperto nella storiografia sulle caratteristiche tipiche dello sviluppo economico italiano. Suggeriva già Stefano Merli come il modello di sviluppo italiano derivasse proprio dall’originale capacità di unificazione di vari livelli di crescita sia eco- nomica che sociale: “Emigrazione, disoccu- pazione, lavoro nero e marginale, esclusio- ne, povertà, sfruttamento quantitativo, per- sistenza del legame con la terra, degradazio- ne di interi settori e intere regioni sono con- temporanei ed organici allo sfruttamento in- tensificato di tipo qualitativo, alla concen- trazione degli impianti e alla cogestione di poli industrializzati, allo spreco, alle mani- polazioni del benesserismo, ecc. Divengono, cioè, le debolezze e i mali tradizionali di un capitalismo gracile e arretrato, la cintura di protezione e il serbatoio dei settori avanzati che cessano così di essere oasi economiche e tecnologiche privilegiate in una rivoluzione incompiuta per assumere l’aspetto di settori di punta di un organico, ma diseguale e con- traddittorio, sviluppo economico”2. Sempre più i “meccanismi che hanno consentito al- l’Italia di raggiungere la posizione che at- tualmente occupa nell’Occidente”3 si sono rivelati agli studiosi di storia economica co- me confluenti in un “modello di sviluppo” tipico dell’Italia che “ha certamente qualco- sa da insegnare alla teoria e alla storia dello sviluppo, anche se nelle trattazioni sistema- tiche sulla rivoluzione industriale viene qua- si regolarmente trascurato”4. Un ruolo im- portante in questo modello di sviluppo è ri- coperto senz’altro dall’emigrazione, che, se- 1 Vedi, ad esempio, L ’emigrazione italiana fra Otto e Novecento, a cura di Patrizia Audenino, Paola Corti, Ada Lonni, “Passato e presente”, 1988, n. 17; Franca Modesti, Emigrazione e storie locali, “Italia Contemporanea”, 1992, n. 186. 2 Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, Firenze, La Nuova Italia, 1972, 1 , p. 15. 3 Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d ’interpretazione, in Storia d’Italia, Annali 1. Dal feudale- simo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 1195. F. Bonelli, Il capitalismo italiano, cit., p. 1195. “Italia contemporanea”, settembre 1993, n. 192

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Adriana Dadà

Emigrazione e storiografiaPrimi risultati di una ricerca sulla Toscana

La storiografia sui fenomeni emigratori nel­l’Italia unita si sta ampliando ed arricchen­do negli ultimi anni grazie a notevoli e validi contributi di analisi, come fra l’altro hanno dimostrato alcune rassegne di studi sull’emi­grazione italiana fra Otto e Novecento e su emigrazione e storie locali1. Molte delle ipo­tesi di ricerca e degli studi già avviati, af­frontando in un’ottica nuova il problema dei rapporti fra utilizzazione delle risorse economiche e umane, processi di industria­lizzazione e connessioni fra aree economica­mente sviluppate e aree arretrate, influisco­no in modo certamente non marginale sul dibattito ancora aperto nella storiografia sulle caratteristiche tipiche dello sviluppo economico italiano. Suggeriva già Stefano Merli come il modello di sviluppo italiano derivasse proprio dall’originale capacità di unificazione di vari livelli di crescita sia eco­nomica che sociale: “Emigrazione, disoccu­pazione, lavoro nero e marginale, esclusio­ne, povertà, sfruttamento quantitativo, per­sistenza del legame con la terra, degradazio­ne di interi settori e intere regioni sono con­

temporanei ed organici allo sfruttamento in­tensificato di tipo qualitativo, alla concen­trazione degli impianti e alla cogestione di poli industrializzati, allo spreco, alle mani­polazioni del benesserismo, ecc. Divengono, cioè, le debolezze e i mali tradizionali di un capitalismo gracile e arretrato, la cintura di protezione e il serbatoio dei settori avanzati che cessano così di essere oasi economiche e tecnologiche privilegiate in una rivoluzione incompiuta per assumere l’aspetto di settori di punta di un organico, ma diseguale e con­traddittorio, sviluppo economico”2. Sempre più i “meccanismi che hanno consentito al­l’Italia di raggiungere la posizione che at­tualmente occupa nell’Occidente”3 si sono rivelati agli studiosi di storia economica co­me confluenti in un “modello di sviluppo” tipico dell’Italia che “ha certamente qualco­sa da insegnare alla teoria e alla storia dello sviluppo, anche se nelle trattazioni sistema­tiche sulla rivoluzione industriale viene qua­si regolarmente trascurato”4. Un ruolo im­portante in questo modello di sviluppo è ri­coperto senz’altro dall’emigrazione, che, se-

1 Vedi, ad esempio, L ’emigrazione italiana fra Otto e Novecento, a cura di Patrizia Audenino, Paola Corti, Ada Lonni, “Passato e presente”, 1988, n. 17; Franca Modesti, Emigrazione e storie locali, “Italia Contemporanea”, 1992, n. 186.2 Stefano Merli, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale. Il caso italiano: 1880-1900, Firenze, La Nuova Italia, 1972,1, p. 15.3 Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d ’interpretazione, in Storia d ’Italia, Annali 1. Dal feudale­simo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 1195.

F. Bonelli, Il capitalismo italiano, cit., p. 1195.

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condo una felice definizione, può essere considerata una delle “sue industrie ‘natura­li’”5, non foss’altro per il ruolo delle rimesse degli emigranti, che permettono il manteni­mento del saldo della bilancia dei pagamenti in un momento di crisi del processo di svi­luppo.

Il dibattito complessivo sul processo di formazione dello Stato unitario e delle ca­ratteristiche dello sviluppo economico italia­no ha ricevuto validi contributi proprio dal settore della storia dell’emigrazione, soprat­tutto dagli studi che hanno accettato e prati­cato Pinterdisciplinarità come metodologia di ricerca, dovendo necessariamente affron­tare contemporaneamente temi di tipo quan­titativo-statistico, politico, economico, so­ciale e culturale. Fra questi si segnala sen­z’altro il progetto di ricerca sui “Biellesi nel mondo” diretto da Valerio Castronovo che si è già concretizzato in cinque volumi di saggi tematici, che hanno radiografato, con diverse ma coordinate metodologie di ricer­ca, un’area significativa, il Biellese, fra Otto e Novecento6. I volumi offrono lo spaccato di una società in via di industrializzazione, nella quale l’emigrazione serve a garantire un fragile equilibrio basato sul binomio agricoltura-industria; il piccolo contadino o l’operaio specializzato attraverso l’emigra­zione mantengono il mestiere e la piccola proprietà che così convivono con l’affer­marsi del sistema di fabbrica. L’ultimo volu­me, il sesto, contiene gli atti del convegno

storico internazionale sull’emigrazione tenu­to a Biella il 25-27 settembre 19897 8, e si se­gnala anche per gli interventi dei più signifi­cativi studiosi a livello internazionale che fanno il bilancio della più recente storiogra­fia nei paesi di maggior emigrazione italia­na: Rudolph Vecoli e Lydio F. Tomasi per gli Stati Uniti, Emile Temine e Alberto Ca- bella per la Francia, Carlo Camisa per la Svizzera, Fernando J. Devoto per l’Argenti­na, Michael M. Hall per il Brasile. In tutti gli autori, italiani e stranieri, è presente l’esi­genza di ampliare gli studi regionali, sia del­le aree di partenza che di quelle di arrivo, per acquisire maggiori elementi e valutare in maniera nuova e più completa un fenomeno di respiro così ampio come quello migra­torio.

Di particolare interesse il saggio di Ercole Sori, Un bilancio della più recente storiogra­fia italiana sull’emigrazione*. Sori è senz’al­tro uno degli studiosi che ha contribuito più validamente a quello che egli definisce il “processo di secolarizzazione della storia dell’emigrazione o, meglio, la cessazione della sua funzione ancillare rispetto ad altri temi e intenzioni del dibattito storiografico, ideale e politico”9. Un contributo corposo — il suo —, frutto di una riflessione avviata già nel 1975 con il saggio apparso su “Qua­derni storici”, Emigrazione all’estero e mi­grazioni interne in Italia tra le due guerre10 e poi concretizzatosi nel 1979 nel fondamenta­le volume L ’emigrazione italiana dall’Unità

5 F. Bonelli, Il capitalismo italiano, cit., p. 1197.6 Oltre al Dizionario biografico, a cura di Guido Barberis e Maria Pia Casassa, Milano, Electa, 1987, sono finora usciti i volumi: Aa.Vv., L ’emigrazione biellese fra Ottocento e Novecento, 2 tomi, Milano, Electa, 1988; Aa.Vv., L ’emigrazione biellese ne! Novecento, Milano, Electa, 1988; Corrado Grassi-Mariella Pautasso, Prima roba il par­lare. Lingue e dialetti dell’emigrazione biellese, Milano, Electa, 1989; Aa.Vv., Identità e integrazione. Famiglie, paesi, percorsi e immagini di sé nell’emigrazione biellese, Milano, Electa, 1990.7 Studi sull’emigrazione. Un’analisi comparata. A tti del convegno storico internazionale sull’emigrazione, Biella, Palazzo La Marmora, 25-27settembre 1989, a cura di Maria Rosaria Ostuni, Milano, Electa, 1991.8 Studi sull’emigrazione, cit., pp. 59-75.9 Studi sull’emigrazione, cit., p. 64.10 “Quaderni Storici”, 1975, nn. 29-30.

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alla seconda guerra mondialen , che è servito da guida e da stimolo alla ricerca ad un’inte­ra generazione di studiosi. Eppure è lo stes­so Sori che dovendo fare “un bilancio sull’e­migrazione italiana e sul lavoro storiografi- co che si è applicato a questa grande que­stione della nostra storia nazionale” arriva a dire, a proposito del suo stesso volume: “Se dovessi riscriverlo oggi, lo riscriverei sicura­mente diverso, innanzi tutto perché molti degli umori ideali che vi circolano sono nel frattempo cambiati, e poi perché oggi si san­no molte più cose di quelle che si sapevano in quella seconda metà degli anni settanta. Quasi certamente, poi, non lo riscriverei da solo, spaventato dalla mole del compito e dall’ampiezza delle competenze necessa­rie”11 12.

La ricerca storiografica sui fenomeni mi­gratori in generale, e in particolare su quelli italiani, negli ultimi dieci anni, si è infatti arricchita sia sotto l’aspetto degli approcci metodologici che per le problematiche af­frontate ed ha quindi prodotto studi partico­lari sia per aree che per tematiche più con­crete e definite13. In particolare gli studi di tipo regionale, abbondanti negli anni ottan­ta, hanno avuto un antesignano nel tempo in Emilio Franzina, un altro importante stu­dioso che, proprio negli stessi anni del lavo­ro di Sori, iniziava la serie di importanti contributi sul fenomeno migratorio interna­

zionale con il volume sull’emigrazione vene­ta14. Molti degli spunti per l’allargamento delle tematiche di ricerca sia spazialmente che tematicamente sono venuti proprio dai suoi saggi e ricerche, dalla stimolante intro­duzione al volume Merica! Merica!, ancor oggi ricca di indicazioni15, fino al suo inter­vento al convegno su “Aree, regioni, Stati”, che ci interessa segnalare per le preziose in­dicazioni che può fornire per l’individuazio­ne di una regione di emigranti in Toscana16. Il suo saggio rappresenta — a nostro avviso — una sorta di teorizzazione della necessità di ripartire negli studi dalla constatazione che esistono “aree e regioni emigratorie (per l’Italia: l’arco alpino, la ‘Padania’, il Mez­zogiorno rurale) e partizioni subareali che possono anche corrispondere (ma non sem­pre e necessariamente) a divisioni politico­amministrative (si pensi per un lato alla Ca­labria e al Veneto, e per un altro al Friuli prima della Grande Guerra) in cui è senz’al­tro più proficuo ed istruttivo studiare l’in­sorgere e lo svilupparsi dell’emigrazione transoceanica per le modalità che ebbe e per i numerosi condizionamenti che comportò in patria e all’estero”17.

Un’indicazione questa ripresa anche da Sori, che valuta positivamente gli studi che stanno fornendo “una geografia emigratoria dell’Italia contemporanea”18, “che, per for­tuna, evita il pericolo del descrittivismo e si

11 Ercole Sori, L ’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979, p. 512.12 E. Sori, Un bilancio della più recente storiografia italiana sull’emigrazione, in Studi sull’emigrazione, cit., p. 73.13 Rimandiamo per la ricca bibliografia al saggio di Emilio Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni (1978-88), pubblicato sul primo numero della rivista “Altre Italie”, 1988, pp. 6-56.14 E. Franzina, La grande emigrazione. L ’esodo dei rurali dal Veneto durante il secolo XIX, Venezia, Marsilio, 1976.15 Si veda: E. Franzina, Introduzione a Merica! Merica! Emigrazione e colonizzazione nelle lettere dei contadini veneti in America Latina. 1876-1902, Milano, Feltrinelli, 1979.16 E. Franzina, Il concetto storico di “regione emigratoria’’: il caso veneto, in Istituto Ernesto Ragionieri, Gli spazi del potere. Aree, regioni, Stati: le coordinate territoriali della storia contemporanea, a cura di Franco Andreucci e Alessandra Pescarolo, Firenze, La Casa Usher, 1989. Fra i saggi si segnala, senz’altro, per l’atten­zione ai problemi emigratori quello di Carmine Donzelli, La dimensione regionale e l ’Italia contemporanea, pp. 193-198.17 E. Franzina, Emigrazione transoceanica, cit., p. 19.18 E. Sori, Un bilancio, cit., p. 19.

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mostra attenta alle raccomandazioni di Lu­cien Fabvre [ma: Febvre], ormai lontane nel tempo, ma sempre attuali”19. Anche se en­trambi, pur segnalando molti lavori che van­no in questa direzione20, lamentano che gli autori abbiano accettato e fatta propria la troppo facile coincidenza fra regione emi­gratoria e regione amministrativa21 e denun­ciano la scarsa attenzione al fenomeno emi­gratorio prestata nel complesso dai volumi della Storia d ’Italia dedicati alle Regioni d ’I­talia dall’Unità a oggi della casa editrice Ei­naudi22.

Le regioni o aree emigratorie finora indi­viduate “possono denotare, e in effetti pos­siedono, peculiarità etnico-culturali, sociali ed economiche del tutto proprie e distinte e costringono così allo studio dei prerequisiti dell’emigrazione, all’analisi delle sue ‘eco­nomie esterne’, a una più attenta valutazio­ne delle situazioni locali e dei ‘paesi’ di par­tenza stabilendo sin da qui la possibilità e la natura di certi rapporti biunivoci instaurati dall’esodo con alcune parti dei continenti d’arrivo (il Veneto e il Brasile, il Friuli e l’Argentina, gli Usa e il Mezzogiorno, la Si­cilia e l’Australia ecc. per grossolane genera­lizzazioni)”23. In effetti la ricerca storica sta prestando attenzione a questi suggerimenti, andando in molti casi oltre il limite regiona­le, scendendo a dimensioni più piccole (pro­vinciali, di paese o gruppi di paesi omoge­nei) con ottimi risultati24 non solo per la sto­ria dell’emigrazione, ma per l’intreccio fra

storia dell’emigrazione, storia economica e sociale, ricerca antropologica che permette di illuminare meglio l’evoluzione di queste zone e il loro inserimento nella vita naziona­le. È ormai evidente non solo per gli studiosi del settore che, così scomposta ed avvicinata alla realtà territoriale, la storia dell’emigra­zione può diventare una cartina di tornasole per molte delle tematiche oggetto di dibatti­to nella storiografia dell’Italia contempora­nea. Fra queste: 1) il ruolo delle varie aree geoeconomiche nella formazione di un mer­cato nazionale delle merci, dei capitali e del lavoro; 2) il ruolo sia attivo (fornendo ma­nodopera da aree che possono essere consi­derate serbatoi di manodopera di riserva) che passivo (con l’allontanamento di mano­dopera esuberante rispetto al modello di svi­luppo) che ha avuto l’emigrazione nello svi­luppo economico dello stato italiano; 3) il legame fra aree sviluppate e aree arretrate, dalle quali si emigrò senz’altro di più fra Ot­to e Novecento; aree arretrate funzionali al tipo di sviluppo diseguale che ha permesso, attraverso l’uso differenziato di risorse eco­nomiche e umane, il decollo e l’affermazio­ne dell’economia italiana, come ormai è opi­nione diffusa nella storiografia; 4) il ruolo dell’emigrazione nel conflitto fra capitale e lavoro, come “fenomeno carsico del conflit­to sociale”25; ruolo che via via può caratte­rizzare l’emigrazione come rinuncia alla lot­ta di classe, come protesta sociale o lotta di classe differita; 5) il ruolo dell’emigrazione

19 E. Sori, Un bilancio, cit., p. 19.20 Per una più completa rassegna bibliografica di questi studi, vedi E. Franzina, Emigrazione transoceanica, cit., particolarmente pp. 36-37, oltre alle opere successive al 1988 citate in questo saggio.21 E. Sori, Un bilancio, cit., p. 69.22 E. Franzina, Emigrazione transoceanica, cit., p. 19.23 E. Franzina, Emigrazione transoceanica, cit., p. 19.24 Vedi, in particolare, i volumi di P. Audenino, Un mestiere per partire. Tradizione migratoria, lavoro e comunità in una vallata alpina, Milano, Angeli, 1990; P. Corti, Paesi d ’emigranti. Mestieri, itinerari, identità collettive, Mi­lano, Angeli, 1990; Raul Merzario, Il capitalismo nelle montagne. Strategie famigliari nella prima fase di industria­lizzazione del Comasco, Bologna, Il Mulino, 1989; Marco Porcella, La fatica e la Merica, Genova, Sagep, 1986, esemplari per impostazione metodologica interdisciplinare e risultati ottenuti.25 E. Sori, Un bilancio, cit., p. 63.

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temporanea e periodica nel mantenimento di una continuità nell’assetto economico fra stati preunitari e stato italiano almeno per i primi decenni; si sta sempre più evidenzian­do infatti come l’emigrazione italiana tran­soceanica, che è quella più conosciuta, si le­ghi con quegli spostamenti stagionali o tem­poranei che ormai sono riconosciuti come costanti di molte aree italiane, e non solo, fin dal Seicento26. Molte aree presentano in­fatti un alto tasso di emigrazione che non può essere assimilata a quella che è stata de­finita da uno storico americano da “sradica­ti”27, ma è uno degli elementi di quella mo­bilità costante che si integra con altri fattori e strategie di sopravvivenza di intere comu­nità ed aree geografiche.

Abbiamo solo indicato alcune delle grandi problematiche alle quali uno studioso deve costantemente attenersi affinché l’indicazio­ne della ricerca sull’emigrazione per aree geografiche non diventi pura ricerca locali- stica. Chiaramente studi di questo genere ri­chiedono contemporaneamente indagini di storia economica e sociale, attenzione a ri­cerche di tipo antropologico e ambientale, senza trascurare gli apporti che i demografi storici possono e stanno fornendo, come di­mostrano i volumi del “Bollettino di demo­grafia storica” dedicati ai fenomeni migra­tori28.

La ricerca dunque non può che essere in­terdisciplinare tanto più che, come afferma uno studioso di storia economica molto at­tento, Franco Bonelli, anche l’approccio statistico, visti i dati disponibili del tutto in­sufficienti sia come quantità che come quali­tà, ha evidenziato “la necessità di procedere a questa operazione di scomposizione e ri­composizione della realtà fissata nei dati” , “dimostrata dai risultati cui sono pervenuti alcuni dei più recenti contributi storiografi­ci”29. Bonelli parte dalla constatazione che “in alcuni momenti cruciali della trasforma­zione dell’economia e della società italiana l’emigrazione ha assunto una funzione tal­mente incisiva da legittimare l’opinione se­condo la quale essa deve essere indicata co­me uno degli elementi che caratterizzano il modello italiano di industrializzazione”30. Il legame tra storia dell’emigrazione, storia de­mografica e storia economica rende evidente anche per Bonelli come “la geografia e le di­namiche emigratorie italiane sono la manife­stazione della presenza nella penisola di blocchi di condizioni assai differenziate che non sono ancora state adeguatamente esa­minate”31.

Anche per la Toscana è possibile avviare una ricerca sul fenomeno emigratorio in età contemporanea che faccia tesoro dei sugge­rimenti ormai ampi offerti dalla più recente

26 Vedi, a tal proposito, il volume Le migrazioni internazionali dal medioevo all’età contemporanea: il caso ita­liano. Atti del seminario di studi, Roma, Istituto Alcide Cervi, 11-12 gennaio 1990, “Bollettino di Demografia Storica”, 1990, n. 12; in particolare: Eugenio Sonnino, Presentazione. Migrazioni ed evoluzione demografica: un rapporto mutevole, pp. 7-8, 11-18. Vedi inoltre gli interessanti spunti già presenti in Dino Cinel, Appren­distato per le emigrazioni internazionali. Le migrazioni interne in Italia nel secolo XIX, “Comunità”, 1980, n. 182.27 Oscar Handlin, Gli sradicati, Milano, Comunità, 1958.28 Oltre al numero già citato, vedi il n. 13 del 1990, dedicato a Giovanni Pizzorusso-Matteo Sanfilippo, Rassegna storiografica dei fenomeni migratori a lungo raggio in Italia dal basso Medioevo al secondo dopoguerra, p. 184.29 F. Bonelli, Emigrazione e rivoluzione industriale: appunti sulle cause dell’emigrazione italiana, in Le migrazioni internazionali dal medioevo all’età contemporanea: il caso italiano, cit., p. 40. In tal senso richiamiamo l’attenzio­ne degli studiosi sul lavoro, fondamentale per metodologia e risultati: Evoluzione demografica ed ambiente econo­mica nelle Marche e nell’Umbria dell’Ottocento, Torino, lite, 1967, particolarmente per il fenomeno emigratorio pp. 143 sgg.30 F. Bonelli, Emigrazione e rivoluzione industriale, cit., p. 35.31 F. Bonelli, Emigrazione e rivoluzione industriale, cit., p. 41. 0

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storiografia cui abbiamo fatto riferimento. La maggioranza degli studiosi la considera una regione emigratoria secondaria, come dimostra il volume delle Regioni d ’Italia de­dicato alla Toscana, nel quale è stata presta­ta poca o nessuna attenzione al problema, se si escludono gli accenni di Giorgio Mori sulla Lucchesia, ritenuta l’unica area interessata in maniera notevole dal fenomeno32. D’al­tronde, nota Mori, come la Toscana “non fosse, né poteva essere, data la dominante mezzadria, terra di emigranti”33. Il tema del­l’emigrazione toscana è stato in seguito af­frontato per il periodo 1945-1965 da Patrizia Romei con un saggio su Movimenti migrato­ri e distribuzione della popolazione dal 1945 al 1965 nel volume La Toscana nel secondo dopoguerra34.

La ricerca sull’emigrazione toscana nel pe­riodo dall’unità d’Italia al 1914 che è in cor­so di svolgimento con un finanziamento, benché modestissimo, del ministero dell’Uni­versità e della Ricerca Scientifica e Tecnolo­gica, sta invece evidenziando come anche per la Toscana possa essere individuata una re­gione emigratoria che coincide grosso modo con l’area appenninica e subappenninica. Una regione che presenta un flusso emigrato­rio peculiare per caratteristiche, costanza, periodicità e coerenza di comportamenti che incidono in maniera rilevante sullo sviluppo economico, sociale e culturale sia delle aree di emigrazione che di quelle di destinazione. Già guardando al complesso dei dati regio­nali, se soltanto si stabilisce un rapporto fra i dati ufficiali relativi all’emigrazione e quel­

li della popolazione residente, si vede subito che la Toscana presenta un trend abbastanza aderente alle percentuali italiane, come di­mostrano le tabelle allegate (nn. 1-2). Per semplificare l’osservazione generale sui ca­ratteri dell’emigrazione toscana, abbiamo la­sciato distinte l’emigrazione continentale da quella transoceanica, nonostante i dubbi sui metodi di rilevamento dei due dati. Ciò ha consentito di constatare come, particolar­mente per l’emigrazione continentale, il dato toscano si mantiene quasi sempre al passo col dato nazionale, quando non è maggiore. Fa eccezione il periodo di crisi dei rapporti con la Francia, area di maggior flusso dalla regione (ma con il contemporaneo sposta­mento verso i paesi transoceanici come di­mostra la tabella n. 2), per riprendere poi nel 1897 con maggior intensità, quasi a compen­sare le perdite degli anni precedenti. Per l’e­migrazione transoceanica i dati regionali so­no sempre al di sotto di quelli nazionali, ma non di troppo, se si escludono gli anni del boom dell’emigrazione verso il Nord Ameri­ca. Se si sommano i dati dei due tipi di emi­grazione, la Toscana si caratterizza, insom­ma, per una intensità del fenomeno non tra­scurabile, vicina alla media nazionale, ma soprattutto abbastanza costante nel tempo.

Procedendo alla disaggregazione dei dati per province, circondari e comuni, sempre più prende corpo l’ipotesi che esiste in To­scana una zona omogenea per caratteristiche e intensità emigratoria35. Se infatti si consi­dera la Toscana nel suo complesso, i dati uf­ficiali danno un rapporto fra emigrati ed

32 Giorgio Mori, Dall’unità alla guerra: aggregazione e disgregazione di un’area regionale, in Storia l ’Italia. Le re­gioni dall’Unità a oggi. La Toscana, a cura di G. Mori, Torino, Einaudi, 1986, p. 211.33 G. Mori, Dall’unità alla guerra, cit., p. 129.34 Pier Luigi Ballini, Luigi Lotti, Mario G. Rossi (a cura di), La Toscana nel secondo dopoguerra, Milano, Angeli, 1991.35 L’ipotesi muove dall’elaborazione dei dati statistici forniti a partire dal 1876 prima dalla Direzione Generale della Statistica del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, poi anche dai Commissariato Generale dell’Emigrazione, secondo una metodologia che li disaggrega per comprensori ed aree socio-economiche, pur nella consapevolezza della insufficienza dei dati ufficiali sul fenomeno migratorio nel periodo postunitario. Ri­cerche approfondite in archivi comunali e provinciali hanno segnalato già per parecchie zone come il fenomeno

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abitanti per il periodo 1876-1913 di solo il 15,61 per cento36. Esaminando i dati per pro­vince, si evidenzia già come il fenomeno in alcune di esse sia di portata più ampia e con­tinuo nel tempo, come nelle province di Luc­ca e Massa-Carrara, che raggiungono rispet­tivamente una percentuale di emigranti sulla popolazione del 43,50 per cento e 33,44 per cento. Le altre province hanno le percentuali seguenti: Livorno 13,74 per cento, Arezzo 11,27 per cento, Pisa 8,32 per cento, Firenze 8,17 per cento, Grosseto 3,81 per cento, Sie­na 2,50 per cento. Se si procede ad ulteriori disaggregazioni per circondari e comuni si individuano zone, paesi che hanno percen­tuali ancora più alte, come i comuni al centro di due forti subaree, Bagnone in Lunigiana, Sillano in Garfagnana e Sambuca Pistoiese, per le quali, ad esempio, i dati relativi al pe­riodo 1904-1907 danno percentuali del 65 per cento, 72 per cento e 75 per cento. Si viene così delineando una zona, come già aveva

notato Attilio Mori nello studio per il con­corso bandito dall’Accademia dei Georgofili nel 1910, nella quale il quoziente emigratorio è direttamente proporzionale all’altimetria. “Si potrebbe dire che, salvo poche anomalie, le curve altimetriche corrono parallele alle curve che ci rappresentano la diversa intensi­tà del fenomeno”37. Studiando il fenomeno emigratorio così disaggregato per circondari, comuni e, in alcuni casi, anche per frazioni38, balza subito all’occhio come un’intera fascia appenninica che va dai confini liguri a quelli umbri sia fortemente interessata dal fenome­no emigratorio in maniera abbastanza co­stante nel tempo, oltre che nello spazio. Va poi tenuto conto che il fenomeno riguarda, particolarmente per la prima metà del perio­do studiato, l’emigrazione verso la Francia (Corsica compresa) e risulta quindi sicura­mente inferiore rispetto ai dati ufficiali di quanto invece non sia nella realtà, a causa della presenza di emigrazione clandestina

sia censito per difetto e sfugga al controllo, vuoi per la scarsa attenzione prestata alle migrazioni interne che con­tinuano in maniera rilevante nel periodo, vuoi per mancanza di richiesta di passaporto, vuoi per la negligenza di varie autorità comunali. Di questo si darà conto in altri lavori su aree della Lunigiana, Garfagnana e Lucchesia in corso. Vedi, comunque, ad esempio, la nota a margine al registro del censimento del 1871 del Comune di Pon- tremoli, che così illustra la situazione: “L’emigrazione periodica reale nel Comune di Pontremoli è di gran lun­ga maggiore di quella dello spoglio eseguito; ma di essa non può darsi affatto conto, attesoché all’epoca del cen­simento gli emigrati erano tutti assenti in Corsica ed alle Maremme Toscane per cui non furono compresi nelle cartoline di spoglio”, in Archivio di Stato di Pontremoli, sottoprefettura, serie I, cat. 13, Censimento, statistica, 1860-1880.36 Questo dato e le percentuali che seguono sono un’elaborazione personale computerizzata dei dati forniti dal Mi­nistero di Agricoltura, Industria e Commercio, Direzione Generale della Statistica, Statistiche dell’emigrazione ita­liana all’estero, 1876-1919, Roma, 1877-1920, voli. 25, oltre che dall 'Annuario Statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925. Con notizie sugli anni 1869-75, a cura del Commissariato Generale dell’Emigrazione, Roma, 1926.37 Attilio Mori, L ’emigrazione dalla Toscana, particolarmente da! Casentino, Roma, Tip. Nazionale G. Bertero, 1910; ripubblicato con la Carta della distribuzione dell’emigrazione toscana nel quadriennio 1904-1907, in A. Mori, Scritti geografici, Bologna, Zanichelli, 1939.38 Fondamentale per ricerche sui fenomeni emigratori, è infatti l’approfondimento su scala ridotta, come ormai sta evidenziando buona parte della storiografia. Approfondimenti in tal senso per le aree maggiormente interessate dal flusso emigratorio, la Lunigiana, la Garfagnana, la Lucchesia e la montagna pistoiese, sono possibili grazie ai dati offerti, oltre che dalle fonti statistiche nazionali, da archivi provinciali, comunali, parrocchiali, di associazioni e da privati. Per una subarea estremamente omogenea, il bagnonese, sto lavorando ad un progetto di ricerca su Emigra­zione, strutture familiari e sociali in Lunigiana fra ’800 e ’900, con un gruppo di ricerca interdisciplinare formato anche da una psicoioga di comunità, Patrizia Meringolo, e una pedagogista storica, Giulia Di Bello. Un primo ri­sultato della ricerca personale su quest’area è ora A. Dadà, L ’emigrazione dalla Lunigiana: i “Barsan”, comunica­zione presentata al convegno su Le migrazioni interne in Italia. 1500-1900, organizzato dalla Sides, a Livorno, T11 e 12 giugno 1993, ora in corso di stampa nel “Bollettino di Demografia Storica”.

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abituale39. Si comprende quindi come in que­sta zona, definibile senz’altro come regione emigratoria, per un insieme di fattori di omogeneità sia ambientali che economici, il fenomeno abbia un’incidenza quantitativa e qualitativa sulla vita quotidiana ed economi- co-sociale complessiva di non secondaria im­portanza.

Con i dati che si possono rintracciare per alcune aree, risalendo fino al Seicento40, si viene configurando il fenomeno della emi­grazione periodica e stagionale come una ca­ratteristica stabile del tessuto economico del­l’area, con la funzione di integrazione co­stante del reddito familiare attraverso lavori fuori zona di boscaiolo, carbonaio, brac­ciante, venditore ambulante e, quando non c’erano alternative, suonatori girovaghi, mendicanti e vagabondi. Lavori questi che di solito spettavano al padre di famiglia, coa­diuvato dal figlio maggiore, o al fratello più grande con un altro fratello, nel caso di man­canza del capofamiglia. Le conseguenze sul piano economico e sociale non erano di poco conto: basti pensare, ad esempio, al ruolo delle donne nella gestione familiare e alla lo­ro importanza anche nella successiva gestio­

ne economica delle risorse guadagnate con il lavoro fuori casa dal marito o da loro stesse, nel caso non infrequente che facessero lavori di domestiche, balie da latte41, o partissero anch’esse al seguito del marito, del genitore o del ‘padrone’ come venditrici ambulanti42. Il fenomeno è più o meno forte e radicato zo­na per zona, a seconda delle condizioni eco­nomiche locali, del tipo di proprietà e di red­ditività dei terreni, della “tradizione migra­toria” sviluppata nei secoli per vari motivi — perché area di comunicazione o di confine fra stati preunitari, per la vicinanza ad aree di maggior sviluppo agricolo, per l’esistenza di specializzazioni in alcuni mestieri, da pa­stori a carbonai a lavoratori di cave e minie­re. Tutto ciò produce capacità di allontana­mento progressivo dalla propria terra per “terre assai lontane”43, non solo grazie a quella che è definita la “catena migratoria” ma anche l’abitudine fisica ed interiore a “partire”, a rompere i legami con la comuni­tà, il paese, la famiglia. Questa regione è dunque interessata da fenomeni di emigra­zioni periodiche, stagionali, da secoli, e sarà su quest’area che si innesterà poi in manie­ra più decisa il fenomeno dell’emigrazione

39 Vedi in tal senso i risultati della Giunta per PInchiesta agraria, in Carlo Massimiliano Mazzini, La Toscana agri­cola. Relazione sulle condizioni dell’agricoltura e degli agricoltori nelle province di Firenze, Arezzo, Siena, Lucca, Pisa e Livorno. Estratto degli A tti della Giunta per l ’Inchiesta Agraria, Roma, Tip. del Senato, 1881.40 Indispensabile il ricorso ad Archivi di Stato, comunali, parrocchiali, anche se notizie si possono trovare in nu­merosi studi di storia toscana. Cito solo, fra le innumerevoli opere, per la rilevanza delle notizie: Carlo Corsini, Le migrazioni stagionali di lavoratori dei dipartimenti italiani nel periodo napoleonico (1810-1812), in Aa.Vv., Saggi di demografia storica, Firenze, 1969, pp. 89-157; Rita Mazzei, La società lucchese del Seicento, Lucca, 1977 (che a p. 136 rileva spostamenti consistenti verso la Corsica, le Maremme e le campagne pisane).41 La testimonianza di una balia friulana ci richiama l’attenzione sull’entità del fenomeno, quando ricorda come “Nel momento dell’assunzione si dava la preferenza alle balie di origine toscana”, “perché le toscane sono le prefe­rite per la lingua, le toscane, perché parlano già un italiano corretto, corretto”, riportata in Balie da latte, una for­ma peculiare di emigrazione temporanea, a cura di Daniela Perco, Feltre, 1984, p. 83. Il fenomeno è senz’altro più complesso ed ha forti elementi di somiglianza con le zone finora studiate dell’arco alpino, ricostruite recentemente nel saggio di P . Audenino, Le custodi della montagna: donne e migrazioni stagionali in una comunità alpina, “An­nali dell’Istituto Cervi”, 1990, n. 12.42 Sia i figurinai lucchesi che gli ambulanti lunigianesi, i “barsan” (perché vendevano prevalentemente nella Barsa­na, per estensione dalla zona di Brescia a tutta l’Italia del Nord), organizzavano carovane di bambini o bambine, da usare per la vendita “porta a porta”, i cosiddetti “garzoni”, figli di famiglie ancora più povere, che li alienavano ancora preadolescenti per un certo periodo in cambio del loro mantenimento fisico. Per l’area lunigianese, vedi ora A. Dadà, L ’emigrazione dallaLunigiana, cit.43 Aa.Vv., Per terre assai lontane, Pontremoli, 1988, catalogo della mostra omonima tenuta a Pontremoli nel 1988.

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transoceanica, senza però vedere diminuire sensibilmente l’emigrazione periodica inter­na ed europea (vedi la tabella n. 3), ma anzi, nella maggioranza dei casi, trasferendo i ca­ratteri di emigrazione di “andata e ritorno” anche a quella transoceanica. Una regione emigratoria nella quale esiste l’abitudine di “emigrare per ‘restare’”, e consolidare la propria posizione economica nella zona di partenza, come appare evidente ormai anche per molte altre aree, diversamente dallo ste­reotipo dell’emigrazione come “sradicamen­to” e fuga verso altri paesi. Cade per questa regione la tradizionale distinzione fra emi­grazione transoceanica, ritenuta definitiva, e quella continentale od europea definita tem­poranea, che d’altronde era già stata ampia­mente criticata da contemporanei e storici.

Vediamo ora alcuni degli elementi di ca­rattere strutturale che fanno da base a que­sto tipo di emigrazione abbastanza costante nel tempo. Senz’altro è il tipo di struttura economica e sociale che rende diversa questa zona dalle altre della Toscana: un’area colli­nare o montuosa dove la proprietà è più fra­zionata e dove la mezzadria non domina in­contrastata, ma fa i conti con una piccola e piccolissima proprietà contadina che si man­terrà più o meno stabile per tutto il periodo considerato e ben oltre. Le zone a mezzadria possono definirsi, nella maggior parte di questa regione emigratoria, a mezzadria “povera”, quella che non aveva ancora pro­

ceduto nel nuovo secolo alla trasformazione agraria attraverso la meccanizzazione e l’in­troduzione di nuove colture, vuoi per le ca­ratteristiche geologiche e agrarie del terreno, vuoi per l’atteggiamento degli stessi proprie­tari, ostili a cambiamenti di gestione del po­dere e dei rapporti coi mezzadri. I mancati investimenti in trasformazioni agrarie in questa zona non rendono possibile l’assorbi­mento del surplus di pigionali, manodopera bracciantile o di quella legata ai mestieri tra­dizionali della manovalanza in opere mura­rie di vario tipo. Questi gli elementi che fan­no da base alla possibilità dell’esistenza di questo tipo di emigrazione, accanto al persi­stere di una piccolissima proprietà e di una famiglia allargata che fa da supporto logisti­co e psicologico all’emigrante, che costante- mente va e viene, con un comportamento definito per altre aree da “rondinelle”. Co­me per altre aree del nord e centro Italia, la famiglia e la piccola proprietà sono dunque la garanzia e insieme l’elemento condizio­nante delle scelte dell’emigrante che cerca un’integrazione al proprio magro reddito per mantenerle entrambe e che si allontana prevalentemente nei mesi morti per le colti­vazioni di alta collina e montagna. Tradizio­nalmente il periodo dei maggiori spostamen­ti è infatti quello della cattiva stagione. Da ottobre-novembre ad aprile per recarsi pre­valentemente verso la Maremma44, la Corsi­ca45, la Pianura Padana e la Francia46. Più

44 Documentatissima la tradizione dell’ “andare in Maremma” per la stagione per tutte le aree montane dell’Ap- pennino. Vedi, fra gli altri, Girolamo Allegretti, Dall’Appennino pesarese alle Maremme: l ’emigrazione stagionale tra ’700 e ’800, in Campagne maremmane tra ’800 e ’900, Atti del convegno di Studi “Agricoltura e Società nella Maremma tra ’800 e ’900”, Grosseto, 19-20 giugno 1981, Grosseto, 1982; I. Biagianti, Migrazioni dalla montagna toscana alla Maremma nel ’900, in Campagne maremmane, cit.45 Documentata fin dal Seicento, l ’emigrazione toscana verso la Corsica è formata da boscaioli, carbonai, brac­cianti, e via via da venditori ambulanti, commercianti, che costituiscono fino alla fine dell’Ottocento un nucleo fortissimo, definito dei “Lucchesi”, con una connotazione dispregiativa. Sull’argomento vedi gli studi sull’emi­grazione in Francia e particolarmente in Francis Pomponi, Les Lucchesi en Corse, in Aa.Vv., Gli italiani nella Francia del Sud e in Corsica (1860-1980), a cura di Emile Témine-Teodosio Vertone, Milano, Angeli, 1988, pp. 200-213. Per il fenomeno della Lunigiana, vedi ora i dati dei passaporti per la Corsica a partire dal 1812 in A. Dadà, L ’emigrazione dalla Lunigiana, cit. Analoga ricerca è in corso di stesura definitiva da parte della scri­vente per l’area lucchese e uscirà nella rivista “Documenti e studi”.46 Su questo fenomeno, oltre alla bibliografia generale sull’emigrazione in Francia, contenuta nel recente G. Noi-

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tardi, con lo sviluppo delle infrastrutture in tutta Europa e in alcune aree ad Est dell’Eu­ropa, saranno proprio zone come questa a fornire quella manodopera abbondante, po­co qualificata e a tempo limitato, necessaria per lo sviluppo economico tumultuoso che raffermarsi del capitalismo richiede. Da bo- scaioli, braccianti, sterratori, gli emigranti si trasformeranno in manovali, muratori, ter­razzieri, lavoratori nelle costruzioni di galle­rie, strade, ferrovie e città. Il periodo dello spostamento si allargherà allora anche ai mesi primaverili ed estivi fino ad assumere dimensione annuale o pluriennale. I lavori agricoli necessari al mantenimento della pic­cola proprietà, per la loro esiguità, possono essere svolti anche da donne e bambini, lar­gamente impiegati nelle campagne; fa ecce­zione il periodo dei lavori più pesanti (rac­colta e seccatura delle castagne, taglio del grano e del fieno), nel quale gli uomini rien­trano abitualmente o per breve tempo. La maggioranza degli emigranti, secondo le sta­tistiche, parte da solo e non a gruppi di fa­miglia anche per l’oltreoceano (vedi tabelle nn. 4 e 5), nella speranza di tornare, e solo in alcuni casi e per alcune aree l’emigrazione nel periodo analizzato si trasforma in defini­tiva. L’emigrazione transoceanica si inneste­rà — come già detto — su questo tessuto di tradizioni emigratorie, dirottando verso le aree del nord e sud America masse di emi­granti, ma non stravolgerà la tradiziona­le tendenza ad inserirsi nel mercato nazio­nale ed europeo, vuoi per le tradizioni di le­gami instaurati, vuoi perché la vicinanza rende possibile il mantenimento di legami con la struttura familiare che resta nel pae­se. Questo sistema di partenze temporanee e

periodiche non esclude tuttavia spostamenti definitivi della popolazione, soprattutto di alta collina o di montagna, ma nella mag­gioranza dei casi la regola è il rientro, e, se il lavoro fuori ha prodotto un reddito, il con­solidamento della proprietà, l’investimento del danaro guadagnato in attività fondiarie o commerciali. Lo spopolamento dalla zona avverrà solo più tardi e con altre caratteristi­che47, anche se si può affermare che il feno­meno del mantenimento del legame anche attraverso la proprietà fondiaria di chi risie­de per lunghi periodi all’estero è piuttosto forte soprattutto per Lucchesia e Lunigiana. Anche le aree prevalentemente mezzadrili e le province non appenniniche, agli inizi del secolo, incominciano ad essere interessate da flussi emigratori di una certa consistenza. Il fenomeno è evidente per la seconda metà degli anni novanta e l’inizio del secolo per tutta la Toscana. Esaminando i dati per pro­vince, si constata che il fenomeno ha dimen­sioni maggiori proprio nelle province ancora a basso flusso emigratorio all’inizio degli anni novanta (particolarmente Grosseto, Fi­renze, Arezzo e Siena), mentre ha già avuto un timido avvio nelle province di Livorno e Pisa. Subisce un aumento anche nelle pro­vince di Massa-Carrara e Lucca da tempo fornitrici di migliaia di emigranti, ma non in maniera così evidente come nelle province dove il fenomeno è relativamente nuovo. Ancora nel 1893 le due province di Massa- Carrara e Lucca avevano ben 8699 partenti, ossia il 71,51 per cento dell’emigrazione to­tale della regione. Lo scarto fra queste due province e le altre diminuisce con gli anni, se nel 1907 le due province forniscono all’emi­grazione solo il 40,10 per cento del totale to-

riel, Le creuset français. Histoire de l ’immigration XIX-XX siècle, Paris, Editions du Seuil, 1988, pp. 381-403, se­gnaliamo particolarmente Anne Marie Faidutti-Rudolph, L ’immigration italienne dans le sud-est de la France, Gap (Hautes Alpes), Editions Ophrys, 1964; A. Châtelain, Les migrants temporaines en France de 1800 à 1914, thèse d ’état, Lille, Atelier de reproduction des thèse, 1977.47 Vedi P. Romei, Movimenti migratori e distribuzione della popolazione dal 1945 al 1965, cit.

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scano. La regione arriverà nel complesso a un massimo di 45.599 partenze nel 1913, an­no di massima punta anche a livello nazio­nale (su una popolazione di poco più di due milioni e mezzo, quindi una percentuale di emigrati rispetto alla popolazione del 18,4 per cento). Aumenta in maniera notevole l’emigrazione fuori dall’Europa e quella con caratteri di maggior continuità temporale. Il fenomeno comincia a destare preoccupazio­ne anche negli ambienti agrari, tanto che nel 1910 l’Accademia dei Georgofili bandisce un concorso per lo studio dell’emigrazione in Toscana, escluse le province di Lucca e Massa-Carrara, che produrrà studi ancora oggi validissimi48. Se l’emigrazione tempora­nea e periodica era stata ben tollerata e for- s’anche ritenuta funzionale al sistema di or­ganizzazione economico-sociale toscana, l’aumento complessivo degli spostamenti di manodopera, soprattutto dall’area a mezza­dria forte, rischiava di sconvolgere non solo i tradizionali equilibri del sistema agricolo, caratterizzato dalla presenza di una vasta ri­serva di manodopera stagionale da impiega­re nelle grandi proprietà, ma anche quelli della nascente industria che usufruiva degli spostamenti dei contadini dalle campagne alle città, per la tradizionale maggior dispo­nibilità del lavoratore proveniente dalla campagna ad adattarsi alle condizioni di la­voro particolarmente pesante. Nel dopo­guerra la chiusura degli sbocchi migratori

verso l’America a causa della politica restri- zionista degli Stati Uniti e le difficoltà eco­nomiche internazionali, ridimensioneranno il fenomeno a livello nazionale, incidendo notevolmente anche in quelle aree che ave­vano allarmato il buon padronato toscano che ancora per qualche decennio manterrà un controllo ferreo sul sistema mezzadrile49.

Per la regione appenninica e subappenni­nica il fenomeno emigratorio continuerà, pur ridimensionato, con le stesse caratteri­stiche, senza grandi sconvolgimenti fino alla fine della seconda guerra mondiale. Solo al­lora si avranno consistenti spostamenti defi­nitivi, vuoi verso le aree interne che verso le nazioni sbocco emigratorio tradizionale dei toscani, che sommandosi con il fenomeno dello spostamento dalla montagna e la colli­na verso le aree industrializzate e le città, porteranno dei cambiamenti sostanziali nel­l’insediamento della popolazione e nell’eco­nomia di queste aree. È significativo, e per certi versi inevitabile, che anche i mutamenti di residenza, a partire dagli anni trenta e massicciamente nel secondo dopoguerra, si verifichino soprattutto verso quelle aree che da secoli sono state — come si è detto — se­di di spostamenti periodici per lavori agrico­li, lavori nelle infrastrutture, lavori stagio­nali e ambulanti. Prevalgono infatti sposta­menti definitivi verso il Nord, soprattutto Lombardia e Liguria, seguite da Emilia Ro­magna e Lazio, e si consolidano i tradizio-

48 La commissione formata da Pasquale Villari, Riccardo Dalla Volta e Agostino Gori premierà il saggio di A. Mori, già citato. Anche altri due saggi presentati al concorso verranno pubblicati: Giuliano Marcelli, L ’emigrazio­ne e le condizioni dell’agricoltura in Toscana, “Atti della Reale accademia economico-agraria dei Georgofili di Fi­renze”, 1910, n. 4, vol. VII; Guido Valensin, L ’emigrazione dalla Romagna in Toscana, ivi, 1914, V serie. Gli altri tre saggi si trovano inediti nell’Archivio dell’Accademia dei Georgofili, buste 122 e 136.49 Ad eccezione delle lotte mezzadrili del 1902 e del 1906, e quelle più estese del dopoguerra. Quanti dei mezzadri, pigionali, fittavoli, braccianti, partiti negli anni novanta e all’inizio del secolo, sono nel primo dopoguerra senza più possibilità di trovare lavoro all’estero e fanno parte della massa di lavoratori della terra che daranno vita alle lotte mezzadrili, alle lotte per il caroviveri, e tutte quelle manifestazioni di scontento che caratterizzano il biennio rosso anche in Toscana? Su queste tematiche, oltre al fondamentale studio del Cedei, su L ’immigration italienne en France dans les années 20. Actes du colloque franco-italien, Paris, 15-17 octobre 1987, Paris, Cedei, 1988, vedi ora Gilles Pecout, Dalla Toscana alla Provenza: emigrazione e politicizzazione nelle campagne (1880-1910), “Studi Sto­rici”, 1990, n. 3.

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nali espatri soprattutto verso Francia e Gran Bretagna, oltre che per le Americhe, mentre si avvia il flusso verso l’Australia50. Per l’Italia già nei censimenti del 1901 si trovavano toscani in Liguria, poi anche in Piemonte e Lombardia, ma è soprattutto nel periodo 1951-1961 che risultano essere molti i toscani che scelgono di risiedere sta­bilmente in Piemonte e Lombardia51. Ma lo spopolamento delle aree montuose e colli­nari non sarà in Toscana più evidente che altrove; anzi, questi fenomeni non produr­ranno a livello economico-sociale grossi cambiamenti, continuando queste aree a connotarsi come zone di relativa stabilità, anche negli aspetti più marcatamente politi­ci, e ciò perché si tratta in fondo dello sta­bilizzarsi di un fenomeno plurisecolare. Forse si può applicare anche alla Toscana la risposta che Sori dà alla domanda “Che cosa spiega la perdurante arretratezza di al­cune delle aree dalle quali si emigrò di più in passato?”: “non si tratta di semplici ‘sacche’ di arretratezza, ma di fenomeni di secessione economica, sociale, e fors’anche, politica”52. Per ora è solo un’ipotesi, forse un po’ meccanicistica; solo da serie e ap­profondite ricerche sui caratteri economici e sociali peculiari di aree e subaree storico­geografiche si potrà avere una risposta sui legami fra arretratezza, emigrazione, svi­

luppo economico e comportamento politico anche per la Toscana.

Un’ipotesi che invece si sta facendo più concreta, via via che il lavoro di individua­zione di una regione emigratoria toscana procede, è senz’altro quella dell’assimilabi- lità ad altre zone appenniniche e subappen­niniche già studiate. Allo stato delle ricer­che si possono già avanzare due ipotesi di lavoro da sviluppare. Come dimostrano studi sulla Liguria, l’Umbria, le Marche53, si può ipotizzare l’esistenza di una grande regione emigratoria che coincide con le due aree di displuvio appenninico ad est e ad ovest, un bacino abbastanza omogeneo, che presenta caratteri comuni, sia per tradi­zione emigratoria che per incidenza del fe­nomeno complessivo. L’altro dato che si comincia a rilevare, pur con le dovute cau­tele, è quello relativo agli elementi di somi­glianza strutturale e di comportamenti umani con quell’area prealpina che gli studi degli ultimi anni stanno portando alla lu­ce54.

Questo bacino emigratorio ha elementi di omogeneità geografica che hanno in buona parte condizionato e resi simili gli insedia­menti umani, sia per il tipo di colture possi­bili, che per il conseguente ciclo di vita an­nuale. Da ciò sono discese tradizionalmente colture più limitate di tipo quasi monocoltu-

50 Come dimostra P. Romei, Movimenti migratori, cit., pp. 235, 237.51 Cfr. Anna Treves, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Torino, Einaudi, 1976, pp. 180-187.52 E. Sori, Un bilancio della più recente storiografia italiana sull’emigrazione, cit., p. 63.53 Oltre al lavoro sempre valido di Anne Marie Rudolph, Le role economique e démographique de l ’emigration dans l ’Apennin toscan, “Bulletin de Géographie de Lyon”, 1958, XXXIII, pp. 261-280 e al fondamentale lavoro di C. Corsini, Le migrazioni stagionali, cit., vedi i lavori più recenti per le varie aree: F. Bonelli, Evoluzione demogra­fica ed ambiente economico nelle Marche e nell’Umbria dell’Ottocento, cit.; Luciano Tosi, L ’emigrazione italiana all’estero in età giolittiana. Il caso umbro, Firenze, Olsckhi, 1983; M. Porcella, La fatica e la Merica, cit.; Aa.Vv., L'emigrazione della Liguria. Studi e ricerche di geografia, Genova, Sagep, 1987; La via delle Americhe. Emigrazio­ne ligure tra evento e racconto, Genova, Sagep, 1989; Manuela Martini, Percorsi migratori dalle montagne piacen­tine alla Banlieue parigina. Il caso di Ferriere in Val di Nure, “La Trace”, Paris, Cedei, 1992, n. 6; Carlo M. Bei- fanti, Territori ed economie nei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla alla fine dell’Antico Regime, in Spazi ed economia. L ’assetto economico di due territori della Padania inferiore, a cura di Franco Giusberti e Alberto Guen- zi, Bologna, 1985.

Per l’emigrazione biellese cfr. note 6, 7 e 24, mentre per altre aree prealpine rimandiamo all’ampia bibliografia citata da E. Franzina, Emigrazione transoceanica e ricerca storica in Italia: gli ultimi dieci anni, cit.

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rale (il castagno), e la necessità quindi di rap­porti di interscambio commerciali con la pia­nura per la vendita dei prodotti della monta­gna e l’acquisto di quelli indispensabili alla vi­ta, come sale e farina. L’esuberanza di mano­dopera, inoltre, accompagnata dalla diffe­renza stagionale di maturazione dei prodotti, ha sempre liberato braccia dalla montagna al­la pianura per lavori come il taglio del fieno, la mietitura e battitura del grano, l’accudi- mento del baco da seta, i lavori di dissoda­mento, aratura e vangatura dei terreni in pia­nura, vuoi immediatamente vicina a casa, vuoi più distante (Maremma, Lazio, Corsica, Pianura Padana, Lazio, Puglie, da secoli ter­re di emigrazione stagionale periodica per questi lavori). L’allevamento del bestiame stesso ha assunto periodicità di spostamenti con la transumanza, dando così luogo a una rete di rapporti e di interscambi che sicura­mente si sono riprodotti per secoli, caratteriz­zando quest’area in maniera omogenea. I me­stieri di legnaiolo, boscaiolo, carbonaio ne­cessariamente hanno prodotto l’abitudine a vivere isolati per lungo tempo e temprato ca­ratteri pronti per gli spostamenti periodici per lavori agricoli fuori zona e poi per il salto emi­gratorio fuori della regione o della nazione.

Se questi fenomeni sono senz’altro comu­ni a tutta l’area, rimangono a breve e medio raggio e non sono sufficienti a darle un con­notato di regione emigratoria fino all’inizio dell’Ottocento. È infatti nel periodo napo­leonico, con l’aumento dei lavori pubblici e una maggiore richiesta di monodopera nel nord ovest dell’Italia e in Francia, che si ha un aumento consistente e ben determinato di

spostamenti con insediamenti prolungati di manodopera che avverrà da tutta l’area ap­penninica55. Ma è soprattutto con il raggiun­gimento dell’Unità, l’unificazione del mer­cato nazionale e la dilatazione del mercato internazionale che si rompono gli equilibri sui quali si basava l’economia di collina e di montagna. In molte aree di montagna e alta collina, fiorenti anche per il ruolo svolto co­me zone di passaggio di merci da una parte all’altra della dorsale appenninica, la rivolu­zione dei trasporti provoca una crisi. Il ruo­lo della costruzione delle infrastrutture è fondamentale per i cambiamenti che produ­ce anche in queste zone, sia come aree di ri­chiamo di manodopera, che come mezzi di maggior facilità di spostamento. Come ele­mento di richiamo di questa manodopera avviene in contemporanea l’allargamento del mercato del lavoro europeo e internazio­nale prodotto dal processo di trasformazio­ne agraria, industriale e urbanistica che at­trae manodopera per i lavori di infrastruttu­re ed edilizia. È appunto nel periodo postu­nitario che si delineerà in maniera più netta il processo di inserimento di queste correnti periodiche di manodopera nel mercato na­zionale ed internazionale, avviandosi all’in­tegrazione con le correnti provenienti da al­tre aree, pur mantenendo le caratteristiche che abbiamo descritto, di emigrazione “di andata e ritorno”, di estrema adattabilità della manodopera alle esigenze del mercato, tutti elementi di conservazione e non certo di rottura degli equilibri secolari dell’area.

Adriana Dadà

55 Vedi, in tal senso, le carte dei vari tipi di migrazioni stagionali del 1812 contenute nel saggio di C. Corsini, Le migrazioni stagionali, cit. Il fenomeno è confermato dalle ricerche che ho svolto per Lunigiana e Lucchesia, ed ac­quista uno spessore particolare per la ricchezza di dati offerti dai passaporti sia per le aree di provenienza che per quelle di arrivo, dati elaborati solo in parte nei lavori segnalati, A. Dadà, L ’emigrazione dalla Lunigiana, cit.; A. Dadà, L ’emigrazione dalla Lucchesia fra ’800 e '900, cit.

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500 Adriana Dadà

Tabella 1. - Emigrazione continentale (emigranti su 100.000 abitanti)

■ Toscana CD Regno

Fonte: Commissariato generale dell’emigrazione, Annuario statistico dell'emigrazione italiana dal 1876 al 1925. Con notizie sugli anni 1869-1875, Roma, 1926. Elaborazione dell’autore.

Tabella 2. - Emigrazione transoceanica (emigranti su 100.000 abitanti)

18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19

76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14

■ Toscana □ Regno

Fonte: Commissariato generale dell’emigrazione, Annuario statistico, cit. Elaborazione dell’autore.

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Emigrazione e storiografia. Primi risultati di una ricerca sulla Toscana 501

Tabella 3. - Emigranti toscani per area di destinazione

100.00

90.00

80.00

70.00

60.00

50.00

40.00

30.00

20.00

10.00

0.00

□ America centrale e meridionale □ America del Nord □ Africa ■ Europa

Fonte: Commissariato generale dell’emigrazione, Annuario statistico, cit. Elaborazione dell’autore.

Tabella 4. - Emigranti toscani per sesso (valori percentuali)

□ Donne H Uomini

Fonte: Commissariato generale dell’emigrazione, Annuario statistico, cit. Elaborazione dell’autore.

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502 Adriana Dadà

T abella 5. - E m ig ra z io n e to sca n i p a r t i t i so l i e in g ru p p o (v a lo r i p e rc e n tu a li)

18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19

76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 00 01 02 03 04 05 06 07 08 09 10 11 12 13 14

□ In gruppo ■ Soli

Fonte: Commissariato generale dell’emigrazione, Annuario statìstico, cit., Elaborazione dell’autore.

ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE IN ITALIA

ISTITUTO ABRUZZESE PER LA STORIA D’ITALIA DAL FASCISMO ALLA RESISTENZA

Costantino Felice, Guerra, Resistenza, dopoguerra in Abruzzo. Uomini, eco­nomie, istituzioni, Milano, Angeli, 1993, pp. 432, lire 50.000.

Un saggio di storia sociale che studia le profonde trasformazioni indotte nelle comunità locali non solo dal lungo ristagnare del fronte di guerra nell’inverno e nella primavera 1943-1944, ma anche da forze come la Chiesa, gli apparati periferici dello Stato, gli Al­leati, alcuni ceti sociali e soggetti economici. L’Abruzzo, per la sua collocazione geografi­ca e per lo spessore degli avvenimenti che lo hanno investito, dimostra di essere un campo di indagine estremamente fecondo sia per una riconsiderazione del nodo storio­grafico del rapporto tra Resistenza e Mezzogiorno, sia per un’analisi del complicato in­treccio tra permanenze e novità.

Indice

1. Nell’inferno della guerra: dagli ammassi alla ‘terra bruciata’2. Le bande partigiane tra spontaneità ed azione militare3. Il dopoguerra: Resistenza, società, Alleati