Opera Prima - Giovanni Campana

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Titolo: Pensieri sulla soglia e autoglosse

Autore: Giovanni Campana

Fonti: Collana “Opera Prima”, n. 22, Anterem 2010

A cura di: Luigi Bosco e Poesia2.0

In copertina: Particolare di un’opera di Pietro G. Bortolotti

Il presente documento è da intendersi a scopo illustrativo e senza fini di lucro.

Tutti i diritti riservati all’autore.

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OPERA PRIMA

22

GIOVANNI CAMPANA

PENSIERI SULLA SOGLIA

E AUTOGLOSSE

(Poesie Scelte)

Anterem, 2010

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RESTITUZIONI

1.

Abitiamo un mondo che dev'esser tolto

siamo coloro che saranno tolti

e i nostri primi luoghi erano eterni

e ora le mani, i passi, le parole

i nostri volti

questi innumerevoli indizi d’eterno

sono tracce rimaste

o un inizio di restituzione?

siamo sempre tutti nei luoghi estremi

è così smaccatamente reale questo mondo

non potrà che continuare a consumarsi

non resterà non adempiuta ogni necessità:

che cosa potrà essere restituito che non sia prima tolto?

solo le ombre sono restituite fin da prima

volevate essere ombre?

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2.

Era questo il luminoso compimento

ogni infinita assenza è svanita

non restiamo che noi

e cose d’intorno

qualcosa di perfetto, a suo modo,

un’infinita finitezza

volenti o nolenti siamo completamente restituiti.

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Autoglossa n. 1

Infinita finitezza

In realtà, a ben vedere, ogni cosa è due: è qui, è se stessa così come si

mostra, nei suoi confini, ed è anche più di sé stessa, ben oltre i suoi

confini. Ogni cosa, infatti, per quanto finita e precaria, per quanto

effimera, è pur sempre quella cosa, ed essendola, lo è infinitamente o

anche, magari, perdutamente, in modo perdutamente infinito… Tutto

è di più, molto di più. Tutto è infinitamente più di quel che è. E così

tutto è, anche, irraggiungibile a sè stesso, tutto è, anche, infinitamente

distante da sé, perdutamente lontano. Vi è dunque un’infinita nostalgia

nell’essere, nell’essere stesso.

E così, naturalmente, anche noi, noi stessi siamo due: siamo quel che

siamo, come è evidente, ma, nell’esserlo, lo siamo infinitamente.

Siamo, insomma, finiti e infiniti, infinitamente finiti, infinitamente

quel che siamo… ma, appunto: infinitamente.

Potrebbe, è vero, non essere che un gioco di parole. Pure, con

enigmatica insistenza, questo pensiero – per quale via non sapremmo

dire – perentoriamente ci si impone: che ogni cosa, nella sua finitezza,

è non solo una cosa finita, così come si dice che questo cassetto è un

cassetto e non c’è altro da dire, ma anche infinita; che c’è, insomma,

un punto di vista da cui questo stesso cassetto appare qualcosa di

infinitamente uguale a sè stesso, appare infinitamente non

altro…infinitamente. Se così non fosse, se questo punto di vista non

potesse essere assunto, allora, semplicemente, questo cassetto non

sarebbe nemmeno sè stesso, non sarebbe nessun cassetto, e

nessun’altra cosa sarebbe qualcosa, e tutto, tutto quanto sarebbe

semplicemente nulla.

Che ne deriva a noi, ci chiediamo allora, a ciascuno di noi, dal fatto

che ogni cosa sia, sì, finita – e nuda, povera e nuda in questa sua

finitezza, e anche pura e limpida, proprio in quanto finita, ben finita –

che cosa ne deriva a me, a noi dal fatto che questa cosa sia non solo

finita, drammaticamente, o piuttosto tragicamente, tragicamente finita,

ma anche, al tempo stesso, infinita, che sia posta, insomma, in una

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tragica, altissima finitezza, in una finitezza, appunto, infinita? Che

cosa interessa a noi tutto questo?

Per quanto stia a cuore la risposta, questa domanda è di quelle cui non

deve esser data risposta. Là dove qualcosa deve mostrarsi, è

necessario rinunciare a dimostrare. Quel che qui si deve fare è lasciare

questa finitezza – questa assoluta e assolutamente superata finitezza di

ogni cosa – lasciarla in questa sua pura ostensione. Invece di voler

dire, di voler dimostrare il senso di tutto ciò, il senso, anche, che a me,

a noi da tutto ciò deriva, è giusto ora lasciare che tutto questo si

mostri. E questo senso, che – come sempre ciò che di volta in volta è

il senso – ha bisogno di luoghi aperti, di spazi sconfinati, questo senso

si faccia avanti. Non abbiamo che un solo modo per affrettarne

l’arrivo: attendere, attenderlo. Ma, anche, attendere ad esso.

Cominciare ad abitarlo. Un puro, onesto, un intenso abitare l’assoluta

finitezza di ogni cosa, questo suo essere infinitamente, infinitamente

quella cosa lì. Così, certamente, un senso emerge e non può che essere

un senso alto, forte, certo non banale. Un senso, precisamente,

infinito. È questo che attendiamo, a cui attendiamo.

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3.

Anche l’assenza se ne andò

ciò che non è non lasciò più alcun vuoto

sperimentammo la mancanza di ogni mancanza

dall’angoscia di non essere sé stessi

all’angoscia di non essere che sé stessi

non ci si aspettava che fosse questa la restituzione.

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4.

Improvvisamente pensammo il mondo

come qualcosa che può essere compreso

ci ritrovammo pieni di ogni limite

ci parve di toccare ogni parete

fu amara la scoperta che non vi è distanza alcuna

se non è infinita

non rimase che l’infinita delusione

nei tesori nascosti di quest’ultimo infinito

tentammo di riporre ogni speranza.

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5.

Più di tutto ci parve libertà

questa raggiunta finitezza

consumata ogni infinita distanza

non fu che pura coincidenza con noi stessi

in ogni minimo moto

una specie di ritorno delle essenze

nessun richiamo infinito, o voragine

anche il nulla al contorno venne meno

fummo trionfalmente ridotti a noi stessi.

*

Non si colma l’irriducibile voragine

(siamo per l’inquietudine…)

danno sul nulla i confini?

(ci prolunga all’infinito una voragine…)

o nemmeno è questo nulla?

(verso noi è l’infinito protendere…)

un sogno esser così: finitamente.

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Autoglossa n. 2

Distanze.

Non sarà distruggendo distanze che ritroveremo noi stessi

noi siamo distanze.

E tuttavia, se pure è vero che non vi è distanza alcuna che non sia

infinita, non deve però sfuggire che, se tale infinita distanza ci è

preclusa, essa ci è dunque appunto infinitamente distante, sicché che

essa ci sia tolta, proprio questo fa sì che ci sia data. Tale infinita

distanza, insomma, è ciò da cui siamo infinitamente distanti. Se quel

che volevamo era trovare un’infinita distanza, allora siamo

precisamente arrivati. E’ questa la stazione: il viaggio ci ha condotti a

noi. Siamo il luogo in cui ogni infinita distanza rimane infinitamente

distante, in cui ogni distanza è perduta. Ed essendo perduta è ritrovata,

è, cioè, nuovamente distante, perdutamente distante. Un’ulteriorità

piuttosto promettente, in effetti, una riserva che si direbbe non debba

estinguersi mai. È che bisognerebbe fare come se potessimo

raggiungerla – prima o poi – questa distanza, altrimenti uno non ci si

mette neppure. Quel che sta precisamente accadendo, si direbbe.

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6.

Toccammo un lembo

anche noi

l'eternità ci avvolse

fu racchiusa in parole

(vi attingemmo per tutto il tempo)

i nostri volti erano eterni

(mai riuscimmo del tutto a dubitarne)

porgevano eternità le nostre mani

(per questo le intrecciammo

fra noi, infinite volte)

abitavano i nostri passi i luoghi eterni

(ne udimmo chiaramente l'eco, a volte)

sapere, sapevamo

non sapemmo attenerci.

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