Canti Orfici - Dino Campana

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Letteratura italiana Einaudi Canti orfici di Dino Campana

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Canti orfici

di Dino Campana

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Edizione di riferimento:Tipografia F. Ravagli, Marradi 1914

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LA NOTTE

I. La notte 3II. Il viaggio e il ritorno 13III. Fine 15

NOTTURNI

La chimera 17Giardino autunnale 18La speranza 19L’invetriata 20Il canto della tenebra 21La sera di fiera 22La petite promenade du poète 23

LA VERNA

I. La verna (diario) 25II. Ritorno 32Immagini del viaggio e della montagna 37Viaggio a Montevideo 39Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici 41Firenze 41Batte botte 42Firenze 43Faenza 45Dualismo 46Sogno di prigione 48

Sommario

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La giornata di un nevrastenico 49

VARIE E FRAMMENTI

Barche amorrate 54Frammento 55Pampa 56Il russo 59Passeggiata in tram in America e ritorno 62L’incontro di Regolo 64Scirocco 66Crepuscolo mediterraneo 69Piazza Sarzano 71Genova 73

Sommario

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A Guglielmo II imperatore dei germanil’autore dedica

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LA NOTTE

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i.

la notte

Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsasu la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lon-tano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Ar-chi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato inmagre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mo-bili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di uncanneto lontane forme ignude di adolescenti e il profiloe la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mez-zo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la paludeafona una nenia primordiale monotona e irritante: e deltempo fu sospeso il corso.

*

Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbarache dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra ilsilenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano eselvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazionioscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e sel-vaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevanotratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore va-go della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagnaintorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle ac-conciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a trat-ti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di cam-pana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nellachiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, iostringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggi-tivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezzatrionfale del ricordo.

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*

Inconsciamente colui che io ero stato si trovava avvia-to verso la torre barbara, la mitica custode dei sognidell’adolescenza. Saliva al silenzio delle straducole anti-chissime lungo le mura di chiese e di conventi: non siudiva il rumore dei suoi passi. Una piazzetta deserta, ca-supole schiacciate, finestre mute: a lato in un balenìoenorme la torre, otticuspide rossa impenetrabile arida.Una fontana del cinquecento taceva inaridita, la lapidespezzata nel mezzo del suo commento latino. Si svolgevauna strada acciottolata e deserta verso la città.

*

Fu scosso da una porta che si spalancò. Dei vecchi,delle forme oblique ossute e mute, si accalcavano spin-gendosi coi gomiti perforanti, terribili nella gran luce.Davanti alla faccia barbuta di un frate che sporgeva dalvano di una porta sostavano in un inchino trepidanteservile, strisciavano via mormorando, rialzandosi poco apoco, trascinando uno ad uno le loro ombre lungo i mu-ri rossastri e scalcinati, tutti simili ad ombra. Una donnadal passo dondolante e dal riso incosciente si univa echiudeva il corteo.

*

Strisciavano le loro ombre lungo i muri rossastri escalcinati: egli seguiva, autòma. Diresse alla donna unaparola che cadde nel silenzio del meriggio: un vecchio sivoltò a guardarlo con uno sguardo assurdo lucente evuoto. E la donna sorrideva sempre di un sorriso mollenell’aridità meridiana, ebete e sola nella luce catastrofica.

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*

Non seppi mai come, costeggiando torpidi canali, rivi-di la mia ombra che mi derideva nel fondo. Mi accompa-gnò per strade male odoranti dove le femmine cantavanonella caldura. Ai confini della campagna una porta incisadi colpi, guardata da una giovine femmina in veste rosa,pallida e grassa, la attrasse: entrai. Una antica e opulentematrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmen-te attorti sulla testa sculturale barbaramente decoratadall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfac-cettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili cherinasce vano colla speranza traendo essa da un mazzo dicarte lunghe e untuose strane teorie di regine languenti refanti armi e cavalieri. Salutai e una voce conventuale,profonda e melodrammatica mi rispose insieme ad ungrazioso sorriso aggrinzito. Distinsi nell’ombra l’ancellache dormiva colla bocca semiaperta, rantolante di un son-no pesante, seminudo il bel corpo agile e ambrato. Sedet-ti piano.

*

La lunga teoria dei suoi amori sfilava monotona aimiei orecchi. Antichi ritratti di famiglia erano sparsi sultavolo untuoso. L’agile forma di donna dalla pelle am-brata stesa sul letto ascoltava curiosamente, poggiata suigomiti come una Sfinge: fuori gli orti verdissimi tra imuri rosseggianti: noi soli tre vivi nel silenzio meridiano.

*

Era intanto calato il tramonto ed avvolgeva del suooro il luogo commosso dai ricordi e pareva consacrarlo.La voce della Ruffiana si era fatta man mano più dolce, ela sua testa di sacerdotessa orientale compiaceva a pose

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languenti. La magia della sera, languida amica del crimi-nale, era galeotta delle nostre anime oscure e i suoi fasti-gi sembravano promettere un regno misterioso. E la sa-cerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida eil poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamentecercanti il problema della loro vita. Ma la sera scendevamessaggio d’oro dei brividi freschi della notte.

*

Venne la notte e fu compita la conquista dell’ancella.Il suo corpo ambrato la sua bocca vorace i suoi ispidineri capelli a tratti la rivelazione dei suoi occhi atterritidi voluttà intricarono una fantastica vicenda. Mentrepiù dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nellalontananza il ricordo di Lei, la matrona suadente, la re-gina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi so-relle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegatosulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega,che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tut-to il sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e vio-lente delle barbare travolte regine antiche aveva uditoDante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive deifiumi che stanchi di guerra mettono foce, nel mentresulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore. E l’an-cella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli oc-chi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile edorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltàdel suo mistero. La lunga notte piena degli inganni dellevarie immagini.

*

Si affacciavano ai cancelli d’argento delle prime av-venture le antiche immagini, addolcite da una vitad’amore, a proteggermi ancora col loro sorriso di una

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misteriosa incantevole tenerezza. Si aprivano le chiuseaule dove la luce affonda uguale dentro gli specchiall’infinito, apparendo le immagini avventurose dellecortigiane nella luce degli specchi impallidite nella loroattitudine di sfingi: e ancora tutto quello che era arido edolce, sfiorite le rose della giovinezza, tornava a riviveresul panorama scheletrico del mondo.

*

Nell’odore pirico di sera di fiera, nell’aria gli ultimiclangori, vedevo le antichissime fanciulle della prima il-lusione profilarsi a mezzo i ponti gettati da la città alsobborgo ne le sere dell’estate torrida: volte di tre quar-ti, udendo dal sobborgo il clangore che si accentua an-nunciando le lingue di fuoco delle lampade inquiete atrivellare l’atmosfera carica di luci orgiastiche: ora ad-dolcite: nel già morto cielo dolci e rosate, alleggerite diun velo: così come Santa Marta, spezzati a terra gli stru-menti, cessato già sui sempre verdi paesaggi il canto cheil cuore di Santa Cecilia accorda col cielo latino, dolce erosata presso il crepuscolo antico ne la linea eroica de lagrande figura femminile romana sosta. Ricordi di zinga-re, ricordi d’amori lontani, ricordi di suoni e di luci:stanchezze d’amore, stanchezze improvvise sul letto diuna taverna lontana, altra culla avventurosa d’incertezzae di rimpianto: così quello che ancora era arido e dolce,sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva sul panoramascheletrico del mondo.

*

Ne la sera dei fuochi de la festa d’estate, ne la luce de-liziosa e bianca, quando i nostri orecchi riposavano ap-pena nel silenzio e i nostri occhi erano stanchi de le gi-randole di fuoco, de le stelle multicolori che avevano

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lasciato un odore pirico, una vaga gravezza rossanell’aria, e il camminare accanto ci aveva illanguiditi esal-tandoci di una nostra troppo diversa bellezza, lei fine ebruna, pura negli occhi e nel viso, perduto il barbagliodella collana dal collo ignudo, camminava ora a trattiinesperta stringendo il ventaglio. Fu attratta verso la ba-racca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeg-giò nella luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnatosulla sua fronte dalla frangia notturna dei suoi capelli.Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dallafanciullezza e dalla festa, si volsero verso di noi, profon-damente limpidi nella luce. E guardammo le vedute.Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panoramischeletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cieloin pose legnose. Una odalisca di gomma respirava som-messamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo. E l’odoreacuto della segatura che felpava i passi e il sussurrio dellesignorine del paese attonite di quel mistero. «È così Pari-gi? Ecco Londra. La battaglia di Mukden.» Noi guarda-vamo intorno: doveva essere tardi. Tutte quelle cose visteper gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno!Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana estraniera mentre il suo fascino si approfondiva sotto lafrangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentiicon una punta d’amarezza tosto consolata che mai più lesarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un so-gno che si ama vano: così eravamo divenuti a un trattolontani e stranieri dopo lo strepito della festa, davanti alpanorama scheletrico del mondo.

*

Ero sotto l’ombra dei portici stillata di goccie e gocciedi luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre.A un tratto una porta si era aperta in uno sfarzo di luce.In fondo avanti posava nello sfarzo di un’ottomana rossa

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il gomito reggendo la testa, poggiava il gomito reggendola testa una matrona, gli occhi bruni vivaci, le mammelleenormi: accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata efine, i capelli recisi sulla fronte, con grazia giovanile, legambe lisce e ignude dalla vestaglia smagliante: e sopradi lei, sulla matrona pensierosa negli occhi giovani unatenda, una tenda bianca di trina, una tenda che sembravaagitare delle immagini, delle immagini sopra di lei, delleimmagini candide sopra di lei pensierosa negli occhi gio-vani. Sbattuto a la luce dall’ombra dei portici stillata digocce e gocce di luce sanguigna io fissavo astretto attoni-to la grazia simbolica e avventurosa di quella scena. Giàera tardi, fummo soli e tra noi nacque una intimità liberae la matrona dagli occhi giovani poggiata per sfondo lamobile tenda di trina parlò. La sua vita era un lungo pec-cato: la lussuria. La lussuria ma tutta piena ancora per leidi curiosità irraggiungibili. «La femmina lo picchiettavatanto di baci da destra: da destra perché? Poi il piccionemaschio restava sopra, immobile?, dieci minuti, per-ché?» Le domande restavano ancora senza risposta, allo-ra lei spinta dalla nostalgia ricordava ricordava a lungo ilpassato. Fin che la conversazione si era illanguidita, lavoce era taciuta intorno, il mistero della voluttà aveva ri-vestito colei che lo rievocava. Sconvolto, le lagrime agliocchi io in faccia alla tenda bianca di trina seguivo segui-vo ancora delle fantasie bianche. La voce era taciuta in-torno. La ruffiana era sparita. La voce era taciuta. Certol’avevo sentita passare con uno sfioramento silenziosostruggente. Avanti alla tenda gualcita di trina la fanciullaposava ancora sulle ginocchia ambrate, piegate piegatecon grazia di cinedo.

*

Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Lebolognesi somigliavano allora a medaglie siracusane e il

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taglio dei loro occhi era tanto perfetto che amavanosembrare immobili a contrastare armoniosamente coilunghi riccioli bruni. Era facile incontrarle la sera per levie cupe (la luna illuminava allora le strade) e Faust alza-va gli occhi ai comignoli delle case che nella luce dellasembravano punti interrogativi e restava pensieroso allostrisciare dei loro passi che si attenuavano. Dalla vecchiataverna a volte che raccoglieva gli scolari gli piaceva udi-re tra i calmi conversari dell’inverno bolognese, frigido enebuloso come il suo, e lo schioccare dei ciocchi e iguizzi della fiamma sull’ocra delle volte i passi frettolosisotto gli archi prossimi. Amava allora raccogliersi in uncanto mentre la giovine ostessa, rosso il guarnello e lebelle gote sotto la pettinatura fumosa passava e ripassa-va davanti a lui. Faust era giovane e bello. In un giornocome quello, dalla saletta tappezzata, tra i ritornelli degliorgani automatici e una decorazione floreale, dalla salet-ta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno.Oh! ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta pog-giata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e distanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine le-vigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supre-mo amore, dall’ansia della mia fanciullezza tormentosaassetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vitaera tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chi-narsi sull’abisso» . Ero bello di tormento, inquieto palli-do assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggii.Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bian-che cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sognocolle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora co-me più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre ver-di degli abeti, e piene della melodia dei torrenti di cuiudivo il canto nascente dall’infinito del sogno. Lassù tragli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchettìile mille voci del silenzio svelata una giovine luce tra itronchi, per sentieri di chiarìe salivo: salivo alle Alpi,

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sullo sfondo bianco delicato mistero. Laghi, lassù tra gliscogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiaregore i laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi. Iltorrente mi raccontava oscuramente la storia. Io fisso trale lance immobili degli abeti credendo a tratti vagareuna nuova melodia selvaggia e pure triste forse fissavo lenubi che sembravano attardarsi curiose un istante suquel paesaggio profondo e spiarlo e svanire dietro le lan-cie immobili degli abeti. E povero, ignudo, felice di es-sere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggioquale un ricordo incantevole ed orrido in fondo al miocuore salivo: e giunsi giunsi là fino dove le nevi delle Al-pi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel torrentelavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Sivolse, mi accolse, nella notte mi amò. E ancora sullosfondo le Alpi il bianco delicato mistero, nel mio ricor-do s’accese la purità della lampada stellare, brillò la lucedella sera d’amore.

*

Ma quale incubo gravava ancora su tutta la mia giovi-nezza? O i baci i baci vani della fanciulla che lavava, la-vava e cantava nella neve delle bianche Alpi! (le lagrimesalirono ai miei occhi al ricordo). Riudivo il torrente an-cora lontano: crosciava bagnando antiche città desolate,lunghe vie silenziose, deserte come dopo un saccheggio.Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, unachioma profusa, un corpo rantolante procubo nella not-te mistica dell’antico animale umano. Dormiva l’ancelladimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizanti-na, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallo-re incerto della tenda.

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*

E allora figurazioni di un’antichissima libera vita, dienormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti almio spirito. Rividi un’antica immagine, una forma sche-letrica vivente per la forza misteriosa di un mito barba-ro, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nellatortura del sogno scoprire il corpo vulcanizzato, duechiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mam-melle estinte. Credetti di udire fremere le chitarre lànella capanna d’assi e di zingo sui terreni vaghi dellacittà, mentre una candela schiariva il terreno nudo. Infaccia a me una matrona selvaggia mi fissava senza bat-ter ciglio. La luce era scarsa sul terreno nudo nel freme-re delle chitarre. A lato sul tesoro fiorente di una fan-ciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata come unragno mentre pareva sussurrare all’orecchio parole chenon udivo, dolci come il vento senza parole della Pam-pa che sommerge. La matrona selvaggia mi aveva preso:il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora laluce era più scarsa sul terreno nudo nell’alito metalizza-to delle chitarre. A un tratto la fanciulla liberata esalò lasua giovinezza, languida nella sua grazia selvaggia, gliocchi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle dellabella selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capel-li fluidi e la chioma augusta dell’albero della vita sitramò nella sosta sul terreno nudo invitando le chitarreil lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente unbalzare uno scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udìchiaramente levarsi, lo scalpitare parve perdersi sordonell’infinito. Nel quadro della porta aperta le stelle bril-larono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle sel-vaggie nell’ombra.

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ii.

il viaggio e il ritorno

Salivano voci e voci e canti di fanciulli e di lussuriaper i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle alcolle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche colossaliprostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra alvento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il ventomesceva e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bian-ca notte mediterranea scherzava colle enormi forme del-le femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di sveller-si dal cavo dei lampioni. Esse guardavano la fiamma ecantavano canzoni di cuori in catene. Tutti i preludiierano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta dellanotte era calata. Le porte moresche si caricavano e si at-torcevano di mostruosi portenti neri nel mentre sullosfondo il cupo azzurro si insenava di stelle. Solitaria tro-neggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame distelle e di fiamme. Avanti come una mostruosa feritaprofondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bian-che cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso pog-giato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale delprofilo e del collo vestita di splendore opalino. Con ra-pido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggerasulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava inattesa finchè dolcemente gli scuri si chiudessero su diuna duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di so-gno, per lei, per l’evanescente come l’amore evanescen-te, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli diventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallidacome un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’om-bra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eter-na Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.

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*

Ritorno. Nella stanza ove le schiuse sue forme dai ve-larii della luce io cinsi, un alito tardato: e nel crepuscolola mia pristina lampada instella il mio cuor vago di ricor-di ancora. Volti, volti cui risero gli occhi a fior del so-gno, voi giovani aurighe per le vie leggere del sogno cheinghirlandai di fervore: o fragili rime, o ghirlanded’amori notturni.... Dal giardino una canzone si rompein catena fievole di singhiozzi: la vena è aperta: aridorosso e dolce è il panorama scheletrico del mondo.

*

O il tuo corpo! il tuo profumo mi velava gli occhi: ionon vedevo il tuo corpo (un dolce e acuto profumo): là nelgrande specchio ignudo, nel grande specchio ignudo vela-to dai fumi di viola, in alto baciato di una stella di luce erail bello, il bello e dolce dono di un dio: e le timide mam-melle erano gonfie di luce, e le stelle erano assenti, e nonun Dio era nella sera d’amore di viola: ma tu leggera tusulle mie ginocchia sedevi, cariatide notturna di un incan-tevole cielo. Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginoc-chia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore diviola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gliocchi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi ra-pito una melodia di carezze. Ricordo cara: lievi come l’alidi una colomba tu le tue membra posasti sulle mie nobilimembra. Alitarono felici, respirarono la loro bellezza, ali-tarono a una più chiara luce le mie membra nella tua doci-le nuvola dai divini riflessi. O non accenderle! non accen-derle! Non accenderle: tutto è vano vano è il sogno: tuttoè vano tutto è sogno: Amore, primavera del sogno sei solasei sola che appari nel velo dei fumi di viola. Come unanuvola bianca, come una nuvola bianca presso al mio cuo-re, o resta o resta o resta! Non attristarti o Sole!

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Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini co-me spettri vaganti: vagavano come gli spettri: e la città(le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno ca-denzato, come per una melodia invisibile scaturita daquel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolcispettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle poten-ze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo,qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ciappare ombra di eternità? A quale sogno levammo lanostalgia della nostra bellezza? La luna sorgeva nella suavecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.

iii.

fine

Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dovela luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fio-riscono sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nellosfarzo smesso di un giustacuore verde, le rughe del voltopiù dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guar-da la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino inde-finito. Governa una donna matura addolcita da una vitad’amore con un sor riso con un vago bagliore che è negliocchi il ricordo delle lacrime della voluttà. Passano nellaveglia opime di messi d’amore, leggere spole tessentifantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posanell’enigma degli specchi. La portiera guarda la portad’argento. Fuori è la notte chiomata di muti canti, palli-do amor degli erranti.

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NOTTURNI

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LA CHIMERA

Non so se tra roccie il tuo pallidoViso m’apparve, o sorrisoDi lontananze ignoteFosti, la china eburneaFronte fulgente o giovine 5Suora de la Gioconda:O delle primavereSpente, per i tuoi mitici palloriO Regina o Regina adolescente:Ma per il tuo ignoto poema 10Di voluttà e di doloreMusica fanciulla esangue,Segnato di linea di sangueNel cerchio delle labbra sinuose,Regina de la melodia: 15Ma per il vergine capoReclino, io poeta notturnoVegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,Io per il tuo dolce misteroIo per il tuo divenir taciturno. 20Non so se la fiamma pallidaFu dei capelli il viventeSegno del suo pallore,Non so se fu un dolce vapore,Dolce sul mio dolore, 25Sorriso di un volto notturno:Guardo le bianche rocce le mute fonti dei ventiE l’immobilità dei firmamentiE i gonfii rivi che vanno piangentiE l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti 30E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correntiE ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.

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GIARDINO AUTUNNALE (Firenze)

Al giardino spettrale al lauro mutoDe le verdi ghirlandeA la terra autunnaleUn ultimo saluto!A l’aride pendici 5Aspre arrossate nell’estremo soleConfusa di rumoriRauchi grida la lontana vita:Grida al morente soleChe insanguina le aiole. 10S’intende una fanfaraChe straziante sale: il fiume spareNe le arene dorate: nel silenzioStanno le bianche statue a capo i pontiVolte: e le cose già non sono piè. 15E dal fondo silenzio come un coroTenero e grandiosoSorge ed anela in alto al mio balcone:E in aroma d’alloro,In aroma d’alloro acre languente, 20Tra le statue immortali nel tramontoElla m’appar, presente.

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LA SPERANZA (sul torrente notturno)

Per l’amor dei poetiPrincipessa dei sogni segretiNell’ali dei vivi pensieri ripeti ripetiPrincipessa i tuoi canti:O tu chiomata di muti canti 5Pallido amor degli errantiSoffoca gli inestinti piantiDa tregua agli amori segreti:Chi le taciturne porteGuarda che la Notte 10Ha aperte sull’infinito?Chinan l’ore: col sogno vanitoChina la pallida Sorte. . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

Per l’amor dei poeti, porteAperte de la morte 15Su l’infinito!Per l’amor dei poetiPrincipessa il mio sogno vanitoNei gorghi de la Sorte!

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L’INVETRIATA.

La sera fumosa d’estateDall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombraE mi lascia nel cuore un suggello ardente.Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampa-da) chi haA la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso lalampada? – c’èNella stanza un odor di putredine: c’èNella stanza una piaga rossa languente.Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste divelluto:E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’èNel cuore della sera c’èSempre una piaga rossa languente.

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IL CANTO DELLA TENEBRA

La luce del crepuscolo si attenua:Inquieti spiriti sia dolce la tenebraAl cuore che non ama più!Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,Sorgenti, sorgenti che sanno 5Sorgenti che sanno che spiriti stannoChe spiriti stanno a ascoltare......Ascolta: la luce del crepuscolo attenuaEd agli inquieti spiriti è dolce la tenebra:Ascolta: ti ha vinto la Sorte: 10Ma per i cuori leggeri un’altra vita è alle porte:Non c’è di dolcezza che possa uguagliare la MortePiù Più PiùIntendi chi ancora ti culla:Intendi la dolce fanciulla 15Che dice all’orecchio: Più PiùEd ecco si leva e scompareIl vento: ecco torna dal mareEd ecco sentiamo ansimareIl cuore che ci amò di più! 20Guardiamo: di già il paesaggioDegli alberi e l’acque è notturnoIl fiume va via taciturno......Pùm! mamma quell’omo lassù!

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LA SERA DI FIERA

Il cuore stasera mi disse: non sai?La rosabruna incantevoleDorata da una chioma bionda:E dagli occhi lucenti e bruni colei che di grazia ImperialeIncantava la roseaFreschezza dei mattini:E tu seguivi nell’ariaLa fresca incarnazione di un mattutino sogno:E soleva vagare quando il sognoE il profumo velavano le stelle(Che tu amavi guardar dietro i cancelliLe stelle le pallide notturne):Che soleva passare silenziosaE bianca come un volo di colombeCerto è morta: non sai?Era la notteDi fiera della perfida BabeleSalente in fasci verso un cielo affastellato un paradiso difiammaIn lubrici fischi grotteschiE tintinnare d’angeliche campanelleE gridi e voci di prostituteE pantomime d’OfeliaStillate dall’umile pianto delle lampade elettriche. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .Una canzonetta volgaruccia era mortaE mi aveva lasciato il cuore nel doloreE me ne andavo errando senz’amoreLasciando il cuore mio di porta in porta:Con Lei che non è nata eppure è mortaE mi ha lasciato il cuore senz’amore:Eppure il cuore porta nel dolore:Lasciando il cuore mio di porta in porta.

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LA PETITE PROMENADE DU POÈTE

Me ne vado per le stradeStrette oscure e misteriose:Vedo dietro le vetrateAffacciarsi Gemme e Rose.Dalle scale misteriose 5C’è chi scende brancolando:Dietro i vetri rilucentiStan le ciane commentando.. . . . . . . . . . .La stradina è solitaria: 10Non c’è un cane: qualche stellaNella notte sopra i tetti:E la notte mi par bella.E cammino poverettoNella notte fantasiosa, 15Pur mi sento nella boccaLa saliva disgustosa. Via dal tanfoVia dal tanfo e per le stradeE cammina e via cammina,Già le case son più rade. 20Trovo l’erba: mi ci stendoA conciarmi come un cane:Da lontano un ubriacoCanta amore alle persiane.

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LA VERNA

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i.

la verna (diario)

15 Settembre (per la strada di Campigno)

Tre ragazze e un ciuco per la strada mulattiera chescendono. I complimenti vivaci degli stradini che ripara-no la via. Il ciuco che si voltola in terra. Le risa. Le im-precazioni montanine. Le roccie e il fiume

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Castagno, 17 Settembre

La Falterona è ancora avvolta di nebbie. Vedo solocanali rocciosi che le venano i fianchi e si perdono nelcielo di nebbie che le onde alterne del sole non riesconoa diradare. La pioggia à reso cupo il grigio delle monta-gne. Davanti alla fonte hanno stazionato a lungo i Casta-gnini attendendo il sole, aduggiati da una notte di piog-gia nelle loro stamberghe allagate. Una ragazza inciabatte passa che dice rimessamente: un giorno la pienaci porterà tutti. Il torrente gonfio nel suo rumore cupocommenta tutta questa miseria. Guardo oppresso le roc-cie ripide della Falterona: dovrò salire, salire. Nel pre-sbiterio trovo una lapide ad Andrea del Castagno. Micolpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi in-cavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con unacosì semplice antica grazia toscana del profilo e del colloche riesce a renderle piacevoli! forse. Come differente lasera di Campigno: come mistico il paesaggio, come bellala povertà delle sue casupole! Come incantate erano sor-te per me le stelle nel cielo dallo sfondo lontano dei dol-ci avvallamenti dove sfumava la valle barbarica, dondeveniva il torrente inquieto e cupo di profondità! Io sen-tivo le stelle sorgere e collocarsi luminose su quel miste-ro. Alzando gli occhi alla roccia a picco altissima che si

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in tagliava in un semicerchio dentato contro il violettocrepuscolare, arco solitario e magnifico teso in forza dicatastrofe sotto gli ammucchiamenti inquieti di rocceall’agguato dell’infinito, io non ero non ero rapito discoprire nel cielo luci ancora luci. E, mentre il tempofuggiva invano per me, un canto, le lunghe onde di untriplice coro salienti a lanci la roccia, trattenute ai confi-ni dorati della notte dall’eco che nel seno petroso lerifondeva allungate, perdute.

Il canto fu breve: una pausa, un commento improvvi-so e misterioso e la montagna riprese il suo sogno cata-strofico. Il canto breve: le tre fanciulle avevano espressodisperatamente nella cadenza millenaria la loro penabreve ed oscura e si erano taciute nella notte! Tutte le fi-nestre nella valle erano accese. Ero solo.

Le nebbie sono scomparse: esco. Mi rallegra il buonodore casalingo di spigo e di lavanda dei paesetti tosca-ni. La chiesa ha un portico a colonnette quadrate di sas-so intero, nudo ed elegante, semplice e austero, veramente toscano. Tra i cipressi scorgo altri portici. Su unacosta una croce apre le braccia ai vastissimi fianchi dellaFalterona, spoglia di macchie,che scopre la sua costrut-tura sassosa. Con una fiamma pallida e fulva bruciano leerbe del camposanto.

Sulla Falterona, (Giogo)

La Falterona verde nero e argento: la tristezza solen-ne della Falterona che si gonfia come un enorme caval-lone pietrificato, che lascia dietro a sè una cavalleria discrepola ture screpolature e screpolature nella roccia fi-no ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano diToscana: Castagno, casette di macigno disperse a mezzacosta, finestre che ho visto accese: così a le creature delpaesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi in-

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terni tra i fini capelli vegetali il rettangolo della testa inlinea occultamente fine dai fini tratti traspare il sorrisodi Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglionero i chiari occhi grigi: la dolcezza della linea delle lab-bra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia to-scana che fu.

(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)

Campigna, foresta della Falterona

(Le case quadrangolari in pietra viva costruite dai Lo-rena restano vuote e il viale dei tigli dà un tono romanti-co alla solitudine dove i potenti della terra si sono fab-bricate le loro dimore. La sera scende dalla cresta alpinae si accoglie nel seno verde degli abeti).

Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stellasolitaria sullo sprone alpino e la selva antichissima ad-densare l’ombra e i profondi fruscìi del silenzio. Dallacresta acuta del cielo, sopra il mistero assopito della sel-va io scorsi andando pel viale dei tigli la vecchia amicaluna che sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame: erisalutai l’amica senza stupore come se le profondità sel-vaggie dello sprone l’attendessero levarsi dal paesaggioignoto. Io per il viale dei tigli andavo intanto difeso dagliincanti mentre tu sorgevi e sparivi dolce amica luna, so-litario e fumigante vapore sui barbari recessi. E nonguardai più la tua strana faccia ma volli andare ancora alungo pel viale se udissi la tua rossa aurora nel sospirodella vita notturna delle selve.

Stia, 20 Settembre

Nell’albergo un vecchio milanese cavaliere parla deisuoi amori lontani a una signora dai capelli bianchi e dal

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viso di bambina. Lei calma gli spiega le stranezze delcuore: lui ancora stupisce e si affanna: qua nell’anticopaese chiuso dai boschi. Ho lasciato Castagno: ho salitola Falterona lentamente seguendo il corso del torrenterubesto: ho riposato nella limpidezza angelica dell’altamontagna addolcita di toni cupi per la pioggia recente,ingemmata nel cielo coi contorni nitidi e luminosi che mifacevano sognare davanti alle colline dei quadri antichi.Ho sostato nelle case di Campigna. Son sceso per inter-minabili valli selvose e deserte con improvvisi sfondi diun paesaggio promesso, un castello isolato e lontano: e alfine Stia, bianca elegante tra il verde, melodiosa di castel-li sereni: il primo saluto della vita felice del paese nuovo:la poesia toscana ancor viva nella piazza sonante di vocitranquille, vegliata dal castello antico: le signore ai balco-ni poggiate il puro profilo languidamente nella sera: l’oradi grazia della giornata, di riposo e di oblio.

Al di fuori si è fatta la quiete: il colloquio fraterno delcavaliere continua:

Comme deux ennemis rompusQue leur haine ne soutient plusEt qui laissent tomber leurs armes!

21 Settembre (presso la Verna)Io vidi dalle solitudini mistiche staccarsi una tortora e

volare distesa verso le valli immensamente aperte. Ilpaesaggio cristiano segnato di croci inclinate dal ventone fu vivificato misteriosamente. Volava senza finesull’ali distese, leggera come una barca sul mare. Addiocolomba, addio! Le altissime colonne di roccia dellaVerna si levavano a picco grige nel crepuscolo, tutt’in-torno rinchiuse dalla foresta cupa.

Incantevolmente cristiana fu l’ospitalità dei contadinilà presso. Sudato mi offersero acqua. «In un’ora arrive-

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rete alla Verna, se Dio vole». Una ragazzina mi guardavacogli occhi neri un pò tristi, attonita sotto l’ampio cap-pello di paglia. In tutti un raccoglimento inconscio, unaserenità conventuale addolciva a tutti i tratti del volto.Ricorderò per molto tempo ancora la ragazzina e i suoiocchi conscii e tranquilli sotto il cappellone monacale.

Sulle stoppie interminabili sempre più alte si alzavanole torri naturali di roccia che reggevano la casetta con-ventuale rilucente di dardi di luce nei vetri occidui.

Si levava la fortezza dello spirito, le enormi rocce get-tate in cataste da una legge violenta verso il cielo, pacifi-cate dalla natura prima che le aveva coperte di verdi sel-ve, purificate poi da uno spirito d’amore infinito: lameta che aveva pacificato gli urti dell’ideale che avevanofatto strazio, a cui erano sacre pure supreme commozio-ni della mia vita.

22 Settembre (La Verna)

«Francesca B. O divino santo Francesco pregate perme peccatrice. 20 Agosto 189...»

Me ne sono andato per la foresta con un ricordo ri-sentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, lalinea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora laritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompevain una confessione così dolce, lassù lontano da tutto.Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la ViaCrucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate salel’alito gelido degli antri). A metà, davanti alle semplicifigure d’amore il suo cuore si era aperto ad un grido aduna lacrima di passione, così il destino era consumato!

Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta dipietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidicolossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nellachiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Ver-

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gine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un anforaclassica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nelloscorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bian-ca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio aterra, lassù così

presso al cielo:. . . . . . . . . . . . . . . . .stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi conten-

te di una lieve stria di sole. . . . . . . . . finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di

paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprìnel mattino, tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e di-gradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue pro-filate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei chetu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, chepiega che piega e non posa, nella sua posa arcana comele antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nelturbine del canto di Dante, regina barbara sotto il pesodi tutto il sogno umano.. . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tuttodella leggenda Francescana. Il santo appare come l’om-bra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, cheaccetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia èsemplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto allanatura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo.Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cap-pella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un ta-volato di noce dove con malinconia potente un frate.....da Bibbiena intarsiò mezze figure di santi monaci. Lasemplicità bizzarra del disegno bianco risalta quandol’oro del tramonto tenta di versarsi dall’invetriata prossi-ma nella penombra della cappella. Acquistano alloraquei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico.Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i pro-

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fili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgonodecollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigideenigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepitonella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, si-lenzioso nel saio villoso, e prega le preghiere d’ottantaanni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie mi-nacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lonta-ne. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente solacerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano sivedono lentamente sommergersi le vedette mistiche eguerriere dei castelli del Casentino. Intorno è un grandesilenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi ba-gliori che ancora guizza sotto le strette della penombra.E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bian-che braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come inun sogno cavalleresco!

Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Fi-gure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si con-gedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffiadalla selva in alto, ma non si ode nè il frusciare dellamassa oscura nè il suo fluire per gli antri. Una campanadalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza delchiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagnerche si muore.

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Dino Campana - Canti orfici

ii.

ritorno

SALGO (nello spazio, fuori del tempo)

L’acqua il ventoLa sanità delle prime cose –Il lavoro umano sull’elementoLiquido – la natura che conduceStrati di rocce su strati – il ventoChe scherza nella valle – ed ombra del ventoLa nuvola – il lontano ammonimentoDel fiume nella valle –E la rovina del contrafforte – la franaLa vittoria dell’elemento – il ventoChe scherza nella valle.Su la lunghissima valle che sale in scaleLa casetta di sasso sul faticoso verde:La bianca immagine dell’elemento.

La tellurica melodia della Falterona. Le onde telluri-che. L’ultimo asterisco della melodia della Falteronas’inselva nelle nuvole. Su la costa lontana traluce la lineavittoriosa dei giovani abeti, l’avanguardia dei gigantigiovinetti serrati in battaglia, felici nel sole lungo la lun-ga costa torrenziale. In fondo, nel frusciar delle nere sel-ve sempre più avanti accampanti lo scoglio enorme chesi ripiega grottesco su sè stesso, pachiderma a quattrozampe sotto la massa oscura: la Verna. E varco e varco.

Campigno: paese barbarico, fuggente, paese nottur-no, mistico incubo del caos. Il tuo abitante porge la not-te dell’antico animale umano nei suoi gesti. Nelle tuemosse montagne l’elemento grottesco profila: un ga-glioffo, una grossa puttana fuggono sotto le nubi in cor-sa. E le tue rive bianche come le nubi, triangolari, curve

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come gonfie vele: paese barbarico, fuggente, paese not-turno, mistico incubo del Caos.

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Riposo ora per l’ultima volta nella solitudine della fo-resta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tuttain memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi anda-te! Catrina, bizzarra figlia della montagna barbarica,della conca rocciosa dei venti, come è dolce il tuo pian-to: come è dolce quando tu assistevi alla scena di doloredella madre, della madre che aveva morto l’ultimo figlio.Una delle pie donne a lei dintorno, inginocchiata cerca-va di consolarla: ma lei non voleva essere consolata, malei gettata a terra voleva piangere tutto il suo pianto. Fi-gura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscanache fu, tu scesa allora dal tuo cavallo tu allora guardavi:tu che nella profluvie ondosa dei tuoi capelli salivi, salivicon la tua compagnia, come nelle favole d’antica poesia:e già dimentica dell’amor del poeta.

Monte Filetto 25 Settembre

Un usignolo canta tra i rami del noce. Il poggio ètroppo bello sul cielo troppo azzurro. Il fiume canta be-ne la sua cantilena. E’ un’ora che guardo lo spazio laggiùe la strada a mezza costa del poggio che vi conduce.Quassù abitano i falchi. La pioggia leggera d’estate bat-teva come un ricco accordo sulle foglie del noce. Ma lefoglie dell’acacia albero caro alla notte si piegavano sen-za rumore come un’ombra verde. L’azzurro si apre traquesti due alberi. Il noce è davanti alla finestra della miastanza. Di notte sembra raccogliere tutta l’ombra e cur-vare le cupe foglie canore come una messe di canti sultronco rotondo lattiginoso quasi umano: l’acacia sa pro-filarsi come un chimerico fumo. Le stelle danzavano sul

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Dino Campana - Canti orfici

poggio deserto. Nessuno viene per la strada. Mi piacedai balconi guardare la campagna deserta abitata da al-beri sparsi, anima della solitudine forgiata di vento. Og-gi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo lapioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jam-mes chine l’ovale pallido sulla tapezzeria memore e sullestampe. Il fiume riprende la sua cantilena. Vado via.Guardo ancora la finestra: la costa è un quadretto d’oronello squittire dei falchi.

Presso Campigno (26 Settembre)

Per rendere il paesaggio, il paese vergine che il fiumedocile a valle solo riempie del suo rumore di tremiti fre-schi, non basta la pittura, ci vuole l’acqua, l’elementostesso, la melodia docile dell’acqua che si stende tra leforre all’ampia rovina del suo letto, che dolce come l’an-tica voce dei venti incalza verso le valli in curve regali:poi chè essa è qui veramente la regina del paesaggio.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Valdervé è una costa interamente alpina che scende atratti a dirupi e getta sull’acqua il suo piedistallo come lazanna del leone. L’acqua volge con tonfi chiari e profon-di lasciando l’alto scenario pastorale di grandi alberi ecolline.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Ecco le rocce, strati su strati, monumenti di tenaciasolitaria che consolano il cuore degli uomini. E dolce miè sembrato il mio destino fuggitivo al fascino dei lontanimiraggi di ventura che ancora arridono dai monti azzur-ri: e a udire il sussurrare dell’acqua sotto le nude roccie,fresca ancora delle profondità della terra. Così conoscouna musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene

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neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritor-no: conosco un quadro perduto tra lo splendore dell’ar-te fiorentina colla sua parola di dolce nostalgia: è il fi-gliuol prodigo all’ombra degli alberi della casa paterna.Letteratura? Non so. Il mio ricordo, l’acqua è così. Do-po gli sfondi spirituali senza spirito, dopo l’oro crepu-scolare, dolce come il canto dell’onnipresente tenebra èil canto dell’acqua sotto le rocce: così come è dolce l’ele-mento nello splendore nero degli occhi delle verginispagnole: e come le corde delle chitarre di Spagna..... Ri-bera, dove vidi le tue danze arieggiate di secchi accordi?Il tuo satiro aguzzo alla danza dei vittoriosi accordi? Ein contro l’altra tua faccia, il cavaliere della morte, l’altratua faccia cuore profondo, cuore danzante, satiro cintodi pampini danzante nella sacra oscenità di Sileno? Nu-de scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggiotorrido fantasmi della pietra....

. . . . . . . . . . . . . . .

Ascolto. Le fontane hanno taciuto nella voce del ven-to. Dalla roccia cola un filo d’acqua in un incavo. Il ven-to allenta e raffrena il morso del lontano dolore. Eccoson volto. Tra le rocce crepuscolari una forma nera cor-nuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro.

. . . . . . . . . . . . . .

Laggiù nel crepuscolo la pianura di Romagna. O don-na sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilita-to di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci epotenti testa nobile e mitica dorata dell’enigma dellesfingi: occhi crepuscolari in paesaggio di torri là sognatisulle rive della guerreggiata pianura, sulle rive dei fiumibevuti dalla terra avida là dove si perde il grido di Fran-cesca:dalla mia fanciullezza una voce liturgica risuonavain preghiera lenta e commossa: e tu da quel ritmo sacroa me commosso sorgevi, già inquieto di vaste pianure, di

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lontani miracolosi destini: risveglia la mia speranzasull’infinito della pianura o del mare sentendo aleggiareun soffio di grazia: nobiltà carnale e dorata, profonditàdorata degli occhi: guerriera, amante, mistica, benignadi nobiltà umana antica Romagna.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora.Rivedo un fanciullo, lo stesso fanciullo, laggiù stesosull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullez-za: quanto tempo è trascorso da quando i bagliori ma-gnetici delle stelle mi dissero per la prima volta dell’infi-nità delle morti!...... Il tempo è scorso, si è addensato, èscorso: così come l’acqua scorre, immobile per quel fan-ciullo: lasciando dietro a sè il silenzio, la gora profonda euguale: conservando il silenzio come ogni giorno l’om-bra......

Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mianostalgia? Così immobile laggiù: come il mio cadavere.

Marradi (Antica volta. Specchio velato)

Il mattino arride sulle cime dei monti. In alto sulle cu-spidi di un triangolo desolato si illumina il castello, più al-to e più lontano. Venere passa in barroccio accoccolataper la strada conventuale. Il fiume si snoda per la valle:rotto e muggente a tratti canta e riposa in larghi specchid’azzurro: e più veloce trascorre le mura nere (una cupolarossa ride lontana con il suo leone) e i campanili si affolla-no e nel nereggiare inquieto dei tetti al sole una lunga ve-randa che ha messo un commento variopinto di archi!

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Presso Marradi (ottobre)

Son capitato in mezzo a bona gente. La finestra dellamia stanza che affronta i venti: e la...... e il figlio, poverouccellino dai tratti dolci e dall’anima indecisa, poverouccellino che trascina una gamba rotta, e il vento chebatte alla finestra dall’orizzonte annuvolato i monti lon-tani ed alti, il rombo monotono del vento. Lontano è ca-duta la neve...... La padrona zitta mi rifà il letto aiutatadalla fanticella. Monotona dolcezza della vita patriarca-le. Fine del pellegrinaggio.

IMMAGINI DEL VIAGGIO E DELLA MONTAGNA

... poi che nella sorda lotta notturnaLa più potente anima seconda ebbe frante le nostrecateneNoi ci svegliammo piangendo ed era l’azzurro mattino:Come ombre d’eroi veleggiavano:De l’alba non ombre nei puri silenziiDe l’albaNei puri pensieriNon ombreDe l’alba non ombre:Piangendo: giurando noi fede all’azzurro. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .Pare la donna che siede pallida giovine ancoraSopra dell’erta ultima presso la casa antica:Avanti a lei incerte si snodano le valliVerso le solitudini alte de gli orizzonti:La gentile canuta il cuculo sente a cantare.E il semplice cuore provato negli anniA le melodie della terra

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Ascolta quieto: le noteGiungon, continue ambigue come in un velo di seta.Da selve oscure il torrenteSorte ed in torpidi gorghi la chiostra di rocceLambe ed involge aereo cilestrino....E il cuculo cola più lento due note velateNel silenzio azzurrino. . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . .L’aria ride: la tromba a valle i montiSquilla: la massa degli scorridoriSi scioglie: ha vivi lanci: i nostri cuoriBalzano: e grida ed oltrevarca i ponti.E dalle altezze agli infiniti alboriVigili, calan trepidi pei monti,Tremuli e vaghi nelle vive fonti,Gli echi dei nostri due sommessi cuori.....Hanno varcato in lunga teoria:Nell’aria non so qual bacchico cantoSalgono: e dietro a loro il monte introna:. . . . . . . . . . . . . . . . .E si distingue il loro verde canto.. . . . . . . . . . . . . . . . . .Andar, de l’acque ai gorghi, per la chinaValle, nel sordo mormorar sfiorato:Seguire un’ala stanca per la chinaValle che batte e volge: desolatoAndar per valli, in fin che in azzurrinaSerenità, dall’aspre rocce datoUn Borgo in grigio e vario torreggiareAll’alterno pensier pare e dispare,Sovra l’arido sogno, serenato!O se come il torrente che rovinaE si riposa nell’azzurro eguale,Se tale a le tue mura la proclinaAnima al nulla nel suo andar fatale,

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Se alle tue mura in pace cristallinaTender potessi, in una pace uguale,E il ricordo specchiar di una divinaSerenità perduta o tu immortaleAnima! o Tu!. . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . .La messe, intesa al misterioso coroDel vento, in vie di lunghe onde tranquilleMuta e gloriosa per le mie pupilleDiscioglie il grembo delle luci d’oro.O Speranza! O Speranza! a mille a milleSplendono nell’estate i frutti! un coroCh’è incantato, è al suo murmure, canoroChe vive per miriadi di faville!....

Ecco la notte: ed ecco vigilarmiE luci e luci: ed io lontano e solo:Quieta è la messe, verso l’infinito(Quieto è lo spirto) vanno muti carmiA la notte: a la notte: intendo: SoloOmbra che torna, ch’era dipartito.....

VIAGGIO A MONTEVIDEO

Io vidi dal ponte della naveI colli di SpagnaSvanire, nel verdeDentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celandoCome una melodia:D’ignota scena fanciulla solaCome una melodiaBlu, su la riva dei colli ancora tremare una viola.....Illanguidiva la sera celeste sul mare:Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale

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Dino Campana - Canti orfici

Varcaron lentamente in un azzurreggiare:....Lontani tinti dei varii coloriDai più lontani silenziiNe la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro: la naveGià cieca varcando battendo la tenebraCoi nostri naufraghi cuoriBattendo la tenebra l’ale celeste sul mare.Ma un giornoSalirono sopra la nave le gravi matrone di SpagnaDa gli occhi torbidi e angeliciDai seni gravidi di vertigine. QuandoIn una baia profonda di un’isola equatorialeIn una baia tranquilla e profonda assai più del cielonotturnoNoi vedemmo sorgere nella luce incantataUna bianca città addormentataAi piedi dei picchi altissimi dei vulcani spentiNel soffio torbido dell’equatore: finchèDopo molte grida e molte ombre di un paese ignoto,Dopo molto cigolìo di catene e molto acceso fervoreNoi lasciammo la città equatorialeVerso l’inquieto mare notturno.Andavamo andavamo, per giorni e per giorni: le naviGravi di vele molli di caldi soffi incontro passavanolente:Sì presso di sul cassero a noi ne appariva bronzinaUna fanciulla della razza nuova,Occhi lucenti e le vesti al vento! ed ecco: selvaggia a la fi-ne di un [giorno che apparveLa riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina:E vidi come cavalleVertiginose che si scioglievano le duneVerso la prateria senza fineDeserta senza le case umaneE noi volgemmo fuggendo le dune che apparveSu un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume,Del continente nuovo la capitale marina.

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Limpido fresco ed elettrico era il lumeDella sera e là le alte case parevan deserteLaggiù sul mar del pirataDe la città abbandonataTra il mare giallo e le dune. . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . .

FANTASIA SU UN QUADRO D’ARDENGO SOFFICI

Faccia, zig zag anatomico che oscuraLa passione torva di una vecchia lunaChe guarda sospesa al soffittoIn una taverna café chantantD’America: la rossa velocitàDi luci funambola che tangaSpagnola cinerinaIsterica in tango di luci si disfà:Che guarda nel café chantantD’America:Sul piano martellato treFiammelle rosse si sono accese da sè.

FIRENZE(Uffizii)

Entro dei ponti tuoi multicoloriL’Arno presago quietamente arenaE in riflessi tranquilli frange appenaArchi severi tra sfiorir di fiori.. . . . . . . . . . . . . . .

Azzurro l’arco dell’intercolonnoTrema rigato tra i palazzi eccelsi:

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Dino Campana - Canti orfici

Candide righe nell’azzurro: persiVoli: su bianca gioventù in colonne.

BATTE BOTTE

Ne la naveChe si scuote,Con le navi che percuoteDi un’auroraSulla proraSplende un occhioIncandescente:(Il mio passoSolitarioBeve l’ombraPer il Quais)Ne la luceUniformeDa le naviA la cittàSolo il passoChe a la notteSolitarioSi percuotePer la notteDalle naviSolitarioRipercuote:Così vastaCosì ambiguaPer la notteCosì pura!L’acqua (il mareChe n’esala?)A le rotte

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Ne la notteBatte: ciecoPer le rotteDentro l’occhioDisumanoDe la notteDi un destinoNe la nottePiù lontanoPer le rotteDe la notteIl mio passoBatte botte.

FIRENZE

Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile. Lemattine di primavera sull’Arno. La grazia degli adole-scenti (che non è grazia al mondo che vinca tua graziad’Aprile), vivo vergine continuo alito, fresco che vivificai marmi e fa nascere Venere Botticelliana: I pollini deldesiderio gravi da tutte le forme scultoree della bellezza,l’alto Cielo spirituale, le linee delle colline che vagano,insieme a la nostalgia acuta di dissolvimento alitata dallebianche forme della bellezza: mentre pure nostra è la di-vinità del sentirsi oltre la musica, nel sogno abitato diimmagini plastiche!

*

L’Arno qui ancora ha tremiti freschi: poi lo occupaun silenzio dei più profondi: nel canale delle colline bas-se e monotone toccando le piccole città etrusche, ugualeoramai sino alle foci, lasciando i bianchi trofei di Pisa, ilduomo prezioso traversato dalla trave colossale, che

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Dino Campana - Canti orfici

chiude nella sua nudità un così vasto soffio marino. ASigna nel ronzìo musicale e assonnante ricordo quelprofondo silenzio: il silenzio di un’epoca sepolta, di unaciviltà sepolta: e come una fanciulla etrusca possa rattri-stare il paesaggio...

*

Nel vico centrale osterie malfamate, botteghe di rigat-tieri, bislacchi ottoni disparati. Un’osteria sempre deser-ta di giorno mostra la sera dietro la vetrata un affaccen-darsi di figure losche. Grida e richiami beffardi e brutalisi spandono pel vico quando qualche avventore entra.In faccia nel vico breve e stretto c’è una finestra, unica,ad inferriata, nella parete rossa corrosa di un vecchio pa-lazzo, dove dietro le sbarre si vedono affacciati dei visiebeti di prostitute disfatte a cui il belletto dà un aspettotragico di pagliacci. Quel passaggio deserto, fetido di unorinatoio, della muffa dei muri corrosi, ha per sola pro-spettiva in fondo l’osteria. I pagliacci ritinti sembranoseguire curiosamente la vita che si svolge dietro l’inve-triata, tra il fumo delle pastasciutte acide, le risa deimantenuti dalle femmine e i silenzii improvvisi che pro-voca la squadra mobile: Tre minorenni dondolano mo-notonamente le loro grazie precoci. Tre tedeschi irsutisparuti e scalcagnati seggono compostamente attorno adun litro. Uno di loro dalla faccia di Cristo è rivestito dauna tunica da prete (!) che tiene raccolta sulle ginocchia.Fumo acre delle pastasciutte: tinnire di piatti e di bic-chieri: risa dei maschi dalle dita piene di anelli che si la-sciano accarezzare dalle femmine, ora che hanno man-giato. Passano le serve nell’aria acre di fumo gettandoun richiamo musicale: Pastee. In un quadro a bianco enero una ragazza bruna con una chitarra mostra i denti eil bianco degli occhi appesa in alto. – Serenata sui Lun-garni. M’investe un soffio stanco dalle colline fiorentine:

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porta un profumo di corolle smorte, misto a un odor dilacche e di vernici di pitture antiche, percettibile appena(Mereskoswki).

FAENZA

Una grossa torre barocca: dietro la ringhiera una lam-pada accesa: appare sulla piazza al capo di una lunga con-trada dove tutti i palazzi sono rossi e tutti hanno una rin-ghiera corrosa: (le contrade alle svolte sono deserte).Qualche matrona piena di fascino. Nell’aria si accumulaqualche cosa di danzante. Ascolto: la grossa torre baroccaora accesa mette nell’aria un senso di liberazione. L’oc-chio dell’orologio trasparente in alto appare che illuminala sera, le freccie dorate: una piccola madonna bianca sidistingue già dietro la ringhiera colla piccola lucerna cor-rosa accesa: E già la grossa torre barocca è vuota e si vedeche porta illuminati i simboli del tempo e della fede.

La piazza ha un carattere di scenario nelle loggie adarchi bianchi leggieri e potenti. Passa la pescatrice pove-ra nello scenario di caffè concerto, rete sul capo e lespalle di velo nero tenue fitto di neri punti per la piazzaviva di archi leggieri e potenti. Accanto una rete nera atriangolo a berretta ricade su una spalla che si schiude:un viso bruno aquilino di indovina, uguale a la Notte diMichelangiolo.

. . . . . . . . . . . . . Ofelia la mia ostessa è pallida e le lunghe ciglia le

frangiano appena gli occhi: il suo viso è classico e insie-me avventuroso. Osservo che ha le labbra morse: dellospagnolo, della dolcezza italiana: e insieme: il ricordo, ilriflesso: dell’antica gioventù latina. Ascolto i discorsi. Lavita ha qui un forte senso naturalistico. Come in Spagna.Felicità di vivere in un paese senza filosofia.

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Dino Campana - Canti orfici

*

Il museo. Ribera e Baccarini. Nel corpo dell’anticopalazzo rosso affocato nel meriggio sordo l’ombra covasulla rozza parete delle nude stampe scheletriche. Du-rer, Ribera. Ribera: il passo di danza del satiro aguzzo suSileno osceno briaco. L’eco dei secchi accordi chiara-mente rifluente nell’ombra che è sorda. Ragazzine allamarinara, le liscie gambe lattee che passano a scatti stri-sciando spinte da un vago prurito bianco. Un delicatobusto di adolescente, luce gioconda dello spirito italianosorride, una bianca purità virginea conservata nei delica-ti incavi del marmo. Grandi figure della tradizione clas-sica chiudono la loro forza tra le ciglia.

DUALISMO(Lettera aperta a Manuelita Etchegarray)

Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti co-me metallo in fusione, voi figlia generosa della praterianutrita di aria vergine voi tornate ad apparirmi col ricor-do lontano: anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò unistante il contatto colle forze del cosmo. Io vi rivedo Ma-nuelita, il piccolo viso armato dell’ala battagliera del vo-stro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulanteeroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio conte-nuto sopra il terreno delle promesse eroiche! Tutta misiete presente esile e nervosa. La cipria sparsa come nevesul vostro viso consunto da un fuoco interno, le vostrevesti di rosa che proclamavano la vostra verginità comeun’aurora piena di promesse! E ancora il magnetismo diquando voi chinaste il capo, voi fiore meraviglioso di unarazza eroica, mi attira non ostante il tempo ancora versodi voi! Eppure Manuelita sappiatelo se lo potete: io nonpensavo, non pensavo a voi: io mai non ho pensato a voi.

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Di notte nella piazza deserta, quando nuvole vaghe cor-revano verso strane costellazioni, alla triste luce elettricaio sentivo la mia infinita solitudine. La prateria si alzavacome un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel ma-re, miseri, uomini feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cu-po volere, storie sanguinose subito dimenticate che rivi-vevano improvvisamente nella notte, tessevano attorno ame la storia della città giovine e feroce, conquistatrice im-placabile, ardente di un’acre febbre di denaro e di gioieimmediate. Io vi perdevo allora Manuelita, perdonate,tra la turba delle signorine elastiche dal viso molle incon-sciamente feroce, violentemente eccitante tra le due ban-de di capelli lisci nell’immobilità delle dee della razza. Ilsilenzio era scandito dal trotto monotono di una pattu-glia: e allora il mio anelito infrenabile andava lontano davoi, verso le calme oasi della sensibilità della vecchia Eu-ropa e mi si stringeva con violenza il cuore. Entravo, ri-cordo, allora nella biblioteca: io che non potevo Manueli-ta io che non sapevo pensare a voi. Le lampade elettricheoscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava unmondo defunto, sorgevano immagini antiche che oscilla-vano lentamente coll’ombra del paralume e sovra il miocapo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe,rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scio-glievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silen-zio pieno delle profondità meravigliose del destino. Deiricordi perduti, delle immagini si componevano già mor-te mentre era più profondo il silenzio. Rivedo ancora Pa-rigi, Place d’Italie, le baracche, i carrozzoni, i magri cava-lieri dell’irreale, dal viso essicato, dagli occhi perforantidi nostalgie feroci, tutta la grande piazza ardente di unconcerto infernale stridente e irritante. Le bambine deiBohemiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e profondicongelati in un languore ambiguo amaro attorno dellostagno liscio e deserto. E in fine Lei, dimentica, lontana,l’amore, il suo viso di zingara nell’onda dei suoni e delle

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luci che si colora di un incanto irreale: e noi in silenzio at-torno allo stagno pieno di chiarori rossastri: e noi ancorastanchi del sogno vagabondare a caso per quartieri ignotifino a stenderci stanchi sul letto di una taverna lontanatra il soffio caldo del vizio noi là nell’incertezza e nel rim-pianto colorando la nostra voluttà di riflessi irreali!

. . . . . . . . . . . . . . . . .E così lontane da voi passavano quelle ore di sogno,

ore di profondità mistiche e sensuali che scioglievano intenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicità com-pleta che aboliva il tempo e il mondo intero, lungo sorsoalle sorgenti dell’Oblio! E vi rivedevo Manuelita poi:che vigilavate pallida e lontana: voi anima semplicechiusa nelle vostre semplici armi.

So Manuelita: voi cercavate la grande rivale. So: lacercavate nei miei occhi stanchi che mai non vi apprese-ro nulla. Ma ora se lo potete sappiate: io dovevo restarefedele al mio destino: era un’anima inquieta quella di cuimi ricordavo sempre quando uscivo a sedermi sulle pan-chine della piazza deserta sotto le nubi in corsa. Essa eraper cui solo il sogno mi era dolce. Essa era per cui io di-menticavo il vostro piccolo corpo convulso nella strettadel guanciale, il vostro piccolo corpo pericoloso tuttoadorabile di snellezza e di forza. E pure vi giuro Manue-lita io vi amavo e vi amo e vi amerò sempre di più diqualunque altra donna........ dei due mondi.

SOGNO DI PRIGIONE

Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella èbianca, il giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena diun torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune,delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Si-lenzio: il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bian-che il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle deserte sui

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monti nevosi: strade bianche deserte: poi chiese di mar-mo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo dall’oc-chio infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra lemontagne. Io al parapetto del cimitero davanti alla sta-zione che guardo il cammino nero delle macchine, sù,giù. Non è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco: lemacchine mangiano rimangiano il nero silenzio nel cam-mino della notte. Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, èfermo: la porpora del treno morde la notte: dal parapet-to del cimitero le occhiaie rosse che si gonfiano nellanotte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un fine-strino in fuga io? io ch’alzo le braccia nella luce!! (il trenomi passa sotto rombando come un demonio).

LA GIORNATA DI UN NEVRASTENICO (Bologna)

La vecchia città dotta e sacerdotale era avvolta dinebbie nel pomeriggio di dicembre. I colli trasparivanopiù lontani sulla pianura percossa di strepiti. Sulla lineaferroviaria si scorgeva vicino, in uno scorcio falso di luceplumbea lo scalo delle merci. Lungo la linea di circon-vallazione passavano pomposamente sfumate figurefemminili, avvolte in pelliccie, i cappelli copiosamenteromantici, avvicinandosi a piccole scosse automatiche,rialzando la gorgiera carnosa come volatili di bassa cor-te. Dei colpi sordi, dei fischi dallo scalo accentuavano lamonotonia diffusa nell’aria. Il vapore delle macchine siconfondeva colla nebbia: i fili si appendevano e si riap-pendevano ai grappoli di campanelle dei pali telegraficiche si susseguivano automaticamente.

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* *

Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia siaprono silenziosamente le lunghe vie. Il malvagio vaporedella nebbia intristisce tra i palazzi velando la cima delletorri, le lunghe vie silenziose deserte come dopo il sac-cheggio. Delle ragazze tutte piccole, tutte scure, artifi-ziosamente avvolte nella sciarpa traversano saltellandole vie, rendendole più vuote ancora. E nell’incubo dellanebbia, in quel cimitero, esse mi sembrano a un trattotanti piccoli animali, tutte uguali, saltellanti, tutte nere,che vadano a covare in un lungo letargo un loro malefi-co sogno.

*

Numerose le studentesse sotto i portici. Si vede subi-to che siamo in un centro di cultura. Guardano a voltecoll’ingenuità di Ofelia, tre a tre, parlando a fior di lab-bra. Formano sotto i portici il corteo pallido e interes-sante delle grazie moderne, le mie col leghe, che vanno alezione! Non hanno l’arduo sorriso d’Annunziano pal-pitante nella gola come le letterate, ma più raro un sorri-so e più severo, intento e masticato, di prognosi riserva-ta, le scienziate.

*

(Caffè) E’ passata la Russa. La piaga delle sue labbraardeva nel suo viso pallido. E’ venuta ed è passata por-tando il fiore e la piaga delle sue labbra. Con un passoelegante, troppo semplice e troppo conscio è passata. Laneve seguita a cadere e si scioglie indifferente nel fangodella via. La sartina e l’avvocato ridono e chiacchierano.I cocchieri imbacuccati tirano fuori la testa dal baverocome bestie stupite. Tutto mi è indifferente. Oggi risalta

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tutto il grigio monotono e sporco della città. Tutto fon-de come la neve in questo pantano: e in fondo sento cheè dolce questo dileguarsi di tutto quello che ci ha fattosoffrire. Tanto più dolce che presto la neve si stenderàineluttabilmente in un lenzuolo bianco e allora potremoriposare in sogni bianchi ancora.

C’è uno specchio avanti a me e l’orologio batte: la lu-ce mi giunge dai portici a traverso le cortine della vetra-ta. Prendo la penna: Scrivo: cosa, non so: ho il sanguealle dita: Scrivo: «l’amante nella penombra si aggraffia alviso dell’amante per scarnificare il suo sogno..... ecc. ».

(Ancora per la via) Tristezza acuta. Mi ferma il mioantico compagno di scuola, già allora bravissimo ed oradi già in belle lettere guercio professor purulento: mitenta, mi confessa con un sorriso sempre più lercio.Conclude: potresti provare a mandare qualcosaall’Amore Illustrato (Via). Ecco inevitabile sotto i porti-ci lo sciame aereoplanante delle signorine intellettuali,che ride e fa glu glu mostrando i denti, in caccia, sem-bra, di tutti i nemici della scienza e della cultura, che vaa frangere ai piedi della cattedra. Già è l’ora! vado a in-fangarmi in mezzo alla via: l’ora che l’illustre somierorampa con il suo carico di nera scienza catalogale . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sull’uscio di casa mi volgo e vedo il classico, baffuto,colossale emissario. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ah! i diritti della vecchiezza! Ah! quanti maramaldi!

*

(Notte) Davanti al fuoco lo specchio. Nella fantasma-goria profonda dello specchio i corpi ignudi avvicenda-no muti: e i corpi lassi e vinti nelle fiamme inestinte e

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mute, e come fuori del tempo i corpi bianchi stupitiinerti nella fornace opaca: bianca, dal mio spirito esau-sto silenziosa si sciolse, Eva si sciolse e mi risvegliò.

Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di lu-ce sanguigna, poi l’ombra, poi una goccia di luce sangui-gna, la dolcezza dei seppelliti. Scompaio in un vicolo madall’ombra sotto un lampione s’imbianca un’ombra cheha le labbra tinte. O Satana, tu che le troie notturnemetti in fondo ai quadrivii, o tu che dall’ombra mostril’infame cadavere di Ofelia, o Satana abbi pietà dellamia lunga miseria!

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VARIE E FRAMMENTI

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BARCHE AMORRATE

. . . . . . . . . . . . . .Le vele le vele le veleChe schioccano e frustano al ventoChe gonfia di vane sequeleLe vele le vele le vele! 5Che tesson e tesson: lamentoVolubil che l’onda che ammorzaNe l’onda volubile smorza...Ne l’ultimo schianto crudele...Le vele le vele le vele 10

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FRAMMENTO(Firenze)

. . . . . . . . . . . . . . . .Ed i piedini andavano armoniosiPortando i cappelloni battaglieriChe armavano di un’ala gli occhi fieriDel lor languore solo nel bel giorno: 5. . . . . . . . . . . . . . . .Scampanava la Pasqua per la via...... . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . .

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PAMPA

Quiere Usted Mate? uno spagnolo mi profferse a bas-sa voce, quasi a non turbare il profondo silenzio dellaPampa. – Le tende si allungavano a pochi passi da dovenoi seduti in circolo in silenzio guardavamo a tratti furti-vamente le strane costellazioni che doravano l’ignotodella prateria notturna. – Un mistero grandioso e vee-mente ci faceva fluire con refrigerio di fresca venaprofonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assapora-vamo con voluttà misteriosa – come nella coppa del si-lenzio purissimo e stellato.

Quiere Usted Mate? Ricevetti il vaso e succhiai la cal-da bevanda.

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costella-zioni io mi andavo abbandonando tutto ai misteriosigiuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dairumori attutiti del bivacco. I miei pensieri fluttuavano:si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sem-bravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamentetrasumanati in distanza, come per un’eco profonda e mi-steriosa, dentro l’infinita maestà della natura. Lenta-mente gradatamente io assurgevo all’illusione universa-le: dalle profondità del mio essere e della terra ioribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso de-gli uomini verso la felicità a traverso i secoli. Le ideebrillavano della più pura luce stellare. Drammi meravi-gliosi, i più meravigliosi dell’anima umana palpitavano esi rispondevano a traverso le costellazioni. Una stellafluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa la fi-ne di un corso di storia. Sgravata la bilancia del temposembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per unmeraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nellospazio alternandosi i destini eterni. . . .

Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontanoprofumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la

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prateria. Il teschio che si levava lentamente era l’insegnaformidabile di un esercito che lanciava torme di cavalie-ri colle lancie in resta, acutissime lucenti: gli indianimorti e vivi si lanciavano alla riconquista del loro domi-nio di libertà in lancio fulmineo. Le erbe piegavano ingemito leggero al vento del loro passaggio. La commo-zione del silenzio intenso era prodigiosa.

Che cosa fuggiva sulla mia testa? Fuggivano le nuvo-le e le stelle, fuggivano: mentre che dalla Pampa nerascossa che sfuggiva a ratti nella selvaggia nera corsa delvento ora più forte ora più fievole ora come un lontanofragore ferreo: a tratti alla malinconia più profondadell’errante un richiamo:... dalle criniere dell’erbe scos-se come alla malinconia più profonda dell’eterno erran-te per la Pampa riscossa come un richiamo che fuggivalugubre.

Ero sul treno in corsa: disteso sul vagone sulla mia te-sta fuggivano le stelle e i soffi del deserto in un fragoreferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve inagguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa che micorreva incontro per prendermi nel suo mistero: che lacorsa penetrava, penetrava con la velocità di un catacli-sma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nellugubre fracasso della corrente irresistibile.

. . . . . . . . . . . . . . . . .Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa

nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volavaincontro: per prendermi nel suo mistero! Un nuovo solemi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribùindiane? Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi par-ve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nelmentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne com-mentava incomprensibilmente il destino. Poi la stan-chezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sulpiatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazionifuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto si-

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mile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mitornava alla mente in flutti amari e veementi.

La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e ugua-le in un silenzio profondo. Solo a tratti nuvole scherzan-ti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti per laprateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gransilenzio.

La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosasulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria ildestino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nelmistero della terra selvaggia e buona. Ora assopito io se-guivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vi-brazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echil’emozione meravigliosa si spense. E allora fu che nelmio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomonuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla naturaineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente e orgo-gliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’es-sere: fluire dalle profondità della terra: il cielo come laterra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infi-nito.

Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra in-finitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomolibero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpatodall’ombra di Nessun Dio.

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IL RUSSO(Da una poesia dell’epoca)

Tombé dans l’enferGrouillant d’ëtres humainsO Russe tu m’apparusSoudain, céléstialParmi de la clameur 5Du grouillement brutald’une lâche humanitéSe pourrissante d’elle même.Se vis ta barbe blondeFulgurante au coin 10Ton âme je vis aussiPar le gouffre ré jetéeTon âme dans l’étreinteL’étreinte désespéréeDes Chimères fulgurantes 15Dans le miasme humain.Voilà que tu ecc. ecc.

In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiutidella società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rive-dere degli esseri umani ero rigettato come da onde ostili.Camminavano velocemente come pazzi, ciascuno assor-to in ció che formava l’unico senso della sua vita: la suacolpa. Dei frati grigi dal volto sereno, troppo sereno, as-sisi: vigilavano. In un angolo una testa spasmodica, unabarba rossastra, un viso emaciato disfatto, coi segni diuna lotta terribile e vana. Era il russo, violinista e pitto-re. Curvo sull’orlo della stufa scriveva febbrilmente.

*

«Un uomo in una notte di dicembre, solo nella suacasa, sente il terrore della sua solitudine. Pensa che fuori

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degli uomini forse muoiono di freddo: ed esce per sal-varli. Al mattino quando ritorna, solo, trova sulla suaporta una donna, morta assiderata. E si uccide.» Parla-va: quando, mentre mi fissava cogli occhi spaventati evuoti, io cercando in fondo degli occhi grigio-opachiuno sguardo, uno sguardo mi parve di distinguere, che liriempiva: non di terrore: quasi infantile, inconscio, co-me di meraviglia.

*

Il Russo era condannato. Da diciannove mesi rinchiu-so, affamato, spiato implacabilmente, doveva confessa-re, aveva confessato. E il supplizio del fango! Colla loroplacida gioia i frati, col loro ghigno muto i delinquentigli avevano detto quando con una parola, con un gesto,con un pianto irrefrenabile nella notte aveva volta a vol-ta scoperto un po’ del suo segreto! Ora io lo vedevochiudersi gli orecchi per non udire il rombo come ditorrente sassoso del continuo strisciare dei passi.

*

Erano i primi giorni che la primavera si svegliava inFiandra. Dalla camerata a volte (la camerata dei veri paz-zi dove ora mi avevano messo), oltre i vetri spessi, oltre lesbarre di ferro, io guardavo il cornicione profilarsi al tra-monto. Un pulviscolo d’oro riempiva il prato, e poi lon-tana la linea muta della città rotta di torri gotiche. E cosìogni sera coricandomi nella mia prigionia salutavo la pri-mavera. E una di quelle sere seppi: il Russo era stato uc-ciso. Il pulviscolo d’oro che avvolgeva la città parve adun tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno. Quando?I riflessi sanguigni del tramonto credei mi portassero ilsuo saluto. Chiusi le palpebre, restai lungamente senzapensiero: quella sera non chiesi altro. Vidi che intorno si

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era fatto scuro. Nella camerata non c’era che il tanfo e ilrespiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chi-mere. Col capo affondato sul guanciale seguivo in ariadelle farfalline che scherzavano attorno alla lampadaelettrica nella luce scialba e gelida. Una dolcezza acuta,una dolcezza di martirio, del suo martirio mi si torcevapei nervi. Febbrile, curva sull’orlo della stufa la testa bar-buta scriveva. La penna scorreva strideva spasmodica.Perché era uscito per salvare altri uomini? Un suo ritrat-to di delinquente, un insensato, severo nei suoi abiti ele-ganti, la testa portata alta con dignità animale: un altro,un sorriso, l’immagine di un sorriso ritratta a memoria, latesta della fanciulla d’Este. Poi teste di contadini russi te-ste barbute tutte, teste, teste, ancora teste. . .

. . . . . . . . . . . . . . . . .La penna scorreva strideva spasmodica: perchè era usci-

to per salvare altri uomini? Curvo, sull’orlo della stufa latesta barbuta, il russo scriveva, scriveva scriveva. . . . . . .

*

Non essendovi in Belgio l’estradizione legale per i de-linquenti politici avevano compito l’ufficio i Frati dellaCarità Cristiana.

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Dino Campana - Canti orfici

PASSEGGIATA IN TRAM IN AMERICA E RITORNO

Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino acorda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cieloferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città tor-reggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormipalazzi regali e barbari, i diademi elettrici spenti. Corrocol preludio che tremola si assorda riprende si afforza elibero sgorga davanti al molo alla piazza densa di navi edi carri. Gli alti cubi della città si sparpagliano tutti pelgolfo in dadi infiniti di luce striati d’azzurro: nel mentreil mare tra le tanaglie del molo come un fiume che fuggetacito pieno di singhiozzi taciuti corre veloce versol’eternità del mare che si balocca e complotta laggiù perrompere la linea dell’orizzonte.

Ma mi parve che la città scomparisse mentre che ilmare rabbrividiva nella sua fuga veloce. Sulla poppabalzante io già ero portato lontano nel turbinare delleacque. Il molo, gli uomini erano scomparsi fusi come inuna nebbia. Cresceva l’odore mostruoso del mare. Lalanterna spenta s’alzava. Il gorgoglio dell’acqua tuttoannegava irremissibilmente. Il battito forte nei fianchidel bastimento confondeva il battito del mio cuore e nesvegliava un vago dolore intorno come se stesse peraprirsi un bubbone. Ascoltavo il gorgoglio dell’acqua.L’acqua a volte mi pareva musicale, poi tutto ricadevain un rombo e la terra e la luce mi erano strappate in-consciamente. Come amavo, ricordo, il tonfo sordo del-la prora che si sprofonda nell’onda che la raccoglie e laculla un brevissimo istante e la rigetta in alto leggera nelmentre il battello è una casa scossa dal terremoto chepencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro ilmare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberiuna certa melodia beffarda nell’aria, una melodia che

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non si ode, si indovina solo alle scosse di danza bizzarrache la scuotono!

C’erano due povere ragazze sulla poppa: «Leggera,siamo della leggera: te non la rivedi più la lanterna diGenova!» Eh! che importava in fondo! Ballasse il basti-mento, ballasse fino a Buenos-Aires: questo dava alle-gria: e il mare se la rideva con noi del suo riso così buffoe sornione! Non so se fosse la bestialità irritante del ma-re, il disgusto che quel grosso bestione col suo riso midava..., basta: i giorni passavano. Tra i sacchi di patateavevo scoperto un rifugio. Gli ultimi raggi rossi del tra-monto che illuminavano la costa deserta! costeggiavanoda un giorno. Bellezza semplice di tristezza maschia.Oppure a volte quando l’acqua saliva ai finestrini io se-guivo il tramonto equatoriale sul mare. Volavano uccellilontano dal nido ed io pure: ma senza gioia. Poi sdraiatoin coperta restavo a guardare gli alberi dondolare nellanotte tiepida in mezzo al rumore dell’acqua..........

Riodo il preludio scordato delle rozze corde sottol’arco di violino del tram domenicale. I piccoli dadibianchi sorridono sulla costa tutti in cerchio come unadentiera enorme tra il fetido odore di catrame e di car-bone misto al nauseante odor d’infinito. Fumano i vapo-ri agli scali desolati. Domenica. Per il porto pieno di car-casse delle lente file umane, formiche dell’enormeossario. Nel mentre tra le tanaglie del molo rabbrividi-sce un fiume che fugge, tacito pieno di singhiozzi taciutifugge veloce verso l’eternità del mare, che si balocca ecomplotta laggiù per rompere la linea dell’orizzonte.

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L’INCONTRO DI REGOLO

Ci incontrammo nella circonvallazione a mare. Lastrada era deserta nel calore pomeridiano. Guardavacon occhio abbarbagliato il mare. Quella faccia, l’oc-chiostrabico! Si volse: ci riconoscemmo immediatamen-te. Ci abbracciammo. Come va? Come va? A braccettolui voleva condurmi in campagna: poi io lo decisi invecea calare sulla riva del mare. Stesi sui ciottoli della spiag-gia seguitavamo le nostre confidenze calmi. Era tornatod’America. Tutto pareva naturale ed atteso. Ricordava-mo l’incontro di quattro anni fa laggiù in America: e ilprimo, per la strada di Pavia, lui scalcagnato, col collet-tone alle orecchie! Ancora il diavolo ci aveva riuniti: perquale perchè? Cuori leggeri noi non pensammo a chie-dercelo. Parlammo, parlammo, finchè sentimmo chiara-mente il rumore delle onde che si frangevano sui ciottolidella spiaggia. Alzammo la faccia alla luce cruda del so-le. La superficie del mare era tutta abbagliante. Bisogna-va mangiare. Andiamo!

*

Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusia-smo e senza esitazione. Andiamo. L’uomo o il viaggio, ilresto o l’incidente. Ci sentiamo puri. Mai ci eravamopiegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione. Ilpaese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiutitra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo!

*

Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore,scialacquatore, con in cuore il demone della novità chelo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre,quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito ed era

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restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte de-stra, l’occhio strabico fisso sul fenomeno, toccando conmano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venutoda me e voleva partire.

*

Ma come partire? La mia pazzia tranquilla quel gior-no lo irritava. La paralisi lo aveva esacerbato. Lo osser-vavo. Aveva ancora la faccia a destra atona e contratta esulla guancia destra il solco di una lacrima ma di una la-grima sola, involontaria, caduta dall’occhio restato fisso:voleva partire.

*

Camminavo, camminavo nell’amorfismo della gente.Ogni tanto rivedevo il suo sguardo strabico fisso sul fe-nomeno, sulla parte immota che sembrava attrarlo irre-sistibilmente: vedevo la mano irritata che toccava la par-te immota. Ogni fenomeno è per sè sereno.

** *

Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare al-la mostruosa assurda ragione e ci lasciammo stringendo-ci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci la-sciammo, senza accorgercene ci lasciammo: così puricome due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammoall’irreparabile.

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SCIROCCO (Bologna)

Era una melodia, era un alito? Qualche cosa era fuoridei vetri. Aprìi la finestra: era lo Scirocco: e delle nuvolein corsa al fondo del cielo curvo (non c’era là il mare?) siammucchiavano nella chiarità argentea dove l’auroraaveva lasciato un ricordo dorato. Tutto attorno la cittàmostrava le sue travature colossali nei palchi aperti deisuoi torrioni, umida ancora della pioggia recente cheaveva imbrunito il suo mattone: dava l’immagine di ungrande porto, deserto e velato, aperto nei suoi granaidopo la partenza avventurosa nel mattino: mentre chenello Scirocco sembravano ancora giungere in soffi caldie lontani di laggiù i riflessi d’oro delle bandiere e dellenavi che varcavano la curva dell’orizzonte. Si sentival’attesa. In un brusìo di voci tranquille le voci argentinedei fanciulli dominavano liberamente nell’aria. La cittàriposava del suo faticoso fervore. Era una vigilia di festa:la Vigilia di Natale. Sentivo che tutto posava: ricordisperanze anch’io li abbandonavo all’orizzonte curvo lag-giù: e l’orizzonte mi sembrava volerli cullare coi riflessifrangiati delle sue nuvole mobili all’infinito. Ero libero,ero solo. Nella giocondità dello Scirocco mi beavo deisuoi soffii tenui. Vedevo la nebulosità invernale che fug-giva davanti a lui: le nuvole che si riflettevano laggiù sullastrico chiazzato in riflessi argentei su la fugace chiaritàperlacea dei visi femminili trionfanti negli occhi dolci ecupi: sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creatu-re rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo me-lodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale: poiguardavo le torri rosse dalle travi nere, dalle balaustrateaperte che vegliavano deserte sull’infinito.

Era la Vigilia di Natale.Ero uscito: Un grande portico rosso dalle lucerne mo-

resche: dei libri che avevo letti nella mia adolescenza

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erano esposti a una vetrina tra le stampe. In fondo la lu-minosità marmorea di un grande palazzo moderno, i fu-sti d’acciaio curvi di globi bianchi ai quattro lati.

La piazzetta di S. Giovanni era deserta: la porta dellaprigione senza le belle fanciulle del popolo che altre vol-te vi avevo viste.

Attraverso a una piazza dorata da piccoli sepolcreti,nella scia bianca del suo pennacchio una figura giovine,gli occhi grigi, la bocca dalle linee rosee tenui, passò nel-la vastità luminosa del cielo. Sbiancava nel cielo fumosola melodia dei suoi passi. Qualche cosa di nuovo, di in-fantile, di profondo era nell’aria commossa. Il mattonerosso ringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fan-tasmi torbidi, condensati in ombre di dolore virgineo,che passavano nel suo torbido sogno: (contigui uguali gliarchi perdendosi gradatamente nella campagna tra lecolline fuori della porta): poi una grande linea che appar-ve passò: una grandiosa, vir i ginea1 testa reclina d’ancel-la mossa di un passo giovine non domo alla cadenza, of-frendo il contorno della mascella rosea e forte e a tratti laluce obliqua dell’occhio nero al disopra dell’omero servi-le, del braccio, onusti di giovinezza: muta.

*

(Le serve ingenue affaccendate colle sporte colme divettovaglie vagavano pettinate artifiziosamente la lorofresca grazia fuori della porta. Tutta verde la campagnaintorno. Le grandi masse luminose degli alberi gravava-no sui piccoli colli, la loro linea nel cielo aggiungeva uncarattere di fantasia: la luce, un organetto che tentava la

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1 La stampa del testo originale, a questo punto, è mal riuscitacreando una lacuna che Campana colma inserendo la nota cheè possibile vedere nell’ultima pagina del volume. Il testo quiavrebbe dovuto riportare: «una grandiosa, virginea testa recli-na d’ancella mossa».

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modesta poesia del popolo sotto una ciminiera altissimasui terreni vaghi, tra le donne variopinte sulle porte: lecontrade cupe della città tutte vive di tentacoli rossi: ve-rande di torri dalle travature enormi sotto il cielo curvo:gli ultimi soffii di riflessi caldi e lontani nella grandechiarità abbagliante e uguale quando per l’arco dellaporta mi inoltrai nel verde e il cannone tonò mezzogior-no: solo coi passeri intorno che si commossero in brevevolteggio attorno al lago Leonardesco.)

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CREPUSCOLO MEDITERRANEO

Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nellasera si esaltano, di lampade che si accendono, chi t’in-scenò nel cielo più vasta più ardente del sole notturnaestate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide letue piazze felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glo-rioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre al’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo unmito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoidorati fantasmi, notturna estate mediterranea? Chi pòdirsi felice che non vide le tue piazze felici? E le tue vietortuose di palazzi e palazzi marini e dove il mito si co-va? Mentre dalle volte un altro mito si cova che illuminasolitaria limpida cubica la lampada colossale a spigoliverdi? Ed ecco che sul tuo porto fumoso di antenne, ec-co che sul tuo porto fumoso di molli cordami dorati, perle tue vie mi appaiono in grave incesso giovani forme, digià presaghe al cuore di una bellezza immortale appaio-no rilevando al passo un lato della persona gloriosa, delpuro viso ove l’occhio rideva nel tenero agile ovale. Suo-navano le chitarre all’incesso della dea. Profumi variigravavano l’aria, l’accordo delle chitarre si addolciva daun vico ambiguo nell’armonioso clamore della via cheripida calava al mare. Le insegne rosse delle botteghepromettevano vini d’oriente dal profondo splendoreopalino mentre a me trepidante la vita passava avantinelle immortali forme serene. E l’amaro, l’acuto, bal-bettìo del mare subito spento all’angolo di una via:spento, apparso e subito spento!

Il Dio d’oro del crepuscolo bacia le grandi figuresbiadite sui muri degli alti palazzi, le grandi figure cheanelano a lui come a un più antico ricordo di gloria e digioia. Un bizzarro palazzo settecentesco sporge all’ango-lo di una via, signorile e fatuo, fatuo della sua antica no-biltà mediterranea. Ai piccoli balconi i sostegni di mar-

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mo si attorcono in se stessi con bizzarria. La grande fi-nestra verde chiude nel segreto delle imposte la capric-ciosa speculatrice, la tiranna agile bruno rosata, e la viabarocca vive di una duplice vita: in alto nei trofei di ges-so di una chiesa gli angioli paffuti e bianchi sciolgono laloro pompa convenzionale mentre che sulla via le perfi-de fanciulle brune mediterranee, brunite d’ombra e diluce, si bisbigliano all’orecchio al riparo delle ali teatralie pare fuggano cacciate verso qualche inferno inquell’esplosione di gioia barocca: mentre tutto tutto siannega nel dolce rumore dell’ali sbattute degli angioliche riempie la via.

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PIAZZA SARZANO

A l’antica piazza dei tornei salgono strade e strade enell’aria pura si prevede sotto il cielo il mare. L’aria puraè appena segnata di nubi leggere. L’aria è rosa. Un anti-co crepuscolo ha tinto la piazza e le sue mura. E durasotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea estate.

Intorno nell’aria del crepuscolo si intendono delle ri-sa, serenamente, e dalle mura sporge una torricella rosatra l’edera che cela una campana: mentre, accanto, unafonte sotto una cupoletta getta acqua acqua ed acquasenza fretta, nella vetta con il busto di un savio impera-tore: acqua acqua, acqua getta senza fretta, con in vettail busto cieco di un savio imperatore romano.

Un vertice colorito dall’altra parte della piazza mettequadretta, da quattro cuspidi una torre quadrata mettequadretta svariate di smalto, un riso acuto nel cielo, ol-tre il tortueggiare, sopra dei vicoli il velo rosso del rosomattone: ed a quel riso odo risponde l’oblio. L’oblio co-sì caro alla statua del pagano imperatore sopra la cupo-letta dove l’acqua zampilla senza fretta sotto lo sguardocieco del savio imperatore romano.

*

Dal ponte sopra la città odo le ritmiche cadenze me-diterranee. I colli mi appaiono spogli colle loro torri atraverso le sbarre verdi ma laggiù le farfalle innumerevo-li della luce riempiono il paesaggio di un’immobilità digioia inesauribile. Le grandi case rosee tra i meandri ver-di continuano a illudere il crepuscolo. Sulla piazza ac-ciottolata rimbalza un ritmico strido: un fanciullo a sbal-zi che fugge melodiosamente. Un chiarore in fondo aldeserto della piazza sale tortuoso dal mare dove vicoliverdi di muffa calano in tranelli d’ombra: in mezzo allapiazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupo-

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letta. Una donna bianca appare a una finestra aperta. E’la notte mediterranea.

*

Dall’altra parte della piazza la torre quadrangolares’alza accesa sul corroso mattone sù a capo dei vicoligonfi cupi tortuosi palpitanti di fiamme. La quadricu-spide vetta a quadretta ride svariata di smalto mentrenel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni verdi lalussuria siede imperiale. Accanto il busto dagli occhibianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottonein alto aggancia il tempo all’eternità della piazza. La viasi torce e sprofonda. Come nubi sui colli le case veleg-giano ancora tra lo svariare del verde e si scorge in fon-do il trofeo della V. M. tutto bianco che vibra d’alinell’aria.

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GENOVA

Poi che la nube si fermò nei cieliLontano sulla tacita infinitaMarina chiusa nei lontani veli,E ritornava l’anima partitaChe tutto a lei d’intorno era già arcana-mente illustrato del giardino il verdeSogno nell’apparenza sovrumanaDe le corrusche sue statue superbe:E udìi canto udìi voce di poetiNe le fonti e le sfingi sui frontoniBenigne un primo oblìo parvero ai proniUmani ancor largire: dai segretiDedali uscìi: sorgeva un torreggiareBianco nell’aria: innumeri dal mareParvero i bianchi sogni dei mattiniLontano dileguando incatenareCome un ignoto turbine di suono.Tra le vele di spuma udivo il suono.Pieno era il sole di Maggio.

*

Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi ne la lavagnacinereaDilaga la piazza al mare che addensa le navi inesaustoRide l’arcato palazzo rosso dal portico grande:Come le cateratte del NiagaraCanta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente almare:Genova canta il tuo canto!

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*

Entro una grotta di porcellanaSorbendo caffèGuardavo dall’invetriata la folla salire veloceTra le venditrici uguali a statue, porgentiFrutti di mare con rauche grida cadentiSu la bilancia immota:Così ti ricordo ancora e ti rivedo imperialeSu per l’erta tumultuanteVerso la porta disserrataContro l’azzurro serale,Fantastica di trofeiMitici tra torri nude al sereno,A te aggrappata d’intornoLa febbre de la vitaPristina: e per i vichi lubrici di fanali il cantoInstornellato de le prostituteE dal fondo il vento del mar senza posa.

*

Per i vichi marini nell’ambiguaSera cacciava il vento tra i fanaliPreludii dal groviglio delle navi:I palazzi marini avevan bianchiArabeschi nell’ombra illanguiditaEd andavamo io e la sera ambigua:Ed io gli occhi alzavo su ai milleE mille e mille occhi benevoliDelle Chimere nei cieli:. . . . . .Quando,MelodiosamenteD’alto sale, il vento come bianca finse una visione diGraziaCome dalla vicenda infaticabile

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De le nuvole e de le stelle dentro del cielo seraleDentro il vico marino in alto sale,. . . . . .Dentro il vico chè rosse in alto saleMarino l’ali rosse dei fanaliRabescavano l’ombra illanguidita,. . . . . .Che nel vico marino, in alto saleChe bianca e lieve e querula salì!«Come nell’ali rosse dei fanaliBianca e rossa nell’ombra del fanaleChe bianca e lieve e tremula salì: .....»Ora di già nel rosso del fanaleEra già l’ombra faticosamenteBianca. . . . . . . .Bianca quando nel rosso del fanaleBianca lontana faticosamenteL’eco attonita rise un irrealeRiso: e che l’eco faticosamenteE bianca e lieve e attonita salì. . . . .Di già tutto d’intornoLucea la sera ambigua:Battevano i fanaliIl palpito nell’ombra.Rumori lontano franavanoDentro silenzii solenniChiedendo: se dal mareIl riso non saliva. . .Chiedendo se l’udivaInfaticabilmenteLa sera: a la vicendaDi nuvole là in altoDentro del cielo stellare.

*

Al porto il battello si posaNel crepuscolo che brilla

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Negli alberi quieti di frutti di luce,Nel paesaggio miticoDi navi nel seno dell’infinitoNe la seraCalida di felicità, lucenteIn un grande in un grande velarioDi diamanti disteso sul crepuscolo,In mille e mille diamanti in un grande velario viventeIl battello si scaricaIninterrottamente cigolante,Instancabilmente intronaE la bandiera è calata e il mare e il cielo è d’oro e sul moloCorrono i fanciulli e gridanoCon gridi di felicità.Già a frotte s’avventuranoI viaggiatori alla città tonanteChe stende le sue piazze e le sue vie:La grande luce mediterraneaS’è fusa in pietra di cenere:

Pei vichi antichi e profondiFragore di vita, gioia intensa e fugace:Velario d’oro di felicitàÈ il cielo ove il sole ricchissimoLasciò le sue spoglie preziose

E la Città comprendeE s’accendeE la fiamma titilla ed assorbeI resti magnificenti del sole,E intesse un sudario d’oblioDivino per gli uomini stanchi.Perdute nel crepuscolo tonanteOmbre di viaggiatoriVanno per la SuperbaTerribili e grotteschi come i ciechi.

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*

Vasto, dentro un odor tenue vanitoDi catrame, vegliato da le luneElettriche, sul mare appena vivoIl vasto porto si addorme.S’alza la nube delle ciminiereMentre il porto in un dolce scricchiolìoDei cordami s’addorme: e che la forzaDorme, dorme che culla la tristezzaInconscia de le cose che sarannoE il vasto porto oscilla dentro un ritmoAffaticato e si senteLa nube che si forma dal vomito silente.

*

O Siciliana proterva opulente matronaA le finestre ventose del vico marinaroNel seno della città percossa di suoni di navi e di carriClassica mediterranea femina dei porti:Pei grigi rosei della città di ardesiaSonavano i clamori vespertiniE poi più quieti i rumori dentro la notte serena:Vedevo alle finestre lucenti come le stellePassare le ombre de le famiglie marine: e cantiUdivo lenti ed ambigui ne le vene de la città mediterra-nea:Ch’era la notte fonda.Mentre tu siciliana, dai caviVetri in un torto giuocoL’ombra cava e la luce vacillanteO siciliana, ai capezzoliL’ombra rinchiusa tu eriLa Piovra de le notti mediterranee.Cigolava cigolava cigolava di catene

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La grù sul porto nel cavo de la notte serena:E dentro il cavo de la notte serenaE nelle braccia di ferroIl debole cuore batteva un più alto palpito: tuLa finestra avevi spenta:Nuda mistica in alto cavaInfinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena.

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They were all tornand cover'd with

the boy'sblood

Ringrazio i signori sottoscrittori, gliamici che mi hanno incoraggiato ed anche,last not least, il coscienzioso coraggioso epaziente stampatore sig. Bruno Ravagli

Dino Campana

tutti i diritti riservati

S. C. – Essendo andata all'aria l'ultima riga della pagina 151 lariproduciamo quì:

diosa, virginea testa reclina d' ancella mossa

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