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romanzo

Costretta al silenzio

LINDA CASTILLO

Traduzione dall’inglesedi Alberto Cassani

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Della stessa autrice abbiamo pubblicato:

La lunga notte

Prima edizione nella collana Gli Aceri: settembre 2010 Prima edizione nella presente collana: luglio 2013Titolo originale: Sworn to Silence© 2009 by Linda Castillo© 2010 by Fanucci EditoreIl marchio Timecrime è di proprietàdi Sergio Fanuccivia delle Fornaci, 66 – 00165 Romatel. 06.39366384 Indirizzo internet: www.timecrime.itOriginal publisher: St. Martin's PressProprietà letteraria e artistica riservataStampato in Italia – Printed in ItalyTutti i diritti riservatiProgetto grafico: Grafica Effe

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Costretta al silenzio

LINDA CASTILLO

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Immantinente apparve il diavolo,poiché ne basta il nome, per averlo al fianco.

MATTHEW PRIOR, Hans Carvel

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Prologo

Amanda Horner aveva smesso di credere ai mostri all’etàdi sei anni, quando ancora sua madre controllava nell’arma-dio e guardava sotto al letto ogni notte. Ma a ventun anni, le-gata e martoriata, stesa nuda su un pavimento di cementofreddo come il ghiaccio, riprese a crederci.

Avvolta dall’oscurità, ascoltò il suo cuore martellare pesan-temente. Non riusciva a smettere di tremare. Non poteva im-pedire ai suoi denti di battere. Ogni piccolo suono la facevairrigidire nel timore che il mostro ritornasse.

All’inizio aveva sognato di poter fuggire o di riuscire a con-vincere il suo rapitore a lasciarla andare, ma Amanda sapevaessere realista, sapeva che non sarebbe finita bene. Non ci sa-rebbero state trattative, nessun salvataggio della polizia, nes-suna sospensione dell’ultimo momento. Il mostro l’avrebbeuccisa. Non era più una questione di se, ma di quando. L’atte-sa era quasi terribile quanto la morte stessa.

Non sapeva dove si trovava, né da quanto tempo era lì.Aveva perso ogni cognizione del tempo e dello spazio. Tuttociò che poteva dire era che il luogo in cui si trovava puzzavadi carne in decomposizione, e che ogni piccolo rumore rim-

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bombava come in una caverna. Gridare l’aveva fatta diventa-re rauca, cercare di liberarsi l’aveva resa esausta. Era avvilitadalle atrocità che lui le aveva inflitto. Una piccola parte di leidesiderava che questa terribile lotta per sopravvivere sempli-cemente finisse. Ma mio dio, quanto voleva vivere...

«Mamma...» sussurrò.Amanda non aveva mai pensato alla morte. Aveva troppi

sogni, troppe speranze per il futuro, ed era fermamente con-vinta che il domani sarebbe stato migliore. Nuda e riversa inuna pozza della sua stessa urina, capì che non ci sarebbe statoalcun domani. Nessuna speranza. Nessun futuro. Solo il neroterrore della sua morte imminente, e l’agonia della consapevo-lezza.

Era stesa su un fianco con le ginocchia rannicchiate contro ilpetto. I cavi che le stringevano i polsi dietro la schiena all’iniziole avevano fatto male, ma col passare delle ore il dolore era sce-mato. Cercò di non pensare alle cose che le aveva fatto. All’ini-zio l’aveva violentata, ma persino quell’offesa era niente in con-fronto alle altre depravazioni che aveva dovuto sopportare.

Le pareva di sentire ancora lo schiocco dell’elettricità. Ne av-vertiva la morsa come se stesse ancora scorrendo nel suo corpo,facendole sobbalzare il cervello nella scatola cranica. Le sem-brava di sentire nuovamente il suono bestiale delle sue stesseurla, il rimbombo dell’adrenalina che le pulsava nelle vene, iltambureggiare incontrollato del cuore. E poi c’era il coltello.

L’uomo aveva lavorato con l’intensità e la concentrazionedegne di un macabro artigiano. Le si era avvicinato così tantoche ne aveva sentito il respiro sulla pelle. Quando lei urlava, lacolpiva con l’elettrodo. Quando scalciava, la colpiva di nuovo.Alla fine, lei rimase immobile a sopportare in silenzio quel-l’agonia. Alla fine, aveva accettato il dolore. Per qualche breveminuto, la sua mente la portò sulla spiaggia della Florida do-ve era stata con i suoi genitori due anni prima. Calda sabbia

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bianca sui suoi piedi. Una brezza così umida e calda da sem-brare il respiro di Dio sulla sua anima.

«Aiutami, mamma...»Il suono degli stivali sul cemento la risvegliò dalle sue fan-

tasie. Alzò la testa e si guardò intorno furiosamente, cercan-do invano di vedere oltre la benda che le copriva gli occhi. Po-teva sentire il suono del proprio respiro fra i denti, comequello di un animale selvaggio catturato e portato al macel-lo. Odiava quell’uomo. Odiava ciò che era, ciò che le avevafatto. Se solo avesse potuto liberarsi e fuggire...

«Sta’lontano da me, figlio di puttana!» urlò. «Stai lontano!» Ma sapeva che non l’avrebbe fatto.Una mano guantata le accarezzò un fianco. Lei si girò e scal-

ciò con entrambi i piedi. Provò un fuggevole senso di soddi-sfazione nel sentire il suo torturatore brontolare per il dolore.Poi il rumore della scarica elettrica risuonò come un tuono. Ildolore la percorse come se fosse stata colpita da un colpo difrusta.

Per un istante il mondo divenne grigio e silenzioso. Si resesolo vagamente conto delle mani che le toccavano i piedi. Il tin-tinnio dell’acciaio contro il cemento le appariva lontano. Il fred-do la avvolse e tutto il suo corpo prese a tremare incontrollato.

Un terrore mai provato prima le montò dentro quando si re-se conto che il suo assalitore le aveva legato una catena alle ca-viglie. Quando lui la tirò, il metallo freddo degli anelli scavònella sua carne. Amanda tentò di scalciare, tentò di liberare legambe per poter fare un ultimo, disperato, tentativo.

Ma era troppo tardi.Urlò fin quando ebbe fiato. Si dibatté, contorcendosi e dime-

nandosi, ma tutti i suoi sforzi furono inutili. Sopra di lei risuo-nava il rumore dell’acciaio. Lentamente, la catena alzò i suoipiedi dal pavimento. Urlò ancora, sapendo cosa sarebbe suc-cesso.

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«Perché mi stai facendo questo?» gridò. «Perché?»La catena tintinnò alzandole i piedi in alto, fino a quando si

ritrovò a testa in giù. Le sembrò che tutto il sangue del corpole scorresse verso la testa. Lo sentiva pompare sotto il volto, levene che pulsavano. Tentò di raddrizzarsi, ma la gravità la fe-ce ricadere. «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

Venne invasa dal panico quando una mano coperta da unguanto le afferrò i capelli. Un grido le uscì dai polmoni quan-do il mostro le tirò indietro la testa. L’improvviso calore del ta-glio di un rasoio le punse la gola. Ebbe l’impressione di senti-re un rumore d’acqua che cade in lontananza, come il getto diuna doccia che colpisce il pavimento. Ma non era acqua. Ap-pesa a testa in giù, guardò l’oscurità della benda e ascoltò lasua vita scorrere via. Non poteva succedere davvero. Non alei. Non a Painters Mill.

Come se qualcuno avesse girato un interruttore, la sua men-te si fece improvvisamente confusa. Il suo viso divenne caldo,ma il suo corpo era freddo. Il terrore divenne un ronzio costan-te, il dolore scemò, i muscoli si fecero deboli. Gli arti iniziaronoa formicolare.

Alla fine non mi farà del male, pensò.Fuggì di nuovo sulla sabbia bianca di quella spiaggia, do-

ve sottili palme oscillavano al vento come eleganti ballerine diflamenco. Dove l’acqua più blu che avesse mai visto si esten-deva a perdita d’occhio.

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Il lampeggiante dell’auto di servizio proiettava la sua lucerossa e blu contro alberi che parevano morti sotto il peso del-l’inverno. L’agente T.J. Banks accostò e mosse il faretto lungoil bordo del campo, dove persino il grano tremava dal fred-do. Una ventina di metri più in là, sei mucche di razza Jerseyerano in fondo al fosso a ruminare.

«Stupide vacche di merda» mormorò. Dopo i polli, dove-vano essere gli animali più stupidi della terra.

Prese la radio. «Quarantasette a centrale.»«Che c’è, T.J.?» gli rispose Mona, che faceva il turno di notte.«Ho un 10-54. Le dannate vacche di Stutz sono scappate di

nuovo.»«È la seconda volta, questa settimana.»«E sempre durante il mio turno.»«Cos’hai intenzione di fare? Lui non ha il telefono.»Un’occhiata all’orologio del cruscotto gli disse che erano

quasi le due del mattino. «Be’, non ho intenzione di star qui agelarmi il culo per raggruppare la sua stupida mandria.»

«Forse dovresti farle fuori tutte, e amen.»«Non tentarmi.» Si guardò intorno e sospirò.

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Del bestiame in mezzo alla strada a quell’ora di notte si-gnificava un incidente sicuro. Se qualcuno fosse arrivatotroppo veloce da dietro la curva, sarebbe successo qualcosadi brutto. Pensò a tutte le scartoffie che avrebbe dovuto com-pilare in caso di incidente e scosse la testa. «Piazzo qualchesegnale luminoso e poi vado a tirare il culo di quell’amishfuori dal letto.»

«Fammi sapere se hai bisogno di rinforzi» ridacchiò Mona.T.J. chiuse la lampo del giaccone fino al mento, prese la tor-

cia elettrica dallo scomparto accanto al sedile e uscì dall’auto.Faceva così freddo che poteva sentire i peli del naso che sighiacciavano. La neve scricchiolò sotto gli stivali mentre si fa-ceva strada verso il fosso, e il fiato creò delle nuvolette d’ariadavanti al suo viso. Odiava il turno di notte, tanto quantoodiava l’inverno.

Fece scorrere la luce della torcia lungo la recinzione. Comeimmaginava, poco più di cinque metri più in là il filo spinatosi era staccato dal palo di sostegno. Le impronte gli dissero chediversi capi di bestiame avevano trovato l’apertura e si eranoavventurati lungo il ciglio della strada per pascolare.

«Stupide vacche di merda.»Tornò all’auto e aprì il baule. Prese due segnali luminosi e

li mise in mezzo alla strada per avvertire le auto in arrivo.Mentre stava tornando nuovamente all’auto, notò qualcosain mezzo alla neve dall’altra parte della strada. Considerò lapossibilità che qualcuno si fosse già scontrato con una dellemucche e fosse fuggito. Gli sarebbe stato bene, a Stutz. Era laquinta volta che il suo bestiame usciva dal recinto, quel me-se. T.J. avrebbe cercato di convincere il suo capo a fare unamulta al contadino, per una volta. Solo perché era un amishnon voleva dire che fosse al di sopra della legge. Però il capoaveva un debole per gli amish, e a lui questo non sembravagiusto.

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Attraversò. Sul ciglio della strada c’era una scarpa da donnaabbandonata. A giudicare dalle sue condizioni e dal fatto chenon fosse coperta di neve, non doveva essere lì da molto tem-po. Ragazzi, probabilmente. Quel tratto di strada deserta erauno dei luoghi preferiti dai ragazzi per andare a fumare un po’d’erba e fare sesso. Erano stupidi quasi quanto le vacche.

Accigliandosi, T.J. toccò la scarpa con un piede. Fu allorache notò la traccia, come se qualcosa di pesante fosse stato tra-scinato sulla neve. Seguì la pista con il raggio della torcia elet-trica, fino al campo oltre la recinzione. Gli si rizzarono i pelisulla nuca quando vide il sangue. Moltissimo sangue.

«Ma che diavolo...?»Seguì la traccia nel fossato, dove ciuffi di erba gialla spun-

tavano dalla neve. Scavalcò la recinzione e trovò dell’altro san-gue, che spiccava scuro sul bianco candido della neve. Era suf-ficiente a far venire i brividi a chiunque.

La traccia lo portò sotto alcuni alberi di mele dai rami spo-gli, vicino al confine con un campo di grano. Sentiva il propriorespiro pesante, mentre gli steli secchi di granturco frusciava-no tutt’attorno. T.J. portò la mano al revolver e fece roteare latorcia per illuminare la zona. Fu allora che notò l’oggetto inmezzo alla neve.

All’inizio pensò che un animale fosse stato colpito e si fos-se trascinato fin lì per morire, ma mentre si avvicinava la tor-cia rivelò qualcos’altro. Carne pallida, un ciuffo di capelli scu-ri, un piede nudo che usciva da sotto la neve. L’adrenalina locolpì allo stomaco. «Oh cazzo.»

Per un istante non riuscì a muoversi. Non riusciva a smet-tere di guardare la pozza circolare di sangue e la carne ormaicerea. Facendosi forza, T.J. si inginocchiò accanto al corpo. Ilsuo primo pensiero fu che potesse essere ancora viva. Sca-vando nella neve, toccò una spalla scoperta. La pelle era fred-da come il ghiaccio, ma girò comunque il corpo. Vide dell’al-

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tro sangue, carne pallida e occhi vitrei che sembravano guar-dare dritto verso di lui.

Spaventato, si allontanò. Con le mani tremanti afferrò il mi-crofono che aveva attaccato al bavero del giaccone. «Quaran-tasette a centrale!»

«Che c’è, T.J.? Una delle mucche ti ha inseguito fin sopra unalbero?»

«C’è un cazzo di cadavere, nel campo degli Stutz.»«Cosa?»APainters Mill usavano il codice 10, ma non gli riuscì pro-

prio di ricordare quale fosse il numero con il quale si segnala-va un cadavere. Non aveva mai dovuto usarlo. «Ho detto chec’è un cadavere.»

«Ti ho sentito anche la prima volta.» Ma alle parole fece se-guito una pausa stordita. «Qual è il tuo 10-20?»

«Dog Leg Road, subito a sud del ponte coperto.»Un attimo di silenzio. «Chi è?»Si conoscevano tutti, a Painters Mill, ma lui quella donna

non l’aveva mai vista. «Non lo so. Una donna. Nuda come ilgiorno in cui è venuta al mondo e più morta di Elvis.»

«Un incidente d’auto o cosa?»«Non è stato un incidente.» Portando la mano sul calcio del-

la sua .38, T.J. osservò le ombre vicino agli alberi. Sentiva il suocuore accelerare il ritmo. «È meglio che chiami il capo, Mona.Credo sia stato un omicidio.»

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Sogno la morte.Come sempre, sono nella cucina della vecchia fattoria. Chiazze

di sangue scuro brillano sul pavimento di legno ormai rovinato. Iprofumi del lievito per il pane e del fieno appena tagliato si mesco-lano col tanfo della mia paura, un contrasto che il mio cervello nonriesce ad accettare. Le tendine ondeggiano alla brezza che entradalla finestra sopra il lavandino. Vedo macchie di sangue sul tes-suto giallo. Ce ne sono altre sul muro. Lo sento appiccicoso sullemani.

Mi accuccio nell’angolo. Suoni animaleschi mai sentiti mi esco-no dalla gola come urla soffocate. Sento la morte, dentro la stanza.L’oscurità mi circonda, mi entra dentro. E all’età di quattordici an-ni, so che il male è penetrato nel mio mondo sicuro e protetto.

Il telefono mi scuote dal sonno. L’incubo torna a nasconder-si nel suo buco, come una creatura della notte. Girandomi ver-so il comodino, afferro il telefono e me lo porto all’orecchio.«Sì» dico con voce gracchiante.

«Capo, sono Mona. Mi spiace averla svegliata, ma pensofarebbe meglio a venire qui.»

Mona è l’addetta alle comunicazioni che fa il turno di not-

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te. Non è incline agli isterismi, così l’ansia della sua voce ot-tiene la mia totale attenzione. «Cos’è successo?»

«T.J. è al pascolo degli Stutz. Stava radunando le mucche,quando ha trovato un cadavere.»

Di colpo, non sono più mezza addormentata. Mi metto asedere e mi scosto i capelli dalla faccia. «Cosa?»

«Ha trovato un cadavere. Sembrava piuttosto agitato.»Tiro fuori le gambe dal letto e mi allungo a prendere la ve-

staglia. Un’occhiata alla sveglia mi dice che sono quasi le duee mezza.

«Un incidente?»«Solo un cadavere. Nudo. Una donna.»Rendendomi conto che avrò bisogno dei vestiti, non della

vestaglia, accendo la lampada sul comodino. La luce mi dà fa-stidio agli occhi, ma adesso sono completamente sveglia. Stoancora cercando di convincere la mia mente ad accettare l’ideache uno dei miei agenti abbia trovato un cadavere. Chiedo illuogo preciso, e lei me lo dice.

«Chiama il dottor Coblentz» dico. Coblentz è uno dei seimedici della cittadina di Painters Mill, in Ohio, e il coroner del-la contea di Holmes.

Attraverso la stanza e prendo dall’armadio un reggiseno,un paio di calze e la calzamaglia. «Di’ a T.J. di non toccareniente e di non spostare il corpo. Sarò là tra dieci minuti.»

La fattoria degli Stutz si estende per trentadue ettari, cir-condata da una parte da Dog Leg Road e dall’altra dalla bi-forcazione nord di Painters Creek. Il posto che Mona mi ave-va indicato si trova a ottocento metri dal vecchio pontecoperto, su una stradina abbandonata che termina al confinedella contea.

Quando accosto subito dietro l’auto di T.J. sento il bisognodi un caffè. I miei fari rivelano la sua silhouette al posto di gui-

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da. Sono contenta di vedere che ha piazzato dei segnalatori lu-minosi in mezzo alla strada e ha lasciato accesi i lampeggian-ti. Afferro la mia torcia ed esco dall’auto. Il freddo mi colpiscee cerco di nascondermi ancora di più dentro il giaccone, ma-ledicendomi per essermi dimenticata il cappello. T.J. sembrascosso, mentre mi avvicino. «Cos’abbiamo?»

«Un corpo. Donna.» Cerca di fare del suo meglio per com-portarsi da poliziotto, ma le mani gli tremano mentre puntaun dito verso il campo. So che quel tremore non è colpa delfreddo. «Auna decina di metri da quegli alberi.»

«Sicuro che sia morta?»Il suo pomo d’Adamo sussulta un paio di volte. «È fredda.

Niente battito. Cazzo, c’è sangue dappertutto.»«Diamo un’occhiata.» Ci incamminiamo verso gli alberi.

«Hai toccato niente? Hai contaminato la scena del crimine?»Abbassa leggermente la testa, e capisco che l’ha fatto. «Pen-

savo che potesse essere... ancora viva. Così l’ho girata, per con-trollare.»

Brutta cosa, ma non dico niente. T.J. Banks potrebbe diven-tare un buon poliziotto. È meticoloso e prende il suo lavoro se-riamente, ma questo è il suo primo incarico in un distretto dipolizia. È con me da appena sei mesi, è un novellino. Sareipronta a scommettere che questo è il suo primo cadavere.

Camminiamo attraverso la neve che ci arriva fin sopra le ca-viglie. La paura mi colpisce al petto come una pietra quandovedo il corpo. Vorrei fosse giorno, ma ci vorranno ancora di-verse ore prima che il mio desiderio venga esaudito. La vitti-ma è nuda. Avrà diciott’anni, forse venti. Capelli biondo scu-ro. Una chiazza di sangue larga più di mezzo metro lecirconda la testa. Doveva essere una bella ragazza, ma da mor-ta il suo viso è macabro. Si vede che in origine era a faccia ingiù, perché l’ipostasi le ha fatto diventare viola un lato del vol-to. Ha gli occhi mezzi aperti, vitrei. La lingua esce leggermen-

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te dalle labbra gonfie, e riesco a vedere dei cristalli di ghiacciosulla sua superficie.

Mi accovaccio accanto al corpo. «Aquanto pare è stata quifuori per diverse ore.»

«Ha il principio di un’ustione da ghiaccio.»Anche se ho fatto l’agente per sei anni a Columbus, in Ohio,

e sono stata detective della squadra omicidi per due, mi sen-to fuori posto. Columbus non è esattamente la capitale mon-diale dell’omicidio, ma come ogni altra città ha un lato oscu-ro. Ho avuto anch’io la mia razione di morti. Eppure, labrutalità di questo assassinio mi impressiona. Vorrei pensareche i morti ammazzati non esistano, in città come PaintersMill.

Ma so che esistono.Mi sforzo di ricordare che mi trovo sulla scena di un crimi-

ne. Rialzandomi, muovo la torcia elettrica lungo il perimetro.Non ci sono orme se non le nostre. Mi sento sprofondare quan-do capisco che potremmo aver cancellato delle prove. «ChiamaGlock e digli di venire qui.»

«È in vac...»Il mio sguardo lo zittisce.Il distretto di polizia di Painters Mill è composto da me, tre

agenti di servizio, due addette alle chiamate e un agente au-siliario. Rupert ‘Glock’Maddox è un ex marine, e l’agente piùesperto che ho a disposizione. Il suo soprannome deriva dal-l’amore che nutre nei confronti della sua pistola d’ordinanza.Vacanza o no, ho bisogno di lui.

«Digli di portare il nastro per isolare la scena del crimine.»Penso a cos’altro potrebbe servirci. «Fa’ venire qui un’ambu-lanza. Avverti l’ospedale di Millersburg, digli che mandiamoun cadavere all’obitorio. Oh, e di’a Rupert di portare il caffè.Molto caffè.» Abbasso lo sguardo sul corpo. «Ci toccherà sta-re qui per un bel po’.»

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* * *

Il dottor Ludwig Coblentz è un uomo rotondo e con la testagrossa, la zucca pelata e una pancia grande come una Volks-wagen. Gli vado incontro sul ciglio della strada mentre esce dal-la sua auto. «Ho sentito che uno dei tuoi agenti ha avuto un in-contro ravvicinato con un morto» dice.

«Non un morto qualunque» dico. «Un morto ammazzato.»Indossa dei calzoni color kaki e la giacca di un pigiama ros-

so a quadri sotto la giacca a vento. Lo guardo prendere unaborsa dal sedile del passeggero. Tenendola come fosse il sac-chetto del pranzo si gira verso di me, con un’espressione chemi fa capire che è pronto a mettersi al lavoro.

Lo guido verso il fossato. Il cadavere non è molto lontano,ma ha già il fiatone quando stiamo ancora scavalcando la re-cinzione. «Come diavolo ha fatto un cadavere ad arrivare finqua?» brontola.

«Ce l’ha portata qualcuno. Oppure ci si è trascinata primadi morire.»

Mi guarda poco convinto, ma non gli do peso. Non voglioche arrivi sulla scena con dei pregiudizi. Le prime impressio-ni sono importanti, nelle indagini della polizia.

Ci abbassiamo per passare sotto il nastro che Glock ha tira-to attorno agli alberi come fosse carta igienica la notte di Hallo-ween. T.J. ha attaccato una lampada portatile a un ramo soprail cadavere. Non fa molta luce, ma è sempre meglio delle tor-ce elettriche, e ci permette di avere le mani libere. Avrei desi-derato un generatore di corrente.

«La scena del crimine è isolata.» Glock si avvicina portan-do due tazze di caffè, e me ne porge una. «Sembra che lei neabbia bisogno.»

Prendo il recipiente, apro il coperchio e bevo un sorso. «Dio,che buono.»

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Lancia un’occhiata al cadavere. «Pensa che qualcuno l’ab-bia buttata qui?»

«Così pare.»T.J. ci raggiunge, dando una rapida occhiata alla donna

morta. «Accidenti, capo, mi dispiace vederla stesa lì in quelmodo.»

Spiace anche a me. Da dove siamo posso vederle i seni e ipeli pubici. Come donna mi sento umiliata da questa situazio-ne, ma non c’è niente che possiamo fare, non possiamo spo-starla né coprirla fino a quando non liberiamo la scena. «Unodi voi due la riconosce?» chiedo.

Entrambi scuotono la testa.Sorseggiando il mio caffè, studio la zona cercando di far-

mi un’idea di come possano essere andate le cose. «Glock, cel’hai ancora quella vecchia Polaroid?»

«È nel bagagliaio.»«Fai qualche foto al corpo e al luogo.» Penso alla neve che

abbiamo calpestato e mi prendo mentalmente a calci peraver rovinato l’area. L’orma di uno stivale avrebbe potuto es-sere di aiuto. «Fotografa anche la traccia del corpo sulla ne-ve.» Poi mi rivolgo a entrambi. «Passate al pettine tutta l’areacircoscritta dal nastro. Prendete tutto quello che trovate, an-che se pensate non sia importante. Assicuratevi di fotografa-re tutto prima di toccarlo. Provate a vedere se trovate delleimpronte, e cercate soprattutto dei vestiti o un portafoglio.»

«D’accordo, capo.» Glock e T.J. si incamminano verso gli al-beri.

Mi giro verso il dottor Coblentz, in piedi accanto al corpo.«Qualche idea su chi potrebbe essere?»

«Non la riconosco.» Il dottore si toglie i guanti di lana e siinfila quelli di lattice. Sbuffa e si inginocchia.

«Qualche idea su quando potrebbe essere morta?»«È difficile dirlo, con questo freddo.» Le alza un braccio.

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Dei solchi rossi le segnano i polsi, la pelle vicina è rovinata esporca di sangue. «Aveva le mani legate» dice.

Osservo la pelle segnata. Ha lottato violentemente per riu-scire a liberarsi. «Con un cavo metallico?»

«È quello che pensavo.»Lo smalto sulle unghie mi fa capire che non si tratta di una

ragazza amish. Noto che due unghie della mano destra sonospezzate alla radice. Ha combattuto. Mentalmente, mi ap-punto di far prendere dei campioni da sotto le unghie.

«Ha già il rigor mortis» dice il dottore. «È morta da almenootto ore. Agiudicare dai cristalli di ghiaccio sulle mucose, pro-babilmente poco meno di dieci. Quando l’avremo portata inospedale, le prenderò la temperatura interna. Scende di ungrado, un grado e mezzo ogni ora, per cui potrò essere piùpreciso.» Le lascia la mano.

Fa scivolare le dita sulla carne violacea della guancia. «Hail volto livido.» Mi guarda con gli occhiali annebbiati. I suoiocchi sembrano enormi dietro le lenti spesse. «Per caso qual-cuno l’ha spostata?»

Annuisco, ma non gli dico chi. «Cosa mi dice della causadella morte?»

Prende una torcia stilo dalla tasca interna del giaccone, lesolleva una palpebra e punta la luce dritta nell’occhio. «Nes-suna emorragia petecchiale.»

«Quindi non è stata strangolata.»«Esatto.» Con gentilezza, le mette una mano sotto il men-

to e le volta la testa verso sinistra. Le labbra si aprono e vedoche due incisivi sono rotti vicino alla gengiva. Volta la testaverso destra e il taglio alla gola si apre come fosse una boccapiena di sangue.

«Le hanno tagliato la gola» dice il dottore.«Ha idea di che tipo di arma possa aver fatto quel taglio?»«Qualcosa di affilato, senza seghettatura. Non ci sono se-

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gni evidenti di lacerazione. Non aveva la lama ricurva, altri-menti il taglio sarebbe più lungo e meno profondo ai lati. Maè difficile dirlo, con questa luce.» Gentilmente, muove il ca-davere su un fianco.

Il mio sguardo scorre lungo tutto il corpo. La spalla sinistraè coperta dai segni rossi di abrasioni, o forse di bruciature.Stessi segni sulla natica sinistra. Entrambe le ginocchia sonosegnate, come anche la parte superiore dei piedi. La pelle del-le caviglie ha il colore di una melanzana matura. Lì la carnenon è aperta come quella dei polsi, ma senza dubbio i suoi pie-di sono stati legati.

Mi sento sprofondare quando noto altro sangue, subito so-pra l’ombelico. Seminascosto dalle macchie c’è qualcosa cheho già visto. Qualcosa che vedo ancora nei miei incubi. «Co-s’è quello?»

«Mio dio.» La voce del medico trema. «Sembra che abbiaqualcosa inciso sulla pelle.»

«Difficile capire che cos’è.» Ma mentre lo dico sono certache sappiamo entrambi cos’è. Nessuno di noi due lo vuole di-re ad alta voce.

Il dottore si abbassa per guardare meglio, ora la sua fac-cia è a neanche trenta centimetri dalla ferita. «La letteraV.»

«Oppure un cinque scritto in numeri romani» con-cludo.

Mi guarda, e nei suoi occhi vedo lo stesso terrore e la stes-sa incredulità che sento nel mio cuore. «Sono passati sedi-ci anni dall’ultima volta che ho visto una cosa simile» sus-surra.

Osservando l’incisione sporca di sangue fatta sul corpo diquesta ragazza, vengo assalita da un disgusto così profondoda farmi tremare.

Dopo un istante, il dottor Coblentz si sposta indietro.

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Scuotendo la testa, indica il segno sulla natica, le unghierotte e i denti spezzati. «Qualcuno le ha fatto passare uninferno.»

Mi rifiuto di abbandonarmi alla rabbia e alla paura che miassalgono. «Ha subìto violenze sessuali?»

Il cuore mi sobbalza mentre lui punta la sua piccola torciaverso il pube. Vedo del sangue nella parte interna della cosciae mi sento tremare.

«Si direbbe di sì.» Scuote la testa. «Ne saprò di più dopo chel’avremo portata all’obitorio. Se siamo fortunati, quel figlio diputtana ha lasciato qualche traccia del suo DNA.»

Una morsa allo stomaco mi fa pensare che non sarà così sem-plice.

Abbassando lo sguardo sul cadavere, mi chiedo quale mo-stro potrebbe fare una cosa del genere a una ragazza con cosìtanti anni ancora da vivere. Mi chiedo quante vite saranno di-strutte dalla sua morte. Il caffè ora ha un gusto amaro, sullamia lingua. Non ho più freddo. Mi sento profondamente of-fesa e arrabbiata per la brutalità di ciò che ho visto. Peggio an-cora, ho paura.

«Potrebbe sigillarle le mani nella plastica, dottore?»«Certo.»«Quando riuscirà a fare l’autopsia?»Coblentz si rialza facendo forza con le mani sulle ginoc-

chia. «Sposterò qualche appuntamento e la farò oggi stesso.»Rimaniamo fermi nel vento e nel freddo, cercando invano

di non pensare a ciò che questa donna ha dovuto sopportareprima di morire.

«L’ha uccisa da un’altra parte» dico guardando la traccia delsuo corpo. «Non ci sono segni di lotta, e se le avesse tagliato lagola qui ci sarebbe più sangue.»

Il dottore annuisce. «L’emorragia si esaurisce quando il cuo-re smette di battere. Probabilmente era già morta quando l’ha

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lasciata qui. È facile che questo sangue sia solo un residuo fuo-riuscito dal taglio alla gola.»

Penso alle persone che la amavano. I genitori, un marito, i fi-gli. Mi deprimo. «Non è un crimine passionale, questo.»

«La persona che l’ha commesso si è presa il suo tempo.» Losguardo del dottore incrocia il mio. «È stata una cosa preme-ditata. Organizzata.»

So cosa sta pensando, riesco a vederlo nel profondo dei suoiocchi. Lo so perché sto pensando esattamente la stessa cosa.

«Come le altre volte» conclude Coblentz.

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La neve vortica sotto la luce dei fanali mentre svolto conl’auto verso la lunga e stretta strada che ci porterà alla fattoriadegli Stutz. Al mio fianco, T.J. è taciturno. È il mio agente piùgiovane – appena 24 anni – e molto più sensibile di quantovorrebbe ammettere. Non che la sensibilità sia una cosa nega-tiva, in un poliziotto, ma mi rendo conto che trovare quel cor-po l’ha sconvolto.

«Pessimo modo per iniziare una settimana» dico.«E lo dice a me?»Vorrei farlo sfogare, ma non sono mai stata brava a fare con-

versazione. «Senti, sei sicuro di stare bene?»«Io? Certo che sto bene.» Sembra in imbarazzo per la mia

domanda, e turbato dalle immagini che sicuramente gli stan-no ancora girando in testa.

«Vedere una cosa simile...» Gli rivolgo il mio miglior sguar-do ‘da poliziotto a poliziotto’. «Può essere duro.»

«Ho già visto cose schifose. Sono stato il primo ad arrivaresulla scena quando Houseman è andato fuori di testa e ha uc-ciso quella famiglia di Cincinnati.»

Aspetto, sperando che si lasci andare.

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Guarda fuori dal finestrino mentre si strofina i palmi dellemani sui pantaloni della divisa. Con la coda dell’occhio vedoche mi lancia un’occhiata. «Ha mai visto una cosa simile, capo?»

Vuole sapere degli otto anni in cui ho prestato servizio a Co-lumbus. «Niente di così brutto.»

«Le ha spezzato i denti. L’ha violentata. Le ha tagliato la go-la.» Soffia fuori l’aria che ha nei polmoni, come una pentola apressione che rilascia il vapore. «Cazzo.»

Atrentadue anni – non sono poi molto più anziana di T.J.– guardando la sua figura giovanile mi sento un’antichità.«Ti sei comportato bene.»

Continua a osservare fuori dal finestrino, e capisco che nonvuole che io veda l’espressione del suo viso. «Ho incasinato lascena del crimine.»

«Non potevi sapere che avresti trovato un cadavere.»«Le orme sulla neve avrebbero potuto essere di aiuto.»«Potremmo riuscire a trovare qualcosa ugualmente.» È una

visione ottimistica, la mia. «Anch’io ho calpestato quella trac-cia. Capita.»

«Pensa che Stutz sappia qualcosa dell’omicidio?» chiede.Isaac Stutz e la sua famiglia sono amish. Una cultura che

conosco intimamente perché sono nata amish in questa stes-sa città, una vita fa.

Mi sforzo di non lasciare che i miei pregiudizi e le mie con-vinzioni influenzino il mio giudizio. Ma conosco Isaac perso-nalmente, e l’ho sempre considerato una brava persona e unonesto lavoratore. «Non credo abbia niente a che fare conl’omicidio» dico. «Ma qualcuno della sua famiglia potrebbeaver visto qualcosa.»

«Allora lo interroghiamo e basta?»«Io lo interrogo.»La mia precisazione lo fa sorridere. «Giusto» dice.Dopo una curva a sinistra, una fattoria di legno dipinto di

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bianco appare alla nostra vista. Come quasi tutte le fattorieamish della zona, anche questa è semplice ma ben tenuta.Un’inferriata divide il cortile dal pollaio. Vedo un bell’albero diciliegie che darà i suoi frutti in primavera. Più lontano, i contor-ni di un grande capanno per gli attrezzi, di un granaio e di unmulino a vento si stagliano contro il cielo; sta per albeggiare.

Non sono neanche le cinque del mattino, ma le finestre bril-lano già della luce gialla delle lampade. Parcheggio accanto aun calesse e spengo il motore. Il vialetto è stato ripulito dallaneve, e lo percorriamo fino alla porta d’ingresso.

La porta si apre prima ancora che facciamo in tempo a bus-sare. Isaac Stutz è sui quaranta, porta la tradizionale barba de-gli amish sposati e indossa una camicia da lavoro blu e panta-loni scuri tenuti su dalle bretelle. Il suo sguardo si sposta dame a T.J. per poi tornare su di me.

«Mi spiace disturbarla a quest’ora, signor Stutz» esordisco.«Comandante Burkholder.» Abbassa leggermente la testa

mentre fa un passo indietro, aprendo di più la porta. «En-trate.»

Mi pulisco le scarpe sullo zerbino prima di entrare. La ca-sa profuma di caffè e di scrapple fritti, una ricetta tipica degliamish composta da farina di granturco e carne di maiale. Lacucina è poco illuminata, ma è calda. Davanti a noi, una sve-glia e due lanterne sono poggiate su una mensola fatta a ma-no. Più in basso, tre cappelli di paglia sono appesi a ganci dilegno. Guardo oltre Isaac e vedo sua moglie Anna accanto al-la stufa di ferro. Indossa un kappdi organza, il tradizionale co-pricapo amish, e un semplice vestito nero. Mi lancia un’oc-chiata da sopra la spalla. Per un istante ci guardiamo negliocchi, ma lei volta subito lo sguardo. Vent’anni fa giocavamoinsieme, stamattina per lei sono un’estranea.

La comunità amish è molto unita, con delle fondamenta co-struite attorno alla fede, al lavoro e alla famiglia. Anche se l’ot-

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tanta percento dei ragazzi amish quando compie diciott’anni siunisce ufficialmente alla Chiesa, io sono una dei pochi che nonl’ha fatto. Come risultato, sono stata messa sotto bann. Contra-riamente a quello che si crede, evitare chi ha abbandonato la co-munità non è una punizione. Nella maggior parte dei casi è ri-tenuto un tentativo di redenzione. Come l’essere duri con chi siama per cercare di istruirlo, se volete. Ma non mi ha fatto cam-biare idea. Acausa della mia apostasia, molti amish non voglio-no avere niente a che fare con me. Lo accetto perché capisco laloro ideologia culturale, e non li biasimo affatto.

T.J. e io entriamo in casa. Sempre educato, T.J. si toglie il cap-pello.

«Volete caffè, o tè caldo?» chiede Isaac.Darei la mia pistola per una tazza di caffè caldo, ma rifiuto

l’offerta. «Vorrei farle delle domande su una cosa accadutaquesta notte.»

Ci guida verso la cucina. «Venite a sedervi accanto alla stufa.»Il rimbombo dei nostri stivali sul pavimento di legno ci ac-

compagna fino in cucina. Un tavolo rettangolare di legno co-perto da una tovaglia a quadri blu e bianchi riempie gran par-te della stanza. Proprio al centro, si trova una lanterna accesa,la cui luce manda riflessi gialli sulle nostre facce. L’odore delcherosene mi fa tornare in mente la casa in cui sono cresciuta,e per un momento mi sento a mio agio.

Il legno graffia il pavimento quando spostiamo le sedie peraccomodarci. «Questa notte abbiamo ricevuto una chiamataa proposito del suo bestiame» comincio.

«Ah, le mie mucche da latte.» Scuote la testa a voler indica-re la propria colpevolezza, ma dalla sua espressione capiscoche sa che non sono venuta qui alle cinque del mattino a sgri-darlo per qualche mucca disubbidiente. «Stavo giusto lavo-rando a quella recinzione.»

«Non riguarda gli animali» dico.

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Isaac mi guarda, e aspetta.«Abbiamo trovato il corpo di una ragazza nel suo campo,

questa notte.»Dall’altra parte della stanza, Anna sussulta. «Mein gott.»Non la guardo. La mia attenzione è fissa su Isaac. Le sue rea-

zioni, il linguaggio del suo corpo, le espressioni del suo viso.«È morto qualcuno?» Spalanca gli occhi. «Nel mio campo?

Chi?»«Non l’abbiamo ancora identificata.»Intuisco che la sua mente fatica ad accettare quell’informa-

zione. «È stato un incidente? È morta congelata?»«È stata uccisa.»Si abbandona sulla sedia come spinto da una forza invisi-

bile. «Ach! Yammer.»Lancio un’occhiata a sua moglie. Stavolta regge il mio sguar-

do, spaventata. «Qualcuno di voi due ha notato qualcosa distrano, la scorsa notte?» chiedo.

«No» risponde Isaac a nome di entrambi.Mi viene da sorridere. Gli amish sono una comunità pa-

triarcale. I sessi non sono necessariamente considerati impari,ma i loro ruoli sono separati e ben definiti. Di solito non è unacosa che mi dà fastidio, ma questa mattina mi irrita. Le con-venzioni degli amish non si possono applicare in un caso diomicidio, e fa parte del mio lavoro chiarire la cosa. Guardo di-rettamente verso Anna. «Anna?»

Si avvicina, strofinando le sue mani screpolate sul grem-biule. Ha quasi la mia età ed è carina, con dei grandi occhinocciola e una spruzzata di lentiggini sul naso. La semplicitàle dona.

«È un’amish?» chiede parlando il tedesco della Pennsyl-vania, il dialetto degli amish.

Conosco quella lingua perché una volta la parlavo, ma le ri-spondo in inglese. «Non lo sappiamo» le dico. «Hai visto qual-

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che sconosciuto da queste parti? Qualche veicolo o qualchecarrozza che non hai riconosciuto?»

Anna scuote la testa. «Non ho visto niente. Diventa buiomolto presto, in questo periodo dell’anno.»

È vero, gennaio nel nordest dell’Ohio è un mese freddo escuro.

«Puoi chiedere ai vostri figli?»«Ma certo.»«Pensa che il responsabile di un simile peccato possa esse-

re qualcuno del popolo gentile?» La voce di Isaac suona chia-ramente sulla difensiva.

Si riferisce alla comunità amish. Per la maggior parte, so-no una cultura pacifica. Lavoratori, osservanti. Con un altrosenso della famiglia. Ma so che le anomalie esistono. Io, adesempio, sono una di queste.

«Non lo so.» Mi alzo e faccio un cenno col capo a T.J. «Gra-zie a entrambi per averci dedicato del tempo. Conosciamo lastrada.»

Isaac ci segue attraverso il soggiorno e ci apre la porta.Quando sono quasi sotto il portico, mi sussurra: «È tornato,Katie?»

La domanda mi sorprende, ma so che nei prossimi giornila sentirò ancora. È una domanda che non voglio prendere inconsiderazione, ma Isaac ricorda cos’è successo sedici anni fa.Avevo solo quattordici anni, allora, ma lo ricordo anch’io.«Non lo so.»

Ma sto mentendo. So che l’uomo che ha ucciso quella ra-gazza non è lo stesso che ha violentato e ucciso quattro ra-gazze sedici anni fa.

Lo so perché l’ho ucciso.

A est pesanti nubi striate di rosso si agitano all’orizzontementre parcheggio la macchina sul ciglio della strada dietro

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l’auto di servizio di T.J. Il nastro giallo che indica la scena delcrimine fa a pugni con gli alberi, i paletti di legno di robinia eil filo spinato. L’ambulanza se n’è andata, e con lei l’auto deldottor Coblentz. Glock è fermo vicino alla recinzione, a guar-dare il campo come se la neve che ricopre la superficie irrego-lare del terreno nascondesse le risposte che stiamo cercando.

«Va’a casa e fatti una dormita» dico a T.J. Il suo turno iniziaa mezzanotte, e a causa dell’omicidio il sonno sta per diventa-re un lusso per tutti noi.

Spengo il motore. Senza il rumore del riscaldamento l’abi-tacolo si fa immediatamente più silenzioso. Afferra la mani-glia, ma non la apre. «Capo?»

Lo guardo. Ha negli occhi lo sguardo di un bambino pre-occupato che si confida col fratello maggiore. «Voglio pren-derlo, quel tizio.»

«Anch’io.» Apro la mia portiera. «Ti chiamo tra qualcheora.»

Annuisce, e usciamo entrambi dall’auto. Cammino versoGlock, ma continuo a pensare a T.J. Spero che riesca a gestirela situazione. Ho la brutta sensazione che il corpo che ha tro-vato questa mattina non sarà l’ultimo.

Alle mie spalle, sento l’auto di T.J. accendersi e allontanar-si. Glock lancia uno sguardo nella mia direzione. Sembra chenon abbia neanche freddo.

«Niente?» chiedo senza preamboli.«Quasi niente. Abbiamo rimediato la carta di una gomma

da masticare, ma sembrava vecchia. Nella recinzione abbia-mo trovato alcuni capelli impigliati. Probabilmente della ra-gazza.»

Rupert ‘Glock’Maddox ha più o meno la mia età, porta i ca-pelli tagliati corti come fosse un militare e ha in corpo appenail due percento di grasso su un fisico asciutto che farebbe mo-rire d’invidia Arnold Schwarzenegger. L’ho assunto due anni

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fa, concedendogli così l’onore di diventare il primo agenteafroamericano della polizia di Painters Mill. Ex marine, è unottimo tiratore, è cintura marrone di karate e non si fa mette-re i piedi in testa da nessuno, me compresa.

«Trovato qualche impronta?» domando. «Segni di pneu-matici?»

Scuote la testa. «La zona era piuttosto incasinata. Pensavodi prendere qualche calco, ma non promette bene.»

Prendere calchi sulla neve non è facile. Bisogna spruzzarediversi strati di una cera speciale nell’impronta per isolarla, co-sì da evitare la perdita di particolari causata dalla reazioneesotermica del gesso che si usa per prendere il calco.

«Sai come fare?» chiedo.«Devo andare a prendere il materiale nell’ufficio dello sce-

riffo.»«Vai pure. Rimango io fin quando non arriva Skid.» Chuck

‘Skid’Skidmore è l’altro mio agente.«L’ultima volta che l’ho visto era nel bar di McNarie, sdraia-

to su un tavolo da biliardo insieme a una bionda.» Glock sor-ride. «Probabilmente era sbronzo.»

«Probabilmente.» Skid ama la tequila quanto Rupert amala sua Glock. Il momento di spensieratezza dura poco. «Do-po che hai preso i calchi nella zona, prendi quelli di tutte lepersone che sono state qui. Manda tutto al laboratorio del BCIper un’analisi comparativa, e vediamo se salta fuori qual-cosa.»

BCI indica il Bureau of Criminal Investigation. Si trova a Lon-don, un sobborgo di Columbus. È un’organizzazione stataleche fa capo all’ufficio del procuratore generale, ed è equipag-giata con un laboratorio all’avanguardia, accesso ai databasedi tutte le forze dell’ordine e una moltitudine di altre risorsea disposizione dei distaccamenti di polizia locale.

Glock annuisce. «Nient’altro?»

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Sorrido, ma è una cosa innaturale per la mia faccia. «Pen-si di poter spostare la tua vacanza?»

Risponde al mio sorriso, ma sembra teso. Se c’è qualcunoche si merita un po’ di riposo, quello è Glock. Non ha avutoun attimo di pausa da quando è tornato dall’Afghanistan l’an-no scorso. «LaShonda e io non abbiamo programmato nientedi speciale» dice, riferendosi a sua moglie. «Dovevamo soltan-to finire la camera del bambino. Il dottore dice che ormai èquestione di giorni.»

Studiamo la zona in un silenzio che ci sostiene psicologi-camente. Anche se indosso due paia di calze dentro gli anfi-bi, i piedi mi fanno male per il freddo. Mi sento stanca e sco-raggiata, e sopraffatta dagli eventi. Il tempo che scorre pesacome un macigno sulle mie spalle. Ogni poliziotto che valgaqualcosa sa che le prime quarantott’ore dell’indagine su unomicidio sono le più importanti, se si vuole risolverlo.

«Sarà meglio che vada a prendere quel materiale» dice Glockdopo un attimo.

Lo guardo attraversare il fossato, entrare nella sua auto diservizio e allontanarsi. Mi giro nuovamente a osservare ilcampo, dove il vento soffia la neve sulla terra ghiacciata. Dadove mi trovo, posso a malapena vedere la macchia di san-gue della vittima, un cerchio rosso vivo in mezzo a quel bian-co candido. Il nastro giallo ondeggia al vento freddo che ar-riva da nord, i rami degli alberi sbattono gli uni contro gli altriproducendo un rumore che ricorda quello dei denti che bat-tono.

«Chi sei, figlio di puttana?» dico a voce alta. La mia vocefa uno strano effetto nel silenzio che precede l’alba.

L’unica risposta che ottengo è il mormorio del vento attra-verso gli alberi e l’eco della mia voce.

Venti minuti dopo l’agente Chuck ‘Skid’ Skidmore arriva

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sul luogo. Scivola fuori dall’auto di servizio con in mano duecaffè, un’espressione che sembra dire ‘non chiedermi niente’euna ciambella mezza mangiata stretta tra il pollice e l’indice.

«Perché diavolo la gente non può farsi ammazzare quandoci sono venti gradi e c’è il sole?» borbotta, porgendomi uno deicaffè.

«Sarebbe troppo facile.» Prendo il caffè, apro il coperchio elo ragguaglio su ciò che so.

Quando ho finito si guarda intorno, poi guarda me comese si aspettasse di vedermi alzare le mani e dirgli che si trat-ta solo di uno scherzo di cattivo gusto. «Pessima cosa da tro-vare in un posto come questo, nel mezzo della notte.» Beveun sorso di caffè. «Come sta T.J.?»

«Credo che starà bene.»«Gli verranno degli incubi di merda.» Ha gli occhi inietta-

ti di sangue. Mi rendo conto che Glock aveva ragione: è inpieno postsbornia.

«Fatto tardi, stanotte?» chiedo.Ha dello zucchero a velo sul mento. Il suo sorriso è un po’

sbilenco. «Amo la tequila più di quanto lei ami me.»Non è la prima volta che la sento, questa. Nativo di Ann

Arbor, nel Michigan, Skid ha perso il lavoro che aveva pres-so quel distretto di polizia quando è stato beccato fuori ser-vizio a guidare ubriaco. Tutti sanno che beve troppo, ma èun buon poliziotto. Per il suo bene, mi auguro che riesca adarsi una regolata. Ho visto un sacco di vite rovinate dall’al-col, e non vorrei vedere la sua finire in quel mucchio. Il gior-no che l’ho assunto gli ho detto che se l’avessi beccato a berein servizio l’avrei licenziato su due piedi. È stato due anni fa,e fino a ora non ha mai sgarrato.

«Pensa sia lo stesso uomo dell’inizio degli anni Novanta?»chiede. «Com’è che lo chiamavano? Il Macellaio? Quel casonon è mai stato chiuso, no?»

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Sentir pronunciare quel soprannome mi fa accapponarela pelle delle braccia. La polizia locale e l’FBI hanno lavoratoa quel caso per anni, dopo l’ultimo omicidio, ma svanite lepiste e affievolitosi l’interesse della gente, alla fine hanno la-sciato perdere. «Non ha senso» dico senza entrare nel detta-glio. «È difficile spiegare una pausa di sedici anni nella suaattività.»

«A meno che il tipo non sia finito in galera per qualcosad’altro e sia appena stato liberato. Mi è capitata una cosa si-mile quand’ero un novellino.»

Odio questo tipo di domande e questo tipo di supposizio-ni, ma so che nei prossimi giorni ne sentirò molte altre. Alzole spalle. «Potrebbe essere un imitatore.»

Lui arriccia il naso. «Sarebbe strano per una città così pic-cola. Andiamo, quante possibilità ci sono?»

Ha ragione, e proprio per questo non gli rispondo. Formu-lare ipotesi è una cosa pericolosa, quando ne sai più di quel-lo che dovresti. Verso per terra quello che resta del mio caffèe schiaccio il bicchiere. «Tieni d’occhio la zona fino a quandonon torna Rupert, d’accordo?»

«Certo.»«E dagli una mano con i calchi. Io vado in centrale.»M’incammino verso l’auto e immagino già quando l’abita-

colo sarà riscaldato. La faccia e le orecchie mi fanno male, daquanto ho freddo. Ho le dita intorpidite, ma la mia mente nonfa caso al disagio fisico. Non riesco a non pensare a quella ra-gazza, non riesco a non pensare alle incredibili somiglianze traquesto omicidio e quelli di sedici anni fa.

Mentre inserisco la marcia e metto l’auto in strada, qualco-sa dentro di me mi dice che questo assassino non ha ancorafinito.

Il centro di Painters Mill è composto di una strada princi-

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pale – giustamente chiamata Main Street – su cui si affaccianouna dozzina di negozi, metà dei quali vendono souveniramish ai turisti: dalle campane che suonano al vento alle ca-sette per gli uccellini, passando per complicate trapunte fattea mano. Una rotonda rappresenta il limite settentrionale del-la strada, mentre una grande chiesa luterana simboleggia ilconfine meridionale della città. Aest si trovano una scuola su-periore costruita di recente, il promettente centro residenzia-le di Maple Crest e una sfilza di bed & breakfast messa in pie-di nell’ultimo paio d’anni per sfruttare il settore più attivodella città, il turismo. Nella parte ovest della città, subito dopola ferrovia e l’area per le case prefabbricate, ci sono il mattato-io e il suo impianto di smaltimento rifiuti, la merceria per icontadini e un grande magazzino per la conservazione delgrano.

Sin dalla sua costruzione nel 1815, Painters Mill ha sempreavuto più o meno 5.300 abitanti, un terzo dei quali è amish.Ci si conosce tutti, da queste parti, e la maggior parte sa quelche fanno gli altri. È una cittadina sana, un bel posto in cui vi-vere e crescere dei figli. Un bel posto dove essere il capo del-la polizia. Ameno che, ovviamente, non ci sia un brutale omi-cidio da risolvere.

Schiacciata tra la farmacia di Kidwell e la stazione dei pom-pieri, la stazione di polizia è una specie di piccola grotta sca-vata all’interno di un edificio di mattoni rossi vecchio cent’an-ni, che una volta era una sala da ballo. Quando apro la portaed entro nell’atrio ci trovo Mona Kurtz, una delle tre addettealle chiamate. Alza gli occhi dal computer, mi fa un sorriso atrentadue denti e mi saluta con un cenno della mano. «Ehi,capo.»

Ha poco più di vent’anni, con una criniera di lunghi capel-li rossi e una vivacità che farebbe impallidire il coniglietto del-le pile Duracell. Parla talmente veloce che metà di quello che

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dice non riesco neanche a capirlo, cosa non del tutto negativa,visto che di solito mi dà più informazioni del necessario. Male piace il lavoro che fa. Nubile e senza figli, non ha problemia fare il turno di notte e ha una vera passione per il lavoro del-la polizia. Anche se questa passione deriva dal guardare CSI,è stata sufficiente a convincermi ad assumerla, l’anno scorso.Da allora non ha mai saltato un giorno di lavoro.

Quando vedo il blocchetto rosa dei messaggi che tiene inmano e il fervore che ha negli occhi, mi pento di non averaspettato la fine del suo turno prima di tornare qui. Mona mipiace e apprezzo il suo entusiasmo, ma questa mattina non hola pazienza per sopportarla. Non mi fermo e vado dritta ver-so il mio ufficio.

Per nulla scoraggiata, mi viene incontro e mi mette in ma-no una dozzina di messaggi. «Il telefono ha suonato in conti-nuazione. La gente vuole sapere qualcosa sull’omicidio, ca-po. La signora Finkbine vuole sapere se è lo stesso assassinodi sedici anni fa.»

Sospiro in silenzio di fronte alla rapidità con cui corrono levoci qui a Painters Mill. Se le indiscrezioni potessero esseretrasformate in energia elettrica, nessuno avrebbe più bolletteda pagare.

Aggrotta le sopracciglia guardando il messaggio successi-vo. «Phyllis Comb dice che il suo gatto è sparito, e pensa chepotrebbe essere lo stesso tizio.» Mi guarda con i suoi occhinocciola spalancati. «Ricky McBride mi ha detto che la vitti-ma è stata... decapitata. È vero?»

Resisto alla tentazione di strofinarmi gli occhi per la stan-chezza. «No. Mi farebbe piacere se tu stroncassi sul nasceretutte queste voci. Ne gireranno un sacco, nei prossimi giorni.»

«Certamente.»Guardo i foglietti rosa e decido di sfruttare il suo entusia-

smo. «Richiama tutte queste persone. Di’ loro che il diparti-

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mento di polizia di Painters Mill sta investigando senza so-sta, e ci sarà una mia dichiarazione sul prossimo numerodell’Advocate.» The Advocate è il settimanale locale di PaintersMill, diffusione: quattromila copie. «Se ricevi qualche chiama-ta da giornali o tv, di’che manderai un fax con un comunicatostampa questo pomeriggio. Per tutto il resto, no comment.Chiaro?»

Ascolta con attenzione ogni parola, un po’ troppo esaltata,un po’troppo attenta. «Ho capito, capo. No comment. Altro?»

«Gradirei un po’di caffè.»«Ho proprio quello che ci vuole.»M’immagino uno dei suoi intrugli con caffè, salsa di soia e

cioccolato, e mi vengono i brividi. «Solo caffè, Mona. Eun’aspirina, se ce l’hai.» Mi dirigo verso il mio privatissimo uf-ficio.

«Oh. D’accordo. Con il latte e senza zucchero. Ho un anti-dolorifico, va bene lo stesso?»

Una domanda mi salta in mente quando sto per entrare inufficio. Mi fermo e la guardo. «Nei giorni scorsi ci sono statedenunce per la sparizione di una ragazza?»

«Ame non è arrivato nulla.»Ma è ancora presto, so che arriverà. «Controlla con la stra-

dale e con l’ufficio dello sceriffo della contea di Holmes, percortesia. Donna. Bianca. Occhi azzurri. Capelli biondo scuro.Dai quindici ai trent’anni di età.»

«Subito.»Entro in ufficio e mi chiudo la porta alle spalle, ma resi-

sto al desiderio di chiuderla a chiave. È una stanza piccola,con una scrivania di metallo logorata dall’uso, uno scheda-rio arrugginito e un computer che fa più rumore di un ma-cinacaffè. L’unica finestra regala una vista non proprio indi-menticabile sulle auto e i pick-up parcheggiati lungo MainStreet.

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Mi tolgo il giaccone e lo appoggio allo schienale della se-dia, accendo il computer e mentre si avvia apro il cassetto infondo al casellario, scorrendo i vari fascicoli. Litigi domestici,aggressioni, atti di vandalismo. Il tipo di crimini che ci siaspetta in una città come Painters Mill. La pratica che sto cer-cando è l’ultima in fondo. Le mie dita si bloccano, prima ditoccarla. Sono a capo della polizia di Painters Mill da due an-ni ma non sono mai riuscita a guardarci dentro. Stamattina,però, non ho scelta.

La cartelletta è pesante, marrone, con i bordi rovinati e legraffette tutte rotte. Sull’etichetta si legge: DELITTI DELMACELLA-IO, CONTEA DI HOLMES, GENNAIO 1992. Poggio il fascicolo sullascrivania e lo apro.Il mio predecessore, Delbert McCoy, era fis-sato con i dettagli, e si capisce da come teneva gli appunti. C’èun rapporto di polizia battuto a macchina con date, orari e luo-ghi. L’elenco dei testimoni riporta tutti i loro contatti e i relati-vi controlli. Pare proprio che ogni possibile sfaccettatura diquesta indagine sia stata sondata con attenzione. Tranne cheper un singolo incidente che non è stato comunicato alla po-lizia...

Scorro le pagine leggendo le parti più importanti. Sedici an-ni fa un assassino sconvolse le tranquille strade di PaintersMill. Nell’arco di due anni uccise quattro donne con inauditaferocia. Per via del suo modus operandi – il dissanguamento,che è simile a ciò che si fa con il bestiame durante la macella-zione – qualche giornalista in cerca di attenzione lo sopranno-minò il Macellaio, e il nome fece presa.

La prima vittima, la diciassettenne Patty Lynn Thorpe, fuviolentata e uccisa, la sua gola tagliata. Il corpo fu abbandona-to lungo Shady Grove Road, ad appena tre chilometri di di-stanza da dove T.J. ha trovato il corpo stamattina. Sento un bri-vido salirmi lungo la spina dorsale mentre leggo il rapportodell’autopsia.

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Riassunto anatomico:I. Ferita da taglio al collo: sezione trasversale della carotidecomune sinistra.

Salto le note e le procedure, l’esame esterno e tutti gli altridettagli, finché non trovo quello che cerco.

Descrizione della ferita da taglio al collo:La ferita da taglio al collo misura otto centimetri di lunghezza.Detto taglio ha un orientamento trasversale che parte dalla li-nea mediana ed è angolato in direzione del padiglione aurico-lare sinistro. La carotide comune sinistra è recisa trasversal-mente, e sono presenti emorragie sulla superficie esterna dellacarotide stessa nei pressi del taglio. Emorragie e lividi recentisono presenti lungo tutta la superficie del taglio.Parere:Trattasi di ferita da taglio mortale o comunque estremamen-te grave, associata con la recisione della carotide sinistra econseguente emorragia dissanguante.

È incredibilmente simile alla ferita sul corpo scoperto sta-mattina. Continuo a leggere.

Descrizione della ferita da punta secondaria:Una ferita secondaria degna di nota è situata sull’addome, so-pra l’ombelico. La ferita ha forma irregolare, alta 5 centimetrie larga 4 centimetri, con una penetrazione minima di 1,5 cen-timetri. Si notano emorragie recenti lungo l’incisione, che at-traversa la cute e il tessuto sottocutaneo, nonostante la pene-trazione non abbia toccato alcun muscolo. La ferita è statainferta ante mortem.Parere:Si tratta di un’incisione superficiale che non rappresenta alcunpericolo di vita.

Di nuovo, molto simile all’incisione sull’addome della vit-tima trovata stamattina.

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Leggo la nota scritta a mano dal Comandante McCoy infondo al rapporto della polizia.

La ferita all’addome risulta essere la lettera maiuscola I o ilnumero romano I. La ferita sul collo della vittima non è untaglio casuale fatto da un folle omicida, ma un’incisione cal-colata, opera di qualcuno che è consapevole di quello che stafacendo e vuole ottenere un determinato risultato. Il respon-sabile ha usato un coltello a lama non seghettata. L’incisionesull’addome della vittima non è stata resa pubblica.

Aseguire, il rapporto nota che la vittima aveva subito trau-mi vaginali e rettali, ma i campioni mandati al laboratorionon contenevano DNA estraneo.

Scorro velocemente le pagine successive, leggendo soltan-to le note del comandante McCoy.

Nessuna impronta digitale, nessuna traccia di dna, nessun te-stimone. Non c’è molto su cui indagare. Continuiamo a la-vorare al caso seguendo ogni possibile traccia, ma credo chequest’omicidio sia un’azione isolata. Un vagabondo capitatoqui per caso seguendo la ferrovia.

Le ultime parole famose.Quattro mesi dopo, il corpo della sedicenne Loretta Barnett

fu trovato da alcuni pescatori nel fango sulla riva del PaintersCreek. Fu assalita a casa sua, violentata e trasportata in una lo-calità sconosciuta dove le fu tagliata la gola. In seguito fu ac-certato che il suo cadavere era stato gettato nel fiume da unponte coperto a ovest della città.

A quel punto, McCoy chiamò l’FBI per avere assistenza. Ilmedico legale suggerì che l’assassino usasse una pistola elet-trica per avere la meglio sulle vittime. Entrambe le ragazzeavevano subìto traumi ai genitali ma non fu trovata nessunatraccia di DNA.

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