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Atlantide si trovava in Bolivia? Le ricerche di Jim Allen Anche se la questione di Atlantide sembra essere passata di moda, ci sono ancora ricercatori indipendenti che sono alla ricerca di prove della sua esistenza. Tra questi, Jim Allen, le cui ricerche farebbero pensare che la leggendaria città perduta si trovasse in Bolivia. Jim Allens è un ex interprete di fotografie aeree per l’esercito britannico. A suo avviso, l’enorme deserto boliviano di Salar de Uyuni e la vicina montagna di Pampa Auallagas, potrebbero essere il luogo dove una volta sorgeva la perduta città di Atlantide. Analizzando le caratteristiche morfologiche del terreno circostante, Allen ha notato alcune analogie fondamentali tra questa regione e le antiche descrizione greche di Atlantide, in particolare quelle fornite dal filosofo Platone nelle opere “Crizia” e “Timeo”.

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Atlantide si trovava in Bolivia? Le ricerche di Jim AllenAnche se la questione di Atlantide sembra essere passata di moda, ci sono ancora ricercatori indipendenti che sono alla ricerca di prove della sua esistenza. Tra questi, Jim Allen, le cui ricerche farebbero pensare che la leggendaria città perduta si trovasse in Bolivia.

Jim Allens è un ex interprete di fotografie aeree per l’esercito britannico.

A suo avviso, l’enorme deserto boliviano di Salar de Uyuni e la vicina montagna di Pampa Auallagas, potrebbero essere il luogo dove una volta sorgeva la perduta città di Atlantide.

Analizzando le caratteristiche morfologiche del terreno circostante, Allen ha notato alcune analogie fondamentali tra questa regione e le antiche descrizione greche di Atlantide, in particolare quelle fornite dal filosofo Platone nelle opere “Crizia” e “Timeo”.

Allen conclude che l’intero Sud America sia da identificare con il continente di Atlantide, mentre l’omonima città sommersa sarebbe stata situata sull’altura di Pampa Auallagas.

Come spiega l’ex interprete, le caratteristiche del territorio da lui individuato corrispondono molto bene alla descrizione fornita da Platone. Inoltre, alcune leggende locali parlano di un diluvio avvenuto in tempo remoto, durante il quale una grande città è stata sommersa.

Dimensioni

Secondo la descrizione di Platone, il continente di Atlantide era grande quanto il Nord Africa e l’Asia messe insieme. Allen ha spiegato che è più facile immaginare una città-isola

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sommersa dalle acque piuttosto che l’inabbisamento di una grande massa di terra come il continente descritto.

La piana rettangolare

Nella sua descrizione, Platone riporta di una pianura rettangolare posizionata lungo il lato maggiore del continente. Secondo Allen, questa piana è da identificare con il deserto di Salar de Uyuni, in quanto corrisponde in dimensioni a quelle fornite da Platone: “lungo 3.000 stadi e largo 2.000 stadi”. Lo stadio è un’unità di misura in uso presso l’antica Grecia e pari a circa 180 metri.

Il Salar de Uyuni è un enorme deserto di sale che, con i suoi 10.582 km², è la più grande distesa salata del mondo. Secondo le leggende Inca nel deserto vi sono gli Ojos de Salar (occhi del deserto di sale) che inghiottivano le carovane. Si tratta di buchi nella superficie salata dai quali esce l’acqua sottostante che in certe condizioni di luce sono quasi invisibili diventando così pericolosi.

Secondo quanto scrive Platone nel Timeo, la regione interna del continente era costituita da una vastissima pianura delimitata a nord da alte montagne. La pianura, quasi rettangolare, era circondata da un canale perimetrale, largo uno stadio, che consentiva di raccogliere le acque provenienti dalle montagne.

Strisce di terra divise dalle acque

Atlantide è descritta come una serie di strisce di terra circolari separate da mare e collegate da ponti. La parte superiore della Pampa Auallagas mostra segni di anelli di terra e aqua in parte erosi.

Questo per dire che se un tempo il livello delle acque del vicino lago di Poopo erano superiori a quelle odierne, gli anelli della Pampa Auallagas sarebbero stati collegati con il lago da un canale lungo 50 stadi.

Metalli preziosi

Oro, argento, rame, stagno e il misterioso oricalco erano metalli che in Atlantide si trovavano in abbondanza, tanto da poter ricoprire le pereti del tempio e le mura concentriche che circondavano l’Acropoli.

Secondo Allen, tutti questi metalli si trovano nella zona di Pampa Auallagas. Tuttavia, gli archeologi e gli storici non sanno se il leggendario oricalco si riferisse ad un metallo di origine naturale o artificiale. Il termine in seguito è stato ripreso per altri usi. Nella numismatica, l’oricalco è una lega di rame e zinco.

Allen teorizza che l’oricalco facesse riferimento ad una lega naturale rame-oro che si trova nelle Ande, conosciuta localmente come Tumbaga, un metallo molto apprezzato nella regione nel corso della storia, in quanto più duro del rame, pur rimanendo malleabile.

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 Sulle montagne, vicino al mare

Secondo le descrizioni antiche, la città-isola di Atlantide si trovava a circa 8 km dal mare. Tuttavia, allo stesso tempo, la città era posizionata a picco sul mare, circondata da montagne. Allen risolve l’apparente contraddizione facendo notare che la descrizione si adatta bene alla Pampa Auallagas, se si considera il lago salino Poopa come un mare interno. Poopo si trova a circa 8 km da Pampa Auagallas.

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Inoltre, nella regione di Pampa Auagallas vi sono sorgenti naturali di acqua calda e fredda, così come riportato nelle descrizioni di Atlantide.

Leggende boliviane

Secondo la tradizione greca, Atlantide è stata distrutta dal dio Poseidone, signore degli oceani, a causa dell’immoralità raggiunta dai suoi abitanti.

Allo stesso modo, antiche leggende tramandate nella regione di Pampa Auagallas raccontano della degenerazione morale degli abitanti locali e il conseguente diluvio inviato dal dio dell’acqua Tunupa.

Secondo le osservazioni di Allen, la catastrofica alluvione potrebbe essere stata causata dal vicino Lago Titicaca, a nord, dove un gigantesco travaso di acqua è giunto fino a Pampa Auagallas. Allen ha mostrato alcuni segni morfologici ancora visibili che indicherebbero la prova di un’antica inondazione.

Il nome di Atlantide

Prima della conquista spagnola, parte della regione di Pampa Auagallas era chiamata “Antisuyo”, parola che significava “regno del rame”. “Antis”, in lingua quechua, è la parola che indica il rame. Allen fa notare che il suffisso “antis” (Atl – antis) potrebbe risalire direttamente alla cultura antica di Pampa Auagallas.

Un mistero dal passato: la Pietra di Ingá racconta la distruzione di Atlantide?La “Pedra do Ingá” è un monumento archeologico nello stato nordorientale di Paraíba, in Brasile, posto nel mezzo del fiume Ingá. Si tratta di una composizione di pietre di basalto che formano una superficie di circa 250 m² completamente ricoperta di simboli non ancora decifrati. La maggior parte dei glifi sembrano rappresentare animali, frutta, esseri umani, costellazioni e galassie, mentre altri simboli sono del tutto irriconoscibili. Chi ha inciso la Pietra di Ingá? Perchè? Ma, soprattutto, cosa rappresentano quei simboli?

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È un lungo masso orizzontale ricoperto di misteriosi simboli e notevoli formazioni geometriche.

Gli indigeni Tupi che vivevano in questa zona la chiamavano “Itacoatiara”, che nella loro lingua significava semplicemente “la pietra”.

È lunga 26 metri e alta 4 e si trova nel bel mezzo del fiume Ingá, nei pressi dell’omonima cittadina a circa 96 km da João Pessoa, nello stato di Paraíba, a nordest del Brasile.

Il monolite di Ingá è completamente inciso con simboli e figure in bassorilievo che sembrano rappresentare animali, frutta, esseri umani e costellazioni come Orione e galassie come la Via Lattea. Altri simboli, invece, sono del tutto irriconoscibili.

Chi ha scolpito questo antico monolite ? Cosa voleva descrivere o significare? E’ possibile che i glifi incisi sulla roccia rappresentano un’antica lingua terrestre sconosciuta? Nonostante l’interessamento degli archeologi, ad oggi la Pietra di Ingá rimane ancora un enigma. Sono state avanzate molte teorie sull’origine e il significato dei misteriosi simboli, ma finora nessuno studioso è stato in grado di risolvere il mistero di Ingá.

Alcuni studiosi credono che si tratta di antichi simboli sacri scolpiti da antiche culture sudamericane; altri hanno ipotizzato che rappresenti la scrittura utilizzata da una antica

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civiltà sconosciuta che ha abitato la regione; altri, infine, spingendosi in ipotesi più eretiche, propongono addirittura che si tratti di un messaggio in codice lasciato da una civiltà extraterrestre.

In totale, la roccia conta circa 450 glifi. La questione è capire se quanto inciso sul monolite sia un’antica lingua. La maggior parte delle figure, infatti, sembra a prima vista astratta, ma i ricercatori ritengono che la Pietra di Ingá nasconda un antico messaggio cifrato. Il problema principale è che mancano paralleli su cui operare un confronto ed eventualmente tentare una traduzione.

Il ricercatore italo-brasiliano Gabriele D’Annunzio Baraldi, grande studioso di lingue antiche che ha trascorso buona parte della sua vita allo studio della Pietra di Ingá, sostiene che i glifi di Ingá sono simili in forma e dimensione a quelli delle culture mesopotamiche primordiali.

Per di più, a suo parere, la lingua Tupi – Guarani, parlata da molti gruppi etnici sudamericani, sembra avere una lontana origine comune con la lingua ittita, antico popolo indoeuropeo fiorito in Anatolia 3800 anni fa.

Come è possibile che due culture tanto lontane possano aver condiviso la comune origine del linguaggio e della scrittura? Baraldi trova in questa comunanza una prova dell’esistenza di una grande civiltà globale esistita più di 10 mila anni, nota più comunemente con il nome di Atlantide.

D’annunzio Baraldi, ricercatore indipendente e esploratore, è infatti considerato uno degli ultimi grandi atlantologi. Nella sua visione, alcuni gruppi umani originari del mitico

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continente sarebbero sopravvissuti alla catastrofico cataclisma avvenuto nel 9500 a.C., dirigendosi verso est, in Europa, e verso sud-ovest, in Brasile. Baraldi sostiene che i glifi della Pietra di Ingá raccontino proprio della grande catastrofe globale che causo la distruzione della civiltà atlantidea.

Se la tesi di Baraldi è corretta, significa che la Pietra di Ingá rappresenta un messaggio che gli antichi superstiti di Atlantide vollero lasciare ai posteri, come memoria del passato e come monito per il futuro. E ciò significa che non possono essere stati i nativi americani ad incidere i glifi sul monolite.

 La scrittura dell’Isola di Pasqua

A sostegno dell’ipotesi atlantidea ci sarebbe la somiglianza dei glifi della Pietra di Ingá con la scrittura utilizzata dagli antichi abitanti della remota Isola di Pasqua, il Rongorongo. L’Isola di Pasqua (in lingua nativa Rapa Nui, letteralmente “grande isola/roccia”) si trova nell’Oceano Pacifico meridionale.

Si tratta di una scrittura con andamento bustrofedico e che, al momento, è stata solo parzialmente decifrata. L’isola di Pasqua è l’unica nell’area del Sud Pacifico ad aver sviluppato nella propria storia una scrittura propria. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare non si tratta di una scrittura che utilizza geroglifici. La scrittura rongorongo non fu mai decifrata completamente e per molti decenni rimase incompresa.

Fu quindi solo grazie agli studi condotti dal tedesco Thomas Barthel e alla scoperta di una tavoletta che riportava un calendario lunare (oggi conservata nell’archivio dei SS Cuori a Grottaferrata nei pressi di Roma), la cosiddetta tavoletta Mamari, che si poté parzialmente decifrare alcuni simboli. Al momento (2009) in tutto il mondo esistono soltanto 26 tavolette, in buone condizioni ed autentiche al di là di ogni dubbio, scritte in rongorongo.

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Alcuni intravedono una forte somiglianza tra l’alfabeto rongorongo e i simboli della Pietra di Ingá. È possibile che questa somiglianza avvalori l’ipotesi che gli abitanti primordiali del Brasile, della Mesopotamia e dell’Isola di Rapa Nui discendessero tutti da un’unica cultura globale spazzata via da un cataclisma?

La Pietra di Ingá rimane uno dei reperti archeologici più importanti degli ultimi tempi e il suo studio, e la sua eventuale traduzione, potrebbero svelare un passato molto diverso del nostro pianeta, raccontandoci di un tempo in cui i nostri antenati vivevano in un grande villaggio globale chiamato Atlantide.

Teoria degli Antichi Umani: I superstiti di Atlantide che ricostruirono il mondo postdiluviano?Secondo uno studio recente, tra i 12 mila e i 13 mila anni fa, un gigantesco meteorite colpì la Terra causando, con l’impatto, lo spostamento dell’asse terrestre di ben 2000 chilometri, che nulla ha a che fare con la deriva dei continenti. Ne conseguì un vero e proprio cataclisma che sconvolse l’intero pianeta: a violenti terremoti e a terribili eruzioni vulcaniche, fecero seguito piogge torrenziali e l’innalzamento del livello dei mari.

Un evento catastrofico avvenuto circa 13 mila anni fa è stato documentato ormai con certezza dalla scienza.

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Una prova su tutte: in Antartide sono state scoperte intere foreste fossili di betulle, faggi e altri alberi che vivono in zone temperate, cosa che confermerebbe lo spostamento dell’asse di rotazione terrestre.

Questa catastrofe terrestre è ancora oggi ricordata da molte popolazioni, da ben 70 leggende tramandate di generazione in generazione. In esse viene anche ricordata la scomparsa, a causa di questo cataclisma, di un continente chiamato Atlantide, abitato da una civiltà evoluta.

Di Atlantide, situata tra l’Africa e le Americhe, parla con dovizia di particolari anche Platone nei dialoghi Crizia e Timeo. Alcuni ricercatori sostengono che i pochi superstiti di quella civiltà perduta siano riusciti a raggiungere con altri messi le rimanenti terre emerse e a tentare di ricreare dal nulla nuovi insediamenti, valorizzando le esperienze vissute.

La simultaneità dell’avvento dell’agricoltura sul pianeta proverebbe questa teoria. Inoltre, testimoniano a favore di queste univoche realtà tramandate da millenni, anche alcuni reperti, strutture e manufatti in cui si possono trovare somiglianze di stili, di metodi lavorativi, di monumenti e tradizioni, in molti siti disseminati su tutto il globo.

Alcune leggende, ricordano, anche sotto nomi diversi, la figura di Noè con la sua arca, come salvatore dell’umanità dal castigo divino.  Molti punti non chiari esistono ancora nella storia dell’umanità, interrogativi che non hanno avuto ancora una risposta, manufatti che risalgono alla preistoria o monumenti che non ci hanno ancora svelato le loro tecniche di costruzione. Chi insegnò ai peruviani a costruire mura gigantesche come quelle di Cuzco, Machu Picchu o Sacsayhuamán, se non disponevano di attrezzi di metallo? Con quali mezzi trasportarono, innalzarono e fecero combaciare alla perfezione questi massi mastodontici?

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A Tiahuanaco, in Bolivia, nei pressi del Lago Titicaca, a 3850 metri di altezza, si trovano i resti di un’antica civiltà. La porta del Sole della città, scolpita da un unico grande blocco di

roccia pesante 18 tonnellate, è uno dei monumenti più importanti delle civiltà precolombiane.

Non meno importante della porta del Sole è il Grande Idolo, un blocco di arenaria rossa alto 8 metri, che come altri colossi ricoperti di simboli, rivela una buona conoscenza astronomica della sfericità della Terra. A Tiahuanaco è stato trovato un calendario con le posizioni della Luna di ogni giorno, tenendo conto della posizione della Terra Come hanno potuto gli abitanti di questa città, raggiungere una così ampia conoscenza scientifica?

Ovunque si volga lo sguardo sui grandi monumenti del passato, non troviamo una risposta adeguata su come fu possibile realizzare opere che hanno sfidato il tempo per millenni. In tutto il mondo, dal Messico alla Colombia, dal Perù al Cile, dall’Africa al Nord Europa, si ergono opere maestose. Non sappiamo spiegare come siano stata fatte, sia per la loro mole, sia per la complessità delle strutture. Molte di quelle colossali costruzioni, distanti fra loro anche migliaia di chilometri, hanno tra loro una certa attinenza strutturale, ideologica e scientifica.

Lo scrittore Peter Kolosimo, fece una sorprendente comparazione tra la Piramide del Sole messicana e la Grande Piramide di Cheope egizia: la base del monumento messicano ha la stesse misure di quelle di Cheope, 225 metri per 220 e l’altezza di 73 metri, corrisponde alla metà di quest’ultima. Tutto ciò, alimenta l’idea di strette relazioni tra la civiltà americana e quella egizia, concedendo la possibilità di ipotizzare che entrambi le culture discendano da una cultura superiore precedente.

Il “Primo Tempo” degli Egizi

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Presso i romani e i greci, che erano considerevolmente più vicini agli antichi egizi di quanto siamo noi, era normale credere che i faraoni e i loro sacerdoti fossero custodi di precisi documenti riguardanti eventi profondamente significativi avvenuti molto, molto tempo fa.

In realtà, questi documenti furono effettivamente visti e studiati, nella sacra città di Eliopoli, da insigni visitatori quali Erodoto (nel V secolo a.C.), dal legislatore greco Solone (640-560 a.C.) e dal suo seguace Pitagora (VI secolo a.C.). Dai loro resoconti ebbe origine l’opinione che i greci si fecero dell’Egitto, come riferisce Platone:

“Noi greci, in realtà, siamo bambini in confronto a questo popolo che ha tradizioni dieci volte più antiche delle nostre. E mentre nulla delle preziose rimembranze del passato sopravviverebbe a lungo nel nostro paese, l’Egitto ha registrato e conservato per sempre la saggezza dei tempi antichi”.

Nei documenti egizi si parla dello Zep Tepi, un mitico “Primo Tempo” degli dèi, un’epoca remota a cui gli antichi egizi associavano le origini della propria civiltà. Le iscrizioni sul Tempio di Edfu contengono una serie di straordinari riferimenti al “Primo Tempo”, soprattutto ai cosiddetti “Libri della Fondazione”, nei quali si parla dei misteriosi “Seguaci di Horus”, descritti come esseri a volte dall’aspetto divino, a volte umano, identificati come coloro che detengono e preservano la conoscenza nel corso delle varie epoche, come una confraternita elitaria dedita alla trasmissione della sapienza e alla ricerca della resurrezione e della rinascita.

Secondo i testi di Edfu, gli dèi provenivano originariamente da un’isola, la “Terra Nativa degli Esseri primordiali”. Nei testi, si fa chiaro riferimento riguardo al fatto che il cataclisma che distrusse quest’isola fu un’inondazione. Ci dicono che fu di breve durata e che la maggior parte dei suoi “divini abitanti” fu sommersa. Arrivando in Egitto, i pochi che sopravvissero divennero poi

“gli Dèi Costruttori che edificarono nel tempo primordiale, che gettarono i semi per gli dèi e per gli uomini, i Grandi Vecchi che esistevano fin dal principio, che illuminarono questa terra quando vi giunsero insieme”.

Si ritiene che questi esseri straordinari non fossero immortali. Al contrario, compiuta la loro opera morirono e i loro figli ne presero il posto, e riti funebri si svolsero in loro onore. In questo modo, la tradizione dello Zep Tepi poteva rinnovarsi costantemente, trasmettendo alle generazioni future la sapienza proveniente da un’epoca precedente della terra. 

Atlantide: storia o mito?

Tra gli studiosi moderni vige la convinzione che i miti non abbiano valore di prove storiche, convinzione particolarmente diffusa tra gli egittologi. Eppure, in archeologia ci sono molti casi ben noti in cui i miti accantonati come non-storici si rivelarono in seguito estremamente precisi.

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Un esempio riguarda la celebre città di Troia dell’Iliade di Omero. Fino a non molto tempo fa la maggior parte degli studiosi era convinta che Troia fosse una “città mitica”, ossia interamente inventata dalla fertile immaginazione di Omero. Nel 1871, invece, l’avventuriero ed esploratore tedesco Heinrich Schliemann dimostrò che l’opinione ortodossa era sbagliata quando, seguendo gli indizi geografici contenuti nell’Iliade, scoprì Troia nella Turchia occidentale vicino ai Darndanelli.

Schliemann e altri due ricercatori, lo studioso greco Kalokairinos e l’archeologo britannico Sir Arthur Evans, continuarono le proprie indagini esaminando a fondo miti concernenti la grande civiltà minoica che si diceva fosse esistita sull’isola di Creta. Anche questi miti furono accantonati come non storici dall’opinione ortodossa, ma furono rivalutati quando Schliemann e la sua squadra portarono alla luce una cultura estremamente progredita ora identificata con certezza come quella “minoica”.

Analogamente, nel subcontinente indiano, la grande mole di antiche scritture sanscrite conosciute come Rig Veda contiene ripetuti riferimenti a una civiltà elevata che viveva in città fortificate e aveva preceduto le invasioni ariane più di 4 mila anni fa. Anche in questo caso le fonti furono universalmente bollate come “mitiche”, finchè, nel XX secolo, le rovine di grandi città della Valle dell’Indo come Harappa e Moenjodaro incominciarono a essere dissotterrate e si dimostrò che risalivano al 2500 a.C.

In breve, i documenti mostrano che intere città e civiltà che un tempo erano classificate come mitiche (e di conseguenza prive di interesse storico) spesso hanno l’abitudine di materializzarsi improvvisamente dalle nebbie dell’oscurità per diventare realtà storiche. Può essere la stessa cosa sia accaduta anche per Atlantide?

L’insolito metallo trovato in un relitto di 2600 anni fa dimostrerebbe la prova dell’esistenza di Atlantide?È la prima prova tangibile dell'esistenza della mitica civiltà di Atlantide? Un gruppo di archeologi marini a portato alla luce 39 lingotti di un insolito metallo rosso trovati in un relitto adagiato sul fondo del mare al largo delle coste di Gela, Sicilia. Si tratta del mitico “oricalco” prodotto ad Atlantide?

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Trentanove lingotti di un metallo insolito sono stati recuperati da una nave cargo affondata 2600 anni fa al largo della costa meridionale della Sicilia.

Secondo gli esperti, i lingotti probabilmente provenivano dalla Grecia o dall’Asia minore e destinati ai laboratori di Gela, Sicilia.

Evidentemente, la nave è colata a picco poco prima di entrare nel porto, a seguito di una forte tempesta.

“Il relitto risale alla prima metà del 6° secolo”, spiega a Discovery News Sebastiano Tusa, direttore della Soprintendenza per i Beni culturali e ambientali del Mare della regione Sicilia. “La nave si trovava a circa 300 metri dalla costa ad una profondità di circa 3 metri”.

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A catturare l’interesse dei ricercatori sono stati soprattutto gli insoliti lingotti trovati nel relitto. Le analisi hanno rivelato che si tratta di un metallo composto da una lega di rame, zinco e piccole percentuali di nickel, piombo e ferro.

“Non è mai stato trovato nulla di simile in precedenza”, continua Tusa, il quale afferma che potrebbe trattarsi del mitico oricalco, il metallo misterioso che secondo Platone era prodotto ad Atlantide. “Sapevamo dell’oricalco da testi antichi e alcuni oggetti ornamentali”.

L’esistenza, l’origine e la composizione dell’oricalco sono stati oggetto di ampio dibattito da parte dei ricercatori. Secondo quanto scrive Platone, Atlantide risplendeva della “luce rossa dell’oricalco”, il quale aveva un valore secondo solo all’oro. Il filosofo registra che il metallo prodotto ad Atlantide era stato utilizzato per ricoprire le pareti interne, le colonne e i pavimenti del tempio di Poseidone.

Il nome del metallo deriva dalla parola greca “oreikhalkos”, che significa letteralmente “montagna di rame”. Gli antichi greci tramandavano che l’oricalco era stato inventato da Cadmo, un personaggio mitologico greco-fenicio, fondatore e primo re di Tebe.

Nella sua Eneide, Virgilio scrive che la corazza di Turno era composta da “oro e oricalco bianco”, il che ha fatto ipotizzare che si trattasse di una lega di oro e argento. Il metallo è menzionato anche nelle Antichità Giudaiche di Tito Flavio Giuseppe, uno storico di origine ebraica del 1° secolo d.C., secondo il quale la navi che decoravano il Tempio di Salomone erano di oricalco.

Attualmente, alcuni studiosi suggeriscono che l’oricalco poteva essere una lega simile all’ottone, prodotto in antichità tramite un processo di cementazione, ottenuto attraverso la reazione minerale di zinco, carbone e rame metallico in un crogiolo.

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Tuttavia, la scoperta dei lingotti sul fondo del mare siciliano potrebbe svelare finalmente il mistero sull’origine e la composizione di questo enigmatico metallo.