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Classici tascabili

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Titolo originale: Daddy Long LegsIllustrazione di copertina: Edwin RhemrevProgetto grafico e impaginazione: Sansai ZappiniTraduzione e adattamento: Luisa MattiaRedazione: Rossella Carrus, Valentina Tofani

www.giunti.it

©2011 Giunti Editore S.p.A.

Via Bolognese, 165 - 50139 Firenze - Italia

Via Dante, 4 - 20121 Milano - Italia

Prima edizione: settembre 2011

Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato

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Raccontato da Luisa Mattia

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Il primo mercoledì del mese era, da sempre, una giorna-

ta terribile. Una di quelle giornate che aspetti con an-

goscia. Una di quelle giornate che devi affrontare con

coraggio e speri di dimenticare presto.

Ogni millimetro di pavimento doveva essere lucidato a spec-

chio, ogni letto doveva avere le lenzuola tirate e senza una

grinza.

I novantasette orfani dell’istituto dovevano essere ben la-

vati e pettinati. Le raccomandazioni sulle buone maniere si

sprecavano: dite “Sì, signore”, “No, signore” e parlate solo se

vi rivolgono la parola.

Era, l’ho detto, una giornata pesante e la sua organizzazio-

ne stava tutta sulle spalle di Jerusha Abbott, detta J.A., perché

era la più anziana delle ospiti dell’istituto.

Ma anche questo mercoledì finì, per fortuna.

J.A. sgattaiolò dalla dispensa, dove aveva passato ore a

preparare panini, e salì al piano superiore. Entrò in una ca-

merata occupata da undici letti.

Undici letti per undici bambini dai quattro ai sette anni che

l’aspettavano. Li mise in fila, pulì qualche naso, aggiustò la

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piega di qualche grembiule e li accompagnò alla mensa per

la merenda.

Stanca morta, si lasciò poi cadere su una sedia accanto alla

finestra. La testa le scoppiava. Era in piedi dalle cinque del

mattino e si era data da fare senza fermarsi mai. La signora

Lippett, la direttrice, le aveva assegnato un mucchio di in-

carichi e l’aveva perfino sgridata. Sembrava tanto tranquilla

quando riceveva estranei all’istituto, ma con lei sfoderava il

peggio di sé!

Dalla finestra, Jerusha vedeva il prato gelato, le sbarre di

ferro che delimitavano il giardino dell’istituto, le colline, le

ville, gli alberi e il campanile del villaggio, che spuntavano

dalla nebbia.

La giornata era finita e tutto era andato liscio. Il comita-

to d’ispezione e i finanziatori dell’istituto avevano fatto un

giro di controllo, avevano letto relazioni e bevuto tè. Ora se

ne tornavano a casa. Prima di un mese non si sarebbero fatti

rivedere.

Jerusha aprì la finestra per guardare meglio la fila di auto-

mobili che usciva dal cancello. Fantasticò su ogni persona:

com’era la casa in cui viveva? Abitava in collina? Fosse stata

la figlia di qualcuno di loro, avrebbe avuto abiti eleganti e un

autista a cui dire: “Portatemi a casa!”.

Casa. Era una parola che la metteva in difficoltà. Per quan-

to avesse molta immaginazione e tanti grilli per la testa, così

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tanti che, secondo la signora Lippett, un giorno o l’altro si sa-

rebbe messa nei guai… be’, non sapeva come fosse una casa.

A diciassette anni non aveva mai messo piede in un apparta-

mento. In una villa, poi, nemmeno a parlarne!

«Jerusha, ti vuole la Lippett. Spicciati!» Tommy Dillon la

chiamò canticchiando con un tono grave, niente affatto ras-

sicurante.

“Che ho fatto adesso?” si chiese Jerusha. Dopo una giornata

come quella, ci mancava anche una lavata di capo della direttri-

ce. “Qualcuno s’è lamentato dei panini? Hanno trovato gusci di

noce nel dolce? I bambini non erano puliti e pettinati?”

Raggiungendo l’androne, intravide un tipo alto e allampa-

nato. L’uomo fece un cenno all’autista che lo aspettava. L’auto

s’avvicinò con i fari accesi e proiettò l’ombra dello spilungo-

ne sulla parete della sala. Gambe e braccia, esageratamente

allungate dalla luce dei fanali, formarono uno strano disegno

sulla parete: sembrava un grosso ragno in movimento. La

cosa la divertì e con un bel sorriso stampato sulla faccia, J.A.

si presentò alla signora Lippett.

«Siedi pure, Jerusha». La direttrice aveva un’espressione

distesa e, stranamente, la faccia pronta al sorriso. Forse non

aveva rimproveri da farle.

«Hai incontrato un signore, qui fuori?»

«Incontrato direi di no. L’ho visto di schiena».

quellapiccola
Timbro
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«Quel signore è uno dei più grossi finanziatori dell’istituto.

In questi anni il suo aiuto è stato determinante per permet-

terci di andare avanti. Non chiedermi come si chiama perché

non posso dirtelo».

Moriva di curiosità, invece!

«Questo signore,» proseguì la Lippett «si è interessato a

molti ragazzi. Ricordi Charles Benton? Ricordi Henry Freize?».

Se ne ricordava, sì, ma che c’entravano con lei?

«Il signor… sì, insomma, il nostro finanziatore, ha pagato

per loro le spese universitarie. In cambio ha chiesto impegno

e buoni risultati negli studi. Niente altro».

Dove andava a parare il discorso?

«Finora il signor… lui… mi capisci… ha pagato gli studi

esclusivamente a ragazzi».

Dunque…

«Ma oggi abbiamo discusso del tuo avvenire…»

La Lippett fece una lunga pausa. Mentre J.A. friggeva per

l’impazienza, se ne rimase zitta, osservandola. Jerusha la

guardò, interrogativa.

«Hai diciassette anni».

Certo, lo sapeva!

«Normalmente qui da noi gli allievi restano fino ai sedici

anni. Per te abbiamo fatto un’eccezione…»

Sapeva anche questo. E allora?

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«Eri brava a scuola e decidemmo di farti continuare gli stu-

di qui in paese. Adesso stai per diplomarti…»

Cielo, che nervi! Perché non andava al dunque?

«L’istituto non potrà più accoglierti».

Ecco la notizia. La cacciavano…

«In genere, dopo il diploma, cerchiamo un lavoro alle ragazze».

Be’, il lavoro non spaventava certo J.A. All’istituto, in que-

gli anni, oltre che studiare, aveva lavorato duro, occupandosi

dei bambini e delle pulizie delle camerate…

«In genere…»

Le pause della Lippett la facevano imbufalire ma si control-

lò. Cosa aveva da dirle?

«In genere, dicevo. Ma tu, Jerusha, stai concludendo gli

studi in maniera brillante. Hai buoni voti in inglese. La tua

professoressa ci ha letto a voce alta il tuo racconto ‘Il merco-

ledì tragico’».

J.A. avrebbe voluto sprofondare!

«Non ci hai risparmiato critiche…»

Oh, quanto la faceva lunga! Perché non le diceva subito la

punizione che voleva rifilarle?

«Però… hai scritto in modo così brillante e ironico che il si-

gnor… sì, insomma, il tipo che hai intravisto poco fa… si è di-

vertito tantissimo e ha deciso di pagarti gli studi universitari!»

Cosa? Jerusha faticava a pensare lucidamente.

«Vuol dire che andrò al college?»

«Esattamente. La lettura del tuo testo lo ha folgorato,

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evidentemente. Dice che sei un tipo davvero originale e che

vuole aiutarti a diventare una scrittrice».

J.A. quasi cadde dalla sedia.

«Una scrittrice? Ha detto proprio così?»

«Questo è il suo desiderio. Verserà per te un assegno mensile.

Molto generoso. Quasi troppo generoso» sottolineò la Lippett.

Troppo? E cos’era “troppo”? Jerusha non aveva mai avuto

denaro a disposizione.

«Faremo così: durante l’estate rimarrai qui. I soldi per pa-

gare la stanza alla Casa dello Studente e i corsi universitari

verranno mandati direttamente all’amministrazione. Riceve-

rai anche un assegno mensile per le tue spese personali. A

versarti la somma, per i quattro anni del corso di laurea, pen-

serà il segretario di questo signore. A lui, al tuo finanziatore,

dovrai scrivere una lettera al mese».

«Per dirgli come spendo i soldi?»

«No. Per raccontargli la tua vita al college: cosa studi, chi

incontri, come ti trovi. Immagina di scrivere ai tuoi genitori».

Erano morti da un pezzo, i suoi!

«Insomma, fa’ conto che questo signore sia un po’ come un

secondo papà. Indirizzerai le tue lettere al signor John Smith».

Ci sono milioni di John Smith in America!

«Non è il suo vero nome, ovviamente, ma non vuole farti

sapere come si chiama. Dunque, scriverai a John Smith».

Scriverò al Signor Nessuno, va bene, si disse J.A. Ma per-

ché ci tiene tanto?

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«Pensa che scrivere lettere potrebbe essere un ottimo eser-

cizio per migliorare la qualità del tuo modo di raccontare. Ov-

viamente, lui non ti risponderà mai».

Ovviamente?

«Sei tu che devi esercitarti, certo non lui».

Ah, certo! E se avesse avuto bisogno di qualcosa?

«In caso di necessità, se avessi delle richieste concrete,

puoi scrivere al suo segretario».

Aveva pensato a tutto, il Signor Nessuno!

«Le lettere al signor Smith sono un obbligo» sottolineò la

Lippett. «Un compito, un dovere».

J.A. era abituata ai doveri!

«Fai attenzione, comunque, a quel che scrivi e, soprattutto,

a come scrivi. Non essere impertinente o maleducata. Il tuo

modo di raccontare non è sempre apprezzabile…»

Ma se poco fa aveva detto che il Signor Nessuno s’era diver-

tito ad ascoltare quello che scriveva?

«È una raccomandazione che ti faccio io. Il Signor Smith

non me ne ha fatto cenno».

Ah, ecco!

«Ti capita una gran fortuna, Jerusha. Non rovinare questa

occasione…»

«Sì signora, lo so, grazie. Posso andare?»

J.A. non stava nella pelle. Uscì velocemente dalla stanza e,

nell’androne, si mise a saltare e danzare per la gioia.

L’aspettava una vita tutta nuova?

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LE LETTERE DELLA SIGNORINA JERUSHA ABBOTTAL SIGNOR SMITH PAPÀ GAMBALUNGA

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215 Fergussen Hall, 24 settembre

Caro signor John Smith, che mandi una-come-me al college, eccomi.Ieri ho viaggiato per quattro ore, in treno. Per me è stata

la prima volta! La residenza universitaria è così grande che,

quando esco dalla stanza, mi ci perdo!

Proverò a descrivertela ma non adesso, perché sono ancora

troppo confusa.

È sabato sera e i corsi non cominceranno prima di lunedì,

dunque non posso dirti niente sulle lezioni e cose così. Però ti

scrivo lo stesso, così cominciamo a fare conoscenza. Scrivere

a qualcuno che non conosco mi fa un certo effetto. Ma ancora

di più mi fa effetto scrivere una lettera. In vita mia mi sarà

capitato tre o quattro volte e basta! Non so come si comincia e

allora… chiedo scusa in anticipo se quello che scrivo non sarà

come ti aspetti.

Ieri mattina, prima di partire, ho fatto una seria chiacchiera-

ta con la Lippett. Con la signora Lippett, la direttrice. Sai com’è

lei, mi ha spiegato come dovrò comportarmi per il resto della

vita e, in particolare, con te che sei così generoso con me. Se-

condo lei devo essere soprattutto “molto rispettosa!”.

Però, dico io, come faccio a essere rispettosa se neppure

ti conosco e devo chiamarti John Smith, come a dire Signor Nessuno o Signor Unoqualunque? Se avessi scelto un nome

un po’ più personale sarebbe stato meglio.

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Sai che ti ho pensato moltissimo, durante l’estate? Sape-

re che c’è qualcuno che si occupa di me mi fa sentire come

se avessi una specie di famiglia. Mi sembra di appartenere a

qualcuno e la sensazione che provo è molto piacevole.

Ho provato a immaginarti. Ci sono tre cose che so di te.

1. Sei alto2. Sei ricco3. Non puoi soffrire le ragazzePotrei chiamarti Caro-nemico-delle-ragazze, ma non

mi piace, oppure Caro-ricco-sfondato. Ma non mi piace

neppure questo. Tra l’altro, essere ricchi non è mica una

qualità. Piuttosto, è una condizione. E tu, scusa se te lo dico,

potresti anche non restare ricco tutta la vita. Ci sono tante di

quelle persone che vanno in rovina! Però… alto sei alto e così

rimarrai tutta la vita, no?

Ho deciso: ti chiamerò Papà Gambalunga. E Gambalunga, per fare prima. Che te ne pare? Ti piace? È un nomignolo che resterà segre-

to tra noi due. Non lo dirai mica alla Lippett, vero?

Fra due minuti suonerà la campana. Qui mangiamo, stu-

diamo, dormiamo al suono delle campanelle. È divertente.

Ecco che comincia! Spegnete la luce! Buonanotte!Ti prego di notare quanto io sia ligia alle regole. Effetto

dell’educazione ricevuta all’orfanotrofio, eh!

Jerusha-rispettosissima-Abbott

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Le lettere

I ottobre

Caro Gambalunga,il college mi piace un sacco ma più di tutto mi piaci tu

che mi ci hai mandata. Sono così felice ed eccitata, che certe

notti non riesco a prendere sonno. Non puoi immaginare

come il college sia diverso dall’istituto! Che ci fosse un po-

sto come questo non me lo potevo neppure immaginare! E

penso pure che quando eri tu al college… be’, non era certo

così piacevole!

La mia stanza è dentro una torre che, anni fa, veniva usa-

ta come infermeria, pensa un po’! Ci sono altre ragazze: una

è più vecchia di me, porta gli occhiali ed è sempre scocciata

perché dice che noi – le altre, insomma – facciamo troppo

rumore. Poi ci sono due ragazzine. Una è Sallie McBride: ha

i capelli rossi, il naso all’in su e un modo di fare molto sim-

patico. L’altra si chiama Julia Rutledge Pendleton e non s’è

mai degnata di guardarmi, forse perché viene da una famiglia

ricca di New York e pensa che io non valga quanto lei. Le due,

Sallie e Julia, dividono una stanza, mentre io e la “vecchia”

abbiamo camere singole. Di solito non succede che ti diano

una stanza tutta per te, ma a me è andata alla grande! Ma-

gari è merito del tuo segretario: deve aver detto che una tipa

come me, senza genitori e né arte né parte, non poteva stare

nella stanza della signorinaJulia-presuntuosa-Rutledge-Pendleton!

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La mia stanza da sul lato nord-ovest della torre, ha due fi-

nestre e da qui si vede proprio un bel panorama. Sai che stare

da soli, dopo aver dormito tutta la vita in un dormitorio co-

mune, è una gioia? È come se avessi occasione, per la prima

volta, di fare conoscenza con la signorina Jerusha Abbott.

Piacere, Jerusha! Piacere! Credo proprio che stare con J.A. mi piacerà!

A te che sembra?

Martedì

Stanno organizzando una squadra di basket per le iscritte

al primo anno. Spero di essere ammessa anch’io. Sono picco-

la, lo so, però sono anche agile, svelta e forte. Mentre le altre

saltano e zompano qui e là, io mi infilo sotto le loro gambe

e prendo la palla! Quando facciamo allenamento, mi diverto

da pazzi! Qui le ragazze sembrano le più felici del mondo e io

sono la più felice di tutte!Avrei voluto scriverti una lettera lunga lunga per raccontar-

ti tutto quello che sto imparando (la Lippett dice che lo vuoi

sapere) però… sono già le sette e io, tra dieci minuti, devo fare

l’allenamento. Dimmi la verità: anche tu fai il tifo perché io

entri nella squadra, vero?

J.A.

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Le lettere

P.S. (ore 9)Sallie McBride s’è affacciata alla porta proprio adesso:

«Ho nostalgia di casa mia. A te succede?».

Be’, che potevo rispondere? Ho fatto un sorrisetto, ho det-

to che a me non manca e che credo di potercela fare a tirare

avanti, qui al college. La nostalgia è un male che non cono-

sco. Vorrei proprio sapere chi è che prova nostalgia di un or-

fanotrofio!

Tu?

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10 ottobre

Gambalunga caro,hai mai sentito parlare di Michelangelo?

È un artista parecchio famoso, vissuto in Italia nel Cinque-

cento. Non ne sapevo niente, io. Quando ho detto che pen-

savo fosse un arcangelo, si sono messi tutti a ridere. Che c’è

di male, dico io? Mi-che-lan-ge-lo potrebbe essere un nome

perfetto per un arcangelo, ti pare?

Comunque, di questo artista qua io non sapevo un emeri-

to nulla mentre qui al college, non so com’è, tutti pensano

che gli studenti debbano sapere anche le cose che non han-

no mai studiato in vita loro! È imbarazzante. Però ho trovato

un modo per evitare di essere presa in giro. Quando sento

che le ragazze parlano di qualcosa o di qualcuno che non

conosco… be’, non dico niente e poi vado a cercare notizie

sull’enciclopedia!

Però ai corsi faccio la mia bella figura e non sono seconda a nessuno!

T’interessa, per caso, sapere come ho arredato la mia stan-

za? Sì, te lo dico. È tutto giallo e marrone. Le pareti le ho tro-

vate già dipinte di un marroncino color cuoio. Allora ho com-

prato tende gialle, cuscini e una bella scrivania color mogano

(di seconda mano), una sedia e un tappeto marrone con una

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Le lettere

macchia d’inchiostro proprio in mezzo. Ma sulla macchia ci

metto la seggiola, così non si vede.

Le finestre sono molto ma molto alte e non è che ti ci

puoi sedere vicino per guardare fuori, perché con una se-

dia normale non ci arrivi. Pensi che mi sia scoraggiata? Per niente! Ho preso il cassettone, l’ho un po’ imbottito

e l’ho spinto contro la finestra. Basta aprire i cassetti per

usarli come scalini e in un attimo sei alla finestra. Geniale, vero?

Delle mie compagne, qui alla torre, posso dirti che Sallie

è la più divertente e Julia la più noiosa. A Sallie tutto sembra

buffo, perfino quando ti becchi qualche valutazione negati-

va ai corsi. Julia è tutto il contrario: seria e scontrosa, non si

sforza neppure di essere appena un po’ gentile. Crede di esse-

re chissà chi solo perché è una Pendleton! Io e lei siamo nate

per essere nemiche, non c’è niente da fare.

Vuoi sapere cosa ho imparato in questi giorni?

1. Latino: seconda guerra punica. Annibale si è accampato

al lago Trasimeno e ha preparato un’imboscata ai Romani.

Stamattina alle quattro c’è stata una gran battaglia: i Romani

si ritirano!

2. Francese: 24 pagine dei tre Moschettieri + terza coniu-

gazione + verbi irregolari.

3. Geometria: finiti i cilindri, cominciati i coni.

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4. Inglese: studiamo la dizione. Il mio stile migliora

trionfalmente!

5. Fisiologia: siamo al sistema digerente. Per la prossima

volta bile e pancreas.

J.A.-che-sta-diventando-molto-istruita

P.S. Non è che ti piacciono gli alcolici? Fanno parec-chio male al fegato!

MercoledìGambalunga,mi sono cambiata nome e adesso mi faccio chiamare Judy.

Visto che a nessuno è venuto in mente di chiamarmi con un

nomignolo, ho fatto da me. O quasi. Quando ero in istituto,

Freddy Perkins mi chiamava già così.

Comunque, la Lippett dovrebbe fare un po’ più attenzio-

ne quando sceglie i nomi per i bambini dell’orfanotrofio. Sai

come fa per i cognomi? Apre a caso l’elenco del telefono e il

primo che trova te lo affibbia. Per i nomi fa di peggio. Il mio

– Jerusha . Che nome odioso! – l’ha copiato dalla lapide di

una tomba!

Judy mi piace invece perché non mi somiglia. Voglio dire:

immagino che Judy sia una tipa con gli occhi celesti, cocco-

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Le lettere

lata e viziata dalla famiglia, una senza problemi. Insomma,

tutto il contrario di me. Mi piacerebbe essere “una Judy”. Pen-

sarlo mi diverte. Da ora in poi, please, chiamami Judy!

VenerdìGambalunga, sei lì?Notizia: il prof d’inglese dice che il mio tema è originale.

Non lo invento: l’ha detto sul serio! È davvero incredibile, vi-

sto che ho passato anni in un istituto dove il principale obiet-

tivo era – ed è – far scrivere e pensare tutti nello stesso modo!

Credo di aver cominciato a dimostrare la mia originalità il

giorno in cui ho disegnato sulle porte il ritratto della signora

Lippett, vista davanti e vista da dietro!

Ma a te dispiace se parlo male dell’istituto? Forse sì. Be’, se

non ti va a genio, puoi smettere di pagarmi il college. E amici

come prima.

Magari non è gentile da parte mia parlare con tanta fran-

chezza ma… che vuoi aspettarti da un’orfana cresciuta in col-

legio, se non un po’ di maleducazione?

Non è lo studio che mi mette di cattivo umore ma “tutto-

il-resto”. Per esempio, le mie compagne. Parlano di cose

che io non ho vissuto. Mi sento un’aliena. È una sensazione

bruttissima, che ho da tutta la vita. Anche alla scuola supe-

riore, mi succedeva. Non stavo insieme alle altre perché mi

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guardavano strano e io mi sentivo come se avessi scritto in

faccia: orfana dell’Istituto Grier. Ogni tanto qualcuna cer-

cava di essere gentile e provava a fare due chiacchiere. Ma io

le odiavo tutte, soprattutto quelle gentili!

Qui, per fortuna, nessuno sa che vengo dall’orfanotrofio. A

Sallie ho raccontato una quasi-verità: che non ho né padre né

madre e che un vecchio signore, molto generoso, mi paga l’uni-

versità. Punto. Voglio essere uguale a tutte le altre. La differen-

za tra me e loro è che io sono cresciuta in istituto. Sento che se

riuscissi a dimenticarmene potrei perfino diventare simpatica!

E già piaccio a Sallie McBride!

Judy (Jerusha, una volta)

Sabato mattinaHo riletto questa lettera e la trovo ben poco spassosa. Ma

come faccio a essere divertente se ho da fare geometria e ho

pure il raffreddore?

DomenicaAggiungo due righe. Arrabbiatissime. È venuto il vescovo

e ha fatto un discorso. Indovina un po’?

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Le lettere

“La miglior promessa della Bibbia è questa: abbiate sem-

pre i poveri accanto a voi. Essi sono su questa terra per man-

tenerci generosi”.

Ti rendi conto? I poveri, secondo lui, sono una specie di

animale domestico! Molto utile, s’intende! Avrei voluto an-

dargli incontro e dirgli tutto il male che pensavo di lui!

Tranquillo, Gambalunga. Non l’ho fatto.

quellapiccola
Timbro