Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

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Copyright © 2003 Meltemi editore srl, Roma Traduzione di Giacomo Festi È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata. Meltemi editore via dell’Olmata, 30 – 00184 Roma tel. 06 4741063 – fax 06 4741407 [email protected] www.meltemieditore.it

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Copyright © 2003 Meltemi editore srl, Roma

Traduzione di Giacomo Festi

È vietata la riproduzione, anche parziale,con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,

anche a uso interno o didattico, non autorizzata.

Meltemi editorevia dell’Olmata, 30 – 00184 Romatel. 06 4741063 – fax 06 4741407

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Manar Hammad

Leggere lo spazio,comprendere l’architettura

MELTEMI

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Indice

p. 9 Prefazione

11 IntroduzioneLo spazio come semiotica sincretica

Parte primaAltrove

19 Capitolo primoLa semiosi essenzialista in architettura. L’Italia e il Giappone nel XVI secolo

19 1.1. Introduzione20 1.2. Due periodi fondatori42 1.3. Conclusioni

47 Capitolo secondoL’architettura del tè

47 2.1. Cornice concettuale49 2.2. Il Giappone, il tè, l’architettura50 2.3. Il corpus52 2.4. Un chaji estivo56 2.5. Il superamento condizionale e la suddivisione dello spazio57 2.6. Carico semantico degli spazi70 2.7. L’investimento polare degli spazi82 2.8. Dinamica globale91 2.9. Incursione estetica: il tèismo95 2.10. Conclusioni provvisorie

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101 Capitolo terzoL’espressione spaziale dell’enunciazione

101 3.0. Osservazioni preliminari102 3.1. Descrizione della sequenza105 3.2. La formazione dell’enunciato sincretico134 3.3. Operazioni enunciazionali immanenti146 3.4. L’enunciazione “trascendente”157 3.5. Conclusioni

159 Capitolo quartoGiardino-Cielo, Giardino-Terra, Giardino-Altrove

159 4.1. Osservazioni preliminari160 4.2. Il giardino arabo-islamico: Giardino = Jannat = Paradiso163 4.3. Il giardino sino-giapponese166 4.4. Conclusioni

Parte secondaQui

171 Capitolo quintoLo spazio del seminario

171 5.1. Introduzione172 5.2. Studio dell’espressione188 5.3. Studio del contenuto200 5.4. Tentativo di correlazione dell’espressione e del contenuto207 5.5. Conclusione

209 Capitolo sestoLa promessa del vetro

217 Capitolo settimoLa privatizzazione dello spazio

217 7.1. Osservazioni preliminari219 7.2. Il contesto sperimentale di una ricerca-azione220 7.3. Negoziazioni territoriali229 7.4. Prima analisi sintattica236 7.5. Il rituale come modello sociale240 7.6. I presupposti sintattici del lessema privato254 7.7. Il controllo dell’accesso o la privatizzazione dei luoghi266 7.8. Le conseguenze dell’accesso e il dono simbolico275 7.9. L’organizzazione paradigmatica dello spazio privatizzato289 7.10. Per un modello più generale di privatizzazione300 7.11. A mo’ di conclusione

INDICE

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Parte terzaDappertutto

311 Capitolo ottavoL’enunciazione, processo e sistema

311 8.1. Programma311 8.2. Cornice preliminare313 8.3. Ipotesi316 8.4. Campi coinvolti da queste ipotesi317 8.5. Conseguenze derivanti da queste ipotesi324 8.6. Valutazione delle ipotesi e delle loro conseguenze

327 ConclusioniSemiotica, spazio e architettura

332 Bibliografia

INDICE

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Prefazione all’edizione italiana

Nei primi mesi del 1998, mi impegnai ad organizzare unsimposio “divulgativo” sull’antropologia del linguaggio con-temporanea in occasione dell’incontro annuale dell’AmericanAnthropological Association, che si sarebbe svolto nel dicem-bre di quello stesso anno a Philadelphia. Il simposio avrebbefatto parte di una serie intesa a informare i membri dell’asso-ciazione sulla ricerca contemporanea nelle varie sottodiscipli-ne dell’antropologia americana, compresa l’antropologia dellinguaggio.

Pensai che il miglior modo di raggiungere questo obiettivofosse invitare quanti più colleghi possibile a parlare di uno de-gli argomenti di cui erano esperti. Sulle prime non mi resiconto che il numero di persone contattate (la maggior partedelle quali accettarono l’invito) era talmente cresciuto chenon sarebbe stato possibile dare ad ognuno i soliti quindiciminuti per presentare la loro relazione. Per evitare di dover ri-durre il numero dei partecipanti, decisi che la cosa migliorefosse limitare le presentazioni a sette minuti ciascuna. È daquesto limite arbitrario di tempo che nacque l’idea di articolistrutturati come “voci” di un lessico, che non dovessero supe-rare le mille parole. Il risultato fu una serie molto originale dipresentazioni che assorbì l’attenzione dei partecipanti all’in-contro per quattro ore. Visto il successo del simposio, decisinon solo che bisognava pubblicarne gli atti, ma che avrei po-tuto aumentare il numero delle voci invitando altri autori.Molti risposero con entusiasmo, e quindi cominciai a pensaredove si potesse pubblicare una simile raccolta. La mia primaidea fu di fare una proposta all’allora Editor del Journal ofLinguistic Anthropology (JLA), Judith Irvine, che si dimostrò

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subito entusiasta. Grazie al lavoro di varie persone, fra cui treottimi assistenti editoriali (Vincent Barletta, Adrienne Lo eSarah Meacham), la raccolta di saggi uscì col titolo LanguageMatters in Anthropology: A Lexicon for the Millennium (JLA,vol. 9, 1-2).

Nel frattempo, avendo stabilito un ottimo rapporto di la-voro con Jane Huber presso la casa editrice Blackwell, le pro-posi di ripubblicare il numero speciale della rivista come unlibro a sé stante che potesse essere usato da colleghi e studentiinteressati a saperne di più sui concetti fondamentali dellostudio del linguaggio da un punto di vista antropologico. Janene fu subito entusiasta, e si concluse un accordo con l’Ameri-can Anthropological Association detentrice dei diritti sul te-sto. Dopo l’uscita del Lexicon sul JLA, feci alcune correzioniper la nuova edizione e aggiunsi un indice analitico preparatoda Tracy Rone. La versione pubblicata da Blackwell uscì conun nuovo titolo: Key Terms in Language and Culture.

Ora, grazie all’interesse ed entusiasmo di Luisa Capelli eMarco Della Lena della casa editrice Meltemi, la raccolta disaggi esce in italiano, con l’ottima traduzione di Antonio Perri(coadiuvato da Sonia Di Loreto e da Aurora Donzelli che harivisto l’ultima stesura) e una illuminante postfazione di PaoloFabbri che contestualizza questo lessico rispetto a lavori affiniin campo semiotico.

Dal mio punto di vista, questa raccolta rappresenta untentativo collettivo di sintetizzare un approccio o, per me-glio dire, una gamma di approcci allo studio della lingua edel linguaggio che si rifanno alla tradizione antropologicastabilita da Franz Boas alla fine del secolo diciannovesimo eal tempo stesso si inoltrano in sentieri intellettuali ancorapotenzialmente pieni di sorprese. È quindi con il senso delpiacere della scoperta che offro ai lettori italiani il risultatodi quest’impresa collettiva, che spero possa ravvivare vecchiinteressi abbandonati o suscitare collegamenti con idee nuo-ve e inaspettate.

Alessandro Duranti

Pacific Palisades, California, luglio 2001

12 ALESSANDRO DURANTI

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Prefazione

I testi riuniti in questa raccolta appaiono per la primavolta insieme. Ambiscono a costruire, al di là dei risultatiraggiunti per ogni singolo caso esaminato, una visione uni-ficata dello spazio, dell’architettura e del senso. Pur nellaloro relativa autonomia, possono suggerire al lettore effettidi senso nuovi che oltrepassano le previsioni dell’autore.Se ciò avverrà, sarà il segno della loro riuscita euristica. Aogni modo, queste poche righe introduttive si propongonodi abbozzare il punto di vista a partire dal quale le loroproblematiche interrogano l’architettura.

Al centro delle questioni poste è lo spazio umano. For-mulata a intervalli irregolari, la sua concezione ha cambiatoforma nel corso della storia. D’Alembert ci dà, verso la finedel diciottesimo secolo, la prima definizione matematicache sbarazza lo spazio da ogni materialità: esso non saràpiù che un insieme di relazioni posizionali. Fréchet genera-lizza questa definizione all’inizio del ventesimo secolo. Nelmondo sensibile si ha a che fare con uno spazio a tre di-mensioni, quadro dell’azione umana per la quale si disegnaun ambiente da edificare. I muri, i pilastri, le coperture e leaperture non hanno interesse se non per dare forma allospazio immateriale che le attraversa e le accoglie al contem-po. Proprio di questo spazio invisibile l’uomo ha bisognoper sviluppare la sua azione, ed è questo oggetto immate-riale che bisogna qualificare quando si fanno opere archi-tettoniche. Gli ingegneri si occupano di materia, gli archi-tetti, di fatto, dello spazio che si modella dando forma eposizione alle materie.

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Le questioni affrontate in questa raccolta sono quelledel nostro rapporto con lo spazio, rapporto concepito co-me dominato dalla dimensione del senso. Non tanto unsenso individuale e idiosincratico, ma un senso cultural-mente determinato, inscritto in un quadro storico e geo-grafico. In altri termini, questa ricerca intende raggiungere,attraverso la percezione, il livello del senso fornito allo spa-zio e alle cose da comunità organizzate che inscrivono, tan-to nella materia quanto nello spazio immateriale, le lorostrutture sociali da un lato e i valori astratti, gerarchizzati,opposti e articolati, che danno forma al loro universo men-tale, dall’altro.

C’è una forte dimensione antropologica all’interno diuna simile impresa. Partendo dal senso inscritto nell’archi-tettura e nello spazio, essa cerca di raggiungere certi recessidelle strutture profonde della società (dimensione colletti-va) e dell’intelligenza umana (dimensione individuale), neiloro stati di equilibrio culturalmente determinati. Al di sot-to della variazione culturale, ci sono meccanismi universaliche possono essere reperiti. Nel momento in cui diventanoidentificabili, essi riguardano della dimensione del senso.

Non si può prevedere la fine di una simile ricerca. Essanon può che proseguire nello studio delle varianti e delletrasformazioni. L’esplorazione della relazione dell’uomocon lo spazio invisibile conduce immancabilmente versol’esame della sua relazione con un invisibile più radicale,quello del sacro e delle divinità che presuppone. Luogo dacui procede l’estensione recente dei miei lavori nel domi-nio dell’architettura religiosa, con la stessa domanda lanci-nante: rendere conto e cercare di comprendere.

Bologna, 3 febbraio 2003

MANAR HAMMAD

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Capitolo primoLa semiosi essenzialista in architettura. L’Italia e ilGiappone nel XVI secolo1

1.1. Introduzione

La costruzione di una semiotica dell’architettura non èstata intrapresa in modo scientifico se non quando i ricerca-tori hanno rinunciato a considerare il significante “architet-tura” in maniera isolata e l’hanno reinserito in un insieme si-gnificante più vasto che include lo spazio, gli oggetti e gliuomini. Così facendo, è stata edificata una semiotica sincreti-ca, più sovente designata dal termine “semiotica dello spa-zio”, in cui l’architettura appare come un sottoinsieme dota-to di proprietà particolari. Dal punto di vista delle disciplinetradizionali, l’insieme significante così costruito appare emi-nentemente eterogeneo, e non trova la sua unità, e perfino lasua identità, se non nei caratteri strutturali del livello di si-gnificato: la semiotica dello spazio si costituisce a partire dalsignificato, e il significante si caratterizza solo a posteriori.

Di conseguenza, sembrerà paradossale parlare di unatale semiotica in un congresso consacrato al significante.Ma il paradosso si risolve senza difficoltà: se la semioticaarchitettonica attuale si costruisce così è perché ci sono sta-te, in passato, semiotiche implicite dai differenti meccani-smi di base. In particolare, la tradizione della storia dell’ar-chitettura privilegia certe epoche storiche dove il signifi-cante appare preponderante. Si potrebbe allora chiedersise si tratti di un fenomeno strutturale o di un artefatto.

Il semiologo che esamina la storia dell’architettura vi ri-conosce segmenti che assomigliano molto a ciò che l’antro-pologia chiama “miti fondatori”2: si parla di epoche che

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hanno rifatto o rivoluzionato l’architettura. In generale,queste epoche sono all’origine di uno “stile”. Il Rinasci-mento italiano è così considerato come periodo fondatoreper la successiva architettura europea. In Giappone, l’ar-chitettura del tè è posta come fondatrice dello stile sukiya.I due periodi in causa sono quasi contemporanei: a cavallotra il XV e il XVI secolo.

La coincidenza storica e la similitudine dei ruoli attri-buiti a questi due periodi ci invitano a porci alcune do-mande:

i) è possibile riconoscere un meccanismo strutturale(semiotico) comune a questi due periodi fondatori? E qua-le sarà?

ii) È possibile generalizzare gli elementi comuni in mo-do da caratterizzare qualsivoglia periodo “fondatore”?

iii) Il meccanismo scoperto, infine, è necessario, suffi-ciente, o necessario e sufficiente?

1.2. Due periodi fondatori

Considereremo nelle pagine successive il caso dell’ar-chitettura del tè e del Rinascimento, esamineremo i rispet-tivi meccanismi semiotici, e li compareremo al fine di trar-ne conclusioni di carattere generale.

1.2.1. L’architettura del tèCi sono due accezioni dell’espressione “architettura del

tè”: un’accezione stretta, secondo cui questo termine si ap-plica solo ai padiglioni e ai giardini destinati a compiere lacerimonia del tè, e un’accezione estesa, derivata dalla pri-ma, che designa qualsiasi edificio che abbia adottato lo sti-le e i principi elaborati per i padiglioni del tè, pur restandoun edificio destinato ad accogliere una vita normale e ordi-naria. Queste due accezioni sono legate e per analizzare laseconda bisogna passare attraverso la prima.

Ci interesseremo allora allo stile sukiya quale conti-nua a essere praticato oggi (cfr. Itoh 1972). Deriva da in-

MANAR HAMMAD

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segnamenti e pratiche di alcuni uomini vissuti a cavallotra il XV e il XVI secolo, tra i quali citeremo Takeno Jo-o,Sen no Rikyu, Kobori Enshu. L’impresa fu collettiva e irisultati appaiono, col passare del tempo, relativamenteomogenei.

1.2.1.1. Qualità esteticheL’architettura del tè è riconosciuta come “bella” sia in

Occidente sia nel suo paese d’origine. Senza voler entrarenell’analisi di ciò che costituisce questa bellezza, né in unadiscussione relativa all’identità o alla differenza degli ele-menti di bellezza riconosciuti qui e là, ci soffermeremo sul-la constatazione estetica che è formulata sempre a proposi-to del significante architettonico. Infatti il riconoscimentodi questa bellezza non dipende dall’uso degli edifici consi-derati: che siano dimore, templi o padiglioni secondari nonha alcuna importanza. Per lo meno, è ciò che spicca all’e-same del discorso tradizionale che li concerne.

Il secondo carattere pregnante di quest’architettura è lasua povertà, anche se solo apparente. I muri sono nudi, ese il battuto di cui sono fatti non appare sempre, il solo ele-mento presente aggiunto è un gesso bianco liscio. I legnisono lasciati nudi, mai verniciati né dipinti, in modo da po-ter esibire i segni dell’età e delle intemperie. A parte il bat-tuto e il gesso (e qualche volta le tegole), tutti i materialiutilizzati sono di origine vegetale.

L’effetto generale che ne risulta è un’architettura poverama molto curata: l’accento è messo maggiormente sul lavo-ro che sui materiali. Lasceremo da parte per il momento laquestione della rarità di certi materiali – e del loro costo ef-fettivo – utilizzati per edifici particolari, dato che non sitratta di una condizione necessaria ed è presente solo in al-cuni casi.

Infine, quest’architettura è ordinariamente visitata efotografata vuota. Non che essa resti perennemente tale,ma generalmente vi si porta solo ciò che serve all’attivitàin corso, per togliere tutti gli oggetti non appena si è ter-minato di servirsene. Si presuppone una costante attività

LA SEMIOSI ESSENZIALISTA IN ARCHITETTURA

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di trasporto e di disposizione degli oggetti, con spazi didisposizione adeguati. Quando è aperta alle visite, que-st’architettura non ospita altre attività, ovvero rimane vuo-ta. Questa vacuità, sorprendente per degli europei abitua-ti all’ammassarsi degli oggetti negli interni che gli sono fa-miliari, non è estranea all’effetto estetico e all’impressionedi povertà.

La vacuità è responsabile di un altro fenomeno, di mag-giore importanza per il semiologo: l’assenza di tracce diutilizzazione rende l’architettura praticamente illeggibile.

1.2.1.2. L’attività, l’ordine, il sensoLa significazione di una tale architettura sfugge completa-

mente all’osservatore straniero. Messo da parte il riconosci-mento degli elementi costruttivi come muri, pali, coperture,porte e finestre (e ancora: queste due ultime categorie pongo-no certamente problemi alla comprensione dell’europeo nonprevenuto), l’architettura giapponese oppone un’illeggibilitàquasi totale. Gli architetti occidentali che vi si sono interessa-ti nel XIX come nel XX secolo si sono scontrati con un univer-so sfuggente che rimaneva inaccessibile. Abituati a riconosce-re un uso (una funzione, nel linguaggio corrente) per ogniluogo, erano persi di fronte a spazi che non erano connessi afunzioni stabili: a seconda dell’ora o della circostanza, neglistessi luoghi si mangia, si dorme, si ricevono visite. Da qui lostereotipo che compara l’architettura giapponese a una scenadi teatro: un palco su cui poter fare di tutto.

Detto questo, è detto nulla, e soprattutto non si rendequesta architettura più comprensibile. La chiave dell’inter-pretazione risiede in un’osservazione di tipo antropologicoche permette di notare chi fa cosa, quando, dove, con checosa, in presenza di chi, ecc., per poi organizzare questimateriali in catene significanti dotate di programmi di fare edi trasformazioni di stato: insomma, è necessario fare unasemiotica dello spazio.

Nel caso particolare della cerimonia del tè e della suaarchitettura specifica, la situazione è esemplare, nella misu-ra in cui lo spazio non prende senso che a partire dagli atti

MANAR HAMMAD

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realizzati dal padrone di casa e dai suoi invitati. Senza en-trare nel dettaglio di un’analisi di cui abbiamo pubblicatoaltrove gli elementi (infra, capitoli secondo e terzo; cfr.inoltre Hammad 1987), ci accontenteremo di dire che l’ar-chitettura del tè impone un ordine aspettuale all’insieme si-gnificante.

Quest’ordine si manifesta nello spazio tramite l’obbligodi rispettare posizioni relative destra-sinistra e/o davanti-dietro, capaci di organizzare lo spazio degli uomini e dellecose, determinando così delle gerarchie. Simultaneamente,questo posizionamento impone l’ordine dell’accesso all’a-zione, cioè l’ordine temporale d’intervento degli uomini edelle cose, ordine che si manifesta attraverso relazioni disuccessione, sospensione (interruzione, inserimento), sim-metrizzazione (a un certo atto iniziale corrisponde un pre-ciso atto terminale).

Di conseguenza, appare chiaro che il senso è legato auna sintagmatica (temporale e spaziale) del significante, sin-tagmatica posta direttamente in relazione con una sintassidel significato. A partire da questa chiave sovra-determi-nante, è possibile avvicinare il senso degli elementi sotto-determinati: qualche sorpresa ci attenderà.

1.2.1.3. La forma, la materia, il sensoPer preparare il tè, ci vuole un pentolino sul fuoco che

contenga l’acqua. La forma di questo pentolino è roton-da, poiché la forma dell’acqua è rotonda. Funziona allostesso modo per tutti i recipienti destinati a contenere ac-qua. Non è tutto: nella “sala dell’acqua”, non è rotondasolamente la giara contenente l’acqua fresca, ma anche ilbraciere incastrato nel suolo destinato alla cottura ali-mentare, per la ragione essenziale che siamo nella saladell’acqua. Viceversa, il braciere incastrato al suolo nellasala del tè ha una forma quadrata, poiché la forma dellaterra è quadrata. Se il braciere non è incastrato, ma ap-poggiato al suolo, ha tre piedi, visto che il triangolo è laforma del fuoco, e i tre piedi riposeranno su di un’assequadrata, forma della terra.

LA SEMIOSI ESSENZIALISTA IN ARCHITETTURA

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Ogni padiglione del tè, costruito in terra e appoggiatosulla terra, ha una forma quadrata o rettangolare: non esi-ste un’architettura circolare nel Giappone antico3.

Si potrebbe proseguire lungamente nell’inventario delleforme di oggetti e utensili: si conformano tutti alla naturadi ciò che li sovradetermina, sia esso il loro contenuto o illoro contenente. Diciamo di più: certi oggetti assicurano,per la loro forma, la transizione tra due “nature”: il bracie-re non incastrato possiede tre piedi per il fuoco ma è ro-tondo nella sua parte alta poiché riceve il pentolino dell’ac-qua, rotondo; il braciere incastrato è quadrato in quantoinscritto al suolo, anche se il supporto metallico che attra-versa le braci possiede tre elementi verticali – triangolo delfuoco – su cui si trova il pentolino.

In ogni caso, non si tratta di “simbolizzare” un elemen-to attraverso una forma. Sarebbe un errore fondamentalequello di interpretare così le cose. Nella visione del mondomessa in gioco, gli elementi possiedono una forma e sonotanto più se stessi quanto più rispettano questa forma. Nonrispettarla – sempre possibile umanamente parlando – con-durrebbe a snaturare l’elemento in questione, e a indebo-lirne le virtù.

1.2.1.4. KororoA lato della terra, dell’acqua e del fuoco, l’architettura

del tè mette in opera due altri elementi, il metallo e il legno,dato che il pensiero orientale riconosce cinque “elementi” enon quattro come vuole la tradizione greca. Tutti gli utensilie le loro parti costruttive vengono rapportati a questa gri-glia di lettura e ai rapporti di “generazione” e/o di “distru-zione” che gli elementi intrattengono tra loro. A partire daquesto, tenendo conto delle procedure di trasformazione edi attivazione in cui transitano, gli oggetti sono “valutati” epoi sistemati gerarchicamente gli uni in funzione degli altri.A titolo d’esempio, nessun sottopentola (Futaoki) in legno oin bambù potrà essere piazzato su un piano laccato: per an-dare sopra la lacca, ci vuole come minimo una lacca, una ce-ramica o un bronzo.

MANAR HAMMAD

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Dal modo in cui gli oggetti sono manipolati, l’osserva-tore può intendere il loro statuto e il loro rango. A partiredal loro posizionamento nello spazio e dalla sequenza d’a-zione, possiamo leggere le stesse cose. La persona che com-pie la cerimonia non manipola un oggetto se non in funzio-ne della sua “natura”. Di conseguenza, eviterà di servirsi dioggetti che non conosce, per il timore di far male e di con-trobilanciare le forze interne delle cose, rovinando così tut-to l’edificio cerimoniale che mira all’armonia e alla tran-quillità, ricreando nello spazio ristretto e organizzato delpadiglione del tè un universo in cui tutte le componenti so-no in perfetto accordo tra di loro e con il cosmo.

Questa natura delle cose, la loro essenza come si direbbein termini occidentali, è denominata Kororo in Giappone.La traduzione letterale sarebbe cuore, anima. Consideratada un punto di vista semiotico, questa natura delle coseequivale a ciò che noi chiameremmo il senso. È proprioquesto, infatti, che interagisce nelle relazioni e nelle trasfor-mazioni con le persone all’interno delle catene significativeanalizzate a livello di significato. In altre parole: questo sen-so risiede nelle cose e ne costituisce l’essenza. Saremmo ten-tati di annotare il tutto in modo lapidario: senso = essenza.

Il senso costituisce l’essenza, la parte essenziale dellecose, ovvero del significante. Abbiamo a che fare con unasemiosi4 di tipo particolare, che saremmo tentati di chia-mare essenzialista5. Secondo questo punto di vista, il sensorisiede naturalmente nelle cose, ne è il cuore, la parte es-senziale. Non è arbitrario, come ci insegna Saussure, ed èpossibile riconoscerlo e ricostruirlo fondandosi sui cinqueelementi e sulle loro trasformazioni, le quali ci riconduco-no all’universo energetico e cosmogonico dello Yin e delloYang (conosciuto in Giappone con i vocaboli semplificatidi In e Yo).

Le trasformazioni cui sono sottoposti gli oggetti, sia gliutensili manipolabili che le loro parti costruttive e gli spaziarchitettonici, dotano questi ultimi di investimenti che,nell’analisi semiotica greimasiana, sono identificabili comevalori descrittivi e/o modali, a seconda dei casi. Questa è

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una conferma, se ce n’era bisogno, dell’identificazione es-senzialista: quello che riguarda l’essenza della cosa per lavisione tradizionale giapponese è riconoscibile nell’otticasemiotica come il contenuto. In termini semiotici, la visio-ne giapponese piazza il contenuto nell’espressione, il si-gnificato nel significante, richiudendo i due piani l’uno sul-l’altro e facendone uno solo.

A partire da questo, basterà considerare un solo piano:quello del significante. Detto meglio: la visione tradiziona-le giapponese non ha bisogno di parlare del significato, es-sendogli sufficiente di mettere il neofita davanti al signifi-cante e di intimargli l’ordine di comprendere. Deve capire,e può (in questa visione), nella misura in cui si tratta di co-gliere la natura delle cose e non un qualche supplementoappiccicatosi sopra, che risulterebbe estraneo in quantoarbitrario.

1.2.1.5. Le passioni del tè e il chadoL’architettura del tè è stata concepita per regolare la

pratica cerimoniale che vi si svolge e per amplificarne glieffetti. Essa seleziona uno spazio nell’universo, lo purifica,articolando la purezza per gradi, piazzando il chaseki (an-dito della cerimonia) in cima a questa scala. All’interno delchaseki ogni oggetto trova il suo posto, obbligatorio e uni-co, che concorre a produrre l’effetto di base della cerimo-nia, e che è la tranquillità. La realizzazione della tranquil-lità passa per la realizzazione dell’armonia, del rispetto, edella purezza. La tradizione nomina questi come i “quattroprincipi”, designati dei termini wa, kei, sei, jaku.

Va da sé che i termini di tranquillità, armonia, rispettoe purezza non sono che approssimazioni lessicali dei ter-mini giapponesi, e la definizione che se ne dà in linguaitaliana non ricopre l’uso che ne fa la lingua giapponese.L’analisi delle definizioni fornite dalla tradizione del tèpermette di identificare questi quattro concetti come pas-sioni nel senso semiotico del termine: sono stati modaliz-zati di un soggetto che “patisce”, ovvero che subisce l’a-zione di un altro soggetto.

MANAR HAMMAD

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Di conseguenza, l’architettura del tè coopera con gli og-getti e le persone considerate come soggetti del fare perprodurre, nelle stesse persone considerate come soggetti distato, stati passionali predefiniti.

Se tali stati passionali sono valorizzati in sé, apparendoa questo titolo come stati terminativi, ognuna delle lororealizzazioni è considerata come uno stato incoativo a par-tire dal quale altri stati e altre azioni diventano possibili. Ilconcatenarsi di stati e azioni costituisce un percorso di vitadel soggetto, percorso che gli permetterà, alla fine, di tra-sformare la propria vita e di farne un oggetto estetico nelsenso pieno del termine.

All’interno di una prospettiva simile, l’architettura nonè più un agente tra gli altri che concorre alla trasformazionedel soggetto. Essa gioca un ruolo particolare, regolatore, re-peribile e specificabile in un processo che mira alla pro-gressione del soggetto verso un certo perfezionamento senon addirittura verso “la Perfezione”.

La “via del tè” (chado) è il cammino intrapreso dal sog-getto che comincia l’apprendimento e la pratica del tè. Unaanalisi serrata rivela che il soggetto in cammino non è unsoggetto individuale: la tranquillità non è raggiungibile senon c’è condivisione, cioè se non ci sono invitati che coo-perano con l’officiante e compiono con lui la trasformazio-ne che concerne tutti quanti.

Riassumendo, l’architettura del tè appare come un ele-mento agente, avviato dall’azione di un soggetto collettivoche aspira alla propria trasformazione. In questo vediamoapparire due condizioni necessarie:

i) affinché anche l’architettura diventi parte attiva delprocesso bisogna che il soggetto sia attivo su se stesso;

ii) le trasformazioni dello spazio e la loro regolazionesono necessarie alla trasformazione dei soggetti. Nella mi-sura in cui riconosciamo come architettura i mezzi stabilidi regolazione dei processi spaziali, l’architettura è necessa-ria alla trasformazione dei soggetti.

L’architettura del tè è quindi un mezzo attivo necessarioa coloro che prendono in mano la propria trasformazione.

LA SEMIOSI ESSENZIALISTA IN ARCHITETTURA

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1.2.2. Il Rinascimento e PalladioSe guardiamo da vicino l’architettura occidentale, essa

conosce pochi miti fondatori. In altri termini, la storia del-l’architettura riconosce a pochi periodi storici il privilegioinsigne di essere detti “fondatori”. Il Rinascimento godedi questo privilegio, come ne gode, più vicino ai nostritempi, la scuola del Bauhaus. La rivoluzione russa ha pro-dotto una scuola rivoluzionaria che avrebbe potuto goderedegli stessi privilegi se non fosse stata bloccata dagli eventistorici che conosciamo: è una fondazione abortita.

Tra gli architetti del Rinascimento pochi ideatori hannoavuto l’influenza di cui si può accreditare Palladio. Il Palla-dismo e il Neo-Palladismo hanno popolato l’Europa e l’A-merica di edifici che si richiamano direttamente a questa“fondazione”. Prenderemo Palladio come rappresentantedel Rinascimento nella sua totalità, pur sapendo che non fuil solo a realizzare questo lavoro immenso, e sapendo che leidee che ha propagato e/o messo in opera non sono stateunicamente le sue. Proprio come in Giappone per l’archi-tettura del tè, il Rinascimento architettonico si è distribuitosu diverse decine d’anni e fu l’opera di un soggetto colletti-vo in seno al quale possiamo citare Alberti, Bramante, Ser-lio, Sansovino…

1.2.2.1. L’investimento semantico degli esterniEsaminiamo alcune realizzazioni palladiane, e interro-

ghiamoci sul senso che vi è investito, sempre che ce nesia uno.

1.2.2.1.1. La Villa Barbaro a Maser. Devo a Pierre Bou-don (1987) l’analisi che riassumerò così: dietro a Villa Bar-baro, c’è una fonte a fianco della collina. L’acqua alimentale ninfee (nascoste tra la collina e la villa) prima di rientrarenelle cucine. Da lì, essa riesce verso il giardino che irriga ein cui viene modulata in due piccoli stagni-abbeveratoi pri-ma di continuare verso i campi coltivati che bagna. Questopercorso, menzionato da Palladio (1570, p. 51), forma unciclo che conduce l’acqua dal suo letto sotterraneo (ctonio,

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naturale) a un uso aereo prima di rinviarla nel suolo (terre-stre, culturale). Il ciclo è iscritto sull’asse Nord-Sud.

Questo ciclo ctonio-terrestre si coniuga con un altro ci-clo, celeste-terrestre, iscritto sull’asse Est-Ovest della villa,grazie a una serie di meridiane installate sui colombieri alleestremità delle ali (o barchesse).

Posta tra la natura e la cultura, all’incrocio dello ctonio,del terrestre e del celeste, la villa riproduce, nella sua orga-nizzazione spaziale, il macrocosmo e si afferma come unmicrocosmo completo, immagine cosmogonica (e mitica?)dell’autonomia della fondazione agricola auto-sufficiente.

1.2.2.1.2. La Villa Almerico a Vicenza (detta la Roton-da). L’architetto Robert Streitz (1973) ha consacrato allaVilla Almerico una piccola opera che ha il doppio meritodi essere ben documentata e certamente prudente: si rifiutadi azzardare ipotesi che non può provare. Riprendendo leosservazioni pubblicate da Bertotti Scamozzi (1778), osser-va che “il Sud è indicato a due gradi dall’asse diagonale”(p. 53). Ne cerca la ragione fino a interrogare un astrono-mo dell’osservatorio di Nizza, che gli scrive:

gli architetti dell’epoca, avendo a propria disposizione solouna direzione approssimativa del meridiano magnetico, sirifacevano direttamente alla stella polare (…) le vostre con-statazioni personali sono una prova supplementare sullascelta dell’asse del mondo come referenza piuttosto che delmeridiano.

Tutto ciò richiama due osservazioni.i) Contrariamente alla Villa Barbaro, la Villa Almerico

non allinea le sue facciate (e le loro aperture) sulle direzio-ni cardinali. Qui sono gli angoli (ciechi) che adottano la di-rezione degli orientamenti privilegiati dalla cultura, e que-sto fatto non può essere dimenticato, visto soprattutto cheil sito (una collina alle porte della villa) è libero da ognivincolo di allineamento. Il paesaggio non fornisce alcunachiave a questa scelta di orientamento.

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ii) Più notevole ancora è il fatto che la diagonale dellavilla adotta la direzione dell’asse del mondo, trascurando ilmeridiano magnetico. Una tale precisione non può risulta-re dal caso.

La naturale conclusione è che Palladio ha inscritto il suoedificio in referenza cosmica (l’asse del mondo) e non terre-stre (il meridiano magnetico). Secondariamente, evitando dipiazzare una delle facciate a Nord, orientamento che l’a-vrebbe privata del sole a queste latitudini, ha inscritto l’edi-ficio in modo da far ricevere il sole da tutti e quattro i lati.

Ci basterà qui d’aver mostrato che la villa Almerico èdoppiamente messa in relazione con il dominio celeste ocosmico. Il senso che è connesso a questa inscrizione non èesplicitato da nessuna parte, almeno a nostra conoscenza.Questo non impedisce di concludere che c’è un sensopronto a imporre la necessità di essere decifrato e analizza-to in una seconda fase.

Altre caratteristiche di questa villa orientano l’atten-zione verso l’importanza accordata da Palladio alla geo-metria: se la villa possiede quattro facciate simili, questeultime sono uguali a due a due, le facciate identiche di-sposte sui due lati opposti del quadrato. L’entrata attualesi fa dalla facciata Nord-Ovest. I disegni pubblicati daPalladio (1570, p. 19) e da Bertotti Scamozzi (1778, p. 26)danno come entrata la facciata Nord-Est. Davanti a que-st’ultima è possibile osservare oggi che una porzione delmuro di cinta, situato tra due colonne allineate sugli spe-roni della scala, è fatta da un’apparecchiatura meno cura-ta del resto del muro. Inoltre, una alzata del terreno, inpiano inclinato, s’inscrive nell’asse di questa facciata, co-minciando dalla porzione di muro menzionata e prose-guendo fino alla strada d’Este. Si può dunque supporreche il pezzo di muro mal preparato sia di recente costru-zione, che la facciata Nord-Est, oggi diventata secondaria,fosse principale in passato e che si venisse direttamentedalla strada d’Este, da dove si gode di una vista magnificasulla villa. L’argomento decisivo in favore di questa tesi,comunque, viene dalla geometria: sulla facciata Nord-Est,

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gli assi delle aperture (porte e finestre) coincidono con gliassi d’intercolumnio della loggia; mentre sulla facciataNord-Ovest gli assi non coincidono. Di conseguenza, lafacciata “perfetta” in termini geometrici è la facciataNord-Est ed essa deve servire a questo titolo da facciataprincipale. L’entrata attuale non è che una soluzione di ri-piego in senso architettonico che, per di più, impone diattraversare le parti comuni per accedere alla villa.

Questo ci conduce a porci una domanda che viene dasé: perché la facciata Nord-Ovest non è stata costruita co-me “perfetta”?

Si potrebbe tentare di rispondere che questa scelta per-mette di gerarchizzare le facciate e di distinguerle. Se que-sta risposta è ammissibile per altri casi, non è accettabileper un edificio così elaborato e di taglia ridotta, dove il gio-co delle simmetrie è onnipresente. La risposta corretta è al-trove. Non è all’esterno, ma è all’interno. Infatti, se non cisono che due finestre (al posto di quattro) sotto la loggiaNord-Ovest, è perché le sale situate ai quattro angoli dellavilla (gli stessi angoli privilegiati che occupano i punti cardi-nali principali) siano perfette: perfette in termini di misura-zione e di simmetria.

La misurazione: nel suo primo libro, Palladio parladell’importanza delle dimensioni delle sale e delle pro-porzioni relative di larghezza, lunghezza e altezza. NellaVilla Almerico, le proporzioni interne gli sono apparse diun’importanza sufficiente per giustificare lo spostamentodei muri che separano le sale angolari (occupanti gli an-goli) dal passaggio centrale: lo sfasamento è quasi di ses-santa centimetri.

Questo divario non può essere attribuito a un errore: siripete quattro volte. Ne deriva che i passaggi d’accessoNord-Ovest e Sud-Est tra le logge e la rotonda centralesono più larghi dei passaggi omologhi Nord-Est e Sud-Ovest. Le qualità di questi spazi sono sacrificate a vantag-gio delle sale che occupano gli angoli.

La simmetria: le sale angolari sono rettangolari. Sulleparti piccole possiedono una porta e una finestra che stan-

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no una di fronte all’altra, aperte entrambe nell’asse di sim-metria. Sulla grande parte esterna, ci sono due finestre po-ste simmetricamente in relazione all’asse di questo lato.

Una di queste finestre è allineata su una fila di porte edi finestre che attraversano la villa da parte a parte mentrel’altra finestra trova il suo posto obbligato secondo una logi-ca interna che non deve nulla alla logica esterna che orga-nizza la loggia dentro la quale si trova aperta. Da qui lo sfa-samento di assi che può essere osservato sia sul posto siasui disegni pubblicati dal Palladio.

Riassumendo: la logica interna della perfezione dimen-sionale e simmetrica delle sale occupanti gli angoli privile-giati dall’orientamento conforme a quello dell’asse delmondo finisce col perturbare la logica geometrica esterna.Ne deriva l’apparizione di due facciate perfette e di duefacciate imperfette. Tali fatti, tangibili, misurabili e visibili,non possono essere gratuiti. Bisogna ammettere che sonodotati di senso, anche se non l’abbiamo ancora articolatointeramente.

Nel caso specifico, siamo nella situazione dell’archeo-logo che cerca di decifrare un linguaggio dimenticato: sache c’è del senso, anche se non sa leggerlo. In ogni caso,abbiamo riunito, in queste brevi descrizioni, alcuni ele-menti di lettura: referenze all’asse del mondo e della terra,referenze alla perfezione della simmetria, all’uomo cheabita i luoghi e per il quale le misurazioni e le proporzionisono fondamentali.

1.2.2.2. L’investimento semantico degli interniLa Villa Almerico ci ha mostrato come i vincoli connes-

si all’interno delle sale potessero determinare l’esterno del-l’edificio. La Villa Poiana ci permetterà di vedere la finezzacon cui gli interni sono articolati e differenziati.

1.2.2.2.1. La Villa Poiana a Poiana Maggiore. A parte ilgranaio, tutte le sale di questa villa sono a volta: la voltadella loggia d’ingresso è a botte, marcata nel mezzo da unincrocio di costoloni, il quale manifesta all’esterno la pre-

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senza della volta a botte della grande sala centrale. Si ritro-veranno queste volte a botte marcate da un incrocio di co-stoloni sopra i piccoli vani che fiancheggiano posterior-mente la grande sala. Nelle stanze d’angolo posteriori, levolte sono di tipo “a faccia”6, cioè delle volte uniformi supennacchi a tromba con un semi-incrocio di costoloni ne-gli angoli. Le stanze ad angolo anteriori sono coperte convolte piatte “a conca”. Nell’ammezzato, le piccole stanzeposteriori sono coperte di volte a botte ribassate. Le stessevolte a botte si ritrovano nelle cantine e nelle cucine, condelle volte tagliate (remenato) dalle finestre, che creanodelle interpenetrazioni dall’effetto molto bello.

La varietà dei tipi di volta messi in opera da Palladio aVilla Poiana non può essere dovuta né al caso né alla fanta-sia. In questa villa non c’è nessun soffitto a travetti; unasintassi forte lega tra loro queste volte che si giustappongo-no. Inoltre, molti fattori convergono per farci concludereche questa villa, costruita presso l’antica dimora dei Poianasenza tener conto di quest’ultima, è stata voluta come unaVilla ideale (cfr. Constant 1987). Nella carriera di Palladio,s’inscrive tra Villa Caldogno di cui parleremo più avanti, eVilla Barbaro già evocata. Lo studio di questi progetti suc-cessivi permette di concludere che Palladio manipolava unsistema coerente, ogni realizzazione essendo una variazioneinscritta all’interno di questo sistema.

1.2.2.2.2. La Villa Caldogno a Caldogno. Anteriore aVilla Poiana, cui assomiglia a livello di pianta (cfr. Puppi1973, pp. 259-261), questa villa offre la particolarità dipossedere delle volte solo per coprire la loggia e le canti-ne. In tutte le sale, i soffitti sono costruiti su belle travi.Ne risulta, nell’insieme della villa, un ambiente moltoparticolare, luminoso e disteso. In questo, essa si opponenettamente a Villa Poiana, dove la successione degli spaziè marcata dalla presenza di una tensione costante, anchese quest’ultima è piacevole.

Tali opposizioni tra gli elementi architettonici e gli ef-fetti che provocano sul visitatore ci invitano a interrogarci

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sulle ragioni che fanno optare per tale o tal’altra soluzione.A partire dalle posizioni semiotiche attuali, risponderemosenza esitare che i fini perseguiti riguardano gli effetti disenso e gli effetti passionali prevedibili nel soggetto. In altritermini, l’ipotesi che queste variazioni siano dotate di sen-so appare plausibile a priori. Sarebbe anche sviluppabile, apartire dalle ricerche semiotiche recenti, secondo la logicadelle passioni: gli effetti di senso possono provocare, neisoggetti, degli stati passionali descrivibili in termini di mo-dalità di stato.

Non è certo che una tale ipotesi abbia potuto essereformulata in epoca rinascimentale, almeno non in questitermini. Tuttavia, l’interesse dell’epoca considerata perl’allegoria, per la pittura i cui temi antichi avevano equiva-lenti contemporanei, per i discorsi sulla cultura anticacomparata alla cultura europea del momento, tutto questoci farebbe dire che la problematica del senso era onnipre-sente, sebbene in termini che non sono ancora i nostri. Inpiù, all’interno della grande questione delle “virtù” del-l’uomo, si riconosce la problematica delle “passioni”. Sipuò allora proporsi di ricostruire le posizioni degli archi-tetti che ci interessano.

1.2.2.3. Il silenzio dei testiIl Rinascimento è marcato dalla moltiplicazione dei

trattati di architettura, sia in latino (ad es. Alberti), sia initaliano (quello di Palladio in particolare). Più o meno in-fluenzati da Vitruvio, queste opere abbordano gli “ordi-ni” classici, le proporzioni, la composizione degli elemen-ti, le tecniche di costruzione ecc., così come trattano que-stioni di principio, di funzionamento, di igiene. Certi arri-vano fino a parlare di urbanistica. Tuttavia si cercherannoinvano le ragioni della scelta di tale forma di coperturapiuttosto che di un’altra. A margine della descrizione deitipi di volte, delle loro proporzioni, del modo di costruir-le, non si trovano delle ragioni d’utilizzo legate all’habi-tat. Si trovano al massimo osservazioni sul carattere ap-propriato di tale forma nella circostanza particolare in cui

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è stata utilizzata. Appropriato, conveniente, comodo, so-no i termini che si ritrovano in questi trattati (cfr. Palla-dio 1980, p. 31), senza che si sappia come queste caratte-ristiche possano essere determinate.

La stessa assenza di analisi segnala i passaggi relativi alleaperture, ai piani, e agli altri elementi architettonici. Ora,nonostante il silenzio dei testi, l’architettura continua a in-terpellarci a partire dal suo discorso spaziale, poiché essatiene un discorso che nulla può rimpiazzare od occultare.

La qualità dell’architettura, dei suoi elementi e della lo-ro articolazione ci fa postulare l’esistenza di un senso al-trettanto articolato. Dato il silenzio dei trattati a questo ri-guardo, non ci resta che tentare una decifrazione sistema-tica, comparabile a quella intrapresa dagli archeologi e da-gli studiosi di epigrafia a proposito delle lingue morte. Aquesto titolo, l’architettura del Rinascimento è quasi al-trettanto opaca di una lingua sconosciuta. Di conseguen-za, e al fine di decifrare i contenuti di cui postuliamo l’esi-stenza, bisogna per forza ricorrere ad altri sistemi di sen-so, ad altri linguaggi7.

Date le nostre conoscenze dell’architettura giapponese,e la lunga decifrazione cui ci siamo dedicati per renderneconto, ci proponiamo di utilizzare quest’ultima a titolo ditermine oppositivo nella decifrazione dell’architettura rina-scimentale. Il tutto senza idee preconcette sulle grandezzee sulle relazioni identiche o differenti nei due universicomparati.

1.2.2.4. La comparazione e la decifrazioneAbbiamo affrontato, nell’introduzione, certi fattori

“esterni” che invitano a comparare queste due architet-ture. Adesso esamineremo delle grandezze interne comu-ni a entrambe.

1.2.2.4.1. L’insediamento, la sobrietà, le aperture. I casidi Villa Barbaro e di Villa Almerico ci hanno mostrato l’e-dificio messo in relazione con le direzioni cardinali, da cuiabbiamo concluso la possibilità di stabilire una relazione

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tra l’architettura e il cosmo. Avevamo notato un legame si-mile tra gli oggetti del tè e la cosmogonia rappresentatadagli “elementi” della natura. Un legame comparabile siritrova a livello dell’architettura del tè: la tradizione geo-mantica8 pone regole concernenti l’insediamento delle co-struzioni. I muri devono opporsi all’oriente, essendo l’en-trata a sud. L’angolo Nord-Est deve essere pieno, mentrel’angolo Sud-Ovest deve essere forato da un’apertura (cfr.cap. 4). Se queste obbligazioni sono violate dall’ambientevicino, dai rilievi o dal sito, bisogna disporre di elementidi compensazione che restaurino il flusso di energia e ilsuo ritmo.

Senza concludere frettolosamente che l’architettura“umanista” del Rinascimento s’inscrive in un quadro geo-mantico, notiamo che il legame tra l’edificio e il referen-ziale cosmico è presente nei due casi. Se il dettaglio degliinvestimenti posti in ogni elemento varia, è possibile tutta-via affermare, senza troppi rischi, che questo tipo di inse-diamento, qualunque sia il quadro culturale, pone implici-tamente una relazione di dipendenza tra l’architettura e gliassi cardinali. Inoltre si tratta di una relazione dissimme-trica poiché ciò che stato edificato è un’opera umana con-tingente e non gli assi cardinali che riguardano istanze su-periori. Anche oggettivata, la “natura” non è posta sullostesso piano dell’edificio, e si ammetterà che essa influenzil’edificio ben al di là dell’influenza che quest’ultimo puòesercitare sulla prima. Ciò che varia secondo le interpreta-zioni è la natura e l’estensione della suddetta influenza.

Ritornando alla cosa stessa costruita, si può notare chele ville palladiane presentano, nella maggior parte dei loroesterni, superfici lisce che determinano volumi semplici,dove l’ornamento è distribuito con parsimonia. I marmicolorati sono esclusi, e il semplice calcare accompagnaabitualmente lo stucco bianco. Questa sobrietà ci richiamala vacuità dell’architettura giapponese, la sua apparentepovertà e le superfici bianche dove il decoro è bandito.Nei due casi, si tratta di una specie di ascesi: infatti la ri-nuncia è indubbiamente volontaria. I committenti, nelle

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due culture, avevano i mezzi per pagare la decorazione.L’ascesi testimonia, in entrambe le culture, una ricercadell’essenziale.

Lo studio degli infissi palladiani mostra che porte e fi-nestre sono differenziate dalle loro dimensioni, che posso-no essere messe in relazione con due variabili: l’uso deiluoghi su cui danno queste aperture e la qualità delle per-sone chiamate a servirsene. Così, le finestre dell’angolo no-bile (piano nobile) sono più grandi di quelle dell’ammezza-to o delle cantine. Le porte principali, dando sulla grandesala, sono più grandi delle porte secondarie…

Si trovano fatti simili nell’architettura giapponese, dovele opposizioni sono più esplicitamente investite: allo Zuihoin (sotto-tempio di Daitokuji, Kyoto), la porta sadoguchicostruita per il cerimoniere del tè ha un’architrave legger-mente più bassa dell’architrave della porta normale vicina.Questo ha come conseguenza l’obbligo del celebrante diabbassare la testa ogni volta che deve varcare la porta. Perumiltà. Nella concezione giapponese, infatti, il fatto di ab-bassare la testa rende umili. Quindi la porta dall’architravebasso rende umili: l’architettura agisce sulla persona.

Il meccanismo è ancora più esplicito nel caso del nijirigu-chi (o porta degli invitati): questi ultimi entrano ed escono inposizione raccolta, scivolando letteralmente sui tatami e ap-poggiandosi sulle mani. Là, ancora, è la porta a rendere umili.

Ritornando all’architettura rinascimentale, si potrebbeconcludere senza sbagliarsi che le porte monumentali ren-dono fieri, e che le piccole finestre dell’ammezzato rendo-no meno fieri, se non proprio umili…

1.2.2.4.2. L’architettura agisce sull’uomo. Se l’ascesi dellasobrietà mira all’essenziale, e se l’architettura agisce sull’uo-mo, non si può evitare di accostare queste proposte implicite,facendo apparire una tesi che identificherà l’essenziale dell’ar-chitettura nelle due epoche abbordate: le entità cosmiche agi-scono sull’architettura e l’architettura agisce sugli uomini.

In questo meccanismo, c’è un’inversione della relazio-ne soggetto-oggetto e un’inversione delle idee largamente

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ammesse oggi. Se è vero, infatti, che l’uomo costruiscel’architettura, e agisce su di essa, formandola e trasfor-mandola, quest’ultima agisce anche su di lui secondo leprocedure che abbiamo appena visto. Di conseguenza, ab-biamo a che fare con una doppia interazione nel corsodella quale i ruoli soggetto-oggetto non sono determinatiuna volta per tutte: commutano tra l’uomo e l’architetturae la dipendenza è reciproca.

Ciò costituisce una delle chiavi di decifrazione, poichéquesto meccanismo coinvolge la stessa dinamica del sensoe delle cose, la loro interazione reciproca e il loro legame.Insomma, scopriamo che la semiosi, così come può esse-re ricostruita in questo corpus, non si riduce a una sem-plice corrispondenza statica tra un significante e un si-gnificato.

1.2.2.4.3. Senso dell’adozione di forme antiche. Dalpunto di vista della storia dell’architettura, l’ipotesi elabo-rata qui sopra è forse ancora più ricca se enunciata nel se-guente modo: l’architettura del Rinascimento mira alla tra-sformazione dell’uomo.

Con una formula lapidaria, si potrebbe dire che ilprogramma dell’epoca si riassumeva nel cambiare l’uomocambiando l’architettura. A livello delle case, significavacambiare l’individuo e la famiglia. A livello delle città, ilcambiamento riguardava la società. Per farne che cosa?Il contesto filosofico e letterario dell’epoca ce ne forniscela risposta: è per modellare i contemporanei sull’immagi-ne degli “antichi”. Indipendentemente dagli uomini equasi loro malgrado, si trattava di ricondurli alla “virtù”degli antichi.

In altri termini, l’architettura e l’urbanistica del Rinasci-mento non erano altro, tra le mani degli architetti “umani-sti”, che mezzi di cambiamento sociale. Per ridefinire l’uo-mo, bisognava ridefinire l’architettura. L’architettura è in-fatti un mezzo obbligato d’azione.

La visione rinascimentale che estraiamo è pertanto pa-rallela a quella degli uomini del tè, con piccole differenze:

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il chado non aveva alcun modello antico da restaurare, edera in causa solo la trasformazione di una piccola élite, sen-za la pretesa si raggiungere la società nel suo insieme senon attraverso la catena degli individui.

Da questo momento diventa più agevole comprenderela facilità con cui gli architetti del Rinascimento hanno di-strutto gli edifici romani e gotici: erano altrettanti ostacoliinnalzati sul cammino della ri-nascita che stavano cercandodi forgiare. Ed è con una simile visione che gli architetti ri-voluzionari russi hanno voluto ridare forma alle loro città ealla loro società (cfr. Kopp 1967).

1.2.2.4.4. Verifica sull’architettura palladiana. Le con-clusioni che abbiamo estrapolato sono solo ipotesi aventistruttura di conclusioni provvisorie. Prima di utilizzarle edi generalizzarle, conviene verificarle. È ciò che faremoesaminando le piante del Palladio e le coperture che mettein opera.

Le piante delle ville9 sono semplici. Il visitatore nonprevenuto sarebbe tentato di dire perfino “elementari”. Inpiù si rassomigliano. Wittkower (1962) ha mostrato le pa-rentele tra queste piante e le loro variazioni attorno a unnumero limitato di configurazioni.

L’analisi diretta mostra che i luoghi non sono funziona-li: le sale non sono dotate di elementi che ne definisconol’uso esclusivo, tanto che si potrebbe compiervi pratica-mente ogni atto che abbia a che fare con l’abitare. A que-sto proposito, Villa Pisani a Bagnolo è eloquente: la cucinaè installata in un posto identico alla sala del soggiorno e icamini sono a malapena differenziati.

Se analizziamo ciò che Palladio dice nei Quattro libri(libro II, pp. 3-4), otteniamo la rivelazione del suo puntodi vista: egli considera che si può spostare il soggiorno or-dinario da una stanza all’altra a seconda delle stagioni,per approfittare del calore del sole o per ripararsene; allostesso modo, le persone importanti devono disporre dispazi adeguati per ricevere i visitatori secondo la loroqualità e il tipo di visita…

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In breve, sembra che l’organizzazione della villa, comela si legge sulla pianta, miri a offrire al padrone di casa uncerto numero di possibilità d’azione o di capacità. In ter-mini semiotici, si tratta della competenza secondo il pote-re, aspettualizzata e distribuita sullo spazio della pianta.

Di conseguenza, questi semplici progetti manifestano ilruolo dell’architettura al servizio dell’uomo. Come insiemedi elementi investiti dalla modalità del potere, l’architetturapotrà ricevere le qualificazioni di “comoda, conveniente,appropriata”. In questo contesto, queste parole prendonoun senso verosimile, ristabilendo l’architettura in un rap-porto soggetto-oggetto più familiare.

Che ne è allora delle volte? Palladio dice (libro II, p.4) che le stanze del pianterreno saranno coperte da volte.Ma quando descrive la loro varietà (libro II, p. 54), nondice nulla a proposito dell’uso cui si dovrebbe destinarle.Si potrebbe affermare senza pericolo d’errore che le vol-te delle stanze d’abitazione non servono ad alcun finemateriale. Ne deriva che, se Palladio si è curato così tan-to della forma e delle dimensioni da dare alle sue volte,ci sono fini non-materiali. Nessuno studio è stato con-dotto, a nostra conoscenza, lasciandoci liberi di formula-re le nostre ipotesi. Due problematiche ci sembrano per-tinenti, e l’analisi mostra che sono legate. La prima è dicarattere estetico. In questo contesto, le volte sarannodestinate a produrre sul fruitore-spettatore delle emozio-ni. In termini semiotici, si tratterà di “passioni”, che de-finiscono il soggetto come soggetti di stato modalizzati.La seconda è quella dell’influenza diretta delle forme su-gli uomini: gli spazi ridotti favoriscono l’intimità, i gran-di spazi invitano alla festa e all’espansione… Nei due ca-si, si tratta dell’azione dell’architettura sugli uomini,meccanismo identificato in precedenza nel caso dell’ar-chitettura del tè.

Non è tutto: se queste forme sono attive, e se sono sta-te cercate nell’antichità, è per ottenere un certo tipo di ri-sultato. Quale? Abbiamo già segnalato che la letteraturadel Rinascimento è piena di evocazioni delle “virtù” anti-

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che. Ora, l’analisi di queste ultime mostra che esse riguar-dano ciò che noi chiamiamo oggi passioni. Si possonounire questi enunciati e concluderne che tale architetturamirava a installare, presso gli uomini che l’avrebbero oc-cupata, le virtù antiche. Non unicamente a titolo di statiterminativi, come possono esserlo le emozioni, ma a titolodi stati incoativi che incitano all’azione. In questo qua-dro, l’architettura appare come un Destinante dotato diuna certa stabilità e autonomia.

Riassumendo, lo studio dei progetti conduce a conclu-dere che l’architettura è un oggetto intermedio che per-mette al suo occupante di agire, mentre lo studio delle co-perture induce a concludere che l’architettura agisce sulsuo occupante. Ritroviamo così la permutazione della rela-zione soggetto-oggetto tra l’uomo e l’architettura, a secon-da dei casi di interazione.

1.2.2.5. Esplicitazione dell’implicitoLa decifrazione che abbiamo affrontato esplicita una

parte di ciò che era implicito. Vorremmo tuttavia liberaredall’ambiguità un altro implicito: quello riguardante i pre-supposti dei meccanismi che abbiamo appena identificato.

Abbiamo visto, nelle stanze, come gli universi del signi-ficante e del significato siano confusi: il senso è suppostoessere dentro le cose. È ciò che abbiamo chiamato essenzia-lismo, identificato inizialmente nel Giappone, e ritrovato inseguito nell’Italia del Rinascimento. L’universo è sincretico,vi si ritrovano simultaneamente le cose e il loro senso, e ilsenso è posto come essenza delle cose. Abbiamo anche vi-sto che l’architettura palladiana mira, con la sua sobrietà, auna certa essenza. Ne risulta una fisicizzazione del senso,nella misura in cui il senso non è già dato ed è il significan-te fisico che è messo avanti. Si potrebbe supporre che que-st’effetto semantico risulti dalla perdita di senso dovuta al-la dimenticanza e alla lontananza storica. Ma tutto ciò nonrenderebbe conto del silenzio dei trattati.

Da cui la seguente domanda: è possibile spiegare que-sta fisicizzazione del senso, che lo rende implicito (e con

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una scadenza), in correlazione con l’avanzamento del si-gnificante? Sono possibili almeno due risposte: può darsiche andasse da sé e che nessuno avesse bisogno di parlar-ne; oppure che ci fosse un interesse a non parlarne. Laprima soluzione è corrente nelle culture orali, dove uncerto sapere (e un saper fare) è trasmesso per contatto di-retto. Questo è possibile benché il Rinascimento sia carat-terizzato da un’esplosione della scrittura. La seconda so-luzione è da mettere in relazione con il programma (rivo-luzionario?) di cambiamento sociale dell’architettura. C’èil pericolo, per ogni riformatore, di gridare troppo l’averel’intenzione di riformare lo stato delle cose: coloro chesono ben piazzati rischiano di rimanere in ombra. Anchese non si tratta di religione, si tratta dell’uomo, e il sog-getto è sensibile. Infatti è meglio non dimenticare che ilRinascimento, in architettura, è contemporaneo all’avven-tura della Riforma della religione. L’analisi dei meccani-smi interni dei due movimenti induce a concludere che sirifacevano alla stessa episteme, anche se non hanno adot-tato gli stessi valori di base.

1.3. Conclusioni

Il nostro studio è partito dai periodi riconosciuti come“fondatori” in storia dell’architettura ed è arrivato, tramitel’analisi, a domande relative alla semiosi, alla relazione sog-getto-oggetto e al ruolo sociale dell’architettura. Prima diritornare alle nostre questioni iniziali, conviene considerarei risultati ottenuti per valutarli da un punto di vista semio-tico ed epistemologico.

1.3.1. I meccanismi semioticiI casi che abbiamo analizzato segnalano due culture dif-

ferenti, e il loro confronto era una verosimile scommessaantropologica. Tuttavia, abbiamo potuto riconoscervi mec-canismi semiotici identici, malgrado le differenze di conte-sto, di materiali e di significazione. In termini semiotici, si

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potrebbe dire che, seppure gli enunciati spaziali reperibilinelle due culture siano dotati di contenuti differenti, pos-siedono elementi comuni a due livelli formali distinti: il li-vello enunciazionale-contrattuale, da una parte, quello del-la semiosi dall’altra.

La trasformazione degli uomini è una varietà della ma-nipolazione, intrapresa dagli architetti del Rinascimento edai loro committenti. Essa era indirizzata in certi casi versogli stessi committenti, rendendo così la manipolazione ri-flessiva, come nel caso dell’architettura del tè. In altri casi,essa aveva come obiettivo il resto della società, sia urbanache rurale, diventando così transitiva. Se quest’ultimo casosembra assente dalle preoccupazioni giapponesi esaminate,rimane vero che, nelle due situazioni, la manipolazione èdelegata all’architettura.

C’è un contratto implicito tra i sostenitori di questa ma-nipolazione e l’architettura a cui chiedono aiuto. Questaarchitettura, infatti, è considerata in possesso, in sé, dellequalità intrinseche che saranno attive dal momento in cuigli uomini le avranno dato esistenza. In Giappone, questequalità sono attribuite alle energie In e Yo; in Italia, sonoattribuite agli antichi. Nei due casi, abbiamo a che fare conuna figura di Destinante trascendente sollecitato dai co-struttori.

Una procedura simile presuppone una semiosi essenzia-lista, senza la quale non può funzionare. In effetti, per ren-dere l’architettura efficace direttamente (nessun ritualed’invocazione è attestato in nessuno dei casi esaminati), bi-sogna che essa possieda, in se stessa, questa cosa diretta-mente accessibile agli uomini e agente su di loro: il senso.

1.3.2. Usi e conseguenze delle semiosi essenzialisteLe epoche esaminate costituiscono casi particolari di

semiosi essenzialista, investita nell’architettura. Ma illu-strano molto bene il fenomeno: accade come se il signifi-cante primeggi, e non ci sia che un solo piano (quello del-l’espressione) in questo sistema di significazione. A parti-re da ciò possiamo permetterci di comportarci come se il

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senso non esistesse. È la posizione di Palladio, che nonne parla mai. Oppure si afferma, come gli adepti delloZen, che bisogna guardare le cose fino a comprenderle.L’impresa è difficile, poiché il senso si annida nella cosa.L’accesso al senso è detto “illuminazione”. Pochi com-prendono le cose, e tutti ne subiscono l’azione. Tuttavia,la comprensione assicura una certa liberazione. Nei duecasi, il lavoro sul significante va di pari passo con un la-voro sul significato, poiché l’uno è incassato nell’altro.Da cui la cura estrema portata dai sostenitori di questevie al trattamento del significante. Di colpo, risultano ef-fetti di senso poetici ed estetici riconoscibili oggi, anchedai neofiti.

Parallelamente, la semiosi essenzialista naturalizza ilsenso, poiché pretende che esso sia nelle cose e non vi siacondotto dall’esterno. Di conseguenza, naturalizza la cultu-ra. Solo a questo titolo essa può delegare alle cose il ruolodi manipolare gli uomini in modo autonomo. Ancora, se lecose sono naturalmente così, devono esserlo, e devono per-severare nel loro essere. Non si potrà cambiarle che in mo-do conforme alla loro natura, e bisognerà inscriversi nelcorso della natura per potere modificarla.

Schiacciando il significato sul significante, la semiosiessenzialista riconduce tutta l’efficacia verso l’universotangibile. Essa è, pertanto, materialista e realista. Preten-dendo di agire sugli uomini attraverso le cose, proprioqui e indipendentemente da un altrove (un eventuale al dilà o un universo del significato), l’architettura rinascimen-tale è in accordo con certi presupposti della Riforma cheriguardano, in questo mondo, la manifestazione della be-nedizione o della collera divina. In questo si allontanadalla chiesa cattolica e spiegherebbe forse il silenzio man-tenuto su queste opzioni. Accontentandosi di porre le co-se in natura, gli architetti del Rinascimento adottavanouna strategia persuasiva all’apparenza inoffensiva per pre-parare l’azione manipolatrice.

Ad ogni modo, basta giustapporre, come abbiamo ap-pena fatto, due universi essenzialisti e naturalizzanti per

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far apparire il loro carattere culturale, l’arbitrarietà delsenso e l’inanità semiotica della tesi che propongono.Queste posizioni non sono dunque sostenibili che all’in-terno di un universo chiuso e ristretto posto come l’uni-verso nella sua totalità.

1.3.3. Essenzialismo e carattere fondatoreI periodi che abbiamo esaminato sono complessi, ricchi

di produzione, e sarebbe un azzardo quello di riassumerlimediante pochi tratti descrittivi. Tuttavia, l’analisi che ab-biamo appena condotto ci invita ad avanzare un’ipotesi:l’essenzialismo e il carattere fondatore sono connessi tra lo-ro. Le imprese che si professano fondatrici sono tentatedalla tesi naturalizzante-essenzialista, per il vantaggio per-suasivo che offre. Le cose naturali non hanno bisogno digiustificarsi: sono conformi a un ordine che trascende ognialtro ordine non trascendente.

A una tale impresa non basta, comunque, presentarsicome naturale perché sia accettata come tale. È necessa-rio che possa richiamarsi a un sistema di valori già esi-stenti. Troppa differenza provoca il rigetto della novità, ela cosa antica manterrebbe il suo stato dominante. C’èsempre del paradosso, infatti, quando una cosa nuova sipresenta come più naturale di una cosa antica. Nel casodel Rinascimento c’è stato bisogno di tutto il peso del-l’antichità per lottare contro l’universo “gotico” esisten-te. È in nome di un’antichità più autentica che le tesi ri-nascimentali hanno potuto essere presentate, accompa-gnate da un dispositivo logico, persuasivo, propagandi-stico, seduttore ecc. sviluppato nel corso di anni dai suoisostenitori. Di conseguenza la posizione naturalista-es-senzialista non è sufficiente per rendere fondatrice unadata impresa.

Che possieda almeno il carattere di condizione necessa-ria? Nulla permette di affermarlo con certezza, anche se di-sponiamo di un certo numero d’indizi convergenti in que-sta direzione: il Bauhaus e il periodo rivoluzionario russohanno tenuto dei discorsi naturalizzanti ed essenzialisti.

LA SEMIOSI ESSENZIALISTA IN ARCHITETTURA

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Gli scritti di Kandinskij sui colori e sulla musica sonoesemplari a questo riguardo. Paul Klee ha lasciato, da partesua, delle note che andavano nello stesso senso. Tutti que-sti uomini sembrano perseguire la stessa impresa: ritrovarela natura delle cose. Quando si guarda più da vicino questanatura, essa assomiglia incredibilmente al senso.

Per concludere, tutti i movimenti fondatori conosciamosono costruttori di semiosi essenzialiste, anche se non è ve-ro l’inverso.

1 Questo articolo riprende, ritoccandolo, il testo della conferenza pro-nunciata il 24 ottobre 1987 nel Congresso annuale dell’Associazione Italianadi Studi Semiotici, accolto a Vicenza dall’Associazione Culturale DoraMarkus. È apparso, in versione francese, in «Carte Semiotiche, Rivista del-l’Associazione Italiana di studi Semiotici», 7, 1990.

2 In quel bel libro che è La regola e il modello (1980), Françoise Choayanalizza testi che chiama “instauratori”, testi cui riconosce un ruolo “fondato-re” e “inaugurale”. Tuttavia non ci rifaremo a questo testo: organizzato perepoche storiche, non vi si trova una storia dell’architettura. Benché esistanolegami tra questa varietà di testi e le epoche che ci interessano, ci rivolgere-mo, in primo luogo, agli edifici che ci rimangono di questi periodi. Proceden-do verso una semiotica dello spazio e non verso una semiotica testuale, partire-mo dall’architettura, e faremo appello ai testi per interpretarla.

3 Gli scavi hanno rivelato un habitat preistorico circolare e semi-interratoma ben lontano dal XVI secolo che ci serve come punto di partenza.

4 Con semiosi intendiamo designare la relazione tra il significante e il signi-ficato. Così intesa, equivale alla semiosi di Hjelmslev nel suo aspetto statico.

5 Questo termine è conforme all’uso filosofico che viene fatto in francese,secondo il Dizionario critico di filosofia di Lalande (1972).

6 Cfr. la classificazione in Palladio (1570, p. 54).7 Nell’accezione generale data da Hjelmslev a questo termine.8 Conosciuta con la denominazione di Feng Shui (la terra e il vento) in

Cina e Corea.9 Vogliamo parlare in questo caso del progetto del piano nobile [in italia-

no nel testo, N.d.T.].

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Capitolo secondoL’architettura del tè1

2.1. Cornice concettuale

La storia delle scienze ci ha mostrato a più riprese co-me le “nuove discipline” si costituiscano in seguito a unamutazione del modo di vedere: le matematiche, la fisica, lachimica ecc. si sono staccate dalla filosofia e si sono diffe-renziate le une dalle altre in correlazione con un cambia-mento delle rispettive problematiche. Se è vero che il mu-tamento degli interessi dei ricercatori ha condotto al mu-tamento delle scienze, è anche vero che l’evoluzione dellediscipline ha avuto in seguito profonde ripercussioni sul-l’ambiente degli uomini di scienza e sulla riarticolazionedelle loro prospettive.

Un processo simile è in corso nella micro-società dei ri-cercatori in architettura, capace di coinvolgere tanto la di-sciplina quanto l’ambiente sociale che vi fa riferimento.L’interrogazione sulla relazione “uomo-architettura” haprovocato un gran numero di tentativi di esplorazione: so-no state sollecitate la storia, l’economia, la sociologia, lapsicologia, l’antropologia, la geografia, l’ecologia, la biolo-gia, la teoria dei sistemi… Oscillando tra le discipline an-cillari così chiamate alla riscossa, la semiotica architettoni-ca comincia a tenere un discorso autonomo, organizzato, ingrado di emanciparsi progressivamente dal modello lingui-stico iniziale. Se il trasferimento puro e semplice di concet-ti elaborati altrove in funzione di un oggetto differente si èrivelato poco interessante e soprattutto poco produttivo inarchitettura, l’interrogazione fondamentale sulla significa-

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zione è sopravvissuta a questo scacco relativo. A partire dalmomento in cui il desiderio di comprendere era stato chia-ramente formulato, non poteva più scomparire facilmente.Al contrario, ha finito per riarticolare il campo che ne eral’oggetto. Nella misura in cui si constatava che l’architettu-ra non è un “oggetto” interpretabile isolatamente e in sé,bisognava rinunciare a farne un oggetto di sapere, e defini-re un altro oggetto per soddisfare il programma fondamen-tale di comprensione. Questo nuovo oggetto, costruito apartire dalla logica interna del senso, accosta ciò che è co-munemente chiamata architettura (cioè il costruito) allepersone umane, agli oggetti e allo spazio come estensioneorganizzata staticamente e dinamicamente degli elementiprecedenti2. È ciò che, nella terminologia di Hjelmslev e diGreimas, viene designato come “semiotica sincretica”. Nelquadro di un simile oggetto complesso, l’architettura insenso stretto appare come un insieme di elementi dotati diuno statuto strutturale (sintattico) particolare: essa giocaun ruolo enunciazionale eminente, regolando le relazionitra le persone che vi si trovano in interazione.

L’analisi che proponiamo illustrerà quest’approccio equesto punto di vista. Un’attenzione particolare verrà ac-cordata alla descrizione delle configurazioni spaziali cheregolano le interazioni tra i soggetti: queste ultime non di-pendono tanto da ciò che è detto quanto da ciò che è fattoe dalla posizione in cui accade.

Il metodo adottato è quello sviluppato da Greimas edalla sua scuola. In riferimento a questo insieme teorico, af-fermeremo che la nostra analisi parte dalla manifestazionesincretica e mira a ricostruire il livello fondamentale soggia-cente, passando per una lettura semio-narrativa centratasulla dinamica del senso e delle sue trasformazioni. Data lacomplessità del nostro oggetto, l’analisi non potrà essereesaustiva. I principali risultati stabiliti sono situati al livellofondamentale. Rimarrà da sviluppare l’analisi agli altri livellidel percorso generativo. Malgrado questo aspetto parziale,o forse proprio grazie a esso, abbiamo sviluppato concettimetodologici generalizzabili che possono essere applicati ad

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altri oggetti. Il lettore interessato alla semiotica dell’architet-tura potrà esercitare su questo la propria attenzione, di làdall’esotismo dell’argomento che affrontiamo qui.

2.2. Il Giappone, il tè, l’architettura

La scelta del Giappone segnala una strategia di messa adistanza: quando l’oggetto è strano, estraneo, appare conun rilievo maggiore. Ne tireremo profitto per la chiarezzadella nostra dimostrazione.

Da una decina di secoli, l’abitudine di consumare il tè èpassata dalla Cina al Giappone, dove ha conosciuto diversiesiti. Dalla fine del XVI secolo, questa pratica ha visto nascereun rituale codificato, per il quale fu concepita un’architetturaparticolare: piccoli padiglioni edificati con grandi spese ingiardini molto curati. In questi luoghi, le cerimonie si svolgo-no sempre secondo lo stesso schema normalizzato, e vi si ma-nipola un certo numero di oggetti più o meno preziosi.

Avendo regolato l’azione attraverso secoli di pratica, es-sa può essere osservata un gran numero di volte, elementoche facilita l’analisi e garantisce la validità dei risultati (lariproducibilità del fenomeno è una delle condizioni di basedell’approccio scientifico). Simultaneamente, essa si offrealla nostra attenzione come un fenomeno “opaco”: lo scar-to culturale rende il rituale di primo acchito incomprensi-bile. Questa difficoltà può essere trasformata in un vantag-gio: nella misura in cui ciò che accade è parzialmente in-comprensibile, l’analisi della sua “espressione”3 può servireda base per una decifrazione, per un’interpretazione del“fare” non fondato sul “dire”. Successivamente, confronte-remo questa interpretazione con l’interpretazione tradizio-nale, cioè a ciò che ne dicono i giapponesi stessi. Laconformità delle due interpretazioni gioca, in questo caso,il ruolo di convalida positiva.

Di fatto, abbiamo proceduto, nel corso della ricerca, aun triplo confronto, e questo a partire da una tripla analisi;abbiamo accostato simultaneamente tre “oggetti”:

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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i) il corso dell’azione, tale quale è osservabile nellarealtà e quale descritta dai manuali di insegnamento;

ii) le regole date dalla tradizione;iii) i principi citati dalla tradizione come fondamenti

delle regole e della pratica.La concordanza delle tre analisi ci fornisce un buon test

di coerenza interna che ritorna contemporaneamente sulcorpus (la tradizione studiata è coerente) e sul metodo (siapplica sia al dire sia al fare).

Un altro test di coerenza, esterno, è fornito dallaconformità con i “commentari” giapponesi. A questo pro-posito conviene segnalare che la tradizione dell’insegna-mento del chado è prescrittiva e non esplicativa: le solespiegazioni disponibili vanno ricercate nelle raccolte diracconti relativi ai grandi maestri del passato, a ciò chehanno fatto e detto.

Nel contesto di questo articolo, ci limiteremo ad ana-lizzare una parte del fare e abborderemo l’analisi delle re-gole. Lasceremo al lettore la cura di procedere a un altrotipo di convalida: giudicherà i risultati che otterremo el’interesse dei risultati potrà servire a valutare l’interessedel metodo.

2.3. Il corpus

Considereremo una cerimonia del tè, per come puòsvolgersi di questi tempi. In giapponese, essa viene chiama-ta chaji. Sebbene un chaji sia un avvenimento in sé, com-pleto e autonomo, per gli adepti si inscrive in un percorsoestetico ed etico che implica l’essere del soggetto e la suatrasformazione. Il percorso stesso è chiamato chado. Nonl’analizzeremo qui e non ne parleremo se non nella misurain cui permette di chiarire alcuni aspetti del chaji. Dato cheesistono numerose tradizioni del tè, sceglieremo di analizza-re quella che è insegnata dalla scuola Urasenke, che si rifà algrande riformatore Sen No Rikyu (1522-1591) passando persuo nipote Sen No Sotan (1578-1658).

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In ognuna delle tradizioni, il chaji può svolgersi secon-do due norme: formale (shin) e informale (so). Noi sce-glieremo di analizzare la norma informale: è più semplicedell’altra, visto, tra l’altro, che è insegnata per prima. Ilfatto che costituisca l’oggetto di una documentazione piùsviluppata ci permette di segnalare che il chado è un per-corso iniziatico, e che l’adepto non apprende le normeshin se non quando ha interamente padroneggiato la nor-ma meno formale.

Nella regola so, i luoghi e gli utensili sono disposti infunzione della stagione. Convenzionalmente, l’anno del tèsi divide in due stagioni: l’estate e l’inverno. Si considerache la versione invernale sia derivata da quella estiva. Perquesta ragione studieremo quest’ultima.

Infine, lo svolgimento del chaji estivo dipende dall’ora.Prenderemo la versione del mezzogiorno, visto che è la piùcorrente attualmente e perciò è anche quella che è accom-pagnata dalla documentazione più ricca.

La serie delle restrizioni che abbiamo indicato non deveilludere: ci proponiamo di raggiungere, attraverso un casoparticolare, il modello generale. Gli scarti progressivi pre-cedenti non sono che procedure euristiche provvisorie:non ci si potrebbe dedicare direttamente a un insieme diuna tale complessità. Un chaji informale dura circa quattroore. Tutto il suo svolgimento è programmato con una mi-nuzia straordinaria. Tutti i gesti compiuti, tutte le paroleproferite, sono necessarie: questo può essere dimostratostrettamente riprendendo il tutto a partire dalla fine, termi-ne che dà senso alle operazioni preparatorie anteriori.

Con il modello estratto a partire dal tipo di chaji sele-zionato, ritorneremo sugli altri tipi per modificare il mo-dello e renderlo più generale. Questo implica, fin dallaprima analisi, uno sguardo generalizzante che ritenga lecostanti e scarti le variabili. In particolare, se un chaji di-pende contemporaneamente dal tema attorno al quale èconvocato, dalle persone invitate, e dal luogo dove sisvolge, implicando così altrettante variabili, ci sforzere-mo di eliminare ciò che dipende dalle variabili per con-

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centrarci sulle costanti. In termini semiotici, questo si-gnifica non solamente passare dal livello degli attori aquello degli attanti4 ma anche evacuare in parte l’enun-ciato enunciato (che dipende dal tema variabile) per con-centrare l’attenzione sull’enunciazione enunciata (cfr.cap. 10), che è stabile: sarà questa l’oggetto d’analisi. Ve-dremo che le grandezze ritenute sono essenzialmentenon verbali.

Infine, quel poco di informazioni di cui disponiamosulle norme gyo e shin ci conduce a postulare che ognichaji realizzato secondo queste ultime, condivida con ilchaji so le stesse strutture fondamentali e semio-narrative.I cambiamenti riguarderanno solo due elementi del livellodella manifestazione: da una parte l’investimento attoriale(i valori profondi sono manifestati da oggetti, soggetti oazioni che accusano un certo sfasamento) e dall’altra la sti-listica (che aggiunge all’esecuzione dei gesti un effetto disenso globale modalizzante). Si potrebbe dire che questaipotesi sia inesatta, ma non possiamo né convalidarla néinvalidarla allo stadio attuale del nostro lavoro, e la do-manda resta aperta.

2.4. Un chaji estivo

Il padrone di casa invita qualche amico (due o tre) a ve-nire a prendere il tè. Il costume vuole che gli invitati con-fermino rapidamente la loro intenzione di venire con unavisita ordinaria al domicilio del padrone di casa5.

Nel giorno del chaji, ognuno (padrone di casa e invitati)avrà fatto il bagno prima della riunione; il padiglione del tèe il suo giardino saranno stati meticolosamente ripuliti6.

Gli invitati arrivano circa un quarto d’ora prima dell’o-ra fissata per il tè. La porta del giardino è stata socchiusa eil selciato è stato bagnato: questo significa che sono invitatia entrare. Se queste due condizioni non sono realizzate,non entreranno ma faranno una piccola passeggiata per poiritornare. Gli invitati si ritrovano in un piccolo padiglione

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d’accoglienza (machiai) dove si tolgono tutti gli elementiinutili della loro tenuta di città. Un aiutante offre loro unpo’ d’acqua calda. Se l’invitato principale della riunionenon è stato designato dal padrone di casa, gli invitati simettono d’accordo sull’ordine di precedenza.

Uscendo dal machiai, gli invitati vanno in giardino e sisiedono su una panca coperta, posta all’aperto. Attendonoin silenzio e contemplano il giardino.

Il padrone di casa esce dal padiglione del tè (chashitsu),compie delle abluzioni purificatrici in un catino, viene adaprire la porta che separa il giardino interno dal giardinoesterno dove sono seduti gli invitati. Rimanendo nel giardi-no interno, s’inchina silenziosamente davanti ai suoi visita-tori che si sono alzati: questo significa che essi sono invitatia passare nella sala del tè. Il padrone di casa si rivolge ver-so il chashitsu e vi penetra dalla porta degli invitati7. La ri-chiude, pur lasciandola socchiusa.

Dopo un breve momento, che rimane a discrezione de-gli invitati, questi ultimi passano uno dopo l’altro nel giar-dino interno, compiono le loro abluzioni al catino ed en-trano nello chashitsu. I loro spostamenti sono sfasati rispet-to al tempo necessario per compiere questi gesti.

Ogni invitato che penetra nello chashitsu si prostraprofondamente davanti alla calligrafia agganciata nella nic-chia d’onore tokonoma. Dopo aver contemplato la calligra-fia, si alza, attraversa in diagonale, poi si dirige verso il bra-ciere dove tre carboni bruciano sotto il bollitore. Si inchi-na, contempla il tutto, si sposta per lasciare il posto al suc-cessivo. L’ultimo invitato che entra richiude la porta facen-dola sbattere leggermente, rumore destinato al padrone dicasa che, nella sala annessa, detta sala dell’acqua8 o mizuya,sta preparando il pasto per i suoi invitati.

Ordinariamente la porta d’entrata si trova nell’angolodestro del chashitsu. Andando verso il tokonoma, l’invitatosi avvia con il piede destro e attraversa la frontiera tra i varitatami con il piede destro. Nel tragitto diagonale, parte conil piede sinistro e attraversa le frontiere con lo stesso piede.“Risalendo” verso il fuoco, si avvia con il piede destro.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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Esistono chashitsu detti “inversi”, in cui gli elementi diarchitettura di destra e di sinistra sono permutati. In questiluoghi, il piede “montante” sarà il sinistro. Nei due casi, ilpiede di partenza corrisponde al lato della sala dove saran-no gli invitati.

Il padrone di casa apre la porta che separa il mizuya dalchashitsu. Saluta i suoi invitati, che gli rendono il saluto.L’invitato principale si indirizza allora al padrone di casapregandolo di entrare9.

Dopo i saluti, il padrone di casa serve un pasto leggero,in cui le vivande si ordinano nel modo seguente: una zuppadi soia, riso bianco, mukozuke (quello che si mangia beven-do sakè), alcune piccole cose in brodo, qualche cosa allagriglia (carne, pesce) e legumi, un brodo leggero, cibi dioceano e di montagna, legumi in salamoia, riso grigliato in-fuso nell’acqua calda. Il sakè accompagna tutto il pasto. Ilpadrone di casa serve e mangia da solo nella sala dell’acqua.

Senza entrare nel dettaglio del pasto, bisogna notaredue fatti. Da una parte i cibi di oceano e di montagna se-gnalano una riarticolazione degli avvenimenti: l’invitatoprincipale ne offre al padrone di casa, che accetta; inoltre, icibi sono previsti in quantità tale che, dopo la distribuzio-ne a tutti i partecipanti, ne resta un po’ nel piatto: in quelmomento, il padrone di casa farà un solo mucchio dei dued’origine; questa congiunzione del basso e dell’alto simbo-lizza il primo avvicinamento del padrone di casa e degli in-vitati. D’altra parte, l’invitato principale offre del sakè alpadrone di casa, e gli “presta” la propria coppa a questoscopo; la coppa circola tra tutti gli invitati e il padrone dicasa, mentre ciascuno offre a quest’ultimo del sakè, e vice-versa: la condivisione del sakè nella stessa tazza segnala laseconda fase dell’avvicinamento padrone di casa-invitati.

L’invitato principale segnala la fine del pasto richieden-do l’infuso di riso tostato. Gli invitati puliscono con curatutti i loro piatti prima di riporli. Il rumore dei bastonciniche ricadono insieme nei piatti segnala al padrone di casa –in attesa nel mizuya – che può venire a raccogliere i piatti.

L’atto di sparecchiare segnala la fine del pasto.

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La seconda sequenza all’interno del chashitsu, quelladel tè denso, inizia con la risistemazione del carbone. Icarboni che si sono consumati durante il pasto devono es-sere rinnovati10. Il padrone di casa brucia dell’incenso pri-ma di rimettere il bollitore al suo posto. L’invitato princi-pale chiede allora di poter guardare il barattolo dell’incen-so: si tratta di un “oggetto estetico”. Dopo l’esame visivo,effettuato a turno dai visitatori, l’invitato principale porràal padrone di casa domande relative a questo oggetto (sti-le, età, artigiano, storia…).

Dopo aver servito un dolce non secco, il padrone di casainvita i suoi visitatori a osservare una pausa detta nakadachi.Gli invitati salutano a turno la calligrafia e il fuoco, ed esco-no nel giardino dove vanno a sedersi, sulla panca coperta.

Durante la pausa, il padrone di casa stacca la calligrafiadal tokonoma e la rimpiazza con un arrangiamento floreale.Per la confezione del tè, porta nella stanza una giara d’ac-qua, e la piccola giara del tè e le posiziona entrambe vicinoal braciere (la disposizione degli oggetti è geometricamentedeterminata).

Terminata la preparazione, il padrone di casa suona ilgong nella sala dell’acqua. Al suono del gong, gli invitati sialzano, si inginocchiano e fanno ritorno alla sala del tè, do-po delle abluzioni purificatrici nel catino.

Dopo essere entrati, ogni invitato va a inchinarsi davan-ti all’arrangiamento floreale e al fuoco, mentre fuori il pa-drone di casa toglie l’attingitoio dal bacino (non serviràpiù) e stacca le tendine esterne che mantenevano fino adallora la stanza in una certa penombra. Il padrone di casarientra nella sala del tè dalla porta della sala dell’acqua.Conduce gli ultimi utensili necessari e chiude la porta. Pu-rifica gli utensili e prepara del tè spesso in un totale silen-zio. Ciascuno degli invitati beve “tre sorsi e mezzo” di que-sto tè, nella stessa scodella che viene fatta circolare. L’ulti-mo invitato beve tutto ciò che resta.

La condivisione del tè spesso è il momento più solennee più teso della cerimonia. È anche il solo in cui il padronedi casa e i suoi invitati sono riuniti a porte chiuse11.

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Dopo aver consumato il tè, gli invitati esaminano la sco-della. Poi chiedono di vedere la giara del tè e il cucchiaino:sono oggetti preziosi che si osservano da un punto di vistaestetico.

Il padrone di casa toglie gli utensili del tè, spesso per si-stemarli nel mizuya. Inizia la terza sequenza, quella del tè leg-gero, con il riaggiustamento del carbone. Questa sequenza èsegnalata da una certa distensione. L’invitato principale chie-de di guardare i carboni prima che il bollitore sia rimesso alsuo posto. Gli invitati prendono posto, gli uni dopo gli altri,davanti al braciere per contemplare le ceneri e i carboni.

Il padrone di casa porta dei dolci secchi, quindi gliutensili del tè leggero. Prepara una tazza di tè per ognunodegli invitati. Al loro turno, gli invitati mangiano i dolci,bevono il tè, ammirano la tazza. Il tè leggero è servito a sa-zietà: tanto quanto ne richiedono gli invitati.

L’invitato principale chiede di vedere la confezione deltè e il cucchiaio. Il padrone di casa li presenta e comincia amettere in ordine. Dopo l’esame degli utensili, il padronedi casa li riprende e chiude la porta uscendo.

Riapre senza rientrare nella sala, e ringrazia i suoi ospitidi essere venuti. Gli invitati rendono il saluto, quindi l’o-spite principale annuncia che non è necessario riaccompa-gnarli fuori. Il padrone di casa si ritira e chiude la porta.Gli invitati s’inchinano davanti ai fiori e al braciere primadi andarsene attraverso la piccola porta degli ospiti chefanno sbattere chiudendo.

Il padrone di casa ripassa attraverso la propria porta,arriva fino alla porta degli invitati e la apre. Udendolo, gliinvitati si voltano e si inchinano. Il padrone di casa rendeloro il saluto, e rimarrà là finché gli invitati saranno visibili.

2.5. Il superamento condizionale e la suddivisione dellospazio

Consideriamo l’ospite che arriva nel luogo d’invito. Sitrova sulla strada, e, essendo la regola in Giappone, non

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vede nulla del padiglione dove si svolgerà la cerimonia. Ciòche è proposto al suo sguardo è un muro unito o una sem-plice palizzata, sopra la quale spuntano gli alberi del giar-dino. Interrompendo il muro, una porta segnala il luogod’ingresso.

Il dispositivo banale del muro e della porta è carico diun certo numero di significazioni.

- Sulla dimensione cognitiva, il muro impedisce la vi-sta. La congiunzione del soggetto (invitato) e dell’oggetto(muro) trasferisce al soggetto il carico modale negativoinvestito nel muro dal padrone di casa, che gioca in que-sto caso il ruolo di Destinante (Greimas, Courtés 1979,pp. 101-102): è la modalità del “non-potere”: non poterfare, o non poter vedere. Simultaneamente, gli alberi cheoltrepassano la sommità del muro indicano che c’è ungiardino al di là, mantenuto segreto in relazione alla stra-da grazie al muro.

- Sulla dimensione somatica, il muro serve a impedire ilpassaggio, sia per la difficoltà pragmatica che impone all’e-ventuale candidato al passaggio (caso in cui il muro comu-nica la modalità del “non poter fare”), sia per l’ingiunzionenegativa che enuncia: “invita” a non passare di là (trasmis-sione di un voler non fare) e a prendere la porta che inter-rompe il muro suddetto (far voler fare). In qualche modo,il muro guida il visitatore verso il punto di passaggio desi-gnato: la porta.

Il dispositivo muro-porta, sul piano semiotico, apparedunque carico di tre investimenti modali:

i) far volere negativo/positivo (virtualizzazione del sog-getto);

ii) far potere/non potere (attualizzazione pragmatica);iii) far sapere/non sapere (attualizzazione cognitiva).Tradizionalmente, le porte giapponesi non hanno serra-

ture. Un lucchetto o una sbarra permettono di assicurareuna chiusura solida, ma presuppongono entrambi che cisia qualcuno all’interno per bloccare/sbloccare il sistema dichiusura. Di fatto, c’è sempre qualcuno nei luoghi d’abita-zione tradizionali in Giappone12.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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Davanti alla porta chiusa di una casa, l’uso vuole che sichiamino coloro che vi abitano per annunciarsi. Senzadettagliare la procedura, è importante dire che non si en-tra liberamente in un giardino del tè. Se l’invitato trova laporta chiusa, questo significa che è troppo in anticipo eche il padrone di casa non è ancora pronto. All’invitatonon rimane che fare un piccolo giro nel vicinato per ritor-narvi poco dopo. L’etichetta gli impedisce di aspettare da-vanti alla porta: solo i domestici e i mendicanti lo fanno.La porta chiusa è quindi investita della modalità del dove-re che sovradetermina una catena: non entrare, fare un gi-ro, ritornare.

Se, invece di essere chiusa, la porta è aperta, essa nonimpone un’interdizione al passaggio. L’invitato potrà quin-di passare (modalità del potere). Tuttavia, fino a quando ilsuolo non sarà bagnato, il visitatore non deve entrare: l’as-senza di acqua in terra primeggia rispetto alla porta semia-perta. Semioticamente parlando, l’acqua sul suolo appareinvestita di modalità virtualizzanti (assenza = far dover nonfare; presenza = far voler fare) mentre la porta è investitasolamente di una modalità attualizzante (chiusa = far nonpotere; socchiusa = far potere).

Per designare il visitatore, abbiamo utilizzato qualchevolta il termine di invitato, poiché la persona in questioneha già ricevuto un invito scritto; abbiamo già detto che l’e-tichetta gli impone di rendere una visita di ringraziamentoal domicilio dell’invitante. Tuttavia, un tale invito globaledovrà essere riattualizzato un gran numero di volte nelcorso del chaji. Più specificamente, ci interesseremo alpassaggio di quattro porte: sviluppano localmente le tappedell’acquisizione della competenza e del compimento diquella performanza che è rappresentata dal superamentodi un limite.

Ritorniamo alla porta del giardino. Il padrone di casa siesprime all’indirizzo dei suoi ospiti manipolando oggettidel mondo naturale: bagnando il suolo, li invita a entrare(far volere); lasciando socchiusa la porta, dà loro la possi-bilità di entrare (far potere). Tutto ciò viene fatto normal-

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mente prima del loro arrivo, e il caso dell’invitato in anti-cipo è stato prodotto qui per rivelare i meccanismi semio-tici dell’interazione. Lo sfasamento temporale permetteche gli invitati non vedano il padrone di casa realizzarequesti gesti alla loro intenzione: ne leggono le tracce.

Il padrone di casa si ritira in cucina per preparare ilpasto, mentre gli invitati arrivano uno a uno. Ognuno en-tra e rimette la porta nello stato in cui l’aveva trovata.L’ultimo arrivato richiude la porta, che si ritrova a quelpunto investita da modalità negative: dover non (passare)e non poter (passare). In questo modo gli invitati signifi-cano a terzi (fuori dal giardino) che non desiderano esse-re disturbati.

Dopo l’episodio del machiai, gli ospiti vanno a mettersisulla panca coperta in giardino, e aspettano. Quest’attesa èdifferente da quella che sarebbe stata un’attesa in strada da-vanti alla porta: qui sono all’interno e si mette a loro dispo-sizione tabacco per fumare, inchiostro e carta nell’eventua-lità che vogliano scrivere delle poesie.

Terminati i suoi preparativi, il padrone di casa esce dal-la cucina, viene in giardino dove asperge d’acqua le pietredavanti al catino delle abluzioni (tsukubai) e si risciacquaritualmente le mani e la bocca. Si dirige in seguito verso laporta nel mezzo (nakakuguri) che divide il giardino in dueparti. Apre questa porta e, senza attraversarla, si inchina si-lenziosamente all’indirizzo dei suoi invitati. Questi ultimi sialzano e gli rendono il saluto. Il padrone di casa si gira edentra nel padiglione del tè dalla porta degli invitati (nijiri-guchi). Ricordiamo che era uscito dalla porta della cucina.Tira la porta nijiriguchi dietro di sé, lasciandola socchiusa.

A partire da questo momento, gli invitati possono pas-sare la porta che dà sull’interno. Hanno il piacere di farlonel momento che pare loro opportuno. Dopo il passaggio,l’ultimo invitato chiude questa porta. Il secondo supera-mento è comparabile al primo:

i) il padrone di casa e gli invitati si trovano da una partee dall’altra della porta;

ii) la porta è aperta, per la modalità del potere;

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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iii) il saluto gioca qui il ruolo di invito a entrare: gli invi-tati vedono il padrone di casa, e la modalità della virtualiz-zazione trasmessa direttamente, visualmente e non dall’ac-qua presente sulla soglia13;

iv) gli invitati varcano la porta nijiriguchi in assenza delpadrone di casa.

Il terzo passaggio, quello della porta nijiriguchi, assomi-glia punto per punto ai due precedenti:

i) il padrone di casa e gli invitati si trovano da una partee dall’altra della porta;

ii) la porta è aperta, per la modalità del potere;iii) la soglia è bagnata, trasmettendo la modalità virtua-

lizzante attraverso una traccia, essendo invisibile il padro-ne di casa;

iv) gli invitati varcano la porta in sua assenza.Disponiamo quindi di un paradigma dei tre passaggi

dei limiti. Sono cambiati i luoghi situati da una parte e dal-l’altra del limite, sono mutati i loro investimenti descrittivi(interno/esterno) o modali (privato/pubblico), è cambiatoil dispositivo che traccia il limite (palizzata, siepe continuao parziale, muro), è cambiata la configurazione della por-ta… solo il modo di operare rimane stabile.

Le tappe della virtualizzazione e dell’attualizzazione de-gli invitati sono state già sufficientemente descritte. Esami-niamo la fase della realizzazione e prendiamo come casoparticolare il passaggio della porta in mezzo al giardino.Questa porta è a giorno, quale che sia la sua altezza: gli invi-tati che si trovano nel “giardino esterno” (sotoroji) vedono,attraverso la porta, il “giardino interno” (nakaroji). La portasegnala, sul cammino di passaggio, il limite tra i due giardi-ni. Conviene specificare che in questi giardini si camminaunicamente lungo i percorsi prescritti (dover fare) e non sipasseggia al di fuori del sentiero (dover non fare). O me-glio, il sentiero è fatto da pietre non unite disposte a distan-ze determinate con cura. Il visitatore deve posare i piedi suqueste pietre e su di esse solamente. In questo modo il rit-mo del passo è determinato allo stesso modo dei punti divista che gli sono proposti. Se il sentiero possiede numerose

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ramificazioni, le sezioni interdette (dover non passare) sonoindicate sia da un ciottolo munito di un nodo di corda gros-sa, sia per un treppiede di bambù spaccato. In queste con-dizioni, per dividere un giardino in due, non è necessariocostruire un muro continuo attraverso il giardino, pur re-stando una possibilità. Con un minimo sforzo, basta segna-lare i limiti sul sentiero. Il ciottolo annodato e il treppiedesegnalano un’interdizione totale (anche se solo tempora-nea). Una porta segnala un interdetto convenzionale: è quiche il padrone di casa verrà a togliere l’interdetto e a rim-piazzare il dover non fare con un voler fare e un poter fare.

Sia il seguente schema semplificato:

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

SOTORIJI NAKAROJI

NAKAKUGURI

Invitati(I)

Padrone di casa(pdc)

Nella misura in cui ci interessiamo al passaggio tra dueporzioni di spazio (topoi), possiamo porre che ci sonoquattro attanti le cui giunzioni definiscono due stati:

stato stato 2

Invitati vs. padrone di casacongiunti con congiunto con

sotoroji nakaroji

Il padrone di casa non esce dal nakaroji durante tutto ilchaji. È il suo territorio, in cui il chashitsu è impiantato. Seconsideriamo che la giunzione (soggetto, topos) definiscelo stato del soggetto, solo il soggetto “invitati” è modifica-to dal superamento della soglia:

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I congiunto sotoroji I disgiunto sotorojiI congiunto nakaroji

Prima del passaggio, il soggetto ha ricevuto, sulla porta,le modalità virtualizzanti e attualizzanti che lo rendonocompetente. Da quel momento, l’assenza del padrone dicasa, il quale gioca il ruolo di Destinante fonte della com-petenza, produce un effetto di senso particolare al momen-to del passaggio: così, il soggetto “invitati” diventa il sog-getto realizzante il fare “superamento (o passaggio) dellaporta”. D’altro canto, deve aprirla completamente dopoche il padrone di casa l’ha socchiusa. Se il padrone di casafosse rimasto là (come è di solito il caso al momento delpassaggio di porte all’interno delle case giapponesi), sareb-be apparso come il soggetto del fare, confinante I nel ruolodi soggetto di stato. Di conseguenza, l’assenza del padronepermette a I di accumulare i ruoli di soggetto del fare e disoggetto di stato, ovvero di essere soggetto semiotico nelsenso pieno del termine, autore della performanza (Grei-mas, Courtés 1979, pp. 248-250).

Troviamo qui una seconda ragione strutturale per dif-ferenziare la cerimonia del tè dalla visita ordinaria a do-micilio (cfr. infra, § 2.4.). Paradossalmente, l’assenza delpadrone di casa al momento del varco manifesta maggio-re attenzione nei riguardi dell’invitato, il cui statuto è ele-vato per avvicinarsi a quello del padrone di casa. Vedre-mo che riceverà uno statuto superiore o uguale all’internodel chashitsu.

Abbiamo appena spiegato l’effetto di senso risultantedall’assenza del padrone di casa al momento del passaggiodelle porte. Rimane da rendere conto del fatto che que-st’ultimo resta sempre nello spazio più interno, senza oltre-passare il limite verso il giardino esterno. Questo è connes-so alla nozione di privato e a quella di purezza, che esplici-teremo nel paragrafo seguente. Ammettiamo per ora che lacatena degli spazi separati da limiti si ordini dal meno puroal più puro, andando dall’esterno verso l’interno. Il padro-ne di casa, che viene a purificarsi ritualmente nel tsukubai,

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non esce più dal nakaroji. In modo simmetrico, resi com-petenti per il varco della soglia, gli invitati vanno a lorovolta a purificarsi allo tsukubai (sono stati virtualizzati e at-tualizzati per questa purificazione: aspersione delle pietredavanti al tsukubai e rinnovo della sua riserva d’acqua).

Il varco, quale l’abbiamo descritto, non ha luogo secon-do queste regole se non quando gli spazi separati sono in-vestiti di una differenza modale e descrittiva (in particola-re, dotati dei caratteri di puro e di privato). Ci sono altreporte che non sono investite allo stesso modo (per es. l’en-trata del machiai o padiglione d’accoglienza). Questo signi-fica che gli spazi interessati non hanno un investimento dif-ferenziato rispetto a quello che li circonda. Di conseguenzasi possono reperire gli investimenti differenziati dai ritualidi passaggio condizionato: c’è un rivelatore sintattico che,con gli altri atti realizzati, serve a spiegare la carica seman-tica dei luoghi e degli oggetti.

Rimane un quarto superamento condizionale: dopo lapausa (nakadachi) in giardino, gli invitati rientrano nel cha-shitsu dalla porta nijiriguchi. Il rituale è simile in ogni pun-to, salvo uno, che si lascia dedurre a partire dagli altri tre:

i) il padrone di casa e gli invitati sono dalle due partidella porta: ciò impone al padrone di casa di non uscire dalchashitsu fino al giardino, dato che finirebbe, con gli invita-ti, dallo stesso lato della porta;

ii) la porta è socchiusa (attualizzazione);iii) essendo il padrone di casa invisibile e non potendo

passare dallo stesso lato per inumidire il suolo, la virtualiz-zazione non può compiersi visivamente, né direttamente(saluti), né indirettamente (aspersione); viene allora investi-to il canale sonoro: una serie di colpi di gong trasmettonola modalità virtualizzante (volere o dovere); visto che le vir-tualizzazioni precedenti sono realizzate con l’acqua, il gongè posto sotto il segno dell’acqua: è appeso nella mizuya, osala dell’acqua14;

iv) gli invitati entrano in assenza del padrone di casa.A posteriori, possiamo riesaminare adesso la sequenza del

varco della porta nakakuguri e rendere conto del silenzio del

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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padrone di casa quando viene a pregare i suoi visitatori divarcarla. Tutto ciò passa attraverso l’opposizione con il colpodi gong che gioca lo stesso ruolo della virtualizzazione:

virtualizzazione

MANAR HAMMAD{Inchino reverenziale in piedi colpo di gong.Invitati e padrone di casa si vedono reciprocamente.Uso del canale visivo, non utilizzo del canale sonoro.Invitati e padrone di casa non si vedono reciprocamente.Non utilizzo del canale visivo, uso del canale sonoro.

L’opposizione fa apparire una regola implicita: al mo-mento della virtualizzazione, il messaggio non è ridondan-te. Se viene utilizzato un canale sensoriale, l’altro non puòesserlo contemporaneamente. Questa regola è valida an-che per i due altri passaggi esaminati, dove l’acqua sparsasul suolo non è raddoppiata da un’altra espressione signifi-cante. Un esame più estensivo permette di verificare la va-lidità di questa regola a proposito di tutti gli scambi del tè:i protagonisti dicono solo ciò che deve essere detto, né piùné meno. La comunicazione è ridotta al necessario e suffi-ciente, e nulla è semplice ridondanza. Da quel momento,ogni duplicazione porta con sé un effetto di senso che bi-sognerà interrogare.

Questa regola metodologica estratta dall’analisi degliatti realizzati concorda con l’analisi del sistema delle rego-le del chado trasmesse dalla tradizione, dove si vede appa-rire un’estetica del necessario o dell’indispensabile.

La sequenza di superamento dei limiti ci informa sullaconfigurazione dello spazio globale e sulla sua partizionein luoghi distinti dalle procedure sintattiche15. Non ciinforma, invece, sulla carica semantica di questi luoghi.

Un limite superabile a volontà e in tutti i punti non è,propriamente parlando, un limite: nulla, in termini di azio-ne e di fare, permette di distinguerlo da un’assenza di limi-

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te. Esso non sarà riconosciuto come tale nell’analisi di cuici stiamo occupando (rimane potenzialmente attualizzabilein altre sequenze). Abbiamo già segnalato la porta del ma-chiai come rilevante di questa categoria.

Un limite non superabile somaticamente e cognitiva-mente equivale alla non esistenza dei luoghi che sono oltre:questi luoghi sono inconoscibili. Non possono essere inve-stiti semanticamente, e non saranno presi in considerazione.

Ci interessano solamente, quindi, i limiti di cui il supe-ramento è condizionale: in certi punti, da certe persone, se-condo certe procedure. Con questo criterio, a partire dauna descrizione tipo dei luoghi del tè e dei quattro supera-menti studiati, si ottiene lo schema seguente:

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

I SOTOROJI

II NAKAROJI

III CHASHITSU

iiiNIJIRIGUCHI

iiNAKAKUGURI

iROJIGUCHI

Partizione del chaniwa, spazio accessibile ai visitatori, accesso condizionale: i) porta del giardino;ii) porta dell’ambiente interno;iii) porta attraverso la quale “ci si intrufola”;I) giardino esterno;II) giardino interno;III) questo termine designa indifferentemente il padiglione del tè nella suatotalità e la cerimonia all’interno del padiglione.

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La porta rojiguchi (i) regola il passaggio tra il mondoesterno e l’insieme dello spazio del tè o chaniwa. A lato diquesta porta, che non si apre se non agli invitati, la separa-zione /mondo/ vs /chaniwa/ è doppia. Pragmatica: un muroimpedisce il passaggio (costruito in terra o fatto di bambù,questo muro è oggetto di attenzioni particolari in seguito al-le raccomandazioni di Rikyu). Cognitiva: il muro ostruisce lavista, gli alberi contribuiscono a nascondere le case vicine, econtemporaneamente smorzano i rumori esterni.

La cinta è quindi investita di una doppia modalità nega-tiva: non potere (passare) e non sapere (ciò che avviene).Questa attualizzazione negativa presuppone una virtualiz-zazione negativa: il padrone di casa non vuole connettereal mondo questo spazio. Si tratta quindi di uno spazio de-brayato, costituito come un qui che rinvia all’altrove delmondo in un non-luogo di cui non vuole sapere nulla.

Bisogna aggiungere la sala dell’acqua o mizuya, accessi-bile al solo padrone di casa, con due porte interdette agliinvitati:

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iv) porta posteriore del mizuya;v) sadoguchi: porta del padrone di casa; IV) mizuya: sala dell’acqua.

iii

ii

i

iv

IV MIZUYA III

SADOGUCHIv

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L’ARCHITETTURA DEL TÈ

2.6. Carico semantico degli spazi

La proprietà e le cure meticolose di cui il chaniwa è fat-to oggetto lo qualificano come un sito puro, opposto al-l’impurità e all’abbandono esteriori. Se il giardino è glo-balmente puro per opposizione al resto del mondo, è tut-tavia diviso in due parti distinte e separate da una frontie-ra (materiale o virtuale), essendo il passaggio tra le dueparti regolato dalla porta di mezzo (ii).

Si pone allora la questione di cosa costituisca la diffe-renza tra i due spazi. La risposta è che c’è una modulazio-ne della purezza: il giardino interno è più puro di quelloesterno, come il chashitsu sarà più puro di quello interno.Per stabilire questo risultato, esaminiamo ancora una voltacosa succede in questi luoghi.

In un giardino completo, ovvero in un giardino checontiene tutti gli elementi prescritti dalla tradizione, si tro-va, sia in quello interno che in quello esterno, un piccoloorinatoio chiamato setchin, e che di fatto è una latrina.Questi luoghi sono mantenuti in uno stato di pulizia meti-colosa dallo stesso padrone di casa, conformemente allatradizione dei monasteri zen. Questa proprietà testimoniadella purezza che gli è associata tradizionalmente. Tutta-via, si pone la domanda di sapere perché c’è una latrina inun luogo così raffinato, destinato a un’attività così formale.Meglio: perché devono esserci due latrine?

La risposta risiede nei meccanismi fondamentali dellacomunicazione non verbale. In effetti, nella misura in cuiil mondo naturale offre alla nostra percezione delle cose,non offrirà alcuna possibilità di inscrivere delle nozioninegative. Come significare, con l’aiuto di oggetti, la nega-zione seguente: “non c’è dell’impuro qui”? Il solo mezzoè quello di poter mostrare delle impurità, ma non qui.Per esempio: esibirle, poi eliminarle; o mostrarle da lon-tano: altrove. Nel mondo naturale l’unico modo di co-struire la negazione passa per una prima asserzione (cioèper la presenza di ciò che sarà negato) che, da quel mo-mento, potrà essere seguita da atti negatori (come la spa-

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rizione dell’oggetto, o l’eliminazione di una qualità chegli è essenziale, come la vita presso gli esseri viventi: lamorte è una forma di negazione; la perdita della faccia neè una versione attenuata).

Nell’universo chiuso del giardino del tè, isolato dal re-sto del mondo per la sua chiusura, la purezza è affermatacon l’aiuto di mezzi non verbali, in due fasi successive.

Fase 1: il nakaroji è più puro del sotorojiLa latrina è un luogo dove ci si sbarazza delle materie

corporali identificate come impure in un gran numero diculture, specialmente nella cultura buddista. La presenzadi latrine apporta quindi un elemento di impurità a tutto ilgiardino. A ogni modo la regola della cerimonia del tè, co-nosciuta da ogni adepto, vuole che solo la latrina del soto-roji (giardino esterno) sia utilizzabile. L’altra, quella delnakaroji (giardino interno) non è mai utilizzata. L’uso dellaprima permette di imporre il non uso della seconda: l’as-serzione dell’impurità del giardino esterno autorizza la ne-gazione di questa stessa impurità nel giardino interno. Ladoppia negazione (non impurità) equivale a una afferma-zione rinforzata. Da questa doppia operazione, il nakarojine esce con una specie di purezza marcata.

Non è tutto, dato che la possibilità d’utilizzo del solosetchin del sotoroji non basta a negare l’uso del setchin delnakaroji: la conoscenza della regola si basa in effetti sullavirtualizzazione secondo il dovere (dover non utilizzare ilnakaroji setchin). In una logica del mondo naturale, la vir-tualizzazione non basta a veicolare la significazione: biso-gnerà che gli atti assertivi e di negazione siano attualizzati erealizzati.

L’attualizzazione è assicurata dalla presenza di tutti glielementi necessari ai due setchin: orinatoio murato su trelati, semi-porta aperta sul davanti, due pietre per sopraele-vare i piedi, letto di sabbia fina tra le due pietre, riserva disabbia per ricoprire gli scarichi, bacino per le abluzioni da-vanti alla porta, asciugamano per asciugarsi…

Infine, la realizzazione della negazione si costruiscecosì: se l’uso del primo setchin è libero, quello del secon-

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do è interdetto. Traduciamo con le seguenti modalità vir-tualizzanti:

/non dover non fare/ vs. /dover non fare/sotosetchin nakasetchin

L’ultima modalità deve realizzarsi con un non utilizzo.Ora, come significare un non-uso del secondo se la li-bertà relativa al primo (non si può certo obbligare qual-cuno ad arrangiarsi) ha fatto sì che gli invitati non se nesiano serviti? La soluzione è la seguente: è fatto obbligoagli invitati, al momento del loro passaggio dal sotoroji alnakaroji di andare a ispezionare il setchin di quest’ultimo.In questo modo vanno a vedere la seconda latrina e ri-partono senza servirsene. Negando l’uso, negano l’impu-rità affissa a un tale luogo e affermano allo stesso tempola sua purezza.

Fase 2: il chashitsu è più puro del nakarojiIl giardino interno, di cui la purezza è stata costruita al

prezzo di un’elaborata procedura, deve ora essere qualifi-cato come meno puro dello spazio seguente, quello dove sisvolge la cerimonia del tè. La procedura è la stessa e si co-struisce sulla configurazione del rifiuto eliminato.

Vicino al chashitsu, si sistema una piccola fossa murataal suolo: il chiriana. Si tratta di un cestino della spazzaturadel giardino, in cui si è supposti raggruppare le foglie mor-te e gli altri rifiuti che possono cadere dalle piante dopo lapulizia assicurata dal padrone di casa. Per significare chia-ramente che è un cestino, il padrone di casa si prende lacura di mettervi foglie morte. Vi pone anche un paio di ba-stoncini di bambù di cui gli ospiti potranno servirsi per ra-mazzare qualche rifiuto e gettarlo nel chiriana. I commentitradizionali dicono che così facendo gli invitati si sbarazza-no delle loro ultime preoccupazioni del mondo prima dientrare nel chashitsu.

In opposizione a questo, e per costruire la negazione,non c’è nessun cestino per i rifiuti nel chashitsu. Meglio:non c’è alcuno scarto. I piatti del cibo sono puliti dagli

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stessi convitati: le tazze di riso sono risciacquate dall’ac-qua calda servita e asciugate con un foglio di carta16 con-servato nella manica sinistra del kimono. Nulla è gettatonel chashitsu e questo luogo guadagna uno statuto di pu-rezza supplementare. In tre tappe successive (mondo vs.giardino; giardino esterno vs. giardino interno; giardinointerno vs. padiglione del tè), vediamo costruirsi un per-corso di purezza dei luoghi. La procedura ricorre alle ope-razioni seguenti:

(i) determinazione delle unità di spazio (topoi) median-te l’installazione dei limiti realizzati (barriere, muri) dal su-peramento condizionale;

(ii) investimento delle unità di spazio tramite valoridescrittivi costruiti con l’aiuto di oggetti (setchin,chiriana) sovradeterminati dalle azioni di asserzione e dinegazione.

Nei due casi sia le unità di spazio sia i valori sono deter-minati qui e ora da atti scomponibili in operazioni (asser-zioni e negazioni). Durante il chaji, il padrone di casa e isuoi ospiti sono portati a compiere un gran numero diazioni simili che assicurano la riattivazione delle cose e delloro carico semantico a profitto del rituale celebrato. La ri-correnza di questo approccio produce il seguente effetto disenso: gli attori che partecipano al rituale sono situati in ununiverso immanente, dove i valori non esistono a priori.Affinché i valori esistano, è indispensabile produrli, co-struirli, rifarli ogni volta.

Altro fatto rivelatore: i valori sono costruiti da atti enon da parole. In questo contesto, l’azione è creatrice disenso. Contraffacendo il titolo di un’opera ben conosciutain semiotica, diremo che in questo caso fare è dire. Poten-do essere elevato al rango di aforisma, questo enunciato èverificabile in tutte le semiotiche sincretiche.

Parallelamente alla costruzione della scala della purez-za appena osservata, le operazioni realizzate mettono inscena una doppia scala di privatizzazione, secondo il sape-re e secondo il potere, presupponendo una modalità delvolere. Non entreremo nel dettaglio di questa costruzione,

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così come non toccheremo la questione dell’aspettualizza-zione di queste due scale: su di un sostrato di variazionespaziale continua (definibile come un gradiente, e rico-struibile a partire da diversi casi), il taglio dello spazio inunità discrete produce dei “salti” discreti legati alle unità.Lo studio di questi fenomeni ci porterebbe lontano dal li-vello delle “strutture profonde” dove abbiamo scelto disviluppare questa analisi.

2.7. L’investimento polare degli spazi

All’interno del chashitsu, gli invitati si muovono pochis-simo: la maggior parte della cerimonia è statica, i parteci-panti restano seduti, l’azione coinvolge soltanto busto,braccia e testa. Ne risultano due effetti di senso:

(a) alcuni topoi statici – o unità di spazio capaci di gio-care ruoli attanziali17 – sono determinati dalla sfera d’azio-ne dei protagonisti della cerimonia;

(b) i movimenti grazie ai quali l’insieme del corpo simuove prendono un rilievo particolare.

Quando gli invitati entrano nel chashitsu, vanno in ordi-ne a inchinarsi profondamente davanti alla calligrafia(kakemono) sospesa nel tokonoma, poi vanno a inchinarsiallo stesso modo davanti al braciere, in cui i carboni si con-sumano sotto al bollitore. I saluti vengono rinnovati al mo-mento dell’uscita per il nakadachi. Quando questo momen-to è terminato, i visitatori rientranti salutano l’insieme flo-reale del tokonoma, poi il fuoco e i suoi accessori, e ripeto-no questi gesti all’uscita finale.

I saluti inquadrano ciascuna delle due parti della ceri-monia (1. Shoza; 2. Goza); essi giocano quindi un ruolosintattico particolarmente importante, corrispondente aigesti sociali di “presentare il proprio rispetto” all’entrata,e di “prendere congedo” all’uscita. Il fatto che le entitàsalutate siano oggetti non cambia nulla: i gesti di salutosono quelli che si usano riguardo a persone viventi. Ciòche i fatti menzionati dimostrano è che la cerimonia del

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tè pone gli uomini e le cose su un piano di uguaglianza,in una classe unica dove tutte le entità giocano ruoli com-parabili. In qualche modo, c’è una antropomorfizzazionedelle cose.

I “rispetti” espressi all’entrata e all’uscita testimonianodel fatto che le entità salutate sono gerarchicamente supe-riori agli invitati. Questa interpretazione è confermatadalla disposizione spaziale degli invitati: l’invitato princi-pale, che è il più onorevole, è posto vicino alla calligrafiadello shoza (o vicino all’arrangiamento floreale del goza);gli altri invitati gli succedono per ordine d’importanza de-crescente lungo il muro18. Su questa scala decrescente, lacalligrafia occupa il polo superiore:

Per ogni persona P di questa serie, il vicino di destraoccupa una posizione superiore a quella di P, il vicino disinistra una posizione inferiore a quella di P. La calligrafianon ha alcun superiore su questa linea19.

Da questa organizzazione risulta che gli invitati si siedo-no in un topos collocato sotto il segno della calligrafia nelloshoza e sotto quello dell’arrangiamento floreale nel goza.

La nicchia dove sono attaccati questi oggetti, chiamatatokonoma, deriva dall’altare buddista, come attesta la sto-ria dell’architettura. Pur non essendo un altare, questo ri-cettacolo conserva un carattere prossimo al sacro: tuttociò che vi è posato possiede una “potenza” capace di in-fluenzare il corso degli eventi. Se non possiede diretta-mente questo carattere, essa rinvia a un’entità che lo pos-siede. In questo, esso mantiene qualità che lo avvicinano aun Destinante trascendente in senso semiotico.

Nella misura in cui ciascun invitato riceve un postoprescritto – in cui realizzerà tutta la sua attività –, e i posti

terzo secondo primo calligrafia oinvitato invitato invitato arrangiamento

floreale

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formano una catena, la cui origine risiede nel tokonoma, sipuò parlare di un topos degli invitati dipendente dal polotokonoma.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

POLO 1

11

12

13

1415

11… 15 = ordine lineare degli invitati piazzati in relazione all’oggetto (polo 1).– – – = limite del topos degli invitati

POLO 2

padronedi

casa

pdc = posto del padrone di casa in relazione al polo 2: il fuoco.– – – = limite del topos del padrone di casa.

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Quanto all’altro elemento salutato, il fuoco, esso costi-tuisce alla fine dello shoza e durante la totalità del goza ilpolo fisso dell’attività del padrone di casa e del suo topos.In questo caso è possibile riconoscere una coppia Desti-nante – Soggetto parallela a quella tokonoma – Invitati.

Il chashitsu contiene almeno due topoi, legati ciascunoa un polo particolare, e attribuiti a ognuno dei protagonistidella cerimonia: il padrone di casa da una parte, l’insiemedegli invitati dall’altra.

L’esame del piano del chashitsu a partire da questa pri-ma determinazione permette di riconoscere una configura-zione topica (b) che abbiamo già incontrato in semioticadello spazio (cfr. Hammad 1979 e infra, cap. 6):

L’insieme dei due topoi forma un anello al centro delquale è mantenuto uno spazio vuoto. Si tratta della confi-gurazione anulare standard (a) riconosciuta nello spaziodel seminario, nella sala di ricevimento zashiki della casagiapponese (cfr. Hammad 1980a) e in un gran numero dialtri casi. In modo costante, e in tutte le culture dove la siriscontra, questa configurazione corrisponde a interazionidette contrattuali20.

MANAR HAMMAD

a b c

øø

P

p1 p2

T1 T2T1 T2

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L’anello è diviso in due topoi dotati di due poli in piùrispetto agli attanti che vi si congiungono. La configurazio-ne risultante (b) è a metà strada tra la configurazione con-trattuale (a) e la configurazione polemica (c) quale viene ri-conosciuta in altre circostanze. Più precisamente essa in-scrive la configurazione polemica all’interno della configu-razione contrattuale. Di conseguenza, possiamo dedicarci,a partire dal riconoscimento di questa configurazione topi-ca, a vedere l’interazione dei protagonisti nello sviluppo dialmeno una sequenza polemica sovradeterminata dall’inte-razione contrattuale21. È effettivamente ciò che si constata.

Tuttavia, durante la maggior parte dello shoza, il pa-drone di casa non occupa il topos che gli abbiamo appenariconosciuto: bisogna che egli sia servito del pasto kaiseki.La sua attività può essere divisa in due categorie: da unaparte la preparazione degli elementi del pasto nella saladell’acqua: confeziona gli alimenti, prepara piatti, vassoi,bevande… e mangia tutto solo in questo luogo; dall’altraparte gli andirivieni tra il mizuya e il chashitsu, per i biso-gni del servizio (servire, sparecchiare). Ne segue che il mi-zuya gioca un ruolo fondamentale per il padrone di casadurante lo shoza.

Non è tutto: gli spostamenti del padrone di casa attra-verso la porta sadoguchi che mettono in comunicazione ilmizuya con il chashitsu, hanno per corollario il non passag-gio degli invitati attraverso questa stessa porta. Di conse-guenza, se il chashitsu può essere detto uno spazio comuneal padrone di casa e ai suoi invitati, il mizuya è uno spazioprivato riservato al solo padrone di casa.

C’è di più: la posizione aperta o chiusa della porta sado-guchi è carica di significazione. Nel caso di cui ci occupia-mo, il padrone di casa è il solo ad aprire, a passare e a chiu-dere. È dunque contemporaneamente soggetto di stato esoggetto del fare nell’atto di varcare il limite. Ora, se il suostatuto di soggetto di stato si definisce in relazione ai duepoli tra i quali si sposta (il mizuya e il chashitsu), il padronedi casa sovradetermina questi stati grazie alla posizionedella porta. Spieghiamoci meglio.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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1. Nel momento più intenso della cerimonia, quello deltè, spesso il padrone di casa e i suoi invitati sono insiemenel chashitsu. È anche il solo momento in cui la porta sado-guchi è chiusa verso di loro, separandoli simultaneamentedal mizuya.

2. Al momento della consumazione del pasto, il primoinvitato dice al padrone di casa: “Vogliate mangiare connoi”. Quest’ultimo risponde: “Mangerò nel mizuya”. Ci vaper consumare il suo pasto, e chiude la porta dietro di sé.È il solo momento in cui i due protagonisti compiono lostesso atto simultaneamente pur restando separati dallaporta chiusa.

3. Durante il servizio, quando il padrone di casa portaqualcosa ai suoi invitati, lascia la porta sadoguchi aperta. Inquesto modo, mentre è con i suoi invitati per servirli, nonha veramente abbandonato il mizuya, cui resta legato attra-verso la porta aperta. Simmetricamente, quando ritorna almizuya a cercare un altro piatto, non ha abbandonato isuoi ospiti ai quali resta legato dalla porta aperta.

Abbiamo quindi quattro casi possibili, dove la giunzio-ne invitati-padrone di casa (in breve: “I” e “pdc”) è sovra-determinata dalla porta aperta o chiusa:

MANAR HAMMAD

porta chiusa porta aperta

pdc con i suoi congiunzione non congiunzione (pdc, I)invitati (pdc, I) poiché pdc resta legato al

mizuya

pdc senza disgiunzione non disgiunzione (pdc, I)gli invitati (pdc, I) poiché pdc resta legato

agli invitati

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La porta condizionale funziona quindi come un opera-tore di negazione applicato alle giunzioni che definiscono ilsoggetto di stato. Essa determina i quattro stati di due at-tanti. Simultaneamente, abbiamo appena messo in eviden-za il ruolo del mizuya come polo significante.

Ricapitoliamo la problematica dei poli. Ne abbiamoquattro:

mizuya o sala dell’acquabraciere o luogo del fuoco

arrangiamento florealecalligrafia

Se questi poli sono attribuibili due a due a ciascuno deiprotagonisti, possono essere accoppiati in altro modo, se-condo il criterio della co-presenza:

- mizuya + calligrafia : nel shoza (o prima assise)- braciere + arrangiamento floreale : nel goza (o seconda assise)

È percepibile una certa eterogeneità nel modo di desi-gnare questi poli che abbiamo reperito sintatticamente.Una tale eterogeneità può disturbare, soprattutto sapendoche certi poli sono sovradeterminati dai topoi (per gli invi-tati o per il padrone di casa). Ci interessa allora analizzaresemanticamente questi termini e reperire ciò che li rendeisotopi.

Una prima risposta si trova nella spiegazione dei ter-mini mizuya e braciere, rispettivamente sala dell’acqua22

e luogo del fuoco. Con l’acqua e il fuoco, abbiamo a chefare con due “elementi” che ci rinviano agli elementi del-l’universo (se ce ne sono quattro nella mitologia indo-eu-ropea – acqua, fuoco, terra, aria –, i cinesi e i giapponesine contano cinque – acqua, fuoco, metallo, terra, aria).Questi termini sono particolarmente utili nel ruolo di“valori” necessari all’analisi semantica fondamentale. Laquestione che si pone a questo punto è quella di sapere

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

}

}

per il padrone di casa

per gli invitati

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se la calligrafia e l’arrangiamento floreale sono portatoridegli stessi valori, o di valori che si riferiscano allo stessoparadigma.

La calligrafia delle cerimonie del tè è obbligatoria-mente fatta con l’inchiostro nera della Cina. Nessun colo-re e nessun disegno possono accompagnarla. Ora, l’in-chiostro della Cina è fatto di fuliggine (olio bruciato: ri-sulta da un fuoco spento, aspetto terminativo), mischiataa colla e infine allungata con acqua. La calligrafia potreb-be quindi rinviare a un fuoco morto e trasformato, cioè aun fuoco negato o a un “non-fuoco”, che si oppone alfuoco attivo del focolare, il quale assicura la cottura e ilriscaldamento.

Se una tale interpretazione è buona, si dovrebbe tro-vare, per ragioni di simmetria, che l’arrangiamento flo-reale rinvia a una “non-acqua”. La verifica di questopunto apporterebbe una prova di coerenza interna. Ve-diamo: l’arrangiamento floreale si riduce a un fiore, conqualche filo d’erba, e qualche volta delle gemme. Tuttiquesti elementi devono essere freschi, disposti con sem-plicità, “come nei campi” raccomanda il maestro Rikyu.Queste piante affondano i loro steli in un piccolo reci-piente contenente acqua, e sono aspersi di un’acqua fine-mente polverizzata che imita la rugiada. Ritroviamoquindi l’elemento acqua sotto una forma attiva, vivente,che assicura la vita delle piante. Essa si oppone all’acquadel mizuya, che è un’acqua passiva, destinata a essere tra-sformata dalla cottura.

Gli elementi semantici che escono da questa rapidaanalisi non rinviano all’insieme dei cinque elementi. Rin-viano piuttosto a un dominio di opposizioni binarie dovesi rincontrano i valori acqua/fuoco; vita/morte;attivo/passivo; trasformante/trasformato. Una tale pro-blematica riguarda, nel dominio asiatico, il paradigmadello Yin e dello Yang, conosciuti in Giappone con i vo-caboli IN e YO, con cui si designano i principimaschile/femminile, attivo/passivo… che regolano ilcammino del mondo. Dentro una tale problematica, ogni

MANAR HAMMAD

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universo, quale sia la sua estensione, contiene i due prin-cipi simultaneamente, in un equilibrio relativo dove l’unodomina sovente l’altro.

Se questa direzione d’interpretazione è valida, dovreb-be ricevere conferma dalla co-presenza dei poli nello shozae nel goza: nello shoza, il polo dominante l’attività del pa-drone di casa è il mizuya, quello dell’acqua passiva e tra-sformabile: la sovradeterminazione è IN. Dal lato degli invi-tati, la calligrafia occupa il tokonoma.

A titolo di fuoco spento, essa sarà il principio maschiletrasformato e diventato passivo: la sovradeterminazione èNON-YO. Nel goza, il polo dominante l’attività del padronedi casa è il braciere, investito dal fuoco attivo: la sovrade-terminazione è YO. Dal lato degli invitati, l’arrangiamentofloreale rinvierà all’acqua vivificante e rinfrescante, un’ac-qua attiva (non passiva), principio femminile negato: la so-vradeterminazione è NON-IN.

Nelle due “assise”, la coerenza degli elementi co-pre-senti è verificata: IN accoppiato con NON-YO nello shoza;YO accoppiato con NON-IN nel goza.

Per ragioni di logica interna, questa interpretazione puòdunque essere considerata come valida.

Vengono a confortarla numerose conferme, e si tratta diuna convalida esterna. Ne citeremo solo due, visto che le al-tre appaiono nel corso dell’analisi sintattica della cerimonia.

1. Alla fine della pausa detta nakadachi, il padrone dicasa stacca le tende esterne (sudare) che, attaccate alle fi-nestre, hanno mantenuto tutta la prima assise nella pe-nombra. Di conseguenza, il goza si svolgerà nel chiarore.Questo cambiamento di luce accade dopo l’entrata degliinvitati nel chashitsu. Assistono quindi al passaggio dallapenombra al chiaro. Questo mutamento, che dà il via algoza, resiste a tutte le analisi che si appoggiano sulla solasintassi.

Ora, da un punto di vista semantico, la penombra rin-via al principio passivo e la chiarezza al principio attivo.Nella penombra, lo shoza riunisce i poli dell’acqua passi-va e del fuoco passivo; nel chiaro, il goza riunisce i poli

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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dell’acqua attiva e del fuoco attivo. La coerenza semanti-ca è manifesta.

Da quanto detto, i termini IN, NON-IN, YO, NON-YO pos-sono esser messi ai quattro angoli di un quadrato semioticodi cui i lati verticali rappresentano le deissi positive e nega-tive, e i lati orizzontali manifestano l’opposizione dei termi-ni contrari.

2. La seconda conferma esterna di questa interpretazio-ne è di ordine sintattico-semantico. Il racconto del chaji (§2.4.) ci ha mostrato che ci sono tre sequenze all’interno delchashitsu: il pasto, il tè denso, il tè leggero. Ognuna dellesequenze del tè denso e del tè leggero inizia con una siste-mazione dei carboni per il fuoco. Si pone allora il proble-ma della prima sequenza: c’è un arrangiamento del carbo-ne con cui essa prende inizio?

La risposta è in due tempi: sì, la prima sequenza comin-cia con un aggiustamento dei carboni, come si può vederein certe cerimonie eseguite in altri momenti del giorno odell’anno. Ma, nel chaji estivo studiato, questo aggiusta-mento ha luogo prima che gli invitati entrino nel chashitsu.

MANAR HAMMAD

elementi semantici

acqua passiva fuoco attivoIN YO

fuoco spento acqua vivificanteNON-YO NON-IN

Deissi negativa: Deissi positiva:passività, attività,terminalità. incoatività.

figure sincretiche

MIZUYA braciere

calligrafia disposizionefloreale

Penombra, tende Chiarezza, tende(tendine) abbassate: (tendine) alzate :SHOZA. GOZA.

{{{{

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Così, questa operazione è eliminata dallo svolgimento sin-tagmatico della cerimonia. Una tale eliminazione equivale auna negazione: è una negazione del fuoco.

Lo shoza, che la nostra precedente analisi ha mostratoessere sotto il segno dell’IN passivo (acqua + non-fuoco)inizia con la negazione del fuoco, così come l’abbiamo ap-pena mostrata.

Abbiamo detto (§ 2.3.) che il chaji può essere condottodifferentemente a seconda della stagione e dell’ora. Alcunichaji iniziano con un primo aggiustamento del carbone.Questo significa forse che la nostra analisi è falsa è che bi-sogna ricominciare? Assolutamente no. I chaji che inco-minciano con una prima sistemazione del carbone ricorro-no ad altre espressioni della negazione non-verbale: delleceneri bagnate vengono poste nel focolare, di modo chegli invitati possano vederle; si bagnano le ceneri d’acqua,disegnando dei motivi, appena prima dell’entrata degli in-vitati, poiché possano vedere i motivi d’acqua. Questa in-sistenza sull’acqua gettata sul fuoco, reso visibile agli invi-tati, significa che lo shoza si svolge sotto il segno dell’ac-qua e non sotto il segno del fuoco.

Nel chaji più formale, di stile shin, la cerimonia co-mincia con un gesto marcante: tra gli utensili posti a latodel braciere, un vaso allungato verticale contiene l’attingi-toio (hishaku) destinato al travaso dell’acqua e un paio dibastoncini metallici (hibashi) destinati alla manipolazionedei carboni. Il padrone di casa comincia col prendere ibastoncini, e li mette di lato. Significa in questo modo chenon se ne servirà, che il fuoco non è l’elemento primo inquesta sequenza: lo shoza è posto sotto il segno dell’acquae del non-fuoco.

Queste differenti manifestazioni di una stessa operazio-ne (negazione) situata a livello profondo illustrano la no-stra ipotesi dove diciamo (§ 2.3., in conclusione) che i dif-ferenti chaji condividono la stessa struttura fondamentale esemio-narrativa, e che le differenze concernono il livellodella manifestazione.

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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2.8. Dinamica globale

L’analisi localizzata di alcune sequenze d’azione e del-le disposizioni spaziali ci ha permesso di estrarre successi-vamente una divisione dello spazio in parti discrete, uninvestimento semantico aspettualizzato (dal meno puro alpiù puro), e infine una polarizzazione dei luoghi sussuntada valori descrittivi semplici (acqua, fuoco) sovradetermi-nati da valori (attivo, passivo) che saremo tentati di inter-pretare come modali.

Gli ultimi elementi di questa analisi possono essereraggruppati sul quadrato semiotico della pagina seguente.Questo quadrato rappresenta, in maniera condensata, idifferenti termini in interazione e le loro relazioni logiche.Tuttavia, se le analisi precedenti hanno identificato glielementi (termini e relazioni) del modello, non hanno af-frontato la questione della dinamica che li lega. È notoche il quadrato semiotico è soggetto a una doppia lettura:una lettura statica, detta tassonomica, e una lettura dina-mica, detta sintattica. L’interesse di una tale lettura rad-doppiata è il seguente: se l’analisi dell’oggetto semioticocomplesso riconosce termini che intrattengono relazionidi contraddizione e di contrarietà, è necessario rendereconto della coerenza d’insieme. La logica insegna che nonsi può affermare simultaneamente una cosa e il suo con-trario, o una cosa e il suo contraddittorio. Ora, se abbia-mo riconosciuto nel nostro oggetto valori che intrattengo-no relazioni di contrarietà e di contraddizione, gli stessivalori non sono manifestati contemporaneamente nellostesso oggetto. Ed è questa non-simultaneità che imponedi riconoscere un prima e un dopo, tra i quali si inserisco-no operazioni trasformatrici. Una tale argomentazione èvalida indipendentemente dall’espressione semiotica del-l’oggetto analizzato, dato che i punti di vista statico e di-namico si riferiscono al contenuto.

MANAR HAMMAD

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Ritorniamo al quadrato del nostro chaji. Una prima os-servazione: lo shoza e il goza, che sono le due “assise” che sisvolgono all’interno del chashitsu, occupano le colonne ver-ticali del quadrato, dette deissi. Shoza: la calligrafia è neltokonoma mentre il padrone di casa fa il servizio a partiredal mizuya; goza: l’arrangiamento floreale occupa il tokono-ma mentre il padrone di casa serve il tè davanti al fuoco.Sulle deissi, gli studi semiotici situano un’operazione parti-colare, detta asserzione, che si oppone all’operazione di ne-gazione situata sullo schema (diagonale del quadrato). L’as-serzione assicura il passaggio tra due valori che riguardanola stessa deissi; in questo senso è un’operazione che confer-ma e precisa, grazie al valore finale, il valore iniziale da cuiparte. Letta al contrario, la negazione assicura il passaggio

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

{ {

acqua passiva asse semantico dei contrari fuoco attivo

mizuya poli occupati dal padrone di casa braciere

IN YO

fuoco spento asse semantico dei subcontrari acqua vivificante

calligrafia poli occupati dagli invitati disposizioneNON-YO floreale

NON-IN

penombra chiarezza tendine del SHOZA tendine del GOZAabbassate sollevate

Deissi negativa: Deissi positiva:passività, attività,terminalità. incoatività.

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tra due valori che riguardano due deissi differenti. In que-sto la trasformazione è brutale, senza transizione. Rivesteordinariamente la forma polemica, figurativizzata spesso dauna lotta, seguita da una vittoria di uno dei protagonisti edalla sconfitta dell’altro.

L’aspetto notevole del chaji è che invece non viene mes-sa in scena alcuna lotta. Tutta la cerimonia si svolge secon-do un canovaccio preciso, in cui ciascun partecipante giocail suo ruolo, e da dove si distacca un effetto di senso globa-le, che è quello della collaborazione a un fine comune. Dacui la seguente domanda: che cosa ne è dell’operazione dinegazione, e come si manifesta?

Abbiamo visto (cfr. §§ 2.5., 2.6.) che è presente una se-rie di negazioni non verbali, e permette di estrapolare lanozione di purezza, opposta all’impurità. Allo stesso mo-do, è possibile interpretare la serie delle frontiere comeuna serie di operatori destinati ad assicurare la tranquillità,opposti all’agitazione del mondo escluso, al di fuori – equindi negato. In più, la padronanza gestuale e il ritmod’esecuzione degli atti cerimoniali sono stabiliti a discapitodel disordine e del caos (il sé controllato è una forma inter-na del caos esterno). C’è quindi un insieme di operazionidi negazione, disperse lungo tutto il chaji, che permettonodi costruire l’immagine di un anti-soggetto che si opporràalla progressione degli attori della cerimonia sulla via delchado (cha = tè; do = percorso, via).

Tuttavia, gli attori implicati in questa operazione a livel-lo discorsivo, così come i valori profondi estrapolati, noncorrispondono direttamente al quadrato sviluppato in ter-mini di acqua e di fuoco, di attività e di passività: non sitratta della stessa isotopia. Anche se il risultato che abbia-mo evidenziato è difficilmente ricusabile, siamo costretti alasciarlo provvisoriamente da parte – pronti a reintegrarloin seguito – e a cercare una soluzione situata sull’isotopiafondatrice del quadrato.

Per facilitare l’esposizione poniamo la nostra esplora-zione a livello figurativo. Abbiamo visto che la carica se-mantica IN dell’intero shoza è veicolata dalla penombra, ot-

MANAR HAMMAD

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tenuta tramite tende di bambù (sudare) sospesi all’esternodelle finestre, mentre il goza è investito dalla carica YO tra-mite il chiarore risultante dallo sganciamento di questestesse sudare. Abbiamo in questo caso un’operazione di ne-gazione che fa passare gli investimenti polari dalla deissinegativa a quella positiva del quadrato. Notiamo (a) chequesta operazione è realizzata dal padrone di casa dopo ilnakadachi; (b) che gli invitati non lo vedono realizzarla; (c)che gli invitati vedono il cambiamento di luce operarsimentre si sistemano per il goza.

Un’altra operazione di negazione simile in ogni punto èrealizzata dal padrone di casa, all’insaputa degli ospiti, du-rante il nakadachi: mentre gli invitati sono in giardino, ilpadrone di casa stacca la calligrafia (NON-YO) e la rimpiaz-za con l’arrangiamento floreale (NON-IN). Gli invitati con-stateranno il cambiamento dopo la pausa.

Infine, l’abbandono del mizuya per il polo del fuocoviene fatto ugualmente in un modo reso anodino.

Abbiamo tre esempi di negazione che fanno passaredalla deissi negativa alla deissi positiva, e tutti e tre sonopraticamente nascosti. Si potrebbe essere tentati di direche un tale trattamento dovrebbe invitarci a trascurarequeste operazioni. Nondimeno, nel quadro della cerimo-nia del tè, dove il minimo atto è valorizzato, per non dire“celebrato”, bisogna forzatamente concludere che la can-cellazione è carica di senso. Risulta importante quindiesplicitarla.

Riassumiamo: gli atti figurativi portatori del carico se-mantico “negazione”, e dei quali la presenza è previstadalla teoria semiotica, sono ben realizzati. Tuttavia, sonoeseguiti in modo da minimizzarne l’importanza: sonosottratti all’attenzione del soggetto cognitivo “invitati”.All’opposto, gli atti assertivi (passaggio dal NON-YO alloIN durante il shoza, e dal NON-IN allo YO durante il goza)vengono manifestati.

In questa procedura è facile riconoscere lo schema – di-venuto familiare in § 2.6. – della negazione non-verbale,posta a un livello gerarchicamente superiore: se si pone che

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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le operazioni di negazione (IN – NON-IN ; e YO – NON-YO)come le operazioni di asserzione (NON-YO – IN; e NON-IN –YO) sono situate al livello enunciativo del chaji, la manife-stazione sincretica e modulata di queste operazioni, cioèl’espansione-celebrazione delle une, e la condensazione-dissimulazione delle altre, funziona come un livello opera-tore meta-enunciativo, che asserisce il celebrato e nega ildissimulato. Visto che si tratta della manipolazione dell’e-nunciato, questo livello meta-enunciativo è di fatto quellodell’enunciazione. Di conseguenza, abbiamo appena mes-so in evidenza una procedura enunciazionale di negazione,dopo aver mostrato diverse negazioni enunciative. Espres-se nel mondo naturale, questi due tipi di negazione si co-struiscono in maniera identica: la loro esplicitazione sintat-tica (sul piano del contenuto) passa per uno svolgimentosintagmatico (sul piano dell’espressione) dove la negazioneavviene dopo una fase assertiva.

Se la negazione enunciazionale procede in questo mo-do, essa presuppone tuttavia, nel soggetto cognitivo che ladecifra, un sapere metalinguistico sulla forma canonicadelle trasformazioni, tale quale si esprime nella dinamicadel quadrato semiotico. Ricordiamo che i quattro terminiposti agli angoli del quadrato sono connessi dalle negazio-ni sugli schemi diagonali e dalle asserzioni sulle deissi ver-ticali; i passaggi orizzontali tra i contrari non sono prati-cabili, e la trasformazione canonica che conduce da untermine al suo contrario comprende due operazioni suc-cessive, una per ogni specie:

1 3

4 2

negazionenegazione

asse

rzio

ne

asse

rzio

ne

quadrato dei terminie delle operazioni

1 3

2

trasformazione

2

1 3

trasformazione

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Possiamo considerare acquisito un tale sapere per ogni in-terprete competente. In ogni caso, la reiterazione di questaforma è assicurata in tutti i “testi” (verbali, gestuali, sincreti-ci) di una qualche estensione, e il livello metalinguistico puòoperare su condensazioni/espansioni in riferimento a sequen-ze neutralizzate rispetto a queste operazioni enunciazionali.

L’effetto di senso che emerge dalla sovrapposizione didue livelli gerarchici dove si manifestano le due operazionidi negazione e di asserzione non è unico, e bisogna conside-rare una combinatoria a quattro posizioni.

1. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazione ne-gatrice è asserita enunciazionalmente, e di cui l’operazioneassertiva è negata enunciazionalmente, si trova sovradeter-minata come una trasformazione enunciativa polemica: è untermine complesso in cui domina la negazione enunciativa.Nel contesto particolare analizzato qui, le operazioni di in-stallazione delle frontiere e di chiusura delle porte di questotipo: negano il diritto di passaggio e asseriscono questa ne-gazione. La prima trasformazione del dominio privato è unatrasformazione polemica.

2. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazionenegatrice è negata enunciazionalmente, e di cui l’operazioneassertiva è asserita enunciazionalmente, si trova sovradeter-minata come una trasformazione enunciativa contrattuale: èun termine complesso in cui domina l’asserzione enunciati-va. Nel contesto del chaji, è l’economia generale della ceri-monia a essere trattata in questo modo: la cerimonia si offrealla lettura come un contratto.

3. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazionenegatrice è asserita enunciazionalmente e di cui l’operazio-ne assertiva è asserita enunciazionalmente, si trova sovrade-terminata come una trasformazione convalidata. Meglio: èuna trasformazione celebrata in quanto tale. Nel contestodel chaji, il prototipo di queste trasformazioni è la fabbrica-zione e la consumazione del tè.

4. Una trasformazione enunciativa di cui l’operazionenegatrice è negata enunciazionalmente e di cui l’operazioneassertiva è negata enunciazionalmente, si trova sovradeter-

L’ARCHITETTURA DEL TÈ

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minata come una trasformazione invalidata, deprezzata. Inaltri termini, ciò che è definito a livello enunciativo comeuna trasformazione non è riconosciuto come tale a livelloenunciazionale.

Quest’ultimo procedimento, come il precedente, rivelache la messa in opera enunciazionale della negazione e del-l’asserzione permette di costruire meccanismi veridittivi (in3 la trasformazione enunciativa è vera, in 4 è falsa) di cui itermini-oggetto sono operazioni e trasformazioni. Tuttavia,il meccanismo così presentato è più complesso di una sem-plice veridizione, poiché permette di estrapolare gli effettidi senso “contrattuali” e “polemici”, i quali non apparten-gono al paradigma del Vero e del Falso. Tutti questi effettidi senso risultano da trasformazioni operate dal livelloenunciazionale, in modo conforme ai propri programminarrativi, inscritti nella manifestazione del livello enunciati-vo e sovradeterminanti i contenuti degli enunciati. Abbia-mo allora una descrizione dinamica di uno dei meccanismicon cui l’enunciazione modifica il senso dell’enunciato.

Questo meccanismo è di una generalità tale che non èpossibile assegnargli una finalità unica. Tutti i casi di appli-cazione condividono tuttavia una proprietà comune: ilcontenuto enunciativo è debrayato in relazione all’istanzaenunciatrice, la quale dà un giudizio prima di re-embraiar-lo e di proiettare sull’enunciato un nuovo effetto di senso.

La tabella seguente permette di rappresentare i diffe-renti meccanismi evocati:

MANAR HAMMAD

Trasformazione enunciativa (retta)

operazionedi negazioneenunciativa

operazioned’asserzioneenunciativa

operazionedi negazioneenunciazionale

operazioned’asserzioneenunciazionale

● Trasformazione invalidata ●

● Trasformazione celebrata ●

● Trasformazionepolemica ●● Trasformazione

contrattuale ●

Trasformazioneenunciazionale(reggente)

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Dopo questa lunga deviazione teorica, ritorniamo alnostro chagi. Abbiamo visto che sono le sequenze delloshoza e del goza, riconoscibili come assertive, a essere lepiù sviluppate, mentre la sola sequenza chiaramente ne-gatrice sulla stessa isotopia è il nagadachi, pausa moltobreve, e di cui le operazioni negatrici sono sottratte allavista degli invitati. Ne risulta un chiaro effetto di senso: ilchaji è sovradeterminato come una trasformazione con-trattuale. In questo senso, soddisfa la definizione di rito,seguendo la proposta di Claude Lévi-Strauss (1962a) eKonrad Lorenz (1969), come negazione della polemica eriaffermazione del contratto.

Questo effetto di senso globale sovradetermina tutte lesequenze d’azione inglobate, che appaiono allora comeprogrammi d’uso concorrenti alla realizzazione del pro-gramma di base contrattuale. L’analisi dettagliata di questesequenze permette di verificarlo. (Non svilupperemo l’a-nalisi in questo contesto, vista l’ampiezza che questo lavo-ro richiederebbe). Ma non è tutto: la dissimulazione delleoperazioni di negazione si accompagna alla cancellazionedel soggetto operatore. Così facendo, gli atti negatorienunciativi sono “oggettivati”: accadono di per sé, natu-ralmente. All’opposto, la celebrazione delle operazioni diasserzione mette in risalto i soggetti operatori (di volta involta gli invitati e il padrone di casa). Gli atti assertivi so-no così “soggettivati”: sono atti da fabbricare, riguardanola “cultura”. In altri termini, lo svolgimento del chaji cipresenta la natura come un universo trascendente, dove lecose accadono di per sé e dove i cambiamenti sono bruta-li, quando invece la cultura appare come un universo im-manente, in cui bisogna aiutare le cose ad accadere, e do-ve i soggetti s’aggiustano (s’adattano) rispetto ai cambia-menti che li trascendono.

L’analisi dettagliata dell’enunciato dimostra che l’insie-me delle azioni assertive sviluppate nel corso del chaji con-corre a costituire un attante collettivo che riunisce gli attoriumani (gli invitati e il padrone di casa), gli oggetti, i luoghi,e la natura. Le fasi critiche di questa costituzione sono la

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condivisione del sakè e la condivisione del tè denso. Svi-lupperemo altrove la nostra analisi di queste sequenze.Non si può tuttavia passare a un altro punto senza segnala-re che se i gesti e la parola possono essere posti come il li-vello enunciativo della semiotica sincretica studiata, le con-figurazioni topiche giocano un ruolo enunciazionale, e l’in-sieme di questi livelli (enunciativo ed enunciazionale) costi-tuisce a sua volta il livello enunciativo sovra-determinato inprecedenza come contrattuale. L’analisi completa mette inopera, dunque, tre livelli gerarchizzati, con lo spazio chegioca un ruolo privilegiato nella zona intermedia.

Questo fatto concorda con alcune constatazioni da noipresentate in un’altra occasione (cfr. capitoli ottavo e no-no), ciò che ci permette di confortare la nostra ipotesi me-todologica, che è la seguente: l’analisi semiotica dei feno-meni del mondo naturale non può soddisfarsi dei due livel-li posti come enunciativo ed enunciazionale; l’opposizioneche separa questi livelli deve essere resa ricorsiva, e un ter-zo livello, meta-enunciazionale, deve essere proposto perrendere conto di fatti osservabili. Un mutamento di puntodi vista può condurre a spostare la localizzazione di questilivelli: sono definiti non dalla sostanza su cui si appoggianoma dalle loro mutue relazioni.

Nel corso di questo lavoro, abbiamo praticamentescartato il livello enunciativo di base, concentrando la no-stra attenzione sui due livelli enunciazionali superiori. Af-fermiamo una scelta metodologica, che adottiamo con unfine euristico: non abbiamo minimamente l’intenzione dirinunciare all’analisi dell’enunciato. La nostra scelta pro-viene da una semplice constatazione: ci sono forme di in-terazione indifferenti al contenuto scambiato. In particola-re, la regolazione del comportamento spaziale si inseriscein questa categoria. Questo si verifica durante il chaji, ilcui svolgimento non è per nulla coinvolto dal “tema” scel-to, come si verifica al momento di una visita presso qual-cuno, per una cena… Queste forme normativizzate riguar-dano non tanto ciò che è scambiato quanto le relazioni tracoloro che scambiano. In particolare, è qui che si definisce

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il carattere contrattuale o polemico dell’incontro, sovrade-terminante ciò che verrà detto.

2.9. Incursione estetica: il tèismo

La pratica del tè, nominata tèismo da quando il termi-ne è stato forgiato da Okakyra Kazuko (1956), è una pra-tica estetica riconosciuta come tale dalla cultura giappo-nese in cui si è sviluppata. La bellezza dell’architetturadestinata a riceverla, quella degli oggetti manipolati equella dei gesti della celebrazione sono certamente statiall’origine della fascinazione per questo oggetto comples-so, motivando la considerevole spesa di energie che ri-chiede l’analisi di un tale corpus.

Abbordare il lato estetico delle cose, significa in qual-che modo giustificare il nostro approccio. Un chaji, o riu-nione del tè, non è un fine in sé. Si inscrive in una serie diriunioni simili che punteggiano lo svolgimento di una vita ela sovrastrutturano in quanto percorso. L’adepto del tè siimpegna a percorrere la propria vita per farne un’operad’arte. La vita personale è fatta di caso e di gusto. L’ogget-to estetico primo è quindi la macro-sequenza chiamata vi-ta, dinamicamente caratterizzata in quanto percorso, vistoche l’essenziale non è tanto arrivare da qualche parte quan-to percorrerla.

Nel corso di una tale vita, i chaji costituiscono puntiforti, oggetti estetici in se stessi. Sono anche passaggi ob-bligati, in quanto atti necessari per l’acquisizione di valoriprofondi. Non si può raggiungere la tranquillità (valore ul-timo del percorso tradizionale del tè) se non grazie all’inte-grazione del soggetto in seno a un attante collettivo esteti-co, e questa integrazione non si realizza pienamente se nonnel corso di riunioni del tè.

Arriviamo alla “terza generazione” di oggetti estetici,quelli con cui il soggetto si congiunge nel corso della riu-nione contemplativa. La trasformazione che ha luogo nelcorso della riunione modifica non solamente il soggetto –

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che copre una tappa del suo percorso – ma anche gli og-getti, che conserveranno memoria delle riunioni e degliesteti che li hanno manipolati e contemplati. Gli attori del-le successive riunioni del tè ne riparleranno, e così il valoreestetico degli oggetti cresce o decresce in funzione dei giu-dizi che saranno stati pronunciati al loro riguardo.

L’analisi di queste tre categorie di oggetti estetici siappoggia su due discorsi connessi da una relazione dipresupposizione semplice: una semiotica sincretica costi-tuita dalla pratica reale del rituale del tè da una parte, e,dall’altra, certi scritti relativi all’estetica del tè e a quelladelle sue regole.

Ogni chaji si articola enunciazionalmente attorno allacostituzione dell’attante collettivo. Nella misura in cui ilchaji è un oggetto estetico, nel quale la costituzione dell’at-tante collettivo è una condizione necessaria, possiamo trar-ne la conseguenza seguente: il solo soggetto estetico delchaji è un attante collettivo. Il soggetto individuale non èun soggetto estetico a questo riguardo.

Nel corso della preparazione del tè, alcuni oggetti ven-gono manipolati. Certuni tra questi sono esaminati dai visi-tatori, che li contemplano prima di interrogare il padronedi casa sulla loro origine, la loro età, l’artista che ne è l’au-tore, i proprietari anteriori, le cerimonie particolari cuihanno potuto prender parte. Insomma, viene declinato ilpedigree dell’oggetto, costitutivo della competenza di que-st’ultimo in quanto oggetto estetico.

Due constatazioni a partire dalla ripetizione di questiatti: una simile valutazione estetica non verte che su di unoggetto alla volta; la valutazione non ha luogo che dopo il“servizio” del suddetto oggetto. La riserva dei partecipan-ti riguardo agli oggetti che non hanno compiuto il loro uf-ficio si legge come espressione di rispetto riguardo all’og-getto: l’oggetto non è disturbato finché non ha giocato ilsuo ruolo. Fino a quando il compito non è stato realizzato,è dotato di una intenzionalità implicita. Una volta compiu-ta la missione si allenta e diventa un oggetto estetico ac-cessibile alla valutazione.

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Che siano secondari (chaji) o terziari (utensili), gli og-getti estetici del tèismo non si manifestano quindi cometali, nel corso di una presa cognitiva somaticamente everbalmente espressa, se non dopo una sequenza prag-matica in cui partecipano a un’azione il cui quadro li ol-trepassa. In questo modo, la presa estetica presupponeuna presa somatica. La condizione necessaria dell’esteti-ca del tè è dunque una sintassi che si riferisca alla “vita”,al mondo.

In ultima analisi, lo stato dell’oggetto estetico “tèico” ri-leverà di un sotto-dominio del cognitivo: nella misura incui gli oggetti considerati sono trasformati dall’azione di-namica prima di acquisire uno statuto estetico, sono di fat-to oggetti timici (o patemici). La descrizione analitica (mo-dale) di questi stati rimane ancora da fare.

Passiamo all’estetica delle regole del tè. L’insieme delleregole, esplicite o implicite, è considerata soddisfatta ri-spetto a quattro principi: Purezza, Rispetto, Armonia,Tranquillità (seguendo Sen No Rikyu). L’analisi della tra-duzione italiana delle denominazioni nipponiche potrebbeindurre in errore. Il discorso estetico giapponese ci forni-sce descrizioni analitiche passibili di analisi sintattica. Unaprocedura simile fa apparire relazioni di presupposizioneunilaterale: Tranquillità presuppone Armonia, che presup-pone Rispetto, che presuppone Purezza. In più, i concettidi Purezza e di Rispetto rimandano chiaramente all’etica.Solamente il concetto di Tranquillità può essere detto uni-camente estetico, dal momento che quello di armonia ma-nifesta una bipolarità complessa. Indipendentemente dalcontenuto particolare di questi concetti, la struttura globa-le che si estrae in questa maniera pone l’etica come unacondizione necessaria dell’estetica del tè: senza etica, nien-te estetica.

Ma non è tutto. L’analisi di ognuno dei quattro concet-ti citati mostra questo: il soggetto che passa dall’uno all’al-tro di questi valori realizza un percorso isomorfo a quellodella costituzione dell’attante collettivo: la purezza è lostato del soggetto sbarazzato dalle impurità del cuore e

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dello spirito (è un’unità integrale); il rispetto è ciò che glipermette di ritrovarsi in relazione ad altrui, alle cose e allanatura (diviene un’unità partitiva); l’armonia è ciò che lomette in conformità con gli uomini, le cose e la natura chelo circonda (costituzione di una totalità partitiva); insieme,realizzeranno la tranquillità (costituzione di una totalitàintegrale)23. Il parallelismo con l’analisi dello svolgimentodell’azione è stupefacente: l’estetica non vi appare che inseguito alla costituzione dell’attante collettivo. In più, nel-la stessa posizione di anteriorità in relazione all’estetica, ri-leviamo altre due entità: l’etica nel dominio metalinguisti-co, l’attività somatica nel dominio semiotico sincretico.Grande è la tentazione di vedervi due proiezioni semanti-che differenti dello stesso fenomeno sintattico che è la co-stituzione dell’attante collettivo.

Rimane da studiare il discorso estetico sul rituale deltè e non sulle sole regole. Vengono citati tre concetti: eva-nescenza, furyu, wabi. La complessità degli ultimi due hafatto retrocedere i traduttori, non essendo proponibile al-cun equivalente in una lingua occidentale. Ridotta all’es-senziale, l’analisi di questi concetti arriva a caratterizzarlicome “aspetti”: l’evanescenza è una puntualità instabile,il furyu è una transitività che impregna tutti gli elementidi un insieme per attraversarli con una dinamica incessan-te, il wabi è una terminatività che è simultaneamenteun’incoatività. Questi concetti rinviano alla dinamica del-le trasformazioni e del percorso di vita. Non sembranoconnessi alla problematica della costituzione dell’attantecollettivo sollevata in precedenza, ma piuttosto alle tra-sformazioni messe in opera al momento della suddettacostituzione. Queste aspettualizzazioni concernono le di-sgiunzioni deontiche fondamentali imposte dalle defini-zioni di Purezza, Rispetto, Armonia e Tranquillità: la Pu-rezza pone un “dover disgiungersi” dalle impurità, il Ri-spetto pone un “non dover disgiungersi” dalle entità pu-re, l’Armonia pone un “dover non disgiungersi” dalle en-tità conformi, la Tranquillità un “non dover non disgiun-gersi” da queste entità.

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Così espressa in termini modali, una tale estetica disgiun-tiva è identificabile, in Europa, nella mistica cistercense, lapittura astratta di Mondrian, o l’architettura di Mies van derRohe. Se si rimpiazza la disgiunzione con la congiunzionenel quadrato deontico, si può allora descrivere l’estetica del-la Controriforma cattolica (ad es. l’architettura barocca). Lamodalità del volere, combinata alla congiunzione, definiràun’estetica romantica; combinata alla disgiunzione, definiràil classicismo. Il gioco di queste identificazioni propostechiede di essere confermato da altre analisi.

Ritorniamo al nostro tè. Gli “aspetti” evocati sovrade-terminano la giunzione: essa è evanescente, terminativa, eindefinitamente da ricominciare. Da qui la necessità di faredella propria vita un oggetto estetico di cui la realizzazionenon abbia un attimo di tregua.

I differenti livelli di questa estetica si intrecciano gli uniagli altri in una struttura che ci limitiamo a suggerire piùche a descrivere. Per questo necessiteremo di maggiorespazio e sforzi, affinché la nostra stessa descrizione finiscaper essere un oggetto estetico.

2.10. Conclusioni provvisorie

Benché molto lunga, la nostra analisi non ha potuto svi-luppare tutte le sfumature dell’oggetto che ci siamo asse-gnati. I risultati che otteniamo dipendono dalla nostracompetenza in quanto interpreti, che è funzione, innanzi-tutto, del nostro accesso (limitato dalla distanza e dalla lin-gua) all’informazione, che a sua volta costituisce la sostan-za su cui lavoriamo. Un buon numero di nostre domanderestano senza risposta. In più, la struttura iniziatica dell’in-segnamento non facilita la ricerca del ricercatore esterno.La nostra competenza è funzione del nostro metodo, ilquale è messo alla prova in questo lavoro di messa in ordi-ne e di ricerca di coerenza. Anche in questo caso, le possi-bili ricchezze sono limitate: la semiotica dello spazio è unadisciplina che si sta progressivamente costituendo.

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A coloro tra i nostri lettori che sono appassionati delGiappone, speriamo di aver apportato qualche esplicitazio-ne, se non addirittura nuove interpretazioni.

Per i semiologi, abbiamo sviluppato alcune nozioni for-mali generali, che non debbono nulla al Giappone né al-l’architettura, e che sono trasferibili per l’analisi di oggettimolto differenti.

Non abbiamo dimenticato gli architetti, ai quali si indi-rizza in primo luogo il nostro tentativo di restituire l’archi-tettura in un contesto più globale. Speriamo di aver illu-strato i ruoli sintattici giocati dai dispositivi spaziali, allostesso modo in cui abbiamo mostrato come l’investimentosemantico dei luoghi può essere depistato, riconosciuto,concordato, organizzato da procedure controllate. Tuttoquesto può essere trasposto su altri luoghi.

Col fine di evitare ogni malinteso, questa conclusionenon può far economia di tre osservazioni metodologiche.

i) Partendo dall’espressione sincretica, la nostra analisiha puntato verso il livello profondo – o fondamentale – delcontenuto, quello della determinazione dei valori e delletrasformazioni. Tenuta entro questi limiti, essa non ha fattoil percorso inverso che riconduce dai valori profondi versola manifestazione discorsiva. Così facendo, essa richiede unseguito, che sarà oggetto di un’altra pubblicazione. Dicia-mo tuttavia che i risultati che abbiamo stabilito costituisco-no un nocciolo duro attorno al quale gli altri effetti di sen-so verranno a raggrupparsi.

ii) Nella determinazione delle unità di spazio, o topoi,abbiamo fatto ricorso a due procedure complementari: (a)la prima (§§ 2.5., 2.6.) riconosce i limiti di cui il superamen-to è condizionale: essa definisce il topos a partire dai suoibordi; (b) la seconda (§ 2.7.) riconosce un luogo in cui unattore compie un’azione: il topos è definito da ciò che visuccede, e i bordi non intervengono che in un secondo tem-po. Le due procedure sono fondate sulla sintassi, e le unitàottenute dipendono dall’azione (i funtivi dipendono dalfuntore). I topoi così determinati soddisfano la stessa defi-nizione, e non c’è quindi ragione di privilegiare una delle

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procedure rispetto all’altra. In fin dei conti, è l’oggetto stu-diato che impone la scelta dell’una o dell’altra maniera.

iii) Sono state utilizzate due procedure per reperire ilcarico semantico di ciò che è osservabile: (a) il semantismoè apparso come determinato dalla sintassi (§§ 2.5., 2.6.),riattivato hic et nunc dall’azione; (b) nel paragrafo 2.7., ilsemantismo è stato ricercato nelle determinazioni culturalipreesistenti. Con la distanza che autorizza lo stabilirsi deirisultati, si può dire che la prima procedura è servita peresplorare la dimensione immanente dell’universo del chaji(posto come immanente in questo discorso), mentre la se-conda ha contribuito all’articolazione dell’universo tra-scendente. In altri termini, se l’analisi sintattica rivela il se-mantismo costruito nel discorso, l’analisi semantica ricosti-tuisce ciò che è considerato come recepito, dato a priori.Nella nostra strategia d’approccio abbiamo privilegiato l’a-nalisi sintattica dell’universo immanente, non facendo ap-pello all’analisi semantica se non quando gli strumenti sin-tattici si rivelavano inoperanti.

Detto questo, rimane molto da fare prima di “rendereconto” completamente del chaji e della sua architettura:non abbiamo fatto altro che mostrare la direzione in cuiavanziamo.

1 Apparso in «Actes sémiotiques» IX, 84-85, CNRS-EHESS, 1987. La mate-ria di quest’articolo deve molto alle mie discussioni con Madame Tsutsumi,rappresentante della scuola Urasenke a Parigi, e al mio maestro sulla via deltè. Se il metodo semiotico non deve nulla a questo insegnamento, ho semprepotuto confrontare le mie interpretazioni al suo sapere e alle sue referenzegiapponesi, che rimangono poco accessibili al profano.

2 Per una definizione dettagliata di questa opzione, cfr. Hammad (1983,1985).

3 Espressione e contenuto sono i due piani che definiscono il linguaggiosecondo Louis Hjelmslev.

4 Per la definizione dei termini del metalinguaggio semiotico come attan-te, attore, ecc. si fa riferimento al dizionario di Greimas, Courtés (1979).

5 Questo raddoppiamento delle riunioni sociali invita a considerare indipen-dentemente le riunioni del tè e le visite ordinarie. Queste due attività sociali han-no regole di funzionamento differenti, e i fini che si sono prefissate sono distinti.

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6 La pulizia esteriore è l’espressione della purezza interiore.7 Questa porta, quadrata, misura circa sessanta centimetri per lato; vi si

passa accovacciati.8 Sala dell’acqua, e non “sala d’acqua” (cioè sala da bagno), poiché si

tratta piuttosto di una stanza.9 Questo testimonia del fatto che il chashitsu è posto sotto il segno degli

invitati, e che il padrone di casa non è più il padrone, per la durata del chaji,o almeno per la prima parte dello shoza. Dopo la pausa, il padrone di casaverrà a preparare il tè sul posto e prenderà possesso della parte destinata adiventare la più importante: quella del fuoco. Non ci siamo ancora arrivati:durante tutta la prima parte, il padrone di casa prepara il cibo e mangia dasolo, nel mizuya.

10 Ci sarà un secondo riarrangiamento del carbone per marcare l’iniziodella sequenza del tè leggero. Queste due marche fanno sentire a posterioril’assenza di sistemazione del carbone all’inizio della sequenza del pasto. Difatto, il carbone è arrangiato prima dell’arrivo degli invitati, e la sua elimina-zione è carica di senso: durante la sequenza del pasto, il padrone di casa èconnesso al polo dell’acqua, mentre durante le sequenze del tè si riferirà alpolo del fuoco.

11 Durante la preparazione del tè, il padrone di casa manipola un attingi-toio che trasferisce dell’acqua calda o fredda. Questo strumento è investito dadue ruoli tematici: (a) il padrone di casa inizia a tenerlo come uno specchiodove guarda se stesso: l’attingitoio “diventa” il padrone di casa, un’esterioriz-zazione della sua persona; (b) dopo ogni pescaggio, il padrone di casa riponel’attingitoio in modo normato; sono prescritti tre gesti, in funzione dell’opera-zione: sono comparati ai tre gesti principali del tiro con l’arco: tendere l’arco,scoccare la freccia, allentare lo sforzo. Questa metafora fa della tazza di tèuna freccia tirata su tutti gli invitati riuniti.

12 Solo i templi, i santuari, i palazzi o altri edifici pubblici erano muniti dilucchetti sbloccabili dall’esterno con l’aiuto di ganci complicati, voluminosi edecorati. L’habitat domestico non ne era mai provvisto. Gli orinatoi, costruiti aprova di fuoco (kura) e con la funzione di contro-sforzi, erano dotati di catene.

13 L’acqua appena sparsa asperge le pietre davanti allo tsukubai: è un invi-to a utilizzare quest’ultimo (virtualizzazione) che riempie (attualizzazione)con un secchio d’acqua fresca.

14 Tuttavia, il gong può essere appeso nella sala del tè se questa è abba-stanza grande (Totsutotsusai a Urasenke, Kyoto).

15 In termini semiotici, ci si serve della sintassi per reperire la morfologia,e non l’inverso come sovente praticato. Con questo metodo ci si assicura dellapertinenza delle unità ottenute. La regola metodologica ritenuta presupponeche nell’universo studiato i funtori determinino i funtivi e non l’inverso.

16 Ogni invitato viene con una riserva di questi fazzoletti “usa e getta”che la tradizione giapponese conosce da molti secoli.

17 Per la definizione di topos, cfr. Groupe 107 (1973) e, seconda tappa,Hammad (1980a).

18 In una stanza da 4/5 tatami si possono far sedere tre invitati lungo il muroche va dal tokonoma al nijiriguchi. Se ci sono quattro o cinque invitati, seguiran-no il muro della porta. Per più di cinque invitati, ci si mette in sale più grandi.

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19 Se la destra è superiore alla sinistra, è per l’influenza buddista trasmes-sa dalla Cina e dalla Corea. Nel Giappone scintoista e imperiale, come nei co-stumi militari e civili, la sinistra è superiore alla destra. I chashitsu detti “in-versi” rinunciano alla maniera buddista e adottano il modo locale, che è an-che quello dei mongoli.

20 Contrattuale si oppone a polemico nella definizione semiotica delle re-lazioni intersoggettive; vedi le rispettive voci dizionariali in Greimas, Courtés(1979).

21 Rinviamo in particolare alla manipolazione dell’attingitoio assimilato aun arco, che serve a scoccare una freccia-tazza di tè (cfr. nota 11).

22 La sala dell’acqua contiene sempre una grande giara di acqua destinataa preparare il tè, la zuppa, i brodi, ecc. Essa può contenere anche, per i biso-gni della cucina, un focolare sovradeterminato dalla forma rotonda: il cerchioè la forma dell’acqua. Gli altri focolari sono sia su treppiedi (il triangolo è laforma del fuoco), sia quadrati (forma della terra) se sono incastrati nel suolo.

23 Sui concetti semiotici di unità e di totalità, e sulle loro articolazioni, cfr.Greimas 1976a, pp. 125 sgg.

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Capitolo terzoL’espressione spaziale dell’enunciazione1

3.0. Osservazioni preliminari

Ci proponiamo di prolungare in questo capitolo, at-traverso un esempio concreto, le idee teoriche che abbia-mo sostenuto nel capitolo ottavo. Il presente lavoro si ri-ferisce a un materiale sincretico non verbale, scelta para-dossale dal momento in cui non si parla normalmente dienunciazione se non in termini verbali. C’è una dose discommessa nel provare a dimostrare che se ne parla a ra-gion veduta in un contesto di questo tipo. Speriamo chela pertinenza degli elementi di enunciazione messi in lu-ce apporterà la prova a posteriori della correttezza delletesi teoriche che abbiamo formulato.

Ciò che è in gioco è un problema di semiotica genera-le: si tratta della possibilità di costruire il concetto dienunciazione su criteri che riguardano il solo contenuto,con il conseguente accesso all’analisi dell’enunciazionein tutti i corpus significanti, generalizzazione non trascu-rabile degli strumenti attuali. Inoltre, da quel momentosi potranno descrivere gli atti enunciazionali in terminidi programmi semio-narrativi, e coglierne infine i mecca-nismi d’interazione tra programmi enunciativi ed enun-ciazionali.

Con un fine dimostrativo e didattico, abbiamo sceltodi sviluppare l’analisi di un caso preciso, affinché il let-tore possa giudicare “sul campo” la validità dell’argo-mentazione. Data la lunghezza del lavoro di decifrazionee di esplicitazione del senso, ci arresteremo prima dello

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stadio di formalizzazione dei risultati. Speriamo che l’es-senziale della dimostrazione, nel frattempo, sarà statoacquisito.

L’esempio è selezionato tra i nostri recenti lavori sullapratica dello spazio in Giappone, centrato in particolaresu di una sequenza relativamente ristretta della cerimoniadel tè. Cominceremo da una semplice descrizione, seguitada una analisi preparatoria, prima di mettere allo scopertol’analisi sintattica propriamente detta. Supporremo il let-tore familiarizzato con l’economia generale della cerimo-nia del tè (cfr. capitolo secondo) e abborderemo diretta-mente la sequenza che ci interessa in questa sede, designa-ta dal nome del piatto che ne è lo strumento principale: lohassun. Questa sequenza è necessaria al compimento delchaji, di qualsiasi tipo esso sia2. Da un punto di vista se-miotico, vi si trova la realizzazione della prima fase dellacostituzione dell’attante collettivo. Vedremo diversi ele-menti che contribuiscono allo stabilirsi di questo risultato,ma non ne svilupperemo la dimostrazione, optando perun accentramento dell’analisi su questioni di enunciato edi enunciazione.

3.1. Descrizione della sequenza

La sequenza dello hassun3 arriva dopo il servizio delbrodo che segnala la fine della sequenza del pasto kaisekiservito dal padrone di casa (teishu). Prima di sparecchiarei piatti, il teishu ritorna dalla sala di preparazione(mizuya) portando nella mano destra un recipiente conte-nente del sakè4, e nella mano sinistra la pietanza hassun.Sul piatto, ci sono due tazze di cibo: un gruppo di vivan-de di montagna, un gruppo di cibi dell’oceano.

Il teishu va a sedersi di fronte al primo invitato e de-pone il proprio carico tra il suo corpo e il piatto del pri-mo invitato. Gli versa una coppa di sakè. Mentre l’ospitebeve il suo sakè, il teishu gli serve un pezzo di cibo del-l’oceano.

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Mentre l’invitato mangia, il teishu ripete il servizio delsakè e del cibo dell’oceano per ognuno degli altri invitati, aturno.

Servito l’ultimo invitato, il teishu riprende il vassoio ela sakeiera e ritorna a sedersi di fronte al primo invitato.Quest’ultimo dice allora: “Posso versarvi del sakè?”. Ilteishu risponde: “Io non ho una mia tazza, posso utilizzarela vostra?”. Il primo invitato prende allora un foglio dalproprio pacco di carta, asciuga la propria tazza, la piazzasul piccolo supporto laccato utilizzato in origine dal tei-shu per preparare le tazze. Durante questo periodo, ilteishu gira il vassoio e lo posiziona alla destra del vassoiodel primo invitato, quindi sposta la sakeiera verso il se-condo invitato, girandola affinché il becco di quest’ulti-ma si allontani dall’invitato.

A quel punto il teishu prende la coppa che il primoinvitato ha appena asciugato, e il secondo invitato gliversa un po’ di sakè. Mentre il teishu beve, il primo invi-tato gli serve una porzione di ognuno dei cibi dell’ocea-no e della montagna, ponendoli vicini su di un foglio dicarta estratto dal proprio pacco. Il teishu accetta questicibi, ma non li mangia. Nel frattempo, il secondo invitatoripone la sakeiera vicino al teishu, girandola in modo cheil becco si allontani da costui.

Quando il teishu ha finito di bere il suo sakè, il secon-do invitato gli chiede se può prestargli la propria tazzaper berci. Il teishu dice allora al primo invitato: “Lasciate-mi utilizzare la vostra tazza un momento, ve ne prego”. Ilteishu si sposta allora verso il secondo invitato e gli versaun po’ di sakè. Quindi pone la sakeiera vicino al terzo in-vitato (supponiamo in questo caso che sia l’ultimo), giran-dola per allontanare il becco dall’ultimo invitato.

Riprende il vassoio, il quale è stato messo (per rotazione)nella sua situazione iniziale dal primo invitato immediatamen-te dopo il servizio dei due cibi offerti al teishu, e serve unaporzione di cibi di montagna al primo e al secondo invitato.

Quando il teishu riceve la tazza che gli rende il secondoinvitato, il terzo invitato gli versa un po’ di sakè prima di ri-

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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porre la sakeiera vicino al teishu sempre girandola in mododa allontanare il becco da quest’ultimo. Quindi il teishuprepara una tazza per il terzo invitato e gli versa del sakè asua volta, prima di riporre la sakeiera vicino all’ultimo invi-tato, girandola affinché il becco gli si allontani. L’ultimo in-vitato rende la tazza vuota al teishu, gli versa ancora un po’di sakè, ripone la sakeiera girandola affinché il becco si al-lontani dal teishu, poi mangia il cibo della montagna.

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Fig. 1. Chashitsu

Fig. 3. Sakè e piatti di mare serviti al se-condo invitato

Fig. 4. Sakè e piatti di mare ser-viti al terzo invitato

Fig. 2. Sakè e piatti di mare serviti alprimo invitato.

TOKONOMA TOKONOMA

TOKONOMA TOKONOMA

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Il teishu pulisce la tazza, la ripone sul supporto lacca-to, e pone il supporto sul vassoio. Prendendo il vassoio ela sakeiera, il teishu ritorna al primo invitato. Si siede edice: “Vi ringrazio per avermi lasciato usare la vostratazza”. Poi versa ancora del sakè all’invitato, riponendo lasakeiera vicino al primo invitato e girandola per allonta-nare il becco dall’ospite. Quindi il primo invitato versadel sakè al teishu.

Dal momento in cui il teishu ha bevuto il suo sakè, ilprimo invitato dice: “Ho già bevuto abbastanza sakè, vorreiun po’ di acqua calda”. Il teishu raggruppa ciò che rimanedei cibi del mare e della montagna al centro del vassoio;pone il supporto della tazza, con la tazza, a sinistra del vas-soio; poi posiziona il foglio di carta con la propria porzionenon consumata a destra. Prendendo il vassoio e la sakeiera,il teishu li riporta verso la sala di preparazione. Questomarca la fine della sequenza dello hassun.

3.2. La formazione dell’enunciato sincretico

3.2.1. Prima analisi degli alimentiI cibi di montagna sono sempre di origine vegetale,

quelli di mare di origine animale, salvo eccezioni (quandola cerimonia è servita a vegetariani stretti, come lo sonocerti monaci buddisti).

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 5. Vassoio hassun decorato dei piatti di mare e di montagna

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A questi due vincoli fondamentali relativi all’origine siaggiunge un certo numero di altre condizioni cui deve atte-nersi il teishu al momento della preparazione del vassoio.

Allo stesso titolo di tutti gli altri oggetti manipolati o con-sumati durante la cerimonia, le vivande dello hassun devonoessere belle (sono degli oggetti estetici elaborati, destinati asollecitare il desiderio di colui che li guarda), in armonia conla stagione, con il gusto degli invitati e con il tema del chaji.

Queste condizioni debbono essere soddisfatte, ma nellamisura in cui sono comuni all’insieme degli elementi cheintervengono nella cerimonia, non ne svilupperemo qui l’a-nalisi, per concentrarci sui vincoli specifici dello hassun.

Oltre all’opposizione caratterizzante i piatti per la loroorigine, si possono trovare altre quattro coppie di opposi-zioni messe in opera.

3.2.1.1. Metodi di preparazione: se uno dei cibi è crudo,l’altro è cotto; se i due sono cotti, e l’uno è bollito, l’altrosarà fritto; se l’uno è cotto al vapore, l’altro sarà fatto allagriglia. Riconosciamo in questo caso l’opposizione dei me-todi culinari umido vs. secco riconosciuto pertinente nell’a-nalisi della preparazione dei piatti del kaiseki stesso (cfr. lanostra analisi del pasto).

3.2.1.2. Colori: se uno dei piatti è scuro, l’altro è chiaro;se l’uno è rosso, l’altro sarà verde…

3.2.1.3. Testure: se uno è croccante, l’altro sarà soffice…

3.2.1.4. Forme e ordini: se uno ha forme naturali irrego-lari, l’altro sarà tagliato per dargli delle forme geometricheregolari. I pezzi irregolari saranno disposti in mucchi infor-mi, i pezzi regolari saranno disposti gli uni accanto agli al-tri in funzione della loro geometria.

Queste opposizioni non sono dipendenti: sono libera-mente combinabili, fornendo un largo ventaglio di possi-bilità. Rimane vero, come vedremo in seguito, che la se-quenza congiungerà ogni coppia di termini opposti in

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queste categorie riunendo i piatti del mare e della monta-gna: lo hassun è l’occasione di realizzare in præsentia lacongiunzione dei contrari, in particolare quella del padro-ne di casa e dei suoi invitati.

Infine, altre tre costrizioni qualificano congiuntamentel’insieme dei cibi dello hassun:

3.2.1.5. Taglia: le porzioni di cibo sono piccole. Questi ali-menti non fanno parte del pasto, ma accompagnano il sakè.Infatti sono definiti in questo modo, e la sequenza che desi-gniamo come quella dello hassun è chiamata qualche voltaquella della condivisione del sakè. Il lettore non avrà mancatodi notare il modo elaborato di circolazione della sakeiera edell’unica tazza di sakè, e il fatto che ogni invitato versa delsakè al teishu, così come quest’ultimo ne versa a tutti.

3.2.1.6. Aspetto: malgrado i vincoli di origine, di forma,di colore, di preparazione e di testura, gli alimenti devonoconservare un’aria naturale. Devono essere riconoscibili econtinuare ad assomigliare a ciò che sono. Interessa soprat-tutto che non abbiano un’aria troppo lavorata.

3.2.1.7. Manipolabilità: i cibi devono poter essere presicon le dita. Quando si compara questa condizione al ca-rattere raffinato del comportamento sviluppato lungo tut-to il pasto e la cerimonia, non si può evitare di notare ilsuo carattere insolito. All’aspetto naturale imposto al pre-paratore dalla precedente costrizione (valore descrittivoda inscrivere) si aggiunge qui l’obbligo di inscrivere nellevivande un invito alla presa manuale (valore modale): sitratta di indurre il consumatore ad adottare un comporta-mento “naturale”, opposto al modo culturale della presatramite i bastoncini.

Queste due ultime costrizioni iscritte nei cibi concordanocon l’analisi che si può fare dei materiali del vassoio, e che sitroverà più avanti. Tutto converge per produrre l’effetto disenso così formulato dalla tradizione: “la natura stessa ha for-nito questi cibi” (cfr. «Urasente Newsletter» 44, p. 9).

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La combinazione di questo effetto di senso con lacongiunzione dei contrari segnalata precedentementepotrebbe produrre l’enunciato così verbalizzabile: la na-tura stessa produce la congiunzione dei contrari. Ci ri-torneremo (§ 3.2.5).

3.2.2. Prima analisi del vassoio

Il termine hassun designa più precisamente il vassoiostesso. Una spiegazione etimologica è offerta dalla tradizio-ne: i lati del quadrato che forma misurano otto pollici (=hachi sun, contratti per legamento ordinario in giapponese,per diventare hassun), ossia 24,3 cm circa.

Realizzato in legno di cedro “naturale”, non è né dipin-to né verniciato. In questo si oppone all’insieme degli altripiatti e recipienti utilizzati nel corso della cerimonia: quan-do sono in legno, esso risulta sempre laccato; quando la lo-ro materia non è il legno, sono realizzati in ceramica.

Il fondo del vassoio è fatto di una placca di legno otte-nuta da taglio per lungo: la superficie è irregolare, mostran-do le sue fibre in modo caratteristico. Precisiamo che igiapponesi segavano il legno solo seguendo di traverso lefibre. Per tagliarlo nel senso delle fibre, fino al XVII secolo,il legno veniva spaccato con cunei e strumenti di taglio. Lasega detta da carpentiere è stata introdotta in seguito, maun gran numero di utensili e di ossature continua a essere

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Fig. 6. Vassoio hassun visto dall’alto

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confezionato secondo la tecniche tradizionali. In particola-re, è il caso degli oggetti di culto scintoista5, quasi semprerealizzati in legno di cedro.

Ora, un vassoio simile è utilizzato attualmente nei san-tuari shinto per presentare le offerte alle divinità. Per que-sto uso, può essere dotato di un piedistallo o essernesprovvisto. Nei due casi possibili, l’attuale vassoio shintoi-sta è leggermente più grande dello hassun, pur essendocostruito allo stesso modo. Alcuni pretendono che nel XVIsecolo il vassoio shinto fosse piccolo e misurasse giusta-mente 8 sun. Altri contestano, dicendo che il vassoio shin-to è rimasto tale e quale, e che Sen no Rikyu decise di ri-durne le dimensioni al momento di adottarlo all’uso deltè. Qualunque sia l’esito di questa discussione storica, cibasterà in questo contesto reperire il legame forte con lepratiche shintoiste e il loro sistema di valori, dato che avràsomma importanza nel prosieguo dell’analisi. Tanto piùche l’opposizione mare/montagna è onnipresente nei mitidell’universo shinto.

Nella parte superiore del fondo del vassoio è fissato unbordo in legno di cedro piegato: un solo pezzo di legnocompie il giro del vassoio. Le sue due estremità sono inta-gliate a incastro per non rendere la loro sovrapposizionepiù spessa del pezzo stesso. Una legatura in scorza consoli-da la giuntura in quel punto.

Al fine di evitare che il legno si spacchi verso l’esternonelle curve situate agli angoli, la lama viene intagliata, sul latointerno, con 8 tratti di sega che ne facilitano il piegamento.

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Fig. 8. Tratti di sega perevitare la screpolatura

Fig. 7. Legatura sui bordi intagliati a incastro

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Il quadrato così costruito, alto appena 2 cm, è incollatosul fondo: nessun chiodo è utilizzato, né il sistema dei teno-ni e dei mortasa. Esso è stato portato a un grado di raraperfezione dai carpentieri giapponesi.

Da questa breve descrizione risulta che il modo di fab-bricazione del vassoio rivela la preoccupazione di manife-stare gli effetti di senso seguenti: shintoismo, nipponicità,primitivismo, naturalità. In questo contesto, il rifiuto dellalacca e della ceramica appare come uno scarto delle tecni-che della cultura importate dalla Cina, cui appartiene ilbuddismo. Quest’ultima religione è presente in modo ri-corrente lungo tutta la cerimonia, marcandola profonda-mente: il chado (= la via del tè) è intimamente legato allepratiche Zen. In più, l’uso degli oggetti cinesi è positiva-mente marcato nella pratica gestuale, che necessita di pre-parazioni e di precauzioni particolari. Di conseguenza,l’apparizione di riferimenti shintoisti-giapponesi altrettantoforti, imponenti la messa al bando delle referenze buddi-ste-cinesi, non manca di intrigarci, e richiede una spiega-zione. Ci ritorneremo nella descrizione sintattica.

3.2.3. Iscrizione dei carichi semantici negli oggettiLe due analisi precedenti fanno appello agli stessi meccani-

smi di base che fondano l’investimento semantico degli ogget-ti: in primo luogo, la questione dell’origine (mare, montagna,cedro). In secondo luogo, le procedure di fabbricazione.

Senza entrare nel dettaglio delle trasformazioni messein opera, che rischiano di allontanarci troppo dallo scopodi questo saggio, possiamo osservare che gli oggetti consi-derati sono luoghi di inscrizione per valori che si sedimen-tano (= essi rimangono stabili; ad es.: l’alimento provenien-te dall’oceano non perderà mai questa qualità) o vi si trova-no modificati (= il carico inscritto è trasformato; ad es.: seè troppo grande, l’alimento sarà ritagliato per soddisfarealle condizioni di taglia e di manipolabilità).

Considerato nel suo aspetto finale, l’oggetto non è che ilsupporto di memoria dei valori investiti. Da un punto di vi-sta semiotico, se ne possono trarre due conseguenze

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3.2.3.1. L’analisi del carico semantico degli elementi siriconduce a un’espansione sintattica che mette in operaprogrammi di fabbricazione: si tratta della costituzione se-miotica dell’oggetto (cfr. Greimas 1979a, 1981).

3.2.3.2. I programmi di fabbricazione degli oggetti ap-paiono da quel momento come programmi d’uso dipen-denti dai programmi osservabili in præsentia, i quali sonogerarchicamente superiori ai primi, nella misura in cui nemanipolano i contenuti investiti e li sovradeterminano.

La procedura d’inscrizione serve altrettanto bene a de-finire i valori descrittivi (es.: naturalezza) modali (es.: farvoler mangiare, far voler prendere con le dita).

Gli elementi spaziali che affronteremo nel paragrafo se-guente si riferiscono ugualmente a questa problematica: lerelazioni di posizione, così come le operazioni di traslazionee di rotazione, servono per instaurare oggetti situati a un li-vello di complessità superiore: essi permettono di ricostrui-re la sintassi degli effetti di senso veicolati non solo dagli ali-menti e dal vassoio, ma anche, a livelli di composizione su-periore, tra questo termine complesso e gli attori umanipartecipanti alla cerimonia, come tra l’insieme di questi ele-menti e le entità trascendenti rappresentate sul posto.

3.2.4. La costruzione spaziale dell’enunciatoSullo hassun ci sono sempre un paio di tazze di cibo e

un paio di bastoncini in bambù verde. I centri delle tazzesono posti su una delle diagonali del quadrato formato dalvassoio; i bastoncini sono posti sul bordo, formando un an-golo acuto con uno dei lati del vassoio.

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Fig. 9. Posizionamento dei piatti e dei bastoncini

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L’illustrazione a lato rappresenta schematicamente la si-tuazione, vista dalla persona che prepara lo hassun.

Si possono fare due tipi di osservazioni. In primo luogo,le due tazze hanno la stessa importanza visiva e sono postepraticamente nello stesso modo sulla diagonale del quadra-to. Questa disposizione conferisce loro uno statuto compa-rabile: di fatto, sono destinate a essere riunite. In secondoluogo, la tazza dei cibi di mare è la più vicina alle punte deibastoncini; infatti sarà servita per prima.

Detto questo, bisogna necessariamente constatare chela considerazione diretta e non mediata degli elementi por-tati sul vassoio non permette di estrarre una struttura inter-na pregnante. Le loro mutue relazioni appariranno chiara-mente solo quando le posizioni saranno state rapportate al-lo spazio referenziale del vassoio e agli investimenti semanti-ci delle posizioni.

3.2.4.1. Il referenziale che orienta lo hassun. È importan-te non confondere il metatermine referenziale con i terminidi referente e di funzione referenziale utilizzati in linguisti-ca e semiotica. Nell’uso che ne faremo, il metatermine refe-renziale corrisponde alla tradizione dei matematici e dei fi-sici, per i quali esso designa ogni sistema di assi cui si rife-riscono le posizioni dei punti di uno spazio considerato.Nella misura in cui si riferiscono le posizioni a questo siste-ma di riferimento, la derivazione del termine è giustificata.

Nel caso di cui ci occupiamo, è lo stesso vassoio cheforma il referenziale: lo hassun possiede un davanti (= fac-cia) e un dietro (= schiena). Questa distinzione è manifesta-ta sulla dimensione pragmatica nel corso della cerimonia: illato “faccia” è sempre posto di fronte alla persona chiama-ta a servirsi dal vassoio. Si manifesta allo stesso modo me-talinguisticamente sulla dimensione cognitiva nell’insegna-mento verbale e nelle opere didattiche che si occupanodell’apprendimento della cerimonia.

Davanti e dietro sono i due poli di un asse caratteristi-co dell’oggetto. In generale, un tale asse non è dipenden-te da un piano di referenza (orizzontale, verticale,…)

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predeterminato, né da una qualunque direzione predefi-nita. Basta, per convincersene, considerare il caso dellafreccia, in possesso di un davanti e un dietro, qualunquesia la sua posizione nello spazio. Si tratta quindi di unaproprietà intrinseca dell’oggetto, un valore descrittivoimmanente, indipendente da qualunque referenzialeesterno. Se questa proprietà dipende da qualche cosa, è,in ultima analisi, dalle trasformazioni in cui l’oggetto èimplicato e che vi imprimono i valori descrittivi conside-rati. Nel caso della freccia, è lo spostamento per trasla-zione che funge da trasformazione determinante. Per lohassun (e la sakeiera), sono movimenti composti di tra-slazioni e di rotazioni (notate in carattere grassetto nelladescrizione del paragrafo § 1) che inscrivono le polaritàe permettono di leggerle.

Tuttavia, la denominazione stessa della proprietà è an-tropomorfa: la distinzione davanti/dietro è legata a un sog-getto debraiato in relazione all’osservatore, installato nel-l’oggetto, reso solidale a quest’ultimo in modo da assicu-rarne l’orientabilità. Non è che un caso particolare di unaregola molto generale: ogni referenziale orientato riportatoa un oggetto (per orientare quest’ultimo) risulta da un’ope-razione di débrayage effettuata da un soggetto orientatore(cfr. Hammad 1985).

Nel caso dello hassun, l’orientamento bipolare non esi-ge l’intervento totale del soggettodebraiato: solo la direzio-ne della prospettività (davanti/dietro) è stata marcata daglispostamenti del vassoio, mentre il soggetto orientatore di-spone di altre due direzioni: la verticalità e la lateralità, fi-nora non sollecitate. Resta comunque vero che questo refe-renziale è presente nella sua totalità, manifestato da altremarche, da pratiche o da denominazioni: il vassoio è sem-pre utilizzato in orizzontale. Inoltre, è sempre la stessa fac-cia che è posta sui tatami, mentre l’altra riceve gli alimentidi mare e di montagna. Non è mai girato sotto-sopra, nel-l’altro senso. Il gruppo di movimenti che lo fa muoveremantiene dunque, a titolo di invariante, la distinzione traun sopra e un sotto, marcati da due elementi fissi.

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i) Il bordo di legno piegato, incollato nella parte supe-riore. Notiamo qui che la legatura in scorza che ferma ilbordo marca il dietro del vassoio. Questa marca è validaper tutti i recipienti quadrati utilizzabili nel corso della ce-rimonia (es.: i contenitori per il servizio dei dolci). Se i re-cipienti sono circolari, la legatura marca il davanti (es.:vassoio rotondo del ryakubon).

ii) La faccia superiore è rigata, nel senso delle fibre.Oggi il fondo non è più ottenuto da taglio poiché è unprocedimento difficile e costoso. Per evocare il taglio, siriga la faccia superiore della tavola piallata. Queste righe,come le fibre, marcano sempre una direzione trasversale,perpendicolare all’asse davanti/dietro.

Di conseguenza, si ritrovano, oltre alla prima direzioneidentificata come davanti/dietro, le altre due direzioni or-togonali: quella dei poli sopra/sotto legati alla direzioneverticale del soggetto debrayato, e quella della trasversa-lità legata alla lateralità dello stesso soggetto6.

L’insieme di queste tre direzioni ortogonali definisce unreferenziale costitutivo di un punto di vista debrayato attac-cato all’oggetto e reso solidale a quest’ultimo.

Se, come stabiliremo in seguito, consideriamo il vas-soio come un enunciato, abbiamo a che fare con un refe-renziale enunciativo.

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Fig. 10. Referenziale immanente dallo hassun

sopra

dietro

trasversalità

sottodavanti

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Le due operazioni di rotazione cui è sottoposto lohassun, segnalate nella descrizione di § 3.1., mostranoche la posizione del vassoio in relazione a un attore de-stinato ad agire sul primo è determinata dalle relazionitra i due referenziali coinvolti (quello del vassoio e quel-lo dell’attore umano): dovranno contrapporsi. Ci ritor-neremo (§ 3.3.3.).

Da un punto di vista spaziale, e nel quadro di un’ana-lisi in termini di geometria proiettiva in cui gli orienta-menti sono importanti, il vassoio è assimilabile a un sog-getto umano dal momento in cui è messo in rapportocon esso. In termini semiotici, questo significa che il vas-soio, dal momento in cui acquisisce lo statuto di oggettosemiotico. è assimilabile a un attore umano.

Questa osservazione concorda con altri risultati del-l’analisi, dove si vedono gli attori-oggetto subire un trat-tamento equivalente a una serie di trasformazioni sintat-tiche destinate a farne oggetti-valore competenti; poi, dalmomento in cui sono stati resi competenti, intervengonoe agiscono su altri oggetti: diventano dei soggetti delega-ti. È chiaramente il caso del fukusa o fazzoletto di seta, ilcui modo di ripiegamento è costitutivo della competenzapurificatrice; è anche il caso del chashaku o spatola, chepuò servire solo una volta purificata…

3.2.4.2. Il referenziale orientatore della sakeiera. Com-parata al vassoio, la sakeiera è un oggetto relativamentesemplice. Essa resta ferma nel corso della cerimonia e ilsuo contenuto è elementare: si tratta di sakè tiepido,conformemente alle abitudine ordinarie. Tuttavia, la de-scrizione del paragrafo 1 mostra che questo oggetto cir-cola tra tutte le persone presenti (mentre lo hassun è ma-nipolato solo dal teishu e dal primo invitato): Questomodo di circolazione relativamente complicato è correla-to a quello dell’unica coppa in cui si beve il sakè.

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Ad ogni spostamento, la sakeiera è avvicinata alla per-sona che dovrà servirsene, viene girata in modo da allon-tanare il becco da questa persona. Si può concludere, apartire da questo modo di fare, che la persona che spostala sakeiera vigila affinché il destinatario possa servirseneagevolmente. In termini semiotici, si tratta di rendere ildestinatario competente per l’atto che seguirà, e che èquello di versare il sakè. Completeremo questa analisi nelparagrafo 3.3.2.

Ci accontenteremo per il momento di interessarci al re-ferenziale relativo alla sakeiera e manifestato dalle sue ma-nipolazioni. I movimenti di traslazione e di rotazione con-servano alla sakeiera una posizione in piedi. Questo movi-mento lascia come invariante l’asse verticale polarizzato so-pra/sotto. Notiamo che questo fatto è conforme alla morfo-logia del contenente vuoto dato alla sakeiera, resa cosìcompetente per ricevere un liquido e conservarlo in questaposizione. Al contrario, l’operazione di versare fa appelloal becco ed esige una rotazione attorno a un asse orizzonta-le trasversale. Il becco appare allora come portatore dellamodalità di poter fare, essendo l’operazione di rotazioneattorno a un asse orizzontale una delle componenti del far“versare” (una traslazione laterale e verticale che conduceil becco sopra la coppa, come necessita l’azione).

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Fig. 11. La sakeiera

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Le operazioni di rotazione attorno a un asse verticale,allontanando il becco dalla persona chiamata a versare ilsakè, manifestano il fatto che la sakeiera possiede un orien-tamento sul piano orizzontale: essa possiede un davanti (ilbecco) e un dietro che gli è diametralmente opposto. Diconseguenza, la sakeiera è dotata anch’essa di un referen-ziale orientatore tri-rettangolare legato a un soggetto osser-vatore débrayato. Ad ogni modo, è già possibile osservareche i referenziali immanenti dei due oggetti manipolati nonsono messi in gioco allo stesso modo. Gli effetti di sensoche ne derivano appariranno nel paragrafo 3.

3.2.4.3. Topogerarchia dello hassun

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 12. Referenziale immanente alla sakeiera

Fig. 13. Modo di proiezione del referenziale del preparatore

davanti

dietro

osservatorelateralizzato

d lateralità

sguardo verticale

dietro

trasversalità

osservatoreorientatotrasversalizzato

g

sopradavanti

sotto

dietro

assetrasversale

davanti

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Nell’insegnamento relativo alla preparazione del vas-soio per la cerimonia, si impara a guardare il vassoio daun punto situato direttamente sopra di lui (in “vedutadall’alto” secondo la terminologia del disegno in proie-zione, ovvero la direzione dello sguardo è supposta esse-re verticale, cadendo dall’alto verso il basso).

Si suppone allora che il suolo sia un foglio di carta sucui si disegna il vassoio e il suo contenuto, e che poi siraddrizzi questo foglio per metterlo in verticale, di fronteall’osservatore la cui direzione dello sguardo è orizzonta-le. In seguito a queste due operazioni cognitive (descrivi-bili in termini di cambiamenti del punto di vista, cioècon l’aiuto di debrayage spaziali), la rappresentazionedel vassoio è la seguente:

L’alto e il basso, la sinistra e la destra, sono quelli del-l’osservatore preparatore: si tratta del referenziale delsoggetto cognitivo proiettato sul vassoio, e non del refe-renziale intrinseco al vassoio studiato in precedenza. Nelpiano di rappresentazione, rimane un referenziale imma-nente agli elementi seguenti (inscritti in corsivo):

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Fig. 14. Referenziale immanente al-lo hassun (in pianta)

Fig. 15. Referenziale proiettato dal pre-paratore sul piano dello hassun

dietro

davanti

trasversalità

alto

basso

sinistra lateralità destra

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Il nuovo referenziale proiettato sullo hassun, quello del-l’osservatore-preparatore, non è inscritto nella materia delvassoio né nel suo modo di fabbricazione. Viene stabilizzatosu quest’ultimo solo dalla procedura di proiezione che assi-cura la messa in correlazione con il referenziale immanente.

La direzione prospettica dell’osservatore è resa parallelaalla direzione verticale immanente dello hassun, con l’effet-to di produrre un parallelismo tra il piano dello hassun e ilpiano laterale-verticale dell’osservatore. Inoltre la direzionetesta-piedi dell’osservatore è resa parallela alla direzionedavanti-dietro del vassoio. Di conseguenza le direzioni la-terali dell’osservatore e del vassoio diventano parallele. Co-sì, le direzioni dei due referenziali sono parallele due a due,stabilizzando le corrispondenze seguenti:

dietro = lato legato = altodavanti = lato opposto non legato = basso

La destra e la sinistra sono distinte sotto la direzione dellalateralità grazie alla precisione che impone di situare il puntodi vista al di sopra del vassoio (un punto di vista situato al di

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 16. Sovrapposizione dei due referenziali sul piano dello hassun

dietroalto

basso davanti

sinistra lateralità osservatore

trasversalità immanente

destra

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sotto invertirebbe la lateralizzazione). Per ogni osservatoreinscritto nel quadro del chado (= via del tè), i sensi distingui-bili sulle direzioni dello spazio sono investiti positivamente onegativamente conformemente al modello buddista (§ 3.3.3.):

i) l’alto è superiore al basso,ii) la destra è superiore alla sinistra,iii) il davanti è superiore al dietro.

Questa norma è fortemente raccomandata per regolare lacostruzione dei padiglioni del tè, visto che determinerà gli at-ti e i gesti che saranno realizzati nello spazio così gerarchizza-to. Se si possono osservare padiglioni che si discostano appa-rentemente da questa regola, è perché hanno messo in scenaun dispositivo che permette di ritrovarla negli spazi localizza-ti dell’azione. Ci ritorneremo nel paragrafo 3.4.3.

Sul piano dello hassun, la relazione d’ineguaglianza (iii)inscritta sul referenziale dell’osservatore è sospesa poichéla profondità non è una dimensione pertinente sulla super-ficie di un vassoio: sussistono solo le prime due. In questocaso, vengono valorizzati i singoli quarti dello hassun attra-verso l’incrocio di due categorie pertinenti (i e ii), che pro-ducono due posizioni doppiamente marcate (fig. 16): sup.sup. (+ +) in alto a destra, inf. inf. (- -) in basso a sinistra (ealtre due posizioni complesse + - e - + che saranno evocatein 3.2.5.). In questi quarti opposti diagonalmente sarannosituati, rispettivamente, gli alimenti di montagna e di mare:la localizzazione delle tazze nel referenziale segnala la dop-pia superiorità della montagna sul mare.

Questa gerarchizzazione è conforme all’assiologia deimiti shinto, dove il mare e la montagna appaiono soventecome termini contrari di una opposizione da superare. Lamontagna, in questo corpus, rinvia al dominio celeste e allavita, mentre il mare è legato alle profondità e alla morte.

Ponendo il cibo della montagna come vegetale, e quellodel mare come animale, la tradizione del tè inscrive lo has-sun nell’universo dei valori buddisti, dove il cibo animale èconsiderato come inferiore al cibo vegetale.

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Le due tazze di cibo poste sullo hassun si inscrivonoquindi simultaneamente nei due universi di valore con-correnti (shintoista, buddista), su due isotopie differenti(cosmica, alimentare), sempre mantenendo la stessa rela-zione gerarchica tra i due. La stabilità della relazione tra itermini è una marca che permette di emettere l’ipotesi diessere in presenza di un connettore di isotopie. Se siconsidera inoltre che i due tipi di cibo saranno congiun-ti, ci si può fare un’idea del ruolo che andranno a gioca-re sulle due isotopie, dove la congiunzione dei contrari èposta come programma di base per un gran numero diracconti.

Riassumiamo quest’ultima fase dell’analisi: le due tazzedi cibo ricevono, hic et nunc, due statuti gerarchici opposticonformi alle assiologie shintoista e buddista, a partire dal-l’organizzazione spaziale imposta dal referente proiettatodall’osservatore-preparatore. Si potrebbe dire che l’opera-zione di preparazione installa ogni cosa al suo posto: ciò cheè superiore nel posto superiore, ciò che è inferiore nel po-sto inferiore.

Ma c’è di più: se la montagna è superiore al mare, ose il vegetale è superiore all’animale, è in virtù dei valoritrascendenti esterni alla cerimonia e applicabili a un grannumero di altre situazioni. Ciò che è in causa nella pre-parazione, è la realizzazione nel tempo e nel luogo dellacerimonia, nella materia stessa dei suoi ingredienti, del si-stema dei valori. La confezione degli alimenti, come la lo-ro disposizione sui vassoi, è di conseguenza un atto dicomunicazione caratterizzato dalle tre dimensioni dellatemporalizzazione, della spazializzazione e dell’attorializ-zazione, realizzato da un soggetto che mette in relazioneun sistema trascendente con una realizzazione immanen-te, in grado di presentare il tutto agli invitati per compie-re in seguito altri atti. Nella misura in cui questo atto è dinatura cognitiva, e le operazioni materiali sugli oggettinon hanno altro scopo che caricarli di senso, si trattapropriamente di un atto enunciazionale che manipolaenunciati sincretici non verbali.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Nei fatti, attraverso la persona nei panni del preparato-re, ci sono delle istanze enunciatrici trascendenti che im-pongono l’origine degli elementi, le loro trasformazioni, ela loro installazione nello spazio del vassoio.

Da quel momento, il vassoio pronto con le tazze di ali-menti appare come un enunciato composto, in cui le sequen-ze di preparazione degli oggetti, tali quali risultano dalla no-stra analisi, si iscrivono come enunciati componenti, dotati ditanti attori giocanti il ruolo di soggetti di enunciazione quantisono i “preparatori”, l’insieme formando un attante collettivounico manifestante un soggetto d’enunciazione trascendente.

La geometria del vassoio, degli alimenti, delle tazze, co-me le loro materie, le procedure di cottura e di fabbrica-zione, i modi della manipolazione, sono altrettante marche,inscritte nell’enunciato, di operazioni enunciazionali che mi-rano a trasformare il mondo e a produrre la sua conformitàcon un modello stabile predeterminato.

Una concezione simile è confermata dalle trasformazio-ni che subiscono questi stessi enunciati nel corso della ceri-monia, e che vedremo in § 3.2.5.

Ritorniamo all’organizzazione gerarchica dello spaziodel vassoio, struttura che chiamiamo “topogerarchica” perriportarla a un insieme di fenomeni riguardanti una stessalogica, in cui i posizionamenti delle cose servono a marcarele loro mutue relazioni gerarchiche. Tali situazioni abbon-dano nei rituali sacri e profani, in particolare nelle cerimo-nie e nelle attività protocollari.

Abbiamo mostrato che gli alimenti del mare e dellamontagna si inscrivono perfettamente nel referenzialeproiettato dal preparatore-osservatore, cosa che ci ha con-dotto verso i fenomeni di enunciazione. Come si iscrivonoallora nel referenziale immanente al vassoio?

Gli alimenti della montagna si ritrovano a sinistra del-l’asse davanti/dietro e vicini al dietro, quelli del mare sonoinvece a destra e in avanti.

Abbiamo visto che il vassoio hassun è simile, se non iden-tico, a un vassoio di offerte shinto. Cercheremo allora di in-terpretare il referenziale immanente in funzione del sistema

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di valori di questo universo. Nel sistema shinto, la sinistra èsuperiore alla destra. Questa valorizzazione è manifestata nelnihongi, raccolta dei miti più antichi del Giappone (Aston1896). Se ne trova attestazione nella corte imperiale, in tutti isantuari shinto, nella gerarchia militare tradizionale, e anchenella maggior parte dei banchetti contemporanei. La si trovaanche presso i mongoli e i turchi dell’Asia centrale (Grous-set 1936), dove se ne dà una giustificazione: la direzioneprincipale dello sguardo è quella del Sud, là dove si trova ilsole benefattore del mezzogiorno. In relazione a questo refe-renziale di base, il sole che si leva a Est si trova a sinistra: è ladirezione del sole nascente, glorioso e pieno di vitalità. Peropposizione, il sole che tramonta all’Ovest, si trova a destra:è la direzione del sole morente ed esausto. L’Est è superioreall’Ovest, conformemente alla “natura delle cose” legate alsole, alla vita e alla morte. Di conseguenza, la sinistra è supe-riore alla destra.

Si vede che questa valorizzazione di una direzione late-rale in relazione all’altra passa attraverso un’operazione didebraiaggio-embraiaggio: si tratta di proiettare il referen-ziale del corpo sul cerchio dell’orizzonte per definirvi quat-tro direzioni cardinali alla maniera del corpo che possiede

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 17. I piatti e il referenziale immanente

dietro

montagna

destra lateralità shinto sinistra

mare

davanti

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quattro direzioni orizzontali, quindi di re-embraiare sulcorpo a partire dalla serie delle corrispondenze:

Sud = davanti = duratività della vitaEst = sinistra = incoatività della vitaOvest = destra = terminatività della vita

in cui l’aspettualizzazione della vita gioca un ruolo prepon-derante nella determinazione dei valori relativi.

Conformemente a questo sistema di valori, ritroviamo,nel referenziale immanente al vassoio, la montagna nellaposizione superiore a sinistra e il mare nella posizione infe-riore a destra. Rimane tuttavia da rendere conto del fattoche la montagna sia dietro e il mare davanti.

Il ricercatore interessato dallo shintoismo non può man-care di studiare i santuari costruiti per le divinità venerateda questa religione. Se ci si interessa all’imbasti-mento deisantuari nei rispettivi siti, si scopre una regolarità che nonpuò risultare dal caso: i santuari si aprono davanti al sud,l’edificio principale si addossa a una montagna o a una col-lina, davanti alla cinta del santuario passa un corso d’acqua.

Ritorniamo al vassoio hassun, e poniamoci al centroconformemente al referenziale immanente (cfr. fig. 18). Ladirezione dello sguardo “davanti” si trova essere il sud, lasinistra corrisponde all’Est e la destra all’Ovest. Dietroquesto punto centrale, si trova la montagna (rappresentatadai suoi cibi). Davanti allo stesso punto centrale, si trova ilmare (rappresentato dai suoi cibi). Se si sa che il dio delmare è anche quello delle foci dei fiumi e dei fiumi, ricono-sciamo sul vassoio hassun una configurazione spaziale figu-rativa identica a quella dei santuari, con la montagna dietroe l’acqua davanti.

Meglio: nello spazio del vassoio, reso geografico, la mon-tagna si trova a Nord-Est del centro. È esattamente la posi-zione prescritta dalla geomanzia delle tradizioni shintoiste:se volete preservare la vostra costruzione dagli effetti delmale, che viene da Nord-Est, scegliete il vostro sito in modoche ci sia in questa direzione una montagna che vi protegga.

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Nello stesso spazio del vassoio, il mare si trova a Sud-Ovest, ed è la direzione prescritta dalla geomanzia: se, mal-grado la montagna guardiana, il male venuto da Nord-Estpenetra nella vostra costruzione, arrangiate un’apertura indirezione di Sud-Ovest, affinché esso riesca velocementesulla sua spinta e senza doversi fermare.

Fu così che fu scelto il sito della villa di Kyoto, capitaleimperiale, tra il monte Hiei che la salvaguarda a Nord-Este la baia di Osaka che evacua il male a Sud-Ovest. In virtùdelle qualità di questo sito si è rinunciato a spostare la ca-pitale a ogni morte dell’imperatore; Kyoto rimase città im-periale quasi mille anni.

L’operazione cha abbiamo descritto, si basa su un de-braiaggio: abbiamo delegato un osservatore al centro delvassoio, e vi si è orientato come se si trattasse di uno spazioinglobante, senza tener conto del mutamento di scala.Questa procedura non ha nulla di straordinario per chiun-que ha l’abitudine di leggere delle piante di architettura odi urbanistica: è talmente banale che passa inavvertita. Lasegnaliamo in questo contesto per metterla in parallelo conle altre operazioni di orientamento dello spazio che siamocondotti ad analizzare.

Rimane tuttavia che il luogo scelto per situare l’osserva-tore debraiato non è un luogo qualunque: si tratta del cen-

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 18. Il referenziale immanente e il referenziale shintoista-geomantico

Cielosopra Nord

dietro

Estsinistra

sottoTerra

davantiSud

Ovestdietro

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tro del vassoio, e questo centro è vuoto. Correzione: non èvuoto che all’inizio della sequenza dello hassun. Alla finedella sequenza, il teishu vi raggruppa ciò che rimane dei ci-bi della montagna e del mare (cfr. § 3.1.).

Abbiamo dimostrato (cfr. capitolo secondo) che la figu-ra, del resto, gioca un ruolo fondamentale nella cerimoniadel tè (in particolare nella costruzione del valore “purezza”e della sua aspettualizzazione attraverso gli spazi del giardi-no e del padiglione). Nella preparazione della sequenzadello hassun, il preparatore del vassoio si prende cura dimettervi una parte di ciascun cibo per ogni invitato, piùuna porzione per il teishu e una porzione in soprannumeroperché rimanga nel vassoio dopo il servizio. Quando allafine della sequenza si riuniscono queste parti restanti, lariunione dei cibi opposti secondo cinque categorie distinti-ve non può essere denudata di senso, soprattutto dal mo-mento in cui ha luogo nel centro vuoto del vassoio, centroin relazione al quale le direzioni prendono il proprio senso.

Non è tutto: dopo quest’operazione, il teishu occupa idue quarti del vassoio rimasti vuoti fino a quel momento:posiziona la coppa comune del sakè, con il suo supportolaccato, nel quarto Nord-Ovest, e i cibi che gli sono statiofferti su di un foglio piegato, e che non ha consumato, nelquartiere Sud-Est.

Il teishu riparte quindi, alla fine della sequenza, con unvassoio profondamente modificato: i quarti che furono oc-cupati ora sono vuoti, e viceversa, come per il centro.

3.2.5. Le trasformazioni dell’enunciato sincreticoIl sapiente edificio del piatto farcito, che rappresenta al-

l’inizio della cerimonia l’equilibrio dei valori del mondo se-condo i due punti di vista shintoista e buddista, si trova in-teramente rovesciato negli ultimi istanti della sequenza.

Al centro, si trovano riuniti gli estremi che furono sepa-rati: la montagna e il mare, il vegetale e l’animale, l’alto e ilbasso, il cotto e il crudo, il soffice e il croccante, il secco el’umido, il geometrico e il non-geometrico, il brillante e l’o-paco, il chiaro e lo scuro. Nel frattempo, ogni invitato ha

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consumato le due specie. Durante il corso della cerimoniadel tè è anche accaduto qualcosa di straordinario: l’inver-sione dei ruoli del padrone di casa e dei suoi visitatori.

Generalmente, il teishu riceve i suoi invitati e fa lui stes-so il servizio. Ora, la sequenza dello hassun è l’unica in cuitutti gli invitati servono.

Meglio: normalmente il primo invitato parla e agisce anome di tutti. Questa regola si verifica anche qui quando èlui a invitare il teishu a bere, ed è lui a servirgli i cibi delmare e della montagna. Ma in questa sequenza, ognuno de-gli invitati, al proprio turno, serve il sakè al teishu.

Il servizio non è a senso unico: tra il teishu e ciascun in-vitato, c’è uno scambio di sakè, in unica coppa per tutti, e apartire da un’unica azione (visto che lo scambio implica laconsumazione) compiuta da più attori che acquistano perciò stesso lo statuto di attante collettivo.

Se i visitatori riguardano tutti un’unica classe, già costi-tuita in attante collettivo in una fase anteriore della cerimo-nia, il gruppo dei visitatori si oppone al teishu come il polocontrario nella categoria invitante/invitato. La loro riunio-ne in attante collettivo è quindi, anch’essa, una congiunzio-ne dei contrari.

Notiamo che la congiunzione degli attori umani in at-tante collettivo è inquadrata dalla congiunzione del mare edella montagna.

Lo scambio del sakè è preceduto dalla riunione, su diun foglio di carta che fa ufficio di piatto, dei cibi del maree della montagna destinati al teishu. Questa congiunzione èrealizzata dal primo invitato.

Lo scambio è seguito dalla riunione, al centro del vas-soio, dei cibi del mare e della montagna. Questa secondacongiunzione è realizzata dal teishu.

Di conseguenza, la riunione del mare e della montagnaè realizzata contemporaneamente dagli invitati e dal teishu:gli attori umani formano un attante collettivo non solamen-te grazie alla consumazione del sakè (congiunzione degliattori umani con il liquido), ma anche tramite la riunionedei contrari (operano insieme, e nello spazio visibile, la

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congiunzione dei due solidi che hanno consumato nellasuccessione). In termini cattolici, si potrebbe dire che fan-no comunione sotto le due specie.

Questo riferimento alla religione cristiana non è bal-zano: diversi indici (modo di manipolazione del fazzolet-to purificatore, genuflessione in risposta al colpo digong…) concorrono a mostrare che Sen no Rilyu ha inte-grato sapientemente degli elementi cristiani nella sua sin-tesi delle tradizioni anteriori alla cerimonia del tè. Il fineperseguito con una simile operazione, per come è statoestratto dall’analisi, sarà la congiunzione delle visioni re-ligiose che conosceva, in un termine sincretico che rap-presenterebbe l’armonia dell’universo, delle idee, degliuomini e delle cose.

Ritorniamo alle marche di congiunzione dei contrari: ilfoglio con il contorno di mare e di montagna (destinato alteishu), i resti riuniti al centro, come l’unica coppa utilizza-ta per lo scambio di sakè, si ritrovano sul vassoio alla finedella sequenza, disposti nel modo seguente:

- davanti e a sinistra, i cibi del teishu sul loro foglio;- dietro e a destra, la coppa sul suo supporto;- al centro e senza supporto, i resti riuniti.Questi tre termini formano una linea diagonale, quella

delle influenze benefiche definite dalla geomanzia nel refe-renziale cosmologico e proiettate sul vassoio.

I quarti che erano pieni, e che si ritrovano svuotati, te-stimoniano della sparizione dei contrari. Il centro che sitrovava, quando era vuoto, protetto dal male, riceve il ter-mine complesso che rappresenta la sintesi dei termini op-posti, la totalità completa, una figura dell’universo globale.Lo stesso centro si trova inquadrato dagli strumenti dellacostituzione dell’attante collettivo umano, gli oggetti-sup-porto dell’azione creatrice dell’unità e raffigurante la lineadelle influenze benefiche.

Nel suo stato finale, il vassoio hassun porta le marchedelle trasformazioni che hanno luogo durante la sequen-za. A posteriori, è possibile vedere che il primo stato delvassoio asseriva lo stato diviso e separato delle cose, per

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far sì che l’azione dei partecipanti alla cerimonia possaesercitarsi e instaurare l’azione unificatrice sul mondo de-gli uomini e delle cose. Ancora di più: all’inizio, il sakè eil vassoio erano separati tra la mano destra e la sinistradel teishu; alla fine, la coppa del sakè si unisce al vassoio,testimoniando dell’indissociabilità degli alimenti liquidi edegli alimenti solidi, come si manifesta lungo l’intera ceri-monia, sia a livello di pasti che a livello di consumazionedei tè densi e leggeri.

In termini semiotici, questa indissociabilità equivale auna mutua presupposizione manifestata attraverso tutto ilcorpus: generalmente, l’insieme degli oggetti alimentariconsumati dagli invitati nel corso della cerimonia si rag-gruppa nella coppia solido-liquido, senza alcuna eccezione.

Ancora meglio: l’analisi delle sequenze permette diestrarre una regolarità supplementare che si sovrappone alvincolo della co-presenza solido-liquido: in tutta la primaparte (= shoza), i liquidi precedono i solidi; in tutta la se-conda parte (= goza), i solidi precedono i liquidi.

Non sarà inutile ricordare che tutta la cerimonia è orga-nizzata “per bere una tazza di tè”, e che il pasto che prece-de, lo hassun, i dolci e tutto il resto non sono che elementidestinati a preparare i partecipanti a questa consumazionemaggiore, per poi prepararli a ritrovare il mondo ordinariodopo aver bevuto il tè.

A partire da questa regola di mutua presupposizione, sipuò render conto dell’intrico del servizio del sakè e degli ali-menti del mare e della montagna: riprendendo la descrizio-ne del paragrafo 1 fase per fase, si possono ritrovare i sintag-mi stabili “liquido precedente il solido” ripetuti per ciascuninvitato, con un’unica eccezione: il teishu serve i piatti dellamontagna al primo invitato prima di servirgli il sakè.

Una tale eccezione non può essere dovuta al caso, e ri-chiede un’interpretazione. Un primo elemento è fornitodal modo di circolazione della sakeiera: quest’ultima è po-sta vicino al secondo invitato all’inizio della sequenza delloscambio di sakè; di conseguenza, il teishu non può pren-derla per offrire il sakè al primo invitato, dato che deve

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versare il sakè al secondo invitato immediatamente dopoaver ricevuto il sakè da quest’ultimo. Questo obbligo, con-fermato dal modo di operare utilizzato riguardo a ogni in-vitato, permette di estrarre una prima regola: lo scambiodel sakè non tollera nessuna interruzione dell’azione tra lepersone che la compiono. Nessuna parola viene scambiata,e l’inversione dei ruoli avviene in continuità. Questo mododi fare è osservabile negli altri riti giapponesi di scambiodel sakè, che servono in generale a sancire un’alleanza (po-litica, commerciale, o personale come il matrimonio).

Bisogna ancora render conto del fatto che la sakeiera èposta vicina al secondo invitato e non al primo, che è lapersona che ha formulato l’invito nei riguardi del teishu.Questa procedura deriva da due cause:

i) delegando il servizio del sakè al secondo invitato, ilprimo ospite manifesta hic et nunc che l’insieme degli invi-tati forma già un attante collettivo, che si manifesta qui informa sintagmatica: uno degli invitati formula l’invito alteishu, tutti gli altri la realizzano.

ii) Con questa delega, il primo invitato è liberato per rea-lizzare la congiunzione degli alimenti solidi del mare e dellamontagna destinati al teishu, permettendoci così di inquadra-re la sequenza di congiunzione degli attori umani tramite leoperazioni di congiunzione degli attori alimentari (cfr. supra).

Osserviamo qui che il teishu non mangia gli alimenti chegli vengono serviti. Questo non costituisce una vera rotturadella regola che afferma la mutua presupposizione degli ali-menti solidi e liquidi: infatti, questa regola non riguarda chegli invitati. Come ogni legge, essa è definita dal suo universodi validità e dalle persone cui si applica. Non prevale controun’altra regola della cerimonia: il teishu non mangia in pre-senza dei suoi invitati. Nel corso del Kaiseki, mangia nellasua cucina (= mizuya). Di conseguenza, il fatto di accettare(con un saluto, e dal fatto che prende il foglio preparato perlui) i cibi che gli sono proposti senza consumarli, serve a ma-nifestare, hic et nunc, questa regola negativa che gli imponedi non mangiare. In questo, la procedura obbedisce alle rego-le generali della negazione non-verbale (cfr. capitolo terzo).

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In secondo luogo, il fatto di conservare questo foglioguarnito permette di manifestare, sul vassoio, le azioni con-giuntive dei contrari realizzate dal primo invitato e dal tei-shu (cfr. supra).

Un ultimo elemento permette di rendere conto della“tessitura” dei servizi del sakè e dei cibi: l’analisi dell’insiemedel Kaiseki permette di estrarre una regola d’ordine sugli ali-menti solidi che sono serviti. Nel corso dello shoza (o primaassise), gli alimenti sono serviti in ordine crescente di caricaenergetica (in termini di IN e di YO, cioè di Yin e di Yang se-condo la terminologia cinese). Di conseguenza, gli alimentidel mare devono essere serviti prima degli alimenti dellamontagna, come è il caso: si vede effettivamente il teishu co-minciare a servire i piatti di mare (preceduti dalla loro coppadi sakè) poi quelli di montagna (preceduti dalla loro coppadi sakè). Ed è proprio la coppa che precede i piatti di mon-tagna a dare l’occasione per lo scambio del sakè.

Con questi ultimi elementi, possiamo esplicitare com-pletamente l’enunciato sincretico costituito dalla circola-zione degli oggetti-attori manipolati nel corso della sequen-za. Rimane vero che questa spiegazione è stata fatta in ter-mini figurativi, per facilitare la comprensione del lettorepoco familiarizzato con la cerimonia del tè, e forse poco fa-miliarizzato con la semiotica. Non si può concludere que-sto paragrafo senza giustificare lo statuto semiotico dienunciato che abbiamo attribuito alla sequenza nella suatotalità, così come a certe sue componenti, sia preparatorieche realizzate in presenza.

Da un punto di vista semiotico, ogni oggetto significan-te che manifesta delle regolarità può essere considerato co-me un testo, ovvero come un processo riguardante un si-stema semiotico particolare. Questa posizione è ampia-mente esplicitata da L. Hjelmslev, e non è compito nostroritornarci. Se, all’interno dell’approccio semiotico, si optaper l’analisi del discorso, una qualunque sequenza signifi-cante appare da quel momento come un enunciato, nellamisura in cui è “ogni grandezza provvista di senso, che ri-levi (…) del testo (…) precedentemente a ogni analisi”

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(Greimas, Courtés 1979, p. 123). Al posto dei puntini mes-si in questa citazione, gli autori hanno inscritto dei terminiche rinviano al linguaggio verbale e/o scritto, luogo privile-giato dell’elaborazione dei concetti semiotici. SeguendoHjelmslev, ci proponiamo di generalizzare la semiotica atutte le sostanze dell’espressione, e manteniamo la defini-zione dell’enunciato nella sua accezione più generale.

A partire da questa definizione, la sequenza che ci haimpegnato, può legittimamente essere considerata come unenunciato. Meglio: abbiamo mostrato che essa manifesta,tramite le operazioni di preparazione degli oggetti alimen-tari e dell’oggetto vassoio hassun, le procedure di “messain discorso” caratteristiche delle operazioni di enunciazio-ne, intese come il passaggio dal sistema al processo.

Infine, da un punto di vista sintattico, è facile vedereche le trasformazioni da noi esplicitate, sia quelle della pre-parazione presupposte dalla sequenza che quelle realizzatein præsentia, possono essere sottoposte a un’analisi attan-ziale che caratterizzi delle relazioni di giunzione tra attanti,come delle trasformazioni delle dette giunzioni. Non ri-prenderemo in questi termini la totalità dell’analisi, datoche ci intratterrebbe in prolungamenti considerabili. Ci ac-contenteremo di citare un certo numero di casi caratteristi-ci e convincenti prima di passare al seguito del nostro pro-posito, che è quello di esplorare la dimensione enunciazio-nale sincretica manifestata nel nostro corpus.

Esempio 1: se i piatti dello hassun ricevono, nel corsodella cerimonia, la qualifica di “non pasti” seguita dallaqualifica “accompagnamento del sakè”, è per le seguentiprocedure sintagmatiche:

i) Il pasto kaiseki è annunciato dal teishu prima di esse-re servito, allo stesso modo che la sua fine; il teishu, dopoessersi eclissato per mangiare, ritorna dicendo di aver ter-minato il suo pasto. Il suo ritorno è preceduto da un segna-le emesso da tutti gli invitati allo stesso tempo: fanno cade-re i bastoncini simultaneamente nel vassoio, producendoun rumore caratteristico che preavvisa il teishu che ora può

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aprire la porta e ritornare nel chashitsu (= sala della ceri-monia). Tutto ciò che verrà portato dopo questa marca didelimitazione apparterrà al “non-pasto” della cerimonia.

ii) Il sakè è servito prima di ogni piatto dello hassun.Quindi il teishu serve i piatti mentre l’invitato beve la suatazza di sakè: l’ordine del servizio e la concomitanza /servi-zio del solido/-/consumazione del liquido/ caratterizzano ipiatti in quanto accompagnamento della bevanda.

A queste due procedure in præsentia si aggiunge unaqualità proveniente dalle procedure di preparazione in ab-sentia: i piatti sono tagliati con dimensioni inferiori a quelledelle porzioni di pasto appena avvenuto: non sono delleporzioni da pasto ma porzioni di accompagnamento dellabevanda.

Nei tre casi, è il teishu che gioca il ruolo di attante sog-getto realizzante le trasformazioni che congiungono gli og-getti con i valori descrittivi in questione.

Esempio 2: se il vassoio dello hassun appare “nudo”, èperché è stato preceduto da una serie di vassoi laccati. Nonsarà seguito da nessun altro vassoio in legno grezzo.

Tutti gli altri precedenti piatti venivano posti su deirecipienti, i quali erano posti sul loro vassoio rispettivo. Ipiatti di montagna e di mare sono posti direttamente sullegno.

Si può riprendere la serie delle opposizioni distintiveinventariate in precedenza per vedere che l’incatenamentosintagmatico consiste col cominciare a porre, nel pasto kai-seki, i termini della cucina coltivata, prima di introdurre itermini di negazione che asseriranno la natura degli oggettie degli alimenti. Abbiamo là una procedura narrativa clas-sica la cui dinamica è perfettamente descrivibile sul qua-drato semiotico.

Esempio 3: lo hassun è condotto con i valori contraridisgiunti dal loro investimento figurativo negli alimentispazialmente separati. Uscirà con questi stessi valori con-giunti dalla riunione figurativa delle specie alimentari.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Il soggetto operatore della congiunzione è un attantecollettivo che riunisce il teishu e i suoi invitati. Questoenunciato non si accontenta di manifestare le trasformazionidell’oggetto-valore: manifesta anche le trasformazioni degliattori-soggetti.

Esempio 4: l’insieme della sequenza analizzata qui (co-me per altro la cerimonia del tè nel suo insieme) appare co-me un rituale profano dalle numerose connotazioni religio-se, che soddisfa la struttura generale dei rituali (cfr. Ham-mad 1984, p. 230) in cui la situazione polemica iniziale ènegata per asserire in seguito il contratto tra gli attanti.Nella sequenza dello hassun, abbiamo visto a più riprese lanegazione dell’opposizione dei contrari a livello di attori-oggetti e a quello degli attori-umani, l’insieme delle opera-zioni essendo in grado di produrre la congiunzione a livel-lo di attori-oggetti (e quindi a quello dei valori descrittiviprofondi), a livello degli attori-umani-soggetti (e quindi aquello dei valori modali), sia infine a quello degli attori-og-getti-e-umani poiché c’è congiunzione per consumazione,raffigurante l’unione dei partecipanti della cerimonia conla totalità della natura rappresentata sul vassoio.

Il programma narrativo di base di questa sequenza saràquindi la congiunzione universale in un’armonia contrat-tuale.

3.3. Operazioni enunciazionali immanenti

3.3.1. Marche dell’enunciazione enunciataDato che abbiamo a che fare con un corpus sincretico

in cui il linguaggio verbale non fa che partecipare a un at-to di comunicazione complesso, non è proprio il caso direstringerci a ricercare pronomi personali e deittici chemarchino l’intervento del soggetto enunciatore nel suoenunciato. Senza riprendere la totalità dell’argomentazio-ne esposta nel nostro articolo L’enunciazione: processo e si-stema (ivi, capitolo ottavo), approfittiamo dell’occasione

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per ricordare che oggi non disponiamo di criteri esatti, si-tuati sul piano dell’espressione linguistica che permettanoun riconoscimento formale e automatico degli elementienunciazionali del discorso verbale. Ci siamo serviti diquesta constatazione, come di altri argomenti sviluppatinel detto articolo, per giungere alla seguente conclusione:se gli analisti sono capaci di non servirsi di questi criterima di arrivare comunque a fare delle analisi dell’enuncia-zione, è perché lo stesso concetto di enunciazione, oppo-sto a quello di enunciato, non riguarda il piano dell’e-spressione. Sembra conveniente allora di situarlo sul solopiano del contenuto.

Ammetteremo allora questa tesi come punto di parten-za, e svilupperemo la nostra analisi a partire dai soli ele-menti del contenuto e dalle loro trasformazioni. Non c’èbisogno di dire che ci appoggeremo su degli elementi del-l’espressione sincretica per riconoscere le articolazioni delcontenuto, ma prenderemo i criteri enunciativi ed enuncia-zionali solo sul piano del contenuto. I risultati della nostraanalisi serviranno a convalidare l’approccio: se appariran-no come soddisfacenti, varranno come convalida positiva ea posteriori della tesi. Se non sono convincenti, significheràche l’argomentazione della prova non è stata persuasiva,cosa che non necessariamente implica la falsità della tesi.

Sul piano del contenuto, le operazioni di enunciazionepresuppongono tutte degli embraiaggi-debraiaggi checoinvolgono una qualunque delle grandezze ego, hic, nunco una loro combinazione. Partiremo da questo criterio peresplorare certe procedure enunciazionali messe in operanella sequenza che ci riguarda.

3.3.2. Gli spostamentiConsideriamo in primo luogo gli spostamenti della

sakeiera nel suo periplo propri allo scambio del sakè. Lasequenza ristretta di questo scambio comincia con il ge-sto seguente: il teishu pone la sakeiera vicino al secondoinvitato, girandola in modo da allontanarne il becco daquest’ultimo.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Così facendo, si indirizza non-verbalmente al secondoinvitato, significandogli di star attendendo da lui che servail sakè. Gli spostamenti della sakeiera e la determinazionedella sua nuova posizione sono quindi portatori di una mo-dalità virtualizzante trasmessa al secondo invitato. Nellamisura in cui tutta la cerimonia è regolata come un rituale(ciò che si trova a essere seguendo la nostra dimostrazio-ne), questa modalità virtualizzante è riconoscibile comequella del dovere.

La rotazione impressa alla sakeiera la presenta comoda-mente al secondo invitato: combinata con la posizione ter-minale della traslazione, rende il secondo invitato capacedi prenderla e di versare il sakè al teishu (attualizzazione).

Di conseguenza, lo spostamento della sakeiera, analiz-zato come combinazione di una traslazione e di una rota-zione, è costitutivo della competenza del secondo invitato(virtualizzazione secondo il dovere e attualizzazione secon-do il potere) nel programma di versare il sakè. Questo ri-sultato è già interessante in sé. Ma non è tutto: l’operazioneimplica un triplo debraiaggio:

3.3.2.1. Il teishu cede il suo ruolo di soggetto operatore,e prepara il suo passaggio allo statuto di soggetto di statoche si congiungerà al sakè. Si tratta di un debraiaggio at-tanziale caratterizzato.

3.3.2.2. Il topos (cfr. Hammad 1980a) del soggetto d’a-zione cambia bruscamente: il soggetto operatore non è piùnella posizione dell’attore-teishu ma in quello dell’attore-secondo invitato. Questo cambiamento di luogo avvieneestemporaneamente, con la semplice commutazione deiruoli attanziali e lo spostamento del carico modale. Nonc’è alcuno spostamento pragmatico dell’attante-soggetto.Si tratta di un debraiaggio spaziale caratterizzato.

3.3.2.3. Il secondo invitato riceve, con lo spostamentodescritto della sakeiera, un atto di comunicazione che loprega di versare il sakè dal momento in cui il teishu sarà in

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possesso della coppa. La sua azione succederà quindi all’a-zione del teishu che avvicina la sakeiera e a quella concomi-tante del primo invitato che fornisce la tazza. C’è quindi undebraiaggio temporale che riguarda l’attante-soggetto.

Nella misura in cui c’è continuità dell’azione senza rot-tura di ritmo e senza tempi morti, si potrebbe argomentareche il “tempo dell’azione” è preservato, e che non c’è undebraiaggio temporale in questo caso. L’esito della questio-ne si basa sul termine di referenza scelto per definire il de-braiaggio: se si tratta dell’azione, si può effettivamente con-cludere che ci sia continuità e quindi assenza di debraiag-gio; di converso, se si tratta del “tempo dell’attore sogget-to”, allora c’è un debraiaggio.

Lasciamo questa questione a un ulteriore dibattito, vi-sto che l’esito non tocca le conseguenze che andremo atrarre. Il debraiaggio che abbiamo appena reperito è certosu almeno due dimensioni discorsive: quella dell’attorializ-zazione e quella della spazializzazione. In più è fatto da unsoggetto manipolatore la cui azione costituisce l’enunciato:è quindi il fatto di un soggetto enunciatore che instaura unaltro attore come soggetto di un altro enunciato.

Come per i matematici, saremo tentati di aggiungere:c.v.d.

Infatti ciò che abbiamo dimostrato formalmente, a parti-re dalla definizione di enunciazione (cfr. Greimas, Courtés1979, pp. 126-128), è che ci sono buone ragioni per parlaredi enunciazione a proposito di un corpus non verbale.

Non analizzeremo l’insieme delle operazioni enuncia-zionali reperibili nella sequenza di cui ci occupiamo. Il me-todo che abbiamo or ora illustrato può facilmente essereapplicato a un gran numero di casi simili tra quelli che ab-biamo esplicitato precedentemente in termini non-formali.Prima di passare a casi di complessità superiore, daremo,dopo l’esempio precedente dove l’atto enunciazionale ri-guardava la dimensione pragmatica, un esempio di attoenunciazionale destinato all’enunciatario che interpreta ilsenso dell’enunciato sincretico prodotto, e che conviene si-tuare sulla dimensione cognitiva.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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Quando il teishu entra nel chashitsu (= sala della cerimo-nia) portando la sakeiera e il vassoio hassun, porta la primanella mano destra e la seconda nella sua mano sinistra. Se siadotta un unico punto di vista, per esempio quello della late-ralizzazione buddista, si concluderà che il sakè è superiore aicibi di mare e di montagna. Invece abbiamo visto con qualecura siano preparati questi ultimi, i valori descrittivi e modalidi cui sono investiti. Abbiamo visto anche che la costituzionedell’attante collettivo, fine ultimo della sequenza, passa attra-verso le due specie (liquido e solido) allo stesso titolo. Infine,appena prima dell’uscita con il vassoio trasformato, il teishusi prende cura di posizionare l’unica tazza sul vassoio in posi-zione simmetrica con i cibi ora congiunti di mare e monta-gna. Tutte queste operazioni si confermano e danno la prova,per ragioni di omogeneità interna, che il sakè e i cibi solidisono posti su un uguale piedistallo. Di conseguenza, il fattodi portarli in due mani differenti, e in quel modo, non può ri-condursi a una relazione di ineguaglianza che contraddirebbetutto il resto. La situazione sarebbe parimenti non sostenibilese si adottasse il punto di vista shintoista, secondo il quale lasinistra sarebbe superiore alla destra.

Ne risulta che l’ipotesi di un punto di vista unico chesia uno dei due già visti è inaccettabile: non c’è un punto divista unico che gerarchizzi i due enunciati materiali che so-no la sakeiera e il vassoio hassun. Bisogna elaborare un’al-tra ipotesi che possa rendere conto dell’osservabile.

Data la dinamica generale della cerimonia nella sua to-talità, e della sequenza dello hassun in particolare, che miraa instaurare la congiunzione dei contrari, possiamo emette-re l’ipotesi seguente:

il referenziale buddista, in cui la destra primeggia sulla si-nistra, e il referenziale shintoista, dove vale l’inverso, sonodue sistemi contrari, e il teishu si propone di congiungerli. Perquesta ragione porta il vassoio hassun, il quale è fortementemarcato come riferentesi allo shintoismo (tramite le proce-dure di fabbricazione e l’uso nei santuari), nella mano sini-stra, che è la superiore in questo sistema. Simmetricamente,tiene la sakeiera, il cui contenuto è uno degli ingredienti or-

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dinari delle offerte buddiste, nella mano destra, che è la ma-no superiore in questo sistema. Così facendo, proclama dipossedere i due sistemi allo stesso tempo, a partire da unpunto di vista comune che possa metterli d’accordo.

L’azione che svilupperà – come mostreremo – realiz-zerà questo programma. Prima di passare all’analisi, mar-chiamo un piccola sosta per segnalare che questo “pro-clama d’intenzioni” è un atto di linguaggio cognitivo,perfettamente assimilabile a un atto enunciazionale, e di-retto verso l’enunciatario-interprete, sia che quest’ultimoruolo sia manifestato da uno qualunque degli invitati siada un analista come noi.

3.3.3. La correlazione dei referenziali del manipolatore edegli oggetti

Gli spostamenti della sakeiera e del vassoio tra i prota-gonisti chiamati a servirsene sono costruiti allo stesso mo-do: ogni volta siamo in presenza di una traslazione seguitada una rotazione. Su questo fondo comune che rende i dueenunciati materiali comparabili, si possono tuttavia far ap-parire delle differenze: lo hassun è sempre posizionato inmodo che la sua “faccia” sia di fronte (nel senso etimologi-co: vis-à-vis, faccia a faccia) alla persona che è chiamata aservirsene. Se noi rappresentiamo ciascuna di queste istan-ze con una freccia orientata che vada da dietro verso da-vanti, allora abbiamo le due situazioni ricorrenti seguenti:

Il semplice esame di questi schemi potrebbe condurci aconcludere che c’è conformità degli orientamenti nel casodella sakeiera e non conformità nell’altro caso. Non si trat-

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Fig. 19. Orientamento degli sguardi del manipolatore, dello hassun e dellasakeiera

manipolatore & hassun manipolatore & sakeiera

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terà comunque che di conformità grafica, non direttamenteinterpretabile in termine di relazione soggetto-oggetto. Bi-sogna allora concludere che questa rappresentazione, perquanto sia suggestiva, non ci dà la chiave del problema. Bi-sogna allora introdurre altri dati.

Abbiamo mostrato, nell’analisi dell’enunciato, che la di-rezione dietro-davanti riguarda la problematica più genera-le dei referenziali orientatori, e ci siamo dati la pena di co-struire dei referenziali “immanenti” per lo hassun e per lasakeiera, a partire dagli spostamenti di questi oggetti. Cosadiventano i referenziali nella problematica di cui ci stiamooccupando, che è quella della relazione di orientamento inrapporto al soggetto manipolatore?

Un primo elemento di risposta risiede nell’osservazioneseguente: nella misura in cui i referenziali immanenti sonosolidali al loro oggetto, si spostano con lui. In secondo luo-go, abbiamo mostrato che questi referenziali risultano, co-me tutti i referenziali orientatori, da una operazione di de-braiaggio che delega un attante osservatore per posizionar-lo all’interno dell’oggetto (per una dimostrazione più svi-luppata, vedi cap. 11). Basta infine osservare che il sogget-to manipolatore dispone anche lui di un referenziale orien-tatore e che la posizione dell’oggetto in relazione al mani-polatore si riconduce a una messa in relazione di due refe-renziali orientatori. Da cui la rappresentazione seguente:

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Fig. 20. Rappresentazione “in situazione” dei triedri referenziali completi delmanipolatore, dello hassun e della sakeiera

hassun sakeiera

manipolatore manipolatore

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Se l’interpretazione di questi schemi presenta qualchedifficoltà per il lettore non familiarizzato alle rappresenta-zioni grafiche dei triedri trirettangoli, si può semplificare ilproblema facendo economia della direzione verticale, che èinvariante in tutti i casi di cui ci occuperemo qui. Questastabilità risulta dalla costrizione della pesantezza, accettata,non rimessa in causa, e messa a profitto nelle azioni dellasequenza sincretica analizzata. Otteniamo allora una rap-presentazione piana dove sussistono le direzioni prospetti-ve e trasversali di ognuno dei termini in presenza.

Quali sono gli effetti di senso investiti in queste situa-zioni e che la rappresentazione grafica permette di coglieremeglio?

Abbiamo giustapposto gli schemi correspondenti a trecasi di co-presenza di referenziali: hassun/manipolatore;sakeiera/manipolatore; persona X/persona Y. Questo mettein rilievo una somiglianza tra i primi due casi, opponendolial terzo e ultimo: la messa in relazione del referenziale delmanipolatore con uno qualunque dei due oggetti manipo-lati fa apparire una conformità di lateralizzazione. In altritermini: le direzioni laterali valorizzate come superioripresso il manipolatore e il manipolato sono parallele e

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 21. Proiezione in piano della figura 20 Fig. 22. Situazione sup-plementare: faccia afaccia di due persone

hassun

manipolatore

sakeiera persona x

persona ymanipolatore

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orientate nello stesso senso. Tutto ciò malgrado la situazio-ne di frontalità dell’uno (lo hassun) e di schiena dell’altra(la sakeiera). Nel terzo caso, quello del faccia a faccia didue persone, le lateralizzazioni dell’uno e dell’altro sononon conformi. Interpretiamo quindi questa constatazione.

La conformità che abbiamo reperito si riproduce a ognisituazione di manipolazione, qualunque sia la posizionespaziale dell’insieme, e qualunque sia l’attore che gioca ilruolo di manipolatore. Ne derivano due conseguenze:

i) c’è una relazione di presupposizione: il manipolatorepuò manipolare l’oggetto solo se le lateralizzazioni sonoconformi. La conformità delle lateralizzazioni appare alloracome costitutiva delle competenze sia del soggetto che del-l’oggetto. Si tratta di una competenza attualizzante, secon-do il potere;

ii) gli spostamenti composti di una traslazione e di unarotazione mirano ogni volta a ricreare la conformità dellelateralizzazioni. Questa situazione appare da questo mo-mento come un oggetto di valore nei ricorrenti programmid’uso. Abbiamo appena mostrato, nel paragrafo preceden-te, che questi programmi erano enunciazionali. Abbiamoallora a che fare con uno dei casi di “composizione” dei pro-grammi enunciativi ed enunciazionali.

Prima di proseguire il ragionamento, è necessario assicu-rarsi dello statuto dei referenziali messi in relazione: abbiamomostrato che i referenziali dello hassun e della sakeiera erano“immanenti”, sarebbe a dire che potevamo costruirli a parti-re dalle trasformazioni che avvenivano nel corso della se-quenza. Quanto al referenziale del manipolatore, ci siamo ac-contentati di dire che è “buddista”, con una destra dominan-te. Così facendo, l’abbiamo rinviato all’esterno del corpus, aun sistema trascendente di valori. Nella misura in cui ci inte-ressa la distinzione immanente/trascendente, utilizzata qui insenso semio-narrativo, ci conviene discernere meglio lo statu-to del referenziale del manipolatore.

Nelle sale da tè “normali”, ovvero costruite conforme-mente alle raccomandazioni della tradizione, e simili a

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quelle delle figure 1-4, la superiorità della mano destra èinscritta nell’architettura, e queste sale sono chiamate “ma-no destra”. Non entreremo nel dettaglio delle regole impo-ste all’architettura del tè. Ci accontenteremo di dire che intali luoghi, il teishu e gli invitati sono tenuti a privilegiare laparte destra del loro corpo in ogni loro atto: prendere glioggetti con la destra, alzarsi sulla gamba destra e comincia-re a camminare con il piede destro quando vanno in una“direzione ascendente”, attraversare le frontiere dei tatamicol piede destro se vanno in una direzione ascendente, ivicomprese le attraversate delle porte. Parimenti, ci si alzeràsulla gamba sinistra, si partirà con la sinistra, e si attraver-serà con il piede sinistro quando ci si deve spostare in una“direzione discendente”.

Poco importa l’intricarsi di questi atti. Li evochiamo so-lamente per dire che nei luoghi conformi alla tradizione, ilteishu e i suoi invitati manifestano nella loro gestualità enei loro spostamenti, hic et nunc, il primato della destrasulla sinistra. A questo titolo, il loro referenziale a destradominante è un referenziale “immanente”.

Ne risulta che le interrelazioni dei referenziali del mani-polatore e del manipolato mostrano bene la dimensionedell’immanenza che stiamo cercando di analizzare in que-sto paragrafo. Riprendiamo la questione della conformitàdelle lateralizzazioni. L’apparizione di una direzione supe-riore comune al manipolatore e al manipolato equivale adasserire l’esistenza di un’istanza Destinante comune ai duee in grado di valorizzare la detta direzione indipendente-mente dall’una e dall’altra. In relazione al manipolatore eal manipolato, che sono delle istanze immanenti, l’istanzaDestinante è trascendente. Essa non si manifesta dentro lasequenza se non tramite procedure indirette come quelleche stiamo studiando (conformità delle lateralizzazioni).

Se il manipolatore e il manipolato rinviano a un’istanzaDestinante comune, sono in situazione contrattuale, poichéla loro situazione presuppone dei valori modali virtualiz-zanti comuni. Di conseguenza, ciò che è rilevato dagli sche-mi di co-presenza dei referenziali, è la situazione contrattuale

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del manipolatore e del manipolato. Abbiamo visto che lohassun e la sakeiera non possiedono dei referenziali imma-nenti identici, poiché differiscono per la loro lateralizzazio-ne. Se la situazione è contrattuale nei due casi, è perchénon sono manipolati nello stesso modo: uno è manipolatoin posizione di faccia a faccia, l’altro è manipolato dando lespalle. Ne concluderemo che, da un punto di vista enun-ciazionale, che sarà poi quello della concezione delle ope-razioni della cerimonia (cioè quello di una enunciazioneglobale che si prende carico dell’insieme delle azioni e de-gli elementi della cerimonia in quanto enunciato sincreti-co), la differenza di questi modi della manipolazione è giu-stamente messa a punto per preservare la situazione contrat-tuale nei due casi.

Da questo momento la differenza tra le manipolazionidello hassun e della sakeiera riguarda una finalità enuncia-zionale identificabile. E nella misura in cui il programmacontrattuale del rituale è ammesso come un dato primitivo,questa finalità acquisisce, al di là del suo statuto descrittivo,un carattere esplicativo.

Se noi possiamo interpretare in questo modo la confor-mità delle lateralizzazioni, rimane da spiegare l’insieme deifenomeni di faccia a faccia e di faccia vs. di spalle, passati insecondo piano.

Si impone una precauzione: l’importanza presa dallaquestione della lateralizzazione è forse locale, e il primatoloro accordato in relazione alle questioni del faccia a fac-cia potrebbe essere dipendente dal corpus scelto. Sononecessarie altre analisi prima di azzardare una generalizza-zione. Il problema sarà in questo caso di restringere il cor-pus visto che la problematica è presente in quasi tutte leculture, andando dalla scena del giudizio dei morti nel-l’antico Egitto fino ai rituali politici contemporanei, e pas-sando per le scritture delle religioni monoteiste e gli augu-ri indo-europei. Bisognerà consacrare uno studio specialea questo soggetto.

Ritorniamo alle figure 19-22. L’interpretazione della la-teralizzazione può offrirci un modello: nel caso della mani-

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polazione della sakeiera, c’è conformità negli orientamentidello “sguardo”. Si può dunque evincere la presenza di undestinante comune alla sakeiera e al manipolatore. Questaconclusione concorda con un altro risultato di cui già di-sponiamo: la sakeiera, come il manipolatore, obbedisce almodello buddista del referenziale. Questo risultato localeconcorda con gli altri due precedenti (appartenenza del re-ferenziale della sakeiera al sistema buddista; l’omogeneitàdegli orientamenti rinvia a un comune destinante) e la loroomogeneità rinforza il valore dell’insieme: è una prova dicoerenza interna.

Quanto alla manipolazione dello hassun, registriamodue direzioni convergenti di “sguardo”. In opposizione al-le situazioni precedenti dove la conformità degli orienta-menti ha evidenziato l’effetto di senso “contrattuale”, sipotrebbe concludere in questo caso per una situazione“polemica”. Se si considera che la lateralizzazione ci ha giàmostrato che la situazione generale è contrattuale e che lalateralizzazione primeggia sullo sguardo in questo conte-sto, otteniamo un risultato composito: avremmo a che farecon una situazione polemica inscritta in un quadro contrat-tuale. Non c’è alcuna contraddizione in questo, come haben mostrato Marcel Mauss nel suo saggio sul dono. Unasimile situazione polemica, manifestata dai mezzi delle di-rezioni spaziali, annuncia già le trasformazioni che realiz-zerà il manipolatore sullo hassun per trasformarlo fino a in-scrivere la coppa del sakè nel suo enunciato (stato finaledel vassoio). Anche là, otteniamo un risultato coerente conciò che precede.

Dal punto di vista della semiotica dello spazio, i risultatiche abbiamo ottenuto sono notevoli a più di un titolo: inprimo luogo, abbiamo mostrato la pertinenza dell’uso deireferenziali nella descrizione delle relazioni interattanziali,visto che permettono di reperire il loro statuto polemico ocontrattuale ancora prima di analizzare lo sviluppo sintag-matico dell’azione. A questo titolo, le correlazioni tra i re-ferenziali finiscono per essere un rivelatore dei rapportimodali. Comparate alle analisi dell’enunciato (§§ 3.2.1.,

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3.2.2., 3.2.3.) dove gli oggetti apparivano come la conden-sazione finale di una serie sintattica, le correlazioni tra i re-ferenziali giocano un ruolo simmetrico: sono delle conden-sazioni iniziali che si svilupperanno sintatticamente.

Da un punto di vista di semiotica generale, si può anchetirare una conseguenza non trascurabile: partendo da ra-gionamenti formali e teorici, abbiamo formulato l’ipotesi(cfr. capitolo quarto) che l’opposizione /enunciazioneenunciata/ vs. /enunciato enunciato/ è parallela all’opposi-zione /contratto/ vs. /performanza/.

Troviamo in questo corpus una conferma a posteriori:da una parte, le relazioni tra referenziali sono apparse co-me enunciazionale nel paragrafo precedente; d’altra parteesse sono apparse come caratteristiche del contratto (pole-mico o contrattuale) in questo paragrafo. Si tratta di unabuona verifica dove gli stessi elementi semiotici possonoessere caratterizzati in due maniere simultaneamente: bastacambiare il punto di vista per qualificarli in un modo o inun altro.

Ritorniamo alla questione dello spazio. Da qualche anno(cfr. Hammad 1978a, 1979 e ivi capitolo quinto) noi preco-nizziamo l’utilizzo di un certo tipo di analisi topologica percaratterizzare i rapporti modali tra i luoghi e gli attori cui siriferiscono. Abbiamo anche esposto l’ipotesi che una analisiin geometria proiettiva perverrebbe a risultati interessanti.La descrizione da noi fatta dei “referenziali” immanenti edelle loro relazioni s’inscrive nel quadro dei metodi proiet-tivi. I risultati semiotici ottenuti parlano da sé.

3.4. L’enunciazione “trascendente”

3.4.1. Le istanze trascendenti implicate nel corpusAbbiamo avuto diverse volte l’occasione di parlare dei

“sistemi di valore” shintoista e buddista. Benché questi si-stemi siano non-figurativi, li abbiamo identificati comeistanze trascendenti, dato che formano delle fonti di identi-ficazione del valore dei valori.

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A queste due istanze, è necessario aggiungerne una ter-za che non si è ancora esplicitamente manifestata nella se-quenza hassun, e di cui renderemo conto. L’analisi dell’in-sieme della cerimonia del tè (capitolo secondo) rivela l’im-portanza dei due elementi maggiori nell’organizzazionedello spazio del chashitsu: l’acqua e il fuoco. Nel corso del-la prima assise, l’acqua investe il polo della sala di prepara-zione (mizu ya = spazio dell’acqua); il fuoco (in forma pas-siva) investe il polo del tokonoma. Nel corso della secondaassise, l’acqua investe il polo del tokonoma mentre il fuocoinveste il braciere su cui bolle l’acqua da tè. L’analisi citatain riferimento mostra che l’insieme concerne la problema-tica dello yin e dello yang (detti IN e YO in Giappone).

Il polo figurativo del tokonoma è dotato di un referen-ziale orientato che determina il corso dell’azione e delleposizioni statiche nel corso della prima assise. Durante laseconda, si vedono apparire gli effetti di un secondo refe-renziale: quello del polo figurativo braciere. In una sala“normale” come quella della figura 23, i due referenzialidel tokonoma e del braciere sono conformi (assi paralleli,direzioni positivamente marcate nello stesso senso). Acca-de talvolta, nelle sale atipiche, che questi referenziali sianonon-conformi. Vedremo nel paragrafo 3.4.3. come la que-stione sia trattata a livello architettonico.

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Fig. 23. Referenziale unificato del chashitsu “normale”

acqua

TOKONOMA TOKO = SUP

V1 > V2

V2 > V3

V3 =INF

MIZUYA

nijiriguchi

sadoguchi

fuoco

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Se si considera la vicinanza immediata di uno di questipoli, e l’arrangiamento spaziale degli oggetti che sono ma-nipolati in questa vicinanza, ci si convince che il polo occu-pa una posizione di supremum tra gli oggetti. Questo fatto,così come i saluti offerti ai due poli in questione dagli invi-tati al momento dell’entrata e dell’uscita, contribuisce adattribuire loro il ruolo di rappresentanti figurativi del De-stinante.

Nella misura in cui l’acqua e il fuoco, così come le qua-lità di attività e di passività che sono loro date di volta involta, si rifanno al sistema IN/YO, quest’ultimo sistema ap-pare come il rappresentante, a livello profondo, del sud-detto Destinante (vedi capitolo secondo). A questo titolo, èun sistema “trascendente” nel senso semio-narrativo deltermine.

In fin dei conti, abbiamo quindi tre sistemi trascendentiimplicati, di cui andiamo a toccare le interazioni e i rispet-tivi ruoli enunciazionali.

3.4.2. Il coordinamento dei sistemi trascendentiRitorniamo alla topogerachia dello hassun, e consultia-

mo gli schemi sintetici delle figure 14-16 e 18.Il sistema immanente rivelato dagli spostamenti della

totalità del vassoio non è lateralizzato: possiede un assetrasversale perpendicolare all’asse davanti/dietro. Nongioca alcun ruolo nella topogerarchia dello spazio internodel vassoio.

Il sistema dell’osservatore-preparatore utilizza, sul pia-no del vassoio, due assi: basso/alto e sinistra/destra. È late-ralizzato conformemente al sistema buddista, con una de-stra dominante. Ordina i piatti di mare nel quarto basso-asinistra e quelli della montagna nel quarto alto-destra.

Il sistema geomantico-shintoista utilizza, sul piano delvassoio, due assi: Nord-dietro/Sud-davanti e Ovest-de-stra/Est-sinistra. È lateralizzato conformemente al sistemashintoista, con la sinistra dominante. Ordina i piatti dimare nel quarto Sud-Ovest e quelli della montagna nelquarto Nord-Est.

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Solo il sistema immanente si manifesta attraverso unadinamica in præsentia, mentre gli altri due sono leggibiliin una organizzazione statica che presuppone una dinami-ca ordinatrice anteriore: quella delle procedure di prepa-razione, che assicurano gli investimenti semantici. Se il si-stema immanente è osservabile, non si riconduce ad alcunsistema generale conosciuto. Al contrario, gli altri due si-stemi sono riconducibili a dei corpi di pensieri organizza-ti, dotati di una dimensione metafisica. A questo titolopropongono dei “valori” assicurati e delle procedure perasserire il valore dei valori. Sono dunque “trascendenti” insenso semiotico.

La questione di cui ci occuperemo qui di seguito è: laprocedura di preparazione del vassoio, che inscrive i valoridel sistema trascendente nella sostanza dell’enunciato sin-cretico, è apparsa come una operazione enunciazionale dipassaggio dal sistema al processo. Nella misura in cui il si-stema regolatore è qualificato come trascendente, diremoche abbiamo a che fare con una enunciazione trascendente.

Ora, questi due sistemi dotati di lateralità contrarie pro-ducono la stessa organizzazione degli oggetti sul vassoio.Questo fenomeno rimane da spiegare, come rimane da ca-pire il fatto che la tradizione dell’insegnamenti del chadoutilizza l’uno e l’altro dei sistemi di riferimento (è anche ve-ro che il sistema che noi chiamiamo “buddista” è il più so-vente utilizzato, ma anche l’altro è attestato. Cfr. «UrasenkeNewseller» 44).

Daremo la risposta in due tempi: se i due sistemi tra-scendenti appaiono concordi, non è in virtù di una qualun-que omologazione dei termini usati per designare le dire-zioni e i due sensi su ciascuna di queste ultime. Questoproblema non interessa a nessuno. Nessun tentativo è statofatto sui manuali secondo questa strategia. Tutta l’attenzio-ne è centrata al contrario sul fatto che i due sistemi topoge-rarchici posizionano i piatti nello stesso luogo. Se ne puòtirare la conseguenza seguente: se i due sistemi produconolo stesso risultato concreto, è perché sono fondamental-mente equivalenti. Anche se le ragioni profonde di questa

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equivalenza ci sfuggono. O meglio: il fatto che sfuggano al-la comprensione non fa che rendere l’equivalenza più“profonda” e affascinante.

Su cosa si fonda la “prova concreta”? Sull’assioma che icibi di mare sono inferiori ai cibi di montagna, in termini“energetici”. Se si analizza il corpus intero dei cibi servitidurante la cerimonia del tè, ci si accorge che è ordinato intermini “energetici”: si comincia con il crudo e si va versoil cibo alla griglia, passando per il bollito. Questo è veroper i legumi, ma anche per le carni e il riso. Se si aggiungeil tè a questo corpus, inglobante gli alimenti liquidi e glialimenti solidi, si può dimostrare che gli alimenti seguonouna linea ascendente (aumento progressivo della caricaenergetica) fino al tè denso, a partire dal quale la linea è di-scendente (diminuzione relativamente brutale). I terminienergetici sono fondati sui principi dello yin e dello yang(IN e YO) e tengono conto dell’origine degli alimenti e delleloro procedure di preparazione.

Di conseguenza, e in ultima analisi, la prova dell’equiva-lenza dei sistemi trascendenti shintoista e buddista si basa sulsistema dello IN e dello YO che fonda, nei valori investiti suicibi, il loro mutuo statuto gerarchico. Questo significa chel’accordo dei due sistemi si basa su di un terzo che li sussumeentrambi. Con la stessa occasione, questo terzo sistema è pre-sentato come “naturale”, intrinseco alle cose, rinviato a ciòche sono e a ciò cui sono sottoposte prima di essere servite.

Dal momento in cui questa conclusione viene formula-ta, permette di riesaminare l’insieme degli elementi dellacerimonia, con la scoperta che il sistema IN/YO passa attra-verso tutte le componenti e tutti gli atti senza eccezioni,che si riferiscano a una problematica buddista o a unashintoista. Esso permette, tra le altre cose, di render contodella coppia alimentare stabile manifestata in tutti i “servi-zi”: essi sono sempre costituiti di un solido e di un liquido.Inoltre l’ordine “liquido, solido” del shoza inscrive, a livel-lo di questa micro-sequenza, la linea energetica ascenden-te, mentre l’ordine “solido, liquido” del goza opera in mo-do simmetrico e discendente.

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In termini relazionali, i sistemi shintoista e buddistahanno potuto apparire, in certi momenti, come dei siste-mi contrari. “Rivelando” il loro profondo accordo, il si-stema IN/YO nega implicitamente la relazione polemicache ha potuto opporli, e asserisce esplicitamente il con-tratto. Di conseguenza, il sistema IN/YO appare comeun’entità metalinguistica in relazione alle altre due, e gio-ca il ruolo di un operatore che riguarda un livello gerar-chico superiore. Il teishu può rifarsi a questo sistemaquando rientra nel chashitsu portando lo hassun nella si-nistra e la sakeiera nella destra: possiede un sistema capa-ce di sussumere gli altri due, manifestati dalla coppia soli-do-liquido, coppia che forma giustamente un’unità rico-noscibile nel meta-sistema.

Tutto ciò funziona bene. Tuttavia non fa che occultareun’operazione spaziale soggiacente, fondatrice, nascostadall’accento posto sull’identità del risultato concreto assi-curato dalla messa in opera dei due sistemi shintoista ebuddista. I due sistemi, infatti, non possono dare lo stessorisultato se non si sono adeguatamente definite le condi-zioni di proiezione descritte nel paragrafo 3.2.4.3 (fig. 13):se la posizione dell’osservatore foriero del sistema buddi-sta proiettato è modificata in relazione al vassoio osserva-to, si possono ottenere un gran numero di topogerarchiedifferenti sullo hassun.

I due sistemi presentano, ciascuno sul proprio piano,due assi ortogonali orientati. La differenza di lateralizza-zione produce due spazi simmetrici, orientati nei due sensirotatori differenti. Ciò che l’operazione di proiezione rie-sce a realizzare, al prezzo dell’inversione del senso dell’as-se davanti/dietro, divenuto basso/alto (fatto che è rivelatodalla figura 16), è di rendere le due lateralizzazioni confor-mi e di permettere un seguito. Il silenzio prudentementemantenuto a proposito dell’inversione di cui sopra equiva-le a una dimenticanza.

Questa operazione di proiezione è la condizione di pos-sibilità proiettiva dell’operazione di sottomissione che an-drà a operare il sistema IN/YO. Essa appartiene quindi allo

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stesso titolo (= programma d’uso) alla trasformazione glo-bale (= programma di base) che è la costruzione dell’accor-do tra i sistemi trascendenti shintoista e buddista. La dettatrasformazione si compone quindi di due operazioni: unaproiezione che rimane nascosta dal momento che può rive-lare la contrarietà, e una identificazione dei risultati con-creti, che è valorizzata in quanto asserisce l’accordo.

Abbiamo un chiaro esempio della composizione delletrasformazioni enunciative ed enunciazionali, quali vengonodescritte nel nostro saggio L’architettura del tè (ivi capitolosecondo). In questo esempio manifestato da una semioticasincretica, la negazione enunciativa (proiezione nonconforme) è negata enunciazionalmente (= obliterazionericostruita precedentemente), e l’asserzione enunciativa (=la prova concreta) è asserita enunciazionalmente (= messain primo piano). L’insieme di queste operazioni produceun effetto di trasformazione contrattuale che soddisfa ladefinizione delle operazioni rituali, ovvero la negazione delpolemico e l’asserzione del contratto.

3.4.3. Il nakabashira o la restaurazione architettonica delcontratto spaziale minacciato

Tra i più bei padiglioni del tè, esistono degli edifici lacui pianta è atipica. In particolare, accade che il tokono-ma sia posto alla sinistra dell’invitato che entra attraversoil nijiriguchi. Il costruttore può, in tal caso, sistemare latotalità del chashitsu come una sala “a mano sinistra”,con l’implicazione di realizzare la cerimonia con una late-ralizzazione mancina dominante. Questo non è comodose non per un mancino. Gli invitati saranno tenuti, in unquadro simile, ad adottare anche loro un comportamentoa sinistra dominante. Essendo limitato il numero dei man-cini, ne risulta abitualmente una serie di errori di latera-lizzazione del comportamento. Per evitare tali sbagli, ilcostruttore può adottare in questo caso la disposizionedetta gezadoro (= tokonoma situato nel lato inferiore). Unesempio celebre è lo yodomi no seki (Kyoto), classificatomonumento storico.

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I referenziali disegnati su questo piano sono relativi aogni polo che organizza il proprio topos. È chiaro che que-sti referenziali sono non conformi. Si pone allora la que-stione della giustapposizione dei due topoi orientati in mo-do contrario.

Lo studio di un corpus di 100 famosi padiglioni da tè(cfr. Nakamura 1982) rivela un fatto che fino ai nostri gior-ni non ha ancora ricevuto una spiegazione dalla storia del-l’architettura: tutti i chashitsu di stile gezadoko sono dotatidi piani irregolari; numerosi possiedono un palo piantatoall’interno e “tendente”un muro che funge da divisioneparziale. Le irregolarità del piano, come i pali detti nakaba-shira (= palo interno) sono sovente tenuti per elementi nonnecessari, attribuibili alla fantasia estetica di costruttori ec-cezionali.

Noi sosterremo qui un’altra tesi: le irregolarità dellapianta, come il nakabashira, sono le espressioni di una ne-cessità proiettiva: mirano a poter rendere possibile la coesi-stenza, all’interno di uno stesso spazio ristretto, di due re-ferenziali non conformi.

Abbiamo detto che ogni polo organizza il suo propriotopos con l’aiuto del referenziale che gli è connesso. Il cha-

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 24. Referenziali polari non conformi in un chashitsu di stile gezadoko

destra

1 metro

mur

o pa

rzia

le

sadoguchi

Yodomi no Seki(Kyoto)

TOKONOMA

nijiriguchi

nakabashira

destra

fuoco

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shitsu si divide, a questo livello di analisi, in due topoi.Quando il chashitsu è “normale”, i due topoi sono dotatidi referenziali conformi, la loro vicinanza non pone alcunproblema, e ci si può permettere di tracciare un solo refe-renziale per l’insieme dello spazio del chashitsu. In questomodo, almeno, lo si trova sui manuali d’insegnamento (SenSoshitsu XV 1980, vol. II, p. 91). Ma quando abbiamo a chefare con un chashitsu di stile gezadoko, i referenziali deidue topoi componenti non sono più conformi. Si pone al-lora la questione del “contatto” di due spazi: il passaggiodall’uno all’altro impone il passaggio da un referenziale or-ganizzatore a un altro. Il cambiamento è brutale. Parlandoper figure, si può dire che c’è una lacerazione nello spazioproiettivo, uno iato, una discontinuità, una variazione di-screta e non continua. Un simile fatto è tanto più intollera-bile in quanto tutti i gesti devono conformarsi alla lateraliz-zazione dominante del topos in cui gli attori si trovano,mentre si può passare in modo continuo dall’uno all’altrodi questi topoi.

I due topoi del gezadoko sono quindi in situazione dicontrarietà. In termini antropomorfi, diremo che intratten-gono relazioni polemiche. Dato il carattere rituale della ce-rimonia, è necessario trasformare questo in una situazionecontrattuale. La soluzione manifestata dai campioni analiz-zati è semplice in principio: basta individualizzare ciascuntopos e marcare la frontiera che li separa. Dal momento incui questa operazione è realizzata, non c’è più uno iato al-l’interno di uno spazio continuo e non c’è più un’invisibilelacerazione. Al suo posto ci sono due spazi individualizzatie giustapposti. Nella misura in cui sono indipendenti, pos-sono coesistere felicemente, essendo sufficiente la frontierache li separa per rendere conto della discontinuità dell’o-rientamento.

Il nakabashira, e il pezzo di muro che viene teso attra-verso il chashitsu, costituiscono una delle soluzioni possi-bili. Sono installate giustamente sulla linea di separazionetra i due topoi. Il pezzo di muro messo in opera non èmai un muro completo che realizzi una cesura materiale.

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Al contrario, è un pezzo di muro che marca la frontiera suuna parte della sua lunghezza (non attraversa il chashitsuda parte a parte) e una parte della sua altezza (non va maidal suolo al soffitto, essendo il più delle volte interrottonella sua parte bassa. Nel Yodominoseki è interrotto nellaparte alta). Il resto della frontiera può rimanere non mate-rializzato. In termini semiotici, si potrebbe dire che essanon è realizzata in tutta la sua estensione, essendo sola-mente attualizzata nel vuoto dalla presenza del pezzo dimuro e dal palo.

Un’altra soluzione consiste nell’attualizzare la frontieracon un muro divisorio, il quale può essere prolungato daun nakabashira e da un pezzo di muro teso, o essere sprov-visto di un simile prolungamento. L’essenziale, in questocaso, è di marcare la partenza di un muro il cui prolunga-mento costituirà la frontiera separatrice tra i due spazi da-gli orientamenti contrari. Nella tradizione degli architettidei padiglioni da tè, è risaputo da molto tempo che la con-cezione e il disegno dei dettagli di questo lembo di muro èla questione più difficile da risolvere quando si prepara unchashitsu in stile gezadoko.

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

Fig. 25. Muro divisorio che organizza lo spazio di un chashitsu di stile gezadoko

mur

o di

viso

rio

nakabashira

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Sbagliare un muro simile (in termini di proporzioni,fessure, disposizioni…) metterà in pericolo l’unità interadell’edificio. Ma la tradizione non dice perché questo mu-ro è la cosa più importante nei chashitsu di questo tipo.

Nelle due varietà di soluzione, la libertà del passaggio èpreservata tra i due topoi giustapposti. Conformemente auna tradizione giapponese ben consolidata, e diffusa nel-l’uso di tutti gli spazi privati, pubblici e sacri, l’attua-lizza-zione della frontiera tramite elementi parziali è sufficienteper stabilire la separazione.

È interessante osservare che le soluzioni del gezadokofanno appello a un prolungamento di muro costruito. Que-st’operazione, che mette in opera un allineamento, concer-ne tipicamente la geometria proiettiva. Di conseguenza, lesuddette soluzioni apportano una soluzione proiettiva a unproblema proiettivo (quello dei referenziali contrari, essen-do definiti a livello proiettivo dell’analisi dello spazio). Ab-biamo un altro argomento di coerenza interna che convali-da i risultati della nostra analisi.

Di passaggio, vorremo esprimere la nostra ammirazioneper gli architetti che hanno saputo esprimere, nel legno enel battuto e non con la lingua, il rigore della soluzione cuisono arrivati senza utilizzare un metalinguaggio così elabo-rato come quello da noi messo in opera. Il loro riferimentonon è un corpus di dottrine scritte, ma una tradizione oraleche privilegia la conoscenza diretta dei luoghi, mirando acostituire nell’architetto un “sentimento architettonico”equivalente al “sentimento linguistico” identificato dai lin-guisti nel “soggetto parlante”.

Per riassumere, diremo che il chashitsu di stile geza-doko mette in co-presenza due topoi dai referenziali con-trari, creando una soluzione proiettiva polemica che mettein pericolo il contratto spaziale. Il lembo di muro e il naka-bashira appaiono allora come un’espressione materiale deimezzi necessari alla negazione della situazione polemica ealla restaurazione del contratto. Installati dall’architetto,questi elementi procedono da un’operazione enunciazionaleche modifica l’enunciato e che avviene nello stadio della con-

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cezione-costruzione dei luoghi. Nella misura in cui le entitàmanipolate sono “trascendenti” (i referenziali in questionesono connessi alle figure del Destinante), quest’operazioneenunciazionale è trascendente. Essa è chiaramente reperi-bile dalle sue marche enunciate nell’architettura.

3.5. Conclusioni

Queste esplorazioni nella semiotica sincretica, dove lacomponente spaziale gioca il ruolo maggiore, possono dimo-strare come minimo che non è assurdo porsi la questionedell’enunciazione in un tale contesto. I risultati ottenutichiariscono l’oggetto analizzato e lo mettono sotto nuova lu-ce. Meglio ancora: gli strumenti messi a punto permettonodi dimostrare la logica profonda dei fenomeni che sonosfuggiti finora all’analisi (varietà della lateralizzazione, irre-golarità delle piante dei gazadoko). Questi risultati sono daaccreditare al metodo.

In corso di strada, abbiamo dovuto passare per duepunti obbligati:

i) quello dell’analisi dell’enunciato, di cui non si puòfare economia, anche se ci interessa maggiormente l’e-nunciazione;

ii) quello dell’analisi in geometria proiettiva, solo stru-mento adatto all’isotopia imposta dal corpus attraverso imodi di spostamento e le procedure di preparazione messein opera.

1 Apparso in «Cruzero Semiotico», 5, 1986.2 Chaji = cerimonia del tè. Ci sono sette tipi di chaji, e ciascuno conosce

numerose varianti. Si definiscono i tipi esteriormente a seconda della stagio-ne, dell’ora, dell’occasione. Una definizione immanente è fatta anche dallasuccessione particolare di sequenze che li compongono. Lo hassun è una se-quenza presente in tutti i tipi, da cui il suo carattere “necessario”.

3 Per l’essenziale, questa descrizione riprende quella che è stata fatta nel-l’opera Chado (1979). Corrisponde alla tradizione preservata nel ramo Ura-senke della famiglia Sen, discendente di Sen no Rikyo, il grande riformatore

L’ESPRESSIONE SPAZIALE DELL’ENUNCIAZIONE

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del XVI secolo che ha dato alla cerimonia del tè l’essenziale di quello che la ca-ratterizza ancora ai nostri giorni.

4 Per maggior comodità, diremo nel prosieguo sakeiera, formando questaparola sul modello di teiera, zuppiera… In assenza di illustrazioni fotografi-che, diciamo che la sakeiera assomiglia a una teiera di piccola taglia. Di solitoè fabbricata in ghisa, ma se ne trovano in argento. Benché il metallo sia la ma-teria abituale della sakeiera, non è un obbligo.

5 Lo shintoismo è l’insieme delle credenze e delle pratiche autoctone delGiappone, che risalgono al periodo anteriore all’introduzione del buddismo,del confucianesimo e del cristianesimo. Quest’insieme, cui certi riconosconolo statuto di religione mentre altri lo rinviano ai “costumi”, è stato fortementeinfluenzato, nel corso della sua storia, dalle religioni e dalle morali costituitein corpi di dottrina. È stato “restaurato” nel XIX secolo per ritrovare uno sta-tuto di supposta purezza originaria.

6 Diremo lateralità quando c’è una distinzione tra i due sensi della sini-stra e della destra sulla stessa direzione trasversale. La trasversalità designeràquindi una direzione che sospende la distinzione destra/sinistra.

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Capitolo quartoGiardino-Cielo, Giardino-Terra, Giardino-Altrove1

4.1. Osservazioni preliminari

Per un caso curioso, accade che il cielo e la terra sianostati abbondantemente rappresentati nei giardini. Que-st’osservazione non riguarda unicamente i giardini dellacultura occidentale, dove il termine di “paradiso” derivada una radice indo-europea che significa contemporanea-mente “giardino” e “soggiorno dei fortunati nell’aldilà”,cui si aggiunge il fatto che l’equivalenza paradiso = cielo èsufficientemente pregnante nel discorso giudeo-cristianoper giustificare la rappresentazione del cielo degli elettitramite un giardino. L’osservazione è giustificata anchenel caso della cultura arabo-islamica e in quella sino-co-reano-giapponese.

Per approfittare dell’effetto di straniamento, faremovertere la nostra attenzione su queste culture più o menolontane, lasciando da parte i giardini occidentali che sonostati abbondantemente studiati, commentati e illustrati.Volgendo altrove lo sguardo c’è più da scoprire. Inoltre, lamessa in opposizione di queste culture distanti può rivelar-ci meccanismi strutturali comuni, che potremmo ritrovarenei giardini occidentali di nostra memoria, senza peraltroridurre le differenze che distinguono queste “nature” orga-nizzate per la messa in discorso di idee astratte.

Così facendo, ci porremo la domanda principale, che èquella di sapere perché il giardino ha conosciuto questodestino straordinario che ne ha fatto un supporto di primascelta per l’investimento semantico. Non sapremo rispon-

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dervi se non dopo aver guardato più da vicino. Anticipia-mo tuttavia alcuni elementi delle risposte che si profileran-no dopo l’analisi: la de-funzionalizzazione del giardino lomette al riparo dalle interpretazioni funzionali sempliciste;la sua de-localizzazione lo estrae dallo spazio del qui perproiettarlo in uno spazio dell’altrove; i riferimenti testualilo trasformano in un testo stratificato, al contempo enun-ciato ed enunciazione, passibile di ricevere le comparazio-ni, le allegorie e le metafore dei discorsi letterari, poetici ereligiosi. Cominciamo allora a guardare ciò che è inscrittonei giardini d’altrove.

4.2. Il giardino arabo-islamico: Giardino = Jannat = Pa-radiso

Una breve incursione nei dizionari e nella terminologiaaraba ci pone subito al centro della questione: il giardino eil paradiso sono designati dallo stesso termine jannat. Se ilsenso di “paradiso” è molto attuale, quello di giardino siaffievolisce per il lettore contemporaneo, a meno che nonsia familiarizzato con il Corano. Infatti, in questo testo sa-cro il termine jannat possiede l’uno o l’altro senso, secondoil contesto.

Sarebbe vano parlare di polisemia: un’etichetta similenon ci insegnerebbe nulla, mascherando sotto una denomi-nazione l’ignoranza della semantica fondamentale. Perchiunque sia familiare con le lingue semitiche, la chiavepuò trovarsi solo nell’analisi del paradigma dei termini checondividono la stessa radice, con la declinazione a servireda guida per seguire la catena delle trasformazioni produt-trici di senso.

Ibn Manzour, linguista arabo del XIV secolo, ci ha la-sciato un dizionario molto istruttivo. Vi si apprende chela radice janna si ritrova nel termine nominale e nel ver-bo che designa l’oscura notte che tutto nasconde. La siritrova nella designazione del folle che ha perso la ragio-ne. Inoltre è presente nell’antica designazione del giardi-

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no, significando più specificamente un luogo coltivatonascosto sotto le fronde.

La giustapposizione di questi sensi fa scaturire un noc-ciolo semico unico, quello dell’assenza di visibilità immedia-ta, che presuppone simultaneamente l’esistenza della cosanon visibile. Notiamo di passaggio che non è necessario par-lare di un altro mondo, né al di qua, né al di là del nostro.Questi effetti di senso possono essere sommati, ma non sonoimplicati né dalla radice né dal senso dei termini. Questofatto ci chiarisce a posteriori la ricerca del paradiso avviatada certi viaggiatori-teologi dell’Islam: erano persuasi chequesto luogo si trovasse su questa terra, e che sarebbe basta-to percorrerla in tutti i suoi angoli per trovarlo.

L’uso del termine jannat nel Corano ci rivela altre di-mensioni semiche: primo fatto che colpisce, jannat può ac-cettare il plurale nel discorso sacro, significando che ci so-no diversi giardini-paradiso. Il percorso delle occorrenzepermette di concludere che questo plurale comporta unagradazione: certi luoghi sono più paradisiaci di altri, ideaben lontana dall’uniformità di un benessere ideale unico.In secondo luogo, la jannat è situata sopra l’acqua, poichéil Corano dice espressamente che ci sono fiumi che vi scor-rono al di sotto. Visto che si trova sotto le fronde, si trattain fin dei conti di un luogo situato tra due spazi, un toposmesologico. Per terminare, si tratta di un luogo abitato daesseri belli e giovani, comparabili a un tesoro preservato.Sono immortali, gioiscono della dolcezza e della felicitàdella jannat.

Il termine jounaynat che designa oggi il giardino in ara-bo corrente, deriva da jannat. Per la sua forma derivata,sarà traducibile come “piccola jannat”. Il diminutivo sem-bra essere prodotto per pudore e prudenza, o per distan-ziazione; quale credente, infatti, oserà pretendere di egua-gliare Allah creando una jannat che fosse in grado di misu-rarsi con il paradiso. All’operazione linguistica di diminu-zione corrispondono sia l’operazione fisica di riduzione, siala trasformazione semiotica della rappresentazione. Se lajounaynat non è una jannat, essa nondimeno la rappresen-

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ta, con le sue fronde e i suoi rivoletti, la sua freschezza e lasua fauna. L’uomo vi entra per ritrovarsi circondato da tut-te le parti: l’avviluppo fa parte della felicità.

L’altro termine che designa il giardino in arabo è quellodi hadiqat, che deriva dalla radice hadaka che significachiusura, cinta, recinzione. Questo secondo termine cichiarisce a proposito di un’altra dimensione del giardinoarabo-musulmano: è finito, selezionato, separato dal restodell’universo ed estratto da quest’ultimo per farne un luo-go di elezione paradisiaca. Questa caratteristica rinforzal’aspetto mesologico segnalato in precedenza: il giardino ècircondato da ogni parte, in pianta e nella terza dimensio-ne. La metafora occidentale che viene in mente per parlaredi un ambiente simile è quella del bozzolo che si richiudesul suo interno, ma sarebbe ben lontana dal sentimentocreato da un giardino arabo…

Ci sono giardini arabo-musulmani resi celebri per la lo-ro bellezza, la freschezza, la serenità o il lusso. Non li ab-borderemo nelle ridotte dimensioni di questo saggio. Op-teremo per guardare un tipo di giardino dotato di una fa-volosa caratteristica: quella della mobilità. Il tappeto (ordi-nario, non quello volante) presenta molto spesso una deco-razione vegetale che è la rappresentazione visiva di un giar-dino. Per i suoi limiti e le dimensioni ridotte, soddisfa unadelle condizioni fondamentali della definizione di giardino.Per il suo posto tra il suolo e l’uomo, realizza la propria re-lazione mesologica. Per l’effetto d’isolamento che assicura(separa dal freddo del suolo in inverno e dalla sua durezzain ogni stagione), partecipa all’effetto d’isolamento e dichiusura richiesto dal giardino. Ma ciò che lo rende real-mente straordinario è la sua mobilità. Basta arrotolare que-sto giardino e metterlo sulle spalle di un animale per rico-stituire l’universo protettore e familiare. Infatti, ciò cherealizza al sommo grado è la negazione non-verbale delcambiamento di luogo. Il nomade ritrova il proprio spazioovunque trasporti il suo tappeto. Ricostituisce il proprioessere presso di sé, ricostituendo la sua chiusura e il suosuolo. Non gli manca che qualche altro tappeto per farne

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delle pareti che sbarrino la vista del paesaggio, e forse untappeto per farne la propria copertura.

Questa stabilizzazione dell’ambiente trasportato affer-ma con forza la costanza della relazione tra l’uomo e il suoambiente privatizzato nella prossimità immediata. Illustracon vigore un’idea presupposta che è rimasta implicita finoa oggi: il referenziale del giardino è l’uomo. È per lui che siconcepisce e che si erige il giardino. Ed è per lui che i no-madi spostano i tappeti, al fine di offrirgli il suo tappetonell’immensità della steppa vuota, sulle pianure battute dalvento, in ogni loro accampamento.

4.3. Il giardino sino-giapponese

Partiremo dal Giappone. Non perché sia all’origine diquesta tradizione, visto che ne sarà piuttosto il termineultimo. Ma perché ci offre la rara qualità di un pensierosincretico elaborato. La tradizione giapponese dei giardi-ni ci rinvia a una pratica autoctona inestricabilmente me-scolata alle influenze della Corea e della Cina, così comeil pensiero spirituale del Giappone mescola le referenzeshintoiste, buddiste, taoiste, confuciane… Il gioco dei ri-mandi regna, e la tradizione dei letterati è quella di ap-profittare di tutti i rimandi possibili, di sovrapporli, e dicircolare tra le isotopie.

Dal momento in cui si esamina il giardino giapponese,viene immediatamente posta la questione della rappresen-tazione: gli elementi concentrati in questi giardini rappre-sentano paesaggi naturali, luoghi di riposo del Budda, l’u-niverso degli eremiti semidei taoisti… Vi si ritrovano, conuna ricorrenza pregnante, sotto una moltitudine di manife-stazioni differenti, le isole degli immortali dette horaito,horaishima o horaiyama secondo gli autori, le regioni, i pe-riodi. Situati dalla tradizione nell’oceano che fa da marginealla terra dell’est, si suppone che queste isole godano diuna primavera eterna e assicurino la felicità dei loro abitan-ti. Contengono montagne e fiumi, che sono rappresentati2

GIARDINO-CIELO, GIARDINO-TERRA, GIARDINO-ALTROVE

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nei giardini. Fin dal XIV secolo, si legge in un trattato esote-rico sui giardini che il monte sacro Horai, dove è prodottol’elisir della vita, ha la forma di una tartaruga. Si vedrannonei giardini isole a forma di tartaruga, con un pino piantatosopra, dato che questo albero è associato alla longevità mil-lenaria (in mancanza d’immortalità). Un’altra isola pren-derà la forma di gru, visto che questo trampoliere, cono-sciuto anch’egli per la sua longevità, assicura il trasportodegli immortali. È anche simbolo di pace, di felicità e dieterna giustizia. La tradizione parla di cinque monti sacri edi tre isole degli immortali. Nei giardini, queste tre isoleformano spesso una linea tra la tartaruga e la gru. È inte-ressante notare come nulla, in queste tradizioni, trasporti leisole in un universo che non sia il nostro. Per questa ragio-ne le cronache cinesi ci riferiscono che alcuni prìncipi cine-si, come altri giapponesi, abbiano ordinato spedizioni ma-rittime incaricate di ritrovare queste isole percorrendo l’o-ceano. Non ci si può impedire di pensare ai viaggiatori mu-sulmani partiti alla ricerca del paradiso. Nei due casi, sitrattava di realizzare pienamente ciò che la rappresentazio-ne dei giardini realizzava imperfettamente per il piacere dialcuni.

Queste isole presupponevano l’acqua3 che le circon-dava. Sono montagne emergenti. L’insieme di questemontagne e dell’acqua forma una coppia equilibrata cheriunisce lo Yin e lo Yang (In/Yo) costituente un universocompleto. In quanto montagne, sono connesse al monteMeru, asse del mondo e fonte dell’energia terrestre qi incircolazione. Da cui la rappresentazione ricorrente delmonte Meru nei giardini. Si comincia a intravedere unasintassi implicita che lega tra loro gli elementi del giardi-no. Ma c’è di più. Il feng shui (o geomanzia) ci insegnache il ruolo principale del giardino è quello di armoniz-zare i rapporti tra la casa e l’universo, assicurandone labuona circolazione dell’energia tra gli elementi. Questaazione passa per gli elementi geografici osservabili e pergli elementi simbolici disposti nel giardino. Così, la rap-presentazione del monte Meru agisce come verosimile

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monte Meru. Presentifica l’influenza e la canalizza. Fun-zionerà allo stesso modo per le cascate d’acqua, per leisole, per la tartaruga e per la gru, altrettante preghiereviventi che assicurano la protezione della famiglia e dellacasa. Questo sistema attivo si fonda su una teoria essen-zialista della rappresentazione (cfr. capitolo primo): lacosa rappresentata è l’elemento che la rappresenta. C’èun rapporto intrinseco radicalmente estraneo al pensierooccidentale ordinario (il quale lo ritrova solo a propositodel sacro, oggetto di un altro studio). Nella presentifica-zione del rappresentato, nella ricomposizione dell’ordinedell’universo, nella captazione delle pulsazioni del dra-gone e della circolazione dell’energia, c’è una azioneconcertata sull’universo e non solo un’opera estetica. Sel’acqua è abbondante in un buon numero di questi giar-dini, la tradizione ci parla spesso di giardini secchi. Co-nosciuti sotto il nome di karesansui in Giappone (=senz’acqua), venivano detti kazan (= montagne in minia-tura) in Cina. In questi casi, la rappresentazione si staccadalla materialità della cosa per attaccarsi alla sua forma:l’acqua sarà significata dalle ondulazioni disegnate nellaghiaia o dalle curve delimitanti la zona dei muschi e deilicheni. Ci interessa notare che in questi casi la simbolo-gia delle montagne, il loro numero (3, 5 o 7), la loro ge-rarchia e disposizione, riprendono le caratteristiche deigiardini dotati d’acqua.

Si ritrovano disposizioni simili nei giardini buddisti,dove i gruppi di rocce sono detti rappresentare il Buddae gli arhat; o il monte Shumisen, luogo sacro del Budda,assimilato al sole e circondato da pianeti; o le nove mon-tagne e gli otto mari (kuzan hakkai). C’è una stabilitàdelle forme indifferente all’investimento semantico scel-to: gli elementi materiali supportano diverse interpreta-zioni, e si può passare dall’una all’altra con un gioco diequivalenze e di correlazioni. Per l’amante di giardinigiapponesi, questa stabilità è essenziale. Essa costituisceil giardino, quale ne sia l’interpretazione possibile. D’al-tronde, per i partigiani di una semiosi essenzialista, il

GIARDINO-CIELO, GIARDINO-TERRA, GIARDINO-ALTROVE

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senso si trova nelle cose, e basta concentrarsi sulla loropresenza per trovarlo. Ogni proiezione esterna non è cheapparenza, al meglio un mezzo per ottenere la verità, alpeggio un’illusione.

4.4. Conclusioni

Siamo adesso in grado di indicare le invarianti di questigiardini-testi. In primo luogo, ritroviamo la costante dellachiusura: il giardino è un luogo delimitato, selezionato, rin-chiuso, marcato da cure regolari che ne mantengono l’i-dentità malgrado il variare delle stagioni e il passaggio deltempo. L’effetto di senso di queste operazioni spaziali etemporali è un’operazione di estrazione aspettuale4 chesottrae il giardino al suo ambiente. In particolare, ci per-mette di comprendere meglio l’opposizione tra l’abitazionee il giardino5, visto che non c’è giardino senza abitazione (esenza abitante). Ciò si verifica altrettanto bene in città, co-me in campagna o nella steppa: il giardino ha bisogno diun habitat per definirsi in opposizione ed estrazione.Guardandovi più da vicino, si constata che le regole delgioco sociale dipendono da ciascuna di queste categoriespaziali: non ci si comporta nello stesso modo in giardino ein casa. Potremo concluderne che le procedure della priva-tizzazione di questi spazi non sono identiche, ma si trattadi un altro soggetto.

In secondo luogo, i giardini manifestano, qualunquesia la loro appartenenza culturale, l’intenzione implicitadi modificare la natura inscrivendogli le due dimensionidei valori collettivi e dei valori individuali. In quanto mi-cro-universi personalizzati, inscrivono valori legati all’in-dividuo. In quanto rappresentazioni del cielo, del paradi-so, della terra e dell’altrove, installano questi valori indi-viduali in un quadro collettivo accettato. In termini se-miotici, se l’operazione di estrazione si imparenta con unatto enunciazionale superiore che asserisce l’importanzadel soggetto, il discorso enunciato reinserisce il soggetto

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in seno alla società collettiva. Ed è quest’equilibrio cherende il discorso del giardino accettabile a tutti. Il cielo ela terra del giardino, infatti, sono luoghi di mediazione:definiscono l’avvenire personale in quanto riconoscibiledalla cultura collettiva.

Come può accadere che l’habitat non accolga con lastessa facilità la stessa carica semantica? I nostri lavori sullaprivatizzazione dello spazio abitato tendono a farci direche l’abitazione è destinata in primo luogo alla regolazionedell’interazione sociale. Per opposizione, il giardino appareorientato verso una interazione diversa: quella dell’uomo edell’universo. Il soggetto vi percepisce delle cose, ricevedei messaggi, prova delle emozioni. Quando l’esperienzadel giardino è collettiva la dimensione passionale dei giar-dini si estende alla comunione dei cuori .

Se possiamo permetterci una rapida conclusione, sug-geriamo quanto segue: tramite le procedure di estrazioneaspettuale e di iscrizione semantica enunciazionale, i giar-dini permettono ai soggetti di ri-posizionarsi in relazioneall’universo e alla società. Così facendo, autorizzano unarestaurazione dell’equilibrio tra l’uomo, la società e il mon-do. Per questo vi ritroviamo l’inscrizione dei valori fonda-mentali che permettono di rinegoziare periodicamentequesti equilibri.

1 Apparso in Hemel & Aarde John Benjamins, Amsterdam, 1991.2 Allo stesso tempo, il giardino acquisisce qualcosa della sacralità che in

Giappone viene riportata a ogni montagna e a ogni cascata.3 Nei giardini, l’acqua sarà rappresentata con acqua, ghiaia o con piante…4 Intendiamo l’aspetto come la categoria che sussume i due termini dello

spazio e del tempo.5 Evochiamo di passaggio i giardini inglesi: la libertà delle loro forme si

opponeva radicalmente al classicismo degli edifici che vi si costruivano.

GIARDINO-CIELO, GIARDINO-TERRA, GIARDINO-ALTROVE

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Capitolo quintoLo spazio del seminario1

5.1. Introduzione

Questo studio è il risultato di un lavoro collettivo effet-tuato nel quadro dell’atelier “Semiotica dello spazio”, inseno al Centro di ricerche semio-linguistiche diretto da Al-girdas J. Greimas. Abbiamo scelto di analizzare lo spaziodel seminario settimanale dello stesso Greimas all’Écoledes Hautes Études en Sciences Sociales per la nostra buo-na conoscenza dovuta alla pratica regolare del suddetto se-minario, per la possibilità di continuare a osservarlo, e infi-ne perché potevamo proporre la nostra analisi al seminariostesso affinché riflettesse sul nostro lavoro e sulla sua stessapratica. Siamo stati quindi al contempo osservatori e osser-vati, e il nostro testo ne subisce l’influenza.

Il punto di partenza teorico è la ricerca pubblicata dalGruppo 107 (1973) che propone un modello d’analisidello spazio in quanto sistema significante. Da un puntodi vista semiotico, il modello si inscrive al seguito dei la-vori di Hjelmslev e di Greimas, dai quali riceve prestiticoncettuali e terminologici. D’altra parte, il Gruppo 107considera che lo spazio prende il proprio senso solo infunzione dell’uso che ne viene fatto ovvero del fare chevi si svolge. Questo fare, posto al livello del contenuto,esige la presenza al livello dell’espressione di persone chesi spostino in un ambiente materiale. Di conseguenza, seil livello del contenuto non ha che una categoria unifica-trice (il fare), quello dell’espressione presenta tre compo-nenti: le persone, lo spazio del loro movimento, lo spazio

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che è per loro impenetrabile (quello degli oggetti). Dacui tre osservazioni:

i) le persone giocano un ruolo molto importante in que-sta semiotica,

ii) il movimento è una delle caratteristiche principalidelle persone,

iii) le tre componenti di cui sopra non sono in se stessecategorie di unità dell’espressione; concorrono semmai allaformazione di quest’ultima.

L’espressione di un segno corrispondente a un fare èchiamato topos (pl. topoi) dal Gruppo 107. Un topos èuno spazio, un volume contenente persone e oggetti. Sitratta di un’unità a tre dimensioni (geometricamente par-lando) le cui frontiere possono essere determinate consi-derando simultaneamente i due livelli dell’espressione edel contenuto.

Il seminario verrà quindi analizzato in topoi al livellodell’espressione (§ 5.2.), in fare al livello del contenuto (§5.3.). Infine cercheremo di mettere in relazione i due puntidi vista (§ 5.4.).

5.2. Studio dell’espressione

5.2.1. Sistema vs. sistemiL’analisi semiotica del seminario presuppone che que-

st’ultimo sia un “testo”, o, in altri termini, un processo chesi rifà a un sistema di una semiotica spaziale. Una descri-zione esaustiva si scontra ben presto con una difficoltà me-todologica: come separare ciò che è pertinente da ciò chenon lo è? La commutazione ci assicura di poter trovare unasoluzione conforme alle ipotesi della semiotica spazialescelta: dato che il contenuto si articola in fare, le unità per-tinenti dell’espressione sono quelle la cui modificazionecoinvolge una concomitante modificazione del fare.

Un’analisi di questo tipo permette la presenza simulta-nea di tre sistemi sovrapposti nel testo oggetto di studio.Ognuno di questi sistemi può esser letto con l’aiuto di trac-

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ce, altrettanti supporti di enunciati imbricati che esprimonoclassi di fare specifici, presupponenti enunciatori distinti.

Il sistema che si offre immediatamente alla nostra os-servazione è quello del seminario di Greimas. È il primooggetto di analisi. Presuppone comunque un altro siste-ma: quello dell’École des Hautes Études en Sciences So-ciales, che produce la classe dei seminari, tra cui quellodi Greimas. Questo secondo sistema ne presuppone unterzo: quello del costruttore che ha eretto la costruzione,e la sala stessa in particolare, in cui si svolgono le attivitàdella Scuola.

La relazione di presupposizione ordina i tre sistemi inuna catena logica lineare. Accade che questo ordine coinci-de con un ordine temporale: la costruzione dei luoghi pre-cede il loro arredamento da parte dell’EHESS in previsionedi installarvi dei seminari, e l’EHESS a sua volta precede lacreazione del seminario di Greimas. La congruenza dell’or-dine logico e temporale non è necessaria, e a noi interessasolo l’ordine logico per l’analisi del sistema. Prima di ana-lizzare in dettaglio ognuno di questi sistemi, li presentere-mo brevemente: nel seminario stesso (primo sistema), il fa-re significato è quello della comunicazione di un sapere. Lapresa di parola è al suo interno l’espressione del possessodi un sapere: la persona che fa un intervento, comunica ilsuo sapere, quella che critica fa riferimento a un altro sape-re che gli permette di valutare ciò che gli viene offerto, ecolui che pone una domanda esprime un non-sapere relati-vo. Di fatto, se tutti i partecipanti negano in una certa mi-sura il loro sapere anteriore, accettano un contratto impli-cito che ha per obiettivo la produzione di un nuovo sapere.Analizzeremo tutto questo più in dettaglio nel paragrafo5.3. Il secondo sistema è quello dell’EHESS, di cui il fare si-gnificato è la produzione di un sapere che sia comunicatoall’esterno del quadro del primo sistema: c’è un obbligo diapertura del seminario che si esprime attraverso il suo ca-rattere pubblico, il rinnovamento regolare dei suoi mem-bri, e la produzione di testi diffusi all’“esterno”. Il terzo si-stema, presupposto dagli altri due, è quello del costruttore.

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La disposizione generale della sala, i dettagli del suo arre-do, la sua situazione nell’insieme delle costruzioni signifi-cano che questo luogo era destinato non tanto a un semi-nario, quanto all’esposizione di una collezione di quadri(cfr. § 5.2.2.). Per raggiungere questa sala provenendo dal-la strada, bisogna attraversare successivamente una corte,una hall, un giardino, un vestibolo, salire delle scale. Que-sto cammino varca cinque porte e quattro luoghi prima dicondurre a destinazione, che si rivela essere un vicolo cie-co. Dato che la strada è uno spazio pubblico, e che la pe-netrazione in un luogo è una transizione dal pubblico versoil privato, la sala analizzata si posiziona nel polo più priva-to della serie sintagmatica dei luoghi. Un simile investi-mento è omogeneo con la disposizione degli oggetti riunitiin una collezione di opere d’arte; sembrava curioso svol-gervi un seminario pubblico.

5.2.2. Il terzo sistema o l’involucroCominciamo con l’analisi del terzo sistema. Ci sono due

ragioni per questa mossa: i) è presupposto dagli altri due, ein questo senso è il primo; ii) è più semplice sul piano del-l’espressione, dato che sussiste solo l’involucro. In effetti,se la sala d’esposizione ha conosciuto dei mobili, questi ul-timi sono scomparsi, come i dipinti. Ciò che resta, è una“scatola” di cui le pareti conservano un trattamento cheandremo a studiare.

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aula del seminario

Rue de Tournon

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Da un punto di vista topologico, è una superficie con-vessa forata in tre punti: una vetrata per rischiarare e dueporte per la circolazione. Una sola delle porte è aperta, e ilfatto che la seconda sia chiusa (anche se c’è un’uscita di si-curezza) trasforma la sala in un vicolo cieco di cui la piantaal suolo è la seguente:

Le due porte si contrappongono e sono inserite nei mu-ri di piccole dimensioni. L’esame della parete di fondo(quella della porta murata) mostra che c’è una separazioneleggera non solidale dei muri cui essa si appoggia con duecassonetti in legno. Dall’altra parte della parete, c’è una sa-la simile a quella del seminario. Se ne deduce che la paretenon fa parte del sistema di costruzione, e che è stata ag-giunta dall’EHESS a uso di questi seminari. D’altro canto, èquesta parete che porta la lavagna. La sala originaria si ri-vela essere due volte più grande. Topologicamente, essa èidentica a quella del seminario: possiede una vetrata unicaper la luce, e due porte di cui una è la principale (valoriz-zata da una scala in pietra e da un grande pianerottolo illu-minato dalla vetrata del soffitto) e l’altra secondaria (scalain legno, stretta e non illuminata).

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Il rapporto della parete lunga con quella corta è di sei auno, ed è visivamente marcato su ogni muro da sette pila-stri piatti debolmente salienti in relazione al muro. Il murodi fondo è sensibilmente quadrato, e l’intera sala si presen-ta come una successione di sei cubi giustapposti. A per-pendicolo rispetto a ogni coppia di pilastri, una trave attra-versa il soffitto e la vetrata allo zenit. Dalla porta d’entrata,il visitatore ha una visione prospettiva molto allungata, lecui linee orizzontali sono ad altezza suolo, alla giunzionedei muri e del soffitto, ai bordi della vetrata. Queste lineedi fuga sono ritmate dai pilastri e dalle travi che sovrade-terminano la profondità, marcando uguali divisioni.

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Si tratta di un volume concepito e trattato in funzioneprospettica, con quest’ultima a presupporre un osservatoreprivilegiato che possa vedere la sala libera da ogni oggettoingombrante. Il grande asse della sala richiama lo sposta-mento, la camminata lungo questo asse, ed è segmentato insezioni determinate dai pilastri.

In ogni sezione, c’è un asse ortogonale al primo, orga-nizzante la visione in relazione alle parti di muro così deli-mitate. La congiunzione di questi due assi (vista generalevs. visioni parziali) è tipica dei luoghi di esposizione taliquali venivano concepiti dal “sistema delle Belle Arti”.

Il trattamento dei dettagli rivela un’intenzione esteticamanifesta: i pilastri sono dipinti in finto marmo rosso, sonosormontati da capitelli ionici dorati. I pannelli di muro tra ipilastri sono tesi da tendaggi in una cornice modellata. Lagiunzione dei muri e del soffitto riceve un cornicione checontinua sulle travi le quali attraversano la sala da pilastroa pilastro. La scala di accesso è dotata di una ringhiera inferro battuto, è illuminata da un pannello zenitale circolaresezionato in quarti e ornato di vetri granulosi.

Tutto ciò concorre a dotare la sala di uno statuto privi-legiato che conferma la sua posizione “privata” dopo lacorte, l’edificio principale e il giardino. In più, c’è una vo-lontà di esprimere la cultura (pilastri, capitelli, modanatu-re) e un certo statuto sociale. D’altronde, l’insieme degliedifici forma un edificio particolare “alla francese”.

La sala così descritta, e inscritta nel suo contesto, sup-pone un gran numero di possibili azioni. Potrebbe essereuna sala di ricevimento, per mangiare o per danzare. Vi sipotrebbe arredare una biblioteca. Si potrebbero esporre

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dei quadri. In questa classe di azioni, operiamo una sceltain funzione degli arredi particolari della sala. Possiamo ri-gettare l’azione “abitare” visto che questa non corrispondead alcun uso culturale: la sala è troppo grande (112,5 m2),troppo allungata, e soprattutto non possiede nessuna fine-stra quando il suo muro ovest darebbe su di un gradevolegiardino. Quest’assenza di finestre ci fa anche escluderel’utilizzo come sala da pranzo o come sala di ricevimento.A ogni modo, l’illuminazione zenitale è quella generalmen-te adottata per sale di esposizione di pittura a olio visto cheelimina i riflessi che appaiono con ogni altro tipo di illumi-nazione. Non solo la luce viene così controllata, ma anche imuri sono interamente spogli e possono ricevere le opered’arte da esporre.

Attualmente la vetrata presenta due chine e si trova so-praelevata rispetto al livello del soffitto. Una simile disposi-zione non si giustifica, soprattutto nel mostrare il “telaio”metallico che tiene i vetri, cosa che era culturalmente rifiu-tato per una sala di prestigio. Nei fatti, il bordo del forodella vetrata, al livello del soffitto, ha guarnizioni in ferroregolarmente spaziate che dovevano servire da supporto aun soffitto in vetro piatto, probabilmente tramezzato comequello del vestibolo sul pianerottolo. Un simile doppio sof-fitto non ha solo una funzione estetica: gioca anche un ruo-lo di regolatore termico, creando un materasso d’aria tra lasala e l’esterno, e assicurando un miglior isolamento.

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Quest’attenzione all’isolamento (controllo della tempe-ratura e dell’umidità) si ritrova nei doppi muri della sala(che si può vedere nelle due bocche d’aerazione) e nella so-praelevazione della sala su un pianoterra.

Una cura particolare è stata posta nella costruzione diquesta sala, per un’azione precisa: conservare e proporreagli sguardi una collezione di pittura.

5.2.3. Il secondo sistema o l’involucro ammobiliatoSi tratterà qui del discorso dell’EHESS che ha arredato

la sala per metterla a disposizione dei seminari di Grei-mas, Barthes, Marthelot, Véron… Il posizionamento deltavolo nero, l’impossibilità di circolare imposta dallastrettezza del luogo concorrono a esprimere un fare pre-ciso: quello del seminario di ricerca e d’insegnamento.Notiamo tuttavia che queste sale servono di tanto in tan-to per assemblee generali di studenti che discutono deiloro problemi e del comportamento da adottare per farfronte al potere e ai suoi rappresentanti. Si tratta di unfare altro, ma forse non così imprevisto negli edifici uni-versitari…

La disposizione delle sedie (una fila lungo la tavola, unafila lungo il muro) impedisce la circolazione quando questesono occupate. Vedremo (§§ 5.2.4., 5.3.2.) che si produceuno spazio statico dove nessuno si sposta e spiega la rea-zione del suo eventuale abbandono.

Ciò che abbiamo appena detto concerne la sala, mapresuppone gli utenti. L’azione che poniamo come conte-

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nuto presuppone delle persone al livello dell’espressione,in accordo a quanto dicevamo nell’introduzione.

Consideriamo l’intera sala come un topos, e cerchiamodi vedere quali sono le divisioni che vi si possono reperire.In primo luogo, possiamo raggruppare tutte le sedie chepermettono ai loro utenti di vedere la lavagna, e opporlealla sola sedia che dà le spalle alla lavagna. Al primo grup-po corrisponde un topos che ingloba la maggior parte del-la sala. Al secondo gruppo corrisponde lo spazio tra la se-dia e la lavagna. Questa divisione ci dà due topoi. Mentreè scomodo separare il piccolo topos che ha solamente unasedia, è facile distinguere nel grande topos due suddivisio-ni: il topos formato dal tavolo e dalle sedie che sono incontatto con questo, e il resto delle sedie. Se si attribuisceil piccolo topos al professore responsabile del seminario,si può dare una doppia classificazione gerarchica dei topoiche abbiamo appena trovato: al livello 1, il topos professo-rale è valorizzato in relazione a quello degli astanti. Al li-vello 2, il topos attorno alla tavola, per la contiguità diret-ta che ha con il topos professorale, è valorizzato rispetto altopos che resta.

La tavola stessa ha un’altezza che corrisponde a un pia-no per scrivere o per mangiare. Se l’altezza esclude così l’a-zione di “disegnare”, è il contesto che esclude l’azione di

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0 . . . . . . . . . . . . . . . . . .Sala

1 . . . .Topos Topos degli astantiprofessorale

2 . . . . . . . . . . . . . . . . .Topos attorno Topos rimanente . . . . . . . . . . . . . . . . . .alla tavola

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“mangiare”: luogo pubblico, istituzione universitaria, lava-gna nera, assenza di cucine… C’è concordanza tra il fare“scrivere” e quello della destinazione globale della sala nelsistema dell’EHESS.

Come ogni tavolo, questo è centripeto (cfr. Bonta 1972)e impone alle sedie una posizione precisa: l’utente di que-ste ultime guarda verso l’interno del tavolo. D’altra parte,le sue dimensioni gli impongono una posizione nella sala:non si può metterlo di traverso senza perturbare considere-volmente lo svolgimento del seminario. Si può solo spo-starlo lungo il grande asse della sala. La posizione occupa-ta, tra tutte quelle possibili, è legata alla lavagna nera (arre-dare un topos professorale) e definisce simultaneamenteun “resto”. Infine, la forma rettangolare del tavolo gli for-nisce due assi che, nella cultura occidentale, valorizzano leposizioni sedute là dove gli assi tagliano il perimetro.

Così, i due estremi del tavolo e le metà dei lati lunghisono valorizzati. Si constata che i professori occupano sem-pre una di queste quattro posizioni, con una preferenzaper l’estremità vicina alla lavagna nera.

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I topoi sono divisibili: sono formati da unità più pic-cole che soddisfano alla definizione di topos e che sonoformate ciascuna da una sedia e dall’utente che presup-pone. A queste unità corrispondono unità di contenutocorrispondenti all’azione dell’utente durante il seminario.Ci ritorneremo. Notiamo per ora che questi topoi sonoorientati dallo sguardo del fruitore presupposto: la sediaha un davanti e un dietro, lo spazio che è davanti è valo-rizzato, quello che è dietro è svalutato, negato. Le sedieche sono messe il fila lungo il muro negano quest’ultimo eaffermano l’importanza dello spazio interno al topos delseminario. Le sedie che circondano il tavolo affermanol’importanza di quest’ultimo.

D’altra parte, se le sedie non convergono (direzional-mente) verso la lavagna, esse permettono ai loro utenti divedere quest’ultima, fatta salva la possibilità di una sediache obbedisca alla regola del tavolo e non obbedisca allaregola della lavagna: esse affermano il primato di ciò chesuccede attorno al tavolo rispetto a ciò che succede attornoalla lavagna. In questo modo, è questa a definire il detento-re di sapere: non c’è bisogno di vedere la lavagna, egli sache cosa vi è sopra poiché è lui a utilizzarla e a inscrivereciò che gli altri cercano di vedere. Nel caso in cui il deten-tore del sapere non utilizzi la lavagna, può non mettersi inprossimità di quest’ultima e, posizionandosi sul piccolo as-se del tavolo, depolarizza il grande asse.

La sedia attribuita al detentore del sapere è sempre atti-nente al tavolo (cfr. § 5.4.). Il fatto di essere attorno a que-sto è quindi valorizzato. Inoltre, in questo stesso perime-tro, sono valorizzati i topoi più vicini a quelli del professo-re. Abbiamo quindi due relazioni che introducono una ge-rarchia tra i topoi minimali:

i) attorno al tavolo vs. altrove;ii) vicino al professore vs. lontano dal professore.In tutto ciò, non vediamo riapparire il sistema del co-

struttore, dimenticato, desemantizzato. Non rimangonoche alcuni vincoli: vicolo cieco, difficoltà di circolazione,allungamento della sala che esagera l’effetto di allontana-

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mento di certi partecipanti. Il controllo della luce è inutile:alcune finestre potranno farlo altrettanto bene, e durante lanotte c’è l’illuminazione artificiale; il controllo climatico èinadeguato: mirava a una costanza della temperatura e del-l’umidità, mentre l’uso di un seminario esige un’aerazioneefficace, da cui lo smontaggio del soffitto in vetro per au-mentare il volume d’aria, e l’installazione di aeratori che ri-muovono il fumo delle sigarette. Là dove è stata installatala parete divisoria, i pilastri in finto marmo e i capitelli so-no stati nascosti da un’armatura in legno. Nessuna atten-zione è stata data all’antico arredamento della sala, implici-tamente negato a profitto di un mobilio che significhi un’a-zione nuova: quella di un seminario.

5.2.4. Il primo sistema o l’involucro ammobiliato e conte-nente degli utenti

Il seminario di Greimas aveva luogo tutti i mercoledìnella sala appena descritta. Nel corso di due ore, i parte-cipanti utilizzavano lo spazio e il loro fare sovradetermi-nava il senso, eliminando un gran numero di fare possibiliespressi nell’anno universitario 1975-76; l’analisi che se-gue dipende in una certa misura dalle realizzazioni con-tingenti in questione.

Generalmente, il seminario era diretto da Greimas, cheinvitava spesso qualcuno a fare una lunga esposizione. Lapartecipazione degli astanti era variabile, e le discussionipotevano altrettanto bene svolgersi durante l’esposizioneche alla fine di quest’ultima.

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Benché non sia quello di un corso magistrale, il fare delseminario può essere descritto, in prima approssimazione,come quello di una trasmissione di sapere. Il destinante èGreimas, o la persona che delega in questo ruolo, e il desti-natario è l’insieme dei partecipanti, che giocano collettiva-mente un unico ruolo. La discussione cambia questo sche-ma di base e fa sì che al posto di una trasmissione si possaparlare di produzione di sapere. Ritorneremo su questopunto nell’analisi del contenuto.

Riprendiamo l’analisi dell’espressione, posizionandonella sala del paragrafo 5.2.3. i partecipanti al seminario.La prima osservazione concerne il topos globale: la sala èinteramente riempita. Tutte le sedie disposte attorno al ta-volo e allineate lungo i muri sono occupate, e si disponenello spazio vuoto tra il tavolo e la porta un numero varia-bile di altre sedie condotte dall’esterno. Molto spesso man-ca il posto, e gli ultimi arrivati salgono con sedie pieghevoli(distribuite da un preposto) che sono installate sul piane-rottolo all’esterno della sala ma in una posizione che per-mette di vedere Greimas o l’invitato della seduta.

Una prima segmentazione di questo topos dà tre topoi:1. attorno al tavolo, ivi comprese le sedie contro il muro: è

il nocciolo duro del seminario, il luogo dove i partecipanti sisentono “nel” seminario, e dove si concentra la maggior par-te degli interventi nelle discussioni. Le azioni che qualifiche-remo come “interne al seminario” si svolgono proprio qui.

2. Tra il tavolo e il muro d’entrata. In questo topos, ipartecipanti non si sentono più completamente dentro ilseminario. Sono piuttosto “uditori”, accontentandosi di

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ascoltare e non prendono se non accidentalmente la parolaper intervenire nelle discussioni. Congiuntamente, in que-sto topos hanno luogo i fare “esterni al seminario” che tra-sgrediscono agli interdetti (cfr. § 5.3.2.).

3. Nell’entrata e sul pianerottolo. L’uditore è passivo alivello di seminario: si accontenta di ascoltare, guardare,scrivere, senza intervenire in modo attivo. Gli interdetti so-no trasgrediti molto facilmente, soprattutto quello del mo-vimento: ci si sposta sul pianerottolo.

Il secondo livello di ritaglio offre le unità seguenti:

1a. Lo spazio tra il tavolo e la lavagna, dove si trovaGreimas, con l’invitato quando ce n’è uno. È un luogo pri-vilegiato della parola.

1b. Il tavolo e l’insieme delle sedie che lo circondano,con l’eccezione di quelle di Greimas e dell’invitato. Si trat-ta dello spazio ristretto del seminario, quello che si avvici-na alla tavola rotonda in cui tutti i membri sono uguali.

1c. Le due file di sedie allineate contro il muro e la cuivicinanza al topos le posiziona nel seminario pur respin-gendole dallo schema favorito nel topos 1b.

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Il topos n. 2 non si suddivide in unità comparabili alladivisione 1a, 1b, 1c.

Il topos n. 3, al contrario, si sottopone a una biparti-zione:

3a. Sulla soglia della sala tra il battente della porta e ilriscaldamento (armatura in legno), si trova un luogo ambi-guo: né dentro, né fuori.

3b. Sul pianerottolo, essendo il topos fuori della saladefinita al paragrafo 1.2, ma la cui esistenza è connessa aquanto si svolge all’interno. Costituisce una escrescenzatemporanea.

Il terzo livello di selezione dà luogo a unità minimecontenenti un solo individuo, seduto su una sedia, talvoltacon un oggetto annesso (ad es. il posacenere). Notiamo cheil topos possiede questa composizione, ma è il solo a intrat-tenere con l’insieme di queste unità una relazione di mutuapresupposizione: in effetti, se Greimas (o il suo sostituto)non è presente, non ci può essere il seminario. Per opposi-zione, nessun partecipante particolare è presupposto: è laclasse dei partecipanti che è necessaria allo svolgimento delseminario. Questa relazione di doppia presupposizionenon deve essere situata a livello degli individui ma a livellodei topoi, visto che il seminario non potrebbe svolgersisenza articolare lo spazio: nel caso in cui il seminario fossetrasposto in uno spazio libero, ritaglierebbe in quest’ulti-mo un topos globale all’interno del quale si definirebberoalmeno due topoi, quello della parola e quello dell’ascolto(cfr. § 5.4.).

Nella misura in cui tutti i partecipanti sono riuniti inuna stessa classe, giocano ruoli equivalenti e commutabili;in questo senso, definiscono topoi anonimi. Questa sinoni-mia ha un’influenza sulla disposizione spaziale dei topoi:abbiamo visto che gli assi del tavolo definiscono quattroposizioni privilegiate. I posti nel mezzo dei lati lunghi ven-gono desemantizzati al momento in cui Greimas si installaa una estremità del tavolo. Tuttavia l’altro estremo rimanemarcato e definisce un topos distinto dagli altri che attri-buirà al suo occupante uno statuto differente di quello de-

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gli altri partecipanti, ed è per questa ragione che la posizio-ne assiale viene evacuata, e l’estremità del tavolo riceve duetopoi disposti da una parte e dall’altra del topos privilegia-to che resta vuoto: nessuno sarà così distinguibile.

C’è un meccanismo analogo sull’altra estremità: quandoGreimas invita qualcuno a prendere la parola, sposta lapropria sedia in modo che ci siano due topoi nel toposprofessorale (vicino alla lavagna), uguali, poiché la posizio-ne assiale privilegiata è evacuata. Si può tuttavia notare cheGreimas si posiziona quasi sempre a destra del suo invita-to, non perché ci sia una particolare valorizzazione dell’op-posizione sinistra vs. destra, ma perché questo lo mette sul-l’asse della porta d’entrata e autorizza il legame virtualecon il topos 3b sul pianerottolo, cosa che gli permette an-che di esercitare un controllo visivo sulla totalità del toposglobale (cfr. §§ 5.3.2., 5.4.3.). Accade che certi invitati, nonconoscendo gli usi, occupino questo topos, senza peraltrodisturbare lo svolgimento del seminario: questa regola delcontrollo visivo non è quindi necessaria.

Per la stessa ragione (equivalenza dei ruoli) i topoi mi-nimi del topos n. 2 (tra il tavolo e l’entrata) si dispongonoin archi di cerchi più o meno irregolari che permettono aipartecipanti di vedere Greimas.

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Le sedie infilate lungo il muro si trovano così spostate,affinché la loro direzione (cfr. § 5.2.3.) converga realmenteverso il luogo della parola. Al contrario, i topoi minimi deltopos 1c, messi in fila lungo il muro, non trasgrediscono laregola che vuole che si addossino al muro. Meglio ancora,rispettano la presenza dei pilastri che restano sgombrimentre ricevono le sedie solo le sezioni tra i pilastri.

Il tipo di sedia importa poco, e ce ne sono tre nella sala:la sedia tipo “educazione nazionale” in tubo metallico econtroplaccata, un modello pieghevole in legno, un model-lo in plastica e metallo. La sola caratteristica che gioca unruolo è quella dell’ingombro: le sedie sono molto strette,permettendo di metterne molte lungo il muro o attorno altavolo. Ancora, una sedia in se stessa non è significativa alivello di seminario. Se essa presuppone un utente, il ruoloche gioca questo fruitore non proviene dalla sedia stessama dalla posizione che occupa, in relazione al tavolo e allalavagna nella sala. A livello di seminario risulta allora signi-ficativa la posizione relativa dei topoi minimali. Questa os-servazione è vera anche per i topoi non minimali (cfr. §5.4.1.). Osservavamo in precedenza che il seminario puòaver luogo all’aperto, caso in cui non ci sono né sedie, nétavolo, né lavagna; lo spazio del seminario significa allorarispetto alla disposizione rispettiva dei due topoi principa-li, quello del soggetto e quello dell’anti-soggetto (astanti):gli astanti circondano il detentore di sapere, lasciando que-st’ultimo in una posizione decentrata e sul bordo di un bu-co che tende a essere circolare (§ 5.4.).

5.3. Studio del contenuto

5.3.1. Programma e contrattoIl fine del seminario è la produzione di un sapere, pro-

duzione analizzabile in una trasmissione e in una trasfor-mazione del sapere. C’è trasmissione del sapere tra un sog-getto destinante detentore di sapere e un anti-soggetto de-stinatario non detentore di sapere.

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L’anti-soggetto viene al seminario affermando un non-sapere, ovvero una situazione di mancanza, e la sua parte-cipazione al seminario è una ricerca. C’è dunque un voler-sapere manifestato dallo spostamento del destinatario edalla sua venuta al seminario per riparare, con l’acquisizio-ne di un oggetto-sapere, alla situazione di mancanza che locaratterizza. Questa affermazione di mancanza è retorica: ilpartecipante sa ciò che cerca e che può trovare a priori nelseminario. D’altra parte, non può assimilare questo sapere(e quindi riceverlo come oggetto-valore) se non possiedeun sapere anteriore che gli permette di valutare ciò che de-ve soddisfare alla sua ricerca.

In modo simmetrico, il destinante afferma un non-sape-re, poiché accetta di dire che il seminario opera una tra-sformazione del sapere che propone, realizzando così laproduzione di sapere voluta dall’EHESS. Allo stesso modo,il destinante propone il suo discorso alla valutazione deldestinatario, affermando così il sapere di quest’ultimo e uncerto non-sapere da parte sua. Si assiste a un rovesciamen-to dei ruoli: il destinante diviene destinatario del sapere, eviceversa.

Di conseguenza, il programma del seminario non si ri-conduce a un contratto semplice tra un soggetto e un anti-soggetto, e dovremo piuttosto parlare di una convenzione,nel senso che il programma è complesso, modalizzato, emolto flessibile, al punto da permettere l’inversione deiruoli. Continueremo tuttavia a parlare di soggetto e di anti-soggetto nel senso dello schema di base, per ragioni disemplicità di esposizione.

Ciò che abbiamo appena detto potrebbe applicarsi aogni seminario dell’EHESS. Il seminario di Greimas manife-sta un’altra variante di complessità: la moltiplicazione deldestinante. In effetti, Greimas invita altri ricercatori a fare

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S O S

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degli interventi, e cede loro temporaneamente il suo ruolo;in più, certi membri del seminario sono più anziani di altri epossiedono per questo un sapere intermedio tra quello deldestinante e quello della maggior parte dei destinatari. Sonoquesti “anziani” che intervengono più spesso nelle discus-sioni e che servono da mediatori tra il soggetto e l’anti-sog-getto. Infine, l’invitato da Greimas fa spesso parte di questianziani. “Invitato” e “anziano” sono quindi termini com-plessi che riguardano contemporaneamente il soggetto el’anti-soggetto. Da cui lo schema:

Per il soggetto come per l’anti-soggetto, l’azione del se-minario si riconduce quindi a un programma narrativo:acquisizione, trasformazione, produzione di un sapere. Larealizzazione di questo programma attraversa un certo nu-mero di altre azioni: parlare, ascoltare, scrivere, guardare,camminare… sono altrettante azioni che sembrano riferir-si a un livello di superficie, quando invece la produzionedi sapere appare come propria al livello profondo. Pren-deremo ciascuno di questi livelli isolatamente (cfr. §§5.3.2., 5.3.3.).

Gli enunciati di fare che riguardano un livello di super-ficie possono essere divisi in due categorie in relazione alcriterio di spostamento: spostamento di tutto il corpo vs.non spostamento di tutto il corpo.

La prima categoria è quella del movimento, in relazionealla quale si definisce il luogo del topos (cfr. introduzione).La seconda categoria comprende gli enunciati di fare se-

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Anziano Invitato Greimasstudente

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guenti: parlare, ascoltare, guardare, scrivere, fumare. Que-sti differenti “fare”, riguardano tutti un livello di superficiee sono pertinenti per la significazione del seminario: il loromodo di realizzazione permette di classificarli come internio esterni al seminario.

La categorizzazione in interno/esterno al seminario di-pende da convenzioni culturali che definiscono la con-gruenza tra il livello profondo e il livello di superficie: è in-terno al seminario ogni “fare” di superficie che concorrealla buona realizzazione del “fare” profondo, e quindi allariparazione della mancanza (assenza di sapere); è esterno alseminario ogni “fare” di superficie che ostacoli o perturbila riparazione della mancanza e tenda a rompere il contrat-to. Così, ogni conversazione privata tra i partecipanti al se-minario è esterna al seminario, mentre una discussione aproposito del soggetto della seduta è interna al seminario.Funziona allo stesso modo per scrivere, guardare…

Da cui due osservazioni: un “fare” esterno al seminariogioca un doppio ruolo di embraiante e di debraiante in re-lazione al “fare” del seminario. È debraiante nel senso cheestrae il partecipante e lo proietta fuori dal seminario. Èembraiante poiché questa estrazione non è definitiva matemporanea: c’è un ritorno al “fare” del seminario, e que-sto tramite una modificazione del “fare” esterno al semina-rio. L’esteriorità di questi “fare” è quindi relativa. Essa èdoppiamente relativa, ed è l’oggetto della seconda osserva-zione: è possibile definire due “esterni” dal seminario.Quello di cui si tratta in questo contesto concerne un “fa-re” che si svolge nel tempo e nello spazio del seminario: èanche possibile definire un altro esterno, più radicale:quello che è fuori dal tempo e dallo spazio del seminario.Si tratta dell’esterno dei non-partecipanti, e che lo riguardaqui solo nella misura in cui permette di definire il topos e iltempo del seminario.

5.3.2. Livello di superficieLo spostamento: coinvolge tutto il corpo e si definisce

per ogni membro del seminario. Prima e dopo il seminario,

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la sala conosce una forte dinamica dei partecipanti. Si trattadella transizione tra l’esterno e l’interno, tra il pubblico e ilprivato, passando per i differenti spazi dell’edificio (cfr. §5.2.2.). Il tempo del seminario si caratterizza per l’interdi-zione del dinamico, o piuttosto per la raccomandazione del-l’immobilità (essere seduti), raccomandazione accentuatadall’arredamento dei luoghi dove ogni movimento è resodifficoltoso (cfr. § 5.2.3.). L’immobilità dei partecipanti nonè assoluta: essa riguarda solo lo spostamento del corpo inte-ro, mentre le parti del corpo (mani, testa…) conservanouna certa libertà di movimento. In questo modo, nello spa-zio del seminario il percorso è impossibile, ma la posizioneseduta conosce un certo grado di mobilità. Notiamo chequesta mobilità non è effettiva se non a partire dal momen-to in cui Greimas attraversa la porta. Prima, la dinamicaesterna del seminario viene continuata all’interno della sala.Per gli studenti arrivati prima di Greimas, non c’è alcunpassaggio tra l’esterno e l’interno (il non-seminario e il se-minario) e di conseguenza non fanno un’“entrata”, così co-me non fanno un’“uscita” alla fine. Il seminario è instauratonel preciso momento in cui Greimas fa la sua entrata, comequando in teatro si leva il sipario. In quel momento l’assem-blea diventa “il seminario”. Greimas è accompagnato daipropri invitati e dai suoi assistenti, e questa entrata2 è valo-rizzata in relazione al “pubblico” che funge da anti-sogget-to. Inoltre questo percorso apre un passaggio in un luogodove ogni spostamento è difficile.

Durante il seminario, solo il soggetto avrà diritto allospostamento, all’interno del proprio topos (cfr. § 5.2.3.).Gli altri partecipanti non possiedono questo diritto.Ogni intrusione nel topos del soggetto è una trasgressio-ne resa possibile da un’autorizzazione verbale o gestualedel soggetto. Questa predominanza dello statico avrà co-me conseguenza una valorizzazione di altri “fare”: peresempio lo sguardo, che percorre lo spazio anche se inun modo differente.

Il fare visivo: per l’anti-soggetto, possiamo distinguerenumerose sequenze caratteristiche:

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i) l’esplorazione cerca di situare il polo centrale (Grei-mas) nel campo di visione. Questa esplorazione incorporanella sua attività frammenti di spazio. La sua importanzaproviene dal fatto che permette di mantenere a fatica ilcontatto con il seminario.

ii) La visione ripiegata, diretta verso il fare cognitivo eindividuale. Il partecipante scrive, prende appunti, ecc., oascolta (l’ascolto è un fare particolare che si articola con il“parlare” e il “non parlare”). Nella misura in cui il fare co-gnitivo è così valorizzato, lo spazio fisico (o naturale) vienesvalutato, rigettato a profitto di uno spazio di significatoche riguarda il livello profondo del contenuto (cfr. § 5.4.).Questo sguardo volontario può anche essere deconcentra-to, assente. Si stacca dal fare cognitivo; è la sonnolenza, ilsogno a occhi aperti… Può essere anche meditazione pa-rallela al fare cognitivo di base.

iii) Il percorso selvaggio: lo sguardo non è più né con-centrato su Greimas, né sul fare cognitivo, ma saltella daipartecipanti ai differenti oggetti, dagli oggetti agli elementidell’architettura… in mancanza di finestre che, in genere,attirano questa visione “selvaggia”. Bisogna notare chespesso questo tipo di sguardo permette di scoprire lo spazio“naturale”. L’attenzione si sposta dal seminario verso lospazio in cui ha luogo il seminario. Questo sguardo, con-centrato sul livello di superficie dell’espressione, proietta ilsuo soggetto fuori dal seminario poiché lo estrae dalla cate-na di produzione del sapere, oggetto del seminario.

Osservazione: il fare visivo, anche se minimo, è indi-spensabile alla presenza effettiva al seminario. L’ascolto del-la parola registrata, o l’ascolto senza visibilità a partire dalpianerottolo, non è sufficiente a mantenere l’attenzione e acomprendere gli scambi, dei quali una buona parte è ge-stuale o comunque riportata al fare del soggetto (cfr. § 5.4.).

Il guardare del soggetto sembra un controllo, sia che ri-vesta la forma dell’esplorazione, sia che abbia quella dellafissazione.

i) L’esplorazione. Il soggetto guarda il suo pubblico perdire: “guardatemi, ascoltatemi”. Per fare ciò, fa giocare la

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sua funzione di embraiante, e manifesta un “voler-fare”.Controlla il passaggio di comunicazione e verifica se c’èuna valutazione del suo discorso. Infine, riconosce il suopubblico-interlocutore e modula il suo intervento in fun-zione delle reazioni.

ii) La fissazione. Greimas sceglie sempre qualche rap-presentante del seminario, che guarda tra due esplorazioniin modo sostenuto. I partecipanti così guardati rispondonoallo sguardo e lo sostengono. La comunicazione tra il sog-getto e l’anti-soggetto si trova allora individualizzata e haluogo a un livello più personale. Simultaneamente Greimassi assicura che il suo messaggio sia compreso. I rappresen-tanti non occupano posizioni qualunque: lo scambio visivonecessita di una certa prossimità, se non proprio di una si-tuazione di faccia a faccia.

Ritroveremo allora i posti dei rappresentanti nelle vici-nanze immediate del soggetto, o nei posti che sono di fron-te all’altro estremo del tavolo. Questi posti sono spesso oc-cupati dagli “anziani” del seminario: ricercano la comuni-cazione con Greimas, e si posizionano quindi di conse-guenza; d’altra parte, come Greimas sa bene, gli è più faci-le rivolgersi a loro.

Infine, il soggetto esercita un controllo visivo sull’atti-vità dell’insieme del luogo, in particolare sulla porta, da cuientrano quelli che sono in ritardo, o escono (più rari) quel-li che hanno altre preoccupazioni esterne al seminario.

Lo sguardo, che sia quello del soggetto o quello dell’an-ti-soggetto, è direzionale: parte da colui che guarda versocolui che è guardato. Se si prende il punto di vista dell’an-ti-soggetto, si può dire che gli sguardi convergono su Grei-mas. Uno sguardo diretto su un’altra persona è uno sguar-do esterno al seminario.

In maniera simmetrica, Greimas distribuisce il suosguardo sui membri del seminario. Se si poteva parlaredi convergenza degli sguardi partendo dall’anti-soggetto,c’è divergenza di sguardi del soggetto, e nei due casi, c’èun polo unico: Greimas, punto di arrivo delle direzionidello sguardo.

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Questo è il funzionamento normale degli sguardi del se-minario. Notiamo tuttavia che Greimas può depolarizzarsie far convergere gli sguardi sull’invitato, su un partecipan-te, o anche su un oggetto (pacchetto di sigarette). Per farlo,gli basta dire qualche parola, e il suo fare prende allorauno statuto metasemiotico in relazione al fare del semina-rio: arriva a regolare quest’ultimo. Siamo giunti al terzo fa-re di superficie: la parola.

La parola: è il fare di superficie principale: in effetti, laproduzione di sapere si costituisce attraverso la parola. Se lascrittura gioca un ruolo non trascurabile, allo stesso mododella gestualità e delle relazioni spaziali, la parola gioca unruolo privilegiato che possiamo ricondurre a due fattori:

i) un fatto culturale, che privilegia la parola, la discus-sione, e gli attribuisce particolare valore nel dominio consi-derato. Al contrario, possiamo notare che l’insegnamento ela produzione di parola nell’architettura o nella pittura nonvalorizzano la parola allo stesso modo;

ii) un fatto strutturale: la lingua naturale, veicolata dallaparola, permette di tradurre altri linguaggi.

Soggetto e anti-soggetto fanno ricorso alla parola nellarealizzazione del programma narrativo del seminario.Tuttavia, solo il soggetto possiede una metaparola: quellache gli permette di regolare lo svolgimento della produ-zione di sapere. Lui solo possiede la parola piena, la cede,la distribuisce al momento delle discussioni. Questo pote-re gli viene devoluto istituzionalmente in funzione di quelsuo sapere che gli permette di valutare il sapere degli al-

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tri. Questo meccanismo di attribuzione del “poter parla-re” al detentore di un sapere è generale nello svolgimentodel seminario: per intervenire nelle discussioni, bisognasapere di che cosa si parla, e in più, bisogna possedere unvocabolario adeguato. La non padronanza di fondo o delvocabolario esclude il partecipante dalle discussioni. Aogni modo, esiste un solo sapere regolatore, posto al disopra di tutti gli altri: quello di Greimas.

La parola dell’anti-soggetto può essere caratterizzata,come gli altri fare di superficie, in interna o esterna al se-minario. Il parlare del seminario riguarda due categorie:la domanda e la valutazione. Nei due casi, il partecipanteche parla ricorre al suo sapere anteriore. Ponendo unadomanda, dice che a suo avviso il discorso del soggetto èstato incompleto e che bisogna completarlo. Si tratta diuna valutazione implicita, comparabile alla valutazioneesplicita che può enunciare e che ha senso solo se sa giàqualcosa a proposito dell’oggetto discusso in seno al se-minario.

Il parlare esterno al seminario non si indirizza all’in-sieme dei partecipanti (come invece era il caso del parlareinterno al seminario) ma unicamente a un vicino o a unpiccolo numero di vicini. Questi discorsi a parte possonoessere strettamente privati, caso in cui sono esterni al se-minario, oppure avere un rapporto con ciò che sta dicen-do il soggetto, e in questo caso hanno uno statuto ambi-guo, al contempo interno ed esterno. Vediamo in questocaso un esempio preciso di quello che abbiamo chiamato“fare embraiante/debraiante” quando abbiamo parlatodel fare di superficie in generale (cfr. § 5.3.1.).

Esiste anche un parlare ancora più esterno al semina-rio: quello che ha luogo fuori dal tempo del seminariosebbene nell’edificio contenente il luogo di quest’ultimo.Possiamo osservare che la parola è allora libera, così co-me gli spostamenti: c’è un simultaneo levarsi delle inter-dizioni di parlare e di non muoversi. Durante il semina-rio, la parola è vietata, salvo autorizzazione del detentoredel potere e del sapere, mentre il parlare lascia il posto

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all’ascoltare, al guardare, al meditare, allo scarabocchia-re… altrettanti “fare” che presuppongono la parola diun altro.

La parola del seminario è esclusiva: che sia il soggettoo un partecipante, colui che parla è solo a parlare, e glialtri osservano l’interdizione. Abbiamo visto che la rela-zione dello sguardo del soggetto e dell’anti-soggetto nonè esclusiva: c’è uno scambio di sguardi e c’è comunica-zione visiva. La parola sembra quindi qualcosa di mag-giormente gerarchizzante.

Questo fatto è rilevante anche a livello delle relazionitra i partecipanti: due astanti possono guardarsi senza chequesto concerna il soggetto che parla. Al contrario, ogniscambio di parole (interne al seminario) si indirizza indi-rettamente al soggetto: è in relazione a ciò che ha appenadetto che si può ingaggiare una discussione tra due parte-cipanti.

Lo schema polare del seminario in relazione al fare“parlare” è quindi il seguente:

Il soggetto parla ai partecipanti, cede loro la parola, casoin cui la parola gli è direttamente o indirettamente indirizzata.

Benché sia interessante studiare le azioni di “scrivere”,“ascoltare”, “fumare” (che sono interni al seminario) e“fantasticare”, “dormire”, “scarabocchiare” (che sonoesterni al seminario) che sono stati osservati, e opporle a“parlare” e a “guardare”, dobbiamo rinunciarvi per due

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ragioni: la mancanza di spazio, e il fatto che è più difficilemetterli in connessione con il livello profondo. Passeremoallora direttamente allo studio di questo livello.

5.3.3. Livello profondoSi caratterizza per un programma narrativo che pone un

solo oggetto-valore: il sapere. Il soggetto e l’anti-soggetto sidefiniscono rispettivamente mediante la congiunzione e ladisgiunzione con il sapere, e abbiamo visto come queste re-lazioni (congiunzione e disgiunzione) risultino da una con-venzione: l’anti-soggetto nega il suo sapere anteriore pergiocare il ruolo di destinatario, mentre manifesta il propriosapere quando intraprende il ruolo di valutatore dell’ogget-to-valore proposto dal destinante. Allo stesso modo, il sog-getto nega il suo sapere per ricevere la valutazione dell’anti-soggetto e trasformare così il proprio sapere in modo che cisia produzione e non solo trasmissione di un oggetto-valore.Mostrando di non sapere, il soggetto e l’anti-soggetto con-corrono a produrre un sapere; giocano un ruolo simile ed èil seminario intero che finisce per essere il soggetto dell’e-nunciato “produzione di sapere”, mentre l’EHESS appare nelruolo di soggetto dell’enunciazione. Nella misura in cuil’EHESS delega il suo potere a Greimas, gioca il ruolo di sog-getto dell’enunciazione e accetta implicitamente di attribui-re al seminario il ruolo di soggetto dell’enunciato. Una simi-le distribuzione di ruoli rende conto di un contratto impli-cito tra l’EHESS, Greimas, gli studenti e i ricercatori che par-tecipano al seminario. Nel quadro di questo contratto, ilpotere è attribuito al detentore del sapere, Greimas. Sullabase del suo sapere, ha il potere di controllare lo svolgimen-to del seminario e di esercitare (a livello di superficie) un fa-re metasemiotico sul fare del seminario (§ 5.3.2.). Comecontropartita, è sottomesso a un dover dire: deve parlare,comunicare un sapere, provocare la comunicazione e laproduzione di un sapere. Quando delega il suo ruolo disoggetto a un invitato, gli delega una parte del suo potere(quello di parlare) ma conserva quello di regolatore metase-miotico in relazione al fare del seminario.

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Il partecipante è sottoposto a un dover ascoltare, e a undover non muoversi, non parlare, non disturbare. Il poteredi parlare non gli è concesso se non quando, prendendo laparola, può dimostrare di possedere un sapere.

I dover-fare del soggetto e dell’anti-soggetto si esprimo-no facilmente a livello di superficie, mentre sono più diffi-cili da mostrare a livello profondo. Tuttavia, non c’è dub-bio che, se il seminario non producesse più sapere, la suaesistenza ne sarebbe minacciata, sia dal punto di vista dellafrequentazione sia dal punto di vista istituzionale: l’EHESSnon manterrebbe a lungo un seminario dove non vieneprodotto nulla, e l’“Annuario della Scuola” è stato pensatoper testimoniare tutti gli anni, forse solo amministrativa-mente, la produzione del sapere.

Nel contratto implicito che lega Greimas ai suoi studentida una parte, e l’insieme del seminario all’EHESS dall’altra, ilsapere oggetto del contratto non è posto come un valore as-soluto: è sottoposto a valutazione, tanto all’interno del semi-nario quanto tra il seminario e l’EHESS. In particolare, il sape-re può non essere riconosciuto. Questa situazione di produ-zione di un sapere nuovo può utilmente essere opposta allatrasmissione di un sapere acquisito assunto dall’insegnamen-to ex-cathedra: il sapere da trasmettere è definito dall’istitu-zione, e gli apprendisti lo ricevono come vero, questa veritàessendo un valore costante non soggetto a valutazione. Diconseguenza, se il funzionamento dell’insegnamento excathedra è ben quello dell’esecuzione di un contratto, quellodel seminario sembra per opposizione retto da condizionipiù flessibili che giustificherebbero, se ce ne fosse ancora bi-sogno, il termine di convenzione che abbiamo già introdottoa questo proposito. Ancora, una convenzione può andared’accordo con un certo numero di modalità, mentre il con-tratto definisce la sola modalità che lo realizzi. In questo mo-do il contratto ex cathedra impone all’anti-soggetto un unicodover-sapere, mentre la convenzione del seminario riconosceall’anti-soggetto un volere (non c’è alcun obbligo di venire)che può applicarsi a due “fare” differenti: acquisire un sape-re, produrre un sapere. Sono i diversi aspetti della convenzio-

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ne del livello profondo che condizionano il dettaglio dei faredi superficie da noi visti precedentemente (§ 5.3.2.).

5.4. Tentativo di correlazione dell’espressione e del con-tenuto

5.4.1. Semiosi e commutazioneSono i membri del seminario (al contempo il soggetto e

l’anti-soggetto) che concorrono, con il loro fare, a dare unsenso e a strutturare il contenuto che abbiamo tentato dianalizzare. Il senso è prodotto dai membri, ed è destinato(anche se solo in parte) ai membri stessi. Benché si appoggisullo spazio e sulle configurazioni degli oggetti, il fare deimembri tende a dimenticare gli oggetti a profitto della pro-duzione di sapere. Ciò che viene affermato, è un fare co-gnitivo, ed è convenzionalmente raccomandato di non te-ner conto delle condizioni fisiche: così, non si viene scomo-dati dal calore eccessivo, dal fumo delle sigarette, dallastrettezza del luogo, dalle correnti d’aria… tutte variabilidi quello che abbiamo chiamato il livello dell’espressione,che sono relegate in secondo piano, implicitamente negate.Tutto sommato, lo spazio fisico non è valorizzato, e sembrache la produzione di sapere sia la sola a essere riconosciutacome valore. Uno schema simile non dovrebbe stupirci,poiché è proprio quello di ogni simbolizzazione: il signifi-cante permette di cogliere il significato; quel che è impor-tante in una comunicazione non è il significante in se stes-so, ma ciò a cui rinvia. Tuttavia, il significato non può esse-re colto senza il suo significante, e bisogna guardarsi dal-l’attribuire un senso troppo forte alla negazione di cui par-lavamo qui sopra a proposito dello spazio fisico del semi-nario.

L’analisi dei paragrafi 5.3.1. e 5.3.2. ci ha permesso divedere che cogliere il livello del contenuto viene valorizza-to come interno al seminario. In più, i “fare” di superficieche permettono di effettuare l’una o l’altra presa sono glistessi, cosa che ci ha indotto a nominarli embraianti/de-

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braianti. Sembra che un interesse eccessivo per l’espressio-ne impedisca la percezione del contenuto e viceversa. C’èquindi un equilibrio tra lo spazio fisico e lo spazio immagi-nario del fare cognitivo della produzione di sapere: quandouno è troppo presente, l’altro tende a sparire. Questo equi-librio è instabile, e la convenzione (§ 5.3.3.) è presente perassicurarne il mantenimento. A titolo di esempio, quandoabbiamo analizzato lo spazio del seminario, ci siamo trovatial di fuori di ciò che si faceva in seno al seminario: non po-tevamo simultaneamente osservare lo svolgimento del faree prendere parte a questo fare.

Nel quadro di questa convenzione, il contenuto non ne-ga lo spazio fisico ma lo presuppone, poiché non può esi-stere senza quest’ultimo. Resta la questione di sapere qualine siano gli elementi strettamente presupposti, e quali sonoquelli contingenti. Vedremo, attraverso la commutazione,che la presupposizione lega essenzialmente i livelli profon-di dell’espressione e del contenuto.

Il seminario di Greimas ha avuto luogo in diversi posti(rue de Bernardinis, rue de Varenne, rue de Tournon). Pos-siamo commutare i luoghi a condizione di rispettare certe co-strizioni:

- chiusura spaziale: c’è bisogno di uno spazio che possaessere riconosciuto come quello del seminario, in opposi-zione allo spazio esterno al seminario.

- chiusura temporale: c’è un tempo del seminario, carat-terizzato da una durata limitata (due ore) che definisce ciòche non è il tempo del seminario nel periodo (sette giorni)che separa una seduta da un’altra.

- importanza numerica degli astanti: se ci sono meno didieci persone, non c’è seminario, se ce ne sono più di cen-to, è un corso.

- presenza di Greimas o di un suo sostituto.Se queste condizioni sono soddisfatte, il seminario può

aver luogo. Possiamo osservare che ci sono poche condi-zioni relative allo spazio fisico, mentre ci sono due condi-zioni essenziali relative ai membri: bisogna che ci sia unsoggetto e un anti-soggetto affinché ci sia un fare; esiste

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una soglia inferiore e una soglia superiore per il numerodei partecipanti anti-soggetti. C’è quindi una preminenzadelle persone sugli oggetti. Basta un sistema fisico minima-le se le condizioni sulle persone sono soddisfatte.

Abbiamo già osservato (§ 5.2.4.) che il seminario può averluogo all’aperto. In quel caso lo spazio occupato dai membrisi definisce come quello del seminario, opposto al resto nonoccupato. Una simile riunione può essere considerata comeseduta ordinaria del seminario se raccoglie i membri abitualinel periodo abituale. Lo spazio del seminario tenderà a esserecircolare (senza alcun obbligo di regolarità), e conterrà unbuco al bordo del quale verrà situato il detentore del sapere(Greimas o il suo sostituto). Così, ciò che è spazialmente per-tinente, è la seguente configurazione topologica: uno spaziocon un buco e un polo. Lo spazio (con i suoi membri) è l’e-spressione del segno che significa l’anti-soggetto, il polo (conil suo occupante detentore del sapere) è l’espressione del se-gno significante il soggetto, e il buco sembra una necessità to-pologica per autorizzare le varie azioni di superficie: parlare,guardare, ascoltare… Il buco è necessario all’attività del se-minario e al suo sviluppo sintagmatico. Nella sala della ruede Tournon, il buco è occupato dal tavolo, che sembra quin-di riguardare il livello di superficie. Il fatto di essere attornoal buco, pone i membri in un certo rapporto di uguaglianza,necessario per convenzione.

Questo vuoto può essere riempito da un tavolo, pieno osvuotato, rettangolare o quadrato… Questo non modifi-cherà in profondità il rapporto iniziale tra i membri (seb-

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bene le differenti realizzazioni di superficie possano intro-durre dei contenuti non trascurabili, cfr. Bonta (1972) eanche le nostre osservazioni del paragrafo 5.2.4. sulle rela-zioni “attorno al tavolo” e “essere vicini a Greimas”). Pos-siamo opporre tutto ciò allo spazio dell’insegnamento excathedra, dove lo spazio degli uditori si oppone a quellodel detentore del sapere. Questi due spazi sono distinti, ela loro differenza è significata da una barriera in legno, oda un pulpito… La barriera separa il sapere dal non-sape-re, mentre il vuoto del seminario rende possibile la produ-zione di sapere.

Un’osservazione: il livello profondo del contenuto (sog-getto, anti-soggetto, oggetto valore) non presuppone che illivello profondo dell’espressione (uno spazio fisico, un polo,un foro o una barriera). A ogni catena sintagmatica di farecorrisponde una configurazione topologica propria:

Affinché il programma narrativo di produzione del sa-pere possa svolgersi, ovvero affinché ci sia seminario, bastauna configurazione minima delle espressioni dei segni cor-

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rispondenti agli attanti. Sono i fare di superficie che im-pongono delle condizioni a livello di superficie dell’espres-sione (sedie per sedersi, tavolo e lavagna per scrivere, illu-minazione, muri, isolamento…), e mentre la corrisponden-za sembra particolarmente stretta tra i due livelli di profon-dità, essa è meno precisa tra i due livelli di superficie.

5.4.2. I poli espressioni di segni del livello profondoProseguiremo l’analisi articolandola sull’opposizione de-

gli spazi seminario vs. ex cathedra, a partire dai precedentischemi topologici stabiliti. Lo spazio ex cathedra è compo-sto di due soli poli, nettamente separati, fissi. Corrispondo-no al soggetto e all’anti-soggetto, che formano due poli di-stinti. Abbiamo quindi uno spazio semplice bipolare. Non èla stessa cosa per il seminario. Abbiamo visto (§ 5.3.1.) cheil soggetto può raddoppiarsi e cedere il suo ruolo a un invi-tato o a un anziano, che giocano allora il ruolo di detentoredel sapere. A livello di strutture profonde, lo schema topo-logico non cambia: c’è sempre un soggetto il cui spazio fisi-co è incluso topologicamente nello spazio fisico dell’anti-soggetto. Bisogna tuttavia tener conto di due fattori:

i) Greimas è sempre presente, e mantiene il ruolo di re-golatore dello svolgimento sintagmatico. Ci sono quindi trepoli: un anti-soggetto, un detentore del sapere, e un deten-tore del potere.

ii) La persona invitata a parlare appartiene spesso al se-minario. Essa fa parte dell’anti-soggetto abituale ed esceprovvisoriamente dal suo gruppo per giocare il ruolo disoggetto. Durante lo svolgimento delle ulteriori sedute, es-sa mantiene qualcosa di questo poter parlare che le è statoconcesso, ed essa interviene più spesso degli altri parteci-panti. Se non ha tutte le qualità di un polo, ne possiedetuttavia alcune. Il seminario possiede quindi più di tre poli:è multipolare, e questa multipolarità è variabile.

La multipolarità dei soggetti dello spazio del seminariosi manifesta non solamente dal trasferimento del poteretra Greimas e il(i) suo(suoi) invitato(i), essa si manifestanell’ampiezza dello spostamento fisico riconosciuto al sog-

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getto: convenzionalmente, quest’ultimo può abbandonarela sala, andare alla lavagna, parlare mentre cammina…Greimas non occupa sempre lo stesso posto, ed è lo stessoper i suoi invitati (nell’asse del tavolo, a destra, a sinistra,cfr. §§ 5.2.3., 5.2.4.). Questa mobilità dei poli a livello disuperficie tocca anche l’anti-soggetto: se l’anti-soggetto èsempre uno spazio fisico unico dal punto di vista topologi-co, bisogna distinguervi dei poli dal momento in cui c’èuna presa di parola. Ogni partecipante può prendere laparola, essendo questa una condizione fondamentale perlo svolgimento del seminario. In questo modo, lo spaziodell’anti-soggetto potrebbe diluirsi in una moltitudine dipoli individuali. Nei fatti, le cose non funzionano in que-sto modo poiché la presa di parola è condizionata dal pos-sesso di un sapere, di un lessico e di una tecnica di inter-vento. Ci sono anche partecipanti che non prendono maila parola mentre altri lo fanno regolarmente (§§ 5.2.4.,5.3.2.). Inoltre, nelle condizioni di realizzazione del semi-nario in rue de Tournon, ci sono posti della sala dove laparola non viene mai presa (il pianerottolo, la porta). So-no sub-topoi del polo anti-soggetto dove la parola è resaimpossibile dalla configurazione dei luoghi.

Possiamo allora vedere esprimersi tramite la multipola-rità sul piano dell’espressione, le condizioni complesse del-la convenzione che regge il seminario, quando invece ilcontratto dell’insegnamento ex cathedra si esprime attra-verso uno schema bipolare semplice.

Al di fuori delle relazioni topologiche che i topoi intrat-tengono tra loro, possiamo mettere in evidenza direzionideterminate dai poli presi a due a due. Lo stesso termine dipolo (che abbiamo utilizzato in queste pagine per distin-guere soggetto e anti-soggetto sull’asse della trasmissionedel sapere dello spazio ex cathedra) richiama la nozione didirezione, e anche quella di convergenza e di divergenzadelle direzioni. La nozione di polo e quella di direzione so-no legate tra loro e si definiscono reciprocamente.

Le direzioni che ci concernono negli spazi pedagogicisono quelle della comunicazione tramite la parola, il gesto,

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la scrittura (alla lavagna). La parola può essere accoppiata auna direzione che parte dal soggetto e va verso l’anti-sog-getto che guarda il soggetto. Questa distinzione provienedall’uso che facciamo della lingua naturale dove è la parolache possiede una direzione e non l’ascolto, e dove è losguardo a essere marcato e non il gesto o il segno guardato.

Abbiamo visto che allo sguardo corrisponde un anti-sguardo che vi risponde (§ 5.3.2.) e che alla parola corri-sponde uno sguardo e un ascolto che si inscrivono nellastessa direzione ma in senso opposto.

Lo spazio ex cathedra non conosce che due poli, quindiuna sola direzione. Nel senso che va dal soggetto versol’anti-soggetto, la direzione è quella della parola: il senso,che è quello della trasmissione dell’oggetto sapere, è fissa-to. Gli uditori non hanno il diritto di parlare, ascoltano.Tuttavia, l’ascolto in sé è insufficiente alla comprensione diun certo numero di messaggi, da cui la necessità per l’anti-soggetto di guardare. Il soggetto stesso non ha sovente bi-sogno di guardare i suoi destinatari. D’altronde, non po-trebbe nemmeno guardarli tutti: sono troppo numerosi.Solo la direzione dello sguardo dell’anti-soggetto è marca-ta, e se si vuole tenere conto della molteplicità degli udito-ri, bisognerà parlare della convergenza degli sguardi sulsoggetto. In quel caso è polo in senso stretto.

Per opposizione, la multipolarità dello spazio del semi-nario ci presenta schemi direzionali più complessi. La paro-la del soggetto si indirizza all’anti-soggetto nel suo insieme,ma abbiamo visto che Greimas sceglie persone a cui indiriz-

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za più precisamente il suo discorso. La direzione della suaparola raddoppia quella del suo sguardo, ed è questa con-giunzione che personalizza la comunicazione. Funziona allostesso modo per un buon numero di ospiti che Greimas in-vita a parlare, anche se essi hanno la tendenza a indirizzarsia Greimas stesso come anti-soggetto, e non agli astanti.Questa comunicazione privilegiata si esprime mediante lacongiunzione delle direzioni della parola e dello sguardo.Abbiamo anche visto che i membri del seminario possonoindirizzarsi gli uni agli altri, e che questa comunicazione(parola e sguardo) si indirizza anche a Greimas per interpo-sta persona; tutto ciò ci fornisce uno schema direzionale ri-flesso, nuovo in relazione agli schemi precedenti, poiché ildestinatario reale non è il destinatario apparente.

Tra queste direzioni, la sola marcata a livello di superfi-cie è quella che va dal soggetto verso l’anti-soggetto. Le al-tre, accessibili alla nostra osservazione e destinate ad altripoli, non sono inscritte nel sistema degli oggetti che serveda cornice al seminario.

5.5. Conclusione

Questo è uno studio limitato. Infatti ha preso come og-getto un fare istituzionale che possiede un luogo e un tempoprecisi. Si tratta dunque di un oggetto particolarmente sem-plice, i cui livelli dell’espressione e del contenuto sono facil-mente separabili, così come ciascuno di essi si presta moltobene all’analisi. Ciò che manca, a ogni modo, è una sintassiche si manifesta al contempo sul piano dell’espressione e del

LO SPAZIO DEL SEMINARIO

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contenuto. Essa è appena abbozzata. Una tale sintassi si rife-rirà a una semiotica generale dello spazio, che attualmente èlontana dall’essere elaborata. Bisogna anche tener conto delfatto che il nostro oggetto è troppo ridotto, troppo sempliceper permettere di sviluppare una sintassi generale.

Non è tutto: questa analisi mette in evidenza un fatto che,a nostra conoscenza, è interamente nuovo: è la stretta dipen-denza tra i livelli profondi dell’espressione e del contenuto.

Mentre il modello elaborato dal Gruppo 107 non met-teva in opera che l’opposizione sistema vs. processo, noiabbiamo sentito il bisogno di distinguere, per articolarequesta analisi, i livelli di profondità e di superficie all’inter-no stesso del sistema. Fatta questa distinzione, potevamovedere ciò che era soggiacente al modello della “semioticadello spazio” del Gruppo 107 e che è rimasto implicito: itopoi sono unità che permettono di raggiungere la struttu-ra profonda dell’espressione e di metterla in diretto rap-porto con la struttura profonda del contenuto. Quest’ulti-ma assume allora le apparenze di un programma narrativo.Questo punto di vista è nuovo nella teoria dell’architettura.Se la nozione di “fare” appariva già come una generalizza-zione della nozione di “funzione”, l’articolazione del farein programma narrativo apre orizzonti insperati. Prenden-do in considerazione lo spazio che articola le mancanze e iprogrammi che le riparano, la semiotica potrà servire all’e-laborazione dell’architettura.

Infine, bisognerà spingere le nostre ricerche al di là diquesto studio e tentare di vedere ciò che, in una semioticaspaziale, corrisponde agli enunciati di stato trasformati daglienunciati di fare che ora siamo in grado di percepire. Tuttociò resta da fare.

1 Apparso in «Communication», 27, 1977, pubblicato in collaborazionecon Sylvie Arango, Eric Kuyper, Émile Poppe.

2 Nello spazio ex cathedra, l’entrata del “soggetto” è ancora più marcata: ilprofessore entra ed esce da una porta speciale posta vicino alla lavagna. L’anfi-teatro è quindi un doppio vicolo cieco, sia per il soggetto sia per l’anti-soggetto.

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Capitolo sestoLa promessa del vetro1

Saneya non perdeva nessuna occasione per venire a vedere,attraverso gli interstizi della moucharabieh, ciò che accadevanel caffè. Dopo la partenza di Mohsen per Damanhour, lei vipassava anche la maggior parte della sua giornata.Ora, lei non era mai riuscita a ottenere lo sguardo di Mostafa.(…) dopo corse alla finestra per respirare un po’ e rinfrescareil suo viso scarlatto (…). Ma non appena il suo viso si fu po-sato sul caffè, vide Mostafa che sembrava aspettare l’appari-zione di qualcuno alla finestra (…) sorpreso inizialmente, poiinteressato, il giovane uomo aveva alzato gli occhi e, improv-visamente, i loro sguardi si erano incontrati…2

Mettendo da parte l’aspetto orientale del racconto, esami-niamo gli eventi che riporta. In una prima sequenza, la ragaz-za guarda, sperando di essere guardata. Nell’ultimo passag-gio, la sua apparizione sembra attesa, gli sguardi si incrocia-no, e qualche cosa accade. Questi frammenti di racconto cheabbiamo giustapposto mettono in scena dei possibili casi difigura di quel che potremmo chiamare genericamente con-giunzione visiva. Vi si nota che la congiunzione tra un sogget-to osservatore e un oggetto guardato è valorizzata solo nelmomento in cui una relazione di desiderio – non è necessarioche sia simmetrica o positiva – esiste tra i due. Nell’indiffe-renza, il guardante non percepisce nemmeno di vedere tale otal’altra cosa in particolare, e la sua attività visiva si fonde inun continuum relativamente desemantizzato. Quanto alguardato, non è cosciente del suo stato, e non vi dà alcunaimportanza, se non quando attribuisce un valore positivo onegativo alla persona che lo guarda.

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Il riconoscimento del desiderio come condizione neces-saria alla valorizzazione della congiunzione visiva ci per-mette di riconoscere altre possibili situazioni: la vista causaun dispiacere, si gioisce a vedere senza essere visti, si èscontenti di essere visti… Inscritta in queste differenti pos-sibilità, una parete di vetro che separa il guardante dalguardato modifica la situazione e introduce particolari ef-fetti di senso.

Per una situazione simile a quella del racconto citato,non è necessario che la finestra sia fornita di vetro, si po-trebbe benissimo riposizionare questa scena in una loggiafiorentina o in una villa del nord dalle finestre ornate datendaggi. Comparabile sotto certi aspetti al velo o alla mou-charabieh, il vetro installa una dissimmetria in una situazio-ne che sarebbe altrimenti simmetrica. Infatti, in assenza dischermo più o meno trasparente tra il guardante e il guar-dato, la relazione sarebbe fisicamente reversibile.

Consideriamola nella sua reversibilità prima di esamina-re gli effetti introdotti dalla dissimmetria. Ciò che è presup-posto dalla situazione di Saneya e Mostafa è che sono situatiin due differenti luoghi tra i quali passa una frontiera. Unasimile frontiera può non essere materialmente marcata epertanto risultare dalla distanza che impedisce una con-giunzione più diretta, come può essere manifestata da de-viazioni, corridoi o scale che avrebbero eliminato la visionesull’oggetto desiderato. La frontiera può anche derivaredalla presenza di un gruppo sociale che disapprova la con-giunzione fisica, ammettendo che la congiunzione visiva siatollerata o passi come non percepita.

La situazione iniziale, in cui avevamo solo tre termini –Saneya, Mostafa e la finestra – si rivela quindi più comples-sa: da una parte, c’è un raddoppiamento delle istanze uma-ne per l’apparizione dei luoghi di inserzione, che implicaalmeno due spazi separati da una frontiera; d’altra parte sivede apparire un’istanza antropomorfa terza, che apportaun giudizio sulla congiunzione possibile tra i due protago-nisti iniziali. Si possono sistemare questi termini in duetriadi messe in corrispondenza:

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i) una triade antropomorfa, rappresentata in questo ca-so da Saneya, Mostafa e il gruppo sociale circondante;

ii) una triade spaziale, composta da un interno, unesterno e una parete divisoria con un’apertura che può ri-cevere diversi trattamenti.

Disegnato il quadro minimo della nostra investigazione,la parete in vetro prenderà posto in questo contesto. Leplacche di vetro interposte l’una accanto all’altra dal fab-bricante sono interessanti nella misura in cui qualcuno po-trà metterle in opera in uno spazio socializzato. Le situa-zioni in cui il posto di una delle due persone è occupato daun oggetto (come un’incisione o una scultura…) o da unfenomeno naturale (il vento, la pioggia, il sole…) non sonoche una semplificazione del caso generale, e non sussisteche un solo punto di vista, nel senso proprio e figurato diquesta espressione.

Riprendiamo il caso della finestra e consideriamo il mu-ro in cui essa è aperta. In uno spazio sociale, il muro riem-pie due funzioni essenziali: impedisce a qualcun altro di en-trare e impedisce di guardare. In altri termini, veicola l’in-terdizione di due varietà di congiunzione: una congiunzionevisiva di natura cognitiva, e una congiunzione somatica, si-tuata sulla dimensione pragmatica. Inscritte in una logica si-mile, le porte sono aperture otturabili scavate nel muro al fi-ne di lasciar entrare e uscire le persone e le cose; le finestresono aperture otturabili destinate a lasciar passare certe ca-tegorie di cose (l’aria, la luce) e che interdicono normalmen-te l’ingresso alle persone. Un muro non bucato da apertureequivarrà a un solido pieno impenetrabile: diventerà impos-sibile sapere direttamente ciò che c’è dietro, a meno di nonpraticare un’apertura e di far penetrare una sonda che ri-porti un’informazione mediatizzata. In quest’ultimo caso, sisarà condotto un passaggio adattato a un soggetto informa-tore delegato, secondo la procedura generale della strumen-tazione scientifica. Al contrario, l’assenza totale di muroporrà i protagonisti in una situazione indeterminata, doveogni congiunzione diverrà possibile, a meno che altri attorisociali non vi mettano qualche forma di muro. Tra questi

LA PROMESSA DEL VETRO

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due poli estremi del muro impenetrabile e dell’assenza dimuro, i muri ammobiliati e dotati di aperture offrono un’in-finita varietà, quella di cui la manipolazione ha motivatol’ingegnosità dei costruttori e di cui l’analisi offre qualcheinteresse. Insomma, solo il superamento condizionale dellefrontiere è interessante.

Supponiamo di essere in un caso in cui non ci sianomuri. Si può porre questa ipotesi localmente, visto che an-che il deserto offre i suoi accidenti di terreno a chi vuolevedere, farsi vedere, nascondersi… Per fissare le idee,prendiamo uno spazio relativamente vasto e contenentemolta gente, il foyer di una sala di spettacoli al momentodell’intervallo. Gruppi di conoscenti si costituiscono, e siformano circoli per chiacchierare. Le buone maniere impe-discono, alle persone isolate che circolano, di attraversaretali circoli. I corpi in fila formano un muro, con la conver-genza degli sguardi a marcare un interno di un territorioprivatizzato e la fila delle schiene a marcarne l’esterno. So-lo le persone conosciute da uno o più membri di un circolosono ammesse in seno a esso, il quale si ingrandisce per farposto ai nuovi arrivati. Ritroviamo così, senza nessun’altraiscrizione materiale di quella dei corpi delle persone pre-senti, i costituenti della situazione che abbiamo esaminatoin precedenza: uno spazio interno, uno spazio esterno, per-sone dentro e altre fuori, una frontiera il cui varco è sotto-posto ad alcune condizioni.

Ciò che è rivelatore in quest’ultimo esempio è che ilcontrollo è esercitato da un gruppo che traccia frontiere,per quanto effimere. Le frontiere durature sono costruiteda gruppi che delegano a un dispositivo stabile una partedei compiti di controllo, ottenendo il permesso di dedica-re il proprio tempo ad altre attività. È sufficiente allora li-mitare lo spazio del passaggio affinché le operazioni dicontrollo siano limitate. Di conseguenza, le frontiere ma-teriali non sono altro che dispositivi investiti di funzioniche sono loro delegate da soggetti attivi: agiscono a lorovolta come soggetti delegati. A questo titolo, il muro pie-no impedisce il passaggio: lo fa a nome di qualcuno, al suo

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posto. Il muro non è un ostacolo naturale, ma un oggettosociale inscritto in uno spazio sociale, e più particolarmen-te tra un attore che ne è il padrone e altri attori che posso-no presentarvisi davanti.

Potremmo argomentare che il muro protegge dal ventoe dal freddo. Ciò è esatto, ma il vento e il freddo non sonoaltro che attori indesiderabili in grado di aggredire il pa-drone di casa. La loro designazione attraverso termini dellalingua non fa che tradurre l’identificazione sociale che liisola dall’ambiente indifferenziato, così come essa reperi-sce le loro sfere d’azione desiderabili o indesiderabili. Il lo-ro accesso è controllato dal dispositivo del muro ammobi-liato, allo stesso titolo di quello degli attori umani.

Il controllo delegato agli oggetti dipende dalle qualitàrelative dell’attore di cui l’accesso è controllato e di quel-le del materiale delegato al controllo. A titolo di esempio,una griglia destinata a impedire il passaggio dei bambinideve avere barre più strette di una griglia che interdica ilpassaggio di adulti. Un vestito invernale deve essere tes-suto in modo fitto per interdire il passaggio del ventofreddo. Uno specchio deve avere maglie di dimensioni in-feriori al quarto della lunghezza d’onda delle radiazioniriflesse, con la possibilità di fare maglie di parecchi deci-metri di lato per gli specchi riflettenti onde radio. Taliesempi illustrano casi di interdizione selettiva. Si possonofornire altri esempi per l’autorizzazione selettiva: unaporta deve essere abbastanza larga per far passare un uo-mo con un carico, un vestito deve essere abbastanza leg-gero per lasciar passare l’aria attraverso le sue maglie purproteggendo il corpo dal sole o dagli sguardi, e un vetro aspecchio deve lasciar vedere da una parte continuando ariflettere la luce dall’altra.

Ci importa, dal punto di vista del passaggio condiziona-le, di esplicitare questa nozione di base: un oggetto nonpossiede delle qualità in sé, ma di fronte a un altro oggetto.Per questa ragione si sceglieranno elementi che materializ-zeranno una frontiera in funzione delle entità che possonopassarvi attraverso.

LA PROMESSA DEL VETRO

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Cosa fa una parete di vetro? In primo luogo, e allostesso titolo di altri materiali, essa permette a colui che lapone di realizzare un certo numero di atti di controllo. Difronte agli agenti atmosferici, essa è impermeabile, quasiinalterabile; interdice l’accesso del vento e delle polveri,lascia entrare i raggi solari. A questo proposito, essa è se-lettiva poiché se è vero che lascia entrare la maggior partedell’irrag-giamento, impedisce l’uscita dell’irraggiamentoinfrarosso, da cui l’apparizione dell’effetto serra.

A partire da questo inventario parziale, possiamo de-durre che il controllo si esercita sui due registri del per-messo e dell’interdetto. A faccia a faccia con l’uomo, laparete di vetro impone dei comportamenti: a meno dinon romperla, essa impone a colui che desidera raggiun-gere l’altro lato di fare un giro intorno e di passare attra-verso un’altra apertura e un altro controllo. Come nel ca-so del foyer del teatro, dove le buone maniere impongo-no di non attraversare un circolo in conversazione, è lapreservazione del contratto sociale e l’evitamento del-l’aggressione che impongono di non rompere il vetro.Questo ritorna a dirci che non è il vetro a imporre alcun-ché, ma è la convenzione sociale. Rimane tuttavia chel’interdetto sociale è stato inscritto nel vetro, e che il ve-tro in genere ne mantiene memoria in qualche modo. Aquesto titolo, il vetro enuncia al posto di entità socialiche sono installate in quel luogo: realizza, tramite delega,atti di comunicazione comparabili in ogni punto ad attidi linguaggio.

Se, da un punto di vista antropomorfo, la parete in ve-tro enuncia di fronte a colui che vi si avvicina l’interdizio-ne alla congiunzione somatica e l’autorizzazione alla con-giunzione visiva, essa è, per colui che l’ha installata, in unasituazione differente: gli deve un servizio, quello di com-piere il suo ruolo. In virtù di quest’obbligo dovuto dallecose il padrone di casa può assentarsi, delegando alle cosela preoccupazione di annunciare l’interdetto e di farlo ri-spettare. Allo stesso titolo di altri materiali installati alcontrollo delle frontiere regolate, la parete di vetro deve

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un servizio. La costanza delle cose, e la loro assenza di vo-lontà propria, fa sì che si possa contare su di esse: conti-nueranno a fare ciò a cui le si destina, a meno che non cisia un errore di concezione o di programmazione. In altritermini, potremmo dire che colui che installa un dispositi-vo di controllo di una frontiera promette a se stesso chequesto dispositivo funzionerà, e questa promessa si trovainscritta nel duro: in ciò che è stato pianificato.

Tuttavia c’è dell’altro. In alcune circostanze, infatti, laparete di vetro veicola altre promesse, transitive e non ri-flessive. In un aeroporto, si può vedere spesso il seguentedispositivo: le persone venute a ricevere i viaggiatori all’ar-rivo, possono percepirli nell’atto di compiere un certo nu-mero di formalità (controllo dei passaporti, recupero deibagagli) prima della loro uscita dalla zona “sotto dogana”.In questi istanti, la parete di vetro realizza più di una sepa-razione somatica delle persone pur permettendo la lorocongiunzione visiva: la parete annuncia la loro prossimacongiunzione somatica, e questa è quasi una promessa.Una situazione simile è riservata al viaggiatore prima dellapartenza: dalla sala d’imbarco, può spesso vedere l’aereoche prenderà di lì a qualche minuto, e in questo contattovisivo c’è la promessa della congiunzione somatica differi-ta. In fin dei conti, la vetrina di un negozio non funzionadiversamente: se in un primo tempo essa autorizza solo lacongiunzione visiva e interdice quella somatica, essa pro-mette quest’ultima se l’atto di scambio commerciale è rea-lizzato conformemente all’uso. La promessa è quindi con-dizionale, come il passaggio attraverso l’apertura che per-mette di aggirare la vetrina.

Simmetricamente alle vere e proprie promesse, esistonopromesse negative inscritte in una parete di vetro. Il casodella vetrina è eloquente: l’atto di rompere il vetro esponeil suo autore a punizioni variabili. In un museo, il valoredegli oggetti induce a completare il vetro con un sistema diallarme, e il non rispetto del divieto posto dal vetro implicadelle conseguenze. Così, il vetro veicola una minaccia che èstata inscritta, e la minaccia non si distingue dalla promessa

LA PROMESSA DEL VETRO

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se non dalla valorizzazione dell’oggetto di cui è gratificatoil destinatario: positiva nel caso della promessa, negativaper la minaccia. La rottura del vetro permette forse l’acces-so immediato all’oggetto positivo che è stato posto sottoprotezione, ma implica a breve termine la congiunzionecon oggetti indesiderabili, o addirittura la privazione del-l’oggetto più desiderabile che ci sia, la libertà.

Potremmo moltiplicare gli esempi, e inventariare diver-si casi possibili. La ricchezza dell’osservabile è considere-vole, e ci condurrebbe a considerare casi ben più complessidi quelli finora brevemente evocati. Dobbiamo però abbre-viare l’esposizione, anche se saremmo tentati di ritornarealle strategie di una coppia come quella di Saneya e Mosta-fa installati da parte a parte di un vetro. Infatti, la luce nonpassa mai interamente attraverso un vetro, e i fenomeni diriflessione e di passaggio dipendono dal grado di illumina-zione relativo ai luoghi separati dalla parete in vetro. Lanotte e il giorno spingono a far adottare differenti strategiedi visibilità, allo stesso modo in cui l’illuminazione permet-te di sovradeterminare l’aspetto degli oggetti esposti in unavetrina e la loro relazione al soggetto osservatore. Ci accon-tenteremo di aver mostrato che la dissimmetria creata dallaparete in vetro si inscrive sulla dimensione del senso altret-tanto bene che sulla dimensione fisica. Agli atti di comuni-cazione di interdizione e di autorizzazione, essa aggiungequelli della promessa e della minaccia. Resta inteso che es-sa non pronuncia da sé questi atti e che essa non fa che vei-colarli in un universo dotato di senso, dove la comunica-zione tra gli uomini passa attraverso le cose oltre che attra-verso la parole, se non di più.

1 Apparso in «Traverses», n. 46, 1988.2 Estratto da ’Awdat ar-ruh (L’anima ritrovata), di Tewfik el Hakim, 1927.

Citato in À travers le mur, Depaule 1985.

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Capitolo settimoLa privatizzazione dello spazio1

7.1. Osservazioni preliminari

Per un certo numero di scienziati praticanti disciplinelontane come la fisica e la linguistica, lo spazio non è cheuna delle condizioni necessarie all’esistenza delle cose e allarealizzazione dell’azione: è un “circostante” allo stesso tito-lo del tempo. Per i geografi, gli urbanisti, gli architetti e gliscultori, lo spazio è una materia prima che viene lavorata invista della sua trasformazione: esiste in sé, nella misura incui si può descriverla, modellarla, appropriarsene. Per altrispecialisti come i militari, i registi e gli antropologi, lo spa-zio gioca almeno due ruoli: da una parte, è un oggetto-finedi cui la padronanza è una fondamentale posta in gioco;d’altra parte è un oggetto-mezzo il cui possesso assicura lacapacità di portare a termine ulteriori programmi d’azione.

Se ci si interessa alle manifestazioni di senso nel mondoquotidiano, bisogna prendere in considerazione lo spaziocome mezzo di comunicazione e veicolo della significazio-ne: tutt’altro che semplice circostante, è un’espressione chepuò essere messa in scena per parlare d’altre cose che di sestessa. È a partire da un tale punto di vista che esaminere-mo i fenomeni analizzati in questo studio.

Partiremo da una delle dimensioni delle questioni evo-cate: quella dell’appropriazione dello spazio, fondatricedell’assiologia del pubblico e del privato. Al fine di met-terla in evidenza, abbiamo optato per l’osservazione mi-nuziosa, a un livello qualificabile come micro-sociale, del-le strategie sviluppate da una o più persone desiderose di

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accedere in un luogo controllato da una o più persone di-verse. La posta in gioco è dunque l’accesso condizionatoa un luogo2.

Questo testo si inscrive in una serie di riflessioni fonda-te sull’osservazione delle interazioni che accadono nelmondo quotidiano. Il lavoro di tipo antropologico, sul ter-reno banale e familiare di ciò che ci circonda, ci ha fornitola prova che la ricchezza dell’osservazione oltrepassa, incomplessità e intrico, l’immaginario teorico di un buon nu-mero di teorici da camera che intendono pensare l’architet-tura. Infatti, è proprio l’architettura che ci preoccupa e chesi disegna in filigrana dietro queste analisi.

Nel corso dei nostri lavori precedenti, siamo arrivati aconcludere che l’architettura incomincia con la risoluzionedinamica della contraddizione seguente: dividere l’estensio-ne senza annullarne la continuità. Programma paradossalein quanto dividere implica rompere la continuità, quandoinvece si tratterebbe di non intaccarla. Esamineremo alcunicasi dove questo programma paradossale è realizzato graziea un’interazione sociale in cui gioca un ruolo decisivo lamanipolazione della consecuzione e della durata, elementicostitutivi del tempo.

Le divisioni dell’estensione non sono sempre materializ-zate: gli uomini investono di valore luoghi fisicamente nonseparati dal resto. A questi è sufficiente dire-significare-esprimere ciò che noi potremmo tradurre verbalmente con“qui, è mio” (o con “là, è tuo”, “suo”…). Il riconoscimentodi tali processi richiama le osservazioni di Hall (1959;1966) e i lavori della prossemica. Riconosciamo in questascuola americana dei preziosi precursori. Il programma checi prefiggiamo è quello di proseguire il loro approccio e diriprenderne i concetti aventi un valore sufficientemente ge-neralizzabile per essere applicabili ad altri materiali. È cosìche il metodo semiotico, e specialmente la sua versione di-namica3 tale quale è stata sviluppata da Greimas, risultadeterminante: essa rende possibile la generalizzazione dellasomma delle osservazioni prossemiche e l’estrazione di re-golarità formali applicabili a una moltitudine di casi. In

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particolare, il modello formale che elaboreremo in questasede a partire dai comportamenti pragmatici nello spaziorisulta adeguato per descrivere l’articolazione dell’assiolo-gia del pubblico e del privato sulla dimensione cognitiva.

7.2. Il contesto sperimentale di una ricerca-azione

I dati sfruttati nella prima parte di questa analisi sonostati raccolti nel quadro di un contesto di tipo universita-rio: il secondo congresso di semiotica architettonica, riuni-tosi nel convento di La Tourette a l’Arbresle (21-25 giu-gno 1982)4. In seno a questo edificio contemporaneo, do-vuto all’architetto Le Corbusier, si trova solo una piccolacomunità religiosa che ha aperto le proprie porte a incon-tri intellettuali.

Il congresso metteva in presenza due entità poco adattel’una all’altra: da una parte, una architettura concepita peruna comunità sottomessa a regole, che impone condizioni“inscritte nel duro” (cemento, acciaio, vetro, legno); d’altraparte, un gruppo internazionale composto per la maggiorparte d’architetti e da studenti di architettura, poco prepa-rati a una tale regola, ma ricettivi alle qualità plastiche del-l’architettura.

Nel quadro del congresso, noi avevamo la responsabilitàdi un atelier di formazione. Invece di dispensare un inse-gnamento ex cathedra, abbiamo proposto al piccolo grup-po dell’atelier di condurre una ricerca-azione nei limiti spa-zio-temporali dell’incontro. Il fine della ricerca era quello diesplorare la dimensione rituale delle interazioni quotidianenei luoghi disponibili. La proposta fu negoziata, accettata,poi modellata in corso di ricerca nel quadro di una dinami-ca di gruppo che meriterebbe in se stessa un’analisi. Sonostati resi operativi cinque tipi d’esperimento relativi alla pa-dronanza dello spazio. Quattro di questi riguardano diretta-mente la relazione tra un soggetto e un luogo, il quinto met-te in gioco configurazioni di luoghi5. Prima di proporne l’a-nalisi, li descriveremo in modo succinto.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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Il seguito del capitolo generalizzerà i risultati ottenuti aLa Tourette, facendo appello ad altri esempi secondo le ne-cessità dell’esposizione.

7.3. Negoziazioni territoriali

7.3.1. Farsi ammettere nella “cella” di qualcunoNumerose esperienze di questo tipo sono state fatte sul-

le celle del convento, con qualche variazione attorno al se-guente schema di base: il visitatore non invitato (lo annote-remo con A1) segnala la sua presenza, esprime il suo desi-derio di entrare, entra. Nota l’attitudine del padrone delluogo (A2) e il suo comportamento spaziale.

I racconti delle visite, relazionati nel quadro del semina-rio, sono stati notati in seguito a ricostituzione e discussio-ne. In molti casi abbiamo registrato il sunto sintetico deiracconti di diversi attori. In almeno un caso abbiamo avutola versione di A1 e quella di A2.

7.3.1.1. A1 passa davanti a una cella (che noteremo co-me A3) con la porta aperta. Inizia una conversazione:“Come vivi nella tua cella?”. A2 lo fa entrare, ma lo con-duce direttamente sul balcone (B) con il pretesto di mo-strargli uno scomparto quadrato presente nel muro. Laconversazione continua sul balcone, le due persone guar-dano il paesaggio. Parlano poco della cella. A2 sostiene ditrovarsi piuttosto male in questo spazio stretto, troppostretto perfino per un breve soggiorno. Le due personeescono: era l’ora di andare a sentire una conferenza delcongresso. Sul tragitto dell’uscita, scambiano commenti aproposito dei muri all’interno delle celle: sono grezzi enon ci si può appoggiare.

7.3.1.2. Due persone (nel ruolo di A1) che non alloggia-no al convento chiedono a qualcuno in possesso di una cel-la di fargliela visitare. A2 fa loro attraversare la cella fino albalcone. Chiacchierata sul paesaggio e osservazioni a pro-

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posito della porta che conduce dalla cella A3 al balcone B esulla maniglia che ne permette la chiusura. Uscita rapida,in fila indiana.

7.3.1.3. Tre persone (nel ruolo di A1) bussano a unaporta e chiedono di far visita. A2 ha l’aria imbarazzata, itre visitatori anche. Uno dei visitatori (A1-1) dice che la lo-ro visita è una provocazione ed entra. Queste parole ap-paiono come un motivo accettabile6 e tutti seguono. A1-1 sisiede sull’unica sedia e invita tutti ad accomodarsi, purnon trovandosi nella sua stanza. Gli altri visitatori si siedo-no. A2 resta un momento in piedi prima di imitare gli altri.Chiacchiericcio. Uscita del gruppo A1. A2 resta sul posto,lasciando la porta aperta. Abbandonerà la sua cella tre oquattro minuti dopo.

7.3.1.4. Racconto riportato da A2: scendendo dal tetto,alla fine della visita del convento, La signorina N.G. dice“Mi piacerebbe vedere una cella”. Non la prendo per unarichiesta e torno in camera mia. Bruscamente, una flotta dipersone entra da me. Fanno un giro. N. fa capire agli altridi avere qualcosa da dirmi. Gli altri escono. Un problemasorge: dove sedersi? N. ha trovato una tavola-biblioteca evi si appoggia sopra. Io, ospite maschile, le propongo di se-dersi sul letto. N. resta a lato della tavola-biblioteca. Nonvolevo prenderle la sedia situata dietro la scrivania. N. sisiede ai piedi del letto. Tra il letto e la tavola c’è molta pocadistanza. Quando ho creduto terminata la visita, mi sonoalzato, sono andato verso la porta e ho aperto.

7.3.1.5. Racconto di A2: alla fine della visita al con-vento, ho visto una ragazza. Inizia una breve conversa-zione. Mi chiede se abito qui e se può vedere la mia cella.Apro la mia porta. Sono grosso, e le celle sono piccole:vado a sbattere ovunque. Lei rientra. Rimaniamo in si-lenzio per due o tre minuti. Che ne pensi di questa vista?È bella… Avrei voluto restasse, ma non sapevo da dovecominciare. Offrirle di sedersi sul letto o su una sedia?

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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Lei si è appoggiata al muro, io a quello opposto. Avendoio grandi piedi eravamo vicini. Credi che io sia fatto perqueste celle? Non credo, ma è divertente. Il cemento è bel-lo… Era ora. Non sapevo come dirle di andare via. Si eraintegrata nel mio ambiente. Ho aperto la porta. Mi sonofatto dei problemi. Ho detto: bisogna andare, tutte le cosebuone hanno un termine.

Osservazioni:- per quanto possibile, l’analisi ha cercato di non attar-

darsi sulla “forma del racconto” degli eventi ma di riferirsidirettamente a questi ultimi. Cosa, questa, che non finiscedi porre dei problemi.

- Tutte queste visite hanno avuto per scopo dichiaratodi visitare una cella. Non si trattava di una visita di cortesiada persona a persona, come avrebbe potuto essere il casose le persone si fossero conosciute e se abitassero questiluoghi per una durata più lunga.

- Le visite 7.3.1.3.-1.5. si sono svolte nello spazio dellacella. In tutte si riscontra un certo imbarazzo e un pro-blema legato al sedersi anche se in qualcuna c’era mododi farlo.

- Le visite 7.3.1.1.-1.2. hanno avuto la forma di untransito verso il balcone. In questo caso, A2 offre al suo vi-sitatore uno spazio di riporto B al posto dello spazio A3 vi-sitato. È significativo che questa procedura non sia legataall’imbarazzo. Nei due casi, la conversazione è stata con-dotta sul paesaggio e su un elemento architettonico delbalcone B.

7.3.2. Estrarre qualcuno dalla propria cellaLe intrusioni operate per gli esperimenti di 7.3.1. pos-

sono essere interpretate come una de-possessione tempo-ranea del padrone dei luoghi: forzare l’entrata nel suospazio equivale a negare la padronanza di A2 sui suoi luo-ghi e a prenderene possesso per il tempo della visita. Iltutto non dura che qualche breve minuto. Tutt’altro fun-zionamento al momento di un’estrazione: due persone(che giocano il ruolo di A1) mettono gli occhi su di una

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terza (A2) che conoscono bene, per tentare di rubarle lacella. Redigono un messaggio cortese, firmato a nomedell’amministrazione (di cui il rappresentante è statopreavvertito), domandando ad A2 di fare i bagagli e diinstallarsi nel dormitorio di un altro edificio (il CentroSan Domenico), con il pretesto di far alloggiare nella suacella un conferenziere appena arrivato al congresso. Ilmessaggio è piegato e infilato nel buco della serratura.Dopo il pasto, uno dei complici (A1-1) passa davanti allacamera di A2. La porta è aperta, A2 è sull’ingresso e staleggendo il messaggio. Esce, saluta, rientra nella suastanza, consulta il suo dizionario senza prendersi la brigadi sedersi7, esce, chiede “Dov’è il Centro San Domeni-co?”. Contemporaneamente, presenta il messaggio a A1-1per farglielo leggere. A1-1 legge il messaggio, e suggeriscead A2 di andare al Centro San Domenico, proponendosiai aiutarlo nel trasloco. A2 rifiuta l’offerta: può arrangiar-si a traslocare.

Giunge il secondo complice (A1-2). A2 gli tende il pezzodi carta da leggere (A2 rifarà questo gesto tre volte, con al-tre persone). A1-2 dice: “Stanno esagerando”. A2 : “Eh sì,perché proprio io?”. A1-2 : “Vai a beccare R.M. (= rappresen-tante dell’amministrazione del congresso)”.

Uscendo dalla camera, i complici si danno da fare perfar passare A2 davanti a un’altra cella, trovata in preceden-za, vuota e lasciata volutamente aperta. Tutti vi entrano.Esame delle soluzioni di riserva. All’uscita, A2 chiude que-sta seconda cella a chiave e la conserva. Mostrava segni diimbarazzo, ma non di emozione.

Arrivato da R.M., A2 gli consegna il foglio, sempre sen-za commentare. R.M. dice che c’è forse la possibilità di si-stemare le cose con il conferenziere P.F. cui la cella è statadestinata. Sempre accompagnato da A1, A2 va fino alla saladella conferenza. A1 indica P.F. ad A2, dicendogli di andar-gli incontro. A2 resta immobile, quasi paralizzato: si sentivaabbandonato.

A1: “Vuoi che venga con te?”. A2: “Sì”.A2 passa il primo fino a raggiungere A2, cui tende il fo-

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glietto. Essendo P.F. seduto, A2 si sistema accanto a lui.P.F. legge il biglietto, non comprende poiché non conoscené il contesto, né la macchinazione. Chiede spiegazioni. A2s’imbroglia, aggiungendo la storia della cella vuota di cuiha preso la chiave. Ora, P.F. è già sistemato. Quando com-prende il sedicente problema, dichiara di avere già unastanza che lo soddisfa, quindi A2 può mantenere la suacella. A2 se ne esce rassicurato.

A quel punto i complici gli svelano tutto. Risate. La seravanno in giro per Lione con il loro amico-vittima.

Osservazioni:- il tentativo di togliergli la cella è compiuto a nome del-

l’autorità amministrativa (detentrice del potere) per dare lacella a un conferenziere (scala del sapere).

- A2 ha già una camera; la conosceva da sole 48 ore enon doveva restarvi che altri tre giorni.

- A2 non parla di ciò che gli succede: tende il foglio cheha ricevuto. Il gesto è ripetuto quattro volte. La procedurapotrebbe avere due tipi di spiegazione (non esclusivi): per-mettergli di non perdere la faccia raccontando la sua disav-ventura; informare gli altri allo stesso modo in cui lui è sta-to informato.

- A2 compie le sue ricerche cortesemente e senza eccessi.In più, al momento di rivolgersi a P.F., seduto, si inginoc-chia accanto a lui per non dare l’impressione di dominarlo.

7.3.3. Spostare un gruppo dalla tavola al refettorioGià dal secondo giorno, i nostri osservatori che erano a

contatto coi fenomeni spaziali avevano notato che in refet-torio c’era una certa stabilità dei posti scelti da alcuni. Inparticolare, l’organizzatore del congresso sedeva sempre al-lo stesso tavolo, in compagnia del priore, di altre personedell’amministrazione e del gruppo dei conferenzieri invita-ti. Questa tavolata era stata ben presto battezzata “tavoladel potere”. Il suo impianto topografico era stato analizza-to (angolo, vicino alle cucine), così come i suoi possibilivantaggi (prossimità del telefono, del microfono, possibi-lità di vedere tutta la sala con un solo colpo d’occhio).

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Fu deciso di procedere ad alcune manipolazioni perverificare la stabilità di questo stato di cose: la tavolatadetta “del potere” fu occupata dai membri del seminario;le due tavole adiacenti che possono, grazie al loro impian-to topografico, offrire gli stessi vantaggi, furono ugual-mente occupate. Poiché il seminario contava solo una ven-tina di partecipanti, furono chiamati degli amici per occu-pare queste tavole.

L’ipotesi di base per quest’esperimento è doppia:i) in una grande sala dove si trovano una dozzina di ta-

voli su due file, la disposizione di essi in funzione della for-ma della sala e dei suoi accessi è investita semanticamente;

ii) l’investimento semantico degli spazi topografici èstabile dentro una cultura data. Ciò era stato verificatodurante ben quattro pasti prima dell’intervento: certe ca-tegorie di persone avevano l’abitudine di occupare certiluoghi.

La manipolazione verteva su due punti:i) l’occupazione della tavola sposta i suoi occupanti

“abituali”. Il loro “diritto” consuetudinario è quindi ri-messo in causa;

ii) se gli occupanti abituali non reclamano il loro “dirit-to”, quale(i) nuovo(i) accomodamento(i) sceglieranno econ quale investimento semantico?

Dall’apertura del refettorio, le tre tavole prese di mirafurono occupate. Tra gli “abituali”, le persone arrivateper prime fecero un semi-giro vedendo la tavola occupa-ta e andarono lentamente verso il mobile dove si trovava-no i tovaglioli. Mimarono la ricerca di qualcosa per na-scondere il proprio imbarazzo. Quando arrivò l’organiz-zatore, percepì il tavolo occupato da lontano e scelse ra-pidamente una tavola vuota di cui la sistemazione nonaveva nulla di speciale. Fu raggiunto dagli “abitudinari”che aspettavano presso il mobile. Il priore arrivò pocodopo. Vedendo le tavole occupate, si mise a errare per lasala. Il ritmo del suo incedere era modificato: più lentodel solito. Dopo qualche minuto, ritornò alla sua tavolaabituale: rimaneva una sedia non occupata. Tuttavia un

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pullover era stato appoggiato sulla sedia per segnalareche era stata “occupata”. Malgrado questo pullover, no-nostante le sedia volgesse le spalle alla sala, il priore chie-se se poteva mettersi lì. Malgrado l’imbarazzo, gli occu-panti, decisi a portare fino in fondo il loro esperimento,dissero che la sedia era già occupata. Il priore s’allon-tanò, accese una sigaretta, vagò ancora. Era visibilmenteturbato. Quando passò vicino alla tavola su cui s’era in-stallato l’organizzatore, subito raggiunto da alcuni “abi-tudinari”, il priore si vide offrire una sedia. La rifiutò.Finì per installarsi a un’altra tavola, particolare nel sensoche era contigua alla porta d’entrata. Scelse una sediache gli permise di vedere la sala.

Il turbamento introdotto ebbe un seguito inatteso: ilgiorno seguente la “tavola del potere” fu occupata da unaltro gruppo non al corrente della manipolazione dellavigilia. Questo fenomeno non si era prodotto i giorniprecedenti, in cui questa tavola rimaneva vuota fino al-l’arrivo degli occupanti abituali. Questo cambiamento te-stimonia che la perturbazione sperimentale era stata per-cepita da persone non complici, e che ha avuto per risul-tato di rompere il legame di quasi proprietà tra gli “abi-tudinari” e il loro tavolo.

Nel corso dei pasti successivi, gli “abitudinari” si ritro-varono assieme (qualche volta senza il priore) in diverse ta-vole: la loro relazione di gruppo si è ricostruita attraversogli spostamenti.

7.3.4. Spostare brevemente un gran numero di personenel refettorio

Il giorno successivo all’esperimento descritta in §7.3.3., dopo aver analizzato i risultati in seminario e do-po una pausa dalle manipolazioni per il pasto della sera,il seminario ha organizzato a pranzo un’occupazione fit-tizia della maggior parte delle sedie del refettorio: distri-buendosi a due o tre per tavolo, i membri del seminariohanno segnato le sedie o i piatti vuoti con effetti perso-nali o documenti, per segnalare che questi posti erano

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presi. Dato che il numero dei partecipanti al congressoera quasi uguale a quello delle sedie, l’occupazione fitti-zia delle sedie aveva come risultato l’esclusione di unatrentina di persone. Arrivando al refettorio, queste simettevano a girare alla ricerca di un posto. Dato che i se-gni d’occupazione erano numerosi (certi bicchieri addi-rittura riempiti di vino), le persone in cerca di un postonon si fermavano nemmeno per accertarsi dei posti libe-ri. Molto rapidamente, fu evidente che il refettorio erasovrappopolato, non tanto dalle persone sedute quantoda quelle in circolazione, lente e disordinate. C’era pa-recchia confusione.

Il priore, ancora una volta tolto al suo tavolo d’abitu-dine e seduto a un tavolo vicino, si inquietò parecchio.Abbandonò il suo posto per vedere dove stava il proble-ma. Contemporaneamente, la pressione sugli sperimen-tatori aumentava, mettendoli in imbarazzo. Sovente,quando un conoscente passava di là, con l’aria inquieta ealla ricerca di un posto, una sedia falsamente occupatagli veniva ceduta. Uno stagista che aveva intuito la mani-polazione della vigilia comprese il gioco in corso. Si ar-rabbiò. Lanciò un rabbioso “non sono una cavia” e preseuna sedia a un tavolo per andare a sedersi a un altro ta-volo con amici.

Quando la situazione si placò di lì a cinque minuti, eche ogni ombra di problema fu scacciata, uno degli spe-rimentatori, seduto vicino al priore, volle metterlo al cor-rente. Questo non comprese l’inizio delle spiegazioni.Quando cominciò a capire, si arrabbiò, si fermò, lanciòun “a ogni modo, quello che sta dicendo non mi interes-sa”. Durante il resto del pasto, chiacchierò con una terzapersona.

Le manipolazioni del refettorio forniscono qualche ri-sultato:

i) la territorialità si esprime in un luogo occupato ancheper un breve periodo, come il refettorio;

ii) l’iterazione del comportamento (riprendere lo stessotavolo) gioca un ruolo forte in questo tipo di territorialità;

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iii) Il gruppo di frequentazione (fondato sull’amicizia,la funzione, lo statuto…) funziona come un territorio mo-bile sul quale ci sono dei diritti;

iv) l’errare (prendere del tempo, occupare uno spaziosenza finalità precisa) è la prima manifestazione d’imbaraz-zo in un tale luogo;

v) ci sono possibili attività d’attesa: accendere una siga-retta, cercare un tovagliolo, chiacchierare…

vi) le marche d’occupazione di un territorio non sonotutte equivalenti. Esse si articolano in tre assi graduati (dalmeno al più forte):

- occupare una sedia / occupare un piatto;- libri e fogli / vestiti / bicchieri di vino / cibo;- pochi segni d’occupazione / molti segni d’occupazione;vii) togliere qualcuno da un posto che crede di possede-

re di diritto è interpretabile come un’aggressione. Non ca-ratterizzata, quest’aggressione suscita l’imbarazzo. L’aggre-dito esita sul comportamento da adottare: negare che ci siastata aggressione e, dopo un gesto di distensione, fare co-me se nulla fosse accaduto; o passare direttamente a unacontro-aggressione;

viii) la contro-aggressione (impossessarsi di una sedia,rifiutare la conversazione a tavola) si accompagna a uncommento esplicativo che la legittima (quando invece laprima aggressione non lo è stata).

7.3.5. Modifiche della sala delle conferenzeLa sala di conferenza del Centro San Domenico ha la

forma di una losanga con i vertici tronchi. La tribuna è si-tuata a una delle due estremità del grande asse. Durante ilcongresso, tutte le conferenze sono state fatte da questatribuna, sotto la forma ex cathedra (cfr. Hammad 1978a;cfr. anche cap. 4). L’ultimo giorno del congresso, era stataprevista una speciale seduta per la comunicazione all’in-sieme dei partecipanti dei lavori realizzati nel quadro deidifferenti seminari. Il nostro seminario, che aveva affron-tato nelle sue analisi la forma spaziale della comunicazio-ne in gruppo, si è proposto di modificare la disposizione

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delle sedie nella sala della conferenza, con un doppio fine:i) instaurare una comunicazione più egualitaria tra i

partecipanti, in luogo del dialogo tribuna-sala;ii) offrire all’insieme dei partecipanti un esempio degli

esperimenti ai quali ci siamo affidati con la loro collabora-zione involontaria.

Le sedie furono dunque disposte seguendo il contornodella sala, lasciando un buco nel centro. Il priore e l’orga-nizzatore del congresso erano stati preavvertiti che era incorso un esperimento. I partecipanti al congresso, nonpreavvisati, si distribuirono nella sala. Senza che alcunaconsegna sia stata effettuata, le persone che presero la pa-rola lo fecero a partire dal loro posto a sedere senza andareverso la tribuna. Gli scambi furono più numerosi del soli-to. Il cambiamento della disposizione del luogo, secondoun’opinione generale, aveva permesso un mutamento deirapporti interpersonali.

7.4. Prima analisi sintattica

7.4.1. Punto di vista dell’analisiGli esperimenti riportate sono molto ricche di elementi

di comunicazione, d’interazione e di riferimenti culturali.Non è pensabile in questa sede una loro analisi esaustiva.Ci accontenteremo di dimostrarne i meccanismi al fine diesplicitare certi elementi analitici che le rendono compara-bili. Nello stesso tempo, mostreremo che c’è una progres-sione nella complessità dei fenomeni interattivi e nell’am-piezza delle trasformazioni tentate.

Dal punto di vista della separazione tradizionale dellediscipline, si potrebbe dire che questi esperimenti si ri-fanno contemporaneamente all’architettura, all’antropo-logia, alla micro-sociologia e alla psicologia. Cercheremodi mettere tra parentesi queste distinzioni disciplinariper adottare un punto di vista unico: quello della signifi-cazione. Sono parecchi gli effetti di senso che proveremoa reperire e ad articolare.

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In un primo tempo faremo a meno del livello figurativo,per descrivere gli avvenimenti a un livello più astratto,quello della sintassi antropomorfa, conosciuto in semioticasotto la sigla di “livello superficiale”. Le differenti situazio-ni sono in questo livello descrivibili in termini di giunzioni(congiunzione vs. disgiunzione) tra istanze attanziali, e lemodificazioni delle situazioni sono riconducibili a trasfor-mazioni della giunzione (es.: far passare due attanti da unostato di congiunzione a uno di disgiunzione). In un secon-do tempo (§ 7.6.), abborderemo in dettaglio il fare trasfor-mazionale delle giunzioni.

7.4.2. Farsi ammettere nella cella di qualcunoSi tratta di imporre a qualcuno di condividere, sia pure

temporaneamente, il suo spazio “privato”. Egli resta con-giunto con il suo spazio, ma deve consentire la co-presenzadi una o più persone, cosa che può essere interpretata co-me una perdita: perdita del potere, perdita del controllosullo stato di giunzione. Sono quattro gli attanti in gioco:

A1 Il / gli attori8 visitatori-manipolatoriA2 Il padrone dei luoghi A2A3 Topos “privato” di A2, preso di mira da A1 (la cella)A4 Topos a partire dal quale si accede al topos A3 (il

corridoio)

L’entrata di A1 in A3 è la congiunzione auspicata. Sicompie sempre dopo un certo rituale: colpi sulla porta,conversazione attraverso una porta aperta, conversazioneprecedente che annuncia il desiderio di una visita. Comeprova contraria, si può supporre che se A1 entra in A3 sen-za rituale, tutto questo sarebbe percepito come una intru-sione ingiustificabile, cioè come una aggressione caratte-rizzata. Un tale esperimento non è stata tentata: le mani-polazioni sono rimaste entro certi limiti imposti dalle buo-ne maniere. Ogni volta le azioni commesse sono rimastenella zona flou del non prescritto e del non interdetto, per-mettendo così a A2 di non arrabbiarsi e di trovare unaonorevole via di scampo.

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In alcune delle sequenze riportate, vediamo apparireuna quinta istanza attanziale A5: per mettere alla porta ilsuo/i suoi visitatore/i (produrre la disgiunzione A3/A1), A2invoca gli orari del congresso, cosa che gli permette di evi-tare di sembrare aggressivo nei riguardi dell’intruso. Gliorari rinviano a un’istanza superiore astratta che potrem-mo nominare il congresso, capace di imporre dei doveri aA1 e A2 simultaneamente. In termini semiotici, occupereb-be la posizione di attante destinante comune.

Per l’entrata come per l’uscita, atti e parole intuitiva-mente identificati come rituali sono quelli che servono aneutralizzare il carattere potenzialmente aggressivo della tra-sformazione auspicata.

Il comportamento di A2 in A3 manifesta il fatto che lacella è divisibile in numerosi topoi9: A2 offre a A1 unaporzione di A3. La porzione che permette una visita senzaimbarazzo, è il balcone B. In effetti è un luogo quasiesterno alla cella, che ha un carattere pubblico. Questaformula offre il vantaggio di far attraversare al visitatoretutto lo spazio della cella, come ci ricorda lo schema dibase della visita nelle case giapponesi. Al momento in cuiA2 offre a A1 dei topoi interni, si crea dell’imbarazzo: illetto è un luogo quasi “sconveniente”, non c’è che una se-dia, i muri sono rugosi, le distanze sono minime… Tuttequeste ragioni si rapportano di fatto al carattere privativomarcato dei luoghi in questione (potremmo dire: il lorocarico semantico). Le regole sociali vogliono che non siriceva una semplice “conoscenza” nei propri luoghi pri-vati, riservati alle relazioni più intime.

7.4.3. Separare qualcuno dalla propria cellaIn aggiunta alle quattro posizioni attanziali ordinarie

della situazione precedente, vediamo riapparire una quintaistanza invocata dal visitatore-manipolatore A1 per legitti-mare la sua azione: si tratta dell’istanza amministrativa sup-posta regolare lo svolgimento degli eventi del congresso. Èpossibile riconoscere una manifestazione figurativa dell’i-stanza destinatrice superiore congresso.

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A1 Il visitatore-manipolatore, rappresentato qui da tre at-tori:- I complici A1-1 e A1-2 aspiranti alla disgiunzione A2/A3.- P.F., complice involontario, supposto congiungersicon A3.

A2 Il padrone dei luoghi (per cinque giorni).A3 La cella contesa. Due altri luoghi sono convocati per

giocare lo stesso ruolo attanziale: la cella vuota vicina, ildormitorio indicato.

A4 Questo ruolo attanziale è giocato da differenti luoghi co-me il corridoio, la segreteria, la sala delle conferenze…

A5 Il congresso, rappresentato dalla segreteria amministra-tiva, autorità che attribuisce i luoghi di residenza, nellapersona di R.M.

Il biglietto foriero del messaggio serve da mezzo checonsente di celare l’imbarazzo, sia quello dei manipolatoriA1 che sarebbero stati in spinose difficoltà a dover spiegareverbalmente la loro macchinazione, sia quello di A2, cheopta per questo mezzo al fine di mettere al corrente dellapropria situazione senza parlarne.

Infine, il fatto che P.F. sia già alloggiato permette a tuttol’esperimento un esito onorabile ri-semantizzato come far-sa. Questa ri-semantizzazione necessita tuttavia di un di-scorso esplicativo che neutralizzi una possibile contro-ag-gressione.

Lo svolgimento di quest’esperimento manifesta una simi-litudine sorprendente con la precedente: intimato di separar-si dal suo spazio privato e di congiungersi con un altro, A2non tarda a proporre una congiunzione tra quest’altra perso-na e una camera vicina, su cui si arroga un diritto chiudendo-la a chiave e prendendola con sé. Così facendo, estende il suodominio di cui potrà offrire la parte più pubblica, conservan-do quella più privata. Il trasferimento nel dormitorio gli sem-brava da escludere: offrendo una parte del suo territorio, ri-mane congiunto con l’altra che non abbandona tutto.

Malgrado le loro possibili somiglianze, questi due espe-rimenti differiscono per il fatto che nella prima A2 non è

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disgiunto da A3 pur congiungendo A1 e A3. È la cella vuotache permette di ricondurre la seconda situazione al casoprecedente.

7.4.4. Separare un gruppo dal proprio tavolo al refettorioQuesta resta una situazione a quattro attanti, essendo

tutte le posizioni occupate da numerosi attori simultanea-mente (fenomeno designato con il termine “attante colletti-vo” (Greimas, Courtés 1979, p. 59) nel metalinguaggio se-miotico). Un quinto attante (destinante) è implicato dalcomportamento del priore:A1 Gruppo degli sperimentatori-manipolatori,A2 Gruppo degli “abitudinari”,A3 Il tavolo privilegiato e i due tavoli adiacenti,A4 Il resto del refettorio,A5 Il convento come persona morale.

È stato fatto un passo ulteriore sulla scala dell’aggressi-vità: il topos A3 è occupato senza rituale di preavviso. Èperfino negato al priore (membro eminente del gruppo A2)che chiede di potersi sedere. Tuttavia, non essendo unospazio chiuso, per nulla marcato da iscrizioni di un qualchetipo (numero, etichetta, o qualunque oggetto) che rinviinoa una persona o a un gruppo dato10, il tavolo non può esse-re reclamato apertamente in funzione di eventuali segni vi-sibili che avessero annunciato prima un legame d’apparte-nenza. In questo labile contesto, l’iterazione dei gesti ante-riori è il solo fatto fondatore del diritto. Ora, solo A2 cono-sce quest’iterazione (il priore che vive là), mentre A1, visi-tatore momentaneo, non è supposto conoscerla (il priorenon l’ha presentata come tale all’insieme dei partecipanti).

L’azione di A1 si estende, al di là del tavolo privilegiato, aitavoli contigui, privando A2 della possibilità di ripiegare e difar mostra di offrire a A1 una parte del suo dominio, comesuccede nel caso delle celle. In questo caso, A2 è tolto dal suospazio “privato”, il quale appare come costituito da certi ta-voli la cui sistemazione è privilegiata. Tutto ciò rinvia allaproblematica delle configurazioni topiche (cfr. Hammad

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1978a; ivi, capitolo terzo) e in particolare a quelle che caratte-rizzano una condivisione ineguale del potere.

Nello svolgimento di quest’esperimento, i segni d’im-barazzo manifestati dal priore servono a non perdere lafaccia prendendosi il tempo di verificare se si tratta d’ag-gressione deliberata. Allo stesso tempo offre agli “occu-panti” la possibilità di fare marcia indietro e di annunciareloro stessi l’inganno.

Nel momento in cui l’organizzatore offre un posto alpriore, tenta di ricostituire il “gruppo degli abituali” A2 in-dipendentemente dal posto occupato. La reazione delpriore rivela che, per lui, l’attante A2 non è pienamente sestesso se non in congiunzione con il suo luogo marcato. In-stallandosi altrove, nello spazio A4 degli altri, conserva ilsuo ruolo di attore responsabile dei luoghi esterno all’at-tante collettivo temporaneo A2. Manifesta così di riferirsi aun’altra istanza superiore A5, destinatrice per lui e differen-te dal congresso, rappresentata specificamente dal conventoe dalla sua comunità religiosa.

Il priore si comporterà allo stesso modo al momentodella manipolazione dell’indomani, piazzandosi fuori dalgruppo degli “abituali”. Solamente dopo aver appresoche si trattava di una manipolazione, il priore reintegreràil gruppo e la sua tavolata, data la controaggressione mi-surata che gli ha permesso di considerare le cose comerientrate nell’ordine. Aggiungerò che, avendo appresodella sua arrabbiatura, mi sono preoccupato di recare lescuse a nome del seminario di cui ero responsabile. Que-sto rituale di riscatto ha un qualche peso nel ristabilirsidell’ordine delle cose.

7.4.5. Spostare brevemente un gran numero di persone alrefettorio

Si tratta ancora di una situazione a cinque attanti, carat-terizzata dall’indeterminazione degli attanti manipolati:A1 Manipolatori del seminario, amici, commensali fittizi,A2 Resto dei partecipanti al congresso,A3 Maggioranza dei posti del refettorio, scelti a caso,

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A4 Corridoio centrale del refettorio, atrio davanti al refet-torio,

A5 Il priore, rappresentante del convento.

L’attante collettivo A2 non è identificabile da un’azione oda abitudini particolari nel refettorio. Non è definibile se nonper opposizione: è il complemento dell’attante A1 nell’insiemedei partecipanti al congresso che mangiavano nel refettorio.

È significativo che l’attante A4 non sia manifestato daposti o da tavole: le persone scomodate non hanno neppu-re uno spazio di riserva che sia comparabile a quello checercano. Tuttavia, questa manipolazione non è stata perce-pita come aggressione se non da una sola persona. Gli altrihanno pazientemente cercato una soluzione a una situazio-ne non caratterizzata e non identificata in tutta la sua am-piezza. Il fatto che si finisse per liberare loro un posto a se-dere poteva bastare. I manipolatori che toglievano i segnidi occupazione si sono sentiti in obbligo di dire qualchecosa come “era riservato a qualcuno ma è in ritardo”.

Un rituale in buona e dovuta forma fu reso il giorno se-guente come compensazione, in seduta plenaria, quandotutto il congresso è stato informato della manipolazione edei suoi risultati.

7.4.6. Modifiche della sala della conferenzaRitroviamo una situazione a cinque attanti, con alcuni

mutamenti strategici: se il gruppo manipolatore non cer-ca più di congiungersi con lo spazio A3 (tribuna) cui A2può essere intento, mira comunque a produrre la di-sgiunzione A2/A3.A1 Seminario manipolatore,A2 Insieme dei conferenzieri, abituali della tribuna,A3 La tribuna,A4 La sala delle conferenze,A5 Gli organizzatori del congresso e il priore.

Questa manipolazione è più radicale delle altre per al-meno tre ragioni:

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i) A2 è spostato dal suo spazio A3 verso la sala A4;ii) la tribuna A3 non è più in congiunzione né con A2 né

con A1. Non è più un oggetto di valore marcato positiva-mente, è ri-semantizzato e marcato negativamente (è rifiu-tato lo statuto superiore che conferisce all’oratore);

iii) la configurazione topica dell’insieme è modificata: sipassa da una configurazione polemica (opposizione tribu-na/sala con un rapporto di dominio) a una configurazionecontrattuale (gruppo seduto in cerchio attorno a un bucocentrale, con un rapporto d’uguaglianza).

L’atto di prevenire i responsabili assomiglia al ritualeche annuncia la visita della cella: ha per funzione di ren-dere possibile un atto che, compiuto senza spiegazioni,avrebbe potuto sembrare aggressivo. Ancora una volta inquesta serie di manipolazioni la figura del destinante(Greimas, Courtés 1979, p. 101) si fa manipolare dal visi-tatore A1.

Il segreto delle manipolazioni con cui si cimentava ilnostro seminario cominciava a trapelare. I conferenzierihanno rapidamente identificato la nostra ultima procedurain modo tale da smussarne ogni aggressività. Malgrado ciò,la nuova disposizione della sala ha avuto l’effetto ricercato:coloro che dovevano prendere la parola hanno accettato laproposta sull’uguaglianza dei ruoli e hanno parlato a parti-re dal loro posto a sedere.

Infine, il racconto delle attività del nostro seminario hainformato l’insieme dei partecipanti, e, scatenando il riso,ha avuto l’effetto di un’auspicata pacificazione globale.

7.5. Il rituale come modello sociale

Le precedenti analisi sintattiche risultavano brevi al fi-ne di mettere in evidenza una dinamica globale in gradodi reggere le trasformazioni tentate. Le congiunzioni e ledisgiunzioni mirate possono modificare lo stato di cose e irapporti tra le persone. Per il(i) perdente(i) della trasfor-mazione, un tale cambiamento è inaccettabile. A quel

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punto intervengono gli atti rituali che ristabiliscono l’e-quilibrio offrendo una compensazione simbolica. Questacompensazione è della stessa natura, poiché la perdita su-bita è stata anch’essa simbolica. Rimangono da osservarepiù da vicino le condizioni in cui accadono e i meccani-smi del rituale.

7.5.1. L’aggressione limitataNelle situazioni riportate sopra, non è mai questione di

aggressione fisica. Tuttavia, l’intrusione nello spazio diqualcuno, o il suo spostamento da quello che crede essereil suo spazio, sono degli atti di inimicizia. Ledono la perso-na bersagliata nella misura in cui essa è spossessata di qual-cosa che valorizza. È per questa ragione che è possibile as-similare questi atti ad aggressioni limitate, deviate, nel sen-so che non mirano direttamente al corpo dell’altro, riporta-te su oggetti di valore minore e per questo rimpiazzabili.L’estensione del termine “aggressione” così definito copreogni atto che comporta la diminuzione dei beni o quelladei valori simbolici.

7.5.2. Il codice deontico di riferimentoUna tale accettazione presuppone un codice di com-

portamento che riconosca da una parte le relazioni privi-legiate tra certe persone e certe cose, e che imponga d’al-tra parte delle condizioni d’equilibrio nella circolazionedelle cose tra le persone. Basta sospendere la relazioneprivilegiata tra la persona e la cosa per far sparire la no-zione di proprietà. Senza voler riprendere la spinosaquestione della proprietà nella sua generalità, si può os-servare che nel contesto degli esperimenti descritti non èmai questione di diritto di proprietà in buona e dovutaforma. Se le celle sono attribuite in modo nominativo, èper un lasso di tempo piuttosto breve e al prezzo di unamodica somma che non è, propriamente parlando, un af-fitto. I posti del refettorio non sono oggetto di una attri-buzione. Di conseguenza, i beni che sono stati sottomessiad atti d’appropriazione o di riappropriazione non sono

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protetti da una convenzione esplicita. Sono piuttosto co-perti da regole implicite che riguardano etichetta e buo-ne maniere. Ogni rimessa in causa di queste regole si si-tua nel campo flessibile del non prescritto e/o del noninterdetto. Questa indeterminazione fa sì che l’azionemanipolatrice non sia immediatamente identificabile co-me aggressione.

7.5.3. La restituzione del contrattoIl ruolo dei riti iniziali e terminali è quello di giocare

sull’indeterminazione delle regole non dette e di invoca-re regole relative a campi semantici differenti da quellidella proprietà per ottenere la sospensione di quest’ulti-ma. In tal modo le visite delle celle si rifanno al deside-rio di sapere, visto che i visitatori-manipolatori risiede-vano altrove rispetto al convento concepito da Le Cor-busier. In un congresso relativo all’architettura, è prati-camente in nome della scienza che si chiede di essereammessi.

Pur giocando questo ruolo, gli sperimentatori-mani-polatori percepivano il carattere aggressivo della proce-dura e notavano la reazione dell’altro senza eliminarel’ambiguità dell’azione. È interessante rilevare che le per-sone così aggredite non abbiano voluto riconoscerlo. Re-golarmente posti in una situazione di “non poter non fa-re”, essi hanno reagito in due tempi: in primis, rifiutandodi entrare in una procedura polemica; in un secondotempo, salvando il salvabile per salvaguardare le relazio-ni contrattuali.

Caratteristici del primo metodo sono le erranze osser-vate nel refettorio e l’accoglienza imbarazzata fatta dallepersone alloggiate nelle celle. La messa in opera del secon-do metodo passa attraverso la distinzione tra porzioni piùo meno private in seno allo stesso luogo privato: gli ele-menti disponibili sono sfruttati per mantenere una partedi ciò che l’altro pretende di togliere. Così facendo, i pa-droni dei luoghi “offrivano” simbolicamente una loro par-te per una giunzione temporanea con l’altro.

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7.5.4. Il rituale come combinazione di trasformazionienunciative ed enunciazionali

Le manipolazioni riportate hanno un carattere anorma-le, nel senso che non vertono su ciò che si fa abitualmente.Essendo aberranti, sprovviste di una ragione che sia facil-mente riconoscibile, offrono alle persone che le subisconouna chiara difficoltà d’interpretazione. Assomigliando adaggressioni, non erano chiaramente dichiarate come tali.La persona coinvolta poteva sempre chiedersi “perché io?”di fronte al ragazzo che la stava privando della propria cel-la. Non vedendo ragioni evidenti per una tale aggressione,la persona in causa agiva come se non ci fosse stata aggres-sione, negando il carattere polemico dell’atto comunicazio-nale intrapreso.

Da un punto di vista semiotico, l’inizio della sequenzacomunicazionale è assimilabile a un enunciato sincreticoformulato all’interno di un sistema che mescola espressio-ne verbale e mezzi spaziali. Mirando a rimpiazzare la con-giunzione A2-A3 con la disgiunzione degli stessi attanti,quest’enunciato equivale a una serie pragmatica che facciapassare da un’asserzione enunciativa a una negazioneenunciativa, cosa che l’attante A2 può legittimamente iden-tificare come atto polemico11. Un tale atto d’interpretazio-ne fa passare l’attante A2 a un livello metalinguistico12 dovel’opposizione polemico vs. contrattuale caratterizza i rap-porti inscritti nell’enunciato.

Sospendendo il carattere polemico dell’interazione, A2rimane a un livello metalinguistico enunciazionale, quellodella gestione delle relazioni inter-attanziali. È lo stesso diquando A2 agisce per restaurare relazioni amicali o quandoaccetta l’approccio del manipolatore per ritornare a rap-porti contrattuali: nega la negazione enunciativa di A1 eriafferma l’asserzione iniziale che lo vede congiunto con ilsuo luogo A3. Così facendo, restaura il contratto minaccia-to da A1. Sarà solo alla fine, quando rientrerà in un’intera-zione ordinaria, che si situerà nuovamente al livello enun-ciativo della comunicazione (almeno fino alla prossimaoperazione enunciazionale…).

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Si può osservare che l’insieme delle azioni rituali si si-tua a livello enunciazionale, e si riconduce a una trasfor-mazione composta di due operazioni metalinguistichesuccessive: una negazione (negare la negazione enunciati-va instauratrice del rapporto polemico) seguita da un’as-serzione (restaurare il rapporto contrattuale iniziale). Sesi riesaminano da un punto di vista comunicazionale i la-vori di Claude Lévi-Strauss (1962a) e di Konrad Lorenz(1969), vi si ritrovano descritti identici meccanismi (conuna terminologia differente) per rituali religiosi e perquelli animali. Ne dedurremo che la serie sintattica for-male, appena estrapolata per i rituali, è una struttura co-municazionale molto generale che oltrepassa la cornicedegli spazi pubblici e privati e regge di fatto una parteconsiderevole di interazioni tra istanze che comunicano.

7.6. I presupposti sintattici del lessema privato

Lo sviluppo dell’analisi dei rituali ci condurrà al livello“profondo” dell’analisi semiotica, in cui è necessario repe-rire i valori fondamentali che regolano l’interazione umanain generale. Sceglieremo di perseguire in questa sede l’ana-lisi dei meccanismi sintattici di superficie legati all’intera-zione spaziale e che si rifanno alla problematica del pubbli-co e del privato.

7.6.1. A partire da una definizione di privatoSeguendo un’abitudine divenuta tradizione presso i se-

miologi, è possibile consultare il dizionario. Il Petit Robertcomincia13 l’articolo privato così: “agg. Là dove il pubbliconon ha accesso, non è ammesso”. Ritroviamo due istanzeesplicitamente menzionate (un luogo, un pubblico) e unaterza istanza (la o le persone ammesse), che resta implicitanella definizione, ma che si trova esplicitata in uno degliesempi forniti come illustrazione: “comunicazione privata,cui non assistono che gli intimi”. Notiamo che la terzaistanza è manifestata da un plurale: “gli intimi”.

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Queste tre istanze sono legate da atti (accettare, ammet-tere) che possiedono un nocciolo comune: la congiunzione(autorizzata o interdetta) degli attori umani con l’attorespaziale. In più, l’ammissione presuppone una quarta istan-za che giochi il ruolo di soggetto operatore in grado di au-torizzare o meno la congiunzione.

In termini semiotici, si possono riconoscere in questadefinizione quattro ruoli attanziali legati da una funzione(la giunzione) e modalizzati secondo il potere, poiché l’am-missione si analizza come poter-fare e la non-ammissionecome non-poter-fare (cfr. Greimas 1970):

A114 Il pubblico, di cui l’accesso è generalmente non auto-

rizzato, non può congiungersi con il luogo A3.A2 La persona particolare, di cui il libero accesso sembra

per contrapposizione una competenza modale positiva,può congiungersi con il luogo A3.

A3 Il luogo privato considerato, autorizzato agli uni e in-terdetto agli altri.

A6 Una istanza operatrice superiore che autorizza l’acces-so ordinario di A2 e quello di A1 in certe condizioni.In termini semiotici, si riconosce in questa figura ilruolo dell’attante destinante che attualizza l’attantesoggetto (Greimas, Courtés 1979, pp. 45-46).

I casi in cui si vede la persona particolare che gioca ilruolo A2 e autorizza o interdice l’accesso sono casi di sin-cretismo di due ruoli attanziali (A2 e A6) investiti nello stes-so attore. Non è un caso generale e non è quindi il caso difarne una regola.

Notiamo che rimpiazzando i termini “accesso, ammis-sione” con il concetto più generale di “stabilire una con-giunzione modalizzata dal potere”, la definizione è passibi-le di estensione a oggetti che non siano necessariamenteluoghi. Si potrà parlare allora di un pallone privato postosulla spiaggia, o del carattere privato del montante dellerendite incamerate e delle tasse pagate; essi non sono pub-

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blici nella misura in cui il loro accesso è controllato dal lo-ro “proprietario legittimo”.

7.6.2. I presupposti polemici del privatoCosì definito, l’oggetto privato è caratterizzato dalla

modalità del poter fare, cui è sottomesso negativamente opositivamente a seconda dei casi. I soggetti implicati sonoquindi da reperire nella tappa dell’attualizzazione del per-corso narrativo. L’attualizzazione presuppone una tappaanteriore, quella della virtualizzazione, e ci si potrebbechiedere come siano caratterizzate le diverse istanze delprivato a quello stadio. In altri termini, il privato è ricono-scibile prima della sua attualizzazione? Se la risposta è posi-tiva, la modalità del potere apparirà come necessaria e nonsufficiente per la descrizione, con la conseguenza di farciriconoscere come parziale la definizione del Robert.

7.6.2.1. Consideriamo il caso della persona che, trovando-si sola nella cella (al convento La Tourette), sente bussare allaporta: un terzo si presenta e vorrebbe entrare. La persona allaporta ha il ruolo dell’attante A1. Bussando alla porta, essa ma-nifesta di voler come minimo comunicare con A2 che sta al-l’interno: in effetti, essa potrebbe benissimo andarsene dopoaver ottenuto delle informazioni. Esprimendo il desiderio divisitare la cella, essa manifesta chiaramente un voler accedere.Manifesta quindi il ruolo attanziale del soggetto virtualizzatoin un programma che riguarda il dominio privato. L’attoreche riempie il ruolo attanziale A2 si trova allora proiettato nelruolo attanziale A6, davanti alla scelta seguente: far entrare A2o mandarlo via. Ovvero accordargli la competenza secondo ilpotere o rifiutargliela. Da cui due osservazioni:

i) A1 può sollecitare non esplicitamente questo potere.Esprimendo il suo desiderio, fa capire che la realizzazionedipende dall’attualizzazione che l’altro può accordargli;

ii) se A1 esprime questo desiderio, è perché lo crederealizzabile. Crede che A6 gli accorderà sia l’attualizzazio-ne sia la realizzazione (che accade una volta compiutal’attualizzazione).

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Importa poco precisare su cosa si fondi questa creden-za. Le possibilità sono multiple, la più banale essendo lareciproca conoscenza15 delle due persone implicate. Alcontrario, il fatto di esprimere la richiesta presuppone lasua fondatezza. In tal modo, dietro A1 si profila un’entitàche giustifica la sua richiesta. Riconosciamo qui la figuraattanziale del Destinante mandante denotato come A5 nelleprecedenti analisi.

Ricevendo la richiesta, l’attante che gioca il ruolo di A2si trova proiettato nel ruolo di A6 (Destinante attualizzato-re), confrontato non solamente ad A1 (visitatore) ma anchead A5 (Destinante mandante)16. Se A1 si presenta in nomedell’amicizia, A6 non può mandarlo via senza negare ipsofacto questa amicizia. Un tale affronto è produttore d’ini-micizia. L’attore che gioca il ruolo A6 può agire in questomodo se gli attori che giocano i ruoli A1 e A5 gli sono indif-ferenti. Correlativamente, ammettendo A1 nel luogo A3, A6accetta di fatto la validità dei legami A1-A5 e A6-A5.

Questa sequnza comporta propriamente parlando unaproposta di contratto fatta da A1-A5, seguita dall’accettazio-ne o dal rifiuto di A6. Il poter fare caratteristico del privatopresuppone quindi lo stabilirsi di un contratto di cui nonabbiamo esplorato che la fase terminale. Sembra conve-niente allora esplorare più in dettaglio questo presuppostosintattico a partire dagli esempi disponibili, e poi, in termi-ni semiotici, sviluppare la tappa della virtualizzazione, an-teriore a quella dell’attualizzazione data nella definizionedel dizionario.

7.6.2.2. Riprendiamo il caso della cella A3. Prima che A1bussi alla porta, questa era sia aperta (esperimento 7.3.1.1.),sia chiusa (esperimento 7.3.1.3.). Riconsideriamo quindiqueste situazioni e gli effetti di senso che producono i duestadi della porta.

Sarebbe ingenuo credere che una porta chiusa enuncil’equivalente di un “voi non potete entrare”. Infatti, se èsemplicemente chiusa, ma non a chiave, si può fisicamenteentrare. Ancora: certe chiavi sono solo simboliche, al pun-

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to che la serratura si lascia aprire da un chiodo. Il caso piùeloquente di queste serrature simboliche si incontra pressoi tuareg, nomadi del Sahara, dove le catene lavorate in fer-ro forgiato servono a chiudere dei sacchi di pelle: al primocolpo di coltello il contenuto rinchiuso sarebbe già libera-to. Se ciò non viene fatto, non è quindi perché non si puòma perché c’è dell’altro in gioco.

Se non significa “non potete entrare”, che cosa significaallora la porta chiusa? Si può proporre un gran numero dienunciati verbali per esplicitarlo:

1-Qui è privato 5-Entrata vietata2-Qui è di qualcuno 6-Non entrate3-Qui non è vostro 7-Desidero che non entriate4-Qui non è di tutti 8-Voi non dovete entrare

I primi quattro enunciati, centrati sull’oggetto e sullarelazione di proprietà, sono riconducibili, attraverso l’ana-lisi preventiva del termine privato e quella del verbo avere,all’enunciato “voi non potete entrare” che abbiamo appenaricusato. Possono quindi essere scartate anche queste.

L’enunciato n. 5, “Entrata vietata”, oggettiva l’interdi-zione, che è esplicita nei tre enunciati seguenti, dove ritro-viamo i ruoli attanziali del visitatore A1, del destinantemandante A5 e del luogo A3. Questi quattro enunciati han-no in comune il fatto di situare l’interazione A5-A1 a unostadio di virtualizzazione del soggetto.

In altri termini, ciò che la porta chiusa enuncia all’inten-zione di A1, è che c’è un soggetto A5 che cerca di virtualizzar-lo: al voler entrare di A1 si oppone un meta-volerecontrario17. La porta chiusa formula quindi una proposta dicontratto, anteriore a quella di A1 ritrovata precedentemente,e diretta a lui. È sottesa dal desiderio di ottenere la tranquil-lità di A2: A5 cerca di produrre in A2 (è spesso lo stesso at-tore che gioca i due ruoli attanziali) uno stato modale di be-nessere. Notiamo anche l’originalità della cosa malgrado labanalità dell’esempio: A5 propone un contratto per A1 al finedi garantire una modalità di stato in A2.

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Se A5 non è gerarchicamente superiore ad A1, la propo-sta di contratto si articola con la modalità del volere “Desi-dero che voi non entriate” (enunciato verbale equivalente aln. 7). Se A5 è gerarchicamente superiore ad A1, la propostadi contratto prenderà la forma deontica “Voi non doveteentrare” (enunciato verbale equivalente al n. 8). Così, l’e-nunciato della porta chiusa è semanticamente18 legato alrapporto di competenza19 tra l’attante che controlla lo spa-zio e l’attante visitatore.

7.6.2.3. Con queste acquisizioni analitiche, il nostroesempio si rivela essere quello del confronto tra due propostesimmetriche di contratto, ognuna proponendosi di agire sul-l’altra e di modificarla. Al programma di virtualizzazionemanifestato da A2 in modo statico grazie alla porta chiusa,A1 oppone un contro-programma di virtualizzazione espres-so dallo spostamento (è giunto fino a qui, testimoniando delsuo volere dinamico), dal gesto (bussa alla porta, formulan-do l’equivalente di un appello), dalla parola (fa sapere chi è).L’intensità di quest’espressione sincretica è messa in operacontro la stabilità della porta che toglie agli sguardi ciò chec’è dietro. Abbiamo a che fare con una situazione complessaall’interno di un contesto polemico che incassa due propostecontrattuali simmetriche. Il seguito mostrerà che sono possi-bili altri incassamenti e la complessità delle situazioni ricor-da quelle del potlach analizzato da Marcel Mauss nel Saggiosul dono (1923-24).

7.6.2.4. Se la porta è aperta, la situazione è radicalmentetrasformata: l’interdizione di entrare non è espressa, e l’a-pertura dà ad A1 la possibilità di una congiunzione visivadiretta che precede un’eventuale congiunzione fisica. Allanon-interdizione della congiunzione pragmatica enunciataper il passaggio lasciato libero si aggiunge l’autorizzazionedella congiunzione cognitiva. Benché situate su due dimen-sioni differenti della significazione, queste due operazionipossono essere accomunate per essere interpretate, in certecircostanze, come una autorizzazione20 alla congiunzione

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pragmatica, se non proprio come un invito21. In questopassaggio c’è uno iato (non una transizione per conseguen-za logica) oltrepassato da A1, tanto più facilmente in quan-to il suo programma di virtualizzazione è presente (attua-lizzato dal suo spostamento) e quello di A5 è assente(espressione resa indeterminata dall’apertura). Vista l’inde-terminazione, A1 può sempre argomentare di aver letto unesplicito invito.

7.6.2.5. Le cose si complicano se la porta è aperta e il pa-drone dei luoghi è assente. Se non vi è alcun segno di occu-pazione in una cella vuota, questa può essere visitata e per-fino investita (esperimento 7.3.2.). Se ci sono segni d’occu-pazione, funzionano come messaggi facenti sapere l’esisten-za di un residente, anche se assente. Invitano quindi a nonoccupare il luogo, ad attendere A2 e a sollecitare la sua au-torizzazione per lo stabilirsi di una congiunzione. Il non ri-spetto di questo invito equivale a una aggressione, e A2 saràin diritto di arrabbiarsi.

Ad ogni modo, l’esame di questo caso fa apparire chia-ramente l’importanza della presenza di un soggetto opera-tore A6 che controlli l’accesso: la situazione è controllabilese è presente, incontrollabile se non lo è.

7.6.2.6. Combinando le possibilità di porta aperta/por-ta chiusa e di cella vuota/cella occupata, otteniamo quattropossibilità, che ci proponiamo di mettere in corrisponden-za con l’esplicitazione del loro enunciato implicito (esplici-tazione fatta dal punto di vista di A1):

A - Cella occupata, >> invito negativo, porta chiusa accesso controllabileB - Cella occupata, >> invito positivo, porta aperta accesso controllabileC - Cella non occupata, >> invito positivo, porta aperta accesso incontrollabileD - Cella non occupata, >> invito negativo, porta chiusa accesso incontrollabile

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L’invito negativo è quello di non entrare, l’invito positivoè quello di entrare.

Generalmente parlando, l’attore manifestante il ruoloattanziale A6 può o non può, a seconda i differenti casi dipresenza, d’assenza o a seconda dei mezzi di chiusura di-sponibili, gestire l’accesso dell’attore A1 nel luogo A3. Tuttodipende dai mezzi che si dà per condurre a termine il pro-prio programma: l’eventuale blindatura delle porte è sup-posta resistere a una aggressione determinata, una catenapermette di mantenere la porta basculante nella fase di ne-goziazione dell’accesso. La forza fisica degli attori che gio-cano i ruoli A6 e A1 interviene anche in questa situazione incui il controllo è in gioco.

Questa constatazione è indipendente dalla virtualizzazio-ne fatta da A5 quando formula l’invito negativo o positivo.Da qui ha origine il riconoscimento di una nuova dimensio-ne potenziale dell’interazione tra A6 e A1: una situazione po-lemica è riconoscibile nella tappa attualizzante caratterizzatadalla modalità del potere, distinta dalla situazione polemicariconosciuta nella tappa virtualizzante. È facile riconoscerenel momento che si trovano riuniti alla porta della cella, tuttigli ingredienti di una prova polemica per gli attori A6-A2 (dauna parte) e A1 (dall’altra), preparata dalle rispettive tappedi attualizzazione e di virtualizzazione.

7.6.2.7. Questa lunga deviazione analitica con la qualeabbiamo esplorato i presupposti della situazione iniziale del-la visita alla cella (§§ 7.3.1., 7.3.2.) ci ha permesso di dimo-strare, nel senso pieno del termine, il suo carattere polemicolatente. Ora, se la richiesta di accesso non degenera ogni vol-ta in rissa e se i comportamenti adottano nella maggior partedei casi il modo rituale, è perché la situazione comporta altripresupposti di ordine contrattuale, i quali si rivelano sovra-determinati ogni volta che “le cose non vanno bene”.

7.6.3. I presupposti contrattuali del privatoLe manipolazioni del refettorio (§§ 7.3.3., 7.3.4.) sono

maggiormente rivelatrici a questo riguardo, anche se abbia-

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mo cominciato a ricostruire la catena delle presupposizionipartendo dall’esempio delle celle.

7.6.3.1. Questi esperimenti (spostare un gruppo A2 dalsuo/suoi tavolo/i A3) sono state condotte da un gruppoche giocava il ruolo dell’attante A1. Prendendo in contro-piede i membri del gruppo A2 e occupandone le sedie at-torno al tavolo, il gruppo A1 compiva qualcosa di più chenon la semplice realizzazione di un programma pragmati-co; enunciava un programma complesso che si può ana-lizzare ricostruendo la catena delle presupposizioni.

In primo luogo, la congiunzione realizzata dall’attanteA1 con lo spazio privatizzato A3 presuppone che A1 possafarlo. Si tratta ben inteso di un potere pragmatico realizzato.

In secondo luogo, la realizzazione e l’attualizzazioneche abbiamo appena segnalato presuppongono che l’at-tante A1 fosse già virtualizzato: se è già là, è perché lovuole. L’osservatore non preavvisato non è nella condi-zione di decidere se si tratta di un’intenzione maligna odi un’azione innocente, ma in ogni caso abbiamo a chefare con un soggetto virtualizzato che agisce in virtù diun contratto implicito.

In terzo luogo, il gruppo formante l’attante A1 enun-cia, per il semplice fatto di essere installato là, un mes-saggio che equivale a: “poiché io sono qui, voi siete prega-ti di sedervi altrove”. Si tratta dunque di una proposta dicontratto emessa nei riguardi delle persone spostate cheformano l’attante A2.

Quest’ultima proposta di contratto, enunciata dall’at-tante installato nei luoghi e mirante a virtualizzare l’at-tante che si dirige verso questi stessi luoghi, è compara-bile alla proposta riconosciuta alla porta chiusa della cel-la. Due fatti differenziano le situazioni:

i) qui non ci sono né muri né porte, ma questo non im-pedisce l’apparizione di messaggi equivalenti a quelli dellasituazione con la porta,

ii) abbiamo identificato, in questa descrizione-analisi,gli attori pronti a installarsi nei luoghi per giocare il ruolo

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dell’attante A1, dato che vestono i panni di coloro che cer-cano di congiungersi con un luogo precedentemente rico-nosciuto come congiunto a un altro, nel caso specifico A2.Tuttavia, una volta installato, questo gruppo tiene il discor-so (implicito) di A2. Questo prova che A1 ha scambiato ilproprio ruolo con quello dell’altro gruppo, stando almeno aquello che accade nella conversazione.

7.6.3.2. Queste manipolazioni del refettorio sono sta-te eseguite solamente in seguito a quelle delle celle e del-la loro analisi in sede seminariale. Discusse e pianificatein seno al seminario prima della loro esecuzione, gli sta-gisti hanno chiaramente sollecitato la mia autorizzazione.Io l’ho concessa in quanto responsabile del seminario: sel’esperimento si fosse svolto male, e se un qualche con-flitto fosse emerso, bisognava che io intervenissi per ri-stabilire la serenità dell’incontro. Il ruolo del responsabi-le del seminario faceva di me, in questo frangente, il rap-presentante del Destinante mandante A5, a nome delquale A1 agiva. Se la situazione polemica fosse degenera-ta in conflitto, sarei intervenuto richiamandomi alla“scienza” e alla produzione di sapere: quanto meno pergiustificare la scortesia che veniva perpetrata. Di fatto, ilconflitto pubblico è stato evitato, e quando pure è acca-duto, ho dovuto intervenire in difesa dei miei destinatariultimi.

Tutto ciò mostra bene l’incassamento dei programmigli uni negli altri: le proposte di contratto implicitamenteformulate dai manipolatori al momento di due esperi-menti nel refettorio tentavano di modificare (e quindi direggere) i contratti impliciti identificati nel comporta-mento degli attori “abitudinari” giocanti il ruolo di A2. Ilrichiamo fatto al sottoscritto mostra che, in questi esperi-menti, le proposte di contratto fatte dall’attante A1 sonostate fondate su altri contratti, gerarchicamente superiori epiù chiaramente definiti, stabiliti tra il gruppo manipola-tore e l’insieme del congresso passando per la mia posi-zione di responsabile ufficiale. Il legame stabilito tra il

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contratto proposto in situ e un contratto anteriore, di ca-rattere fondatore, costituiva la condizione necessaria allasalvaguardia del contratto sociale presupposto nel quadrodi un incontro a carattere universitario e scientifico. Sipuò mostrare l’esistenza di condizioni fondatrici omolo-ghe negli altri casi. Ci arriveremo.

7.6.3.3. Riprendiamo l’esperimento 7.3.3. Il territorioche vi era manipolato non è chiuso. Non c’è quindi laporta che enuncia la proposta di contratto e attualizza larealizzazione. Il luogo si riduce a un tavolo quadrato cir-condato da sette sedie22. Quali sono le manifestazioni delcontratto di privatizzazione proposte dall’attante A2 pri-ma dell’intervento dell’attante A1? In termini semiotici,quali sono state le procedure di virtualizzazione?

Ciò che ha permesso agli osservatori del seminario diidentificare una territorialità legata a un tavolo posto inun angolo del refettorio è l’iterazione della congiunzionedi questo tavolo con le stesse persone, reperite grazie alfatto che assumevano sia la gestione dei luoghi, sia quelladel congresso. La “tavola del potere” è stata quindi iden-tificata dalla ripetizione di una stessa relazione tra gli stes-si termini.

Nei fatti, l’iterazione non è il solo aspetto23 possibileche sovradetermini la giunzione: la continuità nel tempo,la periodicità delle occorrenze e in generale la stabilitàdei fenomeni possono produrre lo stesso effetto di senso:dietro la regolarità, c’è una regola. Visto che la regolaequivale a un dover-essere delle cose, e che questo si tra-duce in un dover-fare degli attanti, si osserva una realizza-zione particolare di un fenomeno più generale che è quel-lo della trasformazione di una aspettualizzazione di occor-renze precedenti in una modalizzazione deontica delle oc-correnze future.

In altri termini, il ritorno regolare degli stessi attorialla stessa tavola esprime, interpretando quello che cer-tuni sarebbero tentati di chiamare abitudine24, un enun-ciato equivalente a “è stato così e così, quindi tutto ciò

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dovrà continuare allo stesso modo”. Che si legge comeuna proposta di contratto spostata sulla dimensionedeontica del dover-fare. Di conseguenza, la regolarità fadi più che invitare A1 a non disturbare A2: cerca di tra-smettergli l’obbligazione di non farlo, costituendo l’ori-ginalità di questa proposta di contratto orientata da A2verso A1.

7.6.3.4. Al termine dell’analisi, sembra che nel conte-sto considerato ciò che fonda il diritto di A2 su A3 sia unostato di fatto che permette di costruire una prospettività.In altri termini, è un passato aspettualizzato dalla regola-rità che fonda la predizione di un futuro dotato della stes-sa regolarità. La modalità del poter-fare è tratta dal passa-to e proiettata sull’avvenire, in virtù della regolarità osser-vata, con l’avvenire che acquisisce nello stesso movimentola modalità del dovere. Il percorso passa dalla constata-zione alla probabilità e dalla predicibilità all’obbligazio-ne. In fin dei conti, il poter accedere limitato, fondatoredel privato manifestato, si richiama a un contratto anterio-re de facto che non è altro che la ripetizione pragmatica, ol’esercizio non contestato della stessa modalità. Questocontratto fondatore è l’omologo, mutatis mutandis, delcontratto fondatore tra gli stagisti-occupanti e il respon-sabile di seminario: servono entrambi a fondare le propo-ste rispettive di contratto enunciate in modo non verbalenel refettorio.

7.6.3.5. L’analisi che precede ci permette di reperire lafragilità del diritto presupposto dal contratto fondato sul-la regolarità. Basta che sia contestato perché questo con-tratto perda il suo carattere d’evidenza. Se il tavolo occu-pato non ha potuto essere reclamato e recuperato daglioccupanti abitudinari, è perché essi non potevano oppor-re agli “occupanti” un contratto chiaro e facilmente ac-cettabile. Si sarebbe dovuto argomentare, per farli sposta-re, che questo tavolo era prenotato. Cosa che sarebbe sta-ta difficile da stabilire dal momento che non c’era alcun

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segno di prenotazione che indicasse un contratto equiva-lente a “non sedersi a questo tavolo”. L’esperimento delgiorno seguente (§ 7.3.4.) gioca interamente sui diversimodi di proporre un tale contratto e di farlo rispettare.Con questa differenza: che la proposta è stata simmetrica-mente formulata dagli attori che giocano il ruolo dell’at-tante visitatore A1. Essi compivano un’operazione cheestendeva il territorio sul quale avevano un diritto legitti-mo in refettorio a titolo di ruolo attanziale A2.

Ciò che tocchiamo con questi esempi è la validità limi-tata di una giustificazione de facto. All’interazione fonda-trice del privato de facto, gli occupanti oppongono unprincipio che, nel contesto del refettorio, appare inattac-cabile anche se non è scritto da nessuna parte: è il dirittodel primo arrivato. La loro presenza, il loro rifiuto di ce-dere una sedia, il loro poter-restare-congiunti con il luo-go, sono fondati de jure. È la ragione per cui hanno la me-glio in questa battaglia.

Insomma, abbiamo assistito a un conflitto tra A1 eA2. Al posto di arrivare alle mani, ognuno degli attantiinterroga il contratto fondatore del proprio comporta-mento pratico. A2 si giustifica per un diritto de facto25

fondato sull’iterazione. A1 si richiama a un diritto dejure, quello del primo arrivato. Risalendo così ai contrat-ti impliciti fondatori dell’interazione, si può dire: non èA2 che ha perso il confronto con A1, ma ha perso la pro-posta fondata su un contratto de facto davanti alla pro-posta fondata su un contratto de jure. Si tratta quindi diun conflitto tra due tipi di contratti, e il risultato nonpuò essere che la vittoria di una posizione contrattuale.Possiamo capire, a posteriori, perché le situazioni pole-miche osservate sono state sempre liquidate con un ri-sultato contrattuale.

7.6.3.6. Nel momento in cui l’abitudinario del tavoloprivilegiato dalla sua posizione nel refettorio lascia degli“occupanti” installati nel “suo” tavolo, convalida implici-tamente la loro azione. Ciò permette al pasto successivo

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che lo stesso tavolo sia occupato da stagisti che non ap-partenevano al gruppo dei manipolatori (§ 7.3.3.). Inquesto labile dominio, il lasciar fare equivale a un ricono-scimento de facto. Si può opporgli un riconoscimento dejure, ma questo non può accadere senza che si ponganocerti problemi. A titolo d’esempio, la legge olandese at-tualmente riconosce agli squatter un diritto e il legittimoproprietario non può espellerli se non offre una contro-partita a questo diritto. In questo modo l’occupazione deiluoghi, riconosciuta di fatto dall’assenza prolungata direazioni, fonda un nuovo diritto. Una situazione simileprevale presso i gruppi nomadi dove le regole non sonoscritte: sono i costumi, la ripetizione dei circuiti di sposta-mento e qualche battaglia per i punti d’acqua che fonda-no il diritto territoriale.

È possibile estrarre qualche regola generale da questiesempi che hanno in comune l’assenza di muri e porte:

i) Le proposte di contratto devono essere fondate sucontratti anteriori meglio stabiliti, in nome dei quali essesono presentate come valide.

ii) Il confronto delle proposte di contratto si riconduceal confronto dei contratti fondatori.

iii) Il fondamento dell’azione riveste la forma della pro-va polemica tra due contratti fondatori possibili.

iv) Il contratto fondatore stesso deve essere periodica-mente rinnovato, restaurato o re-instaurato attraverso pra-tiche che rivestano la forma polemica della prova.

Non c’è nessuna ragione per cui la catena di questi in-cassamenti successivi si blocchi da sola, almeno fino aquando qualche convenzione contrattuale non è instau-rata come primitiva, originale e fondatrice di tutte le al-tre (è il ruolo del contratto sociale immaginato da Rous-seau). La situazione richiama il teorema di Gödel: perrendere decidibili tutte le proposte emesse a un livello n,è necessario costruire un livello n+1, il quale genera asua volta proposte indecidibili, e così via. La concatena-zione si arresta solo tramite l’adozione di assiomi posticome veri a priori.

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Nel dominio della vita quotidiana, ci sono pochi as-siomi veri a priori. Solamente i costumi rispettati pongo-no assiomi di questo tipo. Dal momento in cui si escedall’universo dei costumi (il quale al giorno d’oggi stasparendo a poco a poco), si constata che le proposte dicontratto devono essere costantemente negoziate, e que-sto è chiaramente verificabile negli spazi non dotati difrontiere materiali stabili. Vedremo di seguito che l’in-stallazione di tali frontiere permette di inscrivere nellamateria fisica i contratti fondatori e di fare economia daperpetue rinegoziazioni26.

7.7. Il controllo dell’accesso o la privatizzazione deiluoghi

Il problema, posto in tal modo, adotta implicitamen-te il punto di vista dell’attore che desidera assicurarsi ilcontrollo di un dato luogo e dunque l’accesso a esso.Riprendiamo la questione del controllo a partire dagliesempi col fine di estrapolare le regolarità strutturali.

7.7.1. Il controllo umano7.7.1.1. L’analisi iniziale dell’esperimento 7.3.2.-7.4.3.

(togliere qualcuno dalla sua cella) ha manifestato la co-pre-senza dei cinque ruoli attanziali seguenti:

A1 Il visitatore-manipolatore.A2 Il controllore dei luoghi.A3 La cella pattuita.A4 L’esterno della cella.A5 Il congresso, autorità che attribuisce i luoghi di

residenza, rappresentata da R.M. della segreteria ammi-nistrativa.

La ripresa dell’analisi ha mostrato l’importanza del ruolodella porta che enuncia messaggi di virtualizzazione e di at-tualizzazione, così come realizza missioni pragmatiche (aper-tura, chiusura) che le sono affidate. La designeremo con A8.

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Disponiamo ora di una configurazione a sei posizioni attan-ziali, di cui è facile correlare gli attori nel modo seguente:

Attori umani: A1, A2, A5Attori spaziali: A4, A3, A8In questo schema, abbiamo messo i luoghi sotto gli at-

tori che vi risultano legati nell’interazione studiata: A1viene dall’esterno della cella, cioè da A4; A2 è nella cellaA3; A5 controlla l’accesso alle celle tramite le porte A8 e leloro chiavi.

A5 può delegare il controllo della porta ad A2 lasciandoglila chiave, anche se conserva il controllo finale, poiché puòsempre togliere la cella a qualcuno e attribuirla a qualcun al-tro. In questa delega del potere, vediamo un caso particolaredella comunicazione partecipativa (Greimas, Courtés 1979,p. 70), dove il destinante dà un valore pur conservandolo.

7.7.1.2. Supponiamo che non ci siano muri. In un conte-sto localizzato, si può ragionevolmente porre questa ipotesi,poiché anche il deserto offre i suoi accidenti del terreno perchi vuole vedere, farsi vedere, nascondersi… Al fine di fissa-re le idee, consideriamo il foyer di un teatro al momento del-l’intervallo. Gruppi di conoscenti si costituiscono, e si for-mano circoli per chiacchierare. Le buone maniere interdico-no, alle persone isolate che circolano, di attraversare questicircoli. Di conseguenza si cammina tra un circolo e l’altro. Icorpi in fila formano un muro, la convergenza degli sguardimarca l’interno di un territorio privatizzato, la schiera delleschiene marca l’esterno di questo stesso territorio.

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Solamente le persone conosciute da uno o da diversimembri di questo circolo sono ammesse in seno a esso,che si ingrandisce per far posto ai nuovi arrivati. Ritro-viamo così, senza nessun’altra inscrizione materiale chequella dei corpi delle persone presenti, i componenti del-la situazione precedentemente analizzata: un luogo inter-no privatizzato, un luogo esterno non privato, personeall’interno e persone all’esterno, una frontiera il cui at-traversamento è sottoposto a condizioni decise da ungruppo. La logica dell’interazione è identica. Ne derivache la materialità dei muri e di una porta non è necessa-ria e che l’esigenza minima sintattica è quella di unafrontiera27 che un attante faccia rispettare. Di conse-guenza, l’attore che occupa il ruolo attanziale A8 non ènecessariamente una porta: è una frontiera controllabileche può essere materializzata in diversi modi.

7.7.1.3. Il territorio così privatizzato assomiglia a unabolla di sapone, le cui dimensioni variano in funzionedella pressione esercitata dall’interno dal numero deglioccupanti. Il foyer del teatro sarà, in questa metafora,l’equivalente di una bottiglia contenente numerose bolle:queste ultime non possono estendersi a piacimento, limi-tate come sono dalla pressione delle bolle adiacenti.Questo esempio traduce il fatto che il luogo A4 non è unluogo passivo determinato negativamente (rimanendoesterno) dal tracciato della frontiera che delimita A3. Alcontrario, il tracciato della frontiera A8 risulta dall’equili-brio tra i luoghi A3 e A4, i quali appaiono dotati, ciascu-no, di una tendenza a espandersi a spese del vicino limi-trofo. Questa antropomorfizzazione dei luoghi non è, inquesto esempio, che il riflesso dei voleri contrari di A1 edi A2 desiderosi di estendere i loro rispettivi territori.

La metafora delle bolle è suggestiva. Essa è già statautilizzata da E.T. Hall in La dimensione nascosta. Se per-mette di far comprendere tali questioni, si rivela tuttaviaimpropria per fondare una concettualizzazione generaliz-zabile. Facendo passare le persone in secondo piano, es-

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sa tende a oggettivizzare i fenomeni e a fondare in naturaciò che è un fatto di cultura. Ci proponiamo, sulla scia diun’analisi semiotica, di riprendere le acquisizioni dellaprossemica per estrarne le regolarità sintattiche generali.

7.7.1.4. L’inserzione all’interno di un circolo in unfoyer, come l’entrata in una cella, passa per una prova si-tuata sul piano cognitivo: la persona ammessa ad attraver-sare la frontiera A8 è conosciuta dall’attante A5 che eser-cita il controllo; essa tuttavia negozia il suo ingresso for-nendo delle ragioni sufficienti. A questo proposito, sipossono citare alcuni studi antropo-sociologici giappo-nesi (Kurita 1977) che stabiliscono che più dell’85% del-le persone che suonano alla porta di un domicilio non visono ammessi: vanno via senza aver oltrepassato la so-glia. Coloro che riescono, risultano competenti per farlo.Se l’interazione si svolgesse in una cornice non contrat-tuale, il superamento potrebbe essere compiuto secondola modalità del potere: per effrazione o per forza viva.Nel quadro contrattuale delle nostre osservazioni, questacompetenza è sempre stata espressa sul pianocognitivo28: sia A2 conosce A1, sia A1 e A2 hanno delleconoscenze comuni, sia, come nel caso delle entrate qua-si forzate nelle celle di La Tourette, è in nome del deside-rio di sapere “come sono fatte le celle”.

7.7.1.5. Cambiando la scala delle nostre osservazioni, sipuò constatare che il controllo è spesso delegato a un at-tante collettivo che lo assicura. È ad esempio il ruolo delle“forze dell’ordine” nelle società con un corpo di polizia.Alle frontiere nazionali, il controllo dei documenti d’iden-tità assicura, secondo forme contrattuali, la trasmissione diun sapere (inscritto nel documento) relativo alla personache desidera passare da un paese all’altro.

Su piccola scala, numerosi ruoli attanziali sono spessorealizzati dallo stesso attore. Essendoci tre attori di tipoumano, ci sono tre sincretismi teoricamente possibili.

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Tuttavia il sincretismo A1-A2 non ha senso se non per lepsicosi dette schizofreniche, in cui lo stesso attore agiscecome se avesse due personalità opposte, l’una nascon-dendo all’altra certe cose. I sincretismi che qui ci interes-sano sono invece quelli che si riferiscono al controllo,cioè le configurazioni A2-A5 e A1-A5. Il primo caratteriz-za tutte le situazioni in cui il padrone dei luoghi ha imezzi per preservare il suo spazio privato. Il secondo ca-ratterizza tutti i casi di dipendenza e/o d’incarcerazione:i genitori controllano la mobilità spaziale dei propri figli,i secondini controllano quella dei prigionieri rinchiusinelle celle o ammessi in luoghi collettivi all’interno dellacinta carceraria.

7.7.1.6. La sospensione del controllo ha per effetto dicancellare le frontiere: esse non sono più percepibili enon hanno più esistenza concreta. L’estensione è riunifi-cata e non ci sarà più ragione per distinguervi differentiluoghi. Le frontiere di cui il controllo è sospeso possonotuttavia conservare uno statuto virtuale e ogni riattivazio-ne del controllo è in grado di riattualizzarle.

In modo simmetrico, il divieto totale di passare rendeinconoscibile lo spazio sottratto all’accesso. Da quel mo-mento non può essere conosciuto che a partire dallefrontiere invalicabili: il suo interno acquista uno statutovirtuale. È il modo di esistenza usuale degli oggetti pieni.Lo spazio della loro superficie esterna è accessibile co-gnitivamente o esige l’utilizzo di strumenti, verosimilisoggetti delegati dotati della capacità di penetrare l’og-getto malgrado la resistenza che esso presenta. Affronte-remo questa questione più in dettaglio nel paragrafo se-guente.

Di conseguenza, non c’è che l’attraversamento condi-zionato che può organizzare l’estensione in spazio (vedi ca-pitolo secondo). Infatti è il solo caso interessante, quelloche ha suscitato l’inventiva dei pianificatori e degli archi-tetti. La moltitudine dei modi di controllarlo rende il no-stro ambiente vario e ricco di forme.

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7.7.2. Il controllo delegato alle cose

7.7.2.1. Abbiamo visto al paragrafo 7.6.3. che i contrat-ti fondatori delle giunzioni in uno spazio non munito dimuri sono sottomessi a una perpetua negoziazione/rinego-ziazione. Abbiamo anche visto che la presenza di murinon fa scomparire la necessità di rinegoziare le propostedi contratto: al limite non fa che restringere l’estensionedei luoghi dove la negoziazione avviene, limitandoli allaporta. In altri termini, i muri si rivelano essere frontiere incui il passaggio non è praticato, almeno fino a quando imuri sono in piedi29. Cosa succede esattamente e qual è ildiscorso tenuto da un muro?

Il muro oppone allo spostamento umano ordinario unostacolo maggiore. Ci sono muri che si possono saltare,ma un tale gesto equivale a una aggressione: la legge lo ri-conosce come violazione di domicilio, elemento che ci dàla chiave per l’interpretazione semantica. Il muro non siaccontenta di esserci, enuncia anche un discorso comples-so situato su diversi registri.

Consideriamo un muro che si presenta come non vali-cabile, per esempio un muro che circonda una proprietàdi campagna. Di fatto non è invalicabile che per un uomosprovvisto di mezzi, poiché basta disporre di una scala perpoter scavalcare, o di un attrezzo per scavare un’aperturasufficiente al passaggio di un uomo. Il carattere non oltre-passabile è quindi relativo: mette l’uomo30 in una situazio-ne di non-poter-fare. Certi strumenti, come la scala o l’at-trezzo, forniscono un poter-fare superiore che garantisce ilpassaggio. Tuttavia, il ricorso a tali mezzi implica che lapersona che li usa non si ponga più nel quadro di una co-municazione contrattuale, e opti per un quadro polemico.Visto che nessun muro civile31 può resistere a tutte le ag-gressioni immaginabili, come fa il muro a svolgere la suafunzione?

Il primo registro, quello dell’attualizzazione secondo ilnon-poter-fare, può essere graduato: l’aumento dell’altez-za del muro esige scale sempre più ingombranti, l’aumen-

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to dello spessore o della solidità dei materiali esige deglistrumenti più potenti per essere forato. L’elevazione delgrado di difficoltà esige sia una maggiore spesa di lavoroper il valico, sia un tempo maggiore, in modo da assicura-re al controllore umano la possibilità di intervenire.

Il muro non è quindi altro che un dispositivodissuasivo, orientato verso una varietà di attori che è possi-bile ricostruire a partire dalla sua forma e materialità stes-sa: porta con sé l’inscrizione di coloro che è destinato a la-sciare fuori. In termini semiotici, la dissuasione non è cheun invito a non fare. Siamo allo stadio della virtualizzazio-ne e della proposta del contratto: il muro invita contrat-tualmente a non essere oltrepassato. In questo non è pernulla differente dalla porta (§§ 7.6.2., 7.6.3.).

L’elemento che differenzia il muro dalla porta è la sta-bilità: il muro è difficile da muovere, mentre la porta èmobile. Combinando l’analisi di questi due elementi, sipuò dire che la cinta muraria completa costituita da unmuro dotato di porte, tiene, in primo luogo e al livello divirtualizzazione, un discorso unico, che invita a non esserevalicata (questo è vero sia per l’attore situato all’internodella cinta sia per quello esterno). In secondo luogo, conl’esperimento che fornisce la regola secondo la quale ognimuro è forato da una porta, ogni porzione di muro invitaa ricercare una porta: è una virtualizzazione che succede lo-gicamente alla prima. In terzo luogo, una porta chiusa in-vita a non varcarla e a negoziare il passaggio con la personaincaricata del suo controllo. La negoziazione passa attra-verso la modalità del sapere. Di conseguenza, una cintadotata di porte è un dispositivo statico che, per una seriedi inviti inscritti nella materia formata, restringono le ne-goziazioni di contratto del passaggio ai soli punti dove cisiano porte, ovvero ai punti di passaggio condizionato.

7.7.2.2. La sovradeterminazione contrattuale è chiara.L’inscrizione delle modalità del potere (o non-potere) edel volere sono altrettanto chiare. Se il tutto è fondato suun contratto sociale adeguato, la modalità del dovere è an-

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ch’essa inscritta in questo dispositivo: è così che la leggetrasforma in obblighi gli inviti virtualizzanti della cinta.

7.7.2.3. Ma c’è di più: dietro il contratto che abbiamoappena evocato, c’è un altro contratto fondatore stipulatocon la natura. Infatti, l’inscrizione dei valori modali nellamateria è interessante per il solo fatto che la materia è sta-bile. In altri termini, è solamente a motivo del fatto che lamateria è spogliata di un proprio volere, cioè che essatende a non cambiare da sola e a perseverare nel suo esse-re, che l’attante preposto al controllo della frontiera puòinscrivervi il suo proprio volere da trasmettere. Nel no-stro esempio questo è altrettanto vero per il muro e per laporta. È anche vero in generale: il costruttore non utilizzai materiali che in modo conforme alla loro stabilità natu-rale. A titolo d’esempio, l’acqua non serve a fare i muri,ma a riempire i fossati di cinta. Di conseguenza, il pianifi-catore ha una certa confidenza intorno alla sua natura ealla sua stabilità. Esplicitiamo così uno dei principali con-tratti impliciti che tende a divenire invisibile per eccessodi universalità.

7.7.2.4. I terremoti e le catastrofi naturali hanno il ca-rattere scioccante delle rotture di contratto. Tuttavia, do-po il primo choc, l’urbanista troppo fiducioso si vedemesso in causa: avrebbe dovuto prevedere e premunirsi.C’è quindi un carattere nascosto del contratto, che si rive-la dotato di un innegabile carattere riflessivo: il contrattoavviene tra l’uomo e se stesso oltre che tra l’uomo e la na-tura. Chiariamo.

Avendo notato che la natura esprime comportamentimolto regolari, l’osservatore ne deduce che essa è sprov-vista di una volontà propria e prevede che non si muo-verà in modo imprevedibile. La previsione è fondata sullaregolarità anteriormente osservata, che la modalizza se-condo il dovere (§ 7.6.3.). In altri termini, la natura (iner-te) che non possiede volontà propria è modalizzata neisuoi comportamenti secondo il dovere: essa deve conti-

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nuare a comportarsi come ha sempre fatto. La natura vie-ne quindi antropomorfizzata, poiché l’obbligazione è unamodalità definibile tra due attanti antropomorfi (un sog-getto e un destinante mandante).

Se c’è obbligo, ed è transitivo, conviene porsi la se-guente domanda: “Verso chi è orientato questo obbligo?”Una sola risposta s’impone: “Verso l’uomo che ha osserva-to le regolarità”. Se la natura è antropomorfizzata dall’ob-bligo, e l’obbligo transitivo è orientato verso l’uomo, l’in-sieme della catena equivale a una promessa fatta dalla na-tura all’uomo32. In tal modo, chiunque utilizzi dei mate-riali fa affidamento su questa promessa implicita. Lascienza dei materiali non è che la disciplina attraverso cuiè possibile precisare le condizioni seguendo le quali la na-tura rispetterà i suoi obblighi verso i suoi utenti.

Una precisazione è necessaria; quando la natura sicomporta in modo imprevedibile, è il sapere dell’uomoche è in causa, non la natura. Di conseguenza, ciò che èmodalizzato secondo il dovere non è l’insieme dei com-portamenti della natura ma solo il comportamento cono-sciuto. Questo equivale a dire che il dover fare della natu-ra è strettamente inscritto nel sapere del soggetto cogniti-vo osservatore. Da cui il carattere riflessivo del contratto edella promessa evocati.

7.7.2.5. Ci sono tuttavia casi in cui la messa in operadei materiali permette di costruire delle promesse chiara-mente transitive. A titolo d’esempio, si vede spesso negliaeroporti il dispositivo seguente: le persone venute per ri-cevere i passeggeri all’arrivo possono vederli compiere uncerto numero di formalità (controllo dei passaporti, recu-pero dei bagagli) prima della loro uscita dalla zona “sottodogana”. Tra i due gruppi, una parete di vetro assicura laseparazione somatica pur permettendo la congiunzione vi-siva. Così facendo, si annuncia la loro prossima congiun-zione effettiva, e questo è molto vicino a una promessa.Una situazione analoga è riservata al viaggiatore pronto adandare via: dalla sala dell’imbarco può vedere l’aereo su

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cui salirà di lì a poco, e in questo contatto visivo c’è lapromessa di un contatto somatico differito. Una vetrina dinegozio non funziona diversamente: se in un primo temponon autorizza che la congiunzione visiva e vieta la con-giunzione somatica, essa promette quest’ultima se l’atto discambio è realizzato in modo conforme all’uso. La promes-sa è quindi condizionale, come il passaggio attraverso l’a-pertura che permette di aggirare la parete di vetro.

Simmetricamente alle promesse positive, esistono del-le promesse negative inscritte in una parete di vetro. Ilcaso della vetrina è eloquente: l’atto di rompere il vetroespone il suo autore a vere e proprie punizioni. In unmuseo, il valore dei pezzi induce a completare il vetrocon un sistema d’allarme, e il non rispetto del divieto po-sto dal vetro scatena delle ritorsioni. Pertanto il vetroveicola una minaccia che è stata inscritta e la minaccia sidistingue dalla promessa solo per la valorizzazione del-l’oggetto di cui il destinatario è gratificato: positiva nelcaso della promessa, negativa per la minaccia.

7.7.3. Il controllo di attori non umani

7.7.3.1. In tutti gli esempi esaminati abbiamo suppo-sto che gli attori manifestanti i ruoli attanziali A1, A2 e A5fossero attori umani. L’interpretazione semiotica di questicasi diventava più semplice. Tuttavia, abbiamo visto chegli elementi di natura, se non proprio la natura stessa,possono essere presi in considerazione per la realizzazio-ne del ruolo attanziale A8, e che possano trovarsi inscrittiin essa modalità come il potere, il volere, il dovere e il sa-pere. Se si vuole che il modello abbia una maggiore gene-ralità, conviene esaminare i casi in cui gli altri ruoli attan-ziali sono manifestati da attori non umani.

7.7.3.2. Consideriamo un caso concreto, quello dei pan-nelli di facciata che bordano le celle del convento di LaTourette. Dovuti all’architetto Le Corbusier, sono divisi inquattro sotto-pannelli.

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A destra, c’è una porta in legno33 che va dal suolo alsoffitto e che permette alle persone di passare tra la cellae il balcone (§§ 7.3.1., 7.4.2.).

A sinistra, c’è una porta stretta (15 cm circa di lar-ghezza), in legno, che va ugualmente dal pavimento alsoffitto. Una volta aperta, lascia vedere una griglia metal-lica fine che forma una zanzariera. La fessura verticalecosì aperta è destinata all’areazione della cella. Gli corri-sponde una identica fessura dalla parte del corridoio.L’apertura delle due finestrelle permette di creare unacorrente d’aria fresca senza lasciar entrare le zanzare.Precisiamo che la porta che dà sul balcone non è dotatadi una zanzariera.

Al centro, tra le due porte menzionate, il pannello difacciata è tagliato in due: in basso, un parapetto è scava-to in una nicchia per accogliere il termosifone. Tra il ter-mosifone e il cemento, uno strato d’alluminio incollatoalla facciata riflette il calore verso l’interno della cella.Questo parapetto è sormontato da un vetro montato di-rettamente nel cemento che fa da cornice: il vetro non èapribile.

L’analisi contrastiva degli elementi di questo pannelloè molto istruttiva:

- tutti i componenti del pannello possono isolare dalvento e dagli agenti atmosferici aggressivi in generale;

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- il vetro fa passare la luce ma impedisce il passaggioall’aria e ad altri oggetti;

- la fessura di sinistra lascia passare, in posizione aper-ta, l’aria (e il freddo) ma non fa passare né le persone néle zanzare;

- la porta di destra lascia passare, in posizione aperta, lepersone, la luce, l’aria, le zanzare e gli agenti atmosferici;

- il parapetto in cemento non fa passare né il calore,né la luce, né l’aria, né le persone…

Quest’inventario mette in evidenza che tutte questebarriere sono selettive: esse fanno passare certe categoried’attori ma non altre. Non fanno che esemplificare unaregola generale: il controllo delegato agli oggetti dipendein parte dalle qualità relative dell’attore di cui l’accesso ècontrollato e in parte dalle qualità dei materiali delegatial controllo. A titolo d’esempio, un vestito invernale de-ve essere intessuto finemente per impedire il passaggiodel vento freddo attraverso il tessuto. Uno specchio deveavere maglie di dimensione inferiore al quarto della lun-ghezza delle onde di radiazione riflesse, cosa che permet-te di fare maglie di parecchi decimetri di lato per specchiche riflettano onde radio. Tali esempi illustrano casi diinterdizione selettiva. Se ne possono dare altri: una portadeve essere sufficientemente larga per far passare un uo-mo carico, un vestito deve essere sufficientemente legge-ro per far passare l’aria attraverso le sue maglie pur pro-teggendo il corpo dal sole o dagli sguardi, un vetro aspecchio deve lasciar vedere da un lato pur riflettendo laluce dall’altro.

7.7.3.3. Dal punto di vista del passaggio condizionato,ci interessa esplicitare la seguente nozione di base: un og-getto non possiede qualità in sé, ma qualità in relazione aun altro oggetto all’interno di un programma dato. Il pro-gramma del passaggio è fondato sulla premessa del liberospostamento. Da questo punto di vista, lo spazio vuoto èportatore della modalità del poter-fare. La materia solidanon è percepita, a un primo approccio, che a titolo di

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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spazio del non-poter-fare34. Il passaggio attraverso la ma-teria necessita dell’uso di apparecchiature adeguate comeun coltello, forbici, punte… altrettanti soggetti delegatidall’uomo per passare là dove egli non può passare da so-lo. Gli esempi si affastellano nelle applicazioni tecniche,dove si mettono a punto sia gli attori delegati al passaggiosia gli attori destinati a fermarli o a controllarne gli spo-stamenti. In quest’attività, le qualità descrittive della mate-ria sono sfruttate a titolo di qualità modali; la durezza diun metallo è ciò che garantisce il suo potere di penetra-zione, la velocità di un proiettile è ciò che definisce la suaenergia cinetica e di conseguenza la sua capacità di pene-trazione o di distruzione. Come per gli altri casi di rela-zione uomo-natura (§ 7.6.3.), la regolarità dei comporta-menti della materia trasforma la lettura di queste moda-lità attualizzanti in quella di modalità virtualizzate dal do-vere. Infine, il voler-fare umano, estraneo alla materia,può esservi iscritto tramite la manipolazione dello spazioe delle situazioni di comunicazione.

La scelta degli elementi che materializzeranno una fron-tiera è solo un caso particolare di questa procedura generale.Viene svolto in funzione delle entità che possono passare at-traverso di essa, il caso degli attori umani essendo solo unotra gli altri. Vediamo che la questione della privatizzazionerinvia alla problematica molto generale del controllo dei pro-cessi e del dominio dello spazio. Un tale grado di generalitànon è interessante se non nella misura in cui permette diesplicitare le premesse di base, la cui ignoranza rischia di farcadere in errore. Rimane da precisare nuovamente le specifi-cità della privatizzazione dello spazio umano.

7.8. Le conseguenze dell’accesso e il dono simbolico

Abbiamo appena visto che il luogo privato è nei fattiun topos privatizzato. Ciò equivale a dire che non è datocome privato, ma che bisogna definirlo o costruirlo comeprivato mediante una serie di azioni, preparate da propo-

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ste di azione indirizzate verso terzi. In più, questo caratte-re privato è labile e la sua conservazione esige la messa inopera di strategie adeguate. Una di queste strategie (manon la sola) consiste nel posizionare, attorno a luoghi pri-vatizzati dispositivi stabili che ne controllino l’accesso.Stabilito questo, esaminiamo le conseguenze dell’accessoe quelle della moltiplicazione dei luoghi privatizzati.

7.8.1. Il dominio dello spazioI differenti esempi che abbiamo descritto e analizzato in

questo studio convergono a dare una certa immagine del“padrone dei luoghi”. In effetti, egli non è che il padrone dicerti poteri: poter entrare e uscire, poter abitare, ricevere,dormire, sedersi, mangiare… L’inventario delle grandezzesintattiche necessarie alla descrizione di queste azioni si ri-duce a quattro: due attori, che sono il topos-oggetto da unaparte e il padrone-soggetto d’altra parte, legati da una classeindeterminata di funtori che riguardano la categoria delfare, essendo questi funtori sovradeterminati da un meta-funtore che non è altro che la modalità del potere.

Modalità ModalitàPotere

Fare Giunzione

Soggetto Topos Soggetto Topos

È l’insieme gerarchizzato fare + potere35 che definisce ilcontrollo dei luoghi36. Il presupposto comune a questi po-teri particolari, e quindi del dominio in generale, è il potered’accesso (§ 7.6.2) che rende possibile la congiunzione trasoggetto umano e oggetto topos. A questo titolo, la moda-lizzazione del fare giuntivo costituisce il nocciolo duro dellacompetenza attualizzata del padrone dei luoghi.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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L’acquisizione, la modificazione e la stabilizzazione delpotere giuntivo sono operazioni la cui descrizione sintatti-ca37 permette di caratterizzare le diverse varietà della priva-tizzazione installando un certo dominio dello spazio. Co-minceremo con il descrivere questo dominio comune a tut-te le varietà di privatizzazione, cioè il minimo necessario alriconoscimento del “privato”.

Nell’esempio di La Tourette, abbiamo riconosciuto lafonte di questi poteri come una istanza destinatrice, deno-tata A5, A6 o A7 secondo le modalità particolari che essa in-vestiva nel soggetto A2. Attraverso le varianti culturali os-servabili, è possibile costatare che questi poteri sono rico-nosciuti dalle società come illimitati nel tempo, trasmissibilie cedibili nei casi della proprietà, limitati nel tempo e nellatrasmissione per ciò che concerne la locazione, ancora piùlimitati per gli eventi transitori. Due distinte osservazionine derivano:

i) La “società” può essere comodamente posizionata nelruolo di destinante mediato se l’interazione osservabilenon permette di identificare gli attori immediati con mag-gior precisione. Sappiamo che tutte le procedure contrat-tuali si richiamano, in ultima istanza e dopo un numero va-riabile di tappe intermedie, alla convenzione sociale38.

ii) La mobilità di questi poteri, o la loro cedibilità mani-festata attraverso i dati osservabili (§ 7.8.2.1.), implica unmeccanismo di delega nel caso generale, visto che succedespesso che l’istanza preposta a fornire il potere non lo con-cede se non conservando la possibilità di riprenderselo: è ilcaso dei feudi, dei prestiti, e, in misura più limitata, degliappartamenti in affitto. Questo stesso meccanismo di dele-ga è all’origine dei sincretismi attanziali A2-A5; A2-A6; o A2-A7 evocati in precedenza. L’autorizzazione d’accesso mettein gioco questo meccanismo e ne esamineremo le conse-guenze a partire da qualche esempio.

7.8.2. Il dono simbolicoGli esperimenti fatti a La Tourette si inscrivono nella

serie di osservazioni che abbiamo condotto in Giappone39,

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in Francia (Groupe 107, 1973) e in Siria40. Esse erano de-stinate a convalidare in situ, nell’intenzione degli stagisti econ il loro aiuto, una parte dei risultati raggiunti nelle no-stre analisi anteriori. Da un punto di vista epistemologico,questa procedura si inserisce nell’approccio sperimentalenel senso metodologico del termine. I risultati possono es-sere considerati definitivi a proposito della privatizzazione,dell’accesso condizionale, della negoziazione e del quadrocontrattuale generale. Tuttavia non sono stati altrettantodidatticamente evidenti per un altro risultato importanteestratto dalle nostre analisi anteriori, ovvero l’interpretazio-ne in termini di dono simbolico dell’attribuzione, da partedel padrone dei luoghi, di un topos al suo visitatore. Perquesto motivo riprenderemo l’esempio delle case tradizio-nali giapponesi, dove tali pratiche sono altamente leggibili.Citeremo dove d’uopo alcuni esempi di La Tourette.

7.8.2.1. Quando un giapponese che gioca il ruolo attan-ziale di A2 riceve in casa un visitatore che manifesta il ruoloattanziale A1, e che vuole onorare, lo conduce fino al postod’onore chiamato *Za-shiki, facendogli attraversare un cer-to numero di posti abitualmente messi in fila. Più A2 è ric-co, maggiore sarà il numero dei posti in successione. Nonper grado di ricchezza, poiché questi posti rimangono pra-ticamente vuoti, ma perché dovrà distinguere i suoi visita-tori secondo il rango: più sono onorabili, più numerosi sa-ranno i posti da attraversare prima di essere invitato a se-dersi. Ne deriva che il loro statuto sarà anch’esso significa-to all’interno del posto tramite la presenza del cuscino chesarà loro riservato.

Autorizzando A1 a varcare la cinta A8 che circonda ilsuo territorio, A2 fa dono al suo visitatore di un valore mo-dale: quello di potere41 oltrepassare il confine. Questa so-glia non è la sola che sia investita in questo modo: nellacasa, tutti i confini comuni a due vani contigui sono se-manticamente caricati, come manifestato dal rituale dipassaggio a ogni soglia: il visitatore si ferma e il padronedei luoghi lo prega di andare oltre. Il superamento di que-

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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sti confini non è offerto a tutti: solo i visitatori di rangohanno questo diritto, mentre la vicina venuta per chiac-chierare deve restare all’entrata.

7.8.2.2. Ogni confine presuppone uno spazio confi-nante, poiché la relazione confinante-confinato è di mu-tua presupposizione (Poincaré 1913, pp. 133-157). Ne ri-sulta che potremmo rendere conto di queste osservazionisia in termini di oltrepassamento dei confini sia in terminidi congiunzione con dei topoi. La considerazione deiconfini mette l’accento su azioni modalizzate (poter var-care). La considerazione dei topoi mette l’accento su statimodalizzati (congiunzioni-disgiunzioni possibili tra sog-getti umani e oggetti topoi). Da un punto di vista pura-mente sintattico, è lo stesso affermare che la modalità delpotere è acquisita da A1 (offerta in dono da A2-A6) al mo-mento del superamento del confine A8 o dire che essa èstata acquisita (data) dalla congiunzione con il topos A3.Le differenze tra queste due maniere di esprimere le coseappaiono solo dal punto di vista sintagmatico: prima dipassare il confine A8, l’attore A1 deve confrontarsi con lamaterialità di questo confine quando quest’ultimo èespresso da un dispositivo stabile che veicola enunciativirtualizzanti e attualizzanti.

7.8.2.3. A1, visitatore di alto rango condotto fino alla*Za-shiki, si vedrà offrire il posto onorabile. Gli altri attorivisitatori, se ve ne sono, si vedranno offrire un posto in fun-zione del loro rango. A2, padrone di casa, si metterà di fron-te ad A1, nel posto gerarchicamente più basso: avendo ce-duto i topoi uno a uno, ha ceduto i suoi poteri e si ritrova aun livello gerarchicamente inferiore, come è espresso dallaconfigurazione statica dei posti a sedere. In questo modoviene marcata simbolicamente la performanza che congiun-ge A1 con gli oggetti-valore spaziali che erano in precedenzacongiunti con A2. A1 è staticamente asserito come superioread A2 per tutta la durata della visita. Andandosene, A1 cedei topoi ad A2 che vi rimane congiunto.

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La cerimonia del tè, celebrata in un’architettura parti-colare che obbedisce a regole più formali, ci offre una si-tuazione radicale. Durante l’intera cerimonia, è il primo in-vitato che controlla lo spazio: invita a entrare colui che abi-tualmente è il padrone di casa, al momento in cui quest’ul-timo si inginocchia fuori della soglia per salutare. Il primoinvitato controlla anche il tempo e lo svolgimento degli av-venimenti: decide chi ha mangiato abbastanza, domandaun decotto di riso, offre da bere e da mangiare all’usualepadrone di casa. Insomma, l’inversione delle competenze èquasi totale.

7.8.2.4. È interessante osservare che nel convento di LaTourette gli abitanti delle celle hanno adottato lo stessomodo di fare, facendo attraversare i topoi al fine di attri-buire al visitatore il topos ultimo della serie, quello delbalcone. Questa procedura esisteva in Francia, in periodiantichi, stando almeno alla letteratura: così, in tutti gli ap-partamenti del XVII secolo, dove le stanze erano dispostein successione42, si ricevevano i visitatori onorevoli nellacamera di fondo. Far fare anticamera era considerato ne-gativamente.

La similitudine della pratica delle celle di La Tourettecon quella delle case giapponesi si spinge ancora più lonta-no, poiché la *Za-shiki è necessariamente visibile dal giar-dino, condizione realizzata dal balcone in questione. Mal-grado certi elementi suggestivi per l’analisi di questo acco-stamento, non sembra possibile fondarlo su regole dimo-strabili che abbiano una validità certa in Francia e in Giap-pone. Il piccolo numero di occorrenze disponibili e il ca-rattere parziale delle osservazioni fatte costituiscono unostacolo maggiore.

7.8.2.5. In Occidente, il dono simbolico dei topoi di-venta più evidente quando si presta una camera al visita-tore che resterà un certo periodo in casa: a partire daquesto momento, la camera attribuita non è più accessibi-le al resto degli abitanti del luogo. O meglio, non è più

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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accessibile senza un rituale equivalente a quello del visita-tore che chiede l’accesso in casa di altre persone. Ora,l’attribuzione di una poltrona, di un divano, di una sedia,non è per nulla differente dal punto di vista dei meccani-smi in gioco. Variano solo le dimensioni del topos accor-dato, necessariamente in connessione con l’estensione deiluoghi disponibili al momento dell’interazione presa inconsiderazione.

Al convento di La Tourette, gli esperimenti del refetto-rio hanno manifestato procedure di dono simbolico ognivolta che un gruppo o un membro del gruppo offriva, auna persona che passava nelle vicinanze, un posto a tavola.Il dono è stato nettamente espresso al momento delle ma-nipolazioni del paragrafo 7.3.4. (analisi in 7.4.5.), nel corsodelle quali marche di proprietà erano state messe sulle se-die (o con il vino versato nei bicchieri) al fine di segnalarnel’appartenenza. In effetti, c’era stato bisogno di togliere lemarche di proprietà prima di offrire il posto a colui chestava sopraggiungendo, per negare l’attribuzione anterioreprima di dichiarare un nuovo dono.

7.8.3. La segmentazione dello spazio privato

7.8.3.1. Conviene notare che, in ognuno degli esempiesaminati, il dono simbolico verteva solo su una porzionedel topos A3 disponibile. In alcun caso abbiamo potutoosservare l’offerta della totalità del topos. Pertanto si im-pone una domanda: questa assenza è necessaria o contin-gente?

La risposta risiede in un’analisi più approfondita dellavisita. Fino a questo momento abbiamo esaminato diffe-renti forme di visita senza porci la domanda della loro fi-nalità (salvo nel caso delle manipolazioni destinate a rive-lare meccanismi di funzionamento). Per quale ragione A1si reca da A2 per esprimere il suo desiderio di entrare? Èpossibile rilevare centinaia se non migliaia di motivi con-creti, che vanno dalla visita di augurio del nuovo anno aquella della richiesta di matrimonio, passando per la visita

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ai convalescenti. La risposta non si trova quindi a questolivello di funzionalità. Basta osservare che lo svolgimentospaziale della visita è stabile, indifferente a questa commu-tazione potenzialmente infinita, per dedurre che c’è qual-che cosa che non riguarda il programma enunciato. L’ipo-tesi di una finalità strettamente spaziale è difficile da so-stenere: non si può pretendere che tutti i visitatori sianoinnamorati dello spazio, desiderosi di congiungersi con gliangoli più nascosti.

Il programma di base della visita è situato a un livellogerarchicamente superiore, quello della negoziazione-rine-goziazione delle relazioni interpersonali. Colui che viene afarsi ricevere si fa riconoscere come degno di entrare. Si-multaneamente, colui che riceve si mostra degno dellosforzo e dello spostamento dell’altro. La visita permettequindi un mutuo riconoscimento dei protagonisti. Il compi-mento delle visite rinserra il legame che li unisce e la ripeti-zione delle visite può trasformare la relazione: dalla cono-scenza si può passare all’amicizia. Inversamente, la dilata-zione temporale delle visite può produrre la distensionedei legami.

Abbiamo visto che il riconoscimento di A1 compiuto daA2 è stato espresso dal dono simbolico dei topoi: A2 offread A1 la congiunzione con alcuni topoi, così come le moda-lità di potere afferenti. Se cedesse tutti i poteri, l’espressio-ne di riconoscimento non varrebbe nulla: non si può rico-noscere un altro se non si è già qualcuno. In altri termini, ènecessario essere competenti per farlo43. Sull’isotopia spa-ziale che stiamo analizzando, ciò che fonda la competenzaè la congiunzione con i topoi. Di conseguenza è necessarioche A2 conservi la congiunzione con certe porzioni del suoproprio spazio A3. Se cede ad A1 una parte inferiore aquella che mantiene per sé, conferisce ad A1 uno statutoinferiore a quello che si dà. Se cede ad A1 una porzione su-periore di quella che conserva, gli conferisce uno statutosuperiore al proprio. Questo meccanismo è chiaramenteespresso nelle società fortemente gerarchizzate, in partico-lare in Giappone. Lo studio della letteratura occidentale

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

Page 261: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

mostra che funzionava allo stesso modo nelle società ari-stocratiche, dove la gerarchia era fortemente marcata. È fa-cile verificare la correlazione tra gradi di espressione diquesta regola e gradi di penetrazione di una ideologia ge-rarchica nella società; allo stesso modo è facile verificareche le visite contrattuali si fanno solo a un livello socialesensibilmente parificato, anche nelle società dette demo-cratiche.

7.8.3.2. Il meccanismo ricorrente e stabile sembra ridu-cibile a una suddivisione temporanea dello spazio, distin-guendo due topoi in seno a ciascun topos che giochi il ruo-lo attanziale A3:

i) il topos A3,1 attribuito ad A1 in seno al Topos globaleA3, di cui il padrone riconosciuto è A2

44;ii) il topos A3,2 che A2 si riserva in seno ad A3.Se si tenta di qualificare verbalmente, in termini di pri-

vato e di pubblico, gli spazi così divisi, si potrà dire quantosegue: il topos A3,1 è un topos prelevato sui topoi privati diA2 e reso relativamente pubblico. Il topos A3,2 è un topossalvaguardato tra i topos di A2 e reso ancora più privato. Intermini di privatizzazione, questo crea una gradazione neimodi della privatizzazione. Nelle pratiche militari, si chia-merebbe edificazione di una seconda linea difensiva quan-do la prima ha ceduto.

La definizione del topos A3,2 procede per sottrazione: èciò che resta del Topos A3 quando il topos A3,1 è stato ce-duto. Per esprimere questo tipo di relazione, si possononotare i topoi parziali in modo più esplicito:

A3 Topos riconosciuto “presso A2” A3=Topos[A2]=T[A2]A3,1 Topos attribuito ad A1 presso A2, cioè t(A1)ŒT[A2]A3,2 Topos preservato da A2, cioè t(A2)ŒT[A2]

Notiamo con t(Ai) il topos inglobato, e con T[Aj] il to-pos inglobante, con Ai,j il topos attribuito ad Aj in seno aun topos Ak riconosciuto ad Ai. I due sistemi di notazionesono equivalenti dal punto di vista logico. Nelle prossime

MANAR HAMMAD

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dell’articolo daremo preferenza alla notazione che eviden-zia la relazione d’inclusione visto che permette di verbaliz-zare più facilmente e consente una notazione più esplicitadelle operazioni e delle relazioni45.

7.9. L’organizzazione paradigmatica dello spazio priva-tizzato

La strategia analitica che abbiamo adottato, basatasull’osservazione di situazioni concrete interrogate a par-tire dal loro svolgimento dinamico, ha dato alla maggiorparte delle nostre descrizioni un carattere marcatamentesintattico. Avremmo così privilegiato l’analisi sintattica adiscapito di una descrizione paradigmatica che avrebbesviluppato la dimensione tassonomica dei fenomeni stu-diati. Tenteremo di ristabilire un equilibrio nella parteche segue.

7.9.1. Lo spazio della visita

7.9.1.1. Riprendiamo il caso di una semplice visita. Ab-biamo visto che, dal punto di vista spaziale, la sua descri-zione necessita del riconoscimento di due topoi, A3 e A4che realizzano una partizione completa dell’estensione di-sponibile: tutto ciò che non è all’interno del topos A3 è ri-gettato per definizione nello spazio esterno A4.

Ciascun topos è rappresentato da una regione chiusadel piano. La forma di questa regione è puramente indi-cativa e non è legata da alcuna costrizione a quella delluogo che può manifestarla. Dato che il confine che le se-

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

A0 A4 A3

Page 263: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

para non è sempre materializzato, si può, in un primotempo, farne astrazione per concentrare la nostra atten-zione unicamente sui luoghi. In ogni caso, questo confinenon è un luogo.

Considerati in rapporto all’estensione costitutiva delmicrouniverso della situazione analizzata, i topoi A3 e A4sono complementari. È facile mostrare che la relazione dicomplementarità tra due sotto-insiemi di un insieme èomologa alla relazione di contraddizione logica poiché neverifica la definizione punto per punto46.

Di conseguenza, l’estensione A0 può essere considera-ta come una categoria logico-semantica articolata in duetermini contraddittori. Fino a che non ci sono altri termi-ni nella categoria, questi due possono anche essere pensa-ti come contrari, essendo confuse le due opposizioni dalpiccolo numero di termini disponibili. Da cui lo schemaseguente:

7.9.1.2. Riprendiamo la questione del confine che sepa-ra A3 da A4. Da un punto di vista strettamente matemati-co, il confine e il confinato intrattengono una relazione dimutua presupposizione (Poincaré 1913, pp. 133-157) cherende impossibile definire l’uno in assenza dell’altro. Daquesto stesso punto di vista, il confine è di dimensione n-1mentre il confinato è di dimensione n. Ne segue che ilconfine A8 è una linea e non è un luogo47, essendo A3 e A4assimilabili, dal punto di vista degli spostamenti e delle su-perfici. Non riguarda né il topos interno né quello ester-no. Si tratta quindi di un termine sospensivo o termineneutro che può essere integrato nella struttura tassonomi-ca della categoria nel modo seguente:

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EstensioneA0

A3 A4

Interno Esterno

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Riconosciamo in questo schema, in termini logici, duetermini contrari con un termine complesso e uno neutro.Per i matematici, si può parlare di una topologia elementa-re costruita su due termini, con il loro supremum e il loroinfimum (o un simplex di ordine 2).

7.9.2. Lo scambio delle visite e l’obbligo di simmetriaspaziale

7.9.2.1. Data la finalità ultima della visita, che è il mu-tuo riconoscimento, e considerando la durata delle relazio-ni interpersonali, la visita è raramente un’occorrenza unica:l’osservazione ce la mostra inserita in una serie alternativadove le visite sono ricambiate. È soprattutto il caso quandoA1 e A2 sono attori in posizione di simmetria sociale, e loscambio garantisce la simmetria delle relazioni e la loro con-tinuazione. Si tratta, ben inteso, di una simmetria contrat-tuale. Riveste un carattere obbligatorio a partire dal mo-mento in cui almeno una visita è compiuta e quando i dueprotagonisti desiderano mantenere la loro relazione. Diconseguenza, A1 si ritrova con l’obbligo di ricevere A2, perdargli accesso in un topos A9 che controlla. Sarà anche in-dotto a condurre, in seno al proprio spazio A9, una parti-zione simile.

Ricordiamoci che da un punto di vista formale la situa-zione polemica incassata, tale e quale l’abbiamo reperita eanalizzata nei paragrafi 7.3.-7.5., riguarda una simmetriacompleta tra i protagonisti dell’interazione. Abbiamo quin-di a che fare con una simmetria ai due livelli incassante

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

Estensione

A0

A3 A4

Interno Esterno

A8

Confine

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(contrattuale) e incassato (polemico). Analizziamone le con-seguenze a livello spaziale, pronti a modificare ulterior-mente il modello per le situazioni non simmetriche.

7.9.2.2. Abbiamo visto (§§ 7.9.1.1., 7.9.2.2.) che la visitaarticola la categoria dell’estensione in tre istanze spazialiA3, A4 e A8. Ora, la conservazione contrattuale delle rela-zioni (in ultima analisi quella del carattere privato del to-pos A3) impone la simmetrizzazione del dispositivo, da cuideriviamo l’istanza A9 definita come “presso A1”, il confineA10 di questa e il suo esterno A11 definito come tutto ciòche non è A9.

Rigorosamente parlando, questa simmetrizzazione haun’incidenza sui ruoli attanziali associati ai topoi:

i) l’istanza A10, definita come confine, presuppone un’i-stanza attanziale A12 che ne controlla il varco. Fino a chequesta istanza non avrà incidenza sulla nostra analisi, la la-sceremo da parte. Ammetteremo piuttosto che, in certi ca-si, possa essere manifestata in sincretismo con il ruolo at-tanziale A1 da un attore unico.

ii) Il ruolo attanziale A1, che era associato al topos A4, sitrova ora associato al topos A9. Questo non significa chel’associazione con il topos A4 sia effimera: il legame tra A1e A9 è un legame di padronanza diretto; il legame tra A1 eA4 non è un legame di padronanza diretta.

Il microuniverso considerato per una visita o per unaserie di visite è lo stesso. Ne risulta che non può raddop-piarsi nella simmetrizzazione considerata: l’estensione A0divisa in topoi è un’invariante che gioca il ruolo di supre-mum comune a tutte le possibili partizioni. Si può dunquecostruire, per la categoria dell’estensione organizzata dalla

MANAR HAMMAD

A0 A11 A9

Page 266: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

privatizzazione di un topos fatta da A1, uno schema paral-lelo al precedente:

7.9.2.3. Rimane da descrivere l’articolazione tassonomi-ca dell’estensione in copresenza dei topoi A3, A4, A9 e A11riconosciuti dalle procedure sintattiche.

Abbiamo visto al paragrafo 7.9.1.1. che, in relazione al-l’estensione A0, i topoi A3 e A4 sono riconoscibili comecontraddittori, e il loro statuto di contrari non è che un ef-fetto del numero limitato a due delle parti dell’estensione.Per ragioni di simmetria, si può dire che i topoi A9 e A11sono contraddittori. Disponiamo quindi di due coppie dicontraddittori, definite come simmetriche per costruzione.

Esaminiamo la natura logica della relazione tra i terminiA3 e A9. In generale, sono regioni disgiunte definite in senoall’estensione A0.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

EstensioneA0

A9 A11

Interno Esterno

A0 A4 A3 A0 A11 A9

A0 A4 A3 A0 A11 A9

A0 A3 A9

A4

A11

Page 267: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

Se si verificano le condizioni di appartenenza di unpunto all’una o all’altra regione, si può constatare che ri-producono la definizione logica della relazione di contra-rietà48. In modo più intuitivo, si può anche constatare chenon è possibile alcun passaggio diretto tra questi termini,come nessun passaggio diretto tra i termini contrari delquadrato semiotico. Infine, la verifica delle condizionid’appartenenza di un punto ai topoi A4 e A11 mostra chesono in relazione di subcontrarietà49. Riassumiamo facil-mente sul seguente quadrato semiotico:

È facile verificare che A11 contiene A3; che A4 contieneA9; che ogni percorso da A3 ad A9 passa per A4; che ognipercorso da A9 ad A3 passa per A11. Questi ultimi dueenunciati costituiscono una convalida sintattica del quadra-to tassonomico che abbiamo appena costruito. Vedremo inseguito che è passibile di sviluppo per tenere conto dellaricchezza delle analisi sintattiche effettuate in precedenza.

La categoria dell’estensione A0 che ingloba questi quattrotermini, analizzata come termine complesso di ogni coppia dicontrari, non può più essere rappresentata nel piano di que-sto quadrato, e bisognerà ricorrere a un modello tridimensio-nale. Allo stesso modo, la frontiera che era apparsa come untermine neutro per ciascuna coppia, non troverà il suo postoche in un modello tridimensionale. Rimane da sapere qualisono i termini neutro e complesso di questo quadrato.

MANAR HAMMAD

A3

A11

A9

A4

A10

Confine

Page 268: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

7.9.2.4. I topoi A3 e A9 sono i luoghi privatizzati in senoall’estensione di partenza. Il termine complesso che li sus-sume entrambi è quindi la categoria dei topoi privatizzati,realizzata in due regioni disgiunte. Noteremo A13 questanuova entità costruita come riunione dei topoi privatizzati,che si scrive così:

A13 ∫ A3 ” A9

Il termine neutro si costruisce come l’intersezione deitopoi non privatizzati, ossia quella dei topoi A4 e A11. Lonoteremo con A14 e scriveremo il tutto come:

A14 ∫ A4 “ A11

Si può descriverla come “l’estensione da cui sono stateestratte le regioni privatizzate A3 e A9”, ovvero, in terminimeno formali ma più evocativi: né A3 né A9.

Tutto ciò ci permette di proporre un quadrato semioticocompleto dotato dei suoi termini neutro e complesso, ossia:

Se si desidera rappresentare la categoria dell’estensionecosì sviluppata, bisogna richiamarsi a una topologia piùelaborata, detta topologia semplice di ordine 3, raffigurabilein piano attraverso la prospettiva di un parallelepipedo, cui

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

A3

A11

A9

A4

A13 ≡ A3 ∪ A9

A14 ≡ A4 ∩ A11

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si dà per comodità la forma regolare di un cubo. L’infimumdi questa struttura è occupato dalla riunione dei confini A8e A10, termine che noi chiameremo A15.

Il lettore interessato potrà verificare che un tale cubo,edificato su di un punto (quello dell’infimum), in modoche la diagonale passante per l’infimum e il supremum siaverticale, si proietta sul piano orizzontale come un esagonoregolare, quello, giustamente, del quadrato completato daitermini neutro e complesso. Con una tale proiezione, l’infi-mum e il supremum si ritrovano congiunti al centro dell’e-sagono. La rappresentazione esagonale abituale in semioti-ca omette questa notazione.

7.9.2.5. Prima di continuare, due osservazioni metodo-logiche.

i) Quella che abbiamo appena costruito è la strutturalogico-semiotica che sottende le configurazioni spaziali mi-nimali relative a una visita, da una parte, e allo scambio divisite tra due attori umani simmetrici, d’altra parte. La rap-presentazione della struttura riveste la forma di un graficodove i nodi valgono per i topoi, e i segmenti di congiunzio-ne per le relazioni tra topoi. Parallelamente, la rappresenta-zione delle configurazioni topiche riveste la forma di dia-grammi topologici simili a quelli di Venn, familiari ai logici,con cui le regole di appartenenza di un punto a una regio-ne traducono relazioni logiche. È facile passare dai dia-grammi ai grafi e viceversa: descrivono lo stesso micro-uni-

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A13

A9

A4

A14

A3

A11

A0

A15

A13

A3

A15

A14

A4

A0

A11

A9

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verso, con proprietà che mettono in evidenza le proprietàspecifiche all’uno o all’altro. I diagrammi privilegiano le re-lazioni topologiche d’appartenenza, i simplex privilegianole relazioni giuntive, i quadrati e gli esagoni privilegiano lerelazioni oppositive costruite sulle precedenti.

ii) Ognuno dei topoi, può rivestire differenti forme geo-metriche senza che ciò modifichi l’analisi in modo sostan-ziale: nel modello che abbiamo costruito, i topoi sono trat-tati come ruoli attanziali (antropomorfi) concernenti l’“at-tante oggetto” che possono essere manifestati da diversi at-tori selezionati nell’estensione. In particolare, ogni topospuò essere manifestato da numerosi luoghi contempora-neamente, riuniti in un solo ruolo sintattico. Esplorememooltre (§ 7.9.4.) le diverse implicazioni di una tale moltipli-cazione. In seguito (§ 7.10.1.), esamineremo l’articolazionedella categoria attanziale correlata, quella del soggetto (ma-nifestato da attori umani) che si congiunge o si disgiungeda questi topoi50.

7.9.3. L’incassamento delle strutture privatizzantiAbbiamo visto al paragrafo 7.8.3. che una delle conse-

guenze della visita è la creazione, in seno allo spazio priva-tizzato, di zone ancora più private differenziate dalle zonepiù pubbliche dove il visitatore è ammesso. Ora ne reperi-remo la strutturazione.

7.9.3.1. Se il topos A3 non è un termine semplice perchéè chiamato a essere diviso in due al momento della visita, al-la stesso modo di A9 per ragioni di simmetria, l’articolazio-ne di base del paradigma dei luoghi privatizzati non si ridu-ce al riconoscimento di una categoria A13 organizzata in duetermini contrari (A3 e A9) con i loro contraddittori: si co-struisce su due categorie correlate che si articolano in quat-tro topoi ciascuna. Riprendiamo il discorso in dettaglio.

- Il Topos A3 è diviso in due topoi:A3,1 Topos attribuito ad A1 presso A2, notato come

t(A1)∈T[A2]

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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A3,2 Topos preservato da A2 presso A2, notato t(A2)∈T[A2]

Tra i due passa una frontiera che chiameremo A3,0.

- Il Topos A9 è diviso in due topoi:A9,2 Topos attribuito ad A2 presso A1, notato t(A2)∈T[A1]A9,1 Topos preservato da A1 presso A1, notato t(A1)∈T[A1]

Tra i due passa una frontiera che chiameremo A9,0.Riprendendo queste strutture sull’esagono delle visite

simmetriche, ne deriva:

La categoria dell’estensione, la cui strutturazione attra-verso le visite simmetriche prende la forma di un parallele-pipedo che si proietta in esagono sul piano, appare alloracome più complessa. Dall’incassamento di un simplex diordine 2 in ciascuno dei nodi A3 e A9, si può dedurre che inodi A4 e A11 sono sviluppabili allo stesso modo per ragionidi simmetria, così come il raddoppiamento dei nodi A13 eA14. La struttura risultante è un simplex di ordine 4, dotatodi 16 nodi, rappresentabile in piano da un grafo a frecce. Sela lettura delle relazioni logiche di contrarietà e di subcon-trarietà non è immediata su di un tale grafo, queste ultimesono nondimeno formalmente identificabili. In più, la retecosì definita permette di riconoscere altre relazioni, che ri-guardano uno stesso paradigma e che sono definibili in ter-

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mini simili, non avendo ricevuto una denominazione nellatradizione logica o semantica. Eccone un esempio.

7.9.3.2. Tra i topoi A3,1 e A3,2, la relazione di contraddi-zione è riconoscibile nella loro complementarietà di topoiinglobati t(A1)∈T[A2] e t(A2)∈T[A2] in seno al Topos[A2]inglobante. Una relazione identica è riconoscibile tra A9,2 eA9,1. Considerando queste relazioni di contraddizione e lecategorie dei “topoi resi pubblici in seno a un topos privato”e dei “topoi resi privati in seno a un topos privato”, si posso-no disporre questi quattro termini nel modo seguente:

Tanto per il semiologo quanto per il logico, questo qua-drato è tassonomicamente ben costruito. Sulle diagonali lerelazioni sono contraddizioni. Tuttavia non si può dimo-strare che i topoi A3,1 e A9,2 intrattengano una relazione dicontrarietà, o che A9,1 e A3,2 una di sub-contrarietà. Infine,si vede difficilmente qual è il programma narrativo capacedi generare in modo non mediato un percorso sintattico trai termini del quadrato. Rimane tuttavia il fatto che il qua-drato, estratto da un simplex di ordine 4 di cui abbiamoevocato la costruzione, sembra dotato di una logica internacoerente. Non si tratta di un “quadrato semiotico” stan-dard, ma è qualcosa che ci assomiglia molto. Corrisponde auna situazione più complessa dei casi correnti in semioticanarrativa. La sua pertinenza per la questione della privatiz-

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

topoi resi pubbliciin seno a un toposprivato

topoi resi privati inseno a un toposprivato

t(A1)∈T[A2]A3,1

A9,1t(A1)∈T[A1]

Topoi di A1 nellospazio sociale

t(A2)∈T[A1]A9,2

A3,2t(A2)∈T[A2]

Topoi di A2 nellospazio sociale

Page 273: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

zazione invita a esaminarlo più da vicino e a denominare lerelazioni così scoperte.

7.9.3.3. Il sistema di notazione che distingue due livelli(quello del topos localizzato e quello del Topos globale,legati da una relazione di inclusione) permette di trarre, apartire da questo quadrato, proposte che non mancanod’interesse, sebbene la loro interpretazione possa appariredifficoltosa al lettore non abituato alla formalizzazione, onon familiare con i meccanismi della privatizzazione.

Il termine complesso costruito su A3,1 e A9,2 può esserescritto in questo modo:

t(A1 e A2)∈T[Ai]

Sarà verbalizzato in questi termini: “topos di A1 e A2 nel-l’insieme dei topoi concernenti A1, A2,… An”. Questo traduceil fatto che in un micro-universo finito, gli spazi attribuiti a unsoggetto collettivo delegato sono colti in un insieme di spazicontrollati da soggetti particolari. Si tratta della procedura at-traverso cui è instaurato ogni nuovo spazio collettivo privatiz-zato in un micro-universo finito in cui tutte le parti fosserogià privatizzate. Una tale operazione è osservabile nelle pro-cedure di riarticolazione urbana, dove i proprietari particolarisono costretti a cedere alla comunità una parte delle loro ter-re, per liberare le superfici necessarie allo stabilimento dellasede stradale e degli edifici collettivi (cfr. Bourdier 1989).

Il termine neutro costruito su A9,1 e A3,2 può esserescritto nel modo seguente:

t(nonA1 o nonA2)∈T[nonAi o non Aj]

Formula che può essere verbalizzata così: “topos non di-pendente né da A1 né da A2 in un luogo non dipendente danessun attore particolare”. Si tratta di uno spazio sospensi-vo, su cui i controlli individuali e collettivi sono sospesi:uno spazio di “no man’s land”. Riesamineremo tali casi nelparagrafo 7.10.

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7.9.4. La moltiplicazione degli spazi privatizzati

7.9.4.1. Abbiamo definito i termini A1, A2, A3, A9 ecc.come ruoli attanziali, sintatticamente dipendenti da una in-terazione sociale e spaziale. A livello di manifestazione, pos-sono essere realizzati da una simultanea molteplicità di atto-ri differenti: ci sarebbero tante situazioni potenziali quantilegami binari sono possibili. La realtà osservabile corrispon-de a questo caso, con un gran numero di soggetti che priva-tizzano simultaneamente un gran numero di luoghi. Consi-deriamo le conseguenze della moltiplicazione degli attoridella privatizzazione cominciando da quella della moltipli-cazione dei topoi privatizzati come A3 e A9. Da un punto divista spaziale, la questione si riconduce a quella della dispo-sizione di tali luoghi in seno all’estensione. Abbiamo vistoche A3 e A9 sono, in generale, non giuntivi (= non contigui)e separati da una porzione dell’estensione rimanente. Que-sta disposizione è necessaria?

Da punto di vista di una interazione che accade al confi-ne di un territorio privatizzato, questa disposizione non ènecessaria. Infatti, la definizione dell’interno e dell’esterno èrelativa a questo confine che divide l’estensione in due re-gioni differentemente investite dagli attori umani. Tuttavia,abbiamo visto che l’esigenza del mantenimento della priva-tizzazione invita a porre un vincolo di simmetria tra due ruo-li attanziali. La moltiplicazione delle interazioni al livello at-toriale non cambia nulla al livello attanziale più astratto. Almassimo, obbliga a definire una simmetria multipla tra gli at-tori, o, in altre parole, una forma che garantisca la similitudi-ne degli attori e delle loro mutue relazioni. Ora, se i topoiA3, A9 e Ai sono tutti giuntivi (o contigui), non potrebberoessere integrati in una simmetria multipla, poiché è impossi-bile posizionare più di quattro regioni simultaneamente con-tigue nello stesso piano51. È un semplice problema di topo-logia, connesso al numero di dimensioni dello spazio di rife-rimento. Di conseguenza, se si vuole soddisfare la condizio-ne di simmetria, i territori privatizzati devono non esserecontigui52 dal momento che superano il numero di quattro.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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In altri terminin gli spazi privatizzati dovranno essere separatida spazi pubblici. Tradotto a livello degli stati di cose, questoobbligo equivale a una necessità: gli spazi pubblici sono ne-cessari, e non è possibile dividere la totalità del’estensionedisponibile in topoi privatizzati. L’osservazione delle confi-gurazioni urbane e architettoniche manifesta la molteplicitàdelle possibili soluzioni, così come manifesta la forzadell’“esigenza di simmetria” nei regolamenti che accordanodelle schiavitù d’accesso alle parcelle intercluse.

7.9.4.2. In questi dispositivi, l’elemento di pubblica cir-colazione corrisponde al “resto dell’estensione” in rappor-to al quale si definisce ogni topos privatizzato, con la clau-sola che il “resto individuale” è diventato un “resto collet-tivo”. Notiamo subito che il carattere necessario di questoresto permette di riconoscerlo come presupposto dai topoiprivatizzati53. Dato che i topoi privatizzati sono necessarialla definizione del “resto” d’ora in poi pubblico, si può di-re che la relazione di presupposizione è simmetrica (o mu-tua) tra topoi pubblici e topoi privati.

Se riferiamo questa constatazione al grafo esagonale chearticola la categoria dell’estensione, si vede che il termineneutro A14 gioca il ruolo privilegiato dello spazio pubblico,presupposto da tutti gli spazi privatizzati. Quest’osserva-zione è conforme alle relazioni riconoscibili tra questi ter-mini da un punto di vista logico-matematico: A14 è simme-trico ad A3 e A9, in una simmetria ternaria che articola i trecontrari dell’esagono (cfr. Blanché 1966). In breve, sonotutti e tre in relazione di mutua presupposizione.

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A3 A9

A14

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Tutto ciò ci fornisce un risultato notevole a livello diruoli attanziali e non solo a livello attoriale: la struttura del-la privatizzazione stabile esige una simmetria ternaria chedefinisca tre contrari.

7.10. Per un modello più generale di privatizzazione

7.10.1. L’organizzazione dello spazio sociale

7.10.1.1. Riprendiamo il caso della visita semplice, conun micro-universo comprendente una estensione A0 divisain due topoi complementari A3 e A4. A livello attoriale del-la manifestazione, A3 è logicamente determinato come ciòche è interno al confine A8, mentre A4 non è determinatose non come esterno a questo confine, o come il resto di A0al momento dell’estrazione di A3. Dato che A0 non è un’e-stensione finita, la regione A4 è indeterminata.

L’attante A1 è definito come il proprietario del topos A3,e determinato a questo titolo. L’attante A2 è definito comevisitatore qualunque muoventesi in A4 ma non come padro-ne di A4, essendo quest’ultima condizione inutile alla defini-zione della visita. I due attanti agiscono in funzione di uncodice di comportamento socialmente definito, che presup-pone un attante Destinante A20

54 che è identificabile, in ul-tima analisi, soltanto con l’attore “società” associato al mi-cro-universo considerato (§ 7.8.1), entità che assicura ilcontrollo dell’estensione A0. L’estensione dell’attore chemanifesta A20 varia a seconda dei micro-universi anche seinclude, in ogni caso possibile, gli attori manifestanti A1 eA2. Questo non impedisce che a livello attanziale il ruoloA20 sia distinto dal ruolo “A1 e A2”.

È facile rilevare una omologia55 tra l’articolazione dell’e-stensione e quella della società, così definite in maniera ele-mentare in relazione alla visita semplice in un micro-uni-verso dato:

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

A3 (interno)A1 (pdl)56

A4 (esterno)A1 (visitatore)

Istanze spaziali: A0 (estensione)Istanze umane: A20 (società)

Page 277: Leggere Lo Spazio Comprendere l Architettura

Una identica omologia è reperibile per la visita semplicesimmetrica:

7.10.1.2. Ne deriva che la società può essere descritta,per ciò che concerne le interazioni considerate, attraverso glistessi mezzi usati per descrivere l’estensione, e possiamo pre-dire che essa ammette le stesse strutture elementari: unospazio sociale diviso in parti connesse da una rete di rela-zioni logico-semiotiche. Dato che la deduzione è fatta a unlivello elementare, conviene verificare se i risultati sianocorretti a livelli più complessi.

L’operazione si riconduce allora all’utilizzo dell’analisieffettuata per la categoria dell’estensione come modellopredittivo per la categoria della società, e alla verifica dellavalidità delle predizioni.

7.10.1.3. Le cose sono più facili per la divisione dellospazio sociale a livello attoriale, sia per la visita semplice siaper lo scambio di visite:

La simmetria è più visibile sia in questi diagrammi dellospazio sociale sia in quelli dello spazio fisico (§ 7.9.2.3.) poi-ché gli attori A1 e A2 si scambiano semplicemente di postomentre variano le denominazioni attoriali dei topoi. Rimaneda verificare se gli omologhi umani delle entità spaziali intrat-tengano relazioni identiche a quelle reperite sui grafi che de-scrivevano la struttura logico-semiotica dell’estensione.

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A9 (interno)A1 (pdl)

A11 (esterno)A2 (visitatore)

Istanze spaziali: A0 (estensione)Istanze umane: A20 (società)

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7.10.1.4. Il grafo della visita semplice ci fornisce dueentità A1 e A2 in relazione di contraddizione (come lo sonoA3 e A4), in modo conforme alla situazione polemica rivela-ta dall’analisi del paragrafo 7.6.2. L’entità A20 come termi-ne complesso congiunge le entità A1 e A2, ancora confor-memente alla nostra precedente analisi.

L’entità A6 controlla il confine A8 e appare nella posizio-ne omologa prevista. Ciò che è nuovo è l’apparizione del ca-rattere neutro o sospensivo della posizione A6, dedotto dallaposizione di A8, elemento non esplicitato nell’analisi diretta.Di fatto, è inscritto in forma implicita nelle possibilità delsincretismo esaminato: combinato con A2, A6 definisce la po-sizione del carceriere che controlla un prigioniero. La possi-bilità stessa di combinazioni sincretiche57 presuppone lacompatibilità dei ruoli attanziali combinati, e quindi la neu-tralità del ruolo in grado di allearsi ai due contraddittori.

7.10.1.5. Il grafo delle visite simmetriche fa apparirenuove entità, finora non esplicitate dall’analisi, di cui biso-gna quindi interpretare il carico semantico:

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

SocietàA20

A1 A2Padrone Visitatore

dei luoghiA6

DestinanteAttualizzante

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Cominciamo dalle entità A1 e A2. Esse non sono più insituazione di contraddizione come nel grafo della visitasemplice, ma in situazione di contrarietà. Questo traduce ilfatto che gli attanti non sono più in relazione puramente po-lemica: abbiamo visto nel corso dell’analisi (§ 7.9.2.) chequest’ultima è localizzata nel tempo e nello spazio, sovra-determinata dal carattere contrattuale della simmetrizza-zione delle visite.

Il grafo qui sopra mostra qualcosa di più: i ruoli attan-ziali A1 e A2 si congiungono per formare l’entità che noiabbiamo chiamato A16, occupante la posizione omologadel topos complesso A13 o riunione dei topoi privatizzati.Si può leggere il tutto nel modo seguente: i ruoli attanzialiA1 e A2 sono uniti per far rispettare il carattere privato del-l’insieme dei topoi A3 e A9. Ritroviamo quindi, a livello at-tanziale, l’espressione del contratto che è all’origine dellasimmetrizzazione delle visite e degli spazi. Si esprime cosìformalmente la solidarietà dei proprietari degli spazi priva-ti, in difesa dell’insieme del dominio privatizzato contro ilresto. Ora, qual è questo resto e come appare sul grafo?

Il contraddittorio di A1 è A18, ovvero tutto ciò che nonè A1 in seno al gruppo A20. La situazione è simmetrica perA2, che definisce un contraddittorio A19. L’intersezione diA18 e A19 determina A17, entità che può essere riconosciutacome l’insieme del gruppo A20 meno gli attanti A1 e A2, os-sia, in modo lapidario, né A1 né A2. Dal punto di vista atto-riale, questo resto è indeterminato dal momento che l’en-tità sociale A20 copre un’estensione e spiega il carattere in-determinato del controllo degli spazi che non sono né A3né A9 riconosciuti nel corso dell’esplorazione della dimen-sione spaziale. Questa figura di due sospensioni correlate(sociale e spaziale) caratterizza i luoghi detti pubblici. Nonrisultano privatizzati e le forme osservabili del loro control-lo si riconducono a meccanismi che impediscono la loroprivatizzazione: sono infatti interdetti alle forme duraturedella privatizzazione.

Procedendo in questo modo, abbiamo definito ciò cheè pubblico partendo da ciò che è privato, invertendo l’ap-

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proccio seguito dalla definizione del dizionario (cfr. §7.6.1.). Se il percorso è possibile nei due sensi, è perché larelazione di presupposizione tra il pubblico e il privato è sim-metrica, come è chiaramente visibile sull’ultimo grafo esa-gonale: la triade superiore è quella del privato, la triade in-feriore è quella del pubblico, e i termini si corrispondonodue a due in una relazione di contraddizione.

7.10.2. L’omologia dell’isotopia umana e spaziale

7.10.2.1. È importante la constatazione che le isotopieumana e spaziale del micro-universo considerato si lascia-no descrivere allo stesso modo, ammettendo divisioni omo-loghe e un’architettura logica identica. Una tale osservazio-ne non può essere il risultato del caso, e conviene alloracercarne l’origine, se non la spiegazione. Abbiamo visto alparagrafo 7.8.1. che il soggetto e il topos sono funtivi di-pendenti da due funtori gerarchizzati (fare + potere) chedefiniscono la padronanza dei luoghi.

In questo schema, il soggetto e il topos occupano posi-zioni simmetriche. Avvicinata da questo fatto, l’omologiaverificata in precedenza può essere interpretata come la ri-sultante della messa in forma, attraverso funtori, dei sotto-domini considerati. In questo modo, la struttura spaziale ela struttura sociale non sono che le proiezioni correlate diuna struttura unica gerarchicamente superiore. In vista dellamolteplicità delle possibili azioni, una tale struttura sarà ri-conoscibile solo a livello modale.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

Modalità(Potere)

Fare

Soggetto Topos

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Dal punto di vista della privatizzazione, la modalità chesi impone in primis all’analista è quella del potere, poiché sitratta del potere d’accesso. La sua articolazione più elemen-tare è quella che distingue potere da non-potere. Proiettatasul fare giuntivo relativo allo spazio, essa distingue:

- nell’estensione, due regioni per un soggetto dato, l’u-na accessibile e l’altra inaccessibile;

- sull’isotopia umana, due soggetti per una regione data,l’uno avente accesso alla regione considerata e l’altro es-sendone escluso;

- nella combinazione delle due isotopie, due regioni perogni soggetto e due soggetti per ogni regione. La visitasemplice, che non è dopo tutto che un comodo rivelatoredei valori latenti, mostra questa organizzazione minimalericonoscibile in ogni appropriazione territoriale.

7.10.2.2. Tutti i casi di manipolazione territoriale cui cisiamo dedicati (descrizione § 7.3., analisi §§ 7.4., 7.5.) han-no manifestato, oltre alla modalità del potere, le modalitàpresupposte (virtualizzanti) del volere e/o del dovere sottodiverse forme e combinazioni. Hanno anche provocatol’apparizione di rituali che negano la potenzialità polemicadella situazione e sono in grado di ristabilire situazionicontrattuali. Di conseguenza, ogni analisi analoga dellestrutture implicite della privatizzazione dovrà aggiungerequesta dimensione polemico-contrattuale (§ 7.5.4. e nota 11)all’analisi della modalità del potere da noi sviluppata a pro-posito della questione del controllo.

In altri termini, l’analisi semiotica che abbiamo condot-to al paragrafo 7.9.2. è interamente retta da una condizioneesterna che non è riducibile alla situazione minima di ap-propriazione quale la stiamo ricostruendo; le situazioniconsiderate presuppongono qualche cosa di più complesso:un comune desiderio di far durare l’appropriazione, da cuitraggono la conseguenza di un obbligo di simmetria nei di-spositivi sociali e spaziali. Così, una serie incatenata di mo-dalità virtualizzanti (desiderio = volere + obbligo = dovere)causa il raddoppiamento della modalità del potere, e finisce

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col raddoppio simmetrico degli attanti soggetto e oggetto.In questo quadro rituale che mira a trasformare una situa-zione polemica in una situazione contrattuale, bisognaquindi porre due poteri contrari58, che potremo notare conP1 e P2. La modalità iniziale del potere (che si può notarecon P), anteriore al raddoppio e attualizzante tutti i per-corsi di privatizzazione, resta inscritta nel termine comples-so dell’esagono: è lei che unisce i ruoli attanziali A1 e A2nella difesa di tutti i luoghi privati riuniti. La negazione diognuno di questi tre termini (P, P1, P2) definisce le altreestremità dell’esagono, e costruisce la struttura modale chesussume quelle dello spazio fisico e dello spazio sociale.

Volere

Dovere

Potere

Fare

Soggetto Topos

7.10.2.3. Si può immaginare lo sviluppo della modalitàdel volere sia in due voleri antagonisti sia in quattro posi-zioni (cfr. Greimas 1976b), come si può immaginare quellodel dovere, così come le loro combinazione per due sogget-ti in co-presenza (cfr. Landowski 1981). Le situazioni risul-tanti saranno ancora più complesse. Malgrado l’interesse diun tale approccio che tenta di esaurire attraverso una com-binazione teorica l’insieme dei casi possibili, riserviamoquesta impresa a un altro studio. Optiamo in questa sedeper il mantenimento dell’analisi in prossimità dei dati spe-rimentali di partenza, e ci accontenteremo di reperire lecondizioni minime dei tentativi di privatizzazione e quelledel loro equilibrio contrattuale. Tenteremo una generaliz-zazione che sviluppi i risultati qui ottenuti, senza la combi-natoria delle modalità virtualizzanti.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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7.10.2.4. Prima di passare al seguito, tre osservazioni.i) Dato che la struttura modale regge le due isotopie

spaziale e umana, l’omologia da noi rilevata appare sottonuova luce; la corrispondenza non si fa termine a terminema tra due categorie strutturate: quella dell’estensione equella della società. Dal punto di vista della privatizza-zione, queste due categorie sono omologhe. Se ne utiliz-ziamo una per esplorare l’altra, cosa che abbiamo fatto aun certo momento, si può dire che esse giocano, l’unaper l’altra, il ruolo di espressione e contenuto59. In que-sto caso abbiamo a che fare con un sistema semi-simboli-co di tipo particolare, che meriterebbe maggior attenzio-ne a questo riguardo. La metafora secondo cui il territo-rio è un’iscrizione spaziale di una società sarà quindi do-tata di un valore maggiore di quello che si ha tendenzaad accordarle.

ii) Queste strutture esagonali (come i simplex di cuisono l’esito) non sono solo strutture tassonomiche: pos-sono servire alla descrizione dei percorsi del soggettonello spazio fisico, o alla descrizione dei luoghi fisici nel-lo spazio sociale. Il lettore potrà facilmente verificare levirtù euristiche di un tale uso di strutture derivate.

iii) L’esagono delle modalità può servire alla descrizio-ne dei dispositivi modali caratteristici per ogni attore delprocesso di privatizzazione. Dato che la trasformazionedella competenza di ognuno dei protagonisti è correlataalla trasformazione della competenza dell’altro, è possibi-le tracciare due percorsi correlati sullo stesso esagono.

7.10.3. La privatizzazione temporanea e la privatizzazio-ne del tempo

Ritorniamo nella cornice di La Tourette. Immaginia-mo che qualcuno (A1) venga a sedersi sulla soglia di unacella, al suo esterno. L’attore (A2) che abita quest’ultimasarà in diritto di chiederne la ragione. L’altro potrebbe ri-battere che il corridoio appartiene a tutti. Una tale rispo-sta sarebbe poco convincente: la soglia non appartiene atutti, almeno non più di quanto appartenga direttamente

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alla cella. È qui infatti che A1 va a bussare alla porta sedesidera entrare, e se va via da qui significa che non è en-trato. Ma il suo stazionamento prolungato non fa partedelle cose ammesse. In altri termini, l’accesso temporaneoè permesso, ma la congiunzione duratura rimane interdet-ta. Si tocca nuovamente (cfr. § 7.8.1.) la questione dellatemporaneità dell’uso.

Consideriamo un altro esempio: nel refettorio vuoto lesedie e i tavoli non sono attribuiti a nessuno in particolare.Questa sospensione dell’attribuzione permanente ne per-mette il funzionamento quotidiano. A ogni pasto, la regoladel primo arrivato decide dell’attribuzione temporanea: iposti sono occupati per la durata di un pasto. Abbiamo vi-sto (§ 7.6.3.) che la reiterazione delle appropriazioni puòperò fondare delle abitudini senza rimettere in causa la so-spensione di base.

Nello stesso refettorio, la questione dell’attribuzionedei posti non si pone al di fuori dei momenti del pasto. Bi-sogna dunque distinguere due classi di momenti: quelli nelcorso dei quali le regole sono applicabili, e quegli altri per iquali l’applicazione delle regole è sospesa. Si riconosce inquesto una segmentazione del tempo che permette l’instal-larsi di una privatizzazione. Di conseguenza, la segmenta-zione dello spazio fisico e quella dello spazio sociale nonsono le sole procedure di segmentazione messe in operanei meccanismi di privatizzazione, e bisognerà affrontarequella del tempo.

Fino a ora abbiamo esaminato un controllo che concer-neva due tipi di grandezze: i soggetti-umani e gli oggetti-topoi. Questo punto di vista è a-temporale. Ora, gli esempiche precedono mostrano che il controllo si esercita, o nonsi esercita, tenendo conto della segmentazione che operasulle due componenti del tempo: la durata (delle giunzioni)e la struttura d’ordine (prima-dopo). Il tempo è ripartito insegmenti sovradeterminati dalla modalità del potere giunti-vo (si possono distinguere i momenti del potere d’accesso ei momenti del non-potere), tra i quali è possibile riconosce-re alcune relazioni logico-semiotiche.

LA PRIVATIZZAZIONE DELLO SPAZIO

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Si possono citare altri esempi senza troppe difficoltà,anche se l’idea di una “privatizzazione del tempo” è inabi-tuale. Il tempo di lavoro è dovuto da un impiegato a un da-tore di lavoro, il quale ha un “accesso” a questa durata,mentre non ha alcun accesso al “tempo libero”. Questa si-tuazione assomiglia a una “allocazione del tempo” dellapersona occupata, come per l’allocazione di un apparta-mento. Il tempo delle vacanze, come il tempo dei piaceri,sono interdetti al padrone “allocatario” del tempo di lavo-ro. Generalizzando, l’allocazione di ogni oggetto possiedecaratteri temporali comparabili: i diritti d’accesso sono li-mitati nella durata, e il superamento dei limiti è sovente re-golato da rituali che garantiscono la salvaguardia delle rela-zioni contrattuali.

Ricapitolando, i funtori della padronanza dell’accessoammettono tre diverse grandezze: la società, l’estensione eil tempo. In termini semiotici più classici, si tratta di attori,di spazio e di tempo, ovvero delle tre “componenti” delladiscorsività. Le manifestazioni della privatizzazione varianoa seconda della componente; sono evidenti soprattutto perla caratterizzazione dello spazio, ma ammettono tutte lastessa struttura astratta descritta al paragrafo 7.10.2.

7.10.4. La privatizzazione come aspettualizzazione?I meccanismi semiotici della privatizzazione appaiono

dunque, a conti fatti, come una struttura modale che con-cerne lo spazio, gli attori e il tempo. Più precisamente, essaafferisce alle giunzioni delle parti discrete di queste compo-nenti. Come si riconduce ogni programma semio-narrativoa trasformazioni tra stati giuntivi implicanti tali parti, cosìla privatizzazione può modificarlo. In particolare, tutti glioggetti in circolazione possono riferirsi a questa problema-

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Volere Dovere Potere Giunzione

Attori

Spazio

Tempo

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tica, ivi compresi oggetti cognitivi e oggetti modali consi-derati all’interno di una applicazione metalinguistica dellaprivatizzazione. I diritti della proprietà letteraria e artisticasi inscrivono chiaramente in questa problematica. È possi-bile identificare allo stesso modo una privatizzazione se-condo il volere60, secondo il dovere (la decenza) o secondoil sapere.

Quest’ultima questione è interessante a più di un titolo:in architettura, le aperture autorizzano la visione, e le pare-ti piene l’impediscono, definendo un’accessibilità cognitivadel soggetto osservatore. Il privato visivo può così esseremodulato con grande finezza, con situazioni simmetriche(il guardante può essere guardato) o dissimmetriche (ilguardante resta invisibile) (vedi capitolo sesto). Il privatouditivo e olfattivo può anch’esso essere riconosciuto nelmondo quotidiano: le barriere sonore sono destinate a pre-servare l’intimità; gli odori della cucina o dei luoghi di co-modità possono essere percepiti come aggressioni contro laprivatizzazione.

Tuttavia, il privato secondo il sapere non si riduce aquesti casi relativamente semplici ai quali la logica del ter-zo escluso resta applicabile. L’accesso all’informazioneapre la porta a un’altra categoria di problemi, poiché conquesta questione entriamo nel dominio della logica del ter-zo non escluso: quando un soggetto dato entra in congiun-zione con l’informazione, il soggetto che crede di esserne illegittimo proprietario non ne viene spossessato. Le struttu-re logico-semiotiche costruite sulle relazioni di contrarietà,contraddizione… presuppongono una logica del terzoescluso. Di qui l’apparizione di problematiche prevedibilinel trattamento di tali situazioni, come non manca di verifi-carsi nel caso della proprietà artistica e letteraria. L’esamedelle pratiche giuridiche dovrà essere utile a questo riguar-do, dato che esse possono chiarificare la trasmissione digrandezze modali tra i vari “diritti”, come i diritti d’uso, idiritti di proprietà, i diritti d’autore…

Se c’è qualche interesse a generalizzare la questione del-la privatizzazione, al fine di apprezzarne il ruolo e l’impor-

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tanza, questo interesse è limitato, poiché una troppo grandeestensione le farebbe perdere ogni specificità. Se tutte legiunzioni sono in grado di essere sovradeterminate in ter-mini di privatizzazione, sembra che questo meccanismo siriconduca all’instaurazione di giunzioni privilegiate in rela-zione ad altre; su di un fondo di giunzioni “neutre” ed“equivalenti”, la privatizzazione stabilisce differenze e di-stinzioni. In questo modo certe congiunzioni sono prescrit-te, altre sono interdette, certe vengono dichiarate perma-nenti, altre sono fondate sull’iterazione… Questa differen-ziazione, questa introduzione del “rilievo” nella piattezzadelle relazioni logiche identiche, si apparenta ai meccanismidi aspettualizzazione. Se quest’ultimo problema fosse trat-tato in modo più chiaro, si potrebbe rispondere forse giàda oggi. Allo stato dell’arte, rimane una questione euristicada esplorare.

7.11. A mo’ di conclusione

Partiti da esperi,enti concreti effettuati in quel luogoparticolare che è il convento di La Tourette concepito daLe Corbusier, eccoci giunti alle questioni formali che inte-ressano il semiologo più che l’architetto. Cammin facendo,abbiamo riconosciuto che i termini pubblico e privato nonsono termini primitivi, che il loro contenuto è costruito eche risultano entrambi da una operazione complessa chenoi proponiamo di chiamare privatizzazione, anche se essaproduce il pubblico allo stesso tempo che il privato.

Il nostro tentativo di ridurre l’opposizione al suo “noc-ciolo duro” ci ha condotti a riconoscerne il carattere relati-vo e traslativo: essa è applicabile a una miriade di oggetti.Un esempio, e non dei minori, è quello del corpo umano,doppiamente privatizzato allo sguardo altrui, sul pianopragmatico del toccare e sul piano cognitivo della visione.Lo sfruttamento dei dati storici potrebbe mostrare che ilcorpo della donna è stato più coperto di quello dell’uomoin un gran numero di culture, cosa che che conduce a con-

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cludere che il corpo della donna è stato uno spazio privatiz-zato di cui l’accesso visivo è stato controllato da un padronemaschile, senza parlare dell’accesso pragmatico. Indipen-dentemente da questo, i vestiti mostrano che il corpo è pri-vatizzato rispetto ad attori non umani come il freddo, ilvento o il calore, a cui vengono interdette certe parti e auto-rizzate altre. Se ce ne fosse ancora bisogno, questo esempiomostra attori-soggetti antropomorfi e attori non umani.

La nostra inchiesta è partita dallo spazio per ragionisoggettive e oggettive al contempo. Da un punto di vistamolto soggettivo, lo spazio ci interessa come tale. In corsodi analisi, ci siamo impegnati a dimostrare che esso non siriduce al ruolo di circostante, ovvero a quello di condizio-ne necessaria alla realizzazione dell’azione. Abbiamo stabi-lito che è manipolato come oggetto, allo stesso titolo di al-tri oggetti, e che permette di parlare di altra cosa che di sestesso. In particolare, è apparso, attraverso i rituali spazialidella visita, come il mezzo privilegiato del mutuo riconosci-mento tra gli uomini. Si tratta dunque di un sistema semio-tico a tutti gli effetti, anche se entra in sincretismo con altrimezzi espressivi. Ma in fin dei conti non esistono sistemisemiotici autonomi.

Da un punto di vista più oggettivo, lo spazio ci è sem-brato offrisse buone condizioni euristiche: i meccanismidella privatizzazione vi risultano più leggibili che sulla di-mensione umana o temporale. In più, esso offre il vantag-gio di permettere la sperimentazione parallelamente all’os-servazione. Se abbiamo scelto lo scambio di visite comeprogramma esploratore della privatizzazione, è perché ci èsembrato rivelatore. La presa in carico di un programmad’azione differente può produrre un’altra articolazione del-la categoria dell’estensione. Queste strutture, dipendendodall’interazione studiata, sono difficilmente prevedibili pri-ma dell’analisi. Tuttavia, il fatto che le strutture estrapolatecorrispondano a rapporti di modalità, permette di elabora-re l’ipotesi che possiedano un grado di generalità che oltre-passa il quadro ristretto dello scambio delle visite e che va-da bene per altre interazioni contrattuali, incassanti intera-

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zioni polemiche, poiché tale è la caratteristica fondamenta-le delle interazioni esaminate. La modificazione di questoquadro interazionale di referenza è capace di produrre al-tre strutture.

In particolare, se si rinuncia a ogni cornice a priori e seci si propone di costruire deduttivamente, a partire dallenostre acquisizioni attuali, la combinatoria modale dellegiunzioni condizionali costitutive della privatizzazione ingenerale, bisognerà costruire, per tappe successive, un si-stema esteso gerarchicamente organizzato. In primo luogo,la giunzione è essa stessa sviluppabile in una categoria a seitermini (congiunzione, non-congiunzione, disgiunzione,non-disgiunzione, la giunzione come termine complesso eun termine neutro non nominato in lingua francese). In se-condo luogo, la modalità del potere è sviluppabile in seitermini, sia in composizione con la congiunzione sia incomposizione con la disgiunzione, con il risultato di im-porre la comparazione di queste due strutture sviluppate alfine di reperirne le conformità, le opposizioni… In terzoluogo, le modalità del volere e del dovere, sono sviluppabi-li direttamente sulle giunzioni61, così come sono sviluppa-bili sulla modalità del potere giuntivo… In più bisogneràraddoppiare il tutto, poiché, per la privatizzazione, è sem-pre questione di due soggetti. Con l’introduzione del tem-po si moltiplicano le possibilità. Una tale impresa è enor-me, se non proprio aberrante: si ritornerebbe a ricostituirela combinatoria delle strutture narrative nel loro insieme.

Abbiamo rinunciato a questo tentativo, scegliendo diancorare l’analisi nell’osservabile; come abbiamo optatoper qualche restrizione, tra cui il già citato quadro contrat-tuale. Abbiamo anche privilegiato, nel corso della nostraesplorazione, l’approccio degli sviluppi sintattici, capaci diricostituire la dinamica dei processi osservabili. L’articola-zione delle strutture tassonomiche, introdotta alla fine delpercorso, facilita la produzione di una visione sintetica sta-bile. È proprio tenendo conto di quest’ultimo vincolo cheabbiamo ristretto lo sviluppo della categoria del potere adue termini (più il complesso), rinunciando allo sviluppo a

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quattro termini (o sei, se si contano il complesso e il neu-tro) che avrebbe introdotto troppe complicazioni.

Abbiamo anche rinunciato all’esaustività dell’analisi de-gli esempi dati all’inizio. D’altro canto, una tale impresaavrebbe comportato soste che avrebbero impedito lo svi-luppo delle comparazioni con cui siamo giunti alla genera-lizzazione dei risultati. Ne consegue che i materiali veicola-ti da questo lavoro possono apportare nuovi sviluppi anali-tici. Li condurremmo a termine in una cornice differente.

Lo studio della privatizzazione dello spazio sboccasulla privatizzazione tout court, ovvero sulla creazione diun legame privilegiato tra entità distinte, poiché si trattadi appartenere senza essere inglobato. Abbiamo ricondottoquesto legame a funtori formali che lo sovradeterminano.Attraverso il gioco delle negazioni gerarchicamente distri-buite, si possono situare in uno stesso quadro le relazionisopravvalutate (quelle dell’appartenenza) e quelle sotto-valutate (quelle della non appartenenza). Nella nostraanalisi, abbiamo adottato il punto di vista della sopra-va-lutazione, esplorando le strutture del privato più chequelle del pubblico. Un lavoro equivalente va fatto peresplicitare il punto di vista simmetrico, quello delle arti-colazioni del pubblico.

Una delle direzioni di ricerca che vorremmo sviluppareè l’avvicinamento tra le configurazioni topiche della priva-tizzazione e le configurazioni topiche di altri tipi di intera-zione, come l’insegnamento (spazio ex cathedra, spazio delseminario), le preghiere collettive (nelle chiese, nelle mo-schee, nei santuari shintoisti), i musei, le collezioni… Que-sto tipo di configurazioni, infatti, è ricco di insegnamenti edi potenzialità: permette di cogliere l’essenziale delle inte-razioni spaziali, e offre un punto di partenza per la com-prensione dell’architettura, fondata sul senso delle intera-zioni tra gli uomini e lo spazio.

Vorremo anche meglio esplorare la relazione tra i grup-pi umani e lo spazio. Gli antropologi qualificano spesso lesocietà dalle combinazioni del lignaggio parentale (matrili-neare, patrilineare) con la localizzazione domiciliare (patri-

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locale, matrilocale). Le strutture elementari della parentela,che sono, dal punto di vista che abbiamo sviluppato finqui, una forma dell’appartenenza privativa a una frazionedella società, o una manifestazione della privatizzazionedell’entità sociale, sono state studiate e caratterizzate senzache comprendessimo meglio la relazione dell’uomo con ilsuo spazio. Questo resta un capitolo da fare.

Appendice

Lista dei ruoli attanziali riconosciuti:

A0 l’estensioneA1 visitatoreA2 padrone dei luoghi (pdl)A3 topos controllato da A2A4 estensione esterna ad A3A5 destinante virtualizzatore de factoA6 destinante attualizzanteA7 destinante virtualizzatore de jureA8 bordo del topos A3A9 topos controllato da A1A10 bordo del topos A9A11 estensione esterna ad A9A12 destinante/A10A13 riunione dei topoi privatizzati A3e A9A14 intersezione degli esterni A4e A11A15 riunione dei bordi A8e A10A16 riunione dei soggetti A1e A2, che controllano il topos A13A17 soggetto controllante A14: né A1 né A2A18 non A1A19 non A2A20 società del micro-universo considerato, includente A1e A2

1 Apparso in «Nouveaux Actes Sémiotiques», 4-5, 1989.2 Il termine luogo ci servirà per designare, per il momento, una porzione

d’estensione distinta dal resto. Il luogo sarà quindi un’entità che appare almomento della segmentazione dell’estensione, operazione concomitante con

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la sua strutturazione, che ne fa uno spazio. Noi riserveremo il termine luogoalla descrizione figurativa, adottando un metalinguaggio appropriato al mo-mento della descrizione sintattica.

3 Facciamo riferimento con questo termine all’uso originale ed esteso del-la sintassi a livello di contenuto, ciò che costituisce a nostro avviso la novitàpiù radicale dell’approccio greimasiano. Abbiamo sviluppato questo punto divista in Hammad 1985.

4 Abbiamo pubblicato una prima versione dei paragrafi 7.2.-7.5. di que-sta analisi con il titolo “Rituels sacrés, rituels profanes” negli atti del congres-so, riunito dall’organizzatore A. Renier sotto il titolo Espace: construction etsignification (1984). Il paragrafo 7.6. risulta dal rifacimento radicale dell’arti-colo intitolato “Modes de la privatisation” destinato a un secondo volumepresso lo stesso editore, in attesa di apparizione.

5 Nel metalinguaggio che costruiamo per parlare delle manifestazioni delsenso nello spazio, designamo come topos ogni porzione di spazio capace digiocare un ruolo sintattico (cfr. Hammad 1980a). In termini semiotici, il to-pos è dunque un attore. Le configurazioni topiche rinviano a configurazionimodali determinanti rapporti di competenza tra gli attanti antropomorfi pre-senti (cfr. Hammad 1979).

6 Legittimazione tramite la metacomunicazione?7 Si tratta di un estraneo, come i complici, visto che provengono da un al-

tro paese.8 Per la distinzione Attante (= ruolo sintattico) vs. Attore (= istanza figu-

rativa in grado di giocare quel ruolo attanziale), vedi Greimas, Courtés 1979,pp. 40-41, 43-44.

9 Plurale di topos. Vedi la nota 5.10 In seguito a questi esperimenti, e nel quadro dei congressi che continua-

no a essere accolti dai religiosi di La Tourette, un certo numero di tavoli è riser-vato ai cavalieri portatori dell’iscrizione “comunità”, che designa un gruppo al-largato comprendente i laici che risiedono più o meno a lungo nel convento eche svolgono un certo numero di compiti legati al suo buon funzionamento.

11 Abbiamo sviluppato a lungo le premesse di questa sintassi generaledell’enunciato e dell’enunciazione nel capitolo 10. Ne abbiamo sviluppato leconseguenze nel capitolo secondo.

12 Detto anche metacomunicazionale nella terminologia di GregoryBateson.

13 Il dizionario prosegue questa “entrata” con altre definizioni che nonapportano elementi pertinenti al nostro proposito. Lo si vede particolarmentebene con la definizione n. 2 che inizia come segue: “Individuale, particolare(opposto a collettivo, comune, pubblico)”. Se quest’uso è attestato nella lin-gua, non ci riguarda in questo contesto, in cui abbiamo stabilito la nostra ri-flessione a un livello sintattico dove gli attanti possono essere manifestati inmodo collettivo. A ogni modo, un soggetto collettivo può definire la propriasfera privata, come lo fanno le persone morali (associazioni, società, organi-smi amministrativi) definiti dal legislatore.

14 Il cambiamento degli attori implicati in questi esempi non impedisce diconservare, per la designazione degli attanti, una notazione omogenea con quelladei paragrafi precedenti.

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15 Questo mette in gioco la modalità del sapere acquisita al momento di unprogramma anteriore a quello che ci interessa qui.

16 Poniamo, di qui in avanti, la distinzione tra un Destinante Mandante A5che virtualizza il soggetto tramite le modalità del volere e/o del dovere, e d’altraparte il Destinante Attualizzatore A6 che attualizza il soggetto tramite le moda-lità del potere e/o del sapere. Una distinzione simile non era necessaria fino aquesto stadio dell’analisi. Nei casi concreti, può accadere spesso che i due ruoliattanziali siano manifestati sincreticamente dallo stesso attore, ma non è necessa-riamente il caso per ogni circostanza.

17 Un esempio particolarmente complesso ed espressivo è dato nella nostraanalisi dell’architettura costruita in Giappone per la cerimonia del tè, dove noiesplicitiamo il modo in cui i perimetri sono usati ritualmente. Cfr. capitolo secondo.

18 Si tratta del valore semantico delle modalità, le quali giocano un ruolo sin-tattico. Ricordiamo che, per l’analisi strutturale del contenuto, i valori sintatticisono una classe particolare dei valori semantici, la distinzione principale essendoche i valori sintattici reggono i valori semantici.

19 Citiamo l’esempio degli uffici amministrativi, dove i superiori entranosempre facilmente nei locali dei loro subordinati, mentre l’inverso esige talvoltatesori di ingegnosità.

20 Equivale a una trasmissione di un poter-fare.21 Equivale a una trasmissione di un voler-fare.22 Per facilitare il servizio, c’è solamente una sedia sul lato che è dalla parte

del corridoio centrale del refettorio.23 Nel senso grammaticale del termine, essendo l’aspetto una categoria che

sussume le dimensioni del tempo e dello spazio, sovradeterminando i processi ele entità implicate. Citeremo, a titolo d’esempio, gli aspetti seguenti: iterativo,durativo, incoativo, terminativo…

24 Ridurre questi fatti ad abitudini insignificanti comporta sbarazzarli del lo-ro carico semantico. Quest’ultimo riappare comunque in forza dal momento incui si perturba la regolarità delle cose.

25 Sono bastati tre pasti per reperire la regolarità del fenomeno. La brevitàdelle durate implicate esplica forse la facilità relativa con cui queste manipolazio-ni hanno potuto essere condotte senza provocare un conflitto più ampio. È pos-sibile che una occupazione preventiva più lunga avrebbe reso i “diritti” uscitidall’interazione più intangibili.

26 I quali rischieranno di consumare la maggior parte del tempo e dell’ener-gia disponibili.

27 Tra due luoghi attribuiti a due ruoli attanziali.28 Si tratta quindi di una competenza secondo il sapere.29 La distruzione dei muri equivale a una negazione totale del loro ruolo co-

municazionale. Questa negazione presuppone un programma particolare chenon svilupperemo in questo contesto.

30 Un uccello vi passa facilmente: ogni barriera è selettiva.31 Le fortificazioni militari, e in particolare i rifugi anti-atomici e altri

bunker, sono concepiti e costruiti per resistere ad aggressioni determinate.Costituiscono casi limite messi a punto per situazioni polemiche. Non ci ri-guardano direttamente, anche se la loro analisi può essere fatta con i concettimessi qui in opera.

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32 Françoise Bastide ha già introdotto un’idea molto vicina a proposito dellarelazione fiduciaria tra l’uomo di scienza e la natura (Bastide 1981, p. 136).

33 Prevista in origine con un pannello di vetro nella parte superiore. Alcunetra le porte attuali sono piene e non lasciano passare la luce.

34 La storia delle scienze mostra una doppia difficoltà provata dai primi fisi-ci: concepire lo spazio indipendentemente dalla materia che lo riempie, concepi-re l’aria come materia che riempie lo spazio dello spostamento.

35 Ciò che la semiotica nota abitualmente come poter-fare.36 In termini semiotici, la proprietà dei luoghi è un’espressione figurativa

della competenza applicata allo spazio.37 Ne abbiamo visto alcune applicazioni modali nei paragrafi 7.6. e 7.7.38 Assimilabile a una varietà del “contratto sociale” di Rousseau.39 Ricerche al Kansai su invito del governo giapponese, pubblicate presso i

tipi di Kenchiku Kensetsu Kenkyu (Building Research Institute), Tokyo, 1977.Elementi di analisi sono pubblicati in Hammad (1980a; ivi, capitolo secondo).

40 Cfr. capp. 1 e 2.41 Da quel momento, l’attore che gioca il ruolo attanziale A2 manifesta il

suo statuto sincretico, poiché gioca anche il ruolo attanziale del destinante se-condo il potere o A6. Così facendo, l’attore sincretico manifesta la qualità es-senziale del padrone di casa: quella di possedere dei poteri trasmissibili perdelega.

42 Il corridoio domestico è un’invenzione che data alla fine del XVIII secoloin Francia.

43 Il riconoscimento dallo schiavo non è un riconoscimento verosimile. Soloquello dei pari grado è valido. Le cerimonie del sacro nel Medioevo lo dimostra-no in abbondanza.

44 Per evitare ogni confusione, noteremo topos, con una t minuscola, le por-zioni determinate in seno a un Topos globale notato con una T maiuscola.

45 A titolo d’esempio, si può riscrivere t(A2)∈T[A2] con la forma t(no-nA1)ŒT[A2] tenendo conto della complementarità dei due topoi in seno al To-pos globale A3, relazione espressa dalle notazioni: A3,1 = A3,2 ≅ A3

o { t(A1)∈T[A2]} = {t(A2)∈T[A2]}X ≅ T[A2]o { t(A1)∈T[A2]} = {t(nonA1)∈T[A2]} ≅ T[A2]Questo tipo di calcolo non è immediatamente comprensibile a tutti i lettori.

Lo utilizzeremo, nel prosieguo, solo per stabilire formalmente alcuni risultati chetrascriveremo anche in un linguaggio più ordinario.

46 Cfr. Blanché (1966, pp. 22 sgg.) in cui contraddizione ≅ complementa-rietà: un punto dell’estensione non può appartenere ai due topoi A3 e A4 simul-taneamente; non può nemmeno non appartenere a nessuno dei due. Appartene-re vale per vero; non appartenere vale per falso.

47 Se si considerano i luoghi come dei volumi a tre dimensioni, i confini so-no superfici a due dimensioni.

48 Un punto dell’estensione non può appartenere ai due topoi A3 e A9simultaneamente, e può non appartenere simultaneamente a nessuno deidue. Appartenere vale per vero; non appartenere vale per falso (cfr. Blanché1966, pp. 22 sgg.).

49 Un punto dell’estensione può appartenere ai due topoi A4 e A11 simulta-neamente, e non può non appartenervi simultaneamente (appartiene necessaria-

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mente sia all’uno, sia all’altro, sia a entrambi: A4 e A11 riempiono l’estensione e siricoprono mutualmente).

50 Tutti gli esempi trattati in questa sede riguardano la circolazione degli uo-mini nei luoghi. Non affronteremo tali casi teoricamente possibili, effettivamenteosservati e analizzati dalle nostre preoccupazioni, dove un topos attraversa ungruppo sociale. La presa in considerazione di tali casi permette di verificare sudati concreti la simmetria formale tra il soggetto umano e l’oggetto spaziale.

51 Il piano è la cornice spaziale della nostra riflessione sulla territorialità. Inostri risultati sono generalizzabili a ogni superficie connessa in modo semplicee che soddisfa la stessa equazione di Eulero per il piano. La generalizzazione asuperfici topologicamente più complesse esigerà la modifica delle conseguenzeche trarremmo da questo paragrafo.

52 Si tratta di negare la contiguità simultanea e completa, ed è sufficiente chenon ci sia contiguità lungo una parte del confine di ciascuna delle regioni. Que-sto lascia un gran numero di possibilità.

53 L’analisi della pianta di La Grande Borne, operazione di 1700 apparta-menti disegnati da Émile Aillaud, ha fornito un risultato identico a partire dacriteri puramente formali (cfr. Groupe 107 1973). La condizione dei risultati ot-tenuti con mezzi indipendenti rinforza la loro validità scientifica.

54 Destinante trascendente, nel senso semiotico del termine: l’universo tra-scendente è riconosciuto come fonte dei valori iscritti nell’universo immanentedove sono reperibili i protagonisti in interazione (cfr. Greimas, Courtés 1979,pp. 101, 355).

55 Nel senso formale di corrispondenza termine a termine e relazione a rela-zione. In questo modo, almeno, viene utilizzato da Claude Lévi-Strauss (1962b).

56 Pdl = padrone dei luoghi.57 Notiamo di passaggio che questi sincretismi corrispondono ai termini op-

posizionali differentemente ponderati riconosciuti da Brøndal.58 Al contempo non contraddittori.59 Siamo ben lontani dall’ipotesi secondo cui lo spazio non è che un circo-

stante…60 Si tratta del dominio trattato da Landowski in Giochi ottici (1981): esami-

na la comunicazione visiva sotto l’angolo del voler-vedere, voler esser visto, volernon esser visto…

61 Si tratta di una buona parte del lavoro di Landowski (1989).

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Capitolo ottavoL’enunciazione, processo e sistema1

8.1. Programma

Questo capitolo propone due ipotesi e un presuppostoche ci sembra ricco di promesse. Cominceremo con il porleprima di trarne le conseguenze. Abbiamo testato queste ipo-tesi e abbiamo potuto verificare che sono applicabili a discor-si manifestati in espressioni che si rifanno sia alla lingua natu-rale sia all’immagine e sia, infine, alla televisione. Benchéqueste applicazioni locali non possano rimpiazzare una di-mostrazione in buona e dovuta forma, vengono a confortarela nostra proposta.

Precisiamo che è nostra intenzione non restringerci alcaso delle lingue naturali e di considerare l’enunciazionenel quadro di una semiotica generale, dove la coppiaenunciato/enunciazione può essere posta a partire da cri-teri di contenuto. Le marche dell’enunciazione sul pianodell’espressione possono essere precisate caso per caso,dato che questo lavoro è stato effettuato a partire dal ri-conoscimento del soggetto dell’enunciazione nelle catego-rie io-qui-ora o più generalmente in quelle di attorializza-zione-spazializzazione-temporalizzazione, che riguardanodel contenuto.

8.2. Cornice preliminare

Così intesa in un senso generale, la nozione di enuncia-zione dovrà essere specificata a partire da un altro punto di

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vista: questo termine designa attualmente almeno tre feno-meni, i quali, per quanto strettamente connessi, possonoessere distinti.

i) In primo luogo, si chiamano istanze dell’enunciazioneil soggetto enunciatore (definito dall’articolazione dell’io-qui-ora di cui sopra) e il soggetto enunciatario (posto daquest’ultimo o presupposto dall’operazione di interpreta-zione del testo). Non abbiamo intenzione di trattare diret-tamente il caso di queste istanze, benché la nostra ipotesine coinvolgerà la definizione in un certo modo (cfr. § 8.5.).Ne riparleremo in questa misura solamente.

ii) In secondo luogo, è possibile parlare dell’operazioned’enunciazione, la quale assicura la conversione della lin-gua in discorso secondo Benveniste. La descrizione, se-guendo il percorso generativo della messa in azione di ca-tegorie discorsive, ha qualche possibilità di descrivere que-sta operazione. Una conoscenza migliore dei percorsi di te-stualizzazione, poco esplorati finora, assicurerebbe un aiu-to apprezzabile a questa procedura. Vedremo come la no-stra ipotesi non chiarifica completamente questa operazio-ne. Tuttavia, essa definisce le premesse di un nuovo ap-proccio che pone diversamente il problema, permettendoforse di apportarvi una risposta soddisfacente.

iii) In terzo luogo, si parla di enunciazione enunciata, o,in altri termini, di marche dell’enunciazione nell’enunciato.È precisamente ciò che ci serve da punto di partenza e daluogo di applicazione delle nostre ipotesi. A ogni modo, sele nostre proposte sono giudicate inadeguate per l’insiemedei fenomeni raggruppati sotto il vocabolo enunciazione,resteranno valide per quel sotto-dominio particolare costi-tuito dall’enunciazione enunciata.

Riassumendo il punto di cui sopra, diremo che l’enun-ciazione enunciata ci serve da punto di partenza per abbor-dare l’insieme dei fenomeni riuniti sotto il vocabolo enun-ciazione, dopo i tentativi fatti a partire dalle istanze enun-ciatrice ed enunciatario, o a partire dalla concezione diBenveniste dell’enunciazione come operazione di passag-gio tra la lingua e il discorso.

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Essendo una concezione difficile da tradurre in terminioperazionali, noi ci proporremo di affrontare la questionea partire da una breccia differente: quella dell’enunciazio-ne enunciata. Armati degli strumenti di analisi dell’enun-ciato, ci sembra che la nostra impresa abbia qualche possi-bilità di arrivare a delineare una struttura immanente del-l’enunciazione per come è iscritta nell’enunciato. Il lettoregiudicherà se questa strategia porta a degli utili.

8.3. Ipotesi

In diversi luoghi, Benveniste lascia intendere che in se-no alle frasi gli elementi portatori dell’enunciazione hannouno statuto logico differente da quello degli elementi del-l’enunciato2. Altrove (Benveniste 1966, pp. 142-156; 1974,pp. 59-82, 245-272), definisce un livello “semantico” (chestudia le frasi costitutive del discorso) opponibile a un li-vello “semiotico” (che si occupa dei segni). Nonostante lanostra accezione del termine “semiotico” sia quella diHjelmslev, che darebbe altri nomi ai concetti ora evocati,potremmo comunque riconoscere il buon fondamento del-l’opposizione proposta da Benveniste. Ci accontenteremodi utilizzare questi due gruppi di analisi per riconoscere lapossibilità di esaminare l’insieme degli elementi dell’enun-ciazione come una totalità, che possiederà uno statuto logi-co differente da quello del resto dell’enunciato.

Ora, Benveniste non intraprende la strutturazione glo-bale delle sopraddette totalità: la sua analisi rimane frasti-ca. Questo compito è stato assunto da altre teorie semio-tiche, quella di Greimas in particolare: un testo, preso nelsuo insieme, è strutturato al di là della concatenazionedelle sue frasi costituenti. Sembra infatti organizzato sudifferenti livelli sistemati a seconda del loro grado diastrazione e designati da termini che li ordinano lungo unpercorso generativo (cfr. Greimas, Courtés 1979). In ma-niera più precisa, ciò che è così organizzato è il testoenunciato: il quadrato semiotico che sussume la totalità

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del discorso analizzato, allo stesso modo che il program-ma narrativo di base, si riferiscono a un testo sbarazzatosidelle proprie marche d’enunciazione3. Su questo schele-tro organizzatore della descrizione vengono a innestarsianalisi locali dell’enunciazione. Nessuna presa in contoglobale (globalità definita nell’universo di discorso analiz-zato) di questa enunciazione è stata finora tentata. Biso-gna osservare allora che:

i) quest’analisi discorsiva dell’enunciazione è regolar-mente riferita a un modello attanziale soggiacente che ser-ve ad articolarla localmente: il passaggio enunciazionale ètrattato come un enunciato breve soggetto a una descrizio-ne di superficie;

ii) la presa in carico globale, di cui abbiamo constatatol’assenza4, comincerà da una riunione dei diversi passaggienunciazionali sottoposti all’analisi, per trarne – se possibi-le – una struttura immanente globale degli elementi enun-ciazionali e delle operazioni enunciazionali disperse lungotutto il testo.

La procedura semiotica attuale, si riconduce a un ap-proccio che rimpiazza il testo manifestato con:

i) un discorso enunciato sottomesso ad analisi secondoil percorso generativo, che rivela il carattere strutturato esistemico di questo enunciato;

ii) una moltitudine di enunciati che sono altrettantemarche d’enunciazione, interrogate per rivelare la relazio-ne tra l’enunciato e le istanze enunciatrici (enunciatore edenunciatario).

Proponiamo di sostituirle con un’altra procedura cheriarticoli gli stessi elementi nel modo seguente:

i’) un discorso enunciato isolato nel testo oggetto comesopra, sottoposto alla stessa analisi descrittiva che, in ter-mini hjelmsleviani, lo pone come un processo rilevante delsistema;

ii’) un insieme enunciazionale che riunisca l’insiemedelle marche d’enunciazione presenti nel testo oggetto.Considerato come una totalità strutturabile, questo proces-so enunciazionale può essere posto come un micro-univer-

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so semantico completo dotato di senso e capace da quelmomento di essere sottoposto all’analisi semiotica in tuttala sua generalità, ovvero quest’ultima potrà svilupparsi suitre livelli del percorso generativo (cfr. Greimas, Courtés1979): la profondità (dove si situano i valori organizzati darelazioni e operazioni logico-matematiche), la superficie(dove si situano le istanze attanziali e le loro modalità costi-tutive), il discorsivo (dove si situano l’attorializzazione, latemporalizzazione, la spazializzazione, la tematizzazione ela figurativizzazione). Quella formulata finora è la nostraprima ipotesi.

Se tiriamo le conseguenze dell’analisi di Benveniste,ammettendo che gli elementi dell’enunciazione enunciatasiano metalinguistici in relazione agli enunciati co-presentinelle frasi considerate, possiamo porre l’ipotesi che il pro-cesso dell’enunciazione enunciata, per come l’abbiamo de-finito in precedenza, è metalinguistico in relazione al pro-cesso dell’enunciato enunciato5.

Conviene precisare che questa relazione gerarchica tradue processi (o due testi riguardanti i due sistemi) determi-na l’enunciazione enunciata come un metalinguaggio opera-tore, che opera sull’enunciato enunciato. Questo metalin-guaggio può, in circostanze particolari, ridursi a un meta-linguaggio descrittivo che dà conto dell’enunciato enuncia-to. Questa è la nostra seconda ipotesi.

La relazione gerarchica tra le due totalità che poniamoin questo contesto resta da dimostrare. Siamo persuasi chesia possibile farlo, e ci proponiamo di mettere a punto unadimostrazione soddisfacente in futuro. A ogni modo, sequesta relazione gerarchica resta da dimostrare, l’ipotesiche l’ha preceduta non ne viene sfiorata; c’è spazio per ri-conoscere due totalità strutturabili opponibili: quelladell’enunciazione enunciata e quella dell’enunciato enun-ciato. Una volta separate, queste due totalità possono esse-re descritte secondo tutte le tappe del percorso generati-vo. Così facendo, sarà possibile porre la questione dei rap-porti relativi dei diversi livelli di questi sistemi per megliodiscernere i rapporti tra l’enunciazione e l’enunciato, come

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le strategie sviluppate dall’una per ottenere un effetto disenso nell’altra.

8.4. Campi coinvolti da queste ipotesi

Il riconoscimento di questa relazione metalinguisticatra i due sistemi permette di avvicinare il sistema dell’e-nunciazione enunciata a quello che Bateson ha denomi-nato la metacomunicazione6: si tratta di quella parte dellacomunicazione metalinguistica posta in relazione ai mes-saggi informativi che serve a definire e a trasformare lerelazioni tra i partner dell’atto di comunicazione. È faci-le vedere che l’enunciazione enunciata marca le relazionetra le istanze Enunciatore ed Enunciatario. L’analisi chefa Benveniste dei pronomi e delle forme verbali è elo-quente a questo proposito. Un simile riavvicinamentopermette di operare omologazioni tra l’analisi semioticae i lavori di Bateson e della scuola di Palo Alto relativialla metacomunicazione, con le loro applicazioni neicampi dell’antropologia e della psicoterapia. Tali apertu-re risultano straordinariamente interessanti e vanno nel-lo stesso senso delle recenti ricerche semiotiche cheesplorano i domini della sociosemiotica e della psicose-miotica.

Questa stessa ipotesi di due sistemi gerarchicamenteordinati ci permette di riesaminare le acquisizioni dellafilosofia analitica nello studio degli atti di linguaggio e digeneralizzare le loro analisi nel caso degli atti sviluppatinel quadro di discorsi dalle dimensioni importanti, cheoltrepassino il livello frastico cui queste ricerche si limi-tano. Fabbri e Sbisà (1980) hanno già fatto precise econcrete proposte per utilizzare il modello attanzialenell’analisi degli atti di linguaggio. Le loro proposte,molto interessanti, andrebbero generalizzate nel modoche qui proponiamo: estendere l’analisi degli atti di lin-guaggio a corpora discorsivi, aggiungere alla descrizioneattanziale una descrizione in profondità e la dimensione

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del percorso generativo per descrivere ciò che, in fin deiconti, concerne l’enunciazione.

L’articolazione dei due sistemi dell’enunciazione enun-ciata e dell’enunciato enunciato permette di rimettere inprospettiva la comunicazione umana in generale: da unpunto di vista indipendente dai diversi mezzi di espressio-ne, la comunicazione sembra giocare almeno tre ruoli:

i) trasmissione di un messaggio oggettivato (si trattadell’enunciato enunciato). Questa operazione è stata a lun-go privilegiata negli approcci teorici della comunicazione.La presa in conto di un sistema dell’enunciazione fa appa-rire altre dimensioni che non è più possibile trascurare: laloro dimenticanza ritorna a falsare l’analisi;

ii) reperimento immanente dell’enunciato enunciato inrelazione all’istanza enunciatrice e in relazione all’istanzaenunciataria (cfr. § 8.5.);

iii) definizione dei rapporti giuridici7 tra queste istanze,enunciatrice ed enunciataria. In particolare, sarà possibiledescrivere le strategie di negoziazione di questi rapporti,così come lo stabilirsi di un contratto fiduciario (cfr. § 8.5.e nota 4).

8.5. Conseguenze derivanti da queste ipotesi

L’adozione delle due ipotesi poste al paragrafo 8.3. of-frirà un fondamento teorico alle descrizioni attanziali del-l’enunciazione discorsiva, le quali mettono in opera unaprocedura che non hanno cercato di giustificare: gli ele-menti dell’enunciazione, riconosciuti fino ad allora comepropri al livello discorsivo, vengono analizzati in terminiattanziali. Ora, perché l’analisi non è condotta sul solo pia-no discorsivo, visto che si tratta di oggetti discorsivi? Per-ché introdurre i concetti e le operazioni del livello di su-perficie? E soprattutto, in modo localizzato e frazionato?Tutte queste anomalie scompaiono dal momento in cui al-l’insieme delle marche dell’enunciazione enunciata vieneattribuito uno statuto di totalità strutturabile. Inoltre que-

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sto è un invito a continuare l’analisi sui differenti strati:completare il livello di superficie con il riconoscimento deiprogrammi narrativi dell’enunciazione, analizzare il corri-spondente livello profondo, e anche ritornare sullo stessolivello discorsivo8.

Insomma, si tratta di una semplice operazione di riequi-librio: sottoporre l’enunciazione enunciata alle stesse proce-dure dell’enunciato enunciato. Partendo dalla stessa manife-stazione, effettuando un taglio, operiamo allo stesso modosulle due parti fuoriuscite da questa separazione. Così fa-cendo, normalizzeremo la nostra procedura e assumeremoil carattere cumulativo del percorso generativo, il quale po-ne che le strutture fondamentali (livello profondo) si ritro-vano nelle strutture di superficie, le quali, a loro volta, si ri-trovano nelle strutture discorsive. Secondo questo schema,ogni elemento discorsivo dovrà essere sussunto da un ele-mento di superficie, che deve essere sussunto da un elemen-to delle strutture profonde. Ora, allo stato attuale dell’anali-si, gli elementi dell’enunciazione sfuggono a questa catenalogica (che si fonda sulla relazione di presupposizione) enon c’è mezzo per ricondurli alle strutture profonde dell’e-nunciato. La nostra ipotesi permette di restaurare il legamepresupposizionale necessario del percorso generativo.

Ma c’è di più: la nostra ipotesi rende possibile l’analisidiscorsiva dell’enunciazione, nel senso in cui l’enunciazio-ne forma discorso e sistema, non limitandosi più a opera-zioni disperse e non legate fra loro. In questo modo, è an-che possibile andare al di là dell’analisi frastica dell’enun-ciazione. Tutto ciò ci permette un salto qualitativo compa-rabile – mantenute le dovute proporzioni – a quello ope-rato dall’analisi semiotica quando ha riconosciuto l’impor-tanza delle strutture globali su scala di racconto e discor-so, strutture irriducibili a quelle delle frasi che si susse-guono nel corso del testo.

Il riconoscimento dei programmi narrativi dell’enuncia-zione permette di definire strategie enunciazionali e auto-rizza il riconoscimento correlativo di performanze enuncia-zionali trasformatrici dei rapporti giuridici tra l’enunciato-

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re e l’enunciatario. Viene così articolata una descrizioneimmanente, in termini semio-narrativi, delle istanze dell’e-nunciazione menzionate in “primo luogo” nel paragrafo8.2. A posteriori si giustifica il nostro approccio euristicoesplicitato in questo stesso paragrafo: l’enunciazione enun-ciata ci serve da punto di partenza per abbordare l’insiemedei tre problemi riuniti sotto il termine enunciazione.

Non è tutto: posto tra l’enunciatore e l’enunciatario,l’enunciato enunciato si definisce come un oggetto di va-lore in circolazione. Allora, i programmi narrativi di cuiè portatore, si trovano sovradeterminati e ridefiniti inquanto programmi d’uso inseriti nel programma di basedell’enunciazione. Una simile lettura è interessante so-prattutto per l’analisi dei messaggio di propaganda. Al dilà dei messaggi persuasivi e/o manipolatori, questa messain prospettiva fonda una teoria della comunicazione co-struita a partire dall’analisi semiotica del discorso, defi-nente una struttura immanente della comunicazione e ingrado di porre le basi di una sua analisi strutturale. L’a-nalisi parallela (stesse procedure analitiche) e gerarchiz-zata (relazione meta- tra l’enunciazione enunciata e l’e-nunciato enunciato, come la sovradeterminazione deiprogrammi del secondo attraverso il programma dellaprima) di questi due insiemi, fornisce una procedura de-scrittiva omogenea, prendendo in carica la totalità deglielementi dell’enunciato messo in circolazione dall’atto dicomunicazione. Essa fonda lo statuto di “simulacro” de-gli eventi di un livello in relazione a un altro, quello cheabbiamo chiamato “l’effetto specchio” del discorso (cfr.Hammad 1980b, 1981).

Si conosce l’importanza accordata ai concetti di rappre-sentazione e di comunicazione nell’elaborazione delle teo-rie linguistiche. Le ritroviamo qui combinate in un modopiuttosto inusuale: ciò che è rappresentato nel discorso,non è più il mondo nella sua definizione come universo dioggetti messi in relazione, ma è la struttura dinamica deisoggetti in comunicazione che sovradeterminano il rappor-to agli oggetti e le relazioni tra gli oggetti.

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Questo risultato viene raggiunto facendo economia delreferente, rimpiazzando la problematica della referenza conl’articolazione di due sistemi semiotici. In effetti, la nozionedi enunciatore è spesso considerata come una referenzaesterna che permette di ancorare il discorso nel “reale”: ildiscorso enunciato è debraiato a partire da quest’istanzatrascendentale, descritta in termini sociologici, politici…Questa problematica trascendente non è conforme all’ap-proccio immanente caratteristico della semiotica, e la nostraproposta permette di riarticolare la descrizione in modosoddisfacente. Essa fa anche di più: le istanze dell’enuncia-tore e dell’enunciatario, che servono attualmente da puntidi riferimento che permettono di ancorare il discorso enun-ciato, sono così rimpiazzati, nella nostra proposta, da un si-stema di enunciazione che serve come riferimento. Passia-mo quindi da una situazione in cui il sistema enunciato è re-perito in funzione di uno o due punti conosciuti (enuncia-tore e/o enunciatario) a una situazione in cui il sistemaenunciato è reperito in funzione di un sistema dell’enuncia-zione. In altri termini, una relazione tra due sistemi rimpiaz-za una relazione tra un sistema e uno o due punti.

Il sistema reperente (enunciazione enunciata), analizzatosecondo i differenti livelli del percorso generativo, permettedi situare il sistema reperito (enunciato enunciato) in relazio-ne a un insieme di elementi più complesso (e più completo)della coppia enunciatore-enunciatario. In effetti, lo sviluppodel programma narrativo dell’enunciazione permette di met-tere in evidenza ruoli del soggetto dell’enunciazione dotatodi valori descrittivi e modali da un destinante dell’enuncia-zione per realizzare un programma d’enunciazione che possaopporlo a un anti-soggetto dell’enunciazione, o condurlo adacquisire, trasferire, trasformare, un oggetto-valore dell’e-nunciazione… Questo abbozzo non è esaustivo e le prospet-tive così aperte sono tanto più ricche quanto più terremoconto degli elementi del livello profondo e discorsivo.

Queste osservazioni fanno passare la problematica /re-perente/ vs. /reperito/ dal livello discorsivo a quello super-ficiale. Ci sembra utile aggiungere che:

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i) questa problematica del reperimento fonda i concettidi embrayage e di debrayage del livello discorsivo;

ii) questa problematica può anche essere ritrovata a unlivello profondo, articolando gli investimenti semantici dellivello fondamentale dell’enunciazione con gli investimentiomologhi dell’enunciato enunciato. A nostra conoscenza,nessuna analisi semiotica ha messo in evidenza chiaramen-te questo punto. Tuttavia, è possibile trovarne degli ele-menti impliciti nel Maupassant di Greimas (1976c, pp. 224-239), quando si tratta di caratterizzare Maupassant comescrittore;

iii) la problematica /reperente/ vs. /reperito/ oltrepassalargamente la questione studiata qui del rapporto tra l’e-nunciazione enunciata e l’enunciato enunciato. Essa fondala definizione delle relazioni e delle operazioni del livellologico-matematico9.

Da un altro lato, l’opposizione /enunciazione enunciata/vs. /enunciato enunciato/ può essere messa in parallelo conl’opposizione /stabilimento e convalida del contratto/ vs./performanza/. Il criterio che fonda questa comparazione èda una parte il carattere giuridico (definizione, negoziazio-ne e trasformazione dei rapporti tra gli attanti messi in re-lazione) del termine posto a sinistra: questo rimane veroper l’enunciazione enunciata come per le sequenze contrat-tuali dell’enunciato enunciato. D’altra parte, ognuno deitermini giuridici di queste due opposizioni sovradeterminaciò che accade nel termine posto alla sua destra. Questaomologazione, fondata su caratteri interni al termine di si-nistra e sulla relazione che lega i termini di sinistra a quellidi destra, permette da quel momento di leggere l’enunciatoenunciato come una performanza, andando a modificare ilsuo statuto di semplice oggetto di valore circolante tra l’e-nunciatore e l’enunciatario. Questa prospettiva è molto im-portante per una teoria della comunicazione, e c’è postoper consacrarle uno sviluppo speciale.

Ci accontenteremo qui di esaminarne le conseguenzenello studio dell’operazione di enunciazione (o messa indiscorso): se l’enunciazione enunciata gioca, di fronte all’e-

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nunciato enunciato, il ruolo che giocano le sequenze con-trattuali in relazione alla performanza, questo significache l’enunciazione enunciata partecipa alla messa in scenadell’enunciato enunciato che si svilupperà in modo dipen-dente dal modo in cui è stabilito il contratto enunciazio-nale e in cui è reso valido. Da quel momento, diventapossibile interpretare il percorso generativo dell’enuncia-zione enunciata come partecipante alla messa in discorsodell’enunciato enunciato. Questo non è soltanto possibilema anche necessario poiché lo si deduce come conse-guenza logica da quanto precede. Tuttavia, non sappiamoancora se questa condizione necessaria è in se stessa suffi-ciente per rendere conto completamente della messa indiscorso. Analisi concrete potranno apportare una conva-lida parziale che dovrà essere completata da una dimo-strazione teorica.

Se questo problema riceve una soluzione che rimanesottoposta alla valutazione e alla convalida del lettore, e sequesta soluzione è da accreditare al nostro approccio euri-stico che prende come punto di partenza l’enunciazioneenunciata, vediamo apparire un altro problema: quello del-la messa in discorso dell’enunciato enunciato. Ci sembrautile richiamare il teorema di Gödel: per risolvere un pro-blema posto dall’enunciato enunciato, abbiamo elaboratouna totalità di rango gerarchico superiore che è la nostraenunciazione enunciata. L’applicazione di procedure cono-sciute a queste totalità di rango superiore ci permette dideterminare la soluzione del problema di rango inferiore.In modo concomitante, il sistema di rango superiore ponedei problemi che, dice Gödel, possono essere determinatisoltanto nel quadro di un sistema ancora superiore… Inquesta catena senza fine, ci resta una possibilità, che è unacongettura formulata da Hjelmslev quando afferma che i li-velli metalinguistici superiori “non darebbero altri risultatirispetto a quelli già ottenuti nella semiologia di primo gra-do, o prima di essa” (1943, p. 134). Insomma, potremmoarrestare l’analisi semiotica “nello spirito del principio disemplicità” (ib.). Non ci è possibile separare al momento

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attuale le conseguenze del teorema di Gödel e quelle dellacongettura di Hjelmslev.

Nel caso in cui una semiotica del mondo naturale puòaccompagnare la semiotica del discorso studiata, possiamomettere in relazione le due totalità estratte (enunciazioneenunciata e enunciato enunciato) con la semiotica del mon-do naturale considerata per esaminare i legami e le relazio-ni che si stabiliscono tra questi diversi componenti semioti-ci. Così, nell’analisi di una comunicazione sincretica (connumerose sostanze dell’espressione), abbiamo estratto unruolo enunciazionale giocato dalle configurazioni topiche(cfr. Hammad 1982) organizzatrici dello spazio dell’incon-tro, ruolo enunciazionale che si definisce in relazione aglienunciati gestuali e verbali che hanno luogo durante lastessa sequenza analizzata. Questo non significa che non cisiano elementi enunciativi gestuali e verbali: ce ne sono ec-come, e l’enunciazione enunciata si sviluppa in modo sim-metrico con l’aiuto di queste differenti espressioni. Tutta-via, il ruolo giocato dalle configurazioni topiche sembradeterminante nella definizione dei rapporti contrattuali opolemici degli attanti coinvolti nell’interazione, sovradeter-minando i loro ulteriori scambi.

Da un punto di vista formale, l’intervento di una semio-tica del mondo naturale è da mettere nel dossier della ge-rarchia dei sistemi evocata in precedenza; cosa che ci per-metta di dire che, in questo caso, stiamo trattando con trelivelli gerarchici.

L’ultimo esempio evocato ci riconduce alla questionedella teoria della comunicazione di cui abbiamo parlato: lacomunicazione sembra peter essere sottoposta a una descri-zione semiotica che riconosca la dipendenza di differenti se-miotiche gerarchicamente connesse. Questa prospettivapuò anche servire da quadro per il riesame degli atti di lin-guaggio e permette di estrarre, in Austin, una preoccupa-zione non confessata, centrata sulla comunicazione genera-lizzata: in effetti, le condizioni di felicità degli atti di lin-guaggio sono da interpretare come una presa in conto diuna semiotica del mondo naturale che inquadra e sovrade-

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termina la semiotica degli scambi verbali. Con la compo-nente informativa degli atti di linguaggio, la loro compo-nente giuridica che ne fa atti illocutori o perlocutori, cosìcome con la componente delle condizioni di felicità, ritro-viamo le gerarchia dei tre livelli che stiamo esaminando.

8.6. Valutazione delle ipotesi e delle loro conseguenze

In relazione alla pratica attuale dell’analisi semiotica, lenostre proposte sono al contempo nuove e prevedibili.Quanto alle conseguenze che possiamo trarne, è facile ve-dere che un certo numero tra loro è già stato messo in ope-ra, anche se in modo disperso. Il Maupassant di Greimas eil Dizionario di Greimas e Courtés forniscono i principaliesempi a questo proposito.

Tutto sommato, bisogna riconoscere che le nostre pro-poste non fanno che sistematizzare un insieme disseminatodi pratiche, dando loro una forma sintetica e una cornicedi esercizio, rilevando allo stesso tempo i loro presuppostinecessari che scegliamo di presentare come ipotesi da con-fermare.

Le ipotesi formali che abbiamo posto sono in numerolimitato:

i) l’enunciazione enunciata è una totalità strutturabile;ii) questa totalità è metalinguistica in relazione a quella

dell’enunciato enunciato.L’approccio che abbiamo posto per poter enunciare

queste due ipotesi su di un presupposto che abbiamo ab-bordato senza poterlo interrogare:

iii) la distinzione /enunciazione/ vs. /enunciato/ riguar-da il piano del contenuto, ed è indifferente alla sua espres-sione10.

Come già detto, è possibile porre queste ipotesi comeproblemi da dimostrare. C’è tuttavia un’altra possibilità:quella di porli, alla stregua del presupposto operatorio chepermette l’approccio, come assiomi veri a priori. La loro va-lidità deriverà allora dalle conseguenze logiche della loro

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messa in opera: non contraddizione con il resto della teoria,adeguamento delle descrizioni ottenute. Allo stato attualedella semiotica, siamo lontani da una costruzione assiomati-ca, come è difficile immaginare procedure formali di conva-lida o di falsificazione. Ci siamo limitati a una convalidainformale operata dalla ricerca semiotica tale quale vienepraticata: i ricercatori diranno se le nostre proposte sonocredibili, se esse non contraddicono cose considerate vere,e se permettono di produrre descrizioni adeguate.

È possibile che queste tre ipotesi non esauriscano l’insie-me dei fenomeni posti oggi sotto il termine “enunciazione”.Tuttavia, se i fenomeni che il nostro approccio permette didescrivere in modo interessante sono giudicati pertinenti,converrà designarli con un termine specifico che li caratte-rizzi come sotto-domini dell’enunciazione. L’applicazionedella procedura proposta apparirà co,e una realizzazioneparziale del programma di base che è la descrizione della di-mensione enunciazionale del discorso, rimanendo da formu-lare nuovi strumenti concettuali per la realizzazione comple-ta del programma.

1 Apparso in «Langages», 70, 1983.2 In Problèmes de linguistique générale I e II (1966, 1974), Benveniste par-

la di “rapporto logico” e di “enunciato operante su un altro” (t. I, pp. 317-318) o anche di “modalità” opposte a un “dictum” (t. I, p. 324; t. II, pp. 101-102), di “facoltà metalinguistica” (t. II, p. 81), e di “sui-referenzialità” – che sianalizza come un rapporto metalinguistico – (t. I, pp. 306, 314, 327).

3 Le procedure poste in essere in Sémantique Structurale (Greimas 1966,pp. 153-154) per la riduzione del testo oggetto sono esemplari a questo ri-guardo.

4 Landowski pone “due livelli di funzionamento del credere” (cioè il li-vello dell’enunciato e il livello dell’enunciazione) nel suo saggio Sincerità, fi-ducia e intersoggettività (1983). Se il suo testo non sviluppa ciò che ci preoc-cupa in questo contesto, testimonia che c’è convergenza tra i nostri approcci.

5 Questa terminologia, un po’ pesante, dovrà essere rimpiazzata da termi-ni metalinguistici condensati. Continueremo tuttavia a usarli qui a titolo prov-visorio per distinguere ciò che, nell’enunciato sottoposto ad analisi, apparecome marca dell’enunciazione inscritta nell’enunciato, da ciò che appare cor-relativamente come ciò che è dell’ordine dell’enunciato oggettivato inscrittonell’enunciato.

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6 Cfr. Bateson 1958; 1972. Lo stesso termine di metacomunicazione è cor-rente in altri lavori circolanti nell’ambito della pragmatica.

7 Nel suo Essai sur le Don, Marcel Mauss (1923-24) qualifica come giuri-diche le relazioni nate da prestazioni e controprestazioni materiali e/o verbalirealizzate dai partner di scambi complessi.

8 Calame, nel suo recente articolo Énonciation: véracité et conventionlittéraire (1982), effettua un passo in questa direzione.

9 Abbiamo abbordato questa questione nel nostro articolo Problèmes deParcours e in La conversion Relation-Opération (1982).

10 L’impossibilità di definire criteri esatti situati sul piano dell’espressioneper permettere un riconoscimento formale e automatico degli elementi enun-ciazionali dimostra che la definizione prima dell’opposizioneenunciazione/enunciato è riconosciuta sul piano del contenuto. Questa argo-mentazione teorica può essere resa valida dal fatto che è possibile riconoscerei termini dell’opposizione enunciazione/enunciato nelle espressioni che nonriguardano la lingua naturale: vedi i nostri lavori citati in nota 10 e 11 e i lavo-ri di Floch (1985) sulle fotografie, i disegni e le pitture.

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ConclusioniSemiotica, spazio e architettura

In chiusura di libro sarebbe fuori luogo formulare unanostra valutazione complessiva, visto che è il lettore l’istan-za ultima di giudizio. Rimane tuttavia un interesse nell’indi-care alcuni punti di riferimento destinati a riposizionare aposteriori i lavori qui riuniti.

La semiotica dello spazio di sviluppa su tre piani correla-ti: quello della descrizione di oggetti d’analisi, definiti euri-sticamente in quanto luoghi che riuniscono uomini e cose,come un santuario o una sala di seminario; quello del meto-do, che nell’approccio greimasiano è adattato alla varietàparticolare di oggetti sincretici evocati; quello del controlloepistemologico che giudica l’adeguamento dei risultati e del-la loro pertinenza, in comparazione con i risultati forniti daaltri approcci. Evocheremo le acquisizioni in riferimento aquesti livelli astratti.

Cominciamo dai risultati, dato che è da qui che si dimo-stra l’efficacia relativa di un metodo. Una prima constatazio-ne che s’impone, globale, è quella dell’apertura considerevoledel campo dei possibili, che si distende dall’architettura con-temporanea (settimo capitolo), all’Italia rinascimentale (pri-mo capitolo), al Giappone degli shogun (secondo capitolo).Anche se non è possibile parlare di universalità dimostrata apartire da un corpus che resta quantitativamente ridotto, èpossibile affermare l’universalità di una direzione mirata. Lastrumentazione è costituita per essere generale e potrà esseremigliorata al momento di confronti con nuovi possibili casi.

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La seconda constatazione di efficacia può enunciarsi intermini di qualità relativa: il metodo semiotico ha permessodi stabilire risultati che erano sfuggiti fino ad allora agli ap-procci tradizionali (come il render conto del Nakabashiranell’architettura del tè).

Per il lettore interessato all’architettura, la semiotica sioffre come strumento di lettura, di interpretazione o dicomprensione. In altri termini, si presenta come uno stru-mento di sapere e non come uno strumento che rinvia a unsaper fare relativo alla concezione architettonica. Servendoper comprendere l’architettura, la semiotica non viene ado-perata direttamente per l’elaborazione della stessa. Ciò nonsignifica però affermare che non possa giocare un ruolo in-diretto nel processo concettuale: potendo aiutare a com-prendere l’architettura, la semiotica può contribuire a valu-tarla nel quadro del processo ciclico di concezione-valuta-zione-modificazione messo in opera nell’attività creatricedegli architetti.

La semiotica rimpiazza l’architettura con una dinamicache implica uomini e cose. Così facendo, le assegna un ruo-lo strutturale (sintattico), permettendo di caratterizzarlanell’insieme più vasto in cui è situata. Se i risultati così ot-tenuti sono apprezzabili, essi lasciano da parte, tuttavia,uno dei problemi più trattati da una certa tradizione stori-cizzante dell’architettura, vale a dire quello degli stili. Lasemiotica sviluppata in questa sede non si pronuncia suglistili. Non che sia metodologicamente incapace di farlo.Semplicemente, la questione non è stata posta in partenza.A essere in causa è il punto di vista che ha generato le que-stioni, e non lo strumentario adottato. Nei primi tre capito-li affrontiamo anche questioni di estetica. A partire da unapproccio simile, è possibile tentare una caratterizzazionedegli stili. Non lo abbiamo fatto perché è stata data prio-rità al perseguimento di un altro obiettivo, ritenuto più im-portante nella fase iniziale della ricerca, quello delle strut-ture fondamentali di una semiotica dello spazio capace diprendere in conto l’architettura.

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Se certi testi riuniti in questa raccolta contengono pas-saggi che sviluppano considerazioni metodologiche miran-ti a regolare il lavoro descrittivo e interpretativo condottosu un oggetto concreto finale, altri testi (vedi il settimo ca-pitolo) sono stati scritti con la preoccupazione confessatadi sviluppare l’analisi in un ordine dettato dalla dimostra-zione metodologica. Due testi (i capitoli ottavo e nono)sono esplicitamente metodologici e non si riferiscono a undominio concreto del mondo naturale. Ne consegue ches’indirizzano a un lettore sufficientemente familiarizzatocon l’applicazione del metodo per interessarsi a quest’ulti-mo in quanto strumento perfettibile. Da qui la difficoltàrelativa di lettura quando ci si accosta a questi due testiche occupano una posizione singolare nello sviluppo dellaricerca semiotica applicata allo spazio. In particolare, l’a-nalisi del terzo capitolo, per come è condotta su una partedella cerimonia del tè, non sarebbe stata possibile senza ifondamenti posti dagli articoli metodologici citati. Per illoro carattere generale, le idee ivi sviluppate sono applica-bili nel dominio delle scienze esatte, in particolare per l’in-terpretazione di strumenti di misura, i quali sono, dopotutto, solo soggetti delegati dall’osservatore nell’universodel suo oggetto di studio, sia esso infinitamente piccolo oinfinitamente grande.

La strumentazione semiotica facilita la comparazione diculture e delle categorie fondamentali che le articolano. Inaltri termini, la semiotica si rivela essere uno strumento an-tropologico che conviene identificare come tale. Il lettoreavrà notato di sfuggita che questa semiotica, chiaramenteinscritta nella tradizione della scuola di Parigi, non affrontail proprio oggetto nel modo in cui i linguisti identificano leunità minimali come le parole e i fonemi, interrogati in ter-mini di significante/significato o di espressione/contenuto.Lo strumentario semiotico all’opera in questi lavori è di ti-po narrativo, ovvero affronta unità più estese e più com-plesse, prese in carico da una sintassi riconosciuta a livellodel contenuto. Infatti ciò che fonda l’unità di quella semio-

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tica sincretica (cfr. l’introduzione) che è la semiotica delmondo naturale non è l’eterogeneità della sua espressionema l’unità del suo contenuto. Essa dimostra a posteriori eattraverso esemplificazioni la validità dell’opzione greima-siana che abbiamo altrove chiamato il primato euristico delcontenuto (Hammad 1985).

Pur autorizzando dei confronti, la semiotica mette inevidenza differenze contrastive: il senso non era nelle cosema nel loro cambiamento e nella messa in parallelo di cop-pie oppositive. Posta nel centro nevralgico dell’approcciosintattico, la trasformazione (o l’azione) è ciò che articola ilsenso, lo sovradetermina, lo rivela. Che sia osservata in ritiiterativi o presupposta a partire dalle sue tracce, l’azioneserve a dire il senso. In altri termini vediamo realizzarsi,nella semiotica dello spazio, la contrapposizione della for-mula quando dire è fare con cui la filosofia analitica caratte-rizza i performativi della lingua in quanto azione: è nelmondo naturale, infatti, che si avvera che fare è dire.

Se si prende un minimo di distanza, sia in relazione allepreoccupazioni dell’architetto, sia in relazione a quelle delsemiotico, è possibile affermare, osservando le analisi diquesta raccolta, che la semiotica dello spazio partecipa all’a-vanzamento di un approccio sintetico dei fatti umani mani-festati del mondo naturale. Indifferente alle barriere tra lediscipline, essa contribuisce a costruire una visione non ir-retita nelle cinte erette da approcci desiderosi di costituirsipropri territori.

Coerentemente con una visione epistemologica allarga-ta, vorremmo attirare l’attenzione sulla presenza ricorrente,in numerose analisi qui presentate, di strutture astratte cheacquisiscono una certa importanza a partire dalla semplicericorrenza citata. Ad esempio: nei capitoli quinto, ottavo enono si mette in opera l’impilamento (o l’incassamento) ditre livelli logici gerarchizzati, differentemente nominati aseconda del contesto particolare affrontato. Sono identifi-

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cati in termini di sistemi spaziali, linguaggio, metalinguag-gio o referenziali a seconda dei casi. Le relazioni che intrat-tengono sono identificate in termini di inclusione, di rego-lazione, di modellizzazione o di interpretazione. Confron-tate tra loro, queste relazioni rivelano un nocciolo semanti-co comune, quello della relazione descritta da Gödel tra unlivello logico di grado n e il livello di grado n+1, costruitoal fine di rendere decidibili gli enunciati indecidibili in gra-do di essere prodotti al livello n. Senza lanciarci in sviluppiastratti, dai casi particolari abbordati sembra che abbiamobisogno come minimo di tre livelli gerarchizzati per costi-tuire un quadro interpretativo di un dato fenomeno com-plesso. Tre livelli costituiscono un quadro relativamentesoddisfacente, anche se teoricamente insufficiente in segui-to al teorema di Gödel. Indipendentemente dall’insegna-mento metodologico fornito dall’esempio, notiamo chequesta comparazione trasforma radicalmente la visione cheil lettore poteva avere delle tre questioni concrete affronta-te negli articoli evocati. Il senso è modificato.

Redatti nel corso di un ventennio, i testi qui riuniti sonocoerenti tra loro: soddisfano pertanto una delle esigenzeminime di un approccio scientifico. Rimane da convalidarela loro coerenza con il mondo che descrivono. Per questaprova decisiva di scientificità, non ci sono che i lettori a po-ter giudicare. La robustezza dei risultati va commisurata ri-spetto alla durata della resistenza alla prova di falsificazio-ne. Il conto alla rovescia è stato lanciato al momento dellaprima pubblicazione.

Speriamo, al termine di questa raccolta, che i nostri let-tori spingano la ricerca in direzioni che abbiamo intrapresosenza aver avuto il tempo di condurle a termine, o in dire-zioni che non abbiamo nemmeno intravisto a causa del-l’impossibilità di prendere una distanza sufficiente.

SEMIOTICA, SPAZIO E ARCHITETTURA

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Bibliografia

Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema au-tore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandiai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora ne-gli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

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