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Alfredo Contran LEGGENDA DI UN PATRIARCA Panda Edizioni

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Alfredo Contran

LEGGENDA DI UN

PATRIARCA

Panda ~ Edizioni

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In copertina: Piove di Sacco nel '700 (Brillo).

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Alfredo Contran

LEGGENDA DI UN

PATRIARCA (Mons. Pio Stievano)

Presentazione di Paolo Tieto

Panda ~ Edizioni

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PRESENT AZIONE

Sono ancora molte a Piove di Sacco le persone che ricordano

monsignor Pio Stievano, l'abate dall'aspetto alto e maestoso come

quercia ma anche, e soprattutto, dal cuore sensibile e generoso,

incline e grande, autentica carità. Prerogative che hanno lasciato

traccia profonda nella memoria di chi ha avuto modo, sia pur

fugacemente, di conoscerlo e di beneficiare magari del suo buon

cuore, della sua splendida generosità. A darcene tutta la dimensione

sta un cumulo di episodi, che ancor oggi i vecchi raccontano, me t­

tendone in risalto sÌ vivamente originalità e spirito da farli sembrare

spesso fantasiosa invenzione, favola più che autentici fatti accaduti.

Con certosina pazienza, assiduità e costanza mons. Alfredo Con­

tran ha "registrato" - nel corso di diversi anni - da tale anedottico

florilegio gli episodi più significativi ed accattivanti, episodi che,

uniti ad altri di personale ricordo, costituiscono ora il contenuto di

questo originale, splendido voI umetto. Libro insolito in quanto deli­

nea la vita di un uomo non seguendone passo a passo i diversi

momenti, le alterne vicende, bensÌ focalizzando le peculiarità intime,

l'eccezionale dimensione dello spirito; meraviglioso dappoi perchè di

agile tessitura, lineare nella strutturazione del pensiero, avvincente

nella narrazione, ricca ognora di nuovi risvolti, di imprevedibili

risoluzioni. La figura di sÌ straordinario personaggio, pur senza con­

notazioni di ordine fisico (di proposito si è esclusa dal libro ogni

foto), si delinea pertanto chiara e precisa, a tutto tondo, nella poten­

za di qualità etiche che la rendono granitica ed insieme soave, ferma

nelle proprie convinzioni e nel contempo ricca di umanità. Come

pure emergono scintillanti le acute intuizioni della sua perspicace e

dotta mente, l'efficacia della personalissima didattica, la fiducia nelle

capacità di riscatto della persona allorchè essa ha sbagliato. Dietro i

tratti di un volto senza parvenza mai di sorriso, di un atteggiamento

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inflessibile e austero, la narrazIOne lascia costantemente scorgere

l'animo di un fratello sempre proteso all'amore verso il prossimo, di

un prete coerente con le proprie scelte, ligio all'impegno di fedeltà a

Dio. Tutto senza forzature o accentuazioni. Poco, e solo a guida o a

precisazione, interviene il Contran; egli preferisce in vero riproporre i

fatti nella loro "storica" compiutezza, lasciando quindi al lettore di

valutarli e di trame eventuali indicazioni e ammaestramenti in base

ad una propria ottica, secondo una personale sensibilità. E l'insor­

genza di interesse e di emozioni diviene fatto naturale, giacchè, pur

lontani gli episodi narrati sotto il profilo cronachistico, si rivelano

nell'essenza intima pregni di virtù, di genuina freschezza, in perfetta

sintonia con le istanze del tempo presente. Attualità che li rende

ancora discorsivi e palpitanti di vita, improntati, pur nell'antinomia

di passato e presente, a saggezza e guida, a godimento dell'animo.

Non poco certamente per giustificarne una rifioritura, la propo­

sta di nuova, più vasta conoscenza.

Paolo Tieto

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PREFAZIONE

Si era sentito male durante la processione del Corpus Domini, ma sostenuto a braccio dai sacerdoti, volle camminare fino al Duomo pregando sottovoce. Don Giulio Rettore che gli era vicino gli disse: «Monsignore, la portiamo in canonica?» Il vecchio abate si scosse e guardando la folla che s'accalcava in chiesa gli rispose in dialet­to: «Portéme dove che xe el Paron». Lo fecero sedere in prersbite­rio, mentre il rito veniva concluso con la benedizione del Santissimo.

Dopo il «Dio sia benedetto», lui si alza e va alla balaustra. Ha il volto di un pallore impressionante e le mani gli tremano. La folla dalle navate lo guarda in silenzio. «No xe gnente - dice con voce alterata - no xe gnente. Ste tranquilli».

Furono le sue ultime parole, in pubblico. Tre mesi dopo mons. Pio Stievano, il 29 agosto 1939, chiudeva la sua giornata terrena.

Ricorre quest'anno il mezzo secolo dalla sua scomparsa e il ri­cordarlo non è solo un gesto di riconoscenza verso un arciprete che privilegiò nel suo lungo ministero l'amore ai poveri, ma una ripre­sentazione doverosa d'un personaggio che ha caratterizzato un 'e­poca della lunga storia della Saccisica. Alla sua morte qualcuno scris­se che Piove di Sacco aveva perso il suo ultimo patriarca.

L'affermazione, a distanza di tempo, non ci pare esagerata se si pensa che lo Stievano muore proprio nell'imminenza dello scop­pio della seconda guerra mondiale.

Era succeduto nella sede abbaziale di San Martino nel 1909 a mons. Roberto Coin nominato vicario generale della diocesi di Pa­dova dal vescovo Luigi Pelizzo. Il suo arrivo a Piove fu per la po­polazione un autentico trauma. Quanto il Coin era stato intrapren­dente, espansivo,eloquente, tanto don Pio (come lo chiamerà subi­to la gente) si presentava calmo, severo e di nessuna oratoria. Vi aggiungeva anche una nota di chiaro rifiuto per tutto ciò che pote­va sapere di artificio e di supponenza.

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Era nato a Roncaiette il 18febbraio 1866 da una famiglia bene­stante, ma tutt'altro che chiusa ai problemi del mondo rurale. Di­venuto sacerdote il 12 agosto del 1888, prosegui gli studi presso la facoltà teologica del Seminario Maggiore e l'università del Bo. In­segnò lettere e poi teologia morale rivelando doti didattiche e senso pratico non comuni. La sua nomina ad abate mitrato suscitò rim­pianto tra i suoi allievi ma non fece molto scalpore, perchè lui non aveva nascosto il desiderio di fare il parroco.

Piove, nonostante le iniziative a carattere sociale promosse dal­/'instancabile Coin, conservava i lineamenti di un centro ancora pro­fondamente vincolato al passato. Le battaglie sociali e politiche del tempo, che pur avevano in città dei fieri animatori e sostenitori, non scomponevano il vasto territorio della Saccisica. Vi regnavano il latifondo, i casoni e parecchio analfabetismo.

Qualche anno dopo il suo ingresso, scoppiava la prima guerra mondiale e più tardi ilfascismo. La parrocchia continuava a resta­re il punto di riferimento e di aggregazione sociale, religiosa e in parte anche culturale. Piove conservava per tutto l'interland l'anti­co fascino del paese con i due giorni di mercato, le fiere franche, le scuole con la classe quinta elementare e un duomo dove nelle gran­di solennità liturgiche l'abate, detto anche vescovo delle Basse, ce­lebrava il pontificale circondato da tanti preti su un presbiterio pieno di luci.

Don Pio non era fatto per le rivoluzioni e capì subito che la strada da percorrere era quella di tener desta la fede della popolazione e aiutare le singole famiglie a maturare una nuova coscienza civile. E scelse di mettersi sulla loro giustezza d'onda in tutti i sensi. I Pio­vesi lo ricordano per il suo abituale uso del dialetto nella catechesi, per la predicazione costellata di battute tra !'ironico e il compas­sionevole, per la sua attenzione ad ogni singola necessità, per il co­raggio neWimporsi ai padroni e agli anticlericali.

Quando morì gli trovarono in tasca 20 centesimi. Ma la cosa non sorprese nessuno, anzi servì a dare un tocco sublime ad uno stile di carità che lo aveva sempre accompagnato. La parrocchia

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era divisa in curazie e queste erano spiritualmente assistite dai ri­spettivi cappellani. Don Pio si riservava la visita annuale allefami­glie. Era un avvenimento per i ricchi e per i poveri, per i miscreden­ti e per i fervorosi. Si trattava di una specie di bilancio religioso, educativo, economico, demografico. Non usava cartelle o libricci­ni per appunti, perché registrava tutto in quella formidabile me­moria che lo sorresse fino all'ultima ora di vita.

Le questue costituivano per lui il pretesto per un passamano della carità. Quello che riceveva da unafamiglia lo donava subito ad un'al­tra più bisognosa. Angelo Bacco, che lo accompagnò con la vec­chia timonella per tanti anni in queste visite, era solito ripetere: «De qua venisti, de qua andasti», cioè, don Pio con una mano riceve e con l'altra dà via. Giuditta Marin, l'indimenticabile e laboriosa perpetua dell'antica canonica, più volte trovò che all'ora di pranzo era scomparso quanto aveva preparato sulla tavola: «Magnaremo stasera» era il commento dell'arciprete. E c'erano sempre i poveri in anticamera ad attenderlo, magari per trovare la soluzione ad uno sfratto incombente.

Don Pio aveva tutte le doti di una vera guida spirituale. Perso­nalmente si riteneva servo inutile e peccatore e in confessionale si commoveva fino a piangere, quando una persona ritrovava la pace e la fede. Uomo di preghiera, era il primo ad arrivare in chiesa e ultimo ad uscirne. Severo con se stesso, non tollerava che si scher­zasse sull'onore a Dio e sulla dignità delle persone. La domenica era sacra, come lo era il sacramento del matrimonio. Guai a chi li toccava.

Le sue prediche, in gran parte moraleggianti, andavano a segno e suscitavano lunghi commenti perchè le storie che raccontava era­no vere. Sulla sua oratoria si potrebbero scrivere dei libri. Veniva­no da altri paesi per sentirlo parlare. Intercalava feroci reprimende ad osservazioni originali ed argute. Riservava la lingua italiana e i discorsi di cartello per le grandi occasioni e per la prima messa della domenica. Alla prima messa vi andavano le mamme di casa, le contadine semplici: «Queste - diceva - no le ga bisogno de tante

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spiegassion, parchè le conosse el catechismo». Il dialetto lo usava alla messa di mezzogiorno, quando arrivavano in chiesa quelli che lui, senza mezzi termini, chiamava "analfabeti de la piassa".

Passava lunghe ore in canonica a ricevere gente. La sua fama di consigliere e di educatore era notissima in diocesi. Autorevole fino a diventare proverbiale. Anche tra i ragazzi che baruffavano, era facile cogliere questa espressione: «Ti do una sberla che nean­che don Pio te la cava».

L'aneddotica sull'arciprete di Piove è molto ricca. Vero o veri­simile, non importa, ciascun fatto ci rimanda, a distanza di tanti anni, aspetti e momenti significativi della sua complessa personali­tà. I suoi rapporti con il fascismo, il suo modo di trattare con il pubblico, i segreti del suo successo pastorale., l'arte del dialogare con i suoi collaboratori, i suoi incontri con le autorità formano al­trettanti capitoli di una storia che meriterebbe d'essere scritta. Die­tro ad essa non c'è solo mons. Pio Stievano, ma l'ultimo spezzone di una vita millenaria piovese che ebbe il suo fulcro nell'area della Corte Milone.

Qualche settimana prima della morte egli chiedeva al cappella­no don Lelio Bordin uno scapolare nuovo della Beata Vergine del Carmine: «Va' a tormene uno, benedissemelo, e po' te me lo porti. Parchè, andare davanti a la Madonna co on abitin vecio ... no, no!». Dopo averlo indossato, domanda: «Ch 'el me dura on toeo?». L'e­pisodio ha la freschezza di un fioretto francescano, ma la doman­da andava molto più in là. Don Pio sentiva che stavano per finire con lui molte altre cose.

Nell'ideare questo libro eravamo tentati di approfondire pro­prio quelle cose, quindi anche difare una biografia sistematica del­lo Stievano. Ne avrebbe avuto diritto, non fosse altro perchè sifosse reso omaggio attraverso di lui ai tanti arcipreti che lungo i secoli hanno onorato la Chiesa di Piove e sono stati maestri di fede per l'intera Saccisica.

Abbiamo preferito lasciare a ricercatori di professione e meno affettivamente coinvolti nel personaggio, uno studio più ampio e

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più colto. Noi abbiamo scelto un 'altra strada. Con pazienza certosina abbiamo raccolto ricordi, battute, epi­

sodi, testimonianze di chi l'ha conosciuto direttamente o di rifles­so. Ci siamo trovati di fronte ad un materiale enorme, che riflette­va al fondo una stima sconfinata per don Pio, ma era purtroppo affastellato in un amalgama di leggenda e di storia. La scelta non ci è stata facile.

Per rendere omaggio all'Abate della nostra preadolescenza (l'età delle impressioni più forti) e per non appesantire la ricostruzione della sua vicenda umana e sacerdotale con elaborate ricerche d'ar­chivio, ci siamo orientati a presentarne la figura attraverso ciò che rimane di lui nel racconto dei Piovesi.

Non tocca a noi rispondere alla domanda se un uomo del gene­re potrebbe trovare spazio oggi. Sappiamo che lui è stato così grande da riempire di sè una lunga stagione della nostra comunità. Gli epi-

. sodi che qui presentiamo, letterariamente ritessuti, serviranno, spe­cialmente a chi non ha avuto la grazia e la fortuna di conoscerlo, a rivelare qualcosa della sua grande statura morale. Non tutti sono importanti, ma ciascuno servirà a spiegarci chi era don Pio e per­chè è diventato "leggenda".

Alfredo Contran

Il

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Il terribile scioglilingua

Nel luglio del 1938 avevo deciso di entrare in seminario, ma chi aveva il coraggio di andarglielo a dire? Don Pio, pur tenendo mi d'occhio, non me ne aveva mai parlato, anzi, quando gli capitava l'occasione di strigliarmi: «Taca quea veste al ciodo (cioè: non ri­sponderai messa) - e dighe a to mama che la vegna da mi». Mia madre andava, si parlavano tra loro, forse anche di me, che ero chierichetto puntuale della messa prima, la sua, insieme con Ago­stino Baron e Augusto Frison. Però, mai una soddisfazione, un com­plimento, un grazie, un incoraggiamento. Anzi.

Una mattina (ma accadde più volte), nell'alternare con lui il sal­mo Introibo ad altare Dei, inceppai nel micidiale versetto "et qua­re tristis incedo". Uno scioglilingua su cui, presto o tardi, tutti i chierichetti finivano con l'ingarbugliarsi, ma che a me suonava osti­co, anche perchè nessuno me lo aveva mai insegnato. Non cono­scevo il latino e figurarsi se Lui, attento anche alle sfumature, non se ne accorgeva. Me lo fece ripetere tante volte, che dieci anni più tardi, mentre mi trovavo sotto un bombardamento a Padova, di tutte le preghiere che sapevo, guarda caso, mi venne in mente bel­lo, completo, esatto anche nelle sfumature, solo il terribile" Judi­ca me, Deus" con quel perfido ritornello "quare me dereliquisti et quare tristis incedo dum affligit me inimicus?"!

Chiesi a mia madre di accompagnarmi in canonica dall'arcipre­te. Era verso sera. La Corte Milone con le vecchie case e i portici e il pozzo e gli alti ciuffi di piante, che conoscevo per nome, guaz­zava nella luce tagliata da ombre oblique.

Venne ad aprire l'immancabile Giuditta. Mamma mi fece un ul­timo esame di coscienza: « Sei proprio deciso?». Stavo per rispon­dere, quando l'abate apparve sull'uscio. Aveva in testa il tricorno, con l'enorme fiocco viola: segno che doveva recarsi, come di con­sueto, all'ospedale. Attorno al pozzo si stavano rincorrendo quat­tro seminaristi. «Li vedito? - dice a mia madre - de quei, gnanca uno!».

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Mia madre era sì timida, ma aveva inteso bene la lezione e az­zardò: «Allora, mi tengo a casa anche il mio?».

Entrammo in canonica e don Pio ripetè a me: «Quei no, ma ti, sì». C'era un tavolo indescrivibilmente pieno di carte. Lo aggirò come una trincea e andò ad accomodarsi su una specie di sedia­poltrona. «Dunque, te voi entrare in seminario! Alora te provi e te fè».

Ero ragazzino, e il discorso mi parve senza costrutto. Pensavo che per entrare in seminario mi occorresse - e perchè no? - alme­no un discorsetto speciale. Don Pio mi lesse negli occhi e, sicuro come quando durante il pontificale impugnava il pastorale, «Se fa - mi disse - e se rifà; bisogna pensarghe sul serio e rivarghe!».

Nel luglio del '48, come mi aveva predetto, ero prete.

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Una pedata, una lettera, una vocazione.

Soprattutto negli anni Trenta, si registrò a Piove un notevole fiorire di vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. Allora si diceva: "Andare prete", "andare suora" e c'era in paese un rispetto profondo, quasi una venerazione, per il ragazzino o la ragazza che manifestava il desiderio di farlo.

A suscitare ed individuare la «vocazione» nessuno era bravo co­me don Pio. Lasciava fare ai cappellani, che di solito seguivano come direttori spirituali i ragazzi o le ragazze; ma la verifica periodica la faceva lui, a volte chiamandoli in canonica a quattr'occhi, a vol­te scambiando un po' di chiacchiere con i rispettivi genitori.

Quando il soggetto, a suo parere, era maturo, lo prendeva di­rettamente sotto il suo controllo. Se ragazza, l'affidava alla respon­sabilità personale della superiora della scuola materna (allora: asi­lo infantile), se ragazzo, lo voleva tra i chierichetti. Sceglieva tra questi, a "servire" la sua messa, proprio quelli che davano segni di vocazione. Li voleva presenti a tutti i riti liturgici, compresa la "messa prima" quotidiana, non tanto perchè fosse la più impor­tante, quanto invece per allenare il ragazzo al sacrificio e alla pun­tualità.

Il «prima» e il «dopo» messa costituiva anche il momento pre­zioso per osservare più da vicino il comportamento del ragazzino. In sacrestia i chierichetti dovevano stare in silenzio assoluto, ma si sa che i ragazzi riescono a parlare anche con altri mezzi: l'alfabe­to muto, gli spintoni, il farsi le boccacce, le pedate. Don Pio le co­nosceva bene queste gherminelle, forse se n'era servito anche lui da chierichetto nella sua chiesa di Roncaiette, e perciò faceva finta quasi sempre di non accorgersene. Ma fino ad un certo punto. Cioè fino alle .. . pedate.

Il caso che raccontiamo riguarda mio fratello Sergio e merita tutta l'attenzione perchè lo crediamo unico nel suo genere. È certa­mente rivelatore della grandezza pastorale e dell'eccezionale sensi­bilità educativa del vecchio arciprete.

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Siamo in sacrestia, è domenica. Noi chierichetti,com'è consue­tudine, siamo allineati dietro il bancone centrale. Don Pio sta par­lando con Narciso Briani, uno dei "cappati" più fedeli. Passa don Lelio Bordin, il cappellano a cui noi chierichetti eravamo partico­larmente affezionati. Ci strizza l'occhio e fa cenno: continuate a stare in silenzio, se potete.

I più irrequieti sono quelli di mezzo alla fila, mio fratello Ser­gio e Giovanni Miante. Bisticciano tra loro prima a gesti, poi a spin­toni, finchè il primo sferra un calcio al secondo. La scena è così rapida che nessuno di noi se ne accorge, ma non è sfuggita all'arci­prete: «Sergio - dice - taca la veste al cio do e dighe a to mama che la vegna da mi». Il piccolo sa che è inutile imbastire difese, esce dal gruppo, si toglie la cotta e la veste di chierichetto e va a casa.

Qui papà, paziente, ascolta la storia e si rende conto che la pe­data non era partita per caso. Andare dall'arciprete poteva essere la strada più semplice. Tra adulti ci si capisce subito in queste cose. Suggerisce invece a Sergio di scrivere a don Pio chiedendogli scusa e l'autorizzazione a rientrare nel gruppo.

Siamo nell'imminenza delle feste natalizie e il ragazzino si sen­tirebbe come uno straniero in terra se non fosse riammesso: la sa­crestia, il duomo e la Corte Milone erano tutto per lui. Prende car­ta e penna e scrive a Don Pio. Frasi da ragazzo, ma piene di senti­mento. E aspetta con ansia la risposta. Passano le feste e l'arcipre­te, quando incontra papà e mamma in chiesa, ha l'aria di essersi dimenticato della faccenda.

Invece, il 3 gennaio 1939, il postino recapita a casa nostra una lettera indirizzata «Al giovinetto Sergio Contran di Nicola - Pio­ve di Sacco». Il foglio è intestato: «Chiesa arcipretale abbaziale di Piove di Sacco», proprio di quelli che don Pio usa per scrivere al Vescovo o al Podestà, o per mettere ... sull'attenti qualche persona che gira troppo allargo dalla canonica. Questo il testo: «Ti dispiac­que di non servire la S. Messa a me nel giorno del S. Natale? A me pure disciacque; e non solamente per il S. Natale, ma per i gior­ni antecedenti e seguenti. Crederesti che io mi diletti a farti patire?

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Tu domandi perdono: quante volte me lo domandasti, e sempre peg­gio. Assicurati, che è solamente per il papà tuo e la mamma tua che ti sopporto, ancora, in sacrestia: i tuoi genitori! ai quali non ebbi il coraggio di dire che cosa abbia fatto ... e dopo tante promes­se. Come si fa a pensare e a parlare di seminario con cotesto con­tegno?

Non dire che bisogna perdonare, perchè, nel caso tuo, altro è perdonare e altro è ammetterti di nuovo alle condizioni di prima, alla mia stima e alla mia fiducia. lo ti ricambio gli auguri di bene­dizioni copiose ed elette, a te, ai tuoi genitori, ai tuoi cari tutti, da parte del celeste Bambino. - Don Pio Stievano».

Conoscendo don Pio, a tanti anni di distanza non esitiamo a definire sublime questa lettera. Un uomo così grande non si sente per nulla umiliato nello scrivere ad un ragazzino, e tratta con lui con una serietà ed un rispetto quali si converrebbero a un destina­tario adulto.

All'arciprete, quel ragazzo stava molto a cuore e il motivo vero lo rivela lui stesso con la domanda: «Come si fa a pensare e a par­lare di Seminario con codesto contegno?», alla quale Sergio avreb­be data più tardi una precisa risposta, scegliendo la vocazione alla vita missionaria.

Tante storie per un calcio? Al Miante era sfuggita una parolac­cia pesante nei confronti di nostra madre e mio fratello aveva rea­gito d'istinto. Don Pio aveva sentito e visto tutto. Era rimasto col­pito dal fatto che, chiamato da lui a ... rapporto, al momento della sospensione del servizio di chierichetto, il ragazzo non si era giusti­ficato né aveva accusato il suo amico. C'eIa del carattere, quindi, e della buona stoffa per farne un galantuomo e un prete. Valeva la pena di scrivergli una lettera, mandargli un segnale. Al di là delle righe e delle parole c'era un chiaro invito: torna, per­ché ti voglio bene.

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La strada pareva lunga

Nel '35 mia madre andò soggetta ad un forte esaurimento. Se lo portò dietro finché poté, poi ne parlò al medico di famiglia, dotto Lorenzoni. «Un po' di ricostituente, signora, e ... aspettare che paSSI».

Com'era sua consuetudine, andava ogni giorno alla messa pri­ma, quella che l'arciprete celebrava all'altare del Santissimo. Ne usci­va che l'alba si affacciava sui grandi rosoni della navata centrale. D'estate mandavano barbagli di porpora e lilla anche le stazioni della Via Crucis. Le ultime ombre se ne andavano dalla porta del coro grande, quando Milio spegneva le candele del catafalco per l'im­mancabile ufficiatura.

Una mattina, mamma uscì dalla "bussola" che dà verso il cam­panile. Qualcosa però non le quadrò subito. Le cose sfumavano, la piazza sembrava lontanissima. Un capogiro, un breve pallore in faccia. Poi tutto tornò a ricomporsi. All'angolo del panificio di Osti infilò la strada di casa, la riconobbe subito, ma come le parve inso­litamente lunga! Non ricorderà più quanto tempo vi abbia impie­gato a percorrerla. «Forse il solito tempo, forse ... sto camminan­do ancora», era solita dire.

Con mio padre non ne fece parola: aveva in quei mesi, pove­r'uomo, altri gravi pensieri. La mattina dopo, puntigliosamente, tornava alla messa. Al sanctus la prese una strana vertigine. Il "Mas­sime eterne" era diventato illeggibile e le fiammelle sui candelabri d'ottone continuavano a moltiplicarsi a dismisura. Tenne saldo, e alla fine della liturgia si alzò per andarsene verso casa. Ma dov'era la strada?

Uscita sulla piazza non si racapezzò più; attorno non c'era nes­suno, l'acqua della fontanella, più in là, continuava a gorgogliare tranquilla. Ebbe un'idea: vado da don Pio. Lo trovò in sacrestia, seduto sulla vecchia poltrona di damasco rosso ormai liso. «Cossa feto qua a' sta ora?». Mia madre non rispose, aveva un nodo alla gola e non sapeva perché. L'arciprete era il suo confessore. «Vien

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co mi, vien drio e varda dove che mi camino», le disse con una vo­ce che esigeva d'essere ascoltata.

L'abate aveva capito di che cosa si trattava: esaurimento dovu­to a stanchezza. «Andammo in canonica - raccontava mia madre -. Seduto al tavolo dell'anagrafe stette raccolto in preghiera per oltre dieci minuti. Teneva la faccia nascosta tra le mani. poi chiese: cossa gheto? - Risposi che non riuscivo a trovare la strada di casa».

Si alzò, la benedisse e aggiunse: «Ti la strada, te la trovaré sem­pre». Infatti, mia madre non la sbagliò più, nemmeno quando la nebbia era così fitta da far scomparire i grandi platani della strada Sanvio.

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Una grazia su ordinazione

Agli inizi degli anni Trenta, ci furono in Duomo alcune liturgie a ricordo del centenario del Voto, cioè dell'impegno assunto uffi­cialmente tre secoli prima dai maggiorenti della comunità di Piove, di recarsi ogni anno in pellegrinaggio con la popolazione al santua­rio della Madonna delle Grazie, offrendo un consistente quantita­tivo di cera.

Mio padre, che era confratello del Santissimo, vi andò con il camice bianco, la mantella rossa e il grosso distintivo sulla sinistra. Aggrappato ad una scranna di legno robusto io guardavo verso l'al­tare. Di là venivano tanta luce e tante volute d'incenso. Cantavano il Te Deum, ma non capivo donde giungesse la melodia. Pareva che le note fiorissero dovunque e l'organo le raccogliesse per rilanciar­le tra le navate.

Al termine della funzione, l'arciprete mandò a chiamare mio pa­dre che si era appena tolto la divisa di cappato nell'oratorio del "pa­radiso" .

«Senti, Nicola, dove xea la Clementina?». Mia madre era a let­to con una broncopolmonite e proprio quella sera il termometro aveva toccato i 40 gradi. Cose serie, tanto che mio padre, qualche anno più tardi mi confidava che era andato in chiesa per chiedere il miracolo alla Madonna. «Monsignor - rispose - va sempre peg­gio. Mi raccomando, preghi per lei». Don Pio girò lo sguardo, co­me per cogliere un'ispirazione e battendogli su una spalla: «Va' tran­quillo - gli rispose - la sta za mejo».

Di ritorno trovammo la mamma seduta sul letto, serena e sfeb­brata. Qualche giorno dopo, l'arciprete incontra mio padre: «A che ora xea sta mejo la Clementina?». La voglia di ringraziare era tan­ta e mio padre ne approfittò per dirgli: «Monsignore, le sue pre­ghiere hanno fatto effetto». E lui: «Te domando a che ora che la xe sta mejo?».

«Quando son tornato - precisa mio padre - era già un' altra». «Va ben, va ben - concluse l'arciprete - gheto visto che la

Madonna le grassie le fa subito!?»

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I due fratelli cappellani

Nel 1906 arrivava a Piove di Sacco come cappellano don Primo Dalla Zanna. Aveva in comune con suo fratello gemello, don Se­condo, la licenza della maturità classica, ma non la stessa vivacità d'intelligenza. Era stato richiesto espressamente dall'arciprete mons. Roberto Coin il quale sperava che, presto o tardi, la Curia avrebbe mandato come cooperatore anche don Secondo, visto che i due fra­telli si comportavano molto bene sul piano pastorale. Don Secon­do giunge solo due anni dopo, proprio quando a mons . Coin su­bentrava don Pio. Lo Stievano li aveva avuti tutti e due come sco­lari in seminario alle lezioni di teologia morale, ne conosceva quin­di il diverso livello culturale.

Erano tempi relativamente tranquilli per la Saccisica, ma non per il cosiddetto «centro» di Piove dove una pattuglia di intellet­tuali e di radicalsocialisti sosteneva le idee che Podrecca e Galanta­ra diffondevano attraverso "L'Asino", la più nota rivista satirica dell' epoca. Nessuno dei due Dalla Zanna era tagliato per far mi­schie ideologiche: o, forse, solo don Secondo. Ma l'arciprete non volle mai che i cappellani si impegolassero in faccende politiche. Preferiva avocare a sé ogni questione che avesse un risvolto sociale e raccomandava ai due di interessarsi di liturgia, di catechismo e di confessioni.

Non riuscirà, però nel 1910 a tener a freno il nuovo cappellano, don Aldo Martinati, che cresciuto come maestro di camera dei ve­scovi Callegari e Pellizzo, portava a Piove la creatività e lo spirito battagliero del corporativismo cattolico. Costui rimise in piedi tut­te le associazioni e i gruppi di impengno sociale promossi, vent'an­ni prima, dal Coin e in più si divertì a spiazzare le iniziative dei co­siddetti «anticlericali» con manifestazioni che allora ebbero gran­dissima risonanza.

Celebre è rimasta la beffa giocata proprio al Podrecca, il quale, invitato a parlare sulla piazza erbosa di Arzerello dalle società cultural-operaistiche del mandamento, si trovò di fronte a centinaia

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di contadini che tenevano al guinzaglio capre e maiali di tutte le taglie. Mons. Pio, quando lo seppe, perse la pazienza e rimproverò il focoso collaboratore, ma fece poi sapere agli amici del Semina­rio che la cosa non gli era dispiaciuta.

Dunque, i fratelli Dalla Zanna erano cappellani su misura dello stile pastorale dell'arciprete: ma non del tutto. Il primo gli pareva povero di spirito o, per dirla schietta, semplicione; l'altro dotto, ma con la testa fra le nuvole.

Un pomeriggio, uscendo di canonica, si imbatte in don Primo e lo apostrofa: «Don Primo, gheto visto don Secondo?». E l'altro, subito «Si, monsignor, era qui cinque minuti fa». Alla sera, dopo, la recita del rosario, torna alla carica: «Don Primo, gheto visto don Secondo?» E quegli, ignaro di dove andasse a parare il discorso, senza riflettere un attimo, risponde: «Si monsignor, è appena an­dato da un ammalato all' Albora». L'abate scoppia: «Gheto visto don Secondo che stamatina el ga dito messa con la bareta in testa?» Poi, fingendosi preso da un atroce sospetto, aggiunse: «O ve scam­bièo, ogni matina, bareta e testa?»

I due fratelli non fecero molta strada a Piove, perché l'abate, appena poté, li spedì ad altra destinazione.

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Una lettera sofferta

Nel gennaio del '141'0n. Finocchiaro Aprile, notoriamente fra­massone, presentava alla Camera una proposta di legge tendente ad innovare la prassi matrimoniale italiana. In pratica, l'esimio par­lamentare chiedeva che il matrimonio civile precedesse quello reli­gioso, rivoluzionando una prassi che aveva le sue profonde moti­vazioni religiose.

Il vescovo di Padova pubblicò sui giornali locali una lettera e invitò i vicari foranei a rivolgersi ai parlamentari delle loro rispetti­ve circoscrizioni chiedendo di farsi interpreti "in alto loeo" del pro­fondo senso di disagio del mondo cattolico padovano.

Il deputato della Saccisica era Romanin Jacur, ebreo, di viva sensibilità sociale e attento interprete dei problemi della gente. Lo Stievano gli scrive, in data non precisata, una lettera di cui si con­serva la malacopia nell'archivio parrocchiale di Piove. Il testo presenta una decina di correzioni, segno che l'autore ha vo­luto soppesare anche le virgole. L'arciprete, pur essendo stato in­segnante di lettere e di morale, non mostrava molta simpatia per la lingua italiana. E anche qui ha un linguaggio asciutto e quasi sof­ferto.

Questo il contenuto: «Illustrissimo Signore, in ordine alla mi­nacciata legge, che imporrebbe la precedenza del rito civile al ma­trimonio religioso, con i miei sacerdoti avemmo occasione di par­lare più volte in chiesa. Ieri, poi, venne da Padova a parlare in chiesa, in mio luogo e a mio nome, un sacerdote che fece un commento all'accennato progetto di legge; quindi si fece l'esposizione e dinanzi a nostro Signore si cantò il miserere per implorare da Dio benedet­to che non si permettesse questa nuova offesa alla religione e alle anime cristiane».

Perché il parlamentare non sospettasse di complotti politici or­ganizzati con pretesti pastorali, don Pio aggiunse: «Una funzione religiosa, nient'altro che religiosa, dopo della quale fu mandato un telegramma in relazione al progetto, uno all'ono Vicepresidente del

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Consiglio e uno appunto all'ono Romanin Jacur. Tanto mi pregio di significarLe egro ill.mo Signore.»

La lettera conclude con una dichiarazione di stima per il parla­mentare, ma nel contenuto con una riaffermazione dell'incompren­sibilità dell'iniziativa di Finocchiaro Aprile.

Non possediamo la risposta dello Jacur, ma la lettera di don Pio assieme alle tante altre arrivate al governo fecero decadere la temu­ta proposta.

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Spumante e dolce ogni giorno

Nel 1926 mons. Bartolomeo Co demo predica, con il celebre ve­scovo di Città di Castello mons. Carlo Liviero, le Missioni a Piove. «Al quinto giorno - racconta - sono in confessionale. Fuori c'è una doppia fila di penitenti. Sento battere su una delle grate e pen­so si tratti del sacrestano. Manca un'ora al pranzo e, come tutti gli altri giorni, è il momento degli incontri a tu per tu in sacrestia con le persone che hanno problemi da risolvere.

È, invece, il parroco di Boion: "Senti - mi dice - oggi vieni a pranzo a casa mia. Fuori c'è la carrozza pronta". Il Co demo non si fa ripetere l'invito e prega il sacrestano di avvertire la Giuditta in canonica che non sarebbe stato a pranzo con don Pio.

Alla sera questi, bofonchiando, si rivolge al Liviero e agli altri sacerdoti: «Oh, i xe 'da a Boion on quo; a Boion. Cossa ghe gera de bèo a Boion?».

Mons. Codemo, punto sul vivo e stufo dopo una giornata di confessioni, ribatte: «C'era una minestrina con un brodo eccellen­te, un lesso squisito, un arrosto meraviglioso».

E dopo? - insiste l'arciprete. «E poi, finito tutto - continua il Codemo - c'era una bottiglia e un dolce che qui non ho mai visti».

Lo Stievano sapeva incassare con un'abilità imprevedibile. E tac­que. Ma, da quel giorno, per l'intero corso delle Missioni, volle che in tavola, a mezzogiorno e sera ci fossero lo spumante e il dolce.

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Una predica fuori tono

Quell'anno (1935) nella chiesetta di sant'Anna vollero fare le cose in grande. La festa della patrona, il 26 luglio, di solito si cele­brava con tre messe al mattino e i vesperi alla sera. L'organizzazio­ne spettava al titolare della curazia, il quale doveva procurare i pa­ramenti e provvedere al rinfresco per i sacerdoti.

Fu proprio don Alessio Ferraro, il curato in carica, ad interes­sarsi che per la liturgia pomeridiana della nonna del Signore ci fos­se qualcosa in più. C'era pure un cabaret di pasticcini per noi chie­richetti, che ci saremmo accontentati anche della semplice ma im­pagabile soddisfazione di suonare l'unica campanella dell'oratorio. Il battaglio menava colpi in falsetto ad ogni strattone che davamo allungo zinco che fungeva da corda. Ci si spellava le mani, ma a noi pareva che da Sanvio, dai Ramei e dalla Scardovara la gente uscisse in strada per sentire la più piccola campana della Saccisica.

La vera novità fu un'altra. Di solito, al vespero, don Pio rias­sumeva per i presenti (ci voleva poco a riempire la navatina spoglia di tutto) le invocazioni fatte da don Alessio durante la novena. Im­mancabilmente concludeva il suo fervorino: «O Sant' Anna, chi prega si salva, chi non prega si danna!».

Quella volta, invece, prese la parola don Annibale Tonon: cot­ta ricamata, stola con fregi, mani enormi e una faccia scavata da rughe molto profonde. Andò per le lunghe, troppo: più di don Pio che, per queste circostanze, di solito infiorava il discorso con tante raccomandazioni alle nuore, alle suocere, alle vedove, non dimen­ticando le donne che portavano il nome di Anna.

Don Annibale era l'uomo più riservato dell'universo. Noi chie­richetti gli volevamo bene, perché ci regalava venti centesimi quan­do "rispondevamo messa". Ai più diligenti aggiungeva una carez­za e un «ciao» pieno di malinconia.

Attaccò il discorso sulla madre di Maria Santissima, e si capì immediatamente che le cose si mettevano male perchè scomodò su­bito i vangeli apocrifi (fu la prima volta che sentii quella parola)

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e poi volò a Saint Anne de Beaupré del Quebec, dove c'è un gran­dissimo santuario a lei dedicato e si dilungò a descriverlo.

Mons. Pio, prima lo ascoltò con attenzione, poi con impazien­za, quindi con certe strane contorsioni della bocca, come per dire: «Adesso hai superato il segno». Noi chierichetti non ci accorgeva­mo di nulla e continuavamo ad adocchiare le piccole braci del turi­bolo che fumigavano vicino alla porta della sacrestia.

La sagra finÌ con i mortaretti e, appunto, con il rinfresco, du­rante il quale l'arciprete (ce lo raccontò molti anni più tardi mons. Antonio Schiavo) disse al Tonon: «Fin che mi son abate de Piove, ti no te predicarè più». Pare che don Annibale, elogiando sant' An­na, durante il discorso l'avesse più volte definita "vergine e martire".

Vera o falsa la cosa, da quel giorno fino alla morte, lui a Piove non predicò più.

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Il congresso dei «moccoli»

Nel 1936 ci fu a Piove il congresso vicariale dei chierichetti. Su questi ragazzi, detti comunemente "zagheti", la gente aveva delle strane opinioni. Vestiti con la talare nera e la cotta bianca faceva­no un bel colpo d'occhio durante le solenni liturgie. Qualcuno ave­va anche una voce stupenda da soprano e lo si sentiva cantare da solo i versetti dello Stabat Mater della Via crucis nei venerdì di qua­resima o le litanie del Sacro Cuore nel mese di giugno.

Parecchi dimostravano l'inclinazione ad "andare preti" ed erano i più seguiti dai cappellani. Ma fuori di chiesa, e cioé in sacrestia e in Corte Milone, apriti cielo! si scatenavano come tante piccole furie. A Piove, come altrove, correva il proverbio: «1 zagheti de sacrestia xe i peso che ghe sia». 1 chierichetti erano la disperazione dei sacrestani perchè uscendo per il canto del Te Deum con le gros­se torce facevano delle enormi chiazze di cera calda sul tappeto rosso dell'altare maggiore. Ed era poi una tribolazione da morire per to­glierle via senza sciupare il tessuto.

Quella volta a Piove convennero dall'intera forania quasi otto­cento "mocoli" (li chiamava così don Bordin che aveva in mano l'intera organizzazione del raduno). Vi fu una messa con i fiocchi e poi una processione sul sagrato con il Santissimo portato da don Pio.

Unica nota stonata nel corso della giornata il comportamento estremamente indisciplinato dei "zagheti" del capoluogo. «Avevano l'argento vivo addosso, sembravano addirittura scatenati - rac­conta il Bordin -. Alla sera, commentando la manifestazione, me ne lagnai con l'arciprete, dicendogli: monsignor, ha visto gli altri? Mani giunte, in fila due a due, facce serie, non una parola; i nostri mvece ... »

Don Pio non lo lasciò nemmeno finire e disse: « ... i nostri in­ves se i va preti; gli altri no. Non basta le man xonte a far i boni putei».

l fatti gli dettero ragione: l'anno successivo, quattro di quei ra­gazzi entrarono in seminario.

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AI demonio ci credeva

Aveva delle parole latine che pareva gustare nel pronunciarle. Nell'oremus del Te Deum c'era il "pro collatis donis"; durante i funerali, al salmo Te decet hymnus, Deus, in Sion, quasi declama­va lo stupendo versetto' 'multiplica genimina eius, et in stillicidiis eius locupletabitur germinans". Naturalmente noi chierichetti non capivamo nulla, ma, a furia di sentirle quelle parole sono entrate nella nostra memoria ed evocano, anche a oltre cinquant'anni di distanza, fantasmi e risonanze.

Il pezzo classico era costituito dal "Sancte Michael Arcangele" , la preghiera conclusiva della messa, che veniva recitata in ginoc­chio sull'ultimo gradino dell'altare. Mons. Pio la sentiva congeniale al suo temperamento. Quella spada sguainata nei cieli a menar fen­denti sugli angeli ribelli e sui nemici della chiesa, sembrava bale­nargli davanti corrusca. E vedeva satana precipitare all'inferno con la sua scorta, infoltita di ali contestatrici. Lui le accompagnava sil­labando le parole gravide di minaccia: "Satanam aliosque spiritus malignos ... in inferno detrude".

Al demonio ci credeva, eccome! Nel '35, su proposta di don Giu­lio Rettore, si recò a San Michele delle Badesse. Non accettava vo­lentieri di uscire dalla parrocchia, prima perché sapeva di non esse­re oratore di cartello, e poi perché aveva già da fare abbastansa a Piove.

«Fu - ricorda mons. Giovanni Foffani - in occasione della festa di Sant'Agnese, patrona allora della gioventù femminile. Parlò della verginità della santa, della fede e del matrimonio, ma con una postilla tutta particolare sul demonio». L'argomento era troppo serio perché don Pio usasse il dialetto e disse: «Guardate che il demonio c'è. Bisogna credere che c'è, per rigettarlo. La Chiesa c'insegna a respingerlo sempre ... in infernum detrude! Sapete cosa vogliono dire queste parole! Caccia dentro all'inferno il demonio. La Chiesa non finisce mai la sua messa se non ripete: In infernum detrude! Il de­monio c'è, bisogna sconfiggerlo».

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L'arciprete non era un uomo da crearsi fisime o credere scioc­camente a tutti i passaggi del diavolo che gli venivano segnalati dai penitenti o dai confidenti. Però di qualche storia infernale doveva essere a conoscenza, se sul letto di morte ebbe a ripetere più volte: «Madonna delle Grazie, fa' che io venga a cantare le tue lodi a con­fusione dei tristi del mondo». Non si trattava delle anime sbanda­te, anzi per costoro non usò mai parole dure e fu largo di miseri­cordia e comprensione. Alludeva forse a coloro che alla predica dei vesperi pontificali della Pasqua del '37 aveva definito "devastatori di coscienze"?

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Dopo la visita pastorale

La visita pastorale del '36 a Piove riuscì benissimo.Per la circo­stanza furono, tra l'altro, rilucidati i mobili della sacrestia e acqui­stata la cassaforte per i vasi sacri. Il vescovo Agostini espresse, a conclusione dei quattro giorni di incontri e verifiche, il suo apprez­zamento all'arciprete, che sentì il bisogno di darne notizia ai fede­li. Naturalmente a suo modo.

Questo, a un dipresso, il discorsetto che tenne una domenica a "messa ultima": «Dunque, sua ecelensa me incarica de dirve che el xe sta contento, tanto contento. Si, parché el vescovo el xe on orno de creansa, quando ch'el parla e ch'el scrive. Mi, però, non posso dire d'essere sta proprio contento del tuto. Ansi ve digo che non so sta contento». (Sua eccellenza m'incarica di dirvi che è ri­masto soddisfatto, tanto soddisfatto. Certo, perché è una persona educata sia quando parla come quando scrive. lo, però, non posso dire altrettanto, anzi vi dico che non sono stato soddisfatto.) E ag­giunse una sfilza di osservazioni sui pregi e i difetti dei piovesi che servì di esame di coscienza a parecchi dei presenti.

C'è un'altra versione dello stesso episodio. Il vescovo Agostini nel corso del suo saluto ai piovesi, a conclusione della visita pasto­rale, sentì il dovere di felicitarsi con la buona popolazione per quanto visto. Del resto, gli stessi sentimenti li esprimerà per iscritto in una lettera all'arciprete il giorno dopo. Colpirono le sue parole di elo­gio tutto speciale che egli volle riservare allo Stievano. Si capiva che non erano frasi convenzionali e che il presule coglieva quella occa­sione per dire all'abate di Piove tutta la sua gratitudine anche per quell'importante lavoro di consulenza spirituale che questi eserci­tava a favore delle persone ed in particolare dei preti.

La domenica successiva, sempre al vespero, don Pio, di fronte ad una chiesa pure affollatissima (si voleva sentire cosa pensasse lui della visita pastorale), incominciava il suo discorso: «Sì, sì, tut­to puito, tutto a posto. E invesse i va a ci amare el prete quando ch'el moribondo xe imbessile e no'l capisse pi' gnente. El vescovo

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ga dito ch'el ga visto tanta zente ai sacramenti. Invesse, qua a Pio­ve, se bateza i putei dopo mesi, ghe xe zente che non se confessa da 15, da 20 e anca da 30 ani, i se sposa come che i voe»

(Sì, sì! Tutto bello, tutto bene, tutto a posto. E invece, si va a chia­mare il prete quando il moribondo ha perso conoscenza e non può capire più nulla. Il vescovo ha affermato di avere visto tante perso­ne accostarsi ai sacramenti. Invece, qui a Piove, i bambini vengo­no battezzati dopo mesi dalla nascita, ci sono persone che non si confessano da quindici, venti e anche da trent'anni e che si prepa­rano al matrimonio a modo loro).

E continuò con il lungo elenco delle magagne morali dei suoi parrocchiani, aggiungendo che gran parte delle responsabilità era delle famiglie. «Adesso - concluse, sempre in dialetto - me dirì ch'el vescovo non ga miga parlà cussì, ansi ch'el ga dito tuto el con­trario. Mancaria altro ch'el vescovo no'l gavesse creansa. Parché qua'l xe me ospite» (Ora, mi direte che il vescovo non si è espresso così, bensì che ha detto tutto l'opposto. Ci mancherebbe che il ve­scovo non si comportasse in maniera educata. Qui è mio ospite.)

Sfumature di particolari, ma la sostanza era che lo Stievano non si lasciava incantare né da elogi, né da successi personali.

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Lui lei e l'altro

Tempo di cresime. Le mamme fanno la fila nel corridoio a pian­terreno della vecchia canonica. «Una alla volta», aveva raccoman­dato in chiesa l'arciprete, che adesso è là nell'ufficio che ripassa il catechismo a ciascuna delle buone donne venute a ritirare il certi­ficato per il bambino o la bambina da "mettere in cresima".

«El vescovo - aveva detto nella predica della messa ultima -noI ga tempo de domandare se ve ricordé i comandamenti. Me to­ca mi; cussì me disì anca come che va la fameja». ( Il vescovo non ha il tempo per chiedervi se vi ricordate i comandamenti. Spetta a me; così mi dite anche come va la famiglia).

Parlava anche di altre cose. L'occasione era buona per chiarire a quattr'occhi certe storie che lui coglieva nell'aria e non si poteva dire in chiesa. Era ruvido, ma giammai indiscreto.

È il turno della signora X. «Disito le orasion matina e sera?» (Preghi mattina e sera?)

«Sì, monsignor!» «To mario vienI o a messa? 'ndeo d'accordo in casa? To missié­

re gaIo ancora la tosse?» (Il marito frequenta la messa? C'è buona armonia in famiglia? Il suocero ha ancora la tosse?)

La donna risponde con precisione e lui scrive. Il rettangolo del certificato gli è là davanti: poche righe con tanti puntini da com­pletare. Poi alza gli occhi: «Senti: chi xea la sàntola de la to pu­tea?» (Senti, chi è la madrina della tua bambina?)

«Monsignor, lo go za dito l'altro giorno» «Ah no, ciò! - risponde duro l'abate - quela proprio no!

La donna trasecola e ribatte: «Monsignor, come femo adesso?» «Se fa sensa sàntola, o te ghe ne trovi 'n'altra» L'interlocutrice non si rassegna e tenta la carta della compas-

sione. «Arsiprete, lu sa che semo poaréti; la santola ga za comprà el vestito, le scarpe, el veo, i guanti, la caenina. E po', cossa dirai in giro? Come fasso, cussì, so do pié?». «Gnente, te trovi 'n'altra santola, parchè quela no poI farla»

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La donna se ne va indispettita e corre dalla mancata "coma­re": «Monsignor me ga dito che ti no te poi fare la sàntola».

Apriti cielo: quella si cambia vestito ed esce di casa: «Adesso vado mi, a védare. Chi soi, mi». (Ora vado io a vedere. Chi sono, io?)

Entra in canonica. Ormai la fila delle mamme si è assottigliata. Quando è il suo turno si piazza davanti all'arciprete. «Monsignor, so vegnua a védare parcossa che noI voe che fassa da santola» .

L'abate, senza muovere ciglio e come se si trattasse dell'affare più semplice dell'universo, dichiara: «Ti la sàntola non te la fé. Par­ché de no. Go dito de no». La donna insiste: «E mi ghe mando me mario». Don Pio si alza dalla sedia rossa. « Sì, sì, manda to mario, che lo speto». (Manda pure tuo marito, che lo aspetto).

Passano due mesi, il vescovo viene per la cresima e la mamma della bambina la cui "santola " era stata contestata dall'abate, prov­vede alla sostituzione con un'altra "comare".

La mattina dopo, la mancata "santola" va a portare il suo bam­bino all'asilo dalle suore·. L'asilo distava quattro passi dalla cano­nica ed aveva l'ingresso dalla corte Milone. Mentre quella sta per entrare in portineria, don Pio esce accompagnato, fin sulla porta, dalla superiora su or Angiolina Previtali. Il passaggio sul marcia­piede è stretto e la donna, diventata tutta mansueta, si tira in di­sparte e fa cenno all'arciprete «Monsignore, el passa lu, che mi 'speto».

Cortesia vorrebbe un grazie o almeno un cenno di simpatico ri­scontro. «No, béa - risponde lui - so mi che 'speto to mario, da sié mesi, par domandarghe de chi che te si so mojere!». (No, bella. Sono io che aspetto tuo marito da sei mesi, per chiedergli di chi tu sei la moglie!) Adesso era chiaro il perché del rifiuto.

Naturalmente la donna si era ben guardata dal dire al marito che l'arciprete non l'aveva voluta per "sàntola".

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La radio in prestito

I cappellani avevano, ciascuno, la propria abitazione; alcuni negli ambienti fatiscenti della corte Milone, il curato di San Rocco, in­vece, in un edificio d'angolo di via Stamperia. Qui c'era don Lelio Bordin. L'arciprete preferiva che i suoi collaboratori fossero indi­pendenti perché imparassero a gestire la propria casa e, forse, per­ché anch'egli riconosceva di avere un carattere tutt'altro che facile. Entrava di rado nelle loro canoniche; se lo faceva, voleva dire che c'era aria di burrasca in giro o qualcosa di urgentissimo.

Venne un giorno a casa mia - racconta don Bordin - era ora del pranzo e la domestica ai convenevoli, che ritenne opportuno far­gli, aggiunse: «Se si degna, un boccone glielo preparo, monsignore».

«Ghe xe don Lelio?» chiede questi, guardando qua e là com­piaciuto che il giovane pretino sia riuscito a dare un certo decoro al vecchio stambugio. Don Lelio sta sfogliando il giornale e gli va incontro: «Oh, monsignore, lei quì? Ha bisogno di qualcosa?»

«A so vegnù vedare che ora che xe - dice l'abate, mentre tira fuori dal taschino il vecchio orologio - a so vegnù a vardare che ora che xe con la radio, non con l'orologio».

Il cappellano di San Rocco era l'unico dei preti in servizio a Piove che poteva permettersi quel lusso. «Un regalo di famiglia - preci­sa don Bordin - cui sono particolarmente affezionato perché mi consente la sera di sentire le ultime notizie e di godermi un pò di mUSica».

Ma all'arciprete quell'aggeggio dava fastidio perché, secondo lui, disturbava il silenzio della casa di un prete e poi costringeva l'interessato a spostare gli orari degli impegni pastorali. Aveva paura, soprattutto, che il curato non si alzasse con puntualità al mattino per le confessioni.

Entra nella sala da pranzo del cappellano, vede la radio, la guarda per qualche minuto, poi dice: «Belo, proprio belo! Pòito prestar­melo anca a mi?»

Al Bordin, lontanissimo dal pensare quale fosse il vero scopo

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della richiesta, parve di toccare il cielo con un dito. L'onore di pre­stare la radio all'arciprete gli fa dire: «Gliela porto subito».

«Va ben!» fu il commento dell'ospite, il quale se ne andò non prima di aver raccomandato alla domestica di non ricevere in casa i chierichetti che, invece di servir messa, andavano da don Bordin a giocare a "dama" e "cavacamisa".

Ci fu un piccolo disguido, per cui la radio arrivò all'arciprete verso sera. «La collocai nella sua sala da pranzo - ricorda il Bor­din - dietro ad una delle tante cataste di libri, senza che lui mo­strasse di accorgersene. Il mezzoggiorno successivo gliel'accesi a pie­no volume, ma lui continuò a mangiare come se la nuova presenza non lo riguardasse». Il giorno dopo l'arciprete incontra ancora il Bordin: «La va ben. Bela roba, ciò! Poito imprestarmela anca doman?».

La filastrocca proseguì ininterrottamente per oltre mezzo me­se. Ma don Pio la radio non l'ascoltava mai. Il Bordin, saputa la cosa, si spazientì e corse a sfogarsi con la Giu­ditta che, saggia com'era, gli spiegò in due parole il senso dell'anti­fona: «La porti via, prima che la ciapa la polvere».

Don Lelio prese sottobraccio il suo Phonola e andò a svenderlo a un amico commerciante della Piazza.

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U Da memoria formidabile

Non doveva accadere: primo, perché lui era una specie di sor­vegliato speciale di don Pio che lo sapeva ritardatario abituale e poi perché quella mattina era giorno dell'Epifania. In duomo, vicino al suo confessionale già dalle sei c'era la fila delle penitenti, ma don Lelio Bordin era ancora a letto. Lo svegliò una scampanellata lun­ga e convulsa come un disperato richiamo d'allarme. Era Gigio cam­panaro, al quale don Pio aveva detto: «Va a chiamare don Lelio. Dighe se 'l se degna de vegnére zo». (Va a chiamare don Lelio. Chie­digli se si degna di alzarsi). Non ci fu bisognio d'altro, perché don Bordin in un batter d'oc­chio si infilò la veste, si rase la barba, uno spruzzo d'acqua di colo­nia, e via in chiesa. «Entro in confessionale - racconta - e vedo monsignore che si sta allontanando verso la navata centrale. Me fortunato, penso, che non si é accorto e non ha fatto scenate da­vanti alla gente».

La festa trascorre tranquilla; i due, più tardi, si salutano. Addi­rittura, in tono scherzoso, l'abate gli chiede se ha visto passeggiare la Befana nei paraggi di casa. Passa anche l'ottava dell'Epifania e don Lelio si dà da fare per smontare il presepio in chiesa. È con­tento che l'episodio del ritardo non abbia lasciato strascichi; lo di­ce all'avvocato Alfredo Zago (Puàn) suo amico e prossimo ad orien­tarsi al sacerdozio. Più tardi a casa, di nascosto brindano al passa­to pericolo.

L'anno dopo, alla vigilia dell'Epifania, l'arciprete manda la Giu­ditta: «Dighe a don Lelio ch'el vegna in canonica da mi». Il Bordin stava per cenare, pianta tutto e va di corsa. Lungo il brevissimo tragitto fa l'esame di coscienza. «Entro in sala da pranzo - ricor­da - e lui sta leggendo il giornale. Mi fermo in piedi, sulla porta, in attesa, ma l'abate non si scompone e sembra che non gli interes­si per nulla la mia presenza. Mette giù il giornale e prende in mano la rivista "Civiltà cattolica"».

Don Lelio ogni tanto stropiccia i piedi per far capire che è là.

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Dopo un tempo che parve un'eternità, don Pio chiama la Giuditta e si fa portare le pantofole. «Le infila e poi balza in piedi - ricor­da il Bordin - come un giovanotto di vent'anni e mi dice, mezzo in italiano e mezzo in dialetto: "È inaudito, hai capito? è inaudi­to!"». Che cosa? Risponde l'altro, quasi spaventato e convinto che si trattasse di una notizia grave. «È inaudito - continua l'abate - che se se fassa la barba la mattina dell'Epifania. È inaudito».

Era passato un anno esatto dall'altra Befana, e l'arciprete non aveva dimenticato. Commenta il Bordin mezzo secolo dopo: «Cre­detemi, da quella volta ho giurato che non mi sarei più sbarbato il giorno della "Striga". Non l'ho fatto neppure quest'anno.

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Qualcuno andò in curia

La storia della sua risposta al vescovo ha fatto il giro del mon­do, tanto che ne esistono diverse edizioni. Che sia vera non c'è dub­bio. Mons. Pio non aveva paura di nessuno, né lo intimidiva l'au­torità di chichessia. Aveva però un debole per alcuni amici sacer­doti con i quali si lasciava andare. Il privilegiato era mons. Barto­lomeo Coderno, uno degli ultimi suoi scolari di quando teneva cat­tedra di teologia morale in Seminario.

«Con Stievano - racconta mons. Codemo - avevamo come docenti anche il Roncato ed il celebre latinista Perin. Ma don Pio era insuperabile per severità ed arguzia. Chiese una volta ad un mio compagno di terzo anno di teologia: "Che cosa daresti come peni­tenza ad uno che venisse a dirti in confessionale che ha perduto la messa alla domenica?". L'altro rispose sicuro: "Almeno un rosa­rio, professore" . Lo Stievano sbiancò in volto e poi con una specie di sarcasmo ribatté: "El rosario te lo disi ti. El rosario te lo disi ti. Par lu, basta ch'el diga 'na avemaria. Tosi! I poareti xe poareti anca quando che i sse confessa». (Il rosario lo reciti tu. Lui basta che dica un'avemaria. Ragazzi, i poveri sono poveri anche quando si confessano).

Dunque, il racconto più verosimile della risposta data da don Pio al vescovo è quello fattoci proprio dal Codemo. Lo riferiamo come l'abbiamo registrato nel maggio del '78 a Villa Immacolata di Torreglia. «Premetto dichiara il Codemo - che lo Stievano non aveva un carattere facile. Appariva invadente, anche se non indi­screto. Sapeva tutto di tutti. Forse troppo, per alcuni, specialmen­te per quelli ai quali urtava il suo modo brusco di liquidare i pro­blemi. Qualcuno andò in curia a lagnarsene. «L'arciprete, disse­ro" non è malleabile, non ascolta ragioni, ha un temperamento forte».

Il Codemo, a questo punto, assicura che lo Stievano era venuto a conoscenza anche dei nomi delle persone che s'erano presa la bri­ga di andare dai superiori ecclesiastici. Il vescovo Dalla Costa (non

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quindi mons. Luigi Pellizzo, né tantomeno mons. Carlo Agostini) lo convoca a Padova. «Son qua, ecelenza - gli dice il massiccio abate senza inframettere altri preamboli - s'el desidera qualcosa?».

Il presule era un santo, ma sapeva di avere a che fare con una vecchia volpe. Non poteva giocare a nascondino.

«Avremmo pensato, d'accordo con il Capitolo, di nominarla canonico della Cattedrale. Ecco, monsignore, noi vorremmo che lei, per le sue doti, le sue qualità potesse restare qui a Padova in nostro aiuto, a servizio della diocesi».

Dunque, si trattava d'una esplicita proposta di lasciare la pre­stigiosa sede della parrocchia abbaziale di Piove di Sacco.

Di passaggio, accenniamo qui ad una curiosa discussione sorta in Seminario nell'autunno del 1908, quando lo Stievano fu officia­to per Piove. Gli insegnanti suoi colleghi si domandavano se fosse più importante tenere cattedra di morale agli studenti di teologia o essere arciprete di Piove. Tutti optarono per la prima tesi: l'uni­co che ebbe il coraggio di dire che «un parroco vale più di tutti gli insegnanti del mondo» fu don Giacomo Dal Sasso, futuro docente di filosofia.

«Perché 'sto provedimento, ecelensa?» insistette, tra il sornio­ne e il divertito lo Stievano. Dalla Costa aveva voglia di andare fi­no in fondo alla faccenda e precisò: «Perché è venuta gente - mi permetta, monsignore, di non far nomi - ci sono stati dei lamen­ti. .. , delle proteste. Me lo lasci dire, hanno chiesto anche la sua ri­mOZIOne».

L'abate sembrò dapprima bisbigliare tra sé e sé: «Ah, ghe xe dei lamenti a mio carico, a mio carico, a mio carico!», poi, come se fosse tornato all'antica cattedra di scuola, dice senza scomporsi: «A go capio. A go capio ben! Senta, ecelensa, me consta che ghe xe, in diocesi, anca molti lamenti a vostro carico!»

Il Vescovo, abitualmente serio, scoppia in una risata e lo con­geda: «Vada a Piove, vada a Piove!».

Dell'episodio, un po' di amaro rimase in bocca allo Stievano, che più di una volta se ne dolse in forma indiretta con i suoi cap-

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peli ani. Mons. Antonio Schievano, accennandogli (eravamo nel 1937) alle voci che circolavano anche nella nostra diocesi sulla san­tità del Dalla Costa, arcivescovo di Firenze, si sentì rimbeccare dal­l'arciprete con questo commento: «A go visto che miracoli ch'el ga fato a Padova!».

Un pizzico di malizia o uno sfogo di sincerità? Forse né l'uno né l'altro. Era un uomo libero e, pur obbedientissimo, non rinun­ciava alle sue idee. D'altra parte, anche la sua santità era discutibile.

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AI cimitero sotto la pioggia

Dev'essere stato nel '36. Il 4 novembre, come di consueto, la folla si raduna in piazza Vittorio Emanuele. Piove a dirotto, ma gli ombrelli aperti sono pochi, perché nel clima politico che si re­spira è disdicevole proteggersi dall'acqua.

«Molti di noi ragazzi - racconta Enzo Gasparini - eravamo (con tanto di divisa, naturalmente) assiepati sotto i portici della piaz­za. Solita sfilata, solita lettura del bollettino della vittoria firmato Diaz, brevissimo discorso del solito oratore ufficiale avv. Mario Ro­manelli, in divisa.

Don Pio, che è presente con i suoi sacerdoti e chierichetti, be­nedice il monumento ai caduti, recitando il De profundis. A que­sto punto la cerimonia è conclusa, ma tradizione vuole che si pro­ceda a piedi fino al camposanto per deporre i fiori e una corona d'alloro al cippo che ricorda i caduti di tutte le guerre. Vi sarebbe stata colà anche una seconda benedizione.

La pioggia batte con violenza, tanto che si assiste ad un fuggi fuggi generale. Le stesse autorità si rifugiano di corsa sotto i porti­ci. «Ma l'arciprete - ricorda il Gasparini - con la voce potente si mette ad urlare: I nostri soldati non avevano certo paura dell'ac­qua e della neve nelle trincee del Carso. Vegnì con mi, al simitero».

Era un invito, ma parve un ordine, e tutti si accodarono al gruppo già incamminato, don Pio in testa, verso il camposanto. «Ricordo l'imbarazzo delle autorità, che dovettero far buon viso a cattiva sorte e mettersi in fila sotto il ... diluvio».

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Chi ha perduto le chiavi di casa?

Una casa in campagna, che non fosse un casone, costituiva ne­gli anni '30 una rarità. Chi ce l'aveva, o era un fittavolo "in mani­ca" del padrone, o gas tal do di qualche fattoria. Al tempo della guer­ra dell' Abissinia, nonostante le sanzioni, più d'un contadino riuscì a farsi una casetta con relativa stalla e pollaio. Roba da pochi sol­di, con muri da una spanna e tegole di riporto, ma pur sempre un edificio di mattoni.

La cosa più importante era la porta. Anche nei vecchi casoni doveva essere robusta, con catenacci, per la solita storia dei ladri che nel piove se erano più attivi che altrove.

Ma nelle nuove case la porta s'era arricchita della piccola civet­teria della serratura e della chiave. Avere la chiave di casa in tasca costituiva l'ambizione più grande della gente dei campi. Voleva di­re essere padroni almeno dei propri sogni e poter dire: dietro quel­la porta facciamo quello che vogliamo noi. Di solito la tenevano in tasca le donne sotto i grandi grembiuli, pronte a cederla soltanto ai mariti quando questi uscivano per andare ai filò d'inverno. Chi avrebbe potuto sospettare che la chiave sarebbe finita tra gli argo­menti della predicazione dello Stievano?

Il catechismo al ves pero della domenica sulla vicenda di una di quelle chiavi durò un bel pezzo, e sono ancora in molti a ricordar­lo, anche se con interpretazioni e fronzoli diversi.

Un pomeriggio, dopo il canto dei salmi, l'abate sale sul pulpito a metà chiesa e attacca: «È stata perduta una chiave. Una chiave di casa».

L'esordio é chiaro, anche se non si riesce di colpo a capire dove la storia conduca. La gente si guarda. In chiesa c'é anche Angelo Bacco, il birocciaio che lo accompagna alle questue, Tommasi il lattaio che fa delle creme squisite, la signorina Gasparini con la ve­letta, la superiora suor Angiolina, solenne tra le suore come una regina a corte. Sono loro, più qualche altro, la clientela delle "Fun­zioni" .

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Più tardi, quando i campanari suoneranno per la benedizione, il gruppo dei devoti ingrosserà, tra l'ultima fila di banchi e la porta centrale.

«Chi ha perduto la chiave di casa?» L'abate ripete la domanda nel dialetto che gli è più congeniale: «Chi xéo sta l'orno che ga per­so la ciave? No 'l xe sta on orno, perché i omani no se mete la ciave in scarsea sensa el permesso de so mojére. Allora, chi xéa sta quea dona che ga perso la ciave de casa? No, na dona, no, parché le do­ne no perde mai gnente. La ciave la ga persa la tosa. La tosa! Savio cossa che xe la ciave de casa? La xe la ciave de la me stansa, del me tavolin, del me casseto, de le me letare. La xe la ciave de i me segreti, de le me lagreme, de le me robe».

L'aneddoto della chiave perduta fece il giro del paese e, chissà come, dopo un po' di tempo, don Pio venne a sapere che i proprie­tari avevano ritrovato il misterioso oggetto.

La domenica successiva, secondo capitolo della predica, dal ti­tolo: la chiave ritrovata. «Na volta, nesun gaveva la ciave de casa. Adesso: sior, quando che xe sera, so stufa, e ghe dago la ciave a la tosa. E la tosa sta fora a la note, e la perde la ciave».

Il discorso, naturalmente è colorito di inflessioni, di pause, di gesti, di stupori, così che i fedeli pensano che questa è la volta buo­na per sapere chi è il proprietario della chiave famigerata.

Ma l'arciprete devia e conclude la sua arringa: «Senti, bona mare! Le galine, le gheto contà prima de 'ndare in leto; i polastri, li gheto contà prima de 'ndare in leto?; le galine e i polastri se conta, ma i fioli no! Tanto, lori ga la ciave in scarséa!»

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La festa oltre le barene

Gli rimproveravano di avere sì il senso della puntualità, ma non quello del tempo. L'incredibile accadde a Cantarana ed ebbe testi­mone padre Valentino Saoncella, missionario comboniano, allora seminarista nel liceo del seminario maggiore di Padova. Parroco di quel paese era don Augusto Borin, nativo di Merlara, il quale si era affezionato al Saoncella per una vecchia amicizia con suo pa­dre. Lo invitava durante i mesi delle vacanze a tenergli compagnia, anche perché il villaggio era allora fuori di ogni geografia: «Per ar­rivarci - racconta padre Valentino - facevo tanti chilometri in bicicletta che mi pareva di attraversare la savana».

L'odore salmastro delle barene giunge a zaffate sulle prime ore del mattino, quando il vento viene dal mare e piega i ciuffi dei fala­schi sullo sfondo dell'argine dell' Adige.

Cantarana aveva solo due case con tegole, la canonica e la casa del "paron". Era il periodo del dopopasqua e si celebrava con una certa solennità la festa di san Francesco di Paola, patrono della co­munità parrocchiale. Fu invitato a solennizzare la circostanza mons. Stievano, che arrivò da Piove con una carrozza condotta da Bacco alle nove e mezza.

Dopo i convenevoli passò in sacrestia e si apparò. Il Saoncella si vestì da suddiacono con la tunicella ricamata; siccome però non aveva ricevuto neppure gli ordini minori, non indossò il tradizio­nale manipolo e durante la messa non toccò mai la patena.

La messa uscì puntualmente alle lO e 30. La chiesa, piccola, era zeppa, tanto che la corale che eseguì le parti fisse della liturgia con una magistrale messa del Perosi stentava a trovare posto. Al van­gelo don Pio prese la parola. Il tema era sul santo del giorno, ma egli prese un giro molto largo e partì dall' Antico Testamento, in­fiorando il linguaggio di dialetto schietto e di italiano puro.

In chiesa faceva caldo e i vecchi, dopo mezz'ora, tirarono fuori dal taschino del gilé gli orologi marcati "ferrovia", con le ore ne­rissime incise sui piccoli dischi di maiolica. Cominciarono a bisbi-

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gliare: «Chissà che la finisca». Qualcuno tentò anche di tossire e di stropicciare i piedi. Tempo perso. Mons. Pio imperterrito conti­nuava come se tutti pendessero dalle sue labbra.

Ad un certo punto i campanari, fedeli alla consegna, suonaro­no il mezzoggiorno; fecero anche la ribotta, il suono si rovesciò in chiesa dalle finestre spalancate, ma lui ad insistere e a spiegare che era inutile festeggiare san Francesco di Paola se non si educano i figli al timor di Dio.

Finalmente qualcuno prese il coraggio a ... due piedi ed uscì. Qualche altro, e furono parecchi, lo imitò. L'oratore capì 1'antifo­na, ma per non perdere completamente la partita, chiuse il suo di­scorso dicendo: «Vi aspetto al pomeriggio, che vi devo finire la sto­ria». Al pomeriggio, alle funzioni, la gente c'era ancora, imperterrita.

Ma per sua fortuna, stavolta, la predica fu breve.

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La puntualità è una virtù

Sulla puntualità non ammetteva eccezioni. Al maestro Rioda, arrivato in ritardo per accompagnare all' organo la messa delle die­ci, precisò senza mezzi termini: «Par mi, quando che te rivi dopo, xe come che no te ghe fossi». Con i cappellani, poi, era addirittura implacabile.

«Una mattina - raccota don Bordin - non sentii la sveglia, e arrivai in coro qualche minuto in ritardo per l'ufficiatura». Don Lelio aveva una voce discreta, bene intonata e per designazione co­mune degli altri cappellani, spettava a lui l'avvio della salmodia: «Regem cui omnia vivunt, venite adoremus».

Erano presenti nei loro stalli canonicali don Ettore Fabris, don Antonio Gusella e don Giulio Rettore; più sotto, sulle panche, il solito nugolo di chierichetti mattinieri.

Nei lunghi minuti (cinque o dieci?) di attesa dell'arrivo del Bor­din, si affaccia due o tre volte alla porta del coro Milio, il sacresta­no dal cuore d'oro e dall'obbedienza reverenziale per il suo arci­prete. Guarda, riguarda nella penombra, cerca inutilmente l'assen­te. Finalmente don Lelio arriva, attraversa il presbiterio con quella falcata lesta e molleggiata che i giovani del circolo cattolico gli in­vidiavano, e va al suo posto.

Lo stallo dell'ebdomadario era collocato sotto quello dell'arci­prete. Prima del Bordin era stato occupato da don Gelindo Guolo, curato di sant'Anna, l'uomo più mite della terra, con un paio di occhiali cerchiati d'oro e un'ugola fatta per il canto gregoriano. Don Lelio si è appena sistemato nello stallo; arriva don Pio con cotta a maniche merlettate sul raso rosso. L'abate va al centro coro e in­comincia: «Ala mattina, non bisogna ciaparse in leto. E par non ciaparse in leto ala matina, bisogna 'ndare in leto presto la sera, e non star su a'scoltar la radio».

Tutto parve finire lì e l'ufficiatura ebbe normale svolgimento. La prima lettura biblica spettava di solito al Fabris, che aveva il vezzo di storcere un po' la bocca quando pronunciava la vocale "e";

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la seconda era di assoluta competenza del Gusella, che se era, co­me si suoI dire, in vena, infiorava la lettura con una cadenza am­pollosa da letterato d'altri tempi.

Passa qualche giorno, e preti e chierichetti si trovano in sacre­stia pronti per la celebrazione del vespero. Mons. Pio è, come il suo solito, seduto sulla poltrona, tra la finestra e il vecchio orolo­gio, passa con lo sguardo in rassegna i presenti; poi, alzandosi di botto, dice a don Rettore: «Va' a leto bonora, invesse de stare a 'scoltar la radio». Questi ribatte: «Monsignor, mi no go la radio». E l'altro insiste rivolgendosi a don Gusella: «Va' a leto bonora in­vesse de star su a 'scoltar la radio». Figurarsi se Gusella poteva ta­cere. «Monsignor, mi no go gnanca la corente». La sua casa infatti consisteva in una specie di tugurio illuminato più dalla finestra che , dava sul portico che dalle candele che Milio, il sacrestano, gli pas-sava di sottobanco.

Ma l'abate prosegue con la sua raccomandazione anche agli al­tri presenti. Quando arriva al Bordin, fa un sospiro e gli bisbiglia, non tanto sottovoce che tutti non possano capire: «A ti, no te digo gnente, perché ti te si sempre puntuale».

Due lezioni in una volta, perché ad avere la radio e ad arrivare in ritardo era soltanto don Lelio.

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Rimprovero e penitenza

Aveva introdotta la "piccola adorazione" del giovedì pomerig­gio. Si recitavano alcune invocazioni eucaristiche, intervallate da alcuni momenti di riflessione comunitaria. Le persone devote vi po­tevano intervenire, ma i sacerdoti non dovevano assolutamente man­care. Mons. Pio ne faceva una questione di principio. «Dovemo darghe buon esempio a la gente - era solito dire - . I vede che preghemo e che se volemo ben!».

Un giovedì don Bordin prende la bici e va a gironzolare fino alla via Rusteghello. Non c'era un motivo particolare, solo la vo­glia di sgranchirsi le gambe e pigliare una boccata d'aria.

Si spinge anche più in là, infila via Breo, passa davanti alle scuole elementari, guarda all'angolo il ve~chio palazzo Morosini, poi con­tinua a pedalare senza controllare l'ora e le strade. Arriva al duomo che è tardi. I suoi amici cappellani stanno uscen­do di chiesa e uno gli fa cenno che l'arciprete è nei paraggi. Meglio affrontare il pericolo che scappare. Anche se lo tentasse, non servi­rebbe a nulla perché l'onnipresente abate gli é già davanti. «Dove sito sta?». La domanda è a caldo, ma precisa. Don Lelio risponde secco secco: «All'ospedale, monsignor». Era una bugia bella e buo­na, tanto più grossa, quanto più immediata.

L'altro continua: «Cossa ghe xe a 'sta ora in ospedale?» «So­no stato a trovare un'anziana signora che è grave», precisa con sfron­tata semplicità il curato imbroglione. Mons. Pio intuisce tutto, ma tace e va verso la canonica dalla porta meridionale del duomo. Nean­che a farlo apposta, dopo cinque minuti, capita in Corte Milone il cappellano dell'ospedale don Ettore Fabris. Battute rapide tra i due: «Chi ghe xe de malà, all'ospedale, de grave?». Il Fabris, con la modestia che gli è consueta, si premura di assicurarlo che non c'è nessun caso urgente. «Come? ribatte quello - se xe pena sta don Lelio».

Don Ettore fa per un attimo mente locale, rivede i letti delle corsie e dice sicuro: «Monsignor, mi son fermato a parlare fino a un quarto

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d'ora fa con il prof. Zanetti e non ho mai visto don Lelio». Il buon uomo pensa solo di dare un'informazione esatta, invece offriva un prezioso elemento di prova a ciò che don Pio sospettava.

La cosa però parve chiudersi lì. La mattina seguente, monsignore è seduto in sacrestia sulla poltrona dalle borchie d'ottone ossidato, legge come di consueto il breviario, ma di quando in quando alza gli occhi per vedere se l'incriminato arriva.

A un certo momento - sono le sei e quarantacinque - entra don Lelio, ciuffo a spazzola e occhi pieni di sonno. Ci siamo. L'ar­ciprete scatta in piedi e con la faccia adirata gli va incontro: «Dove sito sta ieri dopo le quatro!». E l'altro, impenitente: «All'ospeda­le, monsignor».

Apriti cielo! «N'altra busia - urla l'arciprete - qua, a mi, in sacrestia, ti, prete zovane come che te sì! ».

Gliene disse tante che il Bordin scoppiò a piangere a dirotto. I chierichetti presenti allo spettacolo si defilano uno dietro l'al­

tro verso la sacrestia. Improvviso cambio di scena. «Don Lelio, vien qua!». Quasi lo

trascina fuori di sacrestia, apre la porta di uno degli sgabuzzini adibiti a confessionale degli uomini e si inginocchia sul genuflessorio: «Con­fèssame» - gli dice, consegnandoli la stola.

Don Lelio è così stordito per quanto sta accadendo, che non ha nemmeno la forza di reagire. «Confèssame», ripete l'arciprete.

E il cappellano ascolta in silenzio l'accusa del suo abate e gli impartisce l'assoluzione. Ha un nodo alla gola che lo costringe a dire a spizzico le parole della formula.

Don Pio aspetta paziente le ultime frasi: «quidquid boni feceris et mali sustinueris sit tibi in remissionem peccatorum, augmentum gratiae et praemium vitae aeternae. Amen», poi si alza (adesso nel­la penombra, pare anche più alto e massiccio) e grida a don Lelio: «Qua, qua, son un pecatore anca mi, come tuti i altri. Ma in sacre­stia, so el to arsiprete!».

Il giovane curato scappò a casa e pianse di commozione a lungo.

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Quella notte in Corte Milone

Sui rapporti di mons. Stievano con i fascisti c'è una pagina ine­dita. La raccontiamo così come ce l'ha riferita Vincenzo Bertipa­glia, amico di Silvio Campioni. Quest'ultimo va una domenica in "littorina" a Venezia. Mentre leggicchia il giornale, gli si avvicina un signore che si qualifica per professionista, con studio a Cavar­zere. Attacca il discorso: «Lei è di Piove?». Avutane la conferma, continua: «lo ho un ricordo personale del vostro paese, di un arci­prete alto e maestoso».

Eravamo al tempo delle cosiddette spedizioni punitive. Le squa­dracce, per non farsi riconoscere, cambiavano paese, bastonava­no, minacciavano e, dove potevano, caricavano sul camion le per­sone da "rieducare" e le lasciavano più tardi, mezze morte, in cam­pagna. Una pattuglia di Cavarzere, di cui faceva parte lo scono­sciuto interlocutore, aveva deciso di dare lezione all'abate di Pio­ve. Tenevano in serbo l'olio e il bastone di cuoio. Arrivarono in Corte Milone ch'era notte inoltrata e piazzarono il camion sul mar­ciapiede davanti alla canonica.

Dal campanile il vecchio orologio segna la mezzanotte: uno della combriccola batte alla porta. Nessuno risponde; suona allora il cam­panello. Dopo qualche minuto arriva la Giuditta, la domestica che dorme con un occhio solo per essere pronta ad ogni chiamata. «Chi è?» - chiede prima di aprire. Dal di fuori qualcuno risponde con voce contraffatta: «Abbiamo bisogno di parlare con l'arciprete». Mons. Pio è ancora sveglio, s'affaccia al balcone e capisce al volo che sta accadendo qualcosa di brutto. Scende, apre la porta e si trova di fronte ad alcuni figuri in divisa.

«Siamo noi - dice uno, con un tono che non vorrebbe ammet­tere repliche - siamo venuti a prenderla e a portarla da ... ». L'ar­ciprete accosta la porta e dice. «Si, si, adesso vengo subito». Quelli pensano che voglia scappare e ribattono: «No, lei viene adesso, con noi». L'abate ritrova il tono perentorio che usa solo quando vuole, essere ascoltato: «Vi dico di aspettare, vengo subito» e grida forte:

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«Giuditta, impissa tutte le luci de la sala». Sgattaiola su per le scale e dopo qualche minuto scende con la veste paonazza, il rocchetto e la croce pettorale (un altro testimone, che evidentemente non se ne intendeva di abbigliamenti liturgici, parla di paramenti pontifi­cali).

Gli scalmanati restano colpiti dalla figura ieratica e imponente, poi uno si fa avanti urlando: «Via questi stracci. Noi vogliamo l'o­rno». Mons. Stievano ha capito che sono dei vili e ribatte in dialet­to: «Mi ve digo che so' quèo che vedì e questo, se volì, porté via».

Lo prendono per le braccia e lo spingono sul camion. L'auto­mezzo non parte. Si prova e riprova. La masnada infuriata spinge l'automezzo lungo la Corte Milone. Niente da fare. Una voce dal gruppo bisbiglia in italiano: «Beh, lasciamolo andare; verremo un'al­tra volta».

L'arciprete, come niente fosse accaduto, rientra in canonica e ripete l'abituale comando: «Giuditta, sàra ea porta e stua le luci». La domestica non ha ancora dato un giro di chiave, che fuori in cortile il motore del camion degli squadristi si mette a ronzare.

«Da quella sera - confessò l'illustre ignoto di Cavarzere al Cam­pioni - io quell'arciprete l'ho sempre davanti. Non riesco a dimen­ticarlo».

Può darsi che la storia sia vera solo in parte, ma il Campioni assicurava - e non ci sono motivi per non credergli - che lui non aveva in alcun modo chiesto al testimone oculare di raccontargliela.

Di vero c'è sicuramente che quando spiegava il quinto coman­damento don Pio diceva: «No se pòe amazzare, ma no se pòe gnanca bastonare, malmenare, offendere, portare via e persone». E gli udi­tori capivano benissimo a chi alludeva.

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I famosi preti del chinino

Ho chiesto una volta a don Giulio Rettore: «Quale atteggiamento ebbe don Pio nei confronti del fascismo?». Risposta: «Non gliene importò mai niente. Quando c'era qualcosa da sistemare mandava me». Don Rettore non era un cappellano da mettere sotto i piedi; gli piaceva l'ordine e non sopportava la protervia. A chi cercava di imbrogliarlo non dava requie. Don Pio si fidava di lui completa­mente.

Una volta il segretario politico mandò una lettera di rimprove­ro al parroco di Tognana don Pietro (comunemente: don Piero) Laz­zaro. Il tono dello scritto era talmente intimidatorio che il povero prete corse dall'abate da Piove. «Va da don Giulio e dighe ch'el se rangia lu'. Quei i ghe fa paura al prossimo, parchè i ga paura lori».

Don Pietro, durante la predica, aveva detto, grosso modo, di essere lieto di fare il curato di campagna, perché respirava "aria libera". L'allusione era chiara e qualcuno si incaricò di andare al partito a Piove e riferire. Don Rettore prende la lettera e, dopo aver congedato il Lazzaro con: «Macaco, te perdi i soni par cossì poco!», va difilato dal segretario del fascio: «I casi sono due -gli dice - o la smetti di scrivere queste sciocchezze o domenica ti chiamo io, per nome, in chiesa».

Ricordo qui, per inciso, che il Rettore era stato in precedenza ad Arquà Petrarca, come cappellano di un parroco che alcuni faci­norosi avevano spaventato a tal punto che quasi non si arrischiava più di parlare in chiesa. Il Rettore si presentò una domenica all'am­bone per la lettura del vangelo, ma, prima di incensare il libro, po­se sulla balaustra una doppietta da caccia sillabando queste parole: «Non crediate che ci sia un secondo prete qui che ha paura».

Lassù, sui dolci pendii delle colline care al Petrarca, nessuno più si azzardò di aprir bocca.

Don Giulio aveva buona memoria anche per quanto era acca­duto nella Saccisica: a Conche avevano "oliato" don Luigi Corra­din; a Codevigo il cappellano don Gelindo Rizzolo, più volte mi-

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nacciato, era stato trasferito; don Alessandro Vendrasco, durante la sua permanenza a Conche, aveva subito violenti insulti dagli squa­dristi di Codevigo; l'arciprete di Arzergrande, don Giuseppe Segalla, aveva patito le pene dell'inferno a causa di infami calunnie messe in giro da quelli del fascio, sul suo conto. Erano i famosi preti del "chinino", cioè i parroci che, pur di stare con la loro gente, s'era­no buscata la malaria e ne limitavano le conseguenze ingerendo mas­sicce dosi di solfato o idro clorato di chinino. Uomini con i quali i piccoli dittatori terrieri e politici locali dovevano fare i conti.

Un perseguitato dai fascisti a Piove fu don Luigi Pipinato. La faccenda, anche a distanza di anni, appare davvero ignobile, se si pensa che a costringerlo a bere l'olio per motori furono due suoi ex allievi delle piccole classi ginnasiali della Corte Milone. Non si erano limitati a questo. Prima di uscire dalla casetta del sacerdote compirono tali sconcezze che egli si sentì in dovere di dire: «Giova­notti, guardate che Dio non paga al sabato».

Uno dei due figuri (ne possediamo il nome e il cognome) rispo­se sarcasticamente: «Se non paga al sabato, pagherà la domenica». Quarant'anni dopo, costui, durante la guerra, lavorava presso lo zuccherificio di Pontelongo, quando improvvisamente le sirene suo­narono l'allarme.

Assieme ad un altro operaio, corre attraverso la campagna in cerca di un fossato per proteggersi. Poi ci ripensa e dice: «lo mi fermo dentro questo cunicolo». Dall'alto gli aerei cominciano a sgan­ciare bombe e spezzoni incendiari e lui si rannicchia a ridosso del rifugio di fortuna. Uno spezzone cade a filo proprio sul cunicolo schiantando l'uomo in modo impressionante.

Non ne troveranno che pochi resti. Fuori del rifugio, intatti, la bicicletta, il contenitore della mine­

stra, la pagnotta e il cucchiaio. Strana coincidenza: era di domeni­ca, come aveva urlato al Pipinato. Era stato preso in parola.

Don Lelio Bordin confidò un giorno a don Pio: «La gente dice male del fascismo e del Duce. Come dobbiamo regolarci?» L'aba­te fece un risolino e gli rispose: «Dentro da 'na recia e fora da s1' altra».

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Lo Stievano era una di quelle autorità che si impongono con la sola presenza. Gli habituès del Caffé Grande di Piove, proprio quelli dai quali erano partiti lazzi e insulti a don Pipinato, si alza­vano in piedi quando passava lui. E lo temevano.

Nel 1931 ricorreva il terzo secolo dal Voto per la peste e molti incominciarono ad insistere perché si facessero le cose in grande. Fu mandato, a nome di un gruppo di persone influenti della piaz­za, un noto avvocato, simpatico, dalla loquela accattivante. Costui illustrò a don Pio il suo progetto di comitato e di programma per le feste del centenario. «Si potrebbe fare - disse - un comitato cittadino di tutte le autorità (fascio compreso). Il tutto potrebbe fare capo a tre persone che dovrebbero rispondere dell'intera orga­nizzazione. Che ne direbbe lei?».

La risposta è immediata: «Ghe digo subito, sior avocato: l'arsi­prete de Piove, l'abate de Piove e don Stievano. Questo xe el comi­tato che fasso mi: no i se staga disturbare».

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I soldi per la permanente

A sentirlo predicare venivano anche da Padova. Mons. Riccar­do Ruffati, allora direttore de "La Difesa del popolo", riferì que­sto discorso tenuto da mons. Stievano alla messa ultima. «Tosi, ve ne go da contare una. Savìo cossa che ga fato el vostro arsiprete? No podì gnanca pensarlo. A ghe go da' i schei a 'na tosa parché la se fassa la permanente!

Ma adesso ve spiego. Xe vegnùa so mama, piansendo: monsi­gnor: la tosa, per andare a lavorare bisogna che la se toga 'na bici­cleta. E noialtri no gavemo schei.

Tanto la ga pianto, che mi ghe go da' i schei, quei che gavevo in scarsea. Tuti, parché capì anca voaltri che 'na mare che pianze par so fiola la xe na roba granda. Ciò, la tosa perdeva el posto se no ghe jera la bicicleta.

Chi xe che pensava che i schei, invesse, 'ndava da 'n'altra parte! El giorno dopo vegno a savere che la tosa se gavea sì comprà

!ti bicic1eta, ma non so con che schei. Con quei che ghe go da' mi, invesse, la se ga fato la permanente. La permanente! Siché, l'arsi­prete de Piove ghe ga dà i schei a 'na tosa, parché la se fassa la permanente!

Voaltri savìo cossa che xe la permanente? Ve lo spiego mi. La xe la roba che le mare ga inventà par mari dare le tose».

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La predica in farmacia

Muore il farmacista Comin, uno di quelli che allora si dicevano "pezzi grossi del centro". Il funerale é di prima classe. Sono pre­senti i cappati, i chierichetti, i bambini dell'asilo, i cinque "penel­li". In Duomo è preparato il catafalco a tre ripiani con il grande tappeto nero, fregiato ai bordi da quattro teschi biancastri. Per mo­tivi di praticità, la camera ardente è stata allestita in farmacia, tra il bancone e le vetrine su cui s'affaciavano i bellissimi vasi di cera­mica con sovrascritti gli antichi nomi latini dei vari unguenti.

Arriviamo quando il pubblico è già folto. Vi sono tutti i perso­naggi importanti della Piove che conta. Tra gli altri, il primario dotto Lupo Zanetti Colleoni.

L'arciprete ha una cotta lunga e la sua solita stola violacea; io tengo in mano il secchiello dell'acqua santa. Si fa improvvisamen­te silenzio.

L'arciprete entra in farmacia per primo, guarda la salma a lun­go. Si tratta di attimi, ma paiono secoli dilatati oltre il tempo. Poi gira lo sguardo sulle scansie con i medicinali: boccette, ampolle, fiale, confezioni colorate gli scorrono davanti agli occhi diventati improvvisamente curiosi. Infine, squadra ad uno ad uno i medici dell'ospedale presenti: li conosce tutti per nome e cognome e per tante altre cose.

Ancora silenzio. Poi, quasi ad accentuare la predica sulla mor­te che sta facendo (per chi vuole capire!), butta l'acqua santa sulla salma e attacca: «Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit?» Signore, se t'impunti a tener conto delle nostre catti­verie, chi potrà salvarsi?

Usciamo dalla farmacia per dare il via alla processione funebre e colgo questo commento: «Ce n'è per tutti, stamattina!»

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La predica in farmacia

Muore il farmacista Comin, uno di quelli che allora si dicevano "pezzi grossi del centro". Il funerale é di prima classe. Sono pre­senti i cappati, i chierichetti, i bambini dell'asilo, i cinque "penel­li". In Duomo è preparato il catafalco a tre ripiani con il grande tappeto nero, fregiato ai bordi da quattro teschi biancastri. Per mo­tivi di praticità, la camera ardente è stata allestita in farmacia, tra il bancone e le vetrine su cui s'affaciavano i bellissimi vasi di cera­mica con sovrascritti gli antichi nomi latini dei vari unguenti.

Arriviamo quando il pubblico è già folto. Vi sono tutti i perso­naggi importanti della Piove che conta. Tra gli altri, il primario dotto Lupo Zanetti Colleoni.

L'arciprete ha una cotta lunga e la sua solita stola violacea; io tengo in mano il secchiello dell'acqua santa. Si fa improvvisamen­te silenzio.

L'arciprete entra in farmacia per primo, guarda la salma a lun­go. Si tratta di attimi, ma paiono secoli dilatati oltre il tempo. Poi gira lo sguardo sulle scansie con i medicinali: boccette, ampolle, fiale, confezioni colorate gli scorrono davanti agli occhi diventati improvvisamente curiosi. Infine, squadra ad uno ad uno i medici dell'ospedale presenti: li conosce tutti per nome e cognome e per tante altre cose.

Ancora silenzio. Poi, quasi ad accentuare la predica sulla mor­te che sta facendo (per chi vuole capire!), butta l'acqua santa sulla salma e attacca: «Si iniquitates observaveris, Domine, Domine, quis sustinebit'!» Signore, se t'impunti a tener conto delle nostre catti­verie, chi potrà salvarsi?

Usciamo dalla farmacia per dare il via alla processione funebre e colgo questo commento: «Ce n'è per tutti, stamattina!»

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Il maresciallo in canonica

Manda a chiamare il marescialo dei carabinieri. La caserma è al di là della piazza, sotto il portico di via Carrarese. L'interessato sa che all'abate si deve dire di sì anche se non è il suo superiore.

Va in canonica in divisa, accompagnato dall'appuntato. Dopo i convenevoli, don Pio lo fa passare in ufficio. «El scusa, mare­scialo, sensa che perdemo tempo tuti do, vegno al quia. Go sentio che a ... i ga piantà la pista da baIo; salo gnente lu?»

Questi, che ha altri problemi di ordine pubblico per la testa, quasi sorpreso risponde: «No, monsignore, non so niente, non mi consta».

Ribatte implacabile l'arciprete, questa volta in italiano spiccato a tutto tondo: «Se non le consta, sa cosa le dico? Faccia a meno di fare il maresciallo».

Un attimo di silenzio, i due si guardano negli occhi e si capisco­no al volo.

Qualche ora dopo, della pista da ballo non c'era più traccia.

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L'instancabile Giuditta

La Giuditta Marin era la domestica di cui poteva fidarsi ad oc­chi chiusi. Quando arrivava un ospite di riguardo, don Pio la chia­mava dall'ufficio con questo intercalare: «Giuditta, porta, la por­ta». Cioé: prepara il caffé per me e per la persona qui presente e poi chiudi la porta.

Nessuno ha mai saputo a quanto ammontasse la retribuzione mensile (non diciamo lo stipendio) che essa riceveva per un lavoro che non aveva né misura né soste. Ma tutti ricordano che l'arcipre­te era puntualissimo a pagarla alla fine del mese, aggiungendovi un po' di mancia: «Tien. Se te fe ben te tegno, se no, te ve via».

Dopo cena, don Pio passava nel salotto rosso, a ricevere qual­che persona, leggeva libri, la rivista Civiltà cattolica. Intanto la Giu­ditta, piena di sonno, s'appisolava davanti al focolare.

Di lei, don Pio era solito raccontare: «Quando so rivà a Piove non gavevo nessuno per la canonica. Me ocoreva 'na persona per le facende e i me ga mandà sta doneta. Ghe go dito: senti, te ste qua 15 giorni in prova. Passà questi, se no te me comodi, te lo di­go; se no te comodo, te me lo disi».

I quindici giorni durarono una vita. L'abate le era, a suo mo­do, affezionato, e ne apprezzava il lavoro anche se sembrava non rendersi conto di quanto essa lo temesse.

Un giorno si faceva bisboccia in canonica tra i giovani del Cir­colo cattolico. Uno dei ritardatari si presenta all'arciprete con un dolce appena sfornato dalla pasticceria. «È permesso? È permes­so?» dice, facendo il gesto di consegnarlo all'arciprete. E questi, tra il serio e il faceto: «No, bèo, la persona la xe là». Si trattava appunto della Giuditta.

Il giovanotto incalza: «Ma non è lei il padrone di casa?». Don Pio Stievano scoppia a riòere, «Paron mi? Ah no. Noaltri do 'nde­mo d'accordo parchè ea la fa un terso, un quarto de quelo che ghe digo mi. Allora 'ndemo sempre d'acordo».

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Vecchio sÌ, ma non stupido

Esigeva che i cappellani fossero in chiesa all'ora della messa pri­ma. In pratica alle sei.

La vecchia scuola francese di spiritualità, alla quale era stato educato in seminario, suggeriva, tra l'altro, che all'alba si facesse meditazione e si recitasse la prima parte del breviario. La giornata del prete, se non comincia con le "pratiche di pietà" non ha senso, non dà soddisfazione.

Don Antonio Gusella, a questo proposito, era solito raccontare che un cappellano (forse don Cesaro o don Bordin), deciso di pro­lungare il sonno di una mezz'ora, ricorse all'espediente di mettere sul banco antistante il proprio confessionale il berretto ed il brevia­rio . Voleva far credere all'arciprete che al di là della tenda e della grata c'era anche la persona.

Ma l'abate se ne accorse subito e, una mattina, dopo messa, quando tutti i collaboratori erano raccolti in sacrestia per gli ordini della giornata, soffiò più volte e, stringendo fra le dita il grosso bre­viario, brontolò: «So vecio, ma non ancora imbessile».

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Vorrei sposarmi alle Grazie

«Monsignore, vorrei sposarmi». «Quando?» «Sono qui per decidere con lei la data e il luogo». Il richiedente è Primo Crivellari. Siamo nel maggio del 1938.

Don Pio alza gli occhi sopra le tante carte che ha sul tavolo da stu­dio, squadra il giovane parrocchiano e gli dice: «Per la data faccia­mo presto: Il prossimo 25 agosto, dieci giorni dopo l'Assunta, die­ci giorni prima della sagra di Legnaro. Per il luogo: il solito di tutti gli altri: l'altare dell' Addolorata, in Duomo. Mi raccomando: pun­tualità. Confessarte, tì e éa».

Il Crivellari osserva: «Ma io vorrei sposarmi al santuario dellé Grazie. Sa, monsignore, sono mesi che "da morosi" facciamo quat­tro passi, ogni domenica, fin là».

L'arciprete si alza in piedi con un tono che non ammette ribat­tute: «No, go dito de no. Parchè là ghe xe n'altra parochia».

Il Crivellari insiste: «Monsignor, ma le Grazie non sono una par­rocchia; e poi, don Andrea Baraldi non ha difficoltà a sposarci». Don Pio conclude: «Te te sposi in Domo; e ricordate che, par 'na roba importante, come el matrimonio, no se va in casa de altri».

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Sono maniere, queste?

La osserva da due domeniche. La signora entrava a messa ini­ziata, si metteva nell'ultimo banco della navata centrale. Nulla di strano, se non fosse stato per quelle braccia scoperte che strideva­no con il loro biancore tra tante giacche grigie e tailleurs seriosi.

Don Pio, alla terza domenica, scende dal presbiterio, infila il corridoio tra gli scranni della navata sinistra, aggira la signora alle spalle e la spinge alla porta d'uscita davanti all'altare di sant' Anto­nio. La gente guarda, bisbiglia sottovoce: «Sono maniere, queste?».

Lui, impassibile, ritorna alla balaustra dell'altar maggiore e, sen­za preamboli e conclusioni, dice forte: «La go fata e son contento d'averla fata».

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Aveva l'occhio clinico

Un pomeriggio ,C<.lpit? a Piove il vescovo Agostini. Chierici, se­minaristi, sacerdoti, chierichetti si fanno attorno. Don Pio gli sta sulla destra e gli presenta i suoi diretti collaboratori.

Aveva letto sul Bollettino diocesano, qualche settimana prima, un articolo sulla scelta delle vocazioni, che non gli era andato giù. Vi si diceva, tra l'altro, che per individuare le vocazioni al sacerdo­zio bisogna avere "l'occhio clinico".

L'aggettivo non gli era piaciuto perchè lo sentiva quasi un rim­provero, proprio lui che aveva ogni giorno d'estate il coro pieno di allievi del seminario. «Qui, ecelensa - dice con aria inconsueta­mente sbarazzina -lu ch'el ga l'occhio clinico ... , quanti di questi (e indica i chierichetti) va preti? Lu ch'el ga l'occhio clinico, el me d· I 19a. ».

Il vescovo non se l'aspettava una domanda del genere, tanto­meno davanti ad un simile pubblico e sviò il discorso dicendo: «Mon­signore! Qui a Piove c'è qualche altro che ha l'occhio clinico».

Il riferimento all'abate era evidente.

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I capelli a spazzola

Don Lelio Bordin portava i capelli abbastanza corti e tirati su a spazzola. In mezzo, la solita riga che teneva registrata con un pic­colo pettine tascabile. Si accorge (era a Piove ormai da due mesi) che l'arciprete, quando lo incontra, schizza le labbra in fuori, co­me fosse preso da un soprassalto di disgusto.

Dice a don Giulio Rettore: «Ho impressione che don Pio abbia qualcosa da dirmi e se ne faccia un certo riguardo».

«Non aver paura - gli risponde il Rettore - quello, non man­da a dire ciò che pensa per interposta persona: vedrai». Infatti, qual­che giorno dopo, don Pio blocca don Lelio sulla porta della sacre­stia: «Cossa xela sta righetta che te tien in testa?» Preso alla sprov­vista, il cappellano diventa rosso come il fuoco e gli dice fra il ver­gognoso e l'incerto: «La discriminatura, monsignorI ».

L'abate, tutto giulivo, come se avesse scoperto per la prima volta la luna: «Ah, la discriminatura, la discriminatura. Dimela 'n'altra volta sta parola! La discriminatura! Adesso che so cossa che la xe, a son contento».

Poi, cambiando improvvisamente tono, gli punta l'indice de­stro: «E ti, con la to discriminatura, te vè dove che te voi, e mi bi­sogna che tasa. Ah sì, bisogna che tasa. Anca parchè a Piove no ghe xe barbieri!».

Prima di sera il Bordin si fece radere i capelli come un monaco nOVIZIO.

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Per un'assoluzione rifiutata

«No so come - racconta don Bordin - è accaduto anche a me. Ero andato a confessare fuori parrocchia ed avevo rifiutato l'asso­luzione ad un persona. Di ritorno, prima mi prende un certo scru­polo, poi un rimorso così grande, che ritengo di doverne parlare all'arciprete subito. Monsignor, gli dico, ho rifiutato l'assoluzione ad un penitente.

«Questi finge di non sentire e sposta intanto alcune carte sulla scrivania davanti alla quale è seduto. Poi mette una mano in tasca, fruga a lungo e tira fuori il vecchio portafoglio. Ciapa - mi dice, consegnandomi una colombina (cinque lire di allora) - tote el tran e va' a confessarte da Padre Leopoldo».

La mattina seguente dopo la messa don Lelio affida a don Ret­tore i ragazzi della prima ginnasio ai quali fa scuola e va a Padova.

«A S. Croce mi metto in fila - ricorda - davanti al confessio­nale di Padre Leopoldo. Quando è il mio turno entro nello sgabuz­zino, che mi parve allora semibuio e, inginocchiandomi, faccio pre­sente al padre che ho un grosso problema da sottoporgli. Mi chie­de: dov'é cappellano lei? Saputo che ero a Piove, mi batte sulla spal­la: Ha un grande arciprete ... , e non aggiunge altro, lasciandomi in­tendere che bastava il parere di don Pio a mettermi tranquillo.

«Allora chiedo, dato che sono là, che mi dia l'assoluzione. Sì, sì, ho capito tutto - mi risponde - vada. Si alza e mi accompa­gna alla porta e aggiunge: Se è venuto qui, vuoI dire che è dispia­ciuto di ciò che ha fatto; l'elemento principale della confessione è il pentimento».

Di ritorno a Piove corre in canonica a riferire a don Pio l'esito dell'incontro padovano. Risposta: «Mi no vojo saver gnente. Gnanca quel o ch'el te ga dito. Ma mi xe trent'anni che confesso, e no go mai rifiutà l'assolussion a nessun. Gheto capìo? A nessun, mai».

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La pattuglia dei timidi

Avevamo deciso _ . racconta il professore mons. Ireneo Danie­le - che per il nuovo anno scolastico si sarebbe dato avvio in semi­nario al gruppo "Amici delle missioni". C'era bisogno di denaro e per raccogliere qualcosa pensammo di organizzare in parrocchia a Piove una pesca di beneficenza. Naturalmente occorreva il per­messo dell'arciprete. Chi glielo avrebbe chiesto?

Ci accordammo di andare in canonica tutti insieme: il sottoscrit­to, Sante Miotto, Tarcisio Masiero, Zelindo Marigo, Giovanni Fa­varato, Giuseppe Zatta. Avrebbe preso la parola il Miotto, il quale però, trovatosi di fronte a don Pio, fu preso da una paura tale che non riuscì a sbucciare una frase intera. Lo soccorse il Masiero che, alla meno peggio, illustrò il motivo della loro presenza: «Monsi­gnore, vorremmo che lei ci permettesse di fare la pesca per il costi­tuendo gruppo degli amici delle missioni». L'arciprete ascolta. «No, no - dice - non ve lo concedo, ve lo comando».

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Una scampagnata amara

Don Antonio Gusella è stato uno dei sacerdoti piovesi che più di una volta ha ricevuto caustici richiami da mons. Stievano. Era un prete intelligente, di ricca cultura umanistica. Pur fedele ai suoi doveri sacerdotali, usava spesso modi sbrigativi nelle celebrazioni liturgiche.

All'arciprete non garbava molto che i cappellani, soprattutto quelli appena arrivati a Piove, lo frequentassero. «Un pomeriggio - racconta mons. Antonio Schiavo - uscii a fare una scampagnata in bicicletta con Narcisio Briani, il dottor Giovanni Buia e, appun­to, don Gusella. Andammo ad Arzergrande per via Puniga, così, senza fretta e senza discorsi programmati.

«Il Gusella ci parlò dell'etruscologo Minto e del poeta Diego Valeri. Non conosceva di persona il primo, ma del secondo aveva letto "Annunciazione", la poesia che stavo insegnando ai ragazzi della seconda ginnasiale delle famose scolette di Corte Milone. Gli dissi che al Valer i mancava il coraggio di professarsi cristiano. Lui mi ribatté che la poesia è già dentro nella fede.

«Di ritorno - era un pomeriggio di giugno - ci fermammo a guardare all'altezza di San Rocco uno stormo di rondini che vola­va a triangolo: "Vedi - mi disse il Gusella - anche quelle senza andare in chiesa, cantano la gloria del Signore". Più tardi sentii suonare il campanello di casa. Era la Giuditta: "Don Antonio, l'ar­ciprete la vuole in canonica". La mia casa sorgeva sulla stessa Cor­te Milone a dieci passi da quella abbaziale. Appena metto piede den­tro: "Vien qua - mi sento dire, e la voce arriva non so da quale stanza - ti te credi de convertire lu', ma lu' te converte ti. Gheto capio?"

«Nella mia ingenuità - prosegue nel suo ricordo lo Schiavo -andai poi a raccontare la cosa a don Gusella il quale, in un primo tempo s'inquietò, poi: "lascia perdere - mi disse - don Pio è dap­pertutto come Dio. Non ce l'ha con me, ma con la poesia».

Ma l'interpretazione non era esatta. Il Gusella celebrava la messa

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ultima nei giorni feriali e, spesso, anche di domenica. Poteva quin­di allungare il sonno al mattino. I cappellani invece dovevano esse­re puntuali alla messa dell'alba per fare meditazione o confessare.

Un giorno lo Schiavo arrivò in ritardo e don Pio lo affrontò in sacrestia dicendogli: «Sti nobili veneziani che se alsa tardi a la matina parchè i va in leto tardi a la sera! ». L'allusione era al Gu­sella, che notoriamente non aveva mai ore alla sera.

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Un'ernia antica

Non aveva molta simpatia per i medici o, meglio per farsi cura­re da loro. Eppure, da Maffei a Lorenzoni a Zanetti, non ce n'era uno che non avesse cara la sua amicizia. Commovente, addirittu­ra, era la reciproca stima e deferenza tra lo Stievano e lo Zanetti.

Quest'ultimo aveva nome Lupo e lo era anche per certi atteg­giamenti "mastini", specialmente quand'era impegnato in interventi chirurgici ad alto rischio. Era decorato di medaglia d'argento al va­lore militare e sociale per avere prestato la sua opera di chirurgo nella prima guerra mondiale a ridosso della prima linea. Alcuni vec­chi militari piovesi ricordavano di averlo visto «tagliare, squarta­re, cucire» sotto una tenda da campo allume di candela. Duro, a volte violento, ma con un cuore grande così.

Si trovava a suo agio con l'abate, forse perché ambedue lea­li fino in fondo. L'amicizia tra i due nacque da una "visita" che lo Stievano dovette subire. Aveva da sempre un'ernia che via via andava ingrossando. Zanetti palpò, esaminò e ... sbottò: «Ma non l'è mai venuto in mente di togliersi, una volta per tutte, questo fa­stidio? Adesso mi costringe ad un intervento complicato».

E lui, tra l'indifferente ed il preoccupato, risponde in dialetto: «Sì, professore, ghe gavevo pensà tante volte. Ansi, ghe conto 'na storia. El suo predecessore prof. Maffei, 'na volta el gaveva dito:« se lei viene qui una mattina, a digiuno dal giorno prima, noi la por­tiamo in sala operatoria, la mettiamo sul lettino, le diamo un gior­nale da leggere e, finché lei legge il giornale, io le opero l'ernia. Andrà tutto bene».

«E perché lei non l'ha fatto?» - chiede lo Zanetti. Risposta: «Parchè non so sta bon de trovare el giornae che me comodava».

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Un'involontaria profezia

Nell'estate del '38 furono organizzate alcune manifestazioni per ricordare i 50 anni della sua ordinazione sacerdotale. «Lascia per­dere - aveva detto a don Giulio Rettore - lo so che me volì ben, ma me bastaria che pregassi par la me anema».

Invece fu fatto per tre giorni "campanò" e sul presbiterio del­l'altare maggiore comparve il trono con il baldacchino per il ponti­ficale. Mons. Pio accettò di buon grado la festa che si concluse con un simpaticissimo banchetto presso l'asilo delle suore. La superio­ra suor Angiolina Previtali volle servire personalmente l'illustre e venerando ospite.

Com'era consuetudine, a metà pranzo si alzò a parlare don An­tonio Gusella, il poeta dalla vena facile e dalla parola ridondante. Prima di lui, don Giulio aveva dato lettura di alcuni telegrammi, tra i quali quello del vescovo di Padova Agostini e dell'arcivescovo di Firenze Dalla Costa. L'arciprete di soppiatto allungò la mano, senza che il Rettore se ne accorgesse e prese una lettera che portava sul frontespizio la scritta "Seminario minore di Thiene".

Più tardi chiamerà in canonica i piccoli seminaristi per dire lo­ro: «El vostro pensiero me ga piasso tanto, anca parché go visto che si boni scrivere. Grassie de le vostre preghiere. El Signore ve benedissa» .

Gusella tira fuori un grosso rotolo e lo svolge. È la pergamena da lui scritta e fatta stampare per la circostanza. In piazza già la conoscono, perché le varie copie listate di rosso e oro sono state esposte nelle principali vetrine da giorni.

Il testo è splendido; forse la meglio riuscita di tutte le composi­zioni del poeta domestico. Incomincia così: «A mons. dotto Pio Stie­vano - abate mirato - che - nel luglio odorante di messi mietute - celebra - vestito sol di modestia -le fauste nozze d'oro sacer­dotali - Piove di Sacco - aderge -l'ala del pensiero - e l'onda dell'affetto» . Nella dedica il Gusella vi aveva inserito una serie di elogi al festeggiato, senza, questa volta, strafare.

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Don Pio ne ascolta attentamente la lettura e ad ogni passaggio letterario scuote la testa. Ma non è ancora terminato l'applauso al­l'oratore, che si alza e, dopo un lungo gesticolare con le mani, co­me per dire: avete sentito bene?, commenta sarcasticamente: « ... e a sa da cassa da morto, e a sa da cassa da morto».

E fu profeta, forse involontario. L'anno seguente, nello stesso mese, si mise a letto e non si alzò più.

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I suoi ultimi giorni

Esiste un diario dei suoi ultimi giorni. Ne è autore don Gaetano Forin, allora seminarista. Una ventina di paginette svelte, che col­gono le espressioni e i momenti più significativi della fede di don Pio di fronte alla morte.

L'illustre infermo si era messo definitivamente a letto il 29 lu­glio 1939. «Mi raccomando a voi due - disse rivolgendosi al prof. Zanetti e a don Giulio Rettore - non nascondetemi nulla». Era sempre sereno anche se consapevole della gravità della sua situa­zione. Quando chiede il Viatico raccomanda: «Venite cantando sol­tanto il Miserere».

Nelle ore in cui il male gli dà tregua, trova il suo buon umore e a don Rettore che gli amministra l'unzione degli infermi bisbi­glia: «Mi raccomando non mettetemi in cassa vivo». Alla nipote suora che gli suggerisce le litanie del Sacro Cuore: «No, cara, lassa che le diga mi».

Alternava il dialetto all'italiano a seconda delle persone che gli facevano visita. Al vescovo Agostini che gli impartisce la benedi­zione e lo informa che molte persone in diocesi stavano pregando per l'arciprete di Piove, stringe e bacia la mano piangendo: «Quale grazia, quale grazia!».

Attraverso la porta della sua stanza che dà sul corridoio vede una fila di persone inginocchiate. Le guarda a lungo e poi dice: «Go caro che si vegnù a vedare come che more el vostro arsiprete».

Il giorno dopo la visita del vescovo giunge in canonica una tele­fonata della Curia di Padova: «Qui, il vicario generale. Senta, ver­so sera arrivo con un treno a Piove e faccio una visita a monsigno­re». È una delle nipoti dell'abate a ricevere la comunicazione. Pe­rò, dato lo stato di prostrazione in cui lo zio si trova, è indecisa se avvertirlo o no. Va in stanza, lo guarda un po': è disfatto e im­presentabile a qualsiasi visitatore, figuriamoci al vicario generale.

Si fa coraggio: «Zio - gli dice - siccome stasera verranno per­sone importanti, c'è in corridoio il barbiere. Se vuoi, in un minuto

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ti mette a posto. Lui, Adamo, lo sai, fa presto». Don Pio, mezzo assopito, tra i dolori e le preghiere, risponde: «On minuto! Dighe al barbiere che so drio morire, e che no go tempo».

Una settimana prima di chiudere gli occhi per sempre, fu preso dagli scrupoli. Mandò a chiamare Toni Palleva e Riccardo Bada, i suoi due autisti di piazza. Da qualche anno non andava più a Pa­dova in treno e si serviva ora dell'uno, ora dell'altro. Non pagava subito il servizio, perché non aveva soldi, ma a tempo opportuno saldava i debiti. Quando se li vede vicini alletto: «Tosi - dice -vanséo calcossa da mi?».

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Lo scapolare nuovo

L'amore alla Madonna lo accompagnò fino all'ultimo giorno. «Un pomeriggio - racconta don Lelio Bordin - vado su in stan­

za a salutarlo. È seduto sui gomiti e sembra aver trovato finalmen­te un po' di pace. Mi dice: vojo domandar te se te ghe un abitin de la Madona dei Carmini».

Don Lelio, essendo cappellano della "cura" di San Rocco, era anche l'assistente ecclesiastico della confraternita, allora fiorentis­sima, dei devoti della Madonna, onorata col titolo del Carmelo. Risponde: «Sì, monsignor». «Va tòrmene uno, benedissemelo, po' te me lo porti».

Quando il Bordin gli consegna lo scapolare nuovo don Pio si commuove e, prendendolo in mano bisbiglia: «Parché, andare da­vanti a la Madona con on abitin vecio ... no ... no ... ».

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Povero e generoso

Quando morì, gli trovarono nelle tasche della veste venti cente­simi. Don Giulio Rettore, suo esecutore testamentario, commentò: «Non sono mai riuscito a capire come facesse lui, così povero, ad essere tanto generoso con tutti i poveri».

C'e un piccolo particolare che ci aiuta a capire ancor meglio il cuore che egli aveva. Faceva "carità" anche in chiesa; cioé quando i campanari passavano a raccogliere le offerte, metteva la sua ele­mosina nelle loro "buste". Un giorno Gigio, il campanaro, si per­mise di esprimere il suo disappunto: «Monsignor, noI par bon!» don Pio lo guardò incuriosito: «No paro bon? E invesse mi son con­vinto che i preti, scomissiando da mi, ga da dare bon esempio. I schei no xe nostri, xe dei poareti».

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CENNI BIOGRAFICI DEI SACERDOTI CITATI

Stievano mons. dotto Pio

Nato a Roncaiette nel 1866, ordinato nel 1888, fu insegnante di let­tere nel collegio vescovile di Thiene. Dal 1895 docente di teologia morale nel Seminario maggiore di Padova. Dal 1908 arciprete aba­te mitrato e vicario foraneo di Piove di Sacco. Era laureato in let­tere, filosofia e sacra teologia. Esaminatore prosinodale e parroco consultore. Morì a Piove il 29 agosto 1939.

Agostini mons. dotto Carlo.

Nato a S. Martino di Lupari il 22 aprile 1888, ordinato sacerdote a San Donà di Piave il 24 novembre 1910, rettore del Seminario di Treviso nel 1925, è eletto vescovo di Padova il 30 gennaio 1932. L'8 febbraio 1949 è Patriarca di Venezia. Tre anni e mezzo dopo si ammala; gli giunge la nomina a cardinale sul letto di morte. Muore a Venezia il 28 dicembre 1952.

Baraldi don Andrea

Nato a Piove 1'8 maggio 1871, ordinato nel 1897. Cooperatore a S. Croce in Padova, parroco a Saccolongo dal 1902 al 1933. Predi­catore efficace, dettò in moltissime parrocchie della diocesi corsi di missioni e di esercizi. Nel '33 passa a Piove come Rettore del San­tuario della Madonna delle Grazie. Nel' 45 è nominato cappellano delle suore della casa di Ricovero. Muore il 21 novembre 1948.

Bordin don Lelio

Nato a Cogollo del Cengio 1'11 novembre 1906, ordinato sacerdo­re il 3 luglio 1932. Fu vicario cooperatore nelle parrocchie di Mon­tegrotto Terme, Monselice, Solesino, Piove di Sacco e di Zugliano. Dal 1941 presta la sua opera di cappellano militare fino al 1971, quando si ritira a vita privata. Muore a Cogollo il 3 marzo 1987.

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Cesaro don Narciso

Nato a Ronchi di Casalserugo il6 aprile 1900, fu ordinato sacerdo­te il 20 luglio 1924. È cooperatore a Monselice, Ospedaletto, Piove

di Sacco. Curato a Schiavonia, nel '37 è parroco di San Nazario e nel 1947 a San'Angelo di Sala. Nel 1970 rinuncia alla parrocchia ed ha la nomina di cappellano del Noviziato delle suore salesie (Col­mirano di Campo di Alano). Muore il 23 Maggio 1975.

Codemo mons. Bartolomeo

Nato ad Alano di Piave il 2 Giugno 1884. Ordinato sacerdote 1'8 giugno 1908. Cooperatore a Rotzo, nel 1913 è nominato arciprete

e vicario foraneo di Enego e nel 1925 arciprete di Torre. Nel 1932 ha la nomina di prevosto di Rovigno (diocesi di Parenzo e Pola),

dove nel '39 diventa canonico teologo della cattedrale, cancelliere di curia, delegato vescovile dell' Azione Cattolica e insegnante in Se­minario. Nel 1958 è direttore spirituale presso l'istituto Fatebene­fratelli di Romano d'Ezzelino. Nel '62 ha la nomina di assistente

spirituale alla Casa di Esercizi spirituali Villa Immacolata di Tor­reglia. Muore il 23 marzo 1979.

Dalla Costa card. Elia

Nato a Villaverla nel 1872, ordinato sacerdote a Schio nel 1895, in­segnante in Seminario a Vicenza dopo essersi laureato in lettere al­

l'università di Padova. Parroco a Pozzoleone e quindi arciprete di Schio. Consacrato vescovo nel duomo di Schio il 12 agosto 1923, fece il suo ingresso a Padova il 7 ottobre 1923 (festa del Rosario e di S. Giustina). Nel 1932 viene eletto arcivescovo di Firenze e il

13 marzo del '33 è creato cardinale. Partecipa a due conclavi (1939 elezione di Pio XII: 1958 elezione di Giovanni XXIII). Muore a Fi­

renze il 22 dicembre 1961.

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Dalla Zanna don Primo

Nato a Sant'Eulalia di Borso del Grappa ilIO giugno 1882: ordina­to sacerdote nel 1906, fu successivamente cooperatore a Piove di Sacco, Teolo, Semonzo, Fellette e infine a Borgoricco S. Leonar­do, dove morì il 5 febbraio 1947 .

Dalla Zanna don Secondo

Nato a Sant'Eulalia nel 1882, e gemello di don Primo. Ordinato sacerdote nel 1906 fu cooperatore a S. Giustina in Padova e a Pio­ve di Sacco dal 1908 al 1910, anno in cui viene nominato insegnan­te presso il Collegio vescovile di Thiene. Dal 1915 al '19 è cappellano militare. Nel 1919 passa ad insegnare nel Collegio Barbarigo, nel '20 è nuovamente a Thiene e dal '21 al '37 insegna lettere nel Semi­nario Minore (Thiene). Dal 1937 è parroco a Borgoricco S. Leo­nardo, dove muore il 23 dicembre 1961.

Ferraro don Alessio

Nato ad Este il 15 maggio 1898, riceve la consacrazione sacerdota­le il 20 luglio 1924. È successivamente cooperatore ad Albignase­go, Marsango, Piove di Sacco, Veggiano. Tre anni dopo si ritira a vita privata a S. Marco di Camposampiero. Muore ad Este il lO febbraio 1969.

Guolo don Gelindo

Nato a Correzzola nel 1896, fu ordinato sacerdote nel 1922. Coo­peratore a San Daniele in Padova, Enego e Piove di Sacco. Dopo essere stato per alcuni mesi vicario economo di Fossaragna, nel 1935 divenne arciprete di Cona e nel 1952 di Rivale di Pianiga. Nel 1962 si ritira a vita privata a Correzzola. Muore all'ospedale di Padova il 1 luglio 1963.

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Gusella don Antonio

Nato a Piove di Sacco nel 1876, cooperatore a Candiana, Rossano, S. Maria delle Grazie in Este, Anguillara, Carrara S. Giorgio, Stan­ghella, Solagna. Nel 1918 si ritira a vita privata a Piove dove muo­re il 28 luglio 1964.

Martinati mons. Aldo

Nato a Colà di Lazise il 13 marzo 1885, fu ordinato sacerdote il 21 settembre 1907. Cappellano in Seminario e prefetto, nel 1908 ricevette l'incarico di maestro di camera del vescovo Luigi Pellizzo e successivamente di cooperatore ad Arzerello e poi di coadiutore a Piove di Sacco. Nel 1914 fu nominato arciprete di Selvazzano, dove rimase fino al 1929. Nel '32 diventa assistente diocesano delle associazioni cattoliche femminili. Nel 1946 ha il titolo di canonico onorario della Cattedrale e nel 1950 è nominato delegato vescovile per la casa Mater boni consilii. Muore a Padova il 30 agosto 1979.

Masiero don Tarcisio

Nato a Piove di Sacco nel 1906, ordinato sacerdote nel 1931, fu per due anni vicario coadiutore presso la parrocchia dell'Immacolata in Padova, un anno cooperatore a Lugo Vicentino. Nominato cap­pellano militare, prestò servizio durante la guerra etiopica presso diversi ospedali da campo. Morì ad Asmara il 23 giugno 1937.

Miotto mons. Sante

Nato a Piove di Sacco 1'8 novembre 1904, ricevette l'ordinazione sacerdotale il15 luglio 1928. Cooperatore ad Asiago per 5 anni, nel '33 è nominato dal vescovo Agostini parroco di S. Caterina di Lu­siana. Nel '36 diventa arciprete di Castelbaldo. Dal 1954 fino al 1971 regge la parrocchia di Rossano Veneto. Si ritira quindi a Piove di Sacco, dove svolge l'ufficio di penitenziere in Duomo. Muore il 7 gennaio 1984

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Pipinato don Luigi

Nato a Pontelongo nel 1877, ordinato sacerdote nel 1907, fu sem­pre a Piove di Sacco quale sacri sta e coadiutore. Muore il 24 otto­bre 1931.

Rettore don Giulio

Nato a S Michele delle Badesse nel 1901, ordinato sacerdote il 18 luglio 1926, è cooperatore ad Arquà Petrarca e quindi a Piove di Sacco. Fu il cappellano più amato da mons. Pio Stievano per le sue doti di equilibrio e di intraprendenza amministrativa. Nel 1940 è arciprete di Vigodarzare e vicario foraneo. Muore a Padova il 25 novembre 1970.

Rullati mons. Riccardo

Nato a Casalserugo nel 1879. Ordinato nel 1903, fu cooperatore per 7 anni ad Alano di Piave. Da qui venne chiamato in centro­diocesi, dapprima come collaboratore e poi come responsabile del­la stampa cattolica. Diresse «La libertà» e «La Difesa del Popo­lo», Nel 1922 è nominato canonico onorario della Cattedrale. Nel 1925 è presidente della giunta diocesana dell' Azione cattolica. Nel 1935 è canonico residenziale. Muore a Padova il 7 giugno 1940.

Schiavo mons. Antonio

Nato a Montagnana l' 11 agosto 1904, ordinato sacerdote il 24 lu­glio 1927. Fu cooperatore a Montagnana e a S. Giustina in Colle. Nel '36-'37 è cappellano a Piove di Sacco della curazia di S. Nico­lò. S'interessa dell' Azione cattolica giovanile e insegna lettere presso la "scoletta" ginnasiale di Corte Milone. Nel '38 è parroco a Pol­verara, dove rimane per otto anni, dopo i quali assume la respon­sabilità della comunità di Casale Scodosia. Nel 1977 lascia la pa­rocchia ed è insignito del titolo di Canonico residenziale della Cat­tedrale di Padova. Muore il 25 agosto 1983.

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Tonon don Annibale

Nato a Piove di Sacco nel 1871. Ordinato sacerdote nel 1907, fu cooperatore e curato in molte parrocchie della diocesi. Ha lasciato · un profondo ricordo della sua carità e generosità a Rubbio, dove fu curato negli anni del dopoguerra ('19-'20). Nel '36 si ritira in famiglia a Piove, dove muore il 25 novembre 1939.

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INDICE

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Presentazione (Paolo Tieto)

Prefazione (Alfredo Contran)

Il terribile scioglilingua

Una pedata, una lettera, una vocazione

La strada pareva lunga

Una grazia su ordinazione

I due fratelli cappellani

Una lettera sofferta

Spumante e dolce ogni giorno

Una predica fuori tono

Il congresso dei "moccoli"

AI demonio ci credeva

Dopo la visita pastorale

Lui, lei e l'altro

La radio in prestito

Una memoria formidabile

Qualcuno andò in Curia

AI cimitero sotto la pioggia

Chi ha perduto le chiavi di casa?

La festa oltre le barene

La puntualità è una virtù

Rimprovero e penitenza

Quella notte in Corte Milone

] famosi preti del chinino

I soldi per la permanente

La predica in farmacia

pago 5

pago 7

pago 13

pago 15

pago 18

pag.20

pago 21

pag.23

pago 25

pag.26

pago 28

pago 29

pago 31

pago 33

pago 35

pago 37

pago 39

pag.42

pago 43

pago 45

pag.47

pag.49

pago 51

pago 53

pago 56

pago 57

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Il maresciallo in canonica

L'instancabile Giuditta

Vecchio sì, ma non stupido

Vorrei sposarrni alle Grazie

Sono maniere, queste?

Aveva l'occhio clinico

I capelli a spazzola

Per un'assoluzione rifiutata

La pattuglia dei timidi

Una scampagnata amara

Un'ernia antica

Un'involontaria profezia

I suoi ultimi giorni

Lo scapolare nuovo

Povero e generoso

Cenni biografici dei sacerdoti citati

pago 58

pago 59

pago 60

pago 61

pago 62

pago 63

pago 64

pago 65

pago 66

pago 67

pago 69

pago 70

pago 72

pago 74

pago 75

pago 77

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Finito di stampare nel mese di Novembre 1989

nello stabilimento grafico IT ALGRAF di Noventa Padovana