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l economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità di Gianfranco Bologna ed Enrico Giovannini Siamo in un periodo senza precedenti nella storia dell’umanità. Mai siamo sta- ti così numerosi sulla Terra, mai abbiamo avuto una disparità così elevata tra i pochissimi che possiedono tantissimo e i tantissimi che possiedono pochissi- mo, 1 mai abbiamo stravolto con questa ampiezza e in tempi così rapidi i siste- mi naturali senza i quali non possiamo vivere, mai abbiamo messo a rischio le opzioni evolutive di tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono ora la storia del nostro pianeta, mai abbiamo così profondamente intaccato le basi che ci consentono di vivere, di avere benessere, prosperità e sviluppo. Gli effetti delle attività umane sul nostro pianeta sono oggi ritenuti equivalen- ti a quelli prodotti dalle grandi forze della natura che hanno causato significa- tivi mutamenti nel nostro sistema-Terra nell’arco dei suoi 4,6 miliardi di anni di vita, tanto da far proporre alla comunità scientifica che si occupa di scien- ze del sistema Terra e dei suoi cambiamenti globali, l’indicazione di un nuo- vo periodo geologico, definito Antropocene. 2 Recentemente, autorevoli stu- diosi delle scienze dei cambiamenti globali (Global Changes) hanno elaborato l’equazione dell’Antropocene, che certifica come, allo stato attuale, l’interven- to umano causa complessivamente dei cambiamenti profondi al sistema Ter- ra, superiori a quelli dovuti alle forze di origine astronomica, geofisica e inter- na allo stesso sistema. 3 È opinione condivisa di tanti studiosi che sia giunto il momento di modifica- re le nostre società, i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare, di vivere, di relazionarci con gli altri esseri umani, con gli altri esseri viventi, e con l’inte- ra natura che ci circonda. È necessario e urgente modificare le modalità conso- lidate con le quali gestiamo i nostri sistemi politici ed economici. Questo vo- lume di Kate Raworth, brillante economista della Oxford University, si unisce in maniera originale ai numerosi stimoli provenienti da tanti studiosi dei siste- mi economici, sociali e ambientali.

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l’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilitàdi Gianfranco Bologna ed Enrico Giovannini

Siamo in un periodo senza precedenti nella storia dell’umanità. Mai siamo sta-ti così numerosi sulla Terra, mai abbiamo avuto una disparità così elevata tra i pochissimi che possiedono tantissimo e i tantissimi che possiedono pochissi-mo,1 mai abbiamo stravolto con questa ampiezza e in tempi così rapidi i siste-mi naturali senza i quali non possiamo vivere, mai abbiamo messo a rischio le opzioni evolutive di tutti gli altri esseri viventi che con noi condividono ora la storia del nostro pianeta, mai abbiamo così profondamente intaccato le basi che ci consentono di vivere, di avere benessere, prosperità e sviluppo. Gli effetti delle attività umane sul nostro pianeta sono oggi ritenuti equivalen-ti a quelli prodotti dalle grandi forze della natura che hanno causato significa-tivi mutamenti nel nostro sistema-Terra nell’arco dei suoi 4,6 miliardi di anni di vita, tanto da far proporre alla comunità scientifica che si occupa di scien-ze del sistema Terra e dei suoi cambiamenti globali, l’indicazione di un nuo-vo periodo geologico, definito Antropocene.2 Recentemente, autorevoli stu-diosi delle scienze dei cambiamenti globali (Global Changes) hanno elaborato l’equazione dell’Antropocene, che certifica come, allo stato attuale, l’interven-to umano causa complessivamente dei cambiamenti profondi al sistema Ter-ra, superiori a quelli dovuti alle forze di origine astronomica, geofisica e inter-na allo stesso sistema.3 È opinione condivisa di tanti studiosi che sia giunto il momento di modifica-re le nostre società, i nostri comportamenti, i nostri modi di pensare, di vivere, di relazionarci con gli altri esseri umani, con gli altri esseri viventi, e con l’inte-ra natura che ci circonda. È necessario e urgente modificare le modalità conso-lidate con le quali gestiamo i nostri sistemi politici ed economici. Questo vo-lume di Kate Raworth, brillante economista della Oxford University, si unisce in maniera originale ai numerosi stimoli provenienti da tanti studiosi dei siste-mi economici, sociali e ambientali.

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L’umanità, grazie alle straordinarie capacità della sua evoluzione culturale si è allontanata progressivamente dalla natura, cioè dall’insieme dei sistemi natura-li dai quali deriva e proviene, frutto degli straordinari processi evolutivi del fe-nomeno vita sulla nostra Terra e senza i quali non può sopravvivere. Si è trat-tato di un processo lungo e complesso, fortemente accentuatosi dall’inizio del-la Rivoluzione industriale, intorno al 1750, rispetto al periodo complessivo di circa 200.000-300.000 anni che costituisce il periodo di vita della nostra spe-cie (l’Homo sapiens) sulla Terra. In altri termini, in un arco temporale di un paio di secoli e mezzo la maggioranza dell’umanità è vissuta in una dimensio-ne culturale che ha considerato la natura sempre di più come una fonte ine-sauribile di risorse da utilizzare e come un ricettacolo, ritenuto altrettanto ine-sauribile, capace di metabolizzare rifiuti e scarti. Non solo, ma in questo perio-do l’umanità si è sempre di più urbanizzata, ha attivato sistemi di produzione e consumo molto articolati e ha prodotto straordinari avanzamenti nella tec-nologia, tutti fattori che l’hanno condotta sempre di più in una dimensione fi-sica e culturale di allontanamento dalle dinamiche evolutive dei sistemi natu-rali, dalle quali è dipesa e dipende e con le quali ha convissuto per le decine di migliaia di anni precedenti. Il nostro impatto sulla natura è imponente. Oggi ci stiamo appropriando del 25% della produttività primaria netta (definita Human Appropriation of Net Primary Production, HANPP) cioè dell’energia raggiante solare utilizzata dal-la vegetazione terrestre e trasformata in materia organica, resa disponibile al re-sto della vita sulla Terra. Questa percentuale si ritiene possa raggiungere il 27-29% entro il 2050 se il nostro impatto sui metabolismi naturali dovesse prose-guire con i ritmi attuali, giungendo al 44% nel caso di un massiccio utilizzo di bioenergie prodotte dai suoli coltivati.4 Le dimensioni del nostro impatto si sono andate intensificando negli ultimi 60 anni, in un periodo che gli studiosi definiscono “la Grande accelerazione”,5 che ha avuto effetti devastanti. Scrive il grande biologo Edward Wilson, professore emerito alla Harvard University: “La biosfera non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo alla biosfera. Gli organismi in mezzo ai quali viviamo questa ma-gnifica profusione di vita, sono il prodotto di 3,8 miliardi di anni di evoluzione per selezione naturale. Noi siamo uno dei suoi prodotti attuali, arrivati come fortunata specie di primati del Vecchio Mondo. E alla scala geologica tutto ciò è accaduto soltanto un istante fa. La fisiologia e la mente umane sono adattate alla vita nella biosfera, che abbiamo appena iniziato a comprendere. Anche se oggi siamo in grado di proteggere tutte le altre forme di vita, continuiamo ad avere la sconsiderata propensione a distruggerne e a sostituirne una gran parte”.6

Dal 2008 la popolazione umana nelle città ha sorpassato quella rurale; un fat-to epocale per l’umanità, soprattutto per le implicazioni sociali, economiche e

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psicologiche. Ormai più della metà degli esseri umani presenti oggi sulla Ter-ra, complessivamente sono quasi 7,4 miliardi, vive in aree urbane. La popo-lazione delle città è cresciuta con grande rapidità dal 1950, passando dai 746 milioni di abitanti di allora ai quasi 4 miliardi del 2014. Si prevede che incre-menterà di 2,5 miliardi nel 2050, sorpassando quindi i 6 miliardi. Quindi, al-la metà di questo secolo, avremo una popolazione urbana equivalente alla po-polazione globale che era presente sul pianeta nel 2002.7

Questo progressivo allontanamento fisico e culturale dalla natura, “immersi” quotidianamente nei nostri sistemi urbani e artificiali, ci ha anche fatto pensa-re di poterne fare a meno, come se non ne avessimo bisogno. La verità, come la scienza ci dimostra chiaramente, è che gli esseri umani sono strettamente dipen-denti dai sistemi naturali e fortemente collegati a essi. L’intero fenomeno del-la vita sulla Terra, e quindi anche noi che ne siamo un prodotto, costituisce un intricato, complesso e affascinante sistema nel quale siamo tutti interconnessi.L’evoluzione e l’applicazione del pensiero economico nella vita reale di tutti i giorni hanno invece costantemente messo al centro una sorta di figura “ideale” dell’essere umano, l’Homo oeconomicus, cui la stessa dottrina economica attri-buisce, come obiettivo dell’esistenza, la soddisfazione dell’esigenza di continua-re ad acquisire beni materiali. Questa “visione” ha profondamente plasmato la cultura umana negli ultimi secoli. Ha scritto il noto economista Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia: “La maggior parte di noi non vorrebbe pensa-re di corrispondere all’idea di uomo che sta alla base dei modelli di economia prevalenti, ossia un individuo calcolatore, razionale, egoista che pensa solo a se stesso e non lascia spazio alcuno all’empatia, al senso civico e all’altruismo. Un aspetto interessante dell’economia è che il modello descrive più gli economisti che non le altre persone e quanto più a lungo gli universitari studiano econo-mia tanto più tendono ad assomigliare al modello”.8

Ha scritto l’economista Thomas Piketty, autore del best seller Il capitale del XXI secolo: “Diciamolo francamente: la disciplina economica non è mai gua-rita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazio-ni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricera storica e del raccordo con le altre scienze sociali. Troppo spesso gli economisti si pre-occupano di piccoli problemi matematici che interessano solo loro, problemi che, con poco sforzo, li fanno sentire scienziati e che li esonerano dall’impegno di rispondere alle questioni ben più complesse poste dal mondo circostante”.9 D’altra parte, il noto economista ecologico Herman Daly ha fatto presente che gli economisti che rivestono ruoli importanti nella loro vita in ambiti politici, istituzionali, finanziari (come quelli, per esempio della World Bank o dell’In-ternational Monetary Fund) vengono generalmente formati tutti in una man-ciata di dipartimenti di economia e imparano tutti quella che egli definisce la

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stessa “teologia economica”. E scrive: “Ho suggerito ad amici di Greenpeace che, oltre a protestare contro i progetti della World Bank, dovrebbero anda-re, almeno una volta all’anno, ad appendere un lenzuolo nero sull’edificio che ospita i dipartimenti economici del MIT, o quelli di Chicago, Stanford, Ox-ford, Cambridge)”.10 La nostra cultura costituisce l’accumulo globale di conoscenze e di innovazio-ni, derivante dalla somma dei contributi individuali trasmessi attraverso le ge-nerazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continua-mente la nostra vita.11 La cultura, non seguendo i tempi classici dell’evoluzione biologica, si diffonde con grande rapidità e influenza le percezioni individua-li, il nostro modo di “vedere” e “concepire” il mondo e la realtà che ci circon-da. Condiziona ciò che ciascuno di noi considera “importante”, e suggerisce i comportamenti che possono essere ritenuti appropriati o inappropriati a se-conda delle situazioni. Con un’impostazione culturale dominata dalla dimensione economica abbia-mo costruito un modello di funzionamento del metabolismo delle nostre so-cietà che di fatto vive sfruttando gli stock e i flussi di materia ed energia pro-venienti dai sistemi naturali, i quali però hanno capacità rigenerative e ricetti-ve limitate, non possono cioè essere sfruttati al di sopra delle loro possibilità di rigenerare processi, funzioni, risorse e servizi e al di sopra delle loro reali pos-sibilità di ricevere e metabolizzare gli scarti e i rifiuti da noi prodotti. Il conti-nuo deterioramento dei sistemi naturali causato dai metabolismi sociali, sem-pre più invadenti e ingombranti con la continua crescita della popolazione e dei crescenti livelli di consumo, ha trovato un’ampia giustificazione culturale nel-la disciplina dell’economia che, non a caso, è nata proprio nel periodo dell’av-vio della Rivoluzione industriale.L’ecologo Barry Commoner (1917-2012) che per decenni ha insegnato alla Washington University di St. Louis, ha scritto nel suo libro più noto: ”Non è facile comprendere i problemi dell’ecosfera per una mente moderna. L’ecosi-stema sembra restare estraneo alla cultura contemporanea. Ci siamo per trop-po tempo abituati a considerare eventi singoli e isolati, ciascuno dipendente da una precisa, unica causa. Ma nell’ecosfera ogni effetto è anche una causa: le de-iezioni di un animale o la sua carcassa diventano nutrimento per i batteri del terreno; gli escreti dei batteri nutrono a loro volta le piante e gli animali man-giano le piante [...]. Abbiamo spezzato il cerchio della vita trasformando i suoi cicli senza fine in eventi umani di tipo lineare: il petrolio viene estratto dal sot-tosuolo, distillato a carburante, bruciato in un motore e convertito in fumi no-civi che vengono emessi nell’atmosfera. Alla fine di questa linea c’è lo smog. Altre alterazioni che l’uomo ha provocato a danno dei cicli ecologici sono l’e-missione di prodotti chimici tossici, di liquami, di montagne di rifiuti, testi-

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monianza del nostro straordinario potere di lacerare il tessuto ecologico che ha garantito, per milioni di anni, la vita del nostro pianeta”.12 L’intervento umano, di fatto, ha reso i processi circolari – caratteristici del fun-zionamento dei sistemi naturali – dei processi lineari, alla fine dei quali si pro-duce appunto lo scarto, il rifiuto, sia esso solido, liquido o gassoso. Non ab-biamo, invece, messo al centro dei processi economici il capitale fondamen-tale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società, e cioè il capitale naturale, costituito dalla ricchezza della natura e del-la vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui fornito un valore ai sistemi idri-ci, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchezza della diversità biologica, alla fotosintesi, solo per fare qualche esem-pio, le nostre società presentano ormai livelli di deficit imponenti nei confron-ti dei sistemi naturali.Adam Smith (1723-1790), ritenuto il fondatore dell’economia, nel suo testo più famoso scrive: ”La parola valore, si deve notare, ha due diversi significati: a volte esprime l’utilità di un oggetto particolare, a volte il potere di acquistare altri beni che il possesso di quell’oggetto comporta. L’uno può essere chiama-to ‘valore d’uso’, l’altro ‘valore di scambio’. Le cose che hanno il maggior valo-re d’uso hanno spesso poco o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno maggior valore di scambio hanno spesso poco o nessun valore d’u-so. Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualco-sa, difficilmente se ne può avere qualcosa in cambio. Un diamante, al contra-rio, ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottene-re una grandissima quantità di altri beni”.13

una sfida epocale

La sfida che l’umanità ha ora di fronte è sfida epocale. La pressione umana sui sistemi naturali è completamente insostenibile e, con i grandi cambiamenti globali che abbiamo indotto nella natura, la nostra stessa civiltà è a rischio. La popolazione umana sulla Terra ora è di oltre 7 miliardi e 400 milioni, più di 9 volte gli 800 milioni di persone che si stima vivessero nel 1750, data indicata come inizio della Rivoluzione industriale. Questa cifra dovrebbe raggiungere, seguendo la variante media indicata dalle Nazioni Unite nei suoi “World Po-pulation Prospects”, i 9,7 miliardi di abitanti nel 2050. La popolazione mon-diale continua a crescere a un tasso di circa 83 milioni l’anno.14 Le dimensioni dell’economia mondiale sono anch’esse senza precedenti; il pro-dotto mondiale lordo viene stimato attualmente in 91.000 miliardi di dolla-ri, almeno 200 volte quelli del 1750 (anche se si tratta di un confronto diffici-

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le perché buona parte dell’economia mondiale è oggi costituita da beni e servi-zi che 250 anni fa non esistevano).15 La nostra Terra ha dato sin qui prova di aver contribuito ad attenuare l’impat-to umano rispetto a vari fenomeni (per esempio contribuendo ad attenuare gli effetti delle emissioni di gas serra, dei processi di deforestazione e di degrado dei suoli) e riuscendo, per esempio, ad assorbire sostanze prodotte dall’indu-stria umana, facendo adattare gli ecosistemi e modificando le catene alimenta-ri. La Terra non è in pericolo; in pericolo è invece l’umanità e la civiltà che es-sa ha creato, poiché questa è stata possibile solo grazie ai beni e ai servizi che la natura e la biodiversità ci hanno fornito. Nello stesso tempo, però, abbiamo messo in serio pericolo l’intera e straordinaria biodiversità che sta condividen-do con noi questa fase di vita della Terra. Appare ormai sempre più chiaro che è francamente impossibile pensare di pro-cedere nel futuro con scenari del tipo Business As Usual (BAU), cioè fare come se nulla fosse. Ma è realmente possibile imboccare le strade della sostenibilità con una popolazione in crescita, un impatto ambientale in crescita e un degra-do sociale in crescita? È evidente a chiunque che per farlo dobbiamo cambiare rotta, soprattutto considerando che abbiamo perso decenni importanti, duran-te i quali i modelli di crescita continua, materiale e quantitativa, si sono diffu-si in tutte le culture e le società del pianeta.

un sistema economico da cambiare

Disponiamo ormai della certezza scientifica che il sistema economico sin qui perseguito, diffuso nelle società umane di tutto il mondo è in chiaro conflit-to con la realtà biofisica dei nostri sistemi naturali. Questo aspetto costituisce oggi il problema maggiore che l’umanità si trova ad affrontare e la ricerca del-le soluzioni per ottenere una relazione armonica tra i sistemi naturali e i siste-mi sociali, la sostenibilità, dovrebbe essere posta come primo punto dell’ordi-ne del giorno dell’agenda politica internazionale. Per essere davvero operativo lo sviluppo sostenibile richiede un reale cambia-mento della nostra visione e della nostra azione concreta nel rapporto che ab-biamo con il mondo naturale. Oggi abbiamo una consapevolezza sempre più chiara dei limiti ecologici globali. Il nostro sistema economico deve inevitabil-mente agire nell’ambito dei limiti biofisici che presentano i sistemi naturali del nostro pianeta. Questo significa, con grande chiarezza, che abbiamo bisogno di un nuovo modo di fare economia. I sistemi economici delle società umane non possono più costituire il sistema centrale di riferimento del nostro mondo quotidiano. Questi sistemi sono, in

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realtà, dei sottosistemi del più grande ecosistema globale del pianeta (la biosfe-ra) e non possono essere gestiti come se fossero indipendenti da esso. I model-li economici perseguiti dalle società umane non possono, quindi, operare al di fuori dei limiti biofisici dei sistemi naturali. Per questo la crescita della popolazione e della produzione non devono spin-gersi oltre le capacità ambientali di rigenerazione delle risorse e di assorbimen-to dei rifiuti. Come ricorda Herman Daly, ciò che è necessario a questo pun-to non è un’analisi sempre più raffinata di una visione difettosa, ma una nuova visione. Daly sottolinea che uno sviluppo sostenibile, uno sviluppo senza cre-scita quantitativa, non implica la fine delle scienze economiche ma, al contra-rio, l’economia come disciplina diviene ancora più importante. Si tratta però di un’economia raffinata e complessa dedita al mantenimento, del miglioramento qualitativo, della condivisione e dell’adattamento ai limiti naturali. È un’econo-mia del “meglio”, non del “più grande”. E questo volume di Kate Raworth illu-stra l’importanza e i contenuti che contribuiscono a creare una nuova visione.Purtroppo le nostre impostazioni culturali hanno strutturato la conoscenza e quindi anche le modalità di fare ricerca e le università in un modo che non cor-risponde a quello in cui funziona la realtà. Non possiamo sperare di risolvere i problemi ambientali come il cambiamento climatico con un approccio setto-riale attraverso discipline scientifiche frammentate e isolate. In realtà, le ricer-che dovrebbero mirare a una comprensione sistemica il più ampia possibile. In realtà infatti, nonostante una conoscenza sempre più approfondita dei mo-di in cui funziona il nostro pianeta, non stiamo in realtà facendo nessun pro-gresso scientifico in direzione di un futuro più sostenibile.16 Abbiamo bisogno di una scienza interdisciplinare che si focalizzi sulla risoluzione dei problemi. Giorno dopo giorno, ci sono sempre più studi che cercano di integrare scien-ze sociali, studi umanistici e scienze naturali, ma rimane tanto lavoro da fare. Fortunatamente sono state fondate organizzazioni di ricerca ambientale multi-disciplinari e in queste realtà è più facile aggregare scienziati che comprendano pienamente le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, an-tropologi, filosofi che capiscano pienamente le dinamiche complesse del siste-ma biochimico del nostro pianeta. Dal 2009 si è avviato un processo nell’ambito dell’ICSU (International Council for Science) e dell’ISSC (International Social Science Council) con l’obiettivo di definire l’agenda internazionale sui futuri cambiamenti ambientali globali e sui modi per gestirli. Per più di 30 anni l’ICSU ha coordinato alcuni dei più importanti programmi di ricerca sui cambiamenti ambientali globali (il WCRP, World Climate Research Program; l’IGBP, International Geosphere Biosphe-re Program, Diversitas, un programma di ricerca sulla biodiversità e sui ser-vizi degli ecosistemi; l’IHDP, International Human Dimensions Program, e,

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successivamente, l’ESSP, Earth System Science Partnership che ha cercato di strutturare le relazioni e lo stretto coordinamento tra tutti questi programmi). Si è così avviato un processo di consultazione di migliaia di scienziati di tutto il mondo durato due anni, dal quale è emerso che un numero maggiore di ricer-che condotte nel modo tradizionale non è sufficiente. In altre parole, l’attuale assetto delle organizzazioni scientifiche e le odierne discipline scientifiche non riusciranno a fornirci una comprensione sufficientemente profonda dei rischi che l’umanità ha di fronte e delle possibili soluzioni. La scienza del clima non può essere separata né dalle ricerche sui servizi e le fun-zioni degli ecosistemi né dalle modalità con cui gli individui, i gruppi e la co-munità internazionale agiscono e reagiscono alle questioni ambientali. Il nuo-vo programma di ricerca per il prossimo decennio che è scaturito da questo la-voro è stato lanciato alla fine del 2012 con il titolo “Future Earth, Research for Global Sustainability”17 dimostra che la scienza del Sistema Terra ha bisogno di qualcosa di paragonabile al “progetto Apollo” che ci ha condotto sulla Luna, se vuole individuare idee e soluzioni per indicare al mondo un percorso verso uno sviluppo sostenibile. I problemi che abbiamo di fronte sono così comples-si che richiedono una forte collaborazione oltre i confini disciplinari. Come ri-corda Johan Röckstrom, il noto scienziato direttore dello Stockholm Resilien-ce Centre, non possiamo venire a patti con la natura, ma è possibile farlo con noi stessi, con le nostre aspirazioni, con le richieste e i diritti di cui sono tito-lari le comunità locali e regionali, e anche le varie nazioni possono scendere a compromessi tra di loro. La focalizzazione sulla risoluzione di problemi come il cambiamento climatico o la perdita di biodiversità richiede necessariamente una collaborazione transdisciplinare.

l’avventura dell’sos

Quindi abbiamo ormai tante prove scientifiche che dimostrano come la pres-sione che esercitiamo sul nostro Pianeta potrebbe aver raggiunto la soglia di sa-turazione e abbiamo sempre più chiaro il fatto che non possiamo oltrepassare i confini planetari (Planetary Boundaries) indicati dalla comunità scientifica.18 Farlo comporta il passaggio di punti critici, cioè quegli effetti soglia che ancora abbiamo difficoltà a indicare con esattezza, perché, nonostante i progressi sin qui fatti, la comprensione scientifica del sistema Terra è ancora incompleta. È però molto importante che diversi e significativi guardrails sono stati tracciati dalla nostra conoscenza scientifica e sarebbe pura follia non rispettarli. Rispet-tarli significa evitare l’approssimarsi ai punti critici e significa applicare percor-si di sostenibilità al nostro sviluppo.

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Ancora oggi, nell’accezione comune, il termine sostenibilità non è affatto chia-ro e si presta a numerose confusioni e tutto questo proprio mentre assistiamo a importantissimi avanzamenti nella conoscenza scientifica che dovrebbero in-vece aiutare questo difficile compito. Negli ultimi anni è infatti nata una disci-plina molto innovativa che viene definita Sustainability Science, la scienza della sostenibilità. Essa appare come una vera e propria integrazione e confluenza di numerose discipline, capace di integrare gli avanzamenti continui delle cono-scenze di fisica, chimica, biologia, geologia, ecologia e scienze sociali con nuo-ve discipline di frontiera, quali l’economia ecologica, la biologia della conser-vazione, l’ecologia industriale, ecc.19

E solo rafforzando la nostra conoscenza di base, consentendole di essere inter-disciplinare, flessibile, innovativa, aperta alla contaminazione di tanti altri am-biti del sapere, che saremo in grado di avviare percorsi significativi mirati a rag-giungere una sostenibilità del nostro benessere e del nostro sviluppo su questo meraviglioso pianeta Terra. E soprattutto se saremo anche capaci di connette-re e non di disgiungere, come invece facciamo continuamente.La sostenibilità è quindi un concetto articolato che viene purtroppo ancora con-tinuamente banalizzato. La complessità che la caratterizza e le oggettive diffi-coltà di attuare concretamente azioni, comportamenti e politiche che siano in grado di metterla in pratica, modificando i ben strutturati modelli mentali, cul-turali e pratici oggi dominanti, provocano una discreta confusione, che non fa-vorisce, purtroppo, una sua corretta definizione. La sostenibilità è costituita da tanti elementi che devono essere sempre tenu-ti in connessione tra loro e già questo costituisce una notevole sfida alla nostra mentalità abituata a pensare seguendo logiche lineari di causa ed effetto. Vo-lendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possiamo affermare che sostenibilità vuol dire imparare e vivere, in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani e in armonia con la natura, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che siamo in grado di abitare: la Terra. Oggetto fondamentale delle ricerche sulla sostenibilità sono i Social-Ecologi-cal Systems (SES), cioè la capacità di comprendere le interazioni e i legami esi-stenti tra gli esseri umani e i sistemi naturali e comprendere come sia possibi-le gestirli al meglio. Nell’analisi di questa situazione si colloca la straordinaria avventura intellettua-le e operativa di Kate Raworth, molto attenta a incrociare le conoscenze scien-tifiche con quelle sociali ed economiche per concretizzare percorsi di sosteni-bilità dei nostri modelli di sviluppo. L’avventura inizia nella seconda metà del primo decennio del 2000, con la prima pubblicazione scientifica di numero-si autorevoli studiosi dediti alla Global Sustainability e alle scienze del Sistema Terra, che hanno cercato di indicare le dimensioni di uno spazio operativo si-

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curo (Safe and Operating Space) per l’umanità indicando i Planetary Boundari-es (“confini planetari”) entro cui muoversi.Il primo lavoro sull’individuazione di tali confini che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali20 è del 2009. Si tratta di una tematica che è stata precedentemente af-frontata da vari studiosi, basti qui ricordare le straordinarie intuizioni di quel-li che hanno predisposto rapporti per il Club di Roma sin dal 1972 sui limiti del nostro sviluppo rispetto ai limiti biofisici del pianeta,21 o l’ipotesi, presenta-ta all’inizio degli anni Novanta, dell’Environmental Space, cioè lo “spazio am-bientale” che ciascun individuo può avere a disposizione per l’utilizzo delle ri-sorse e per la possibilità di produrre degli scarti”.22 I “limiti“ di cui parliamo riguardano nove grandi problemi planetari dovuti al-la forte pressione umana, tra di loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico, la perdita della biodiversità e quindi dell’integrità bio-sferica, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stra-tosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’uti-lizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la diffusione di ae-rosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici. Per quattro di questi – il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la mo-dificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suo-li – ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi. Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi possono essere concepiti co-me parte integrante di un cerchio e in questo modo si definisce quell’area come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità” (Safe and Operating Space, SOS). Il concetto dei confini planetari consente di evidenziare in maniera efficace com-plesse questioni scientifiche a un vasto pubblico mettendo in discussione le con-cezioni tradizionali delle nostre impostazioni economiche. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una esternalità che ricade in gran parte fuori dell’economia monetizzata, gli scienziati naturali hanno lette-ralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantifica-ti dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra che eserciterebbero effetti devastanti sull’intera umanità. Tali confini non sono descritti in termi-ni monetari, ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello che si è avuto durante il periodo abbastanza stabile dell’Olocene. Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto dei confini pla-netari si è andato sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politi-ca internazionale, incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale. In questo ambito si inseriscono le analisi dovute a Kate Raworth che ha delineato un ap-

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proccio estremamente affascinante e innovativo, l’“economia della ciambella” (Doughnut Economics).23 ll benessere umano, infatti, dipende, oltre che dal man-tenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale com-plessivo che non deve oltrepassare alcune soglie, anche, e in misura uguale, dal-le necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Le norme internazio-nali sui diritti umani hanno sempre sostenuto per ogni individuo il diritto mo-rale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istru-zione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale. Kate Raworth ci indica che, come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, una sorta di “tetto” oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile e pericolo-so per l’intera umanità, ne esiste uno interno al prelievo di risorse, un “livello sociale di base” (un sorta di “pavimento”) sotto il quale la deprivazione umana diventa inaccettabile e insostenibile. Dal 2000 i Millennium Development Goals (MDGs) hanno rappresentato un importante quadro di riferimento per le priorità sociali di sviluppo e han-no trattato varie privazioni, di reddito, nutrizione, uguaglianza di genere, salu-te, istruzione, acqua e servizi igienico-sanitari, la cui urgenza non è stata risol-ta. Oggi l’Agenda 2030 e i 17 Sustainable Development Goals (SDGs, decli-nati in 169 target specifici)24 in essa declinati e approvati dalle Nazioni Unite nel 2015, costituiscono un punto di riferimento molto importante per l’attua-zione di politiche di sostenibilità in tutto il mondo. In questa importante riflessione la Raworth individua 11 priorità sociali, quali la disponibilità del cibo, dell’acqua, dell’assistenza sanitaria, di reddito, dell’i-struzione, di energia, di lavoro, del diritto di espressione, della parità di gene-re, dell’equità sociale e della resilienza agli shock, indicandole come una base sociale esemplificativa (la “base”) e incrociandole quindi con i confini planeta-ri (il “tetto”) del nostro SOS che, a questo punto, oltre a essere “sicuro” è an-che “giusto”. Si viene così a formare, tra questi diritti sociali fondamentali (la “base sociale”) e i confini planetari (i “tetti ambientali”), una fascia circolare a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmen-te giusta per l’umanità. Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei diritti uma-ni hanno sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo in-dispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro i limiti ambientali. Questo spa-zio è una combinazione dei due, crea una zona che rispetta sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno.

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Ma cosa significa muoversi entro lo spazio operativo sicuro ed equo per l’uma-nità? La grande sfida per raggiungere la sostenibilità nell’immediato futuro è proprio quella di riuscire a comprendere quale sia il numero ottimale della no-stra popolazione e le modalità sociali ed economiche necessarie a rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono. Come abbiamo visto, le conoscenze sin qui acquisite dalle scienze del Sistema Terra ci dicono chiaramente che non è possibile perseguire la sostenibilità dello svi-luppo umano se non siamo capaci di imparare a vivere negli ormai evidenti li-miti biofisici dei sistemi naturali che ci sostengono. Ciò significa, nel concre-to, limitare la crescita della popolazione, limitare i livelli dei flussi dell’energia e delle materie prime e quindi i nostri livelli di consumo, da cui deriva la ne-cessità di modificare profondamente i nostri modelli di produzione e consumo della natura che ci circonda. Sin ora le nostre società hanno perseguito modelli di sviluppo socio-economi-co che si sono basati sulla crescita continua dell’utilizzo degli stock e dei flus-si di materia ed energia da trasferire dai sistemi naturali a quelli sociali. Al cen-tro dei processi economici non è stato collocato il capitale fondamentale che ci consente di perseguire il benessere e lo sviluppo delle nostre stesse società e cioè il capitale naturale, costituito dalla straordinaria ricchezza della natura e della vita sul nostro pianeta. Non avendo sin qui dato un valore ai sistemi idrici, alla rigenerazione del suolo, alla composizione chimica dell’atmosfera, alla ricchez-za della diversità biologica, alla fotosintesi, solo per fare qualche esempio, le no-stre società presentano ormai livelli di deficit nei confronti dei sistemi naturali molto superiori ai livelli di deficit che la crisi economico-finanziaria, che dura dal 2008, fa registrare nelle contabilità economiche in tutti i paesi del mondo. I deficit economici derivano da un sistema di regole, di norme e meccanismi di funzionamento (o, viceversa, dalla mancanza di regole e norme) costruite dal-la cultura umana e, come tali, potenzialmente modificabili nel caso di nuove impostazioni culturali e politiche, mentre i deficit ecologici riguardano una di-lapidazione materiale che sorpassa le capacità biofisiche rigenerative e ricetti-ve dei sistemi naturali ai quali diventa sempre più difficile, se non impossibile, porre rimedio. L’economia ha purtroppo ragionato molto sulla natura del va-lore ma non sul valore della natura. Il capitale naturale non può essere di fatto “invisibile” all’economia, ma è cen-trale e fondamentale per la sopravvivenza dell’intera civiltà umana. Dobbiamo quindi “mettere in conto” la natura, riconoscerle un valore fisico e monetario. La contabilità economica deve essere affiancata da una contabilità ecologica. Il valore del capitale naturale deve influenzare i processi di decision making poli-tico-economici e avviare così una nuova impostazione delle nostre economie. È praticamente impossibile prospettare un futuro vivibile per le nostre società se

l’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità 21

non saremo capaci di cambiare registro agli attuali modelli economici e trova-re finalmente il modo di dare un valore alla natura e di riuscire a vivere concre-tamente in armonia con essa (molti programmi internazionali di ricerca hanno fatto il punto su questi temi così rilevanti per il nostro futuro).25

un trattato mondiale per il safe and operating space (sos treaty)

Da decenni ci si interroga sugli effetti dei nostri interventi sui sistemi naturali e sulle conseguenze che ne derivano, e quindi sulla necessità che il nostro mondo venga considerato realmente, anche in termini giuridici, un bene comune, un grande “condominio Terra” dove tutti dobbiamo convivere e trarne prosperità e benessere. Oggi le dottrine giuridiche riconoscono che le norme internazio-nali registrano un errore teorico strutturale nel loro approccio verso i beni eco-logici globali e la loro dimensione intergenerazionale. Attualmente, come abbiamo visto, abbiamo le conoscenze che ci fanno com-prendere come i processi chimici, fisici e biologici del Sistema Terra, ci hanno consentito di mantenere uno stato favorevole per lo sviluppo dell’umanità ne-gli ultimi migliaia di anni e che, a questo punto, è fondamentale evitare che il Sistema Terra possa subire il passaggio, a causa dello stesso intervento umano, di soglie molto pericolose per l’umanità stessa. Siamo, in qualche modo, in gra-do di definire uno spazio sicuro e operativo per l’umanità.Ora abbiamo bisogno di un nuovo approccio capace di chiudere i vuoti esisten-ti tra l’organizzazione delle istituzioni internazionali e la realtà delle dinamiche del Sistema Terra, un approccio capace di tenere in conto la dimensione non territoriale delle funzioni del Sistema Terra, che è in ovvia relazione con terri-tori tangibili di diversi stati, ma non è confinato in nessuno stato in particolare e non può essere considerato quindi una sottrazione al potere di sovranità na-zionale che è considerato intoccabile dal diritto internazionale.Nell’ambito dei grandi dibattiti internazionali, dei rapporti di diverse commis-sioni internazionali e delle conferenze mondiali sull’ambiente e la sostenibili-tà delle Nazioni Unite, più volte è emersa la necessità di considerare come un bene comune i grandi sistemi naturali che ci supportano e sostengono, dall’at-mosfera all’acqua, dal suolo e agli ecosistemi. Senza il loro funzionamento nel-la dinamica naturale non ci sarebbe il nostro sviluppo e il nostro benessere. Oggi il Sistema Terra, nella dimensione giuridica internazionale può essere con-siderato un oggetto legale non identificato (Unidentified Legal Object, ULO) e inevitabilmente questo stato di cose si riscontra anche nella prassi economi-ca corrente. È necessario che le nazioni del mondo riconoscano la necessità di

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agire sia per mantenere la vitalità del Sistema Terra sia per ampliare gli spazi oggi riconosciuti come “beni comuni”, partendo dai mari aperti o da aree co-me l’Antartide per arrivare alle dimensioni complessive dei sistemi naturali vi-tali e resilienti oggi soggetti alle giurisdizioni nazionali. Si tratta di una sfida culturale straordinaria che recentemente alcuni studiosi di diritto internazionale e di scienze del Sistema Terra hanno proposto di deline-are in un vero e proprio trattato per governare al meglio lo spazio sicuro e ope-rativo per l’umanità ricordato prima. Non a caso questa proposta è stata defi-nita “SOS Treaty”.26

È necessario che il concetto di un patrimonio comune per l’umanità venga ri-conosciuto da tutti gli stati del mondo. Importanti passi in avanti sono stati compiuti per cercare di inserire concetti simili, legati comunque a sottolinea-re il fatto che esistono beni che sono comuni per tutta l’umanità e non priva-tizzabili e sottoponibili esclusivamente alle giurisdizioni nazionali, in atti for-mali significativi, come in parte ha avuto luogo nella cosidetta legge sui mari dell’ONU, ma siamo ancora lontani da quella rivoluzione culturale necessaria ad affrontare la complessità del mondo attuale.27

Un modello legale per l’Antropocene richiede una regolazione responsabile per assicurare la promozione e la protezione degli interessi comuni attraverso la costruzione di nuove forme giuridiche che rappresentino un nuovo modo per rappresentare gli interessi di tutta l’umanità, nel presente e nel futuro. L’eco-nomia della ciambella di Kate Raworth costituisce uno strumento fondamen-tale per avviare questi processi e tutti noi possiamo essere protagonisti di que-sto straordinario impegno.

l’economia della ciambella: come rendere operativa la sostenibilità 23

note

1. Si veda il rapporto di Oxfam “An economy for the 99%” scaricabile dal sito https://www.oxfam.org/en/research/economy-99.2. Crutzen P. J., E. F. Stoermer, “The Anthropocene, Global Change Newsletter”, In-ternational Geosphere Biosphere Program (IGBP), 41: 17-18, 2000; Waters C. N., J. A. Zalasiewicz, M. Williams M., et al., “A Stratigraphical Basis for the Anthropocene”, Geological Society of London, Series A, 2014; Waters C. N., et al., The Anthropocene is functionally and stratigraphically distinct from the Holocene, Science, 351, 2016.3. Gaffney O., W. Steffen, “The Anthropocene equation”, The Anthropocene Review, 2017.4. Krausmann F., et al., “Global human appropriation of net primary production dou-bled in the 20th century”, PNAS, 110; 25, 2013.5. Steffen W., et al., “The trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration”, Anthropocene Review, 2015.6. Wilson E. O., Metà della Terra, Codice edizioni, Torino 2016.7. United Nations, “World Urbanization Prospects: the 2014 Revision”, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, 2014.8. Stiglitz J., Bancarotta, Einaudi, Torino 2010.9. Piketty T., Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano 2014.10. Daly H., Oltre la crescita, Edizioni di Comunità, Torino 2001.11. Cavalli Sforza L. L., L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, Torino 2004.12. Commoner B., Il cerchio da chiudere, Garzanti, Milano 1972.13. Smith A., La ricchezza delle nazioni, Newton & Compton Editori, Roma 2005.14. L’ultimo “World Population Prospects: the 2015 Revision” della Population Di-vision delle Nazioni Unite è scaricabile dal sito http://www.un.org/en/development/desa/publications/world-population-prospects-2015-revision.html.15. Sachs J., L’era dello sviluppo sostenibile, Edizioni Università Bocconi, Milano 2015.16. Rockstrom J., A. Wijkman, Natura in bancarotta, Edizioni Ambiente, Milano 2014; Rockstrom J., M. Klum, Grande mondo, piccolo pianeta, Edizioni Ambiente, Milano 2015.17. Si veda il sito www.futureearth.org.18. Si veda il sito dello Stockholm Resilience Centre, www.stockholmresilience.org.19. Bologna G., Manuale della sostenibilità, Edizioni Ambiente, Milano 2008; Bolo-gna G., Sostenibilità in pillole, Edizioni Ambiente, Milano 2013.20. Rockstrom J., et al., “A Safe Operating Space for Humanity”, Nature, 461; 472-475, 2009. Si veda anche il lavoro più esteso apparso su “Ecology and Society”, Rockstrom J., et al., “Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity”, Ecology and Society, 14 (2): 32, 2009; Steffen W., et al., “Planetary Boundaries: Gui-ding Human Development on a Changing Planet”, Science, 347, doi:10.1126/scien-ce.1259855, 2015.21. Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, W. W. Behrens III, I limiti dello svi-luppo, Mondadori, Milano 1972; Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, Oltre

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i limiti dello sviluppo, Il Saggiatore, Milano 1993; Meadows D. H., D. L. Meadows, J. Randers, I nuovi limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 2006.22. Buitenkamp M., H. Venner, T. Warms (a cura di), “Action Plan. Sustainable Ne-therlands”, Friends of the Earth Netherlands 1993; Amici della Terra, “Verso un’Eu-ropa sostenibile, uno studio dell’Istituto Wuppertal”, Maggioli Editore, Rimini 1995; Carley M, P. Spapens, Condividere il mondo. Equità e sviluppo sostenibile nel ventesimo secolo, Edizioni Ambiente, Milano 1999.23. Raworth K., “A safe and just space for Humanity. Can we live within a doughnut?”, Oxfam Discussion Paper 2012.24. Si veda www.un.org/sustainabledevelopment.25. Nel 2005 sono stati pubblicati i 5 volumi conclusivi dello straordinario sforzo scien-tifico internazionale, patrocinato dalle Nazioni Unite, del Millennium Ecosystem As-sessment, con il titolo Ecosystems and Human Well-being, tutti scaricabili dal sito www.meaweb.org, mentre nel 2010 è stato reso noto l’ultimo dei rapporti pubblicati dal grande programma internazionale definito TEEB,The Economics of Ecosystems and Biodiversity, tutti scaricabili dal sito www.teebweb.org.26. Magalhaes P., et al., “SOS Treaty. The Safe and Operating Space Treaty, a New Approach to Managing Our Use of the Earth System”, Cambridge Scholars Publishing, 2016; www.earthsystemgovernance.org.27. Il sito www.commonhomeofhumanity.org riassume i concetti di base del volume dedicato all’SOS Treaty.

Lo strumento più potente in economia non è il denaro, e nemmeno l’algebra.È una matita. Perché con una matita si può ridisegnare il mondo.

chi vuol essere un economista?

Nell’ottobre del 2008, Yuan Yang arrivò all’Oxford University per studiare economia. Nata in Cina e cresciuta nello Yorkshire, aveva una mentalità co-smopolita: appassionata di affari internazionali, preoccupata per il futuro e de-terminata a fare la differenza nel mondo. E convinta che diventare un’econo-mista fosse il modo migliore per poterci riuscire. Si potrebbe dire che deside-rasse diventare proprio quel tipo di economista di cui il XXI secolo ha bisogno.Ben presto però Yuan si sentì frustrata. Trovava la teoria – e la matematica usa-ta per dimostrarla – assurdamente chiusa nelle sue assunzioni. E dato che co-minciò i suoi studi proprio mentre il sistema finanziario globale stava inizian-do a precipitare in caduta libera, non poté fare a meno di notarlo, nonostante non rientrasse nel suo piano di studi universitario. “La crisi fu un campanel-lo d’allarme”, ha raccontato. “Da una parte venivamo formati come se il siste-ma finanziario non fosse una parte importante dell’economia. Dall’altra, quel-lo che i mercati stavano facendo era decisamente diverso, e ci chiedevamo il perché questo scollamento”. Era uno scollamento, realizzò, che andava ben ol-tre il settore finanziario, ed era evidente anche nel divario tra le preoccupazio-ni della teoria economica mainstream e le sempre più profonde crisi nel mon-do reale come la diseguaglianza globale e i cambiamenti climatici.Quando pose le sue domande ai suoi professori, essi le assicurarono che le co-se si sarebbero chiarite al livello successivo di studi. Così si iscrisse a un master alla prestigiosa London School of Economics, e aspettò le risposte che le erano state promesse. Tuttavia, le teorie si fecero ancora più astratte, i diagrammi e le equazioni si moltiplicarono, e Yuan si sentì ancora più insoddisfatta. Ma con gli esami all’orizzonte si trovò davanti a una scelta. “A un certo punto”, mi ha spiegato, “mi resi conto che dovevo solo sapere quelle cose, piuttosto che cer-care di mettere in discussione il tutto. E penso che questo sia un momento tri-ste da vivere come studente”.Dopo una simile presa di coscienza, molti studenti avrebbero abbandonato gli studi di economia o avrebbero ingurgitato le teorie, si sarebbero laureati e avreb-

28 l’economia della ciambella

bero iniziato carriere redditizie. Ma non Yuan. Iniziò a cercare nelle università di tutto il mondo studenti ribelli che la pensassero come lei e scoprì che, dall’i-nizio del nuovo millennio, erano sempre di più quelli che avevano cominciato a contestare apertamente il ristretto contesto teorico che veniva loro insegna-to. Nel 2000, degli studenti di economia di Parigi avevano inviato una lettera aperta ai loro professori, rifiutando l’approccio dogmatico della teoria prevalen-te. “Vogliamo fuggire dai mondi immaginari!” scrivevano. “Appello agli inse-gnanti: svegliatevi prima che sia troppo tardi!”1 Dieci anni più tardi, un gruppo di studenti di Harvard organizzò un’astensione di massa da una conferenza di Gregory Mankiw – autore dei libri di testo di economia più famosi al mondo – per protestare contro la sua prospettiva ideologica, ritenuta ristretta e fazio-sa. Si dissero “profondamente preoccupati che questa faziosità contagi gli stu-denti, l’università, e la nostra società in generale”.2

Quando iniziò la crisi finanziaria, gli studenti in tutto il mondo si sentirono incoraggiati a esprimere il loro dissenso. Yuan e i suoi compagni crearono un network globale che connetteva oltre 80 gruppi di studenti in più di 30 paesi – da India e Stati Uniti a Germania e Perù – che chiedevano che l’economia si mettesse al passo con la generazione attuale, con il secolo in corso e con le sfi-de all’orizzonte. “Non è solo l’economia mondiale a essere in crisi”, dichiara-rono in una lettera aperta nel 2014:

Anche l’insegnamento dell’economia è in crisi, e questa crisi ha conse-guenze che vanno ben oltre le aule universitarie. Quello che viene in-segnato modella le menti della nuova generazione di decisori politici, e quindi modella le società in cui viviamo... Siamo scontenti per il dram-matico restringimento del curriculum verificatosi negli ultimi due de-cenni... Si tratta di un fatto che limita la nostra capacità di affrontare le sfide multidimensionali del XXI secolo – dalla stabilità finanziaria alla sicurezza alimentare ai cambiamenti climatici.3

I più radicali tra questi studenti iniziarono a bersagliare le conferenze accade-miche con messaggi di dissenso. Nel gennaio del 2015, mentre era in corso il meeting annuale dell’American Economic Association presso l’Hotel Sheraton di Boston, studenti del movimento Kick it Over tappezzarono di manifesti i corridoi, gli ascensori e i bagni, proiettarono messaggi sulla facciata del cen-tro conferenze, e sbalordirono i partecipanti alla conferenza appropriandosi del question time.4 “La rivoluzione dell’economia è cominciata” dichiarava il ma-nifesto degli studenti. “Vi cacceremo un campus dopo l’altro, vecchi caproni rammolliti. Poi, nei mesi e negli anni successivi, cominceremo il lavoro di ri-programmazione della macchina delle catastrofi.”5

chi vuol essere un economista? 29

È una situazione straordinaria. Nessun’altra disciplina accademica è riuscita a irritare i suoi stessi studenti – proprio le persone che hanno scelto di studiare per anni le sue teorie – dando origine a una rivolta planetaria. La loro ribellio-ne ha chiarito un punto: la rivoluzione nell’economia è iniziata. E il suo suc-cesso dipende non solo dalla decostruzione delle vecchie idee, ma soprattutto dal riuscire a portare alla ribalta quelle nuove. Come disse Buckminster Ful-ler, uno degli inventori più ingegnosi del XX secolo, “non si cambiano le co-se combattendo la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, bisogna costruire un nuovo modello che renda obsoleto quello attuale”.Questo libro accetta la sfida, e delinea sette mosse per imparare a pensare come economisti del XXI secolo. Smascherando le vecchie idee che ci hanno intrap-polato e sostituendole con altre nuove per ispirarci, l’economia della ciambel-la ci presenta una nuova storia economica, raccontata con immagini e parole.

la sfida del xxi secolo

Il termine “economia”, coniato da Senofonte nell’antica Grecia, significa let-teralmente “arte della gestione domestica”, e oggi non potrebbe essere più rile-

Nel gennaio 2015 studenti di economia ribelli si impadronirono della facciata del Boston Sheraton per accogliere i partecipanti alla conferenza annuale dell’American Economic Association con le loro critiche

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vante. Per gestire la nostra casa planetaria nel XXI secolo abbiamo bisogno di manager sufficientemente arguti, che siano pronti a prestare attenzione ai bi-sogni di tutti i suoi abitanti.Nel corso degli ultimi 60 anni si sono verificati straordinari passi in avanti nel benessere umano. Un bambino nato nel 1950 aveva un’aspettativa di vita di soli 48 anni; oggi può prevedere di arrivare a 71.6 Solo dal 1990, il numero di persone che vivono in estrema povertà – con meno di 1,90 dollari al giorno – è diminuito di oltre la metà. Più di due miliardi di persone hanno ottenuto per la prima volta l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici. E tutto que-sto mentre la popolazione terrestre è cresciuta di quasi il 40%.7 Queste erano le buone notizie. Il resto della storia, naturalmente, non è an-dato così bene. Molti milioni di persone conducono vite di privazione estre-ma. In tutto il mondo, una persona su nove non ha abbastanza da mangiare.8 Nel 2015 sono morti sei milioni di bambini sotto i cinque anni, e più di metà dei decessi è stata causata da malattie facilmente curabili come diarrea e ma-laria.9 Due miliardi di persone vivono con meno di 3 dollari al giorno e oltre 70 milioni di giovani donne e uomini nel mondo sono disoccupati: signifi-ca che uno su otto non è in grado di trovare lavoro.10 Queste privazioni sono aggravate dalla insicurezza e diseguaglianza crescenti. L’onda d’urto della cri-si finanziaria del 2008 si è propagata in tutta l’economia globale, rubando a milioni di persone lavoro, casa, risparmi e sicurezza. Nel frattempo, il mondo ha raggiunto livelli straordinari di diseguaglianza: nel 2015, l’1% delle perso-ne più ricche del mondo detiene più ricchezze del restante 99% delle perso-ne messe insieme.11

A questi estremi, aggiungete il peggioramento delle condizioni della nostra ca-sa planetaria. L’attività umana sta sottoponendo i sistemi di sostentamento alla vita sulla Terra a stress senza precedenti. Le temperature medie globali si sono già alzate di 0,8 °C (come indicato dai grandi centri di ricerca climatologica il 2016 è stato l’anno più caldo da quando esistono registrazioni della tempera-tura della superficie terrestre, cioè dal 1880. La crescita della temperatura del-la superficie terrestre ha registrato dalla fine del XXI secolo un incremento di 1,1 °C, ndC) e siamo sulla strada per raggiungere quasi 4 °C entro il 2100, il che implica il pericolo di inondazioni, siccità, tempeste e un aumento del li-vello del mare senza precedenti nella storia umana.12 Circa il 40% della super-ficie agricola mondiale è seriamente degradata ed entro il 2025 due persone su tre nel mondo si troveranno a vivere in regioni affette da scarsità idrica.13 Nel frattempo oltre l’80% delle zone di pesca al mondo sono sfruttate fino al limi-te o sovra-sfruttate e ogni minuto viene scaricata in mare una quantità di pla-stica equivalente al carico di un camion della nettezza urbana: di questo passo, entro il 2050 il mare ospiterà più plastica che pesci.14

chi vuol essere un economista? 31

Questi fatti sono già impressionanti, ma alle sfide che abbiamo davanti vanno aggiunte le previsioni sulla crescita. La popolazione globale ammonta oggi a 7,3 miliardi di persone e si prevede che raggiungerà i 10 miliardi entro il 2050, stabilizzandosi intorno agli 11 miliardi entro il 2100.15 Si stima – se credete al-le previsioni sul business as usual – che il Pil globale crescerà del 3% annuo da oggi al 2050, raddoppiando l’entità dell’economia globale entro il 2037 e qua-si triplicandola entro il 2050.16 La classe media globale – composta da coloro che spendono tra i 10 e i 100 dollari al giorno – è pronta a espandersi rapida-mente, specialmente in Asia, dai 2 miliardi di oggi ai 5 miliardi entro il 2030, causando un’impennata della domanda di materiali da costruzione e prodotti di consumo.17 Queste sono tendenze che delineano le prospettive all’inizio del XXI secolo. Quindi che tipo di pensiero ci serve per il percorso che ci attende?

l’autorità dell’economia

Comunque affrontiamo queste sfide intrecciate, una cosa è chiara: la teoria eco-nomica avrà un ruolo centrale. L’economia è la lingua delle politiche pubbli-che, il linguaggio della vita pubblica e la cornice mentale che modella la socie-tà. “In questi primi decenni del XXI secolo, la questione principale è economi-ca: convinzioni, valori e assunzioni economiche stanno modellando il modo in cui pensiamo, sentiamo e agiamo”, scrive F. S. Michaels nel suo libro Mono-culture: how one story is changing everything.18 Forse questo è il motivo per cui gli economisti sono circondati da un’aura di autorità. Si siedono in prima fila in qualità di esperti nell’arena politica inter-nazionale – dalla World Bank alla World Trade Organisation – e raramente re-stano fuori dalle stanze del potere. Negli Stati Uniti, per esempio, il Council of Economic Advisers del Presidente è di gran lunga il gruppo di consiglieri più in-fluente, di alto profilo e duraturo fra tutti quelli presenti alla Casa Bianca, men-tre i gruppi simili che si occupano di qualità dell’ambiente e di scienza e tecno-logia sono a malapena conosciuti fuori da Washington. Nel 1968, il prestigio dei premi Nobel assegnati nei settori della fisica, chimica e medicina fu esteso in modo discutibile: la Banca centrale svedese, mediante azioni di lobbying e pagando, riuscì a far istituire anche un premio Nobel in “scienze economiche”, e da allora le persone che lo hanno vinto sono diventate celebrità accademiche.Non tutti gli economisti si sono sentiti a proprio agio con quest’aura di auto-rità. Negli anni Trenta, John Maynard Keynes – l’inglese le cui idee avrebbero trasformato l’economia post-bellica – si preoccupava già per il ruolo della sua professione. “Le idee degli economisti e dei filosofi politici, sia quando sono esatte sia quando sono sbagliate, sono più potenti di quanto si ritenga comune-

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mente. In realtà, il mondo è regolato da poco altro,” scrisse notoriamente. “Gli uomini concreti, che credono di essere esenti da influenze intellettuali, sono so-litamente schiavi di qualche economista tramontato.”19 L’economista austria-co Friedrich von Hayek, meglio conosciuto come il padre del neoliberismo de-gli anni Quaranta, era in forte disaccordo con Keynes su quasi tutte le questio-ni teoriche e politiche, ma su questo argomento specifico i due concordavano. Nel 1974, quando Hayek fu insignito del premio Nobel, lo accettò precisando che, se fosse stato interpellato a proposito della sua creazione, si sarebbe detto contrario. Perché? Perché, disse alla folla radunata, “il premio Nobel conferi-sce a un individuo un’autorità che in economia nessun uomo dovrebbe posse-dere, perché l’influenza dell’economista che più pesa è l’influenza che esercita sui profani: politici, giornalisti, impiegati statali e popolazione in generale”.20

Nonostante la diffidenza dei due economisti più influenti del XX secolo, il do-minio del punto di vista economico si è solo esteso, persino nel linguaggio del-la vita pubblica. Negli ospedali e nelle cliniche di tutto il mondo pazienti e me-dici sono stati ridefiniti come clienti e fornitori di servizi. Nei campi e nelle fo-reste di tutti i continenti, gli economisti stanno calcolando il valore monetario del “capitale naturale” e dei “servizi ecosistemici”, che vanno dal valore econo-mico delle paludi del mondo (che si dice corrisponda a 3,4 miliardi di dolla-ri all’anno) al valore globale dei servizi di impollinazione degli insetti (a quan-to pare 160 miliardi di dollari all’anno).21 Nel frattempo, l’importanza autore-ferenziale del settore finanziario viene costantemente rinforzata dai resoconti dei media, con la radio e i titoli dei giornali che annunciano i risultati trime-strali delle aziende, mentre i prezzi delle azioni scorrono in sovrimpressione in tutti i telegiornali.Vista la rilevanza dell’economia nella vita pubblica, non sorprende che così tan-ti studenti universitari, quando ne hanno l’opportunità, scelgano di studiarne un po’ come parte della loro istruzione. Negli Stati Uniti è stato messo a pun-to un corso introduttivo standard di economia – ampiamente conosciuto co-me Econ 101 – che viene ormai proposto in tutto il mondo: studenti in Cina, a Chennai e in Cile studiano su traduzioni dello stesso identico libro di testo usato a Chicago e a Cambridge. Per tutti questi studenti, Econ 101 è una par-te basilare di una istruzione più ampia, sia che scelgano successivamente di di-ventare imprenditori o medici, giornalisti o attivisti politici. Persino per tutti coloro che non studiano economia, il linguaggio e l’approccio mentale di Econ 101 pervadono così tanto il dibattito pubblico che modellano il modo in cui pensiamo all’economia: cos’è, come funziona, e a cosa serve.Ed ecco l’inghippo. Il viaggio dell’umanità attraverso il XXI secolo sarà gui-dato da decisori politici, imprenditori, insegnanti, giornalisti, organizzatori di comunità, attivisti ed elettori che vengono educati oggi. Ma ai cittadini del

chi vuol essere un economista? 33

2050 viene insegnato un approccio mentale che ha le sue radici nei libri di te-sto del 1950, a loro volta radicati nelle teorie del 1850. Dato che il XXI secolo sarà un’epoca rapide trasformazioni, si delinea un disastro. Naturalmente an-che il XX secolo ha dato origine a un pensiero economico innovativo, soprat-tutto grazie alla battaglia di idee tra Keynes e Hayek. Ma nonostante avessero prospettive opposte, ereditarono assunzioni fallaci e punti ciechi che restano, inesaminati, alla base dei loro dibattiti. Il contesto del XXI secolo richiede che rendiamo esplicite quelle assunzioni e visibili quei punti ciechi in modo che possiamo, ancora una volta, ripensare l’economia.

abbandonare l’economia, e tornarci

Da teenager degli anni Ottanta provai a comprendere il mondo guardando i telegiornali. Le immagini che lampeggiavano quotidianamente nel nostro sog-giorno mi portarono ben oltre la mia vita di studente londinese – e rimase-ro impresse. L’indimenticabile sguardo silenzioso dei bambini dal ventre gon-fio nati durante la carestia in Etiopia. File di corpi abbattuti come fiammiferi dal gas di Bhopal. Un buco tinto di rosso che trapassa lo strato di ozono. Una vasta macchia di petrolio che sgorga dalla Exxon Valdez e ricopre le acque in-contaminate dell’Alaska. Alla fine del decennio, sapevo solo che volevo lavora-re per un’organizzazione come Oxfam o Greenpeace – facendo campagne per mettere fine alla povertà e alla distruzione ambientale – e pensavo che il mo-do migliore per prepararmi fosse studiare economia e mettere i suoi strumen-ti al servizio di queste cause.Così mi iscrissi alla Oxford University per acquisire le competenze che mi ser-vivano. Ma la teoria economica che veniva proposta era frustrante perché par-tiva da strane supposizioni su come funziona il mondo, mentre glissava sui pro-blemi che avevo più a cuore. Ho avuto la fortuna di avere docenti stimolanti e di grande apertura mentale, ma anche loro erano ingabbiati dal programma di studi che a loro era richiesto di insegnare e a noi di apprendere. Così, do-po quattro anni di studi ho deciso di abbandonare l’economia teorica, troppo a disagio per definirmi “un’economista”, e mi immersi, invece, nelle sfide eco-nomiche del mondo reale.Ho passato tre anni a lavorare con imprenditori scalzi nei villaggi di Zanzibar, incantata dalle donne che gestivano micro-imprese mentre crescevano i loro bambini senza acqua corrente, elettricità o una scuola nei dintorni. Poi mi spo-stai su un’isola molto diversa, Manhattan, passando quattro anni alle Nazioni Unite nel team che redigeva il report annuale più importante, lo “Human De-velopment Report”, e da lì assistevo ai blocchi dei negoziati internazionali do-

34 l’economia della ciambella

vuti a evidenti giochi di potere. Lasciai insoddisfatta un’antica ambizione e la-vorai con Oxfam per oltre dieci anni. Lì fui testimone della precarietà dei lavori offerti alle donne – dal Bangladesh a Birmingham – impiegate nella parte più dura delle catene logistiche dei supermercati. Facemmo pressione per cambia-re le regole truccate e i doppi standard che governano le regole del commercio internazionale. Ed esplorai le implicazioni sui diritti umani dei cambiamenti climatici, incontrando agricoltori dall’India allo Zambia i cui campi sono stati trasformati in polvere dalla siccità. Poi diventai mamma – di due gemelli, ol-tretutto – e passai un anno immersa nell’economia dei pannolini. Quando tor-nai al lavoro, avevo chiara la pressione a cui sono sottoposti i genitori che de-vono destreggiarsi tra famiglia e lavoro.Attraverso tutto questo, gradualmente mi resi conto di una cosa ovvia. Non potevo semplicemente abbandonare l’economia: modella il mondo in cui vi-viamo, e le sue teorie avevano definito la mia forma mentis, anche quando pro-vai a rigettarle. Così decisi di tornarci e ribaltarla. E se facessimo partire l’eco-nomia non dalle sue astrazioni, ma dagli obiettivi a lungo termine dell’umani-tà, e poi ci chiedessimo quale tipo di pensiero economico può darci le migliori possibilità per raggiungerli? Provai a disegnare un’immagine di questi obiettivi e, per quanto sembri ridicolo, venne fuori una ciambella – sì, quella americana

Degrado ambientale

Privazionicritiche

per l’umanità

Spazi

o sicuro ed equo per l’umanità

TETTO ECOLOGICO

BASE SOCIALE

L’essenza della ciambella: una base per il benessere sociale sotto alla quale nessuno dovrebbe mai andare e un tetto per la pressione sui sistemi ecologici che non dovrem-mo superare. Tra la base e il tetto resta uno spazio sicuro ed equo per tutti

chi vuol essere un economista? 35

con un buco in mezzo. Il diagramma completo è tracciato nel prossimo capi-tolo, ma la sua essenza consiste in una coppia di cerchi concentrici. Al di sot-to del cerchio interno – la base sociale – si trovano privazioni critiche per l’u-manità come la fame e l’analfabetismo. Oltre il cerchio esterno – il tetto eco-logico – si trova il degrado ambientale, per esempio i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità. Tra i due cerchi si trova la Ciambella, lo spazio entro il quale possiamo soddisfare i bisogni di tutti rispettando i limiti del pianeta.Si fa fatica a considerare le zuccherose ciambelle fritte come una metafora vero-simile delle aspirazioni dell’umanità, ma c’era qualcosa in quell’immagine che colpì me e molti altri, e quindi rimase impressa. E pose una domanda profon-damente emozionante:

Se l’obiettivo dell’umanità per il XXI secolo è entrare nella Ciambella, quale approccio mentale economico può darci maggiori possibilità di successo?

Con la ciambella in mano, misi da parte i miei vecchi libri di testo e iniziai a cer-care le migliori idee che si stavano delineando, esplorando il nuovo pensiero eco-nomico con studenti di mentalità aperta, business leader progressisti, accademi-ci innovativi e professionisti all’avanguardia. Questo libro mette insieme le intu-izioni che ho raccolto durante questo percorso – intuizioni sui modi di pensare che avrei voluto trovare all’inizio del mio corso di studi in economia, e che cre-do dovrebbero oggi essere parte del bagaglio di strumenti di ogni economista.L’economia della ciambella attinge a diverse scuole di pensiero, come quella ecologica, femminista, istituzionale, all’economia comportamentale e a quella della complessità. Sono tutte ricche di intuizioni, ma c’è comunque il rischio che rimangano separate in compartimenti stagni, ogni scuola di pensiero chiusa nei suoi giornali, conferenze, libri di testo e cattedre, coltivando la propria cri-tica di nicchia al pensiero del secolo passato. La vera rivoluzione consiste, na-turalmente, nel combinare quello che ognuna ha da offrire e nello scoprire co-sa succede quando esse interagiscono sulla stessa pagina, che è proprio quello che questo libro si propone di fare.L’umanità ha di fronte sfide ardue, ed è in gran parte grazie ai punti ciechi e alle metafore sbagliate di un pensiero economico obsoleto che siamo arrivati a questo punto. Ma per coloro che sono già pronti a ribellarsi, a guardarsi intor-no, a mettere in dubbio e ripensare, questo è un momento eccitante. “Gli stu-denti devono imparare ad abbandonare le vecchie idee, come e quando sosti-tuirle... come imparare, disimparare e imparare di nuovo”, scrisse il futurologo Alvin Toffler.22 Questo non potrebbe essere più vero per chi desidera un’alfa-betizzazione economica: questo è un grande momento per disimparare e poi imparare di nuovo i fondamentali dell’economia.

36 l’economia della ciambella

il potere delle immagini

Lo dicono tutti: abbiamo bisogno di una storia economica, di una narrazione sul nostro futuro economico condiviso adatta al XXI secolo. Sono d’accordo. Ma non dimentichiamo una cosa: le storie che hanno avuto maggiore impat-to nella storia sono quelle che sono state raccontate per immagini. Se voglia-mo riscrivere l’economia, dobbiamo ridisegnare anche queste immagini, perché abbiamo poche speranze di raccontare una storia nuova se rimaniamo attacca-ti alle vecchie illustrazioni. E se disegnare nuove immagini vi sembra frivolo –un semplice gioco da bambini – credetemi, non è così. Meglio ancora, lascia-te che ve lo dimostri.Dalle pitture rupestri preistoriche alla pianta della metropolitana di Londra, le immagini, i diagrammi e le mappe sono sempre state al centro della narrazione umana. Il motivo è semplice: i nostri cervelli sono cablati per la visione. “La vi-sione viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di impa-rare a parlare”, scrisse il teorico della comunicazione John Berger nell’introdu-zione del suo classico del 1972, Modi di vedere.23 Le neuroscienze hanno con-fermato il ruolo predominante della visualizzazione nella cognizione umana. Metà delle fibre nervose nel nostro cervello sono legate alla visione e, quando i nostri occhi sono aperti, la visione è responsabile di due terzi dell’attività elet-trica del cervello. Ci vogliono solo 150 millisecondi perché il cervello riconosca un’immagine e solo altri 100 millisecondi perché le attribuisca un significato.24 Nonostante abbiamo dei punti ciechi in entrambi gli occhi – dove il nervo ot-tico si attacca alla retina – il cervello interviene abilmente per creare l’illusione di un tutto senza soluzione di continuità.25 Come risultato, siamo predisposti per individuare schemi, vediamo facce nelle nubi, fantasmi nelle ombre e bestie mitologiche nelle stelle. E impariamo me-glio quando ci sono immagini da guardare. Come spiega l’esperto di alfabetiz-zazione visiva Lynell Burmark, “a meno che le nostre parole, concetti e idee non siano associate a un’immagine, entreranno in un orecchio, navigheranno attra-verso il cervello e usciranno dall’altro orecchio. Le parole sono elaborate dalla nostra memoria a breve termine dove possiamo trattenere solo sette bit di in-formazione... Le immagini, al contrario, finiscono direttamente nella memoria a lungo termine dove rimangono impresse indelebilmente.”26 Con pochi trat-ti di penna, e senza il fardello del linguaggio tecnico, le immagini sono imme-diate – e quando testo e immagini mandano messaggi contraddittori, è il mes-saggio visivo è quello che più spesso ha il sopravvento.27 Quindi il vecchio ada-gio si rivela veritiero: un’immagine vale davvero mille parole.Sorprende poco, quindi, che le immagini abbiano avuto un ruolo così impor-tante nel modo in cui gli esseri umani hanno imparato a dare un senso al mon-

chi vuol essere un economista? 37

do. Nel sesto secolo avanti Cristo, la più antica mappa del mondo conosciuta, l’Imago Mundi, fu incisa nell’argilla con uno stilo appuntito in Persia, e mo-strava la Terra come un disco piatto con la Babilonia esattamente al centro. L’antico greco padre della geometria, Euclide, padroneggiava l’analisi di cer-chi, triangoli, curve e rettangoli nello spazio bidimensionale, e diede vita a una convenzione sui diagrammi che Isaac Newton usò per delineare le sue rivolu-zionarie leggi della dinamica, che sono tuttora utilizzate nelle lezioni di mate-matica in tutto il mondo. Pochi hanno sentito parlare dell’architetto romano Marco Vitruvio Pollione e dei suoi studi sulla proporzione, ma la raffigurazio-ne che Leonardo da Vinci fece della sua teoria delle proporzioni viene ricono-sciuta all’istante in tutto il mondo come l’Uomo Vitruviano inscritto – nudo e con le braccia aperte – in un cerchio e in un quadrato contemporaneamen-te. Nel 1837 Charles Darwin disegnò sul suo blocco un piccolo diagramma ir-regolare di un albero che si ramifica – con le parole “io penso” annotate sopra di esso – e catturò il nodo cruciale di un’idea che si sarebbe trasformata ne L’o-rigine delle specie.28

Attraverso le culture e le epoche, è chiaro che le persone hanno da tempo com-preso il potere delle immagini – e la loro capacità di rovesciare credenze profon-damente radicate. Le immagini si imprimono nell’occhio della mente e senza parole rimodellano la nostra visione del mondo. È naturale che Niccolò Coper-nico – che aveva passato la sua vita a studiare il moto degli astri – abbia aspet-tato di essere sul letto di morte prima di osare pubblicare l’immagine mostrata nella figura nella pagina successiva.Raffigurando il Sole – e non la Terra – al centro del sistema solare, l’immagi-ne di Copernico del 1543 innescò una rivoluzione ideologica che avrebbe scos-so la dottrina della chiesa, minacciando di sovvertire il potere del Papa e tra-sformando la comprensione umana del cosmo e del nostro posto in esso. È in-credibile quanto scompiglio siano riusciti a scatenare pochi cerchi concentrici. Pensate, allora, ai cerchi, parabole, linee e curve che costituiscono i diagram-mi fondamentali in economia – quelle immagini apparentemente innocue che raffigurano cos’è l’economia, come si muove e a cosa serve. Non sottova-lutate mai il potere di immagini simili: quello che disegniamo determina ciò che possiamo o non possiamo vedere, quello che notiamo e quello che igno-riamo, e quindi modella tutto quello che viene dopo. Le forme che traccia-mo per descrivere l’economia evocano, nella loro semplicità geometrica, le verità senza tempo della matematica di Euclide e della fisica di Newton. Ma così facendo, scivolano rapide nei meandri della nostra mente, dove depo-sitano silenziose le presupposizioni della teoria economica che a quel punto non hanno più bisogno di essere tradotte in parole perché sono state incise nell’occhio della mente.

38 l’economia della ciambella

Ci mostrano un’immagine molto parziale dell’economia, sorvolando sui punti ciechi specifici della teoria economica, seducendoci per spingerci a trovare leg-gi tra le loro linee, e facendoci perseguire falsi obiettivi. E quel che è peggio, quelle immagini permangono, come graffiti nella mente, molto più a lungo del-le parole; diventano bagaglio intellettuale clandestino, alloggiate nella cortec-cia visiva senza che neanche ci si renda conto che ci sono. E – proprio come i graffiti – sono molto difficili da rimuovere. Quindi se un’immagine vale mille parole, almeno in economia dovremmo prestare molta più attenzione alle im-magini che disegniamo, insegniamo a interpretare e impariamo.Qualcuno potrebbe rifiutare questo suggerimento con l’obiezione che la teo-ria economica viene insegnata non mediante immagini ma mediante equazio-ni, pagine e pagine di equazioni. I dipartimenti di economia, dopo tutto, cer-cano di reclutare matematici, non artisti. Ma l’economia è di fatto sempre stata insegnata sia coi diagrammi sia con le equazioni, e i diagrammi hanno acqui-sito un ruolo particolarmente influente, grazie ad alcuni personaggi anticon-formisti e a svolte improvvise nel passato poco conosciuto ma affascinante di questa disciplina.

La concezione copernicana dell’universo, 1543, con la Terra che ruota attorno al Sole

chi vuol essere un economista? 39

le immagini nell’economia: una storia nascosta

Molti dei padri fondatori dell’economia usavano le immagini per esprimere le loro idee. Quando nel 1758 l’economista francese François Quesnay pubbli-cò il suo Tableau Économique – con le sue linee a zig-zag che rappresentavano il flusso di denaro che circolava tra proprietari terrieri, lavoratori e mercanti – rappresentò in modo efficace il primo modello economico quantitativo. Negli anni Settanta dell’Ottocento l’economista politico inglese William Playfair co-minciò a inventare nuovi metodi per rappresentare i dati – usando quelli che ogni scolaro ora riconosce come grafici a linee, grafici a barre e grafici a torta. Con questi strumenti rappresentò visivamente e in maniera molto efficace i pro-blemi politici del suo tempo, come l’impennarsi del costo del grano per i brac-cianti, e lo spostamento nell’equilibrio del commercio con il resto del mondo. Un secolo dopo, l’economista inglese William Stanley Jevons tracciò per pri-mo una curva che rappresentava quella che chiamava “legge della domanda”, mappando cambi incrementali nel prezzo e nella quantità per dimostrare che quando il prezzo di un bene scende, la gente ne vuole comprare di più. Aspi-rando a conferire alla sua teoria una scientificità pari a quella della fisica, pro-dusse intenzionalmente una palese imitazione della rappresentazione di New-ton delle leggi della dinamica. E la curva della domanda è ancora oggi il primo grafico che lo studente neofita trova sulla sua strada. La prima metà del XX secolo fu dominata da Principles of Economics, del 1890, di Alfred Marshall, che divenne il testo di riferimento per la maggior parte de-gli studenti. Nella sua prefazione, Marshall meditava sul valore relativo dell’u-

Nel tentativo di dare all’economia uno statuto di scientificità come quello della fisica, Jevons raffigurò le sue teorie nello stile dei diagrammi sul moto dei corpi di Newton

Sul moto dei corpi Isaac Newton, 1687

Sulla legge della domanda William Stanley Jevons, 1871

40 l’economia della ciambella

tilizzo di equazioni contrapposto all’uso di diagrammi per chiarire il testo. Le equazioni matematiche, scriveva, erano più utili “nell’aiutare una persona ad annotare velocemente, brevemente ed esattamente, alcuni dei suoi pensieri per uso personale... Ma quando bisogna usare una grande quantità di simboli, que-sti diventano molto ostici per chiunque a parte l’autore stesso”. Il valore dei dia-grammi, credeva, era di gran lunga superiore. “Il ragionamento nel testo non è mai dipendente da essi; e possono essere omessi”, scrisse “ma l’esperienza sem-bra dimostrare che diano un appiglio più solido su molti importanti principi di quanto sia possibile fare senza il loro aiuto; ci sono molti problemi di teo-ria pura che nessuno che abbia imparato a usare i diagrammi analizzerebbe vo-lentieri in altro modo”.29

Fu Paul Samuelson, comunque, che nella seconda metà del XX secolo pose de-finitivamente le immagini al centro del pensiero economico. Conosciuto come il padre dell’economia moderna, Samuelson spese la sua carriera settantennale al Massachussetts Institute of Technology (MIT), e alla sua morte nel 2009 venne definito come “uno dei giganti sulle cui spalle si appoggia ogni economista con-temporaneo”.30 Era innamorato sia delle equazioni sia dei diagrammi, e influen-

Paul Samuelson: l’uomo che disegnò l’economia

chi vuol essere un economista? 41

zò profondamente l’uso di entrambi nella teoria economica e nell’insegnamento. Ma, fondamentalmente, credeva che ognuno di essi fosse adatto a audience molto diverse: in breve, le equazioni erano per gli specialisti; le immagini per le masse.Il primo lavoro importante di Samuelson fu Foundations of Economic Analysis, libro ricavato dalla sua tesi di dottorato. Pubblicato nel 1947, era indirizzato al teorico irriducibile e al matematico intransigente: le equazioni, pensava Sa-muelson, dovrebbero essere la lingua degli economisti professionisti, per dare un taglio al pensiero confuso e sostituirlo con la precisione scientifica. Scrisse poi il suo secondo libro, invece, per un pubblico completamente diverso, e so-lo a causa delle mutate circostanze.Alla fine della guerra, le iscrizioni ai college statunitensi crebbero grazie all’af-flusso di centinaia di migliaia di ex militari tornati a casa in cerca dell’istru-zione che non avevano potuto avere e del lavoro di cui avevano disperato bi-sogno. Molti scelsero di studiare ingegneria – essenziale per la ricostruzione post bellica – e fu loro richiesto di inparare un po’ di economia come parte del piano di studi. A quell’epoca, Samuelson era un professore trentenne del MIT, un’autoproclamato “impertinente sbarbato pronto a far carriera in una teoria esoterica”. Ma il suo capo dipartimento, Ralph Freeman, aveva per le mani un problema: 800 studenti di ingegneria del MIT avevano iniziato un corso obbligatorio di economia e non stava andando bene. Samuelson rievo-cò la conversazione che ebbe luogo quando Freeman un giorno apparve nel suo ufficio e si richiuse la porta alle spalle. “Lo odiano”, esordì Freeman. “Ab-biamo provato di tutto. E non è servito... Paul, ti prenderesti una pausa di un semestre o due? Scrivi un testo che possa piacere agli studenti. Se lo gradi-scono, la tua sarà una buona economia. Ometti quello che vuoi. Sii sintetico quanto vuoi. Qualsiasi cosa partorirai sarà un grande miglioramento rispetto alla situazione attuale.”31

Era, disse Samuelson, un’offerta che non poteva rifiutare, e il testo che scrisse nei tre anni successivi – intitolato semplicemente Economics divenne il classico che lo rese famoso per sempre.La cosa affascinante è che la strategia che scelse ricalcava i passi della chiesa cat-tolica romana medievale. Prima dell’avvento della stampa, la chiesa ha usato due metodi decisamente diversi per diffondere la sua dottrina. Ai pochi istruiti – monaci, preti e studiosi – era richiesto di leggere la Bibbia in latino, trascri-vendo i suoi versi uno a uno. Ma alle masse di analfabeti le storie della Bibbia venivano insegnate mediante immagini, dipinti e affreschi sui muri delle chie-se e attraverso le vetrate decorate. Si rivelò essere una strategia comunicativa di grande efficacia. Samuelson fu altrettanto furbo: mettendo da parte le equazio-ni per specialisti, egli si affidò completamente a diagrammi, grafici e tracciati per creare il suo corso di economia a “servizio completo” per le masse. E poi-

42 l’economia della ciambella

ché la sua audience principale fu un gruppo di ingegneri, adottò uno stile vi-suale che avrebbero trovato familiare, disegnato secondo la tradizione dell’in-gegneria meccanica e della meccanica dei fluidi. Qui sopra, per esempio, vede-te un’immagine tratta dalla prima edizione del suo libro di testo, che mostra il denaro circolante nell’economia con gli investimenti iniettati per riempire il circuito. Divenne il suo diagramma più famoso – conosciuto come “Diagram-ma di Flusso Circolare”– ed era chiaramente basato sulla metafora dell’acqua che scorre in tubi idraulici.32

Il suo libro di testo ricco di immagini fu un successo, e quello che funzionò con gli ingegneri funzionò anche per gli altri. Economics fu adottato da professori universitari in tutto il paese, e poi oltremare. Diventò il libro di testo america-no più venduto – di qualsiasi disciplina – per quasi trent’anni. Tradotto in più di quaranta lingue, vendette quattro milioni di copie in tutto il mondo nell’ar-co di sessant’anni, fornendo a generazioni di studenti tutto ciò che avevano bisogno di sapere di Econ 101.33 A ogni edizione Samuelson aggiungeva altre immagini: i 70 diagrammi della prima edizione si moltiplicarono fino ai quasi 250 dell’undicesima edizione del 1980. Samuelson aveva ben chiaro la capaci-tà di influenza delle immagini, e la profuse sulle matricole. “Non mi importa

La raffigurazione di Samuelson del diagramma di flusso circolare del 1948

chi vuol essere un economista? 43

chi scrive le leggi di una nazione – o chi redige i suoi trattati più importanti – finché posso scrivere i suoi libri di testo di economia”, dichiarò negli anni suc-cessivi. “Il primo messaggio è quello privilegiato, perché si imprime nella tabu-la rasa del neofita nel momento in cui è più impressionabile.”34

una lunga lotta per fuggire

Paul Samuelson non fu l’unico ad apprezzare la straordinaria influenza eserci-tata da chi decide da dove iniziamo. Anche il suo insegnante e mentore, Joseph Schumpeter, si rese conto che le idee tramandateci possono essere molto diffi-cili da abbandonare, ma era determinato a farlo, per lasciare spazio alle sue in-tuizioni. Come scrisse nel suo History of Economic Analysis del 1954,

In pratica tutti cominciamo la nostra ricerca dal lavoro dei nostri pre-decessori, difficilmente cioè partiamo da zero. Ma supponete che fossimo partiti da zero, quali passi avremmo dovuto intraprendere? Ovviamen-te, al fine di essere in grado di sottoporci qualsiasi problema, dovremmo prima visualizzare uno specifico gruppo di fenomeni coerenti come me-ritevole del nostro sforzo analitico. In altre parole, lo sforzo analitico è necessariamente preceduto da un atto cognitivo preanalitico che forni-sce la materia prima per lo sforzo analitico. In questo libro, questo atto cognitivo preanalitico sarà chiamato “visione”.

Gli era chiaro, comunque, che creare una nuova visione preanalitica non avreb-be mai potuto essere un processo imparziale, e aggiunse:

Il primo compito consiste nel verbalizzare la visione o concettualizzar-la... in uno schema o in un’immagine più o meno ordinata... Dovreb-be essere perfettamente chiaro che c’è un grande varco che permette all’i-deologia di entrare in questo processo. Di fatto, essa entra al livello più basso, nell’atto cognitivo preanalitico del quale abbiamo parlato. Il la-voro analitico parte dal materiale fornito dalla nostra visione delle co-se, e questa visione è ideologica quasi per definizione.35

Altri studiosi hanno usato parole differenti per esprimere un concetto simile. Il concetto di visione preanalitica di Schumpeter fu ispirato dalle idee del so-ciologo Karl Manheim, che sul finire degli anni Venti osservò che “ogni pun-to di vista è peculiare di una situazione sociale”, e divulgò il concetto secon-do cui ognuno di noi ha una sua propria “visione del mondo” che agisce come

44 l’economia della ciambella

una lente attraverso la quale interpreta ciò che lo circonda. Negli anni Sessan-ta, Thomas Kuhn capovolse la ricerca scientifica evidenziando che “gli scien-ziati lavorano basandosi su modelli acquisiti attraverso l’istruzione... spesso sen-za minimamente sapere o avere bisogno di sapere quali caratteristiche hanno conferito a questi modelli lo status di paradigmi della comunità”.36 Negli anni Settanta, il sociologo Erving Goffmann introdusse il concetto di “frame” – nel senso che ognuno di noi vede il mondo attraverso una cornice mentale – per dimostrare che il modo in cui diamo un senso all’accozzaglia delle nostre espe-rienze determina quello che riusciamo a vedere.37

Visione preanalitica. Visione del mondo. Paradigma. Frame. Sono concetti im-parentati. Più che il concetto specifico che viene scelto, conta rendersi conto che ce n’è uno che viene messo al primo posto, perché così si ha il potere di met-terlo in dubbio e di cambiarlo. In economia, questo è un invito aperto a guar-dare di nuovo i modelli mentali che impieghiamo per descriverla e compren-derla. Ma non è una cosa facile da fare, come scoprì Keynes. Dare forma alla sua rivoluzionaria teoria negli anni Trenta fu, per sua stessa ammissione, “una lotta per fuggire dagli schemi abituali di pensiero ed espressione... La difficoltà non sta nelle nuove idee, ma in quelle vecchie che si ramificano, in quelli che sono stati educati come noi, in tutti gli angoli della mente”.38

La possibilità di liberarsi dai vecchi modelli di pensiero è allettante, ma natu-ralmente ci sono alcune riserve. Primo, bisogna sempre ricordare che “la map-pa non è il territorio”, come disse il filosofo Alfred Korzybski: un modello non può essere altro che un modello, una necessaria semplificazione del mondo, e non dovrebbe mai essere scambiato per ciò che esso rappresenta nel mondo re-ale. Secondo, non esiste una visione preanalitica corretta, un paradigma veri-tiero o un contesto perfetto che aspetta di essere scoperto. Stando alle calzan-ti parole dello statistico George Box, “tutti i modelli sono sbagliati, ma alcuni sono utili”.39 Ripensare l’economia non significa trovare quella giusta (perché non esiste), ma sceglierne o crearne una che sia il più possibile utile al nostro scopo – che rispecchi il contesto in cui ci troviamo, i valori che custodiamo e gli obiettivi che abbiamo. Siccome il contesto, i valori e gli obiettivi dell’uma-nità si evolvono continuamente, altrettanto dovrebbe fare il modo in cui con-cepiamo l’economia.Potrebbe anche non esserci un frame perfetto che aspetta di essere trovato. Tut-tavia, secondo George Lakoff è assolutamente essenziale avere un frame alter-nativo efficace se è necessario ridimensionare quello vecchio. Il semplice rifiu-to del frame dominante servirà solo, ironicamente, a rafforzarlo. E senza un’al-ternativa da offrire, ci sono poche possibilità di ingaggiare, e ancora meno di vincere, la battaglia delle idee. Da anni Lakoff richiama l’attenzione sul pote-re che il frame verbale ha di modellare il dibattito politico ed economico. Egli

chi vuol essere un economista? 45

evidenzia, come esempio, il popolare contesto dell’“alleggerimento fiscale” uti-lizzato dai conservatori statunitensi: in due sole parole, esso dipinge le tasse co-me una sofferenza, un fardello che deve essere alleviato da un eroico salvatore. Come dovrebbero rispondere i progressisti? Preferibilmente non argomentan-do “contro l’alleggerimento fiscale” perché questo rafforzerebbe semplicemen-te il frame (dopotutto, chi potrebbe essere contrario a un alleggerimento fisca-le?). Ma, sostiene Lakoff, troppo spesso i progressisti esprimono la loro visione sulle tasse con spiegazioni prolisse, proprio perché non è stato sviluppato un frame sintetico alternativo.40 Hanno un disperato bisogno di una frase di due parole in cui condensare la loro visione e con la quale contrastare quella oppo-sta. Di fatto il frame di “giustizia fiscale” – che evoca istantaneamente la co-munità, la correttezza e la responsabilità – si è rafforzato internazionalmente a mano a mano che gli scandali globali sui paradisi e sull’evasione fiscale si sono guadagnati i titoli dei notiziari. L’avere un sistema potente per contestualizza-re l’argomento ha senza dubbio aiutato a canalizzare l’indignazione delle per-sone e a catalizzare una diffusa richiesta di cambiamento.41

Proprio come il lavoro di George Lakoff ha rivelato il potere del contesto ver-bale nella vita politica ed economica, lo scopo di questo libro è rivelare il po-tere del contesto visivo, e di usarlo per trasformare il pensiero economico del XXI secolo. Mi resi conto di quanto è grande il potere del contesto visivo solo nel 2011 quando disegnai per la prima volta la Ciambella e rimasi sbalordita e affascinata dalla risposta internazionale che suscitò. Nell’arena dello sviluppo sostenibile divenne presto un’icona utilizzata indifferentemente da attivisti, go-verni, società e accademici. Persone coinvolte nei processi di negoziazione dei Sustainable Development Goals del 2015 – i 17 obiettivi concordati per map-pare il progresso umano – mi dissero che, nei meeting notturni per la redazio-ne del testo finale, l’immagine della Ciambella era sul tavolo come promemo-ria degli obiettivi globali a cui i SDG puntavano. Molte persone mi hanno det-to che la Ciambella ha reso visibile il modo in cui hanno sempre pensato allo sviluppo sostenibile – semplicemente non lo avevano mai visto prima. Quello che più mi ha colpito è stato l’impatto che l’immagine ha avuto nell’innescare nuovi modi di pensare: ha contribuito a rinvigorire i vecchi dibattiti e a farne scaturire nuovi, offrendo al contempo una visione positiva di un futuro econo-mico per cui valga la pena di lottare.I contesti visivi, l’ho compreso gradualmente, sono importanti tanto quanto quelli verbali. Questa consapevolezza mi ha indotto a riesaminare le immagini che hanno dominato la mia educazione economica, e per la prima volta ho vi-sto quanto fortemente abbiano costruito l’approccio mentale che mi è stato in-segnato. Al centro del pensiero economico mainstream ci sono alcuni diagram-mi che hanno silenziosamente ma potentemente contestualizzato il modo in cui

46 l’economia della ciambella

ci insegnano a capire il mondo economico – e sono tutti obsoleti, frutto di una visione limitata o assolutamente sbagliati. Possono essere invisibili, ma condi-zionano profondamente i modi in cui pensiamo all’economia nelle classi, nei governi, nelle assemblee, nelle notizie e per la strada. Se vogliamo scrivere una nuova storia economica, dobbiamo disegnare nuove immagini capaci di rele-gare quelle vecchie alle pagine dei libri di testo del secolo scorso.Cosa succede, allora, se non avete mai studiato economia, o posato lo sguar-do sulle sue immagini più potenti? Ai principianti dico: non prendetevi in gi-ro pensando che, in quanto tali, possiate restare immuni dalla loro influenza. Questi diagrammi condizionano così tanto il modo in cui economisti, politi-ci e giornalisti parlano dell’economia che tutti finiamo per evocarli con le no-stre parole anche se non li abbiamo mai visti. Prendiamo i cosiddetti “mecca-nismi di mercato”, per esempio, o la spinta all’“efficienza economica” e l’inar-restabile perseguimento della “crescita”. Queste parole sono semplicemente il frame verbale del pensiero economico dominante, e ognuna di esse è costrui-ta su un frame visuale molto più profondo. Quindi non crediate di poter sfug-gire alla loro influenza: nessuno può farlo. Ma allo stesso tempo, come neofiti dell’economia, consideratevi fortunati per il fatto che Paul Samuelson non ha ancora inciso la prima frase sulla vostra “tabula rasa”. Il fatto che non vi siate mai sorbiti un testo sull’economia, dopo tutto, può rivelarsi un vantaggio: ave-te meno zavorra di cui liberarvi, meno graffiti da grattare via. A volte, non es-sere istruiti può essere un valore intellettuale – e questa è una di quelle volte.

sette mosse per pensare come un economista del xxi secolo

Sia che vi consideriate un economista veterano o principiante, è ora di rivelare i graffiti economici che stazionano nelle nostre menti e, se quello che scopri-rete non vi piacerà, grattatelo via o, meglio ancora, ridipingete tutto con nuo-ve immagini molto più utili alle nostre necessità e ai nostri tempi. Il resto di questo libro presenta sette modi per pensare come un economista del XXI se-colo, rivelando per ognuno dei sette modi l’immagine scorretta che ha occu-pato le nostre menti, come è diventata così potente, e quale danno ha arreca-to. Ma è finito il tempo della semplice critica, ragion per cui qui ci si concen-tra sulla creazione di nuove immagini che catturino i principi essenziali che ci devono guidare ora. I diagrammi in questo libro mirano a riassumere il salto dal vecchio al nuovo pensiero economico. Presi insieme essi delineano – ab-bastanza letteralmente – una nuova immagine generale per gli economisti del XXI secolo. Quindi questo è un viaggio nel vortice di idee al cuore dell’Eco-nomia della Ciambella.

chi vuol essere un economista? 47

Primo, cambiare l’obiettivo. L’economia è rimasta fissa per oltre settant’anni sul Pil, o Prodotto interno lordo, come principale misura del suo progresso. Questa fissazione è stata usata per giustificare estreme diseguaglianze nel reddito e nel-la ricchezza, accoppiate a un degrado del mondo vivente mai visto prima. Per il XXI secolo è necessario un obiettivo ben più grande: rispettare i diritti uma-ni di ognuno nei limiti del pianeta che ci dà la vita. E questo obiettivo è sinte-tizzato nell’immagine della Ciambella. La sfida ora consiste nel creare economie – dal livello locale a quello globale – che contribuiscano a portare tutta l’uma-nità nello spazio sicuro ed equo della Ciambella. Invece di perseguire la cresci-ta infinita del Pil, è ora di scoprire come prosperare in equilibrio.

Secondo, vedere l’immagine complessiva. L’economia mainstream raffigura tut-ta l’economia in un solo diagramma, il flusso circolare del reddito. Le sue limi-tazioni, inoltre, sono state usate per rafforzare la narrativa neoliberista sull’ef-ficienza del mercato, l’incompetenza dello stato, la vita domestica familiare, e la tragedia dei beni comuni. Dobbiamo ridisegnare l’economia da capo, inte-grandola nella società e nella natura, e fare che sia alimentata dal Sole. Una nuo-va raffigurazione stimola nuove narrative – riguardo al potere del mercato, al-la partecipazione dello stato, al ruolo centrale del nucleo famigliare, e alla cre-atività dei beni comuni.

Terzo, coltivare la natura umana. Al centro dell’economia del XX secolo c’è il ritratto dell’uomo economico razionale: ci ha raccontato che siamo egoisti, iso-lati, calcolatori, con dei gusti stabili, e che dominiamo la natura – e il suo ri-tratto ha modellato quello siamo diventati. Ma la natura umana è molto più ricca di così, come rivelano i primi abbozzi del nostro nuovo autoritratto: sia-mo sociali, interdipendenti, vicini, fluidi nei valori e dipendenti dal mondo vi-vente. In più, è effettivamente possibile coltivare la natura umana in modi che ci daranno una possibilità molto più grande di entrare nello spazio sicuro ed equo della Ciambella.

Quarto, acquisire comprensione dei sistemi. L’emblematico andirivieni dei riforni-menti del mercato e delle curve della domanda è il primo diagramma che ogni studente di economia incontra, ma esso è radicato in metafore fuorvianti, risa-lenti al XIX secolo, sull’equilibrio meccanico. Un punto di partenza molto più intelligente per comprendere la dinamicità dell’economia è il pensiero sistemi-co, riassunto in un paio di cicli di feedback. Porre questa dinamicità al centro dell’economia apre le porte a molte nuove intuizioni, dai cicli di espansione e contrazione dei mercati finanziari alla natura autorinforzante della disegua-glianza economica e ai punti di non ritorno dei cambiamenti climatici. È ora di

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smettere di cercare le inafferrabili leve di comando dell’economia e di comin-ciare a gestirla come un sistema complesso in continua evoluzione.

Quinto, progettare per distribuire. Nel XX secolo, una semplice curva – la cur-va di Kuznets – diffonde un potente messaggio sulla diseguaglianza: deve an-dare peggio prima di poter andare meglio, e la crescita (alla fine) migliorerà la situazione. Ma la diseguaglianza, si scopre, non è una necessità economi-ca: è un errore di progettazione. Gli economisti del XXI secolo riconosce-ranno che ci sono molti modi di progettare le economie per fare che siano molto più distributive riguardo al valore che generano – un’idea meglio rap-presentata come una rete di flussi. Questo significa andare oltre la ridistri-buzione del reddito fino alla ridistribuzione della ricchezza, in particolare la ricchezza che giace nel possesso di terreni, imprese, tecnologie e conoscenze e nel potere di creare denaro.

Sesto, creare per rigenerare. La teoria economica ha per lungo tempo conside-rato un ambiente “pulito” un bene di lusso, che solo i benestanti possono per-mettersi. Questa visione è stata rafforzata dalla Curva ambientale di Kuznets, che suggeriva ancora una volta che l’inquinamento deve peggiorare prima di migliorare, e che la crescita (alla fine) avrebbe portato un miglioramento. Ma non c’è nessuna legge del genere: il degrado ecologico è semplicemente il risul-tato di una progettazione industriale degenerativa. Questo secolo ha bisogno di un pensiero economico che scateni la progettazione rigenerativa per creare un’economia circolare – non lineare – per restituire agli esseri umani il ruolo di partecipanti a pieno titolo ai processi ciclici della vita sulla Terra.

Settimo, essere agnostici riguardo alla crescita. C’è un diagramma della teoria eco-nomica così pericoloso da non essere mai realmente tracciato: l’andamento a lungo termine della crescita del Pil. L’economia mainstream vede la crescita in-finita dell’economia come un obbligo, ma niente in natura cresce per sempre e il tentativo di opporsi a questa tendenza sta sollevando questioni serie nei paesi ad alto reddito ma a bassa crescita. Potrebbe non essere difficile abbandonare la crescita del Pil come obiettivo economico, ma sarà molto più difficile supe-rare la nostra dipendenza da essa. Oggi abbiamo economie che hanno bisogno di crescere, che ci facciano prosperare o meno: quello di cui abbiamo bisogno sono economie che ci facciano prosperare, che crescano o meno. Questo ribal-tamento del punto di vista ci spinge a essere agnostici riguardo alla crescita e a capire come le economie che oggi dipendono finanziariamente, politicamente e socialmente dalla crescita possano esistere con o senza di essa.

chi vuol essere un economista? 51

*

Questi sette modi di pensare non delineano specifiche prescrizioni o correzio-ni istituzionali alle politiche. Non promettono risposte immediate sul cosa fa-re dopo, e non rappresentano sicuramente la risposta completa. Ma sono con-vinta che siano di importanza fondamentale per il modo radicalmente diverso di pensare all’economia che serve nel XXI secolo. I loro principi e schemi co-stituiranno l’equipaggiamento dei nuovi pensatori economici – e dell’econo-mista che è in ciascuno di noi – con il quale cominciare a creare un’economia che dia a tutti la possibilità di prosperare. Data la velocità, ampiezza e incertez-za del cambiamento che abbiamo di fronte nei prossimi anni, sarebbe avventa-to tentare di prescrivere ora tutte le politiche e le istituzioni che saranno adatte al futuro: la prossima generazione di pensatori e attori sarà ben posizionata per sperimentare e scoprire cosa funziona a mano a mano che il contesto continua a cambiare. Quello che possiamo fare ora – e dobbiamo farlo bene – è mettere insieme il meglio delle idee emergenti, e creare così un approccio mentale eco-nomico che non sia mai fisso ma in continua evoluzione.Il compito del pensiero economico nei decenni a venire sarà quello di mettere insieme concettualmente e praticamente questi sette modi di pensare – e di ag-giungerne molti altri. Abbiamo solo iniziato a reinventare l’economia del XXI secolo. Unitevi a questo viaggio.

52 l’economia della ciambella

note

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