Le ripetute sui 60 metri non sono resistenza alla velocità

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LE RIPETUTE SUI 60 METRI NON SONO RESISTENZA ALLA VELOCITA’ Ok, il titolo sembrerebbe un po’ provocatorio, ma più passa il tempo e più i dubbi su questa cosa, “la resistenza alla velocità”, mi attanagliano. Non sono un fisiologo, né un tecnico, quindi i miei sono solo una serie di dubbi di un principiante che non si riescono a fugare nonostante le continue riaffermazioni di principio in materia da più voci. Ora, dalla mia metto sul tavolo 30 anni di allenamenti di sprint con le più disparate metodologie e l’uso più vasto di strumenti di allenamento immaginabile e quindi sfruttando un’opportunità che davvero in pochi hanno avuto nella propria carriera, sia da atleta che da tecnico: un’esperienza diretta e cosciente per tantissime stagioni. Mi pongo un pelo sopra all’esperienza dell’atleta evoluto (ma che non ha sufficiente autopercezione a causa delle stagioni di sprint di differenza con il sottoscritto) e quella del tecnico cui invece difetta quasi completamente l’aspetto esperienziale fisico diretto, dovendo basarsi sui feedback con atleti che spesso non sanno descrivere le proprie sensazioni. Solo questo: per il resto ho solo da imparare da tutti. Nel ragionare su come andar più veloce (opera assai difficile e sempre più improbabile) mi sono chiesto per prima cosa: ma cosa alleno quando voglio allenare la “resistenza alla velocità”? Meglio ancora: che sistema energetico vado a sollecitare, provocare, intaccare, quando intendo fare resistenza alla velocità, che nella etimologia di chi la definisce così, richiamerebbe un allenamento finalizzato a migliorare le doti di “tenuta” nello sprint, quindi nella seconda parte di una gara di velocità. O sbaglio? Partiamo dalla base. Quali sono i sistemi energetici dell'organismo? Basta guardare su internet, è facile. C'è quello anaerobico-alattacido, quello anaerobico-lattacido e quello aerboico. Sono solo 3. Ora, molto ingenuamente mi son poi chiesto: alleno davvero la "resistenza alla velocità " quando corro per 4x4x60 volte i 60? O 20 volte i 60 metri con poco recupero? O addirittura 30 volte i 60 metri? O come scrive Vittori in un lavoro del 1991, 5x5x60 metri con 1’30” di recupero?

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LE RIPETUTE SUI 60 METRI NON SONO RESISTENZA ALLA VELOCITA’

Ok, il titolo sembrerebbe un po’ provocatorio, ma più passa il tempo e più i dubbi su questa cosa, “ la resistenza alla velocità”, mi attanagliano. Non sono un fisiologo, né un tecnico, quindi i miei sono solo una serie di dubbi di un principiante che non si riescono a fugare nonostante le continue riaffermazioni di principio in materia da più voci.

Ora, dalla mia metto sul tavolo 30 anni di allenamenti di sprint con le più disparate metodologie e l’uso più vasto di strumenti di allenamento immaginabile e quindi sfruttando un’opportunità che davvero in pochi hanno avuto nella propria carriera, sia da atleta che da tecnico: un’esperienza diretta e cosciente per tantissime stagioni. Mi pongo un pelo sopra all’esperienza dell’atleta evoluto (ma che non ha sufficiente autopercezione a causa delle stagioni di sprint di differenza con il sottoscritto) e quella del tecnico cui invece difetta quasi completamente l’aspetto esperienziale fisico diretto, dovendo basarsi sui feedback con atleti che spesso non sanno descrivere le proprie sensazioni. Solo questo: per il resto ho solo da imparare da tutti.

Nel ragionare su come andar più veloce (opera assai difficile e sempre più improbabile) mi sono chiesto per prima cosa: ma cosa alleno quando voglio allenare la “resistenza alla velocità”?

Meglio ancora: che sistema energetico vado a sollecitare, provocare, intaccare, quando intendo fare resistenza alla velocità, che nella etimologia di chi la definisce così, richiamerebbe un allenamento finalizzato a migliorare le doti di “tenuta” nello sprint, quindi nella seconda parte di una gara di velocità. O sbaglio?

Partiamo dalla base. Quali sono i sistemi energetici dell'organismo? Basta guardare su internet, è facile.

C'è quello anaerobico-alattacido, quello anaerobico-lattacido e quello aerboico. Sono solo 3.

Ora, molto ingenuamente mi son poi chiesto: alleno davvero la "resistenza alla velocità" quando corro per 4x4x60 volte i 60? O 20 volte i 60 metri con poco recupero? O addirittura 30 volte i 60 metri? O come scrive Vittori in un lavoro del 1991, 5x5x60 metri con 1’30” di recupero?

Secondo me credere che allenando una caratteristica, questa caratteristica migliorerà, può trarre in qualche caso in errore. Non sempre c’è un rapporto univoco di cause-effetti nel nostro organismo.

Se corro per molti secondi, sforando nei minuti e nelle ore, e lo ripeto nel tempo, sarò in grado di correre più a lungo. Se alzo sempre più pesi in palestra, aumenterò le mie capacità di alzare pesi. Ok, “culturalmente logico” e… la base di quasi tutte le filosofie di allenamento.

Chissà perché, però, a pensare alla resistenza alla velocità, più ne ho fatta nella mia carriera e meno ho resistito nelle fasi finali delle gare di velocità. Insomma, non era quello che mi faceva migliorare. Com’è possibile quindi che non succeda quello che mi aspetto da quell’allenamento, eseguito anche in quantità industriali?

Quindi mi documento, e scopro che le reazioni legate all’attivazione e immediata depletazione dell’ATP (quelle legate all'energia a rilascio immediato, il propellente “nitro”) durano solo 5 o 6 miseri secondi, che magari gli atleti evoluti o i top-sprinter possono portare anche a "timing" più elevati. C’è chi dice infatti che i migliori arrivino anche sugli 8 o 10 secondi. I miei tempi (manuali e presi in piedi) sono sotto i 7”0. Quindi? Quindi per quasi tutta la prova utilizzo il propellente dell’ATP? Mmm….

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A questo punto mi prende il dubbio amletico: ma scusate… se ripeto esercitazioni come le serie infinite di 60 metri di cui tutti gli sprinter italiani si sono nutriti per decadi, mi dite che “resistenza” alla velocità stimolo, se rimango sempre negli spazi e nei tempi propri dell’attivazione (e depletazione) dell’ATP?

Ma poi, sui libri, sulla rete, ovunque ci dicono che l’ATP ci serve per accelerare (ovvero per produrre energia allo stato brado per pochi secondi), e non già quindi per mantenere la velocità. Quindi? Cosa sto facendo quando corro all’infinito i miei 60 in 6”8?

A questo punto, sempre più perplesso, rifletto: stai a vedere che esiste un’energia di natura organica necessaria alla resistenza alla velocità, nella no-fly-zone oltre i 5 o 6 secondi di sforzo intensivo nello sprint! Deve esistere altrimenti non si spiegherebbe l’uso e l’abuso di questo metodo di allenamento come… “resistenza alla velocità”.

Ma subito dopo rivolgo un pensiero (l’ultimo) ai meno fortunati: infatti come la mettiamo con quelli forti-forti che si dice che possano arrivare a 8”-10” nel ciclo di produzione di ATP? A cosa gli servirà mai correre in 6”5 le ripetute, se sono tutti comodamente e pantofolamente contenuti in tempi in cui la depletazione delle scorte di ATP rimane ampiamente in una finestra temporale che non infrangeranno mai? Non staranno mica prendendo un granchio colossale, vero se con quelle prove intendessero abituarsi alla velocità?

Come dicevo, penso a quel punto che qualcuno abbia individuato un secondo sistema energetico da allenare per fare in modo che il nostro povero corpo lanciato alla massima intensità possa resistere il più possibile: dai, resistenza alla velocità!

Ma esiste questo secondo sistema?

Leggo che ti leggo, e non lo trovo. Torno sempre ai soliti tre.

Cioè, dopo che ho esaurito il mio propellente iniziale, il mio povero corpo innesca i serbatoi della fase anaerobica-lattacida. Apriti cielo!

I dubbi più atroci a quel punto mi assalgono: vorrebbe dire che mi metto a correre delle ripetute dei 60 per scoprire che la "resistenza alla velocità" alla fine potrebbe solo intaccare i processi anaerobici-lattacidi? E per soli 1" o 2" al massimo, ovvero oltre i miei tempi di depletazione dell’ATP (i top-sprinter, per favore, lasciamoli in pace)? Servirebbe quindi solo a sprinter molto scarsi che corrono in 9” le ripetute…

Mi sembra quasi un non-senso logico. Se proprio volessi aumentare la mie capacità lattacide (che sembra essere l’effetto perseguito inconsapevolmente di quell’allenamento), non era a quel punto più logico farsi delle ripetute dei 250/300 così da condizionare il mio corpo per molti più secondi? O sbaglio?

Torno alle mie ripetute dei 60. Cosa alleno sicuramente?

Probabilmente sto sprintando a tutti gli effetti (anche perchè sfido chiunque ad andare sotto l'85/90% del proprio massimale nelle ripetute… si corre sempre a pochi decimi dalle proprie prestazioni "top"). Quindi parrebbe più un lavoro di accelerazioni e quindi di ricerca della velocità massima, tradotto in termini pratici dedotti da quelli fisiologici.

Solo che, a differenza del lavoro specifico di velocità, lo sto facendo con l’idea di dover correrne tante e pure con poco recupero, ergo senza la necessaria concentrazione come farei con una bella tuonata sui 30… oppure senza pensare al drive (la vile accelerazione); la tecnica sarebbe secondaria rispetto all’obiettivo, che è quello di far fatica. Non è così, forse? La fatica è il metro di valutazione di questo lavoro, quando, a

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questo punto risottolineo il dubbio iniziale, ci sono aspetti del nostro corpo che non possono essere allenati direttamente, o non c’è un rapporto univoco causa-effetto.

Personalmente, anche confrontandomi con altri poveri sprinter di terza e quarta fascia, quando poi sprinto (sprintavo… confido di aver abbandonato questa forma di sudden death) per 16 o 20 volte, per volumi superiori al km, mi sembra di disintegrarmi progressivamente il sistema nervoso centrale e periferico, depletando drammaticamente le capacità di recupero successivo. Per giorni non riesco (riuscivo) a recuperarlo completamente, nonostante a livello fisico la fatica non fosse paragonabile ad altre tipologie di “lavori”.

Ora, in questa mia drammatica ricerca su “che demone si appropria di me quando faccio le ripetute sui 60”, un amico mi fornisce uno scritto di Carlo Vittori proprio sulla questione e che risale al 1991. Scritto successivo ad uno studio svolto in Scandinavia che avrebbe accertato che alla fine di un cosiddetto allenamento di “resistenza alla velocità” fosse stato registrato un sensibile innalzamento del livello di lattato. Non so se tale scritto sia stato in seguito superato da altri studi.

Vittori nell’articolo (La resistenza alla velocità… questa sconosciuta!) demonizza la scelta di diversi tecnici italiani del tempo (ma evidentemente l’articolo ebbe successo, perché in pochi cambiarono metodo di allenamento e tutt’oggi le ripetute sui 60 sono il minimo comune multiplo di tantissimi) per aver modificato l’utilizzo dello strumento della “resistenza alla velocità” proprio in seguito a questi studi. Costoro infatti (proprio in base alle risultanze scientifiche scandinave) ritennero un doppione fare ripetute sui 60 metri visto che i risultati fisiologici fornivano evidenze simili a quelle della resistenza lattacida (sui 150 e sui 200).

Innanzi tutto nell’articolo si disegna in cosa consisterebbe questo lavoro:

“…ripetizione di prove di corsa sui 60 metri in serie con partenza “in piedi” (previo sbilanciamento del corpo da dietro in avanti) con tempi che oscillassero tra il 92% (in fase iniziale di utilizzazione) ed il 95% (in fase finale) del tempo record sulla stessa distanza, ottenuto, nelle medesime condizioni d’avvio, nell’anno precedente. Il massimo di serie raggiunto era di 5, ciascuna di 5 ripetizioni con tempi di 2’ tra le prove e 7 fra le serie. Le varianti apportate nel proseguo degli anni, per creare un’ulteriore crescita di carico di lavoro, furono relative alla diminuzione dei tempi sia delle micropause (1’30”), sia delle macropause (5’), oltre alla sostituzione dei 6 metri con gli 80 metri limitatamente alle sole due ultime serie”. E ancora: “tale mezzo veniva utilizzato, mediamente, due volte la settimana, per la durata di due cicli di preparazione di ¾ settimane”.

Ora, il Prof Vittori spiega che quel mezzo di allenamento è stato utilizzato da molti, che è stato vincente, che è stato adottato da anni, ma non spiega il motivo che ne sta alla base, ma solo i risultati. Perché quindi fare così… fisiologicamente? Non lo dice. E spiega inoltre che le concentrazioni di lattato trovate dagli scandinavi sono la metà di quelle di un top sprinter (24/26 contro i 50 millimoli) e che la partenza in piedi consente di andar più veloci e quindi di risparmiare più energie. Quindi il lavoro non si sovrapporrebbe a quello di lactic power. E allora a cosa serve?

Ovvero, siccome mi sono lanciato nelle verifiche via internet di fisiologia, a mio parere vengono fornite non delle giustificazioni scientifiche come si riterrebbe di dover fare nell’inficiare un altro studio scientifico, ma semplicemente delle deduzioni personali. Per carità, legittime, ma sempre a-scientifiche. O sbaglio?

Alla fine però, da persona intelligente qual è, Vittori centra il problema:

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“Ma comunque si vogliano mettere le cose risulta piuttosto inequivocabile, per chi ha fatto molte esperienze con tale metodo, che non è la quantità di lattato accumulata il fattore limitante la prosecuzione di tale prestazione. L’atleta, infatti, alla fine di questo tipo di allenamento non presenta alcun sintomo riconducibile a quelli classici di un allenamento lattacido cioè crescita progressiva degli spasmi ai muscoli ischiocrurali, bensì avverte grande spossatezza e perdita di forza soprattutto negli arti inferiori e pesantezza alla testa: tutti segni conseguenti ad un forte sforzo nervoso. Per questo motivo mi sembra giusto allora, ed ancor più oggi, annoverare un simile metodo tra quelli che, sollecitando il sistema nervoso centrale, gli concedono una maggiore autonomia allo sforzo. Del resto è proprio la grande autonomia del sistema nervoso centrale, inteso come organismo di emissione di “salve di treni” di stimoli, a rendere possibile il mantenimento di elevati valori della velocità nella parte finale della gara, specialmente dei 200 metri”.

Non capisco, ma può essere solo il mio limite.

E vi spiego il mio dubbio: Vittori arriva ad individuare il problema (il grande sforzo nervoso, come mi sembra si possa dedurre da quello che ho scritto qui sopra) ma lo liquida con affermazioni per le quali è difficile trovare evidenze scientifiche. Peccato.

Ma le dinamiche organiche del sistema nervoso non sono analoghe a quelle dei muscoli o di altri tessuti umani, ovvero che allenandone la resistenza, si allenerebbe la "tenuta". O no? Faccio la mia piccola ricerca sulla rete, e le cellule nervose (le unità del sistema nervoso) risultano essere per gran parte cellule perenni. Ovvero, raggiunta la maturità, ci accompagnano fino al cappottino di legno. Quindi non ci sono processi organici duplicativi… da allenamento. Ma a questo punto, se non sono duplicabili (se non con processi particolari artificiali) sono “allenabili” queste cellule nervose?

Sapete una cosa? Non esiste alcuno studio su questo aspetto. Eppure dovrebbe essere il focus di una ricerca scientifica su uno sport di intensità: capire se ha senso “allenare” il sistema nervoso. Detta in altre parole: allenarsi allo stress, perché di questo stiamo parlando, ha senso? E perché tutti lo allenano se non sanno se è possibile farlo? Se almeno ci fosse uno studio in tal senso, ci metteremmo tutti il cuore in pace e sulla linea dei 60 a fare “navette” su “navette”, avanti e indietro, sui 60 metri.

Personalmente penso non sia saggio provocare nel tempo lo stress nervoso in questo modo: stressare il sistema nervoso parrebbe più utile ed efficace a dosi molto limitate (nel tempo, benchè non nell’intensità unitaria, come per dei 30 fotonici), e per consentire una sorta di attivazione progressiva dei recettori nervosi. Detto meglio: lo stress nervoso si dovrebbe provocare sì, ma con intensità massime benchè limitate e in dosi che ne consentano il recupero. Continuare a stressarlo magari non al massimo ma per più sedute, magari consecutive, porta proprio a questo: stress. Qui secondo me sta il vero “mago” del coaching: saper disciplinare il planning delle sedute intense, con quelle di rigenerazione-recupero. Ma questa è un’altra storia, che magari un giorno racconterò.

L’idea che mi son fatto a questo punto, è che in realtà, lungi dall’allenare la resistenza alla velocità, lo stress fornito da un lavoro intensivo sui 60 metri innalzi progressivamente la soglia di attivazione dell’ATP tra le sedute. Cioè: nel continuare a “sparare” decine di volte sprint in un singolo allenamento, provoco un disequilibrio chimico. Una sorta di eccito-tossicità data dalle continue correnti nervose che portano gli stimoli intensi/rapidi ai recettori: come non si può pensare che anche a livello elettrochimico non si verifichi dentro di noi un overflow organico?

Tutto questo si traduce nei giorni successivi nella necessità di utilizzare più potenziale (elettrochimico) di attivazione dell’ATP, per ottenere gli stessi risultati di attivazione motoria. E questa è forse la spiegazione perché spesso ci si senta le gambe “molli” prima di una gara o le sensazioni di stanchezza diffusa. O perché

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in allenamento si corrano i 60 in 6”6 e in gara in 7”50. Insomma, mozzarelle anziché delle jene: ci siamo brasati il sistema nervoso, cosa pretendiamo? Anche di essere delle molle?

Il corpo semplicemente reagisce alla tossicità nervosa, inibendo il sistema stesso per farlo tornare in equilibrio. Questo si è tipico del nostro organismo: ritrovare gli equilibri compromessi. Non mi sembra un’idea così bislacca detta così, anche se nessuno l’ha mai provato scientificamente (almeno… nella mia limitata conoscenza).

Ora, mi piacerebbe raccontare il mio concetto di resistenza alla velocità e gli strumenti che utilizzerei, ma forse sarebbe troppo a questo punto e magari qui sopra ho dimostrato fin troppe lacune.

Ci tengo a sottolineare che questo scritto non rappresenta assolutamente una trattazione scientifica e non ha la pretesa di esserlo. C’è chi ha studiato e fatto esperimenti per anni: io mi son solo posto dubbi sulla base della mia esperienza e dei miei risultati. Sono solo tanti dubbi personali (tradotti in convinzioni), che assieme ad altri che non ho scritto mi piacerebbe o che qualcuno confutasse o che ne discutesse.

Andrea Benatti