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1 Le relazioni sindacali e la contrattazione. Le relazioni sindacali. I soggetti delle relazioni sindacali, denominati "parti", sono portatori di distinti interessi: quello dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro e di sviluppo professionale e quello dell'Amministrazione ad incrementare e mantenere elevate l'efficienza, l'efficacia e la qualità dei servizi. Gli obiettivi comuni ad entrambe le parti sono quelli del contemperamento degli interessi e della prevenzione dei conflitti. Il sistema delle relazioni sindacali è improntato ai principi di correttezza, buona fede e trasparenza dei comportamenti. I contratti collettivi. Trattasi di accordi tra uno o più datori di lavoro e una o più organizzazioni di lavoratori, volti a stabilire il trattamento minimo garantito a questi ultimi e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali di lavoro stipulati sul territorio nazionale. A tal fine si distingue tra contratti unilateralmente sindacali, stipulati da un singolo datore di lavoro con l’organizzazione collettiva dei lavoratori, e contratti bilateralmente sindacali, stipulati da contrapposte associazioni sindacali di datori di lavoro, da un lato, e di prestatori di lavoro, dall’altro. Sono espressione di un generale potere di autoregolamentazione di interessi afferenti a soggetti di diritto privato, in quanto sia le organizzazioni imprenditoriali, sia le organizzazioni dei lavoratori che stipulano contratti collettivi di lavoro presentano connotati privatistici, avendo natura giuridica di associazioni non riconosciute. L’art. 39 Cost. attribuisce ai sindacati, riuniti in rappresentanze unitarie, ciascuno con un peso proporzionale agli iscritti, il potere di stipulare contratti con efficacia generale per tutta la categoria. Tale efficacia generalizzata è subordinata, peraltro, alla registrazione dell’associazione sindacale, attraverso la quale quest’ultima acquista la personalità giuridica. Tuttavia, l’art. 39 della Costituzione non ha trovato applicazione, poiché nessuna associazione sindacale ha mai provveduto a registrarsi. Per dare applicazione ai contratti ci si è quindi avvalsi dello strumento dei contratti di diritto comune, che caratterizzano l’esperienza giuridica italiana. Il loro contenuto è dato da clausole tendenti a determinare minimi di trattamento economico e normativo, per i contratti individuali di lavoro in corso e per quelli che devono essere ancora stipulati. Da questo punto di vista, i contratti collettivi di lavoro rientrano nella categoria dei contratti normativi, poiché le parti si accordano circa le condizioni cui si atterranno nella loro attività negoziale. Essi presentano anche una funzione obbligatoria, nelle clausole che consentono l’instaurazione di rapporti obbligatori facenti capo ai soggetti collettivi. Tali soggetti possono essere sia gli stessi che hanno stipulato i contratti, sia le loro articolazioni territoriali. I contratti stipulati tra il sindacato nazionale e la contrapposta organizzazione imprenditoriale, per es., creano rapporti obbligatori tra sindacato provinciale e associazione provinciale degli industriali. Per quanto concerne l’ambito di efficacia, poiché nell’ordinamento italiano il rapporto tra autonomia collettiva e individuale è regolato dal meccanismo dell’inderogabilità in peius, i contratti individuali non possono contenere elementi peggiorativi per il lavoratore rispetto ai contratti collettivi vigenti. Al limite potranno contenere disposizioni di maggior favore per il lavoratore (derogabilità in melius). Sotto il profilo soggettivo, i contratti hanno efficacia nei confronti dei soggetti che hanno conferito all’associazione il potere di rappresentanza, mediante iscrizione, e nei confronti dei soggetti firmatari

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Le relazioni sindacali e la contrattazione.

Le relazioni sindacali.

I soggetti delle relazioni sindacali, denominati "parti", sono portatori di distinti interessi: quello dei dipendenti al miglioramento delle condizioni di lavoro e di sviluppo professionale e quello dell'Amministrazione ad incrementare e mantenere elevate l'efficienza, l'efficacia e la qualità dei servizi. Gli obiettivi comuni ad entrambe le parti sono quelli del contemperamento degli interessi e della prevenzione dei conflitti. Il sistema delle relazioni sindacali è improntato ai principi di correttezza, buona fede e trasparenza dei comportamenti.

I contratti collettivi.

Trattasi di accordi tra uno o più datori di lavoro e una o più organizzazioni di lavoratori, volti a stabilire il trattamento minimo garantito a questi ultimi e le condizioni di lavoro alle quali dovranno conformarsi i singoli contratti individuali di lavoro stipulati sul territorio nazionale. A tal fine si distingue tra contratti unilateralmente sindacali, stipulati da un singolo datore di lavoro con l’organizzazione collettiva dei lavoratori, e contratti bilateralmente sindacali, stipulati da contrapposte associazioni sindacali di datori di lavoro, da un lato, e di prestatori di lavoro, dall’altro. Sono espressione di un generale potere di autoregolamentazione di interessi afferenti a soggetti di diritto privato, in quanto sia le organizzazioni imprenditoriali, sia le organizzazioni dei lavoratori che stipulano contratti collettivi di lavoro presentano connotati privatistici, avendo natura giuridica di associazioni non riconosciute. L’art. 39 Cost. attribuisce ai sindacati, riuniti in rappresentanze unitarie, ciascuno con un peso proporzionale agli iscritti, il potere di stipulare contratti con efficacia generale per tutta la categoria. Tale efficacia generalizzata è subordinata, peraltro, alla registrazione dell’associazione sindacale, attraverso la quale quest’ultima acquista la personalità giuridica. Tuttavia, l’art. 39 della Costituzione non ha trovato applicazione, poiché nessuna associazione sindacale ha mai provveduto a registrarsi. Per dare applicazione ai contratti ci si è quindi avvalsi dello strumento dei contratti di diritto comune, che caratterizzano l’esperienza giuridica italiana. Il loro contenuto è dato da clausole tendenti a determinare minimi di trattamento economico e normativo, per i contratti individuali di lavoro in corso e per quelli che devono essere ancora stipulati. Da questo punto di vista, i contratti collettivi di lavoro rientrano nella categoria dei contratti normativi, poiché le parti si accordano circa le condizioni cui si atterranno nella loro attività negoziale. Essi presentano anche una funzione obbligatoria, nelle clausole che consentono l’instaurazione di rapporti obbligatori facenti capo ai soggetti collettivi. Tali soggetti possono essere sia gli stessi che hanno stipulato i contratti, sia le loro articolazioni territoriali. I contratti stipulati tra il sindacato nazionale e la contrapposta organizzazione imprenditoriale, per es., creano rapporti obbligatori tra sindacato provinciale e associazione provinciale degli industriali. Per quanto concerne l’ambito di efficacia, poiché nell’ordinamento italiano il rapporto tra autonomia collettiva e individuale è regolato dal meccanismo dell’inderogabilità in peius, i contratti individuali non possono contenere elementi peggiorativi per il lavoratore rispetto ai contratti collettivi vigenti. Al limite potranno contenere disposizioni di maggior favore per il lavoratore (derogabilità in melius). Sotto il profilo soggettivo, i contratti hanno efficacia nei confronti dei soggetti che hanno conferito all’associazione il potere di rappresentanza, mediante iscrizione, e nei confronti dei soggetti firmatari

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dei contratti individuali che rinviano alla contrattazione collettiva. Tuttavia, al fine di estenderne l’ambito di applicazione, si è soliti far ricorso all’art. 36 Cost., secondo cui il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, sufficiente a garantire a sé e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa. La natura precettiva della norma determina la nullità assoluta di clausole contrastanti con tale principio. La quantificazione della retribuzione in questi termini è operata dal giudice, che utilizza i minimi retributivi contenuti nei contratti come parametri di riferimento.

I contratti collettivi del pubblico impiego. Trattasi di ccordi volti a stabilire un trattamento minimo garantito e le condizioni lavorative nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Con il d. lgs. 29/1993 la tradizionale supremazia delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei propri dipendenti è stata sostituita da un rapporto di tipo contrattuale. I contratti incidono quindi in maniera diretta e immediata sul rapporto di lavoro, senza bisogno di alcun atto di ricezione da parte della pubblica amministrazione, ma la loro stipulazione è affidata al rapporto di forza negoziale che si viene a stabilire tra le parti. La contrattazione collettiva riguarda tutte le materie attinenti il rapporto di lavoro e le relazioni sindacali e si sviluppa intorno a due livelli: contratti collettivi nazionali di comparto e contratti integrativi. A essi si affianca un livello intercompartimentale, costituito dai contratti o accordi quadro, che vertono su argomenti comuni a tutti i lavoratori e a tutte le amministrazioni. I contratti di comparto fanno riferimento a settori omogenei o affini, determinati mediante appositi accordi tra l’Agenzia per la rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione (ARAN) e le confederazioni che hanno nel comparto di riferimento una rappresentatività non inferiore al 5%, considerata la media tra dato associativo e dato elettorale. Le clausole contenute nei contratti, alla stregua dei contratti collettivi di diritto comune, disciplinano in via esclusiva l’aspetto relativo al trattamento economico dei dipendenti pubblici. Le pubbliche amministrazioni, in quanto equiparate ai datori di lavoro privati, hanno l’obbligo di garantire ai propri dipendenti i minimi tabellari previsti dai contratti stessi, osservando il principio di parità di trattamento. Le pubbliche amministrazioni stipulano, inoltre, contratti integrativi, nel rispetto delle materie e dei limiti prefissati dai contratti nazionali di comparto. Le procedure di contrattazione sono disciplinate dalla legge. I comitati di settore deliberano gli indirizzi per l’ARAN, che successivamente dà inizio alle trattative. Una volta raggiunta l’ipotesi di accordo, l’ARAN invia il testo contrattuale al comitato di settore, al fine di acquisirne il parere. Se il parere è negativo le trattative si riaprono; se è positivo l’ARAN trasmette i dati economici alla Corte dei Conti, che delibera entro 15 giorni. Se anche questo parere risulta positivo, l’ARAN procede a sottoscrivere l’accordo; in caso,

invece, di esito negativo, deve assumere tutte le iniziative necessarie a riportare gli oneri contrattuali nei vincoli di bilancio.

La contrattazione collettiva integrativa. La contrattazione collettiva integrativa si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti dai contratti collettivi nazionali, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono. Le pubbliche amministrazioni non possono sottoscrivere in sede decentrata contratti collettivi integrativi in contrasto con vincoli risultanti dai contratti collettivi nazionali o che comportino oneri non previsti negli

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strumenti di programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione. I contratti collettivi integrativi hanno durata quadriennale o comunque fino all'entrata in vigore del C.C.N.L. quadriennale successivo.

La contrattazione pubblica a seguito del D.lgs. 141/2011.

Con il d.lgs. n. 141/2011, il legislatore ha fornito chiarimenti interpretativi in ordine ad alcuni punti delicati del d.lgs. n. 150/2009, tra i quali sono ricompresi anche vari aspetti concernenti la contrattazione collettiva e più in generale le relazioni sindacali, con particolare riferimento alla reale portata ed alla data di decorrenza delle nuove regole. Con il d.lgs. 1 agosto 2011, n.141, recante modificazioni ed integrazioni al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n.150 in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni (pubblicato nella Gazz.Uff. 22 agosto 2011, n.194), è stata realizzata una limitata e circoscritta operazione di “restyling” della nuova disciplina in materia lavoro pubblico contenuta nel d.lgs.n.150/2009. L’art.2, comma 3, della legge delega 4 marzo 2009, n.15, come è noto, in analogia alle pregresse previsioni contenute anche nelle altre leggi deleghe in materia di lavoro pubblico n. 421/1992 e n. 59/1997, ha disposto che: “Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui al comma 1, il Governo può adottare eventuali disposizioni integrative e correttive, con le medesime modalità e nel rispetto dei medesimi principi e criteri”. Prima della scadenza del termine stabilito dalla legge, dunque, il Governo si è avvalso della possibilità di ritornare su alcuni punti della precedente regolamentazione contenuta nel d.lgs. n. 150/2009. Alla base di tale ulteriore intervento, come evidenziato nella relazione illustrativa del d.lgs. n. 141/2011, vi era sia la necessità di fornire chiarimenti certi, attraverso appunto lo strumento legislativo, in ordine alla reale portata ed alla data di decorrenza della efficacia di alcune disposizioni del suddetto decreto legislativo, al fine di garantire la correttezza dei comportamenti delle amministrazioni; sia

l’esigenza di adeguare i contenuti stessi di alcune altre disposizioni del medesimo decreto legislativo alle effettive esigenze di alcune particolari tipologie di amministrazioni, cosi come emerse nella fase di applicazione della riforma, in modo da assicurare la più ampia coerenza delle nuove regole con gli assetti organizzativi delle amministrazioni ed evitare, conseguentemente, ogni possibile intralcio o difficoltà nell’attuazione delle stesse. Gli interventi di “manutenzione” posti in essere dal Governo, anche se quantitativamente ridotti, hanno comunque una indubbia rilevanza sotto il profilo qualitativo, in considerazione delle significative innovazioni introdotte nella pregressa formulazione di alcune disposizioni del d.lgs. n. 150/2009, afferenti a materie di indubbia complessità e delicatezza: relazioni sindacali, limiti in materia di conferimento di incarichi dirigenziali presso gli enti locali, valutazione delle performances e fasce di merito, risorse aggiuntive connesse al cosiddetto “dividendo dell’efficienza”. Come si vede, si tratta di aspetti concernenti punti nodali della stessa riforma del lavoro pubblico operata con il d.lgs. n. 150/2009, rispetto ai quali le nuove norme, senza stravolgere o modificare in modo sostanziale il precedente assetto regolativo, intendono solo rimuovere quegli elementi di criticità riscontrati nella prima fase attuativa della stessa. Il nuovo decreto legislativo si compone di 6 articoli. In questa sede saranno oggetto di disamina solo gli artt. 5 e 6 in quanto più attinenti, direttamente o indirettamente, alla materia della contrattazione collettiva e più in generale delle relazioni sindacali.

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L’art. 5, comma 1. Poiché il d.lgs. n. 150/2009, con la profonda ridefinizione della linea di confine tra la competenza della legge e quella della contrattazione collettiva nella disciplina del rapporto di lavoro, era sicuramente destinato ad incidere significativamente sui comportamenti degli attori negoziali a livello decentrato, come sino ad allora posti in essere, il legislatore si era, all’epoca, preoccupato di prevedere anche un regime transitorio per consentire l’adeguamento dei contratti integrativi alle nuove regole. In base alla disciplina prevista (art.65, commi 1, 2 e 4, del d.lgs. n. 150/2009), dunque, le parti negoziali decentrate potevano adeguare i contenuti dei contratti integrativi vigenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009 alle previsioni dello stesso in materia di oggetto della contrattazione e di sistemi premiali e di incentivazione della produttività del personale (Titolo III del d.lgs. n. 150/2009), entro il termine del 31 dicembre 2010. Per il comparto delle Regioni e per quello delle Autonomie locali, invece, il legislatore ha previsto che l’adeguamento dovesse avvenire entro il 31 dicembre 2011. Ove, entro il 31.12.2010 ed entro il 31.12.2011 per il comparto Regioni-Autonomie locali, non fosse intervenuto l’adeguamento, era previsto che i medesimi contratti integrativi avrebbero cessato, comunque ed automaticamente, la loro efficacia rispettivamente dal 1° gennaio 2011 e dal 1° gennaio 2012. Proprio per le amministrazioni destinatarie del più ampio termine di adeguamento, nella prassi applicativa si sono registrati scostamenti. Infatti, proprio in relazione ad esso, in molti casi si è ritenuto, a livello decentrato, che la prevista ultroattività dei contratti vigenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009 (15.11.2009) riguardasse anche quelli sottoscritti oltre tale data ma comunque prima del 31.12.2011. Ciò nonostante che alcune indicazioni sulla limitazione della ultroattività ai soli contratti integrativi stipulati prima del 15.11.2009 fossero state fornite dal Dipartimento della funzione pubblica con le circolari n. 7/2010 e n. 7/2011. Stante questa situazione, in considerazione anche della complessa formulazione della disposizione legislativa ed al fine di evitare il reiterarsi di applicazioni distorte, con possibili problemi di contenzioso, il Governo ha optato per un nuovo intervento legislativo in materia, nella forma dell’interpretazione autentica (al fine di garantire la retroattività dello stesso) delle citate previsioni dell’art. 65, commi 1, 2 e 4, del d.lgs. n. 150/2009. Con l’art.5, comma 1, del d.lgs. n. 141/2011 si chiarisce definitivamente che l’ultroattività dei contratti collettivi integrativi, prevista dall’art.65, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009, opera solo nei confronti di quelli già “vigenti” al 15.11.2009, data di entrata in vigore del suddetto decreto. Conseguentemente, i contratti collettivi integrativi successivi alla predetta data dovevano e devono essere stipulati nel rispetto delle disposizioni contenute nel medesimo decreto legislativo, da ritenersi immediatamente efficaci, comprese le norme che prevedono la sostituzione automatica delle clausole contrattuali nulle, quelle di azione che attribuiscono poteri alla pubblica amministrazione nonché quelle che impongono ai medesimi contratti collettivi un contenuto obbligatorio.

L’art. 5, comma 2. La norma dà soluzione ad un problema particolarmente grave emerso sempre in sede di attuazione delle nuove previsioni del d.lgs. n. 150/2009: quello della immediata applicabilità o meno, dalla data della sua entrata in vigore, delle disposizioni del decreto concernenti la materia delle relazioni sindacali, con particolare riferimento alla contrattazione collettiva.

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In proposito, si deve ricordare che il legislatore, mentre per la contrattazione integrativa ha previsto un particolare regime transitorio per l’adeguamento dei contenuti della stessa alle nuove regole introdotte con la riforma (art. 65, comma 1, 2 e 4, del d.lgs. n. 150/2009), relativamente alla contrattazione nazionale si è limitato (art. 65, comma 5, del d.lgs. n. 150/2009) a disporre: “Le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso”. Proprio la stringatezza e genericità della formulazione della norma ha ingenerato, in qualche caso, il dubbio che le nuove regole in materia di possibili ambiti di intervento della contrattazione collettiva (e della concertazione) potessero trovare applicazione solo a seguito della sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali relativi alla tornata contrattuale successiva all’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009. Accettando tale tesi interpretativa, si perveniva alla conclusione di escludere ogni incidenza delle nuove regole sui contratti collettivi nazionali vigenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo. In tal modo, conseguenzialmente, si ammetteva che avrebbero continuato a trovare applicazione, fino ai futuri rinnovi contrattuali post riforma, con effetti vincolanti per le amministrazioni, tutte quelle clausole dei CCNL vigenti che demandavano alla contrattazione integrativa o alla concertazione, a livello decentrato, materie che, attenendo o all’organizzazione degli uffici o all’organizzazione del lavoro, in base al nuovo assetto delle relazioni sindacali definito dal d.lgs. n. 150/2009, non possono più costituire oggetto né di attività negoziale né di concertazione. Questa interpretazione si traduceva, sostanzialmente, nell’ammissione della possibilità della contrattazione collettiva nazionale di porre limiti alle esclusioni per essa previste dalla legge o, comunque, di rinviare, sine die, l’applicazione di questa, in contrasto con i principi dell’art. 97 della Costituzione. L’applicazione della legge, quindi, sarebbe stata demandata alle mutevoli considerazioni della futura contrattazione collettiva. Proprio per chiarire la effettiva portata delle previsioni del d.lgs. n. 150/2009, con specifico riferimento proprio alla diversa decorrenza applicativa delle nuove regole, il Dipartimento della funzione pubblica aveva già fornito alle pubbliche amministrazioni gli opportuni chiarimenti con la già citata circolare n. 7/2010. In particolare, relativamente ad alcune disposizioni, tra le quali vi sono anche quelle relative alle nuove materie oggetto di contrattazione collettiva nazionale, veniva affermato che, non essendo previsto dalla legge uno specifico termine di adeguamento, esse non potevano non operare che dal 15 novembre 2009, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/ 2009. Pertanto, da quella data, nei confronti dei contratti collettivi che disponevano in modo diverso trovavano applicazione i meccanismi di eterointegrazione contrattuale previsti dagli artt. 1339 e 1414, secondo comma, codice civile, ai sensi dell’art. 2, comma 3-bis, del d.lgs. n. 165/2001 (come modificato dall’art. 33 del d.lgs. n. 150/2009). In queste ipotesi, dunque, la norma contrattuale, anche nazionale, difforme (in quanto disciplinava direttamente o demandava alla contrattazione integrativa materie ora precluse) doveva ritenersi automaticamente sostituita da quella primaria contenuta nell’art. 5, comma 2 (come modificato dall’art. 34 del d.lgs. n. 150/2009), avente, ai sensi dell’art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, carattere imperativo e, quindi, di inderogabilità, al pari di tutte le norme del d.lgs. n. 165/2001. Pertanto, in tutte le materie riconducibili al citato nuovo art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, le forme di partecipazione sindacale, anche se già previste dai contratti nazionali, dovevano comunque considerarsi “retrocesse” alla sola informazione sindacale.

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A maggior ragione, secondo il Dipartimento della funzione pubblica, per dettato testuale ed esegesi sistematica, nelle materie oggetto di macro-organizzazione, nei cui margini è contenuta l’attività di micro-organizzazione ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, non potevano attivarsi forme di partecipazione sindacale diverse dall’informazione. La stessa circolare n. 7/2010 ha precisato che, comunque, resta fermo il vincolo, più pregnante, della consultazione sindacale sia pure nei casi previsti espressamente dall’art. 6, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001 (l'organizzazione e la disciplina degli uffici;la consistenza e la variazione delle dotazioni

organiche; la programmazione dei fabbisogni). Ulteriori chiarimenti nello stesso senso sono stati forniti dal medesimo Dipartimento della funzione pubblica anche con la circolare n. 7/2011. Ciò, peraltro, non è valso ad evitare l’insorgere di un significativo contenzioso al livello decentrato con le OO.SS. che, in quanto interessate a salvaguardare i precedenti assetti delineati dalla contrattazione collettiva vigente con riferimento agli ambiti sia della contrattazione integrativa sia della concertazione, hanno sostenuto dinanzi ai giudici del lavoro la tesi interpretativa dell’efficacia differita all’esito della futura contrattazione collettiva delle nuove regole del d.lgs. n. 150/2009. L’attenzione dei ricorrenti si incentrava, essenzialmente, proprio sulla formulazione testuale dell’art. 65, comma 5, del d.lgs. n. 150/2009 (Le disposizioni relative alla contrattazione collettiva di cui al presente decreto legislativo si applicano dalla tornata successiva a quella in corso) evidenziandosi che, in mancanza di un espresso regime transitorio, la norma doveva essere intesa in modo tale da armonizzarsi sistematicamente con le disposizioni dei commi precedenti del medesimo art. 65 ovvero nel senso che le norme del decreto che riguardano la contrattazione collettiva nazionale potevano trovare applicazione solo in riferimento ai contratti collettivi nazionali stipulati dopo l’entrata in vigore della riforma e non a quelli stipulali anteriormente. Su questo contenzioso, delicato proprio per le conseguenze limitative che ne potevano derivare sulla effettiva attuazione della riforma (soprattutto sul punto della immediata operatività delle norme sui poteri datoriali), si è registrato un andamento altalenante della giurisprudenza. Infatti, undici sentenze (Trib. Pesaro, 2 dicembre 2010; Trib. Cosenza 20 settembre 2010; Trib. Venezia

11 marzo 2011; Trib. Frosinone 14 marzo 2011; Trib. Catanzaro 18 marzo 2011; Trib. Verona 21 marzo

2011; Trib. Messina 10 maggio 2011; Trib. Genova 6 giugno 2011; Trib. Cagliari 15 giugno 2011; Trib.

Roma 1 luglio 2011; Trib. Tivoli, 11 agosto 2011) hanno sostenuto la tesi dell’immediata efficacia applicativa delle previsioni del d.lgs. n. 150/2009 in materia di contrattazione collettiva, in conformità alle indicazioni delle circolari del Dipartimento della funzione pubblica sopra richiamate; nove

pronunce, invece, sono intervenute nel senso dell’efficacia differita alla futura contrattazione nazionale (Trib. Torino 2 aprile 2010 e 28 giugno 2010; Trib. Salerno 18 luglio 2010; Trib. Pesaro 19 luglio 2010;

Trib. Lamezia Terme 7 settembre 2010; Trib. Trieste 5 ottobre 2010; Trib. Bologna 21 marzo 2011;

Trib. Oristano 10 maggio 2011; Trib. Nuoro 1 giugno 2011). Al fine di chiarire definitivamente la portata e gli effetti dell’art. 65, comma 5, del d.lgs. n. 150/2009, stante l’andamento altalenante della giurisprudenza in materia, suscettibile comunque di influire negativamente sull’attuazione della riforma, il legislatore è intervenuto direttamente sulla norma controversa. Con l’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 141/2011, infatti, viene data l’interpretazione autentica di tale norma, secondo la quale le disposizioni relative alla contrattazione collettiva nazionale, che si applicano dalla prossima tornata contrattuale, sono solo quelle concernenti il procedimento di approvazione dei contratti collettivi nazionali (stipulazione e controllo). Tutte le altre disposizioni del decreto, conseguentemente, sono da ritenersi immediatamente applicabili sin dalla sua entrata in vigore (comprese quelle sui poteri del datore di lavoro pubblico che

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sostituiscono alla vecchia concertazione dei provvedimenti organizzatori la mera informazione ai sindacati). A seguito di tale chiarimento interpretativo, viene definitivamente evidenziato che devono ritenersi pienamente efficaci, e quindi applicabili, sin dalla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, in particolare le norme di cui: - all’art. 33, modificativo dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001 (natura imperativa delle previsioni del d.lgs. n. 165/2001; deroghe alla riserva di contrattazione in materia di trattamento economico; sistema di etero – integrazione delle clausole contrattuali nulle); - all’art. 34, modificativo dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (nuovo ambito dei poteri unilaterali organizzativi e gestionali delle P.A.); - all’art. 54, comma 1, modificativo dell’art. 40 del d.lgs. n. 165/2001 (disposizioni in materia di competenza regolativa della contrattazione collettiva); - alle disposizioni di cui al Capo IV del Titolo IV in materia di contrattazione collettiva nazionale e integrativa.

L’art.6.

In tale articolo è toccata una materia che non è direttamente connessa alle relazioni sindacali o alla contrattazione collettiva, ma che sicuramente vi può essere ricondotta, anche se in via indiretta come vincolo alle sue prescrizioni. Infatti, viene dettata una particolare disciplina transitoria per la effettiva applicazione del sistema della differenziazione retributiva in fasce, di cui agli artt. 19, commi 2 e 3, e 31, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009. In materia, tuttavia, occorre preliminarmente richiamare i contenuti della significativa Intesa Governo – Confederazioni sindacali del 4 febbraio 2011. Stante il rinvio, disposto dall’art. 9, comma 17, della legge n. 122/2010 e poi dall’art.16 della legge n. 111/2011, fino al 31.12.2014, dei rinnovi contrattuali per il lavoro pubblico, al fine di garantire comunque un sistema di relazioni sindacali idoneo a perseguire condizioni di produttività ed efficienza del lavoro pubblico, tale Intesa ha previsto che: a) “…. le retribuzioni complessive, comprensive della parte accessoria, non devono diminuire per effetto dell’applicazione dell’art. 19 del d.lgs. n. 150/2009”….; b) “a tale scopo per l’applicazione dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009 potranno essere utilizzate esclusivamente le risorse derivanti dall’applicazione del comma 17 dell’art. 61 del d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni, dalla legge n. 133/2008 (c.d. dividendo dell’efficienza)”. Inoltre, nella medesima Intesa, “Il Governo si impegna a definire entro 15 giorni dalla data di sottoscrizione del presente accordo, secondo le procedure previste dal decreto legislativo 165/2001, un atto di indirizzo all’ARAN per la stipulazione di un accordo quadro che regoli il sistema di relazioni sindacali previsto dal decreto legislativo 165/2001, alla luce della riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009, firmata il 30 aprile 2009 per i comparti del pubblico impiego e del decreto legislativo 150/2009”. Sul primo punto, quello concernente il differimento dell’efficacia applicativa, si è reso necessario ricorrere allo strumento legislativo per la sua effettiva attuazione. Infatti, trattandosi di un accordo di carattere “politico”, esso non poteva avere alcuna efficacia regolativa diretta. Inoltre, poiché per l’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 150/2009 non è previsto, nella disciplina legale, alcun regime transitorio o rinvio alla contrattazione collettiva per un possibile, eventuale differimento della sua efficacia, l’applicazione dell’Intesa non poteva essere demandata all’autonomia negoziale.

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Un eventuale contratto collettivo in materia avrebbe potuto essere ritenuto nullo per contrasto con norme imperative (il d.lgs. n. 150/2009), con conseguente applicazione del sistema sanzionatorio della etero-integrazione contrattuale (sostituzione di diritto delle clausole nulle con quelle legali violate, ai sensi degli artt. 1339 e 1419, comma 2, del codice civile). Tale sanzione, infatti, è ora espressamente prevista anche per i contratti collettivi nazionali di lavoro dall’art. 2, comma 3-bis, del d.lgs. n. 165/2001, per garantire il rispetto degli ambiti di competenza per essi fissati dal legislatore. Per il secondo punto rilevante dell’Intesa, la definizione del sistema di relazioni sindacali, alla luce dell’Accordo quadro sui nuovi assetti contrattuali del 22.1.2009 e della Intesa applicativa dello stesso al settore pubblico del 30 aprile 2009, non si è posto il medesimo problema. Trattandosi di materia sicuramente negoziale, essa viene demandata ad uno specifico accordo quadro negoziato dall’ARAN e dalle Confederazioni sindacali rappresentative, per il quale il Governo ha assunto, nella stessa Intesa, l’impegno ad una sollecita definizione del relativo atto di indirizzo. Occorre evidenziare, tuttavia, che anche il futuro accordo quadro dovrà, comunque, muoversi nell’ambito dei vincoli imperativi stabiliti in materia di relazioni sindacali direttamente dal d.lgs. n. 165/2001 (ad esempio, art. 5, comma 2, relativamente ai poteri organizzativi e gestionali della dirigenza), dovendosi escludere ogni facoltà derogatoria degli stessi, pena anche in questo caso la sanzione della nullità. In tale ambito, il comma 1 dell’art. 6 del d.lgs. n. 141/2011 recepisce il punto fondamentale dell’Intesa del 4 febbraio 2011 relativo, come detto, al differimento dell’applicazione piena, a regime, della disciplina dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009 (la distribuzione forzata delle valutazione). La norma, infatti, espressamente prevede che: a) la differenziazione per fasce retributive prevista dalla riforma trova applicazione a regime solo a partire dalla tornata contrattuale successiva a quella relativa al quadriennio 2006-2009 (quindi solo con i futuri contratti triennali stipulati sulla base del d.lgs. n. 150/2009, dopo la fine del blocco attualmente fissato dalla manovra finanziaria fino al 31.12.2014); b) nel periodo di moratoria contrattuale, ai fini dell’applicazione dell’art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009, verranno utilizzate solo le eventuali economie aggiuntive - conseguenti ai processi di riorganizzazione della pubblica amministrazione - destinate all’erogazione dei premi dall’art. 16, comma 5, del d.l. n. 98/2011, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 111/2011. La nuova disciplina, quindi, ha carattere esclusivamente transitorio. Nell’ambito della moratoria contrattuale, tuttavia, le disposizioni dell’art.19, comma 2, del d.lgs. n. 150/2009 potranno comunque trovare applicazione, ove sussistano effettivamente, presso ciascuna PA, risorse aggiuntive conseguenti alla attuazione dell’art. 16, comma 5, della L. n. 111/2011 secondo le condizioni e le modalità ivi indicate. Giova evidenziare che, nei termini in cui è formulata, tale disciplina non può in alcun modo essere interpretata in senso estensivo, al di là delle finalità cui è chiaramente preordinata. In particolare essa non si presta in alcun modo ad essere intesa nel senso di incidere anche sulla operatività ed attuabilità anche di tutti gli altri strumenti comunque finalizzati a premiare il merito e la professionalità nonché sulle altre disposizioni in materia del d.lgs. n. 150/2009, che non abbiano alcun collegamento diretto o indiretto con la specifica disciplina dell’art. 19, comma 2, del suddetto decreto legislativo. Pertanto, ben potrà accadere, anche nel regime transitorio, che un dipendente, a prescindere dalle fasce retributive, sia comunque escluso dai compensi incentivanti la produttività “ordinari”, come attualmente previsti e disciplinati, in presenza di una valutazione assolutamente negativa delle attività svolte e dei risultati conseguiti dallo stesso, secondo i principi generali.

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Infatti, i nuovi contratti integrativi devono comunque attenersi, relativamente ai vari istituti del trattamento economico accessorio (progressioni economiche orizzontali, incentivi alla produttività, ecc.) ai principi di necessaria selettività e valorizzazione del merito sanciti dal d.lgs. n. 150/2009 (FP circ. n. 7/2010).

La struttura dell’orario di lavoro.

La definizione di tempo-lavoro ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

Per orario di lavoro si intende un qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro, e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni. Per riposo si intende un qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Cassazione n. 14199/2001. Il dipendente ha diritto di svolgere la prestazione lavorativa. Se l’azienda non lo fa lavorare, può essere condannata al risarcimento del danno. Esiste nel nostro ordinamento un diritto del lavoratore all’effettivo svolgimento della propria prestazione di lavoro: la lesione di questo diritto da parte del datore di lavoro costituisce un inadempimento contrattuale e determina l’obbligo del risarcimento del danno professionale. Questo pregiudizio può assumere aspetti diversi. Innanzi tutto può consistere nel danno patrimoniale derivante dall'impoverimento della capacità professionale acquisita dal lavoratore e dalla mancata acquisizione di una maggiore capacità. Il danno professionale, peraltro, potrebbe essere costituito anche dal fatto che la minore qualificazione professionale ha impedito al lavoratore di sfruttare particolari occasioni di lavoro o, come preferiscono esprimersi alcune decisioni, ha determinato la perdita di “chance”. Peraltro il danno professionale potrebbe assumere anche aspetti non patrimoniali. Potrebbe, ad esempio, costituire una lesione del diritto del lavoratore all'integrità fisica o, più in generale, alla salute, quando la forzosa inattività, o l'esercizio di mansioni inferiori, ha determinato nel lavoratore non soltanto un dispiacere, un’afflizione dello spirito rientrante tra i danni morali, ma una vera e propria patologia psichica, come uno stato ansioso o una sindrome da esaurimento.

2) Corte di giustizia comunita' Europea n 303/2000. Il servizio di guardia con obbligo di presenza fisica sul luogo di lavoro deve essere computato nell'orario di lavoro, mentre il servizio di mera reperibilità non rientra nell'orario di lavoro se non per il tempo in cui comporta l'effettiva prestazione lavorativa.

3) Corte di Cassazione n. 15374/03, n. 19273/06 , n. 20179/08. Ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica: in particolare, ove sia data facolta' al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa stessa la relativa attivita' fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell'attivita' lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione e' diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di

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esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito.

4) Corte di Cassazione n. 5701 del 22 marzo 2004. Il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro rientra nell’attività lavorativa vera e propria (e va quindi sommato al normale orario di lavoro, come straordinario), allorché sia funzionale rispetto alla prestazione. In particolare, sussiste il carattere di funzionalità nel caso in cui il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta inviato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa. In questo caso deve essere considerato lavorativo il tempo impiegato per recarsi dall’azienda alla località dove deve essere svolta la prestazione.

5) Corte di Cassazione n. 1817 del 08 febbraio 2012. La Cassazione è intervenuta in merito al tema controverso del c.d. "tempo tuta" necessario per il dipendente per il cambio degli abiti per l'attività lavorativa. La sentenza è relativa ad un rapporto di lavoro subordinato, definisce l’orario di lavoro, indica che il periodo necessario alla vestizione rientra nell'orario di lavoro retribuito. La sentenza chiarisce che “rientra …. nell'orario di lavoro il tempo in cui il lavoratore è al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni”. Chiarisce inoltre che il tempo di lavoro non è misurato con l'orologio di reparto, ma con l'orologio di stabilimento. I periodi di tempo destinati ad indossare tuta e DPI e a percorrere l'itinerario endoaziendale tra lo spogliatoio e il reparto sono orario di lavoro.

Alcuni esempi.

Nel CCNL sanità pubblica del comparto per orario di lavoro si intende il periodo di tempo giornaliero durante il quale, in conformità all'orario d'obbligo contrattuale, ciascun dipendente assicura la prestazione lavorativa nell'ambito dell'orario di servizio. L’orario di servizio è il periodo di tempo giornaliero necessario per assicurare la funzionalità delle strutture degli uffici pubblici e l'erogazione dei servizi all'utenza. L’orario di apertura al pubblico è il periodo di tempo giornaliero che, nell'ambito dell'orario di servizio, costituisce fascia oraria, ovvero le fasce orarie, di accesso ai servizi da parte dell'utenza. Nel CCNL sanità privata per orario di lavoro si intende il periodo di tempo giornaliero durante il quale ciascun dipendente presta la propria attività secondo quanto fissato dall’amministrazione, in osservanza delle norme di legge e contrattuali in materia.

Gli strumenti che ne regolano il controllo.

A seguito della Circolare del Ministro della funzione pubblica n 58089/1990 le amministrazioni ancora sprovviste di sistemi di controllo automatizzato dell’orario di presenza avranno cura di predisporre, con ogni sollecitudine, gli atti istruttori finalizzati all'acquisizione, che dovranno completarsi entro il 1991.

Alcuni esempi.

In sanità pubblica l'osservanza dell'orario di lavoro costituisce un obbligo dei dipendenti pubblici, anche del personale con qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della prestazione retribuita della Pubblica Amministrazione. Il rispetto degli orari di lavoro deve essere accertato mediante controlli di tipo automatico ed obiettivo ma in casi particolari, modalità sostitutive e controlli ulteriori

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sono definiti dalle singole aziende ed enti, in relazione alle oggettive esigenze di servizio delle strutture interessate. In sanità privata il lavoratore deve osservare il proprio orario di lavoro, controfirmando il registro delle presenze e/o l'orologio marcatempo e comunque attestando le presenze secondo le modalità di rilevazione in uso nella Struttura.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Corte Cassazione n 15983/2006. I cartellini marcatempo ed i fogli di presenza dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la pubblica amministrazione (oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò esauriscono in via immediata i loro effetti, non riguardando affatto manifestazioni dichiarative, attestative o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione.

2) Sentenza Corte Cassazione n 26239/2008. Farsi timbrare il cartellino di ingresso, rilevatore della presenza, da parte di un altro lavoratore comporta il licenziamento per giusta causa.

La vicenda ha visto coinvolta una lavoratrice che avvalendosi della collaborazione di altra collega, aveva fatto timbrare il badge prima di essere entrata al lavoro e per questo motivo le era stato irrogato il provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa. L’interessata aveva proposto ricorso adducendo, tra l’altro, che la società non avrebbe subito un danno economico e che non vi sarebbe stato una lesione dei doveri di lealtà e, quindi, poteva essere irrogata una sanzione conservativa. Il ricorso è stato respinto in tutti e tre gradi di giudizio. In particolare, la Corte di Cassazione, nella sentenza in esame, ha affermato che nella fattispecie in premessa ricorre senz’altro la lesione del vincolo fiduciario a prescindere dal danno patrimoniale subito dalla società e, pertanto, la sanzione irrogata, attesa la gravità dell'addebito contestato, risulta congrua.

3) Sentenza Tribunale Rovigo Sez. Penale, 22/04/2009. Il fatto di avere indotto i dipendenti a presentarsi sul luogo di lavoro prima dell’inizio dell’orario contrattualmente stabilito, contro la loro volontà ed al di fuori di qualsiasi contrattazione collettiva, utilizzando la prefigurazione di una trattenuta sullo stipendio calcolato sul normale periodo di lavoro pattuito, costituisce una coartazione ingiusta della volontà che sfocia nel reato di violenza privata.

Gli strumenti d’identificazione.

I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che svolgono attività a contatto con il pubblico sono tenuti a rendere riconoscibile il proprio nominativo mediante l’uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro. Le amministrazioni private adottano strumenti di identificazione del personale dipendente in considerazione alle specificità delle mansioni svolte.

La circolare n. 3/2010 del P. C. M. del Dipartimento della Funzione Pubblica.

Il decreto legislativo n. 150 del 2009 , ha introdotto nel corpo del decreto legislativo, n. 165 del 2001, una disposizione che prevede che i dipendenti delle amministrazioni pubbliche che svolgono attivita' a

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contatto con il pubblico sono tenuti a rendere conoscibile il proprio nominativo mediante l'uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro. Dall'obbligo e' escluso il personale individuato da ciascuna amministrazione sulla base di categorie determinate, in relazione ai compiti ad esse attribuiti, mediante uno o piu' decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, su proposta del Ministro competente ovvero, in relazione al personale delle amministrazioni pubbliche non statali, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano o di Conferenza Stato-citta' ed autonomie locali. L'entrata in vigore della nuova norma stabilisce che l'obbligo di esposizione di cartellini o targhe identificativi decorre dal novantesimo giorno successivo all'entrata in vigore del presente decreto. La norma, pertanto, e' entrata in vigore il 13 febbraio. Si ritiene utile fornire alcune indicazioni generali sulla portata della disposizione. La norma persegue l'obiettivo di attuare la trasparenza nell'organizzazione e nell'attivita' delle pubbliche amministrazioni. Essa riprende alcune indicazioni gia' diramate in via amministrativa e si inserisce nell'ampio contesto delle misure amministrative e normative introdotte nell'ordinamento con il fine di rendere conoscibile e trasparente l'organizzazione e l'azione amministrativa e di agevolare i rapporti con l'utenza. Attraverso l'attuazione della trasparenza, la disposizione persegue l'obiettivo di agevolare l'esercizio dei diritti e l'adempimento degli obblighi da parte degli utenti nonche' quello di responsabilizzare i destinatari della prescrizione, i pubblici dipendenti che svolgono attivita' a contatto con il pubblico, poiche' il processo di responsabilizzazione passa anche attraverso la pronta individuabilita' del soggetto interlocutore.

Gli ambiti

Gli ambiti sono: 1. Le amministrazioni interessate. La disposizione si applica nei confronti di tutte le pubbliche

amministrazioni e, pertanto, e' immediatamente operante anche per le Regioni e gli Enti locali. 2. Le categorie di dipendenti interessati. La prescrizione riguarda tutti i dipendenti delle pubbliche

amministrazioni soggetti a contrattazione collettiva. La norma non si applica ai magistrati e agli avvocati dello Stato, ai professori universitari, al personale appartenente alle Forze armate e alle Forze di polizia, al Corpo nazionale dei Vigili del fuoco, al personale delle carriere diplomatica e prefettizia e alle altre categorie che sono disciplinate dai propri ordinamenti. Rimane in ogni caso salva, anche in questi casi, la possibilita' per le amministrazioni di adottare direttive e introdurre misure per consentire una rapida identificazione del personale a contatto con il pubblico, mediante cartellini e targhe, nel rispetto dei principi di non eccedenza e pertinenza relativi al trattamento dei dati personali.

Come stabilisce la disposizione vi possono essere eventuali deroghe per determinate sfere di pubblici dipendenti in relazione ai compiti ad esse attribuiti. Il regime derogatorio quindi e' giustificato per circostanze particolari limitate dal punto di vista soggettivo ed oggettivo. Dal punto di vista formale, le deroghe debbono essere indicate in decreti del Ministro per la pubblica amministrazione e l'innovazione, adottati su proposta del Ministro competente, ovvero, in relazione al personale delle amministrazioni pubbliche non statali, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome ed autonomie locali. Pertanto, in assenza di tali provvedimenti, la norma e' vincolante nei confronti della generalita' dei dipendenti che operano a contatto con il pubblico.

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L’attività a contatto con il pubblico.

Secondo la legge, l'obbligo di identificazione sussiste per i dipendenti che svolgono attivita' a contatto con il pubblico. Per attivita' a contatto con il pubblico si intendono quelle svolte in luogo pubblico e luogo aperto al pubblico nei confronti di un'utenza indistinta. Considerata la varia tipologia di funzioni e servizi svolti dalle pubbliche amministrazioni, l'individuazione delle attivita' rilevanti e' rimessa alla valutazione di ciascuna amministrazione. A titolo esemplificativo, rientrano nel concetto in esame le attivita' svolte per il pubblico allo sportello o presso la postazione del dipendente, quelle svolte dall'ufficio relazioni con il pubblico, le attivita' di servizio nelle biblioteche aperte al pubblico, le attivita' svolte dagli addetti ai servizi di portierato nelle pubbliche amministrazioni, le attivita' del personale sanitario a contatto con il pubblico nelle strutture ospedaliere e sanitarie. Rimane in ogni caso salva la possibilita' per le amministrazioni di adottare direttive e introdurre misure per consentire una rapida identificazione del personale anche se non preposto ad attivita' che comportano il contatto con il pubblico, nel rispetto dei principi di non eccedenza e pertinenza relativi al trattamento dei dati personali.

L'identificazione del personale.

In base alla norma, l'identificazione del dipendente avviene mediante l'uso di cartellini identificativi o di targhe da apporre presso la postazione di lavoro. La scelta tra l'una e l'altra modalita' e' rimessa all'amministrazione e sara' effettuata a seconda della tipologia di attivita', fermo restando che possono essere adottate contemporaneamente entrambe le modalita' e che non e' tanto rilevante lo strumento di per se' quanto piuttosto il soddisfacimento dell'esigenza sottesa che e' quello dell'identificazione dell'addetto. La disposizione individua gli elementi per l'identificazione nel nominativo del dipendente. Si tratta di un contenuto minimo e l'amministrazione puo' valutare se e quando attuare l'identificazione anche attraverso ulteriori elementi soprattutto in riferimento al ruolo del soggetto nell'ambito dell'organizzazione: posizione professionale, profilo, qualifica se dirigente, ufficio di appartenenza. Nel dare attuazione alla norma le amministrazioni debbono tener conto della finalita' della prescrizione, evitando la diffusione di dati personali non pertinenti od eccedenti la finalita'. Cosi', non sembra rispondere ad un principio di corretto utilizzo dei dati personali l'indicazione nel cartellino delle generalita' del dipendente, complete dell'indicazione della data di nascita. Occorre, infatti, l'individuazione di modalita' sufficienti ed adeguate che, salvaguardando il pubblico interesse, evitino di compromettere la sfera personale del soggetto. L'attuazione della norma e l'inosservanza della prescrizione. La disposizione si riferisce direttamente ai pubblici dipendenti. Pur essendo questi i soggetti direttamente tenuti all'osservanza dell'obbligo, e' chiaro che le amministrazioni di appartenenza debbono da un lato diramare istruzioni operative, dall'altro fornire gli strumenti per l'identificazione ai dipendenti interessati, in modo che la norma venga attuata in maniera uniforme nell'ambito della stessa amministrazione. L'inosservanza della prescrizione verra' valutata secondo i criteri ordinari della responsabilita' disciplinare con l'irrogazione delle sanzioni in relazione alle violazioni accertate.

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L’organizzazione dell’orario di lavoro del personale.

Le fondamenta nel Regio Decreto n 692/1923.

“Art. 1: La durata massima normale della giornata di lavoro degli operai ed impiegati nelle aziende industriali o commerciali di qualunque natura, anche se abbiano carattere di istituti di insegnamento professionale o di beneficenza, come pure negli uffici, nei lavori pubblici, negli ospedali, ovunque è prestato un lavoro salariato o stipendiato alle dipendenze o sotto il controllo diretto altrui, non potrà eccedere le otto ore al giorno. Il presente decreto non si applica al personale addetto ai lavori domestici, al personale direttivo delle aziende e dai commessi viaggiatori. Per i lavori eseguiti a bordo delle navi, per gli uffici ed i servizi pubblici, anche se gestiti da assuntori privati, si provvederà con separate disposizioni. Art. 3: È considerato lavoro effettivo ai sensi del presente decreto ogni lavoro che richieda un'applicazione assidua e continuativa. Conseguentemente non sono compresi nella dizione di cui sopra quelle occupazioni che richiedano per la loro natura o nella specialità del caso, un lavoro discontinuo o di semplice attesa o custodia. Art. 4: Nei lavori agricoli e negli altri lavori per i quali ricorrano necessità imposte da esigenze tecniche o stagionali le otto ore giornaliere, potranno essere superate, purché‚ la durata media del lavoro, entro determinati periodi, non ecceda quei limiti che saranno stabiliti con decreto reale su proposta del ministro per il lavoro e la previdenza sociale, uditi i ministri competenti ed il consiglio dei ministri, oppure con accordi stipulati tra le parti interessate. Nei casi di urgenza le autorizzazioni devolute al ministro per il lavoro e la previdenza sociale possono essere date provvisoriamente dal capo circolo dell'ispettorato del lavoro. Art. 6: Sono ammesse deroghe consensuali per i lavori preparatori e complementari che debbano essere eseguiti al di fuori dell'orario normale delle aziende. Art. 7: Il lavoro potrà essere prolungato al di là dei limiti indicati negli articoli precedenti, nei casi di forza maggiore ed in quelli nei quali la cessazione del lavoro ad orario normale costituisse un pericolo e danno alle persone od alla produzione. Il prolungamento dovrà essere denunciato dal datore di lavoro all'ispettorato del lavoro.

I principi Costituzionali.

Art. 36: La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

L’evoluzione normativa dell’orario giornaliero.

Il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata (D.Lgs 66/03). Tali disposizioni non si applicano al personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale, per il quale si fa riferimento alle vigenti disposizioni contrattuali (L 244/07). Il riposo giornaliero di 11 ore può essere oggetto di deroga, a seguito di accordo definito con le modalità previste dalla contrattazione collettiva integrativa, tenendo conto delle necessità legate alla organizzazione dei turni e garantendo ai dipendenti un equivalente periodo di riposo per il

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pieno recupero delle energie psicofisiche o a condizione che ai lavoratori sia accordata una protezione appropriata (CCNL 06/09). ………o da regimi di reperibilità(L 133/08). Il ricorso alle deroghe deve consentire la fruizione di periodi di riposo piu` frequenti o piu` lunghi(L 182/10).

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutive ogni 24 ore, calcolate dall’ora di inizio della prestazione lavorativa. Rimane ferma la durata del normale orario settimanale fissato in 40 ore o nel minor valore individuato dalla contrattazione. Il periodo di riposo di undici ore è un periodo minimo, salvi i casi di deroghe previste, quindi l’eventuale accordo che diminuisca tale periodo è nullo e sostituito di diritto dalla disposizione normativa. Le parti possono accordarsi per un periodo di riposo maggiore di quello stabilito dall’art. 7 del decreto legislativo n. 66 del 2003, in questo caso il lavoratore ha facoltà di rinunciare al periodo di riposo compreso tra la misura convenzionale e quella minima prevista. Il lavoratore ha diritto al periodo di riposo giornaliero anche qualora sia titolare di più rapporti di lavoro. Peraltro, poiché non esiste alcun divieto di essere titolari di più rapporti di lavoro non incompatibili, il lavoratore ha l’onere di comunicare ai datori di lavoro l’ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo salvo che per le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata, ossia per quelle attività che, per loro natura, sono svolte in tal modo come, in particolare, l’attività del personale addetto alle pulizie. Per queste ultime attività, sarà la contrattazione collettiva a disciplinare le più opportune modalità di fruizione del riposo giornaliero. Nel periodo di riposo non si computano i riposi intermedi, nonché le pause di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesto alcun tipo di prestazione lavorativa in quanto non si tratta di un periodo di riposo continuativo. Questi periodi non rientrano nell’orario di lavoro né nel periodo di riposo. Il terzo comma dell’articolo 8 del decreto legislativo n. 66 del 2003 recita testualmente che “Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata i periodi di cui all'art. 5, regio decreto 10 settembre 1923, n. 1955, e successivi atti applicativi, e dell'art. 4 del regio decreto 10 settembre 1923, n. 1956, e successive integrazioni”. Questi periodi, pertanto, non rientrano nell’orario di lavoro. Il richiamo operato all’art. 5 del R.D. 10/9/23, n. 1955, ha la sola finalità di individuare i periodi suddetti. Deve, pertanto, ritenersi abrogato il disposto di cui al secondo comma del citato articolo 5 il quale prevedeva che “i riposi normali, perché possano essere detratti dal computo del lavoro effettivo, debbono essere prestabiliti ad ore fisse ed indicati nell’orario di cui all’art. 12”. Da ciò deriva che, alla luce della vigente disciplina, la pausa intermedia di 10 minuti possa essere anche mobile. Allo stesso modo deve pure considerarsi decaduto l’obbligo della esposizione dell’orario “in modo facilmente visibile ed in luogo accessibile a tutti i dipendenti” così come l’obbligo di comunicarlo all’Ispettorato del Lavoro previsto dall’art. 12 del citato regio decreto.

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L’art. 7, nella parte che determina la misura e la consecutività del riposo giornaliero, può essere derogato ai sensi dell’art. 17. La deroga può essere disposta da contratti collettivi o accordi conclusi a livello nazionale tra le organizzazioni sindacali nazionali comparativamente più rappresentative e le associazioni nazionali dei datori di lavoro firmatarie di contratti collettivi nazionali di lavoro o, conformemente alle regole fissate nelle medesime intese, mediante contratti collettivi o accordi conclusi al secondo livello di contrattazione. Per poter derogare alla disposizione in materia di riposo le parti devono accordare ai prestatori di lavoro periodi equivalenti di riposo compensativo. Se, in casi eccezionali ed oggettivi, non possono essere previsti dei periodi di riposo compensativo ai lavoratori interessati, deve essere accordata loro una protezione appropriata. In presenza di una siffatta tutela devono considerarsi ancora in vigore le previgenti disposizioni collettive che regolamentano l’orario di lavoro non rispettando il limite di 11 ore di riposo consecutivo. Nelle ipotesi di attività frazionate le deroghe alla disciplina in materia di riposi alle condizioni di cui all’art. 17, comma 4, possono avere ad oggetto la durata del riposo.

Le sanzioni amministrative.

Se il datore non rispetta il diritto al riposo giornaliero la sanzione amministrativa prevista è compresa tra 50 e 150 euro. L’importo sale in una “forbice” compresa tra 300 e 1000 euro, se la violazione è stata accertata per più di cinque lavoratori o si è verificata in almeno tre periodi di ventiquattro ore. L’ulteriore “aggravamento” sanzionatorio, non diffidabile e non assoggettabile al pagamento in misura ridotta, scatta nell’ipotesi in cui il “vulnus” riguardi più di dieci lavoratori o si sia verificato in almeno cinque periodi di ventiquattro ore: e qui la “pena pecuniaria” prevista è compresa tra un minimo di 900 ed un massimo di 1500 euro.

L’orario settimanale ai sensi del D.Lgs. 66/2003 art. 3.

L’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali su base annua. I contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore e riferire l'orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all'anno.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il decreto legislativo n. 66 del 2003 riprende i contenuti dell’art. 13, della legge n. 196 del 1997 e fissa in 40 ore settimanali l’orario normale di lavoro, assegnando alla contrattazione collettiva la facoltà sia di stabilire un orario inferiore che di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno in modo tale che, nonostante la flessibilizzazione, nel dato arco temporale non venga superata la media riferita, ovviamente, all’orario normale. Tale orario di lavoro, purché venga rispettata la media nei termini suddetti, è orario normale di lavoro. Si ricorda, a questo proposito, che in caso di organizzazione multiperiodale dell’orario di lavoro, costituisce straordinario ogni ora di lavoro effettuata oltre l’orario programmato settimanale. E’ da sottolineare come nella nuova formulazione si fa riferimento ai “contratti collettivi” e non ai contratti “collettivi nazionali” di cui al citato art. 13. Di conseguenza anche i contratti territoriali e

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aziendali, oltre quelli nazionali, possono stabilire – purché stipulati da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative – una durata minore ovvero prevedere orari multiperiodali. Per quanto concerne il settore del pubblico impiego, si ritiene che la contrattazione collettiva decentrata non possa introdurre discipline difformi dalla contrattazione collettiva nazionale. L’orario normale di lavoro è di 40 ore nell’arco della settimana, da intendersi non necessariamente come settimana di calendario, salva la facoltà della contrattazione collettiva, di qualsiasi livello, di introdurre il c.d. regime degli orari multiperiodali, cioè la possibilità di eseguire orari settimanali superiori e inferiori all’orario normale a condizione che la media corrisponda alle 40 ore settimanali o alla durata minore stabilita dalla contrattazione collettiva, riferibile ad un periodo non superiore all’anno. Il riferimento all’anno non deve intendersi come anno civile (1° gennaio - 31 dicembre) ma come un periodo mobile compreso tra un giorno qualsiasi dell’anno ed il corrispondente giorno dell’anno successivo, tenendo conto delle disposizioni della contrattazione collettiva. Nel computo dell’orario normale di lavoro, stante la definizione di orario di lavoro, non rientrano i periodi in cui il lavoratore non è a disposizione del datore ovvero nell’esercizio della sua attività e delle sue funzioni. Quindi le ore non lavorate potranno essere recuperate in regime di orario normale di lavoro. I contratti collettivi possono stabilire che la durata dell’orario normale sia ridotta rispetto al limite legale delle 40 ore. Questa facoltà ha ad oggetto una riduzione d’orario valida ai soli fini contrattuali.

Alcuni esempi.

Il CCNL sanità pubblica del comparto prevede che le ore di lavoro previste settimanalmente siano 36 e siano funzionali all’orario di servizio e di apertura al pubblico. Prevede inoltre la programmazione di calendari di lavoro plurisettimanali ed annuali con orari di lavoro settimanale compresi tra un minimo di 28 ore fino ed un massimo di 44 ore. In questi casi l’orario verrà calcolato su una media di 3 mesi.

Il CCNL sanità privata prevede che le ore di lavoro previste settimanalmente siano comprese tra le 36 e le 38 in base all’inquadramento nelle rispettive posizioni economiche.

La prestazione di lavoro in straordinario.

Le fondamenta nel Regio Decreto n 692/1923.

Art. 5: È autorizzata, quando vi sia accordo tra le parti, la aggiunta alla giornata normale di lavoro di un periodo straordinario, che non superi le due ore al giorno e le dodici ore settimanali, od una durata media equivalente entro un periodo determinato, a condizione, in ogni caso, che il lavoro straordinario venga computato a parte e remunerato con un aumento di paga, su quella del lavoro ordinario, non inferiore al 10 per cento o con un aumento corrispondente sui cottimi.

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Lo straordinario ai sensi del D.Lgs. 66/2003 art. 5.

Per straordinario s’intende tutto il lavoro prestato oltre l’orario normale. Il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere contenuto. Fermi restando i limiti della durata media dell’orario di lavoro, i C.C.N.L. regolamentano le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario. L’utilizzo delle risorse all’interno delle unità operative delle articolazioni aziendali è flessibile. In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le duecentocinquanta ore annuali. Il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con le maggiorazioni retributive previste dal C.C.N.L. I C.C.N.L. possono in ogni caso consentire che, in alternativa o in aggiunta alle maggiorazioni retributive, i lavoratori usufruiscano di riposi compensativi.

Alcuni esempi.

Nel CCNL sanità pubblica e privata il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere contenuto, avere carattere eccezionale e non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione del lavoro. Devono essere regolamentate le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario. In sanità pubblica comparto le prestazioni di straordinario devono rispondere ad effettive esigenze di servizio e devono essere preventivamente autorizzate dal dirigente responsabile. Invece in sanità privata il lavoro supplementare e straordinario deve essere autorizzato espressamente per iscritto dall’Amministrazione della struttura sanitaria.

L’obbligatorietà allo straordinario.

Per casi eccezionali di esigenze tecnico produttive e di impossibilità di fronteggiarle tramite assunzioni. Per casi di forza maggiore o casi in cui la mancata esecuzione possa dare luogo a pericolo immediato, ovvero a un danno alle persone e alla produzione.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il “lavoro straordinario”, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 66 del 2003, è quello prestato oltre l’orario normale così come definito dall’articolo 3 del decreto. Il ricorso al lavoro straordinario “deve essere contenuto”. Non è più prevista una durata massima giornaliera delle prestazioni straordinarie (così come la prevedeva, per i datori di lavoro che non fossero imprenditori industriali, l’art. 5 r. d. l. n. 692 del 1923), bensì una durata massima settimanale che, cumulata con le ore di lavoro normale, non può superare il livello medio di 48 ore. Infatti, ai sensi dell’articolo 4, comma 2, la durata medio/massima

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dell’orario di lavoro per ogni periodo di sette giorni, non può superare le 48 ore medie, comprensive del lavoro straordinario, nel periodo di riferimento. Il ricorso al lavoro straordinario è legittimo in presenza di un accordo collettivo applicato ovvero applicabile, che preveda una disciplina del lavoro straordinario ovvero, in mancanza di esso, in presenza di un previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore. In questo ultimo caso il ricorso al lavoro straordinario non può superare le 250 ore annue, oltre alle casistiche previste al comma 4 dell’art. 5 del decreto. Perché possa essere superato il suddetto limite è necessario, quindi, che esista un contratto collettivo applicato ovvero applicabile, inoltre è necessario che il contratto collettivo disciplini il ricorso al lavoro straordinario. In aggiunta ai limiti fissati dal contratto collettivo o dalla legge (250 ore annuali) il ricorso al lavoro straordinario è consentito, salvo diversa disciplina collettiva, in relazione all’ipotesi in cui non sia possibile fronteggiare i casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive attraverso l'assunzione di altri lavoratori; nei casi di forza maggiore; nei casi in cui la mancata esecuzione di prestazioni di lavoro

straordinario possa dare luogo a un pericolo grave e immediato ovvero a un danno alle persone o alla produzione. Inoltre è consentito in caso di eventi particolari, come mostre, fiere e manifestazioni collegate alla attività produttiva, nonché allestimento di prototipi, modelli o simili, predisposti per le stesse, preventivamente comunicati agli uffici competenti ai sensi dell'art. 19 della legge n. 241 del 1990, come sostituito dall'art. 2, comma 10, della legge n. 537 del 1993. In quest’ultimo caso gli eventi indicati devono essere comunicati in tempo utile alle rappresentanze sindacali aziendali. Anche in questi casi, a fronte della richiesta del datore, il lavoratore è tenuto alla prestazione del lavoro straordinario, salvo sussistano ragioni che consentano al lavoratore di rifiutarne l’esecuzione. Il lavoro straordinario deve essere computato separatamente dal computo del lavoro normale e deve essere retribuito con una maggiorazione, rispetto al lavoro normale, il cui ammontare è stabilito dalla contrattazione collettiva. Quest’ultima può disporre che, in aggiunta o in alternativa alla maggiorazione retributiva, i lavoratori possano usufruire di riposi compensativi. In questo caso le prestazioni straordinarie eseguite non sono computabili ai fini della durata media dell’orario di lavoro prevista, nella misura massima complessiva delle 48 ore settimanali, dall’articolo 4, comma 2. In caso di superamento delle 48 ore di lavoro settimanale, questa volta da intendersi come valore assoluto, attraverso prestazioni di lavoro straordinario, entro trenta giorni dalla scadenza del periodo di riferimento di 4 mesi o di quello superiore previsto dai contratti collettivi, il datore di lavoro che occupa più di dieci dipendenti nell’unità produttiva interessata è tenuto a informare la direzione provinciale del lavoro - Settore ispezione del lavoro competente per territorio. Qualora il superamento del limite delle 48 ore non avvenga attraverso prestazioni di lavoro straordinario non è dovuta la comunicazione ex art. 4, comma 5. L’obbligo di comunicazione può essere adempiuto secondo le modalità previste dai contratti collettivi, in questo caso il mancato rispetto delle disposizioni contrattuali non costituisce violazione dell’obbligo di comunicazione purché sia comunque raggiunto lo scopo comunicativo. Ai fini del calcolo dei dipendenti non devono essere computati i lavoratori con contratto di somministrazione, mentre i lavoratori a tempo parziale devono essere computati in proporzione all’orario svolto tranne che nel settore del pubblico impiego.

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Le sanzioni amministrative.

La sanzione per il superamento delle 250 ore massime annuali di straordinario varia da euro 25 a 154. Se si riferisce a più di 5 lavoratori o se si verifica per più di 50 giornate lavorative nel corso dell’anno solare la sanzione va da euro 154 a 1032 e non è ammesso il pagamento in misura ridotta. La sanzione per il mancato computo e/o mancata remunerazione del lavoro straordinario svolto con le maggiorazioni retribuite previste dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro varia da euro 25 a 154. Se si riferisce a più di 5 lavoratori o se si verifica per più di 50 giornate lavorative nel corso dell’anno solare la sanzione va da euro 154 a 1032 e non è ammesso il pagamento in misura ridotta.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Cassazione n. 820 /2001. Con contratto integrativo aziendale può essere stabilito un

orario di lavoro inferiore a quello previsto dal contratto nazionale e al limite legale. In questo caso la prestazione lavorativa eccedente l’orario previsto dal contratto integrativo aziendale costituisce lavoro straordinario e deve essere come tale retribuita, a meno che non venga provata l’esistenza di un accordo tra le parti, avente per oggetto il prolungamento dell’orario contrattuale normale fino al limite di quello previsto dal contratto collettivo nazionale o dalla legge.

2) Sentenza della Corte di Cassazione n. 2772/2010. Non può nutrirsi dubbio alcuno che l’indicazione, sul foglio presenze giornaliero, delle ore di servizio effettuate in regime di straordinario è finalizzato, in primis, proprio a consentire lo sviluppo dei conteggi inerenti alla retribuzione. Dunque dichiarare su tali fogli delle ore senza in realtà aver lavorato è un evidente reato di truffa.

3) Atto del Consiglio di stato n. 7525/2010. La circostanza che il dipendente abbia effettuato prestazioni eccedenti l’orario d’obbligo non è da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla relativa retribuzione (e l’obbligo dell’amministrazione di corrisponderla), atteso che, altrimenti, si determinerebbe quoad effectum l’equiparazione del lavoro straordinario autorizzato rispetto a quello per il quale non sia intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative svolte in via di fatto, di cui non sia stata accertata la rispondenza a concrete ed effettive necessità. È noto infatti che la retribuibilità delle prestazioni di lavoro straordinario è condizionata all’esistenza di una formale autorizzazione allo svolgimento di prestazioni di lavoro eccedenti l’orario d’ufficio: detta autorizzazione svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento. Invero, sotto un primo profilo, essa (che di regola dev’essere preventiva, ma che tuttavia può assumere eccezionalmente anche la forma del provvedimento in sanatoria, ex post) implica la verifica in concreto della sussistenza delle ragioni di pubblico interesse, che rendono necessario il ricorso a prestazioni lavorative eccedenti l’orario normale di lavoro.

Lo straordinario e lavoro supplementare del personale con contratto di lavoro a tempo ridotto.

Il D. Lgs. 61/2000 all’art. 3, 2 comma, prescrive la possibilità di lavoro supplementare, purché motivato da "causali obiettive" (definite dai contratti collettivi). E’ altresì richiesto che non si superi, attraverso il ricorso all’istituto, un determinato numero di ore stabilito nella misura del 10 % rispetto ai turni ordinari: qualora si superi questo limite, la retribuzione

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deve essere maggiorata del 50. La norma, sicuramente molto rigida, trova la sua ratio nella volontà del legislatore di tenere separati lavoratori part time e a tempo pieno. Si pensi al caso di un lavoratore a tempo parziale cui venga richiesto, per tre o quattro mesi all’anno, di lavorare full time. È ammesso nel solo lavoro a tempo parziale c.d. orizzontale e purché il lavoratore presti, di volta in volta, il proprio consenso, ovvero la fonte collettiva sia intervenuta a disciplinare l’istituto. In tal caso i margini di intervento della contrattazione collettiva sono:

a) Individuazione delle causali;

b) Individuazione del numero massimo di ore di lavoro supplementare e delle conseguenti sanzioni;

c) Indicazione della maggiorazione dell’importo della retribuzione oraria; d) Il “consolidamento”.

A fianco del tempo supplementare, è prevista, per il part time verticale e misto, il ricorso agli straordinari. Concerne le ore di lavoro svolte oltre il tempo pieno (circ. min. 9/2004). È disciplinato dalla fonte collettiva che lo può rendere obbligatorio. Il ruolo del contratto collettivo diventa significativo per disciplinare altre ed eventuali clausole elastiche. Gli istituti poc’anzi accennati, così come la regolamentazione dello jus variandi, rientrano nel quadro del c.d. "patto di flessibilità" tra lavoratore (consenziente) e datore di lavoro. Detto accordo, deve essere redatto per iscritto. Il lavoratore può denunciarlo dopo non meno di cinque mesi a seguito di sopravvenute "documentate esigenze" familiari, di salute, nonché professionali o di lavoro in genere.

Alcuni esempi.

Nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto sanità il personale con rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale può effettuare prestazioni di lavoro straordinario nelle sole giornate di effettiva attività lavorativa entro il limite massimo individuale annuo di 20 ore. Invece il dipendente con rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, previo suo consenso, può essere chiamato a svolgere prestazioni di lavoro supplementare nella misura massima del 10% della durata di lavoro a tempo parziale riferita a periodi non superiori ad un mese e da utilizzare nell’arco di più di una settimana. Il ricorso al lavoro supplementare è ammesso per eccezionali, specifiche e comprovate esigenze organizzative o in presenza di particolari situazioni di difficoltà organizzative derivanti da concomitanti assenze di personale non prevedibili ed improvvise. Il lavoro supplementare effettuabile per i turni, oltre quello previsto da un regime di reperibilità, non può superare n. 102 ore annue individuali.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Corte Cassazione Civile n. 18499/2008. Se l’orario di lavoro part time, nel tempo, si estende sino ad essere quasi un lavoro a tempo pieno, è necessario che anche il contratto venga adeguato a tale estensione.

2) Sentenza Cassazione n. 8718/2002. Le deroghe al divieto di prestazioni supplementari per i lavoratori assunti a tempo parziale devono essere stabilite dai contratti collettivi in termini specifici – Non è sufficiente la fissazione di limiti quantitativi. La prestazione, da parte di lavoratori assunti a

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tempo parziale, di lavoro supplementare rispetto a quello concordato, è vietata salvo diversa previsione dei contratti collettivi, anche aziendali. Il legislatore non ha inteso autorizzare i contratti collettivi a porre incondizionate disposizioni derogatorie del divieto di lavoro supplementare, ma ha richiesto che le deroghe previste siano correlate a esigenze organizzative “specifiche”, delegando le parti sociali a identificare quali tipi di esigenze potessero, negli specifici settori produttivi, giustificare – evidentemente in situazioni non ordinarie – la prestazione del lavoro supplementare. Ne consegue la nullità o la irrilevanza di regolamentazioni contrattuali collettive di portata indeterminata, in quanto meramente ripetitive del dettato della legge; né a rendere le clausole

idonee può essere sufficiente la previsione del consenso del lavoratore o la fissazione di meri limiti quantitativi.

3) Sentenza della Corte di Cassazione n. 7347/2004. La Cassazione ha stabilito il seguente principio di diritto: ove la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva, nel fissare i limiti massimi per il lavoro straordinario di ciascun dipendente, preveda anche l'obbligo del datore di lavoro di informare il sindacato in ordine al numero di ore di lavoro straordinario svolto dai dipendenti, l'inottemperanza del datore di lavoro a quest'obbligo di informativa è idonea ex se oggettivamente a costituire condotta antisindacale ed a legittimare, in presenza degli altri presupposti di legge, il ricorso dei sindacato al procedimento di repressione contemplato dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori.

4) Sentenza del Consiglio di Stato n. 77/2005. Qualora l’amministrazione ometta di tenere una contabilizzazione mensile dello straordinario prestato dai dipendenti e, consequenzialmente, si astenga dal segnalare tempestivamente ai medesimi il raggiungimento (o il superamento) del limite individuale massimo consentito, non può poi sottrarsi alla cogenza dell’obbligo di corrispondere la retribuzione dovuta a fronte delle maggiori prestazioni lavorative ricevute, adducendo l’argomento dell’intempestiva domanda, da parte del dipendente, del prescritto riposo compensativo precisando che una volta escluso che il dipendente possa essere obbligato a lavorare gratuitamente per la p.a., è giocoforza ritenere che il lavoratore possa consapevolmente esercitare la scelta tra il prestare, o meno, lo straordinario, solo quando l’ammistrazione, dal canto suo, adempia diligentemente all’onere di rendere nota, mese per mese, la perdurante disponibilità di sufficienti risorse finanziarie da destinare alla retribuzione della specifica spettanza o, in caso contrario, quando l’amministrazione comunichi l’avvenuto esaurimento del massimo monte ore individuale e della conseguente esercitabilità, nel prosieguo del rapporto commutativo, della sola opzione per il riposo compensativo.

5) Sentenza della Corte di Cassazione n. 28715/2008. La prestazione lavorativa eccedente l'orario concordato tra le parti o in base alla contrattazione collettiva, va retribuita con la maggiorazione prevista per lo straordinario.

I limiti settimanali al tempo lavoro.

Le fondamenta nel Regio Decreto 692/1923.

Art. 1: La durata massima….non potrà eccedere ….le quarantotto ore settimanali di lavoro effettivo.

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Il limite settimanale all’orario di lavoro ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

La durata media dell’orario di lavoro non può superare per ogni periodo di 7 giorni le 48 ore comprese le ore di lavoro straordinario con riferimento a un periodo non superiore a 4 mesi.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il decreto, al fine di tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori, di consentire una più attuale distribuzione dei tempi di vita e di lavoro e di garantire eque condizioni di concorrenza tra le imprese, nel mercato comunitario, prevede un sistema di limiti alla durata della prestazione lavorativa organizzati in modo flessibile. La durata massima settimanale dell’orario di lavoro, comprensiva sia del lavoro ordinario sia di quello straordinario, è stabilita dai contratti collettivi e riguarda, in generale, sia il settore pubblico sia il settore privato. L’orario settimanale, sia in presenza sia in assenza di contrattazione applicabile, non può superare le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, per ogni periodo di sette giorni calcolate, come media, su un periodo di riferimento non superiore a 4 mesi. A tale limite deve attenersi l’autonomia individuale. Il limite delle 48 ore medie, nel periodo di riferimento, deve essere rispettato sia nel caso in cui il datore stabilisca un orario rigido e uniforme sia nel caso in cui l’orario di lavoro venga disciplinato in senso multiperiodale mediante il rispetto del limite come media, per ogni periodo di sette giorni, in un determinato periodo. Quindi il decreto non vieta prestazioni che superino, nell’arco di sette giorni, le 48 ore in quanto il periodo di riferimento sia un periodo più ampio della settimana e non superiore a quattro mesi, salvi i più ampi periodi che può fissare la contrattazione collettiva. Nella settimana lavorativa si potrà superare il limite delle 48 ore settimanali purché vi siano settimane lavorative di meno di 48 ore in modo da effettuare una compensazione e non superare il limite delle 48 ore medie nel periodo di riferimento. L’attività potrà essere concentrata in alcuni periodi e ridotta in altri in modo da realizzare una efficiente gestione dei fattori produttivi. Ad esempio, in un periodo di 4 mesi dal 1 gennaio al 30 aprile, l’orario settimanale di lavoro del mese di gennaio potrebbe essere di 60 ore, di 40 ore il mese di febbraio e di 35 ore il mese di marzo e di 48 ore il mese di aprile. Nel caso in cui la contrattazione collettiva non provveda a disciplinare l’orario di lavoro multiperiodale, l’autonomia individuale potrà intervenire esclusivamente con riferimento all’orario di lavoro straordinario. La contrattazione collettiva, oltre che determinare la durata massima settimanale dell’orario di lavoro, ha facoltà di elevare il periodo di riferimento, in relazione agli specifici interessi del settore cui i datori di lavoro ed i lavoratori appartengono, da 4 fino a 6 mesi e, in caso di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro, fino a 12 mesi. La durata massima dell’orario di lavoro, pari a 48 ore medie nel periodo di riferimento, si applica anche nei confronti degli apprendisti maggiorenni.

Le sanzioni amministrative.

In tema di sanzioni amministrative vale il principio del “tempus regit actum”), il superamento della durata massima settimanale comporta l’applicazione nei confronti del datore di lavoro trasgressore di una sanzione compresa tra 100 e 750 euro. Se essa riguarda più di cinque lavoratori (e nel computo

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rientrano anche gli apprendisti maggiorenni ai quali si applica “in toto” il D.L.vo n. 66/2003) o se si verifica in almeno tre periodi di riferimento (quattro, sei o dodici mesi) la sanzione lievita passando da un minimo di 400 ad un massimo di 1500 euro. Se, invece, la violazione è riscontrata per più di dieci prestatori o si è verificata in almeno cinque periodi di riferimento ciò che deve pagare il datore di lavoro è ancora più elevato: infatti si passa da un minimo di 1000 ad un massimo di 5000 euro, senza che sia possibile invocare il pagamento in misura ridotta. Da quanto appena detto discende una diretta conseguenza sull’attività degli organi di vigilanza che hanno accertato quest’ultima violazione: non è possibile adottare né l’istituto della diffida ex art. 13 del D.lgs. n. 124/2004 che consente di definire il procedimento con il pagamento del minimo edittale entro il termine di trenta giorni e che disciplina il verbale unico di accertamento e notificazione, né la contestazione della sanzione in misura ridotta ex art. 16 della legge n. 689/1981 (un terzo del massimo edittale o, se più favorevole, il doppio del minimo). Ciò comporta che la definizione dell’importo della sanzione è rimessa alla decisione del Direttore della Direzione provinciale del Lavoro attraverso l’ordinanza-ingiunzione ex art. 18 della legge n. 689/1981.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Corte di Giustizia Europea 429/2009. Il datore di lavoro pubblico o privato che reiteratamente fa superare le 48 ore medie settimanali al lavoratore può essere chiamato al pagamento di un risarcimento del danno. E’ il lavoratore, comunque, che deve dimostrare che esiste un nesso causale diretto tra la violazione della disposizione e il danno subito.

La programmazione del personale in un sistema a turni.

La definizione di turno ai sensi del D.Lgs. 66/2003 art. 1.

Qualsiasi metodo di organizzazione del lavoro anche a squadre in base al quale dei lavoratori siano successivamente occupati negli stessi posti di lavoro, secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o discontinuo, e il quale comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti su un periodo determinato di giorni o di settimane e che richiedano la presenza del personale nell’arco delle 12 o 24 ore.

Il turnista.

E’ considerato lavoratore a turni un qualsiasi lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Corte di Cassazione n. 12962/2008. In controversia relativa a fattispecie in cui i dipendenti a tempo pieno di una societa' di pubblici servizi avevano lamentato di essere messi a

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conoscenza dei turni di servizio senza adeguato anticipo rispetto al giorno di svolgimento della prestazione lavorativa, chiedendo il risarcimento del danno alla vita di relazione derivato da tale situazione, la Corte di Cassazione ha affermato che, anche nei rapporti a tempo pieno, il tempo libero ha una sua specifica importanza, stante il rilievo sociale che assume lo svolgimento da parte del lavoratore di attivita' extralavorative ( o relative a un secondo lavoro, ove non sia prevista esclusiva), sicche' l'obbligo datoriale di affissione in luoghi accessibili dei turni di servizio dev'essere inteso come diretto a consentire al lavoratore di conoscere in via anticipata, in un termine ragionevole, i propri impegni lavorativi, al fine di una programmazione del proprio tempo libero.

La turnazione notturna.

L’orario notturno ai sensi del D.Lgs. 66/2003 art. 1 e 13.

Il periodo notturno è un unità di tempo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo tra le 24 e le 5 del mattino. Il lavoratore notturno è un qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolge almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero per un minimo di 80 giorni annui salvo indicazioni diverse da C.C.N.L. Questo limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale. L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore in media nelle 24 ore. Un riferimento più ampio sul quale calcolare tale media può essere individuato da parte dei contratti collettivi o aziendali. Il periodo minimo di riposo settimanale non viene preso in considerazione per il computo della media quando coincida con il periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.

Circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Gli articoli dall’11 al 15, in materia di lavoro notturno, riprendono in larga misura il contenuto del decreto legislativo n. 532 del 1999 con il quale era stata data attuazione alla delega conferita al Governo dall’art. 17, comma 2 della legge n. 25 del 1999, nonché alla direttiva 93/104. La normativa di cui ai citati articoli non si allontana, sostanzialmente, da quella del 1999, ma viene riordinata e razionalizzata. Il lavoro notturno è quello prestato in un periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l'intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino. Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva. Il lavoratore notturno è il lavoratore che svolge, durante il periodo notturno, almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale; è, inoltre, lavoratore notturno anche colui che svolge durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro. Qualora la disciplina collettiva nulla stabilisca sul punto è considerato

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lavoratore notturno qualsiasi lavoratore che svolga, durante il periodo notturno almeno una parte del suo tempo di lavoro giornaliero, per un minimo di 80 giorni lavorativi all'anno. Quest’ultimo criterio di definizione del lavoratore notturno non va a sovrapporsi con il primo in quanto prende in considerazione lo svolgimento di una prestazione lavorativa in parte esercitata durante il periodo notturno, a prescindere che l’attività in oggetto rientri nell’orario normale di lavoro. Quindi, deve considerarsi lavoratore notturno anche colui che non sia impiegato in modo normale durante il periodo notturno ma che, nell’arco di un anno, svolga almeno 80 giorni di lavoro notturno. Ad esempio se al lavoratore è richiesto lo svolgimento, per esigenze contingenti, di prestazioni durante il periodo notturno, tale prestatore è considerato lavoratore notturno ai fini della disciplina in oggetto se detto periodo, anche frazionato, abbia durata di almeno 80 giorni lavorativi nell’arco temporale di un anno solare. Ove il limite degli 80 giorni venga superato in ragione del sopravvenire di eventi eccezionali e straordinari (gravi incidenti agli impianti o nell’esercizio di particolari servizi, calamità naturali), non potrà configurarsi la fattispecie in esame. Il suddetto limite minimo è riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale. Il lavoratore, per poter svolgere prestazioni di lavoro notturno, deve esserne ritenuto idoneo mediante accertamento ad opera delle strutture sanitarie pubbliche competenti o per il tramite del medico competente. I lavoratori notturni, la cui idoneità sia già stata verificata ai sensi della legge previgente, non devono essere sottoposti ad un nuovo accertamento. Oltre a questa iniziale valutazione che deve precedere l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, lo stato di salute dei lavoratori notturni deve essere periodicamente verificato. La periodicità di tali controlli è individuata dal legislatore in almeno due anni. I controlli potranno essere più frequenti sia nel caso in cui il medico competente abbia prescritto una periodicità inferiore sia nel caso in cui siano mutati i rischi relativi alle lavorazioni cui il lavoratore è addetto. Tali controlli devono essere effettuati dalle competenti strutture sanitarie pubbliche, o dal medico competente di cui all’articolo 17 del decreto legislativo n. 626 del 1994. In ogni caso tali controlli devono avvenire a cura e spese del datore di lavoro. Ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. n. 66/2003, per tutti i lavoratori notturni, l’orario non può superare le 8 ore, in media, nell’arco di 24 ore calcolate dal momento di inizio dell’esecuzione della prestazione lavorativa. Tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa – salva l'individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite – considerato che il Legislatore ha in più occasioni adoperato l’arco settimanale quale parametro per la quantificazione della durata della prestazione (vedi ad esempio gli articoli 3 e 4 del D.Lgs. n. 66/2003 in materia di orario normale di lavoro e orario medio). Per il settore della panificazione industriale la media su cui calcolare il limite di durata della prestazione lavorativa è riferito, comunque, alla settimana lavorativa e, pertanto, la norma si configura quale limite alla contrattazione collettiva di estendere ulteriormente il periodo di riferimento sul quale calcolare l’orario di lavoro. Inoltre, conformemente alla direttiva 93/104/CE, per alcune lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il limite orario è di otto ore nel corso di ogni periodo di 24 ore. In questo caso il limite è fisso e non va considerato come media.

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L’individuazione di tali lavorazioni è rimessa ad un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali – di concerto col Ministro per la funzione pubblica per quanto riguarda, in modo non esclusivo, i pubblici dipendenti – previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali dei lavoratori e dei datori di lavoro. Per le materie di esclusivo interesse dei pubblici dipendenti il decreto è adottato dal ministro della funzione pubblica di concerto col Ministro del lavoro e delle politiche sociali. La durata massima della settimana lavorativa non potrà, quindi, superare le 48 ore comprensive delle ore di straordinario, tenendo presente che queste ultime non potranno essere superiori, in assenza di determinazioni collettive, di 250 ore annue. Nel computo della media su cui calcolare il limite delle 8 ore non si deve tener conto del periodo di riposo minimo settimanale quando questo ricade nel periodo di riferimento stabilito dai contratti collettivi.

Le sanzioni amministrative.

La sanzione per il superamento del limite di otto ore di lavoro notturno in media nelle 24 ore fatto salvo quanto surrogato dalla disciplina collettiva applicabile varia da euro 51 a 154 per ogni giorno e per ogni lavoratore adibito al lavoro notturno oltre il limite.

I limiti oggettivi al lavoro notturno ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

Esistono dei limiti oggettivi che impediscono al prestatore d’opera di lavorare in un periodo notturno: 1) Dall’accertamento tramite organo competente della sanità pubblica; 2) Dall’accertamento dello stato di gravidanza al compimento di un anno di età del bambino; 3) Da requisiti stabiliti dai C.C.N.L. o dalla legge che possono individuare delle figure escluse da

tale obbligo.

I limiti soggettivi al lavoro notturno ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

Esistono anche dei limiti soggettivi che permettono a richiesta la possibilità di essere esentati dal prestare l’opera in un periodo notturno:

1) Per la lavoratrice madre o in alternativa padre convivente con un figlio di età inferiore a 3 anni. 2) Per la lavoratrice o il lavoratore unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore

a 12 anni. 3) Per la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della

legge n 104/1992 e successive modifiche.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

L’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno è obbligatoria per i lavoratori idonei fatto salvi i casi di divieto o di esclusione dall’obbligo di eseguire la prestazione.

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È vietato adibire al lavoro dalle 24 alle 6 le donne in gestazione dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino o, comunque, dal momento in cui il datore di lavoro ha avuto conoscenza della fattispecie generatrice del divieto. Alcuni lavoratori hanno facoltà di non prestare lavoro notturno dandone comunicazione, in forma scritta, al datore di lavoro entro 24 ore precedenti al previsto inizio della prestazione. Il datore ha facoltà di accettare la comunicazione del rifiuto avvenuta in un termine inferiore rispetto a quello previsto. L’individuazione dei requisiti dei lavoratori che determinano l’insorgere della facoltà sono stabiliti dai contratti collettivi. Il decreto prevede, inoltre, che abbiano facoltà di rifiutarsi di prestare lavoro notturno: la lavoratrice subordinata, madre di un figlio di età inferiore di tre anni o, qualora la stessa non abbia esercitato la facoltà di rifiutare l’esecuzione di prestazioni di lavoro notturno, il lavoratore padre convivente che sia anch’esso lavoratore subordinato; l’unico genitore affidatario e convivente di

un minore di età inferiore a 12 anni; coloro che abbiano a loro carico un soggetto disabile ai sensi della

legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

La disabilità e il soggetto a carico, ministero del lavoro interpello n 4/2009.

Oggetto: art. 9, D.Lgs. n. 124/2004 – art. 11, comma 2 lett. c), D.Lgs. n. 66/2003 lavoro notturno – soggetti che hanno “a proprio carico” un soggetto disabile ai sensi della L. n. 104/1992. La Confindustria ha avanzato istanza di interpello per conoscere il parere di questa Direzione in merito alla corretta interpretazione dell’art. 11, comma 2 lett. c), del D.Lgs. n. 66/2003, secondo il quale non sono obbligati a prestare lavoro notturno, fra l’atro, “la lavoratrice o il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e successive modificazioni”. In particolare si chiede un chiarimento sull’esatto significato da attribuire all’espressione “a proprio carico” di cui alla norma citata, posto che non risultano significativi precedenti giurisprudenziali in materia né specifiche indicazioni interpretative da parte di questo Ministero. Al riguardo, acquisito il parere della Direzione generale della Tutela della Condizioni di Lavoro, della Direzione generale per le Politiche Previdenziali e dell’INPS, si rappresenta quanto segue. La normativa di cui alla L. n. 104/1992 è volta, in particolare attraverso la fruizione dei permessi di cui all’art. 33, ad agevolare la cura del soggetto che si trovi in stato di disabilità ai sensi della stessa Legge e la disposizione in oggetto, seppur contenuta nel diverso contesto D.Lgs. n. 66/2003, va interpretata secondo la medesima ratio. Più in particolare i benefici in questione, ivi compresi quelli concernenti l’astensione dal lavoro notturno, vanno collegati ad una effettiva assistenza da parte della lavoratrice e del lavoratore al soggetto disabile. Da ciò deriva dunque la necessità di verificare se, al di là di ogni interpretazione letterale della disposizione normativa e, nello specifico, della locuzione “a proprio carico”, sussista tale effettività della assistenza prestata al disabile, disamina che non può prescindere dai più recenti chiarimenti giurisprudenziali ben sintetizzati dall’INPS con circ. n. 90/2007. Ciò premesso, si ritiene che l’individuazione del soggetto ammesso al beneficio di cui all’art. 11, comma 2 lett. c), del D.Lgs. n. 66/2003 vada ancorata ai già noti criteri della “sistematicità ed adeguatezza” e, quindi, solo il soggetto che risulti già godere dei benefici della L. n. 104/1992 – o possederne i requisiti per goderne – secondo gli attuali criteri normativi e giurisprudenziali richiamati potrà richiedere l’esonero dalla prestazione dal lavoro notturno.

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Le sanzioni amministrative.

Per la violazione dei limiti oggettivi e soggettivi, in tal caso se espresso il dissenso, al servizio notturno porta ad una sanzione che prevede l’arresto da 2 a 4 mesi o un’ammenda che varia da euro 516 a 2582.

La richiesta al servizio notturno ai sensi del D.Lgs. 532/99 art. 3.

Sono adibiti al lavoro notturno con priorità assoluta i lavoratori e le lavoratrici che ne facciano richiesta, tenuto conto delle esigenze organizzative aziendali.

Il trasferimento a lavoro diurno ai sensi del D.Lgs. 532/99 art. 6.

In caso sopraggiungano condizioni di salute, comprovate dal medico competente, che comportano l’inidoneità al lavoro notturno, il lavoratore sarà assegnato ad altre mansioni diurne. Sono demandate alla contrattazione le modalità applicative. Nel caso in cui ciò non risulti possibile l'assegnazione a mansioni diurne, è demandato alla contrattazione definire le soluzioni.

Alcune sentenze.

1) Sentenza Corte di Cassazione n. 23807/2011. E’ da considerare illegittimo il licenziamento della lavoratrice la quale si è rifiutata di svolgere le proprie mansioni in orario notturno, ai sensi dell’art. 11, secondo comma, del D.Lgs. 66 del 2003, visto che il datore di lavoro non ha fornito la prova della impossibilità di adibire la lavoratrice a mansioni alternative diurne.

Il riposo settimanale.

Le fondamenta nella legge n. 370/1934.

“Art. 1: Al personale che presta la sua opera alle dipendenze altrui è dovuto ogni settimana un riposo di 24 ore consecutive, salvo le eccezioni stabilite dalla presente legge. Le disposizioni della presente legge non si applicano:

1. Al personale addetto ai lavori domestici inerenti alla vita della famiglia. 2. Alla moglie, ai parenti ed agli affini non oltre il terzo grado del datore di lavoro, con lui

conviventi ed a suo carico. 3. Ai lavoranti al proprio domicilio. 4. Al personale preposto alla direzione tecnica od amministrativa di un'azienda ed avente

diretta responsabilità nell'andamento dei servizi. 5. Al personale navigante. 6. Al personale addetto alla pastorizia brada.

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7. Ai lavoranti a compartecipazione compresi i mezzadri ed i coloni parziari. Per i lavoranti retribuiti con salario e compartecipazione si tiene conto del carattere prevalente del rapporto.

8. Al personale addetto ai lavori di risicultura in quanto provvedono apposite norme. 9. Al personale direttamente dipendente da aziende esercenti ferrovie e tramvie pubbliche. 10. Al personale addetto ai servizi pubblici esercitati direttamente dallo Stato, dalle provincie e

dai comuni ed al personale addetto alle aziende industriali esercitate direttamente dallo Stato.

11. Al personale addetto agli uffici dello Stato, delle province, dei comuni ed a quello addetto agli uffici e servizi delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.

12. Al personale addetto ai regi istituti di istruzione e di educazione anche se aventi personalità giuridica propria ed autonomia amministrativa, nonchè al personale degli istituti di istruzione e di educazione eserciti direttamente dalle provincie e dai comuni.

13. Al personale addetto alle attività degli altri enti pubblici, quando provvedano speciali disposizioni legislative.

14. Salvo il disposto degli articoli 4 e 5, n. 3, al personale addetto alle industrie che trattano materia prima di facile deperimento e il cui periodo di lavorazione si svolge in non più di tre mesi all'anno. Tali industrie saranno determinate con decreto del ministro delle corporazioni, intese le corporazioni competenti.

Art. 3: Il riposo di 24 ore consecutive deve essere dato la domenica, salvo le eccezioni stabilite dagli articoli seguenti. Il riposo di 24 ore consecutive, cada esso in domenica o in altro giorno della settimana, deve decorrere da una mezzanotte all'altra, ovvero dall'ora che sarà stabilita dai contratti collettivi di lavoro o, in mancanza di detti contratti e quando lo richieda la natura dell'esercizio, dall'ispettorato corporativo. Per i lavori a squadre il riposo decorre dall'ora di sostituzione di ciascuna squadra. Il riposo compensativo di 12 ore, previsto dagli articoli seguenti, decorre dalla mezzanotte al mezzogiorno e viceversa. Art. 4: Qualora per le attività soggette alla presente legge siano previste eccezioni all'obbligo del riposo di 24 ore consecutive ogni settimana, alle donne di qualsiasi età ed ai minori degli anni 14 deve essere tuttavia dato, ogni settimana, un riposo compensativo ininterrotto di 24 ore, salvi i casi previsti dagli articoli 6, 8, 12 e 15. Eguale riposo deve essere dato:

a) ai minori degli anni 14 e alle donne minori degli anni 18 addetti alle industrie determinate a norma dell'articolo 1, n. 14, qualunque sia la durata della loro occupazione nell'azienda; b) alle donne maggiori degli anni 18 addette alle industrie determinate a norma dell'articolo 1, n. 14, quando il periodo complessivo della loro occupazione nell'azienda superi i tre mesi all'anno.

Art. 5: Il riposo di 24 ore consecutive può cadere in giorno diverso dalla domenica, e può essere attuato mediante turni al personale addetto all'esercizio delle seguenti attività:

1. operazioni industriali per le quali si abbia l'uso di forni a combustione o ad energia elettrica per l'esercizio di processi caratterizzati dalla continuità della combustione ed operazioni collegate;

2. operazioni industriali il cui processo debba in tutto o in parte svolgersi in modo continuativo;

3. industrie di stagione per le quali si abbiano ragioni di urgenza riguardo alla materia prima o al prodotto dal punto di vista del loro deterioramento e della loro utilizzazione, comprese le industrie determinate a norma dell'articolo 1, n. 14, per il loro periodo di lavorazione eventualmente eccedente i tre mesi, ovvero quando nella stessa azienda e con lo stesso

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personale si compiano varie delle suddette industrie con un decorso complessivo di lavorazione superiore ai tre mesi;

4. altre attività per le quali il funzionamento domenicale corrisponda ad esigenze tecniche od a ragioni di pubblica utilità. Le attività di cui al presente articolo saranno determinate con decreto del ministro per le corporazioni intese le corporazioni competenti.

Le basi Costituzionali.

Art. 36: Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale… Il diritto al riposo settimanale è irrinunciabile secondo quanto stabilito da tale articolo, pertanto una eventuale pattuizione contraria di un contratto collettivo o di un contratto individuale sarebbe radicalmente nulla. La costituzione prevede il riposo ogni 7 giorni ma non ne quantifica la durata. Per questo motivo bisognerà poi fare riferimento nello specifico alle leggi in materia.

Il riposo settimanale ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

Il lavoratore ha diritto ogni 7 giorni a un periodo di almeno 24 ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica da cumulare con le ore di riposo giornaliero. Il riposo settimanale non è rinunciabile e non può essere monetizzato. Il riposo può essere un giorno diverso dalla domenica in servizi e attività il cui funzionamento corrisponda ad esigenze tecniche o sia di interesse alla collettività.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il lavoratore ha diritto ad un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive, ogni sette giorni, di regola coincidenti con la domenica. Il periodo di riposo settimanale deve essere cumulato con il riposo giornaliero, per un totale di 35 ore consecutive nelle ipotesi in cui il periodo di riposo sia individuato in 11 ore. Il decreto pone una intricata disciplina in materia di eccezioni e deroghe ai principi indicati in materia di riposi settimanali. In particolare prevede due categorie di eccezioni. Da un lato prevede che le regole della periodicità, della coincidenza con la domenica, della durata e della consecutività possano essere derogate per alcune attività, quelle di cui alle lettera a), b), c) dell’art. 9, comma 2 del decreto legislativo n. 66 del 2003. Inoltre prevede che la contrattazione collettiva possa introdurre delle deroghe purché ai lavoratori siano concessi periodi equivalenti di riposo compensativo o, in caso di eccezionale impossibilità oggettiva, che sia predisposta una protezione appropriata a favore degli stessi. Dall’altro lato prevede che la regola della coincidenza del riposo domenicale possa essere derogato nelle ipotesi elencate - peraltro già contenute nell’art. 5 della legge n. 370 del 1934 - in cui il riposo settimanale di 24 ore consecutive può essere spostato in un giorno diverso dalla domenica e attuato mediante turni del personale. Innanzitutto, per quanto riguarda la prima categoria di eccezioni, la disposizione che prevede che il periodo di riposo settimanale debba coincidere con la domenica può essere derogata in quanto la coincidenza è esclusivamente tendenziale. La disposizione che prevede la cadenza del riposo ogni sette

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giorni può essere derogata, in conformità agli orientamenti consolidati e prevalenti in giurisprudenza, in presenza, si ritiene, di una triplice condizione: che esistano degli interessi apprezzabili, che si rispetti, nel complesso, la cadenza di un giorno di riposo ogni sei di lavoro, che non si superino i limiti di ragionevolezza con particolare riguardo alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori. La disposizione che prevede la durata del riposo può essere derogata nel limite delle 24 ore che costituiscono la soglia minima di tutela. Qualora esistano delle disposizioni che prevedono la durata del riposo al di sotto di tale soglia, le stesse dovranno prevedere un recupero compensativo. La disposizione che prevede la consecutività delle ore di riposo può anch’essa essere derogata nel rispetto del limite delle 24 ore. Il decreto fa salve le disposizioni speciali in materia di riposi settimanali e deroghe previste dalla disciplina dettata in materia di riposi domenicali e settimanali. Le ulteriori attività per le quali il decreto legislativo n. 66 del 2003 ammette la derogabilità della disciplina del riposo settimanale, che non siano già previste da disposizioni vigenti, saranno individuate con decreto del Ministero del Lavoro, adottato dopo aver sentito le organizzazioni sindacali nazionali di categoria comparativamente più rappresentative, nonché le organizzazioni nazionali dei datori di lavoro. Pertanto, qualora un contratto collettivo finisca per identificare una nuova attività, diversa da quelle già previste, si dovrà attivare la procedura di cui all’art. 9.

Il riposo settimanale in sanità pubblica ai sensi della legge 133/2008. In sanità pubblica tale riposo verrà calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni.

Le sanzioni amministrative.

L’art. 7 della legge n. 183/2010 riprende, sotto l’aspetto sanzionatorio, i principi correlati sia al numero dei lavoratori che alle “fasce predeterminate”. La sanzione amministrativa “base” è compresa tra 100 e 750 euro: se la stessa si riferisce a più di cinque lavoratori o si è verificata in almeno tre periodi di riferimento, l’importo è elevato in un “range” compreso tra 400 e 1500 euro. Se la violazione riguarda più di dieci lavoratori e si è verificata in almeno cinque periodi di riferimento l’importo, non soggetto né alla diffida né al pagamento in misura ridotta, è elevato ulteriormente ed è compreso in una “forbice” che va da 1000 a 5000 euro.

Alcune sentenze.

1) Sentenza della Corte di Cassazione n. 5207/2003. Il diritto ad una prestazione indennitaria prestata il 7°giorno lavorativo non è escluso dalla circostanza che la disciplina collettiva preveda un particolare trattamento retributivo per la prestazione lavorativa domenicale, salvo che tale trattamento risulti destinato a compensare, oltre la penosità del lavoro festivo, anche l’usura dell’attività lavorativa prestata.

2) Sentenza della Corte di Cassazione n. 5207/2003. Il diritto del lavoratore a percepire una maggiorazione economica del compenso stabilita in via equitativa per aver svolto turni di lavoro oltre il 6° giorno di lavoro consecutivo.

3) Sentenza della Corte Costituzionale 146/2008. Non è illegittima la normativa che non applica ai lavoratori pubblici il compenso per la perdita di un giorno di riposo nel caso in cui una festività

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civile coincida con la domenica, in quanto la disciplina è dettata per far fronte esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica.

La pausa all’interno del tempo lavoro.

Le fondamenta nel Regio Decreto 1955/1923 art. 5.

Non si considerano come lavoro effettivo le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l'inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione all'operaio o all'impiegato. Tuttavia saranno considerate nel computo del lavoro effettivo quelle soste, anche se di durata superiore ai quindici minuti, che sono concesse all'operaio nei lavori molto faticosi allo scopo di rimetterlo in condizioni fisiche di riprendere il lavoro.

La pausa ai sensi del D.Lgs. 66/2003 art. 8.

Qualora l'orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo. In difetto di disciplina collettiva al lavoratore deve essere concessa una pausa tra l'inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo. Il tempo impiegato per la pausa viene rilevato con i normali mezzi di controllo dell’orario. La pausa può essere fruita anche sul posto di lavoro. Salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi, rimangono non retribuiti o computati come lavoro ai finì del superamento dei limiti di durata tali periodi. Il periodo non può essere sostituito da compensazioni economiche.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

Il lavoratore ha diritto ad un intervallo di pausa dall’esecuzione della prestazione lavorativa quando la stessa ecceda le sei ore nell’ambito dell’orario di lavoro. Le funzioni per le quali è previsto il diritto alla pausa sono individuate nell’esigenza di consentire il recupero delle energie, nell’eventuale consumazione del pasto e nell’attenuazione del lavoro ripetitivo e monotono. La durata e le modalità della pausa sono stabilite dalla contrattazione collettiva. In mancanza di contrattazione collettiva che preveda una pausa per una finalità qualsiasi, anche ulteriore rispetto a quelle previste dal decreto, il lavoratore ha diritto ad un intervallo non inferiore a 10 minuti.

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Il periodo di pausa può essere fruito anche sul posto di lavoro, in quanto la finalità della pausa è quella di costituire un intervallo tra due momenti di esecuzione della prestazione, ma non può essere sostituito da compesazioni economiche. La eventuale “concentrazione” della pausa all’inizio o alla fine della giornata lavorativa, che determina in sostanza una sorta di riduzione dell’orario di lavoro, può essere ritenuta lecita come disciplina derogatoria, ex art. 17 comma 1 e per il legittimo esercizio della quale è necessario accordare ai lavoratori degli equivalenti periodi di riposo compensativo o, comunque, assicurare una appropriata protezione. Quindi si ritengono superate, dalle disposizioni di legge, quelle regole collettive o individuali che prevedono al posto della pausa la sola compensazione economica. La determinazione del momento in cui godere della pausa è rimessa al datore di lavoro che la può individuare, tenuto conto delle esigenze tecniche dell’attività lavorativa, in qualsiasi momento della giornata lavorativa e non necessariamente successivamente al trascorrere delle 6 ore di lavoro. Quindi, nell’ipotesi in cui l’organizzazione del lavoro preveda la giornata c.d. spezzata, la pausa potrà coincidere con il momento di sospensione dell’attività lavorativa. La pausa minima stabilita per legge e corrispondente a 10 minuti deve essere fruita consecutivamente affinché possa essere raggiunta la finalità per la quale è prevista. I periodi di pausa, stante la definizione di orario di lavoro, non vanno computati come lavoro ai fini del superamento dei limiti di durata. I periodi di pausa non sono retribuiti, salvo diverse disposizioni dei contratti collettivi. In particolare non sono retribuiti i riposi intermedi che siano presi sia all’interno che all’esterno dell’azienda; il

tempo impiegato per recarsi al posto di lavoro ; le soste di lavoro di durata non inferiore a dieci minuti

e complessivamente non superiore a due ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata di lavoro, durante le quali non sia richiesta alcuna prestazione. I lavoratori che utilizzino un’attrezzatura munita di videoterminali in modo sistematico o abituale, per venti ore settimanali, hanno diritto, qualora svolgano tale attività per almeno quattro ore consecutive, ad una pausa stabilita, nelle modalità, dalla contrattazione collettiva. Qualora nulla disponga la contrattazione collettiva, questi lavoratori hanno diritto a 15 minuti di pausa ogni 120 minuti di applicazione continuativa al videoterminale, senza possibilità di cumulo all’inizio ed al termine dell’orario di lavoro. Il tempo di pausa è considerato orario di lavoro. Il periodo di pausa di cui all’articolo 8 è assorbito da quello appena indicato quando quest’ultimo comporti una interruzione dell’attività lavorativa e non consista in un cambiamento dell’attività.

Le ferie del personale dipendente.

La definizione di ferie.

Le ferie sono delle giornate di astensione dal lavoro. Le prescrizioni normative a tal proposito previste da più ordinamenti, si rivolgono generalmente solo alla categoria dei lavoratori dipendenti, non ai lavoratori autonomi né ai liberi professionisti. Per i lavoratori dipendenti di ogni professione e tipologia contrattuale, le ferie sono giornate di non lavoro, pagate per diritto al 100% del salario giornaliero lavorativo e quantificate annualmente per norma o contratto.

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Le basi Costituzionali.

Art. 36: Il lavoratore ha diritto …..a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.

Le ferie annuali ai sensi dell’art. 2109 del Codice Civile.

La durata delle ferie è fissata dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e secondo equità. Il momento di godimento delle ferie è stabilito dal datore di lavoro che deve tener conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. Il periodo delle ferie deve essere possibilmente continuativo. Le ferie non godute non sono monetizzabili.

La direttiva 2003/88 CEE art.7.

Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un'indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro.

Le giornate di ferie ai sensi del D.Lgs. 66/2003.

Per legge il prestatore di lavoro ha diritto ad un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a 4 settimane. Le ferie vanno godute per almeno 2 settimane consecutive in caso di richiesta del lavoratore nell’anno di maturazione e per le restanti 2 settimane entro i 18 mesi successivi al termine dell’anno di maturazione. Il momento di godimento delle ferie è stabilito dal datore di lavoro che deve tener conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del lavoratore. Il periodo delle ferie deve essere possibilmente continuativo. Al dipendente spetta la normale retribuzione, escluse le indennità previste per prestazioni di lavoro straordinario e quelle che non siano corrisposte per dodici mensilità. Le ferie sono un diritto irrinunciabile e non sono monetizzabili. All'atto della cessazione dal rapporto di lavoro, qualora le ferie non siano state fruite per esigenze di servizio, si procede al pagamento da parte dell'azienda o ente di provenienza. Il compenso sostitutivo delle ferie non fruite, nel caso di cessazione del rapporto di lavoro, è determinato, per ogni giornata, con riferimento all’anno di mancata fruizione.

La circolare n. 8/2005 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.

La disciplina in materia di ferie è, innanzitutto, regolata dall’art. 36, comma 3, della Costituzione, che tutela il diritto del lavoratore ad un periodo di ferie annuali retribuite cui non può rinunciare.

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L'art. 2109, comma 2, del Codice Civile dispone poi che la durata delle ferie è fissata dalla legge, dai contratti collettivi, dagli usi e secondo equità; che il momento di godimento delle ferie è stabilita dal datore di lavoro che deve tenere conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del lavoratore; che il periodo feriale deve essere possibilmente continuativo; che il periodo feriale deve essere retribuito. Oltre a quanto sopra indicato la Convenzione OIL n. 132 del 24 giugno 1970 (ratificata con legge 10 aprile 1981, n. 157) prevede un periodo di ferie minimo di tre settimane di cui due da godere ininterrottamente. Inoltre, dispone che la fruizione del periodo bisettimanale “dovrà essere accordata e usufruita entro il termine di un anno al massimo, e il resto del congedo annuale pagato entro il termine di diciotto mesi, al massimo, a partire dalla fine dell’anno che dà diritto al congedo”. Inoltre, “ogni parte di congedo annuale che superi un minimo stabilito potrà, con il consenso della persona impiegata interessata, essere rinviata, per un periodo limitato, oltre i limiti indicati” in precedenza. La Corte costituzionale, con sentenza 19 dicembre 1990, n. 543, ha, fra l’altro, affermato che il godimento infra-annuale dell’intero periodo di ferie deve essere contemperato con le esigenze di servizio che hanno carattere di eccezionalità o comunque con esigenze aziendali serie. In questo quadro normativo si è inserito il decreto legislativo 66 del 2003 che ha disposto che “il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane”. Quindi, nel caso di fruizione di un periodo feriale consecutivo di quattro settimane, tale periodo equivale a 28 giorni di calendario. Con il decreto legislativo n. 66 del 2003 è stata introdotto per la prima volta in Italia, in modo espresso, il divieto di monetizzare il periodo di ferie corrispondente alle quattro settimane previste dalla legge, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro nel corso dell’anno. Per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, di durata inferiore all’anno, è quindi sempre ammissibile la monetizzazione delle ferie. L’impossibilità di sostituire il godimento delle ferie con la corresponsione dell’indennità sostitutiva è operante per la quota di ferie maturata a partire dal giorno dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia dal 29 aprile 2003. Nei casi di sospensione del rapporto di lavoro che rendano impossibile fruire delle ferie secondo il principio della infra-annualità, le stesse dovranno essere godute nel rispetto del principio dettato dall’art. 2109 cod civ, espressamente richiamato nell’art. 10 del decreto legislativo n. 66 del 2003, ossia “nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro”. Il legislatore delegato ha, ora, dettato una specifica disciplina sul punto, in forza della quale si possono distinguere 3 periodi di ferie. Un primo periodo, di almeno due settimane, da fruirsi in modo ininterrotto nel corso dell’anno di maturazione, su richiesta del lavoratore. La richiesta del lavoratore dovrà essere inquadrata nel rispetto dei principi dell’art. 2109 del Codice Civile. Pertanto, anche in assenza di norme contrattuali, dovrà essere formulata tempestivamente, in modo che l’imprenditore possa operare il corretto contemperamento tra le esigenze dell’impresa e gli interessi del prestatore di lavoro. La contrattazione collettiva e la specifica disciplina per le categorie di cui all’articolo 2 comma 2 possono disporre diversamente. Allo scadere di tale termine, se il lavoratore non ha goduto del periodo feriale di due settimane, il datore sarà passibile di sanzione. Il periodo cui si riferisce la violazione è quello di due settimane. sarà sufficiente che il lavoratore non abbia goduto anche solo di una parte di detto periodo perché il datore di lavoro sia considerato soggetto alla sanzione indicata, anche nelle ipotesi in cui il godimento di detto congedo annuale sia in corso di godimento in quanto il periodo deve essere fruito nel corso dell’anno di maturazione e non oltre il termine di esso.

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Un secondo periodo, di due settimane, da fruirsi anche in modo frazionato ma entro 18 mesi dal termine dell’anno di maturazione, salvi i più ampi periodi di differimento stabiliti dalla contrattazione collettiva. Nell’ipotesi in cui la contrattazione stabilisca termini meno ampi per la fruizione di tale periodo (ad esempio nel settore del pubblico impiego ove il termine è di 6 mesi) il superamento di questi ultimi, quando sia comunque rispettoso del termine dei 18 mesi, determinerà una violazione esclusivamente contrattuale. Un terzo periodo, superiore al minimo di 4 settimane stabilito dal decreto, potrà essere fruito anche in modo frazionato ma entro il termine stabilito dall’autonomia privata dal momento della maturazione. Questo ultimo periodo può essere monetizzato tenendo conto, per il settore del pubblico impiego, delle previsioni dettate al riguardo.

Le sanzioni amministrative.

Il nuovo apparato sanzionatorio risponde ai principi numerici e di “fasce predeterminate”. La mancata fruizione del periodo minimo di ferie retribuite è punita con la sanzione amministrativa compresa tra 100 e 600 euro. Se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori o si è verificata in almeno due anni, l’importo si eleva ed è compreso tra 400 e 1500 euro. Se i lavoratori sono più di dieci o si è verificata in almeno quattro anni, la “forbice sanzionatoria” è compresa tra 800 e 4500 euro e non è né diffidabile, né ammissibile alla riduzione ex art. 16 della legge n. 689/1981.

Alcune sentenze.

1) Sentenza della Pretura di Milano 16/11/96 n 344. È illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore di lavoro allorché non venga salvaguardata la funzione fondamentale dell'istituto di consentire al lavoratore la reintegrazione delle energie psicofisiche. Nella fattispecie, il Pretore ha ritenuto in contrasto con la funzione dell'istituto la fruizione di un solo giorno di ferie per disposizione del datore di lavoro.

2) Sentenza della Pretura di Milano 20/1/99 n 359. E' illegittima la determinazione unilaterale del periodo di godimento delle ferie da parte del datore di lavoro allorché non venga tenuto conto anche degli interessi dei lavoratori e non vi siano comprovate esigenze organizzative aziendali.

3) Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione quinta n. 443/2007. Troppo facile sarebbe per il lavoratore, secondo il Consiglio di Stato, sostenere senza dimostrarlo che le ferie non sono state concesse dal datore di lavoro, ai fini del compenso sostitutivo. In altre parole la Sezione quinta del Consiglio di Stato con sentenza del 13 agosto 2007, n. 443 ha sostenuto che non compete alcun compenso sostitutivo al lavoratore se il dipendente non dimostra che le ferie richieste sono state negate dall’amministrazione di appartenenza per esigenze di servizio.

4) Sentenza della Corte di Cassazione 7303/2007. Dal mancato godimento delle ferie - una volta divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligo di consentirne la fruizione - deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, che ha natura retributiva, in quanto rappresenta la corresponsione del valore di prestazioni non dovute e non restituibili in forma specifica, in misura pari alla retribuzione. Le clausole del contratto collettivo di diritto comune, che disciplinano esclusivamente il godimento delle ferie e non anche l’indennità sostitutiva, sono da interpretare alla luce dell’irriducibilità del diritto alle ferie, del divieto di monetizzazione di siffatto diritto, ed in applicazione del principio di conservazione del

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contratto - nel senso che, in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, questi ha egualmente diritto all’indennità sostitutiva.

5) Sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, n. 560/2007. Il permanere in servizio per svolgere delle incombenze d’ufficio, come frutto di una scelta personale, rendendo materialmente impossibile la fruizione delle ferie, pur essendo un comportamento meritevole del più favorevole apprezzamento, non può avere conseguenze di ordine retributivo, quale il pagamento sostitutivo, che la legge collega al diverso presupposto del diniego espresso dall’Amministrazione per esigenze di servizio.

6) Sentenza della Corte di Cassazione n. 2569 /2001. Questa sentenza è stata originata dalla richiesta di un lavoratore d’ottenere l’effettivo godimento del riposo e non la relativa indennità sostitutiva, corrispondente a 80 giorni di ferie non goduti negli anni precedenti. La Suprema Corte, a differenza dei giudici del merito che avevano esaminato il caso, ha accolto il ricorso del lavoratore, affermando che, in caso di mancato godimento delle ferie, egli ha diritto d’ottenere il risarcimento del danno in forma specifica, ossia l’effettivo godimento dei riposi, e può pertanto rifiutare l’indennità sostitutiva. La Corte di Cassazione ha affermato che nella materia in esame deve trovare applicazione l’articolo 2058 del codice civile, secondo il quale "il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica, qualora sia in tutto o in parte possibile; tuttavia il

giudice può disporre che il risarcimento avvenga solo per equivalente, se la reintegrazione in forma specifica risulta eccessivamente onerosa per il debitore".

7) Sentenza della Corte di Cassazione Sezione Lavoro n. 15776 /2002. L’indennità dovuta al lavoratore per ferie non godute ha natura retributiva e non risarcitoria. Il mancato godimento delle ferie comporta infatti la prestazione di attività lavorativa contrattualmente non dovuta ed irreversibilmente prestata. Poiché il datore di lavoro non può restituire l’indebita prestazione ricevuta egli è obbligato, in base agli articoli 1463 e 2037 cod. civ., al pagamento di una somma, corrispondente alla retribuzione, che costituisce l’indennità sostitutiva. Oltre che a questa somma il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno per la lesione del suo diritto al godimento delle ferie, in termini di perdita di “cura” personale (energie psico-fisiche e tempo libero) familiare e sociale. Per realizzare questo diritto egli deve tuttavia dare la prova del danno. Da tale risarcimento il datore di lavoro può essere esonerato ove provi che il suo inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

8) Sentenza della Corte di Cassazione Sezione Lavoro n. 11516/2001. Solo il ragionevole rifiuto del lavoratore di accettazione di ogni soluzione, offerta dal datore di lavoro, in grado di contemperare il suo diritto al non lavoro retribuito a esigenze di funzionalità aziendale, determina l'estinzione dello stesso diritto alle ferie e alle conseguenziali pretese risarcitorie.

9) Sentenza della Corte di Cassazione n. 13980 /2000. L’azienda non può dilazionare la fruizione delle ferie oltre l’anno di competenza e imporre successivamente al lavoratore di smaltire l’arretrato: pertanto, se il periodo di riposo previsto dal contratto non viene tempestivamente concesso, il dipendente ha diritto al risarcimento.

10) Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione VI, n. 7295/2010. Anche nel settore dell’impiego pubblico anche se non contrattualizzato, il mancato godimento delle ferie, non imputabile all’interessato non preclude di suo l’insorgenza del diritto alla percezione del compenso sostitutivo. Si tratta infatti di un diritto che per sua natura prescinde dallo stretto legame tra prestazione lavorativa e retribuzione che governa il rapporto di lavoro subordinato.

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La monetizzazione delle ferie non fruite in P.A. ai sensi del D.L. 95/2012 art. 5.

Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché le autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile.

La nota del dipartimento della funzione pubblica n. 32937 del 06/08/2012.

In base ai principi generali che governano l’applicazione delle leggi nel tempo, si è dell’avviso che, pur dopo la nuova normativa, debbano rimanere salvaguardate tutte quelle situazioni che si sono definite prima della sua entrata in vigore, poiché, in caso contrario, si attribuirebbe alla norma una portata retroattiva che non è stata esplicitamente prevista. Così, ad avviso dello scrivente, la preclusione alla monetizzazione non riguarda i rapporti di lavoro già cessati prima dell’entrata in vigore dell’art. 5 in esame, le situazioni in cui le giornate di ferie sono state maturate prima dell’entrata in vigore della predetta disposizione e ne risulti incompatibile la fruizione a causa della ridotta durata del rapporto o a causa della situazione di sospensione del rapporto cui segua la sua cessazione (ad esempio i casi di collocamento in aspettativa per lo svolgimento del periodo di prova presso altra amministrazione a seguito della vincita di un concorso secondo le clausole di alcuni comparti).

La nota del dipartimento della funzione pubblica n. 40033 del 08/10/2012.

Nel caso di evento indipendente dalla volontà del lavoratore del pubblico impiego che cessa dal servizio (come ad esempio decesso, malattia, inabilità) le ferie non godute potranno essere monetizzate.

Le festività del personale dipendente.

La definizione.

Per festa o festività si intende la celebrazione nel giorno dell'anniversario di un importante evento religioso o laico di uno Stato. Il calendario delle festività varia per ogni nazione.

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La classificazione.

Oggigiorno, le festività che ricordano date di avvenimenti ben precisi ( per esempio il ss. Natale, 1º maggio, 25 aprile) sono definite fisse; altre, che possono variare il proprio giorno di celebrazione, in

corrispondenza di esigenze astronomiche, climatiche o lavorative sono chiamate mobili ( per esempio la Pasqua). Nel giorno della celebrazione, la maggior parte delle attività lavorative sul territorio nazionale vengono interrotte. Esistono festività anche a carattere regionale o cittadino ( come per esempio le feste che si tengono per il patrono); in questo caso l'astensione dal lavoro sarà osservata solamente da quella determinata

regione o zona territoriale.

Le fondamenta nella legge 260/1949.

Art. 1. Il giorno 2 giugno, data di fondazione della Repubblica, è dichiarato festa nazionale. Art. 2.Sono considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale, i giorni seguenti:

a) tutte le domeniche; b) il primo giorno dell’anno; c) il giorno dell’Epifania; d) il giorno della festa di San Giuseppe; e) il 25 aprile: anniversario della liberazione; f) il giorno di lunedì dopo Pasqua; g) il giorno dell’Ascensione; h) il giorno del Corpus Domini; i) il 1º maggio: festa del lavoro; j) il giorno della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo; k) il giorno dell’Assunzione della B. V. Maria; l) il giorno di Ognissanti; m) il 4 novembre: giorno dell’unità nazionale; n) il giorno della festa dell’Immacolata Concezione; o) il giorno di Natale; p) il giorno 26 dicembre.

Art. 3. Sono considerate solennità civili, agli effetti dell’orario ridotto negli uffici pubblici e dell’imbandieramento dei pubblici edifici, i seguenti giorni:

a) l’11 febbraio: anniversario della stipulazione del Trattato e del Concordato con la Santa Sede; b) il 28 settembre: anniversario della insurrezione popolare di Napoli.

Art. 4. Gli edifici pubblici sono imbandierati nei giorni della festa nazionale, delle solennità civili e del 25 aprile, 1º maggio e 4 novembre. Art. 5. Nelle ricorrenze della festa nazionale (2 giugno), dell’anniversario della liberazione (25 aprile), della festa del lavoro (1º maggio) e nel giorno dell’unità nazionale (4 novembre) lo Stato, gli Enti pubblici e gli imprenditori sono tenuti a corrispondere ai lavoratori da essi dipendenti –i quali siano retribuiti non in misura fissa, ma in relazione alle ore di lavoro da essi compiute e che per effetto della ricorrenza festiva non abbiano prestato la loro opera –la normale retribuzione giornaliera compreso ogni elemento accessorio di questa. Ai lavoratori considerati nel precedente comma che prestino la loro

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opera nelle suindicate festività, è dovuta, oltre la normale retribuzione giornaliera compreso ogni elemento accessorio di questa, la retribuzione per le ore di lavoro effettivamente prestate con la maggiorazione per il lavoro festivo. Ai salariati retribuiti in misura fissa che prestino la loro opera nelle suindicate festività è dovuta, oltre la normale retribuzione giornaliera compreso ogni elemento accessorio di questa, la retribuzione per le ore di lavoro effettivamente prestate con la maggiorazione per il lavoro festivo. Qualora la festività ricorra nel giorno di domenica spetterà ai lavoratori stessi, oltre la normale retribuzione compreso ogni elemento accessorio di essa, anche una ulteriore retribuzione corrispondente all’aliquota giornaliera.

Le festività attuali in Italia.

Le giornate considerate festive in Italia sono: 1) Capodanno (1 gennaio); 2) Epifania (6 gennaio); 3) Pasqua (la domenica successiva al primo plenilunio successivo al 21 marzo); 4) Lunedì dell'Angelo, o Pasquetta (il lunedì dopo la Pasqua); 5) Festa della Liberazione (25 aprile); 6) Festa dei lavoratori (1 maggio); 7) Pentecoste (il 50º giorno dopo Pasqua, e pertanto sempre di domenica); 8) Festa della Repubblica (2 giugno); 9) Assunzione di Maria Vergine o Ferragosto (15 agosto); 10) Tutti i santi (1 novembre); 11) Immacolata Concezione (8 dicembre); 12) Natale (25 dicembre); 13) S. Stefano (26 dicembre).

La variazione delle festività ai sensi del D.L 17 marzo 2011, n. 5 art. 1.

Limitatamente all'anno 2011, il giorno 17 marzo e' considerato giorno festivo ai sensi degli articoli 2 e 4 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Al fine di evitare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e delle imprese private, derivanti da quanto disposto nel comma 1, per il solo anno 2011 gli effetti economici e gli istituti giuridici e contrattuali previsti per la festività soppressa del 4 novembre non si applicano a tale ricorrenza ma, in sostituzione, alla festa nazionale per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia proclamata per il 17 marzo 2011. Dall'attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Ancora ulteriori modifiche nel D.L 30 agosto 2011, n. 138.

A decorrere dall'anno 2012 con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, da emanare entro il 30 novembre dell'anno precedente, sono stabilite annualmente le date in cui ricorrono le festività introdotte con legge dello Stato non conseguente ad accordi con la Santa Sede, (nonché le celebrazioni nazionali e le festività dei Santi Patroni, ad esclusione del 25 aprile, festa della liberazione, del 1º maggio, festa del lavoro, e del 2 giugno, festa

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nazionale della Repubblica L. 148/2011) in modo tale che, sulla base della più diffusa prassi europea, le stesse cadano il venerdì precedente ovvero il lunedì seguente la prima domenica immediatamente successiva ovvero coincidano con tale domenica.

Le festività post modifiche.

Il comma 24 dell’articolo 1, farebbe riferimento alle sole festività dei Santi Patroni e cioè ad un giorno di festa all’anno in più per il lavoratore dipendente.

La disponibilità all’intervento nelle strutture sanitarie.

Strettamente collegato alla nozione di orario di lavoro, la cui genesi è però da ricercarsi nella contrattazione collettiva, nazionale e di secondo livello, e non nella normativa, è il c.d. istituto della “reperibilità”. La reperibilità si sostanzia con la disponibilità del lavoratore a essere immediatamente rintracciato, durante il periodo di riposo, per giungere sul posto di lavoro per compiere interventi lavorativi episodici non prevedibili, al fine di assicurare il ripristino e la continuità dei servizi, la funzionalità o la sicurezza degli impianti. Dalla sintesi sopra riportata appare di tutta evidenza che la reperibilità si situa tra il lavoro effettivo, pur non essendo classificabile come “orario di lavoro”, e il riposo. Pertanto si può ragionevolmente ritenere che solo in caso di effettiva chiamata nel periodo di reperibilità le ore lavorate saranno retribuite secondo le ordinarie modalità. Il trattamento di reperibilità è dovuto quindi per il periodo nel quale il lavoratore è in attesa di un’eventuale chiamata da parte dell’azienda. Essendo un istituto contrattualmente previsto viene richiesto, per la legittima effettuazione, la previsione da parte del Ccnl o dalla contrattazione aziendale o territoriale; in assenza di disposizione la

reperibilità stessa non può essere imposta dal datore di lavoro. Essendo la disponibilità del lavoratore ad essere richiamato in servizio strettamente connessa ai riposi giornalieri e settimanali, sono nati, nel tempo, non pochi contrasti in merito alla consecutività degli stessi riposi. Come evidenziato in precedenza, l’art.7 del D.Lgs. n.66/03 dispone che, ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il suddetto riposo deve essere fruito in modo consecutivo, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o, novità introdotta con il D.L. 26 giugno 2008 n.112, da regimi di reperibilità. Tale recente modifica comporta che il periodo di riposo giornaliero, durante i turni di reperibilità, potrà anche essere conteggiato per sommatoria dei periodi di riposo intervallati dagli interventi lavorativi. In virtù di tale ultima previsione normativa si può concludere che le attività caratterizzate dal regime di reperibilità sono sottratte al precetto che stabilisce la consecutività del riposo giornaliero. È però da rimarcare che il riposo settimanale, anche in questa situazione, non ammette frazionabilità e, pertanto, dovrà essere goduto consecutivamente per 24 ore.

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L’indennità di pronta disponibilità.

L’indennità di reperibilità è la controprestazione a carico del datore di lavoro data in cambio del servizio di reperibilità offerto dal lavoratore. Tale indennità è disciplinata, generalmente, dalla contrattazione collettiva. Qualora la reperibilità fosse garantita durante il riposo settimanale, essendo qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro tout court, in quanto limita, senza escludere, il godimento del riposo stesso, la relativa indennità spettante al lavoratore reperibile consisterebbe in un corrispettivo quantitativamente diverso da quello previsto in caso di effettiva e piena prestazione lavorativa e non legittimerebbe, di conseguenza, la pretesa di un riposo compensativo. Sul punto la giurisprudenza è, tuttavia, divisa.

La pronta disponibilità nel sistema sanitario.

Il servizio di pronta disponibilità è caratterizzato dalla immediata reperibilità del dipendente e dall’obbligo per lo stesso di raggiungere la struttura nel tempo previsto con modalità stabilite dai piani d’emergenza definiti con le procedure della concertazione. All’inizio di ogni anno le aziende predispongono un piano annuale per affrontare le situazioni di emergenza in relazione alla dotazione organica, ai profili professionali necessari per l’erogazione delle prestazioni nei servizi e presidi individuati dal piano stesso ed agli aspetti organizzativi delle strutture.

La pronta disponibilità in sanità pubblica ai sensi del CCNL del Comparto.

Possono svolgere la pronta disponibilità solo i dipendenti addetti alle attività operatorie e nelle strutture di emergenza. Ai seguenti profili professionali è consentita per eccezionali esigenze di funzionalità della struttura:

a) personale del ruolo tecnico appartenente alla categoria B, Bs; b) personale del ruolo sanitario appartenente alla categoria D, Ds.

Le aziende potranno valutare con la concertazione eventuali ulteriori situazioni in cui ammettere la pronta disponibilità, in base alle proprie esigenze organizzative.

L’elementi della pronta disponibilità ai sensi del CCNL del comparto sanità.

Il servizio di pronta disponibilità è organizzato utilizzando di norma personale della stessa unità operativa. Il servizio di pronta disponibilità va limitato ai turni notturni ed ai giorni festivi. La pronta disponibilità ha durata di dodici ore e dà diritto ad una indennità. Due turni di pronta disponibilità sono prevedibili solo nei giorni festivi. Qualora il turno sia articolato in orari di minore durata non inferiore alle quattro ore, l’indennità è corrisposta proporzionalmente alla sua durata, maggiorata del 10%. In caso di chiamata l’attività viene computata come lavoro straordinario.

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Di regola non potranno essere previsti per ciascun dipendente più di sei turni di pronta disponibilità al mese.

La pronta disponibilità in sanità pubblica ai sensi del CCNL Dirigenza Medica.

Il servizio di pronta disponibilità determina l'obbligo del dirigente medico di rendersi immediatamente reperibile durante le ore notturne e nei giorni festivi e di raggiungere tempestivamente il presidio di riferimento, qualora vi sia chiamato. A livello operativo, le regole di funzionamento del servizio di pronta disponibilità sono definite dal piano annuale approvato dall'Azienda Ospedaliera per la gestione delle emergenze sanitarie. Sulla scorta del piano aziendale di emergenza, il servizio di pronta disponibilità deve essere prestato da tutti i dirigenti medici (esclusi quelli di struttura complessa) che svolgono servizio presso le Unità Operative con attività continua.

Gli elementi della pronta disponibilità ai sensi del CCNL della dirigenza medica.

Il servizio di pronta disponibilità è organizzato di norma: 1. utilizzando personale della stessa Unità Operativa, nel numero strettamente necessario a

soddisfare le esigenze funzionali dell'Unità durante l'emergenza (art. 17, co. 2, CCNL 3 novembre 2005);

2. limitatamente ai turni notturni ed ai giorni festivi (art. 17, co. 3, CCNL 3 novembre 2005). Ove il turno di pronta disponibilità coincida con un giorno festivo, il dirigente ha diritto ad un giorno di riposo compensativo (art. 17, co. 6, CCNL 3 novembre 2005);

3. in turni di 12 ore (art. 17, co. 4, CCNL 3 novembre 2005), per ciascuno dei quali compete una specifica indennità (c.d. indennità di pronta disponibilità) (art. 17, co. 5, CCNL 3 novembre 2005). Per turni di durata inferiore, l'indennità è ridotta proporzionalmente alla sua durata, maggiorata del 10%.

4. con previsione per ciascun dirigente di un massimo di 10 turni al mese (art. 17, co. 4, CCNL 3 novembre 2005).

La pronta disponibilità in sanità privata.

La valutazione in ordine all’opportunità e alla misura di adozione di tale istituto deve avvenire in sede locale, previa verifica con le Rappresentanze sindacali.

La pronta disponibilità con contratto ad orario rid otto.

Le due tipologie:

1. Orizzontale: limitatamente ai casi di carenza organica, il personale del ruolo sanitario a tempo parziale orizzontale previo consenso e nel rispetto delle garanzie previste può essere utilizzato per la copertura dei turni di pronta disponibilità, turni proporzionalmente ridotti nel numero in relazione all’orario svolto.

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2. Verticale: Nei casi di tempo parziale verticale le prestazioni di pronta disponibilità ed i turni sono assicurati per intero nei periodi di servizio.

Il recupero del riposo.

Nel caso di pronta disponibilità che cade in un giorno festivo o in un riposo infrasettimanale, spetta un riposo compensativo il giorno successivo senza riduzione del debito orario settimanale.

Alcune sentenze. 1) Sentenza del Tribunale di Milano del 31/5/2010. La reperibilità svolta nel giorno destinato al

riposo settimanale, non equivalendo a un'effettiva prestazione lavorativa, limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto a un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal Giudice.

2) Sentenza del Tribunale di Genova sezione lavoro del 17/10/2008. In materia di lavoro, il mero obbligo di reperibilità, anche nell'ipotesi in cui lo stesso cada in una giornata festiva o di riposo, non equivale a prestazione lavorativa; conseguentemente, in assenza di apposite previsioni

contrattuali, esso non da diritto né ad un giorno di riposo compensativo, né ad un compenso equivalente a quello spettante in caso di svolgimento della prestazione lavorativa.

3) Sentenza del Tribunale di Bari sezione lavoro del 02/02/2008. Il mancato pieno godimento del riposo settimanale, determinato dalla necessità di essere reperibile in una giornata festiva o di riposo e dalla mancata fruizione del riposo compensativo, si pone in irrimediabile contrasto col principio costituzionale dell'irriducibile diritto del lavoratore al riposo settimanale (art. 36 Cost.), da fruirsi di regola in coincidenza della domenica (art. 2109 c.c.), per 24 ore consecutive; d'altra parte,

il lavoratore ha diritto alla propria integrità psicofisica - bene garantito dalla Costituzione ex art. 32 -, la quale non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza, ma si collega alla dimensione stessa dell'individuo nell'ambito in cui esplica la propria personalità in tutti gli aspetti ad essa connessi. Conseguentemente, anche la "reperibilità", con le limitazioni che impone alla libertà personale e per il logorio psicofisico che produce, è sufficiente a configurare l'obbligo del datore di lavoro a risarcire il danno che consegue al lavoratore che presti il servizio di pronta disponibilità nel giorno di riposo settimanale, atteso che tale irrinunciabile diritto è qualificato dalla necessità, oltre che dalla ricostituzione delle energie biopsichiche del lavoratore, anche dalla esigenza di quest'ultimo di partecipare serenamente alle comuni forme di vita familiare e sociale, senza vincoli particolari.

4) Sentenza del Consiglio di Stato sezione VI n.4180/2007. Nel caso in cui, già in sede di accordi contrattuali, sia prevista la possibilità, per l'azienda, di richiedere al personale in regime di reperibilità nei giorni festivi, di essere adibito, con idonei compensi, all'espletamento di attività di servizio in tali giorni, si deve ritenere che il lavoratore non abbia diritto al risarcimento del danno per la mancata fruizione del riposo, non concretando, tale circostanza, violazione della normativa legale e contrattuale e non determinando, quindi, per il lavoratore stesso alcun pregiudizio di carattere retributivo, risarcitorio o indennitario sotto il profilo di un possibile danno da usura psicofisica, usura che, determinata dal protrarsi delle ore lavorative, riceve un adeguato ristoro mediante la retribuzione come ore di lavoro straordinario.

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5) Sentenza del Tribunale di Bologna del 12/01/2006. L'obbligo di reperibilità senza effettiva chiamata in servizio (c.d. reperibilità passiva) non comporta un'esclusione dalla fruizione del riposo settimanale, ma soltanto una sua limitazione ed è pertanto legittima la previsione dell'art. 7, C.c.n.l. 20 settembre 2001 del comparto sanità, integrativo del C.c.n.l. 7 aprile 1999, secondo cui il servizio di pronta disponibilità non seguito dalla chiamata in servizio coincidente con il giorno festivo destinato al riposo settimanale non attribuisce al lavoratore un diritto irrinunciabile ad un riposo compensativo, ma soltanto una facoltà a godere di tale riposo, fermo restando il debito orario settimanale e fermo restando il diritto ad una specifica indennità.

6) Sentenza della Pretura di Savona del 12/11/1993. La reperibilità assicurata in un giorno adibito al riposo settimanale, laddove la prestazione di lavoro non venga effettivamente resa, non dà diritto ad una giornata di riposo compensativo, ma solo alla indennità specificatamente prevista dal contratto collettivo di categoria.

7) Sentenza della Pretura di Milano del 14/07/1989. L'obbligo di reperibilità rientra negli obblighi contrattuali del rapporto di lavoro ed è compensato con una maggiorazione retributiva che peraltro non può legittimare la privazione totale del riposo settimanale, che sarebbe in contrasto con l'art. 36, 3° comma, cost.; nel caso di specie, il turno domenicale capita una volta al mese ed i lavoratori addetti hanno l'obbligo di essere rintracciabili in qualsiasi momento, non l'obbligo di rimanere a casa.

8) Sentenza della Pretura di Prato del 22/02/1988. La reperibilità integra la messa a disposizione del datore di lavoro delle energie lavorative; pertanto se cade di domenica dà diritto a riposo

compensativo; la relativa indennità ha carattere retributivo e non va inclusa nel computo del

compenso per festività. 9) Sentenza della Corte di Cassazione sezione lavoro n. 4940/1987. Il riposo settimanale (di regola

in coincidenza con la domenica, salve le eccezioni di cui agli art. 1 e 5, l. 22 febbraio 1934, n. 370) costituisce un diritto irrinunciabile del lavoratore (art. 36 cost.), la cui fruizione, dovendo tendere alla ricostituzione delle energie biopsichiche del dipendente ed a permettergli di partecipare alle comuni forme di vita familiare e sociale senza vincoli particolari, è esclusa dal cosiddetto obbligo di reperibilità (che impone al lavoratore di fornire al datore di lavoro notizie atte a rintracciarlo in qualsiasi momento in vista di un'eventuale prestazione lavorativa), sicché contrasta con la norma costituzionale predetta la disposizione collettiva che, fuori delle eccezioni suindicate e senza prevedere recupero sostitutivo, estenda l'obbligo di reperibilità, ancorché remunerato, alla giornata domenicale (principio affermato in relazione all'art. 32 del contratto collettivo per i telefonici del 1978 ed in controversia concernente la legittimità o meno della sanzione disciplinare inflitta a lavoratore rifiutatosi di prestare servizio di reperibilità).

10) Sentenza Corte di appello di Napoli n. 5/2005. La mancata corresponsione del giorno compensativo da luogo a una vera e propria responsabilità per inadempimento contrattuale da parte dell’azienda e al conseguente obbligo di risarcimento economico al dipendente.

11) Sentenza Corte di cassazione, sezione lavoro 27477/2008. La pronta disponibilità non può essere equiparata alla prestazione effettiva di attività di lavoro, perché è di tutta evidenza che la mera disponibilità alla eventuale prestazione incide diversamente sulle energie psicofisiche del lavoratore rispetto al lavoro effettivo e riceve diversa tutela dall’ordinamento. (Il dipendente) ha diritto a un giorno di riposo compensativo ma non alla riduzione dell’orario di lavoro settimanale, con la conseguenza che è tenuto a recuperare le sei ore lavorative del giorno di riposo ridistribuendole nell’arco della settimana.

12) Sentenza della Corte di Cassazione n. 23063/2011. La Cassazione ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore che veniva trovato in stato di ebrezza durante il turno di reperibilità e, a cui veniva ritirata la patente. La Suprema Corte evidenzia che l'essere inserito nel

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turno di reperibilità non può essere equiparato all'essere in servizio effettivo e nell'espletamento delle mansioni lavorative in azienda e che lo stato di ebrezza non può avere automaticamente riflesso sul vincolo fiduciario senza la valutazione delle circostanze e modalità concrete del fatto e del suo contesto. Nel caso concreto era lo stesso CCNL, applicato al rapporto di lavoro, a non consentire il licenziamento poiché prevede, per un comportamento peggiore dello stato di ebrezza, e cioè la "manifesta ubriachezza", sanzioni più lievi quali l’ammonizione o al massimo la sospensione. In definitiva, il provvedimento di licenziamento era da considerarsi eccessivo e non proporzionato alla gravità del fatto.

Le disposizioni.

La definizione di disposizione di servizio.

E’ una prescrizione, decisione impartita da un superiore gerarchico sul quale ricade la responsabilita’ dei fatti ad essa conseguenti.

L’esecuzione in sanità pubblica.

Il dipendente deve eseguire le disposizioni inerenti all’espletamento delle proprie funzioni o mansioni che gli siano impartiti.

L’esecuzione in sanità privata.

Il lavoratore deve attenersi alle disposizioni impartite dall’Amministrazione ed osservare in modo corretto i propri doveri.

L’illegittimità.

Il lavoratore, al quale, dal proprio superiore venga impartita una disposizione palesemente illegittima, è tenuto a farne immediata e motivata contestazione dichiarandone le ragioni. Se la disposizione è rinnovata per iscritto ha il dovere di darvi esecuzione, salvo che la stessa sia vietata dalla legge penale o costituisca illecito amministrativo.

La titolarità ad emanarla.

Qualsiasi ufficio, organo o persona fisica gerarchicamente sovraordinata per legge, regolamento o organizzazione aziendale a influire nell’organizzazione del lavoro. Quando proviene da chi ha potere di firma diventa un atto amministrativo.

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La forma e le motivazioni.

La forma della disposizione di servizio può essere orale o scritta e possono essere di tipo organizzativo

o professionale. Un ordine di servizio può, in caso di urgenza, essere impartito verbalmente e tanto più

l' oggetto della disposizione urgente, tanto più si giustifica l' ordine anche solo verbale.

Successivamente sarà possibile chiedere, e pretendere, che l' ordine di servizio venga confermato per

iscritto a tutela del dipendente il quale, in caso di eventuale futuro contenzioso avrà documentazione

comprovante di aver agito per effetto di disposizioni superiori. L’ordine solo verbale di cambiare turno di servizio il giorno successivo non si giustifica, invece in

alcun modo, poiché vi è tutto il tempo per redigerlo per iscritto. Il rifiuto a redigere per iscritto un

ordine di servizio, non dovuto ad una urgenza, non è giustificato da nessuna norma e deve intendersi

come un vera e propria irregolarità amministrativa.

La forma della disposizione scritta di servizio.

La disposizione di servizio scritta deve avere i seguenti requisiti: 1. deve essere scritta; in giurisprudenza le comunicazioni che possiedono valore sono scritte. La

disposizione di servizio deve essere scritta per tutela sia del dipendente stesso che dell’azienda.

Tale tutela non è presente se viene emessa verbalmente. 2. deve pervenire in tempo e quindi in anticipo al lavoratore presso la sede lavorativa. Il lavoratore

non è tenuto a farsi reperire al proprio domicilio, nè telefonicamente né con altri sistemi, tranne

nel caso della pronta disponibilità. 3. deve essere motivata; nella prescrizione di servizio deve apparire la motivazione per la quale è

stata emessa, a garanzia della liceità della stessa. 4. deve essere uno strumento eccezionale; altrimenti diverrebbe straordinario programmato

espressamente vietato dalla normativa in vigore. La copertura dei turni deve essere garantita

sulla base dei criteri organizzativi certi e con personale sufficiente per evitare disservizi dovuti

ad imprevisti. Se vi è carenza d’organico dovuta a motivi contingenti, la Direzione può

organizzare i turni utilizzando l’istituto contrattuale della pronta disponibilità. 5. non deve sovrapporsi ad altri Istituti Contrattuali già previsti; 6. deve essere firmata dal Dirigente Responsabile in modo che si assuma la responsabilità dell’atto

amministrativo. 7. non esiste un limite numerico di prescrizioni di servizio effettuabili. 8. deve recare la data di emissione. 9. deve contenere le disposizioni che si impartiscono al dipendente ed il luogo (reparto o servizio)

dove eseguire l’attività professionale.

Il problema dei richiami in servizio.

1. Oggi per oggi.

Non può essere utilizzata per il richiamo in servizio oggi per oggi´, in quanto si cade

nell’istituto della pronta disponibilità. In questo caso, se il dipendente si rifiuta di adempiere la

prescrizione di servizio, non possono essere prese sanzioni disciplinari nei suoi confronti.

Inoltre il codice deontologico prevede per il personale infermieristico l’obbligo di presentarsi

in servizio solo in caso di calamità pubblica.

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2. Oggi per domani. In caso di richiamo in servizio oggi per domani, il ricorso all’ordine di servizio può essere legittimo, a patto che si rispettino una serie di vincoli. Infine esiste anche una sentenza della Corte Costituzionale che sancisce il diritto del dipendente a potersi organizzare e programmare la propria vita privata.

3. Il prolungamento. In caso di prolungamento dell’orario di servizio il dipendente è obbligato a rimanere fino all’arrivo della sostituzione (Art. 10 codice deontologico dell’infermiere e Art. 593 del C.P.);

ma spetta al Dirigente autorizzarlo (CCNL 07-04-99 Art. 34 comma 2) e, quindi, nel caso di più infermieri presenti, decidere e segnalare chi dovrà fermarsi in servizio.

4. Il richiamo dalle ferie. In caso di sospensione o interruzione delle ferie (Art. 19 CCNL) , è necessaria la disposizione di servizio, ma il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire almeno 15 giorni di congedo nel periodo estivo ai dipendenti che ne facciano richiesta e la fruizione del congedo ordinario (ferie) entro l’anno solare, al massimo, in caso di comprovata necessità di servizio entro i sei mesi successivi.

La non esecuzione.

Si può disattendere un ordine di servizio se vi siano motivazioni di ordine personale che impediscono al dipendente di ottemperarvi e sempre che sia possibile dare puntuale dimostrazione dell’impedimento:

1. stato di necessità (art. 54 c.p.); 2. forza maggiore (art. 45 c.p.).

Lo stato di necessità.

Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, nè altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo….

La forza maggiore.

Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore.

Il richiamo dalle ferie.

Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso per le spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di eventuale ritorno al luogo di svolgimento delle ferie. Il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate e documentate per il periodo di ferie non goduto.

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Alcune sentenze.

1) Sentenza della Corte di Cassazione sezione penale n. 35925/2009. Le pretese (reiterate in occasione di tutti gli episodi contestati) dell'imputato di ricevere dal dirigente una ulteriore specificazione scritta dei suoi obblighi costituivano espressione di un intenzionale e deliberato comportamento ostruzionistico, tale da integrare un rifiuto penalmente rilevante….…trattasi di conclusioni corrette sul piano logico e giuridico, non potendosi considerare legittimo il rifiuto di adempiere una disposizione impartita dal dirigente nella sola forma verbale.

2) Sentenza della Corte di Cassazione n. 2352/2010. La Corte di Cassazione ha stabilito che del danno da demansionamento cagionato ad un sottoposto da un comportamento del superiore gerarchico, risponde direttamente e personalmente il superiore stesso e non l’azienda.

3) Sentenza della Corte di Cassazione n. 425/2006. Il giudice può ordinare la reintegrazione del lavoratore dequalificato nelle mansioni in precedenza svolte o in altre equivalenti. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ricordando la sua giurisprudenza secondo cui al fine di valutare se lo jus variandi, tuttora attribuito al datore di lavoro entro i limiti indicati dall’art. 2103 cod. civ., sia stato esercitato secondo correttezza e buona fede, non è sufficiente verificare se le “nuove” mansioni assegnate al dipendente siano comprese nel livello contrattuale nel quale questi è inquadrato, essendo necessario accertare altresì l’equivalenza in concreto di tali mansioni con quelle in precedenza da lui svolte alla stregua del contenuto, della natura e delle modalità del loro espletamento, atteso che l’equivalenza presuppone che le “nuove” mansioni, pur se non identiche a quelle in precedenza svolte, corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale e siano, comunque, tali da consentire al lavoratore l’utilizzazione del patrimonio di esperienza acquisita nella pregressa fase del rapporto di lavoro

La mobilità, il trasferimento e gli esuberi del personale nel servizio sanitario.

L’organizzazione generale.

La procedura di mobilità consente lo spostamento di personale all’interno della stessa azienda (mobilità interna) o verso un’altra amministrazione se questi è già entrato nei ranghi della stessa (mobilità esterna). Nella prima forma vi è un mutamento di sede dell’impiegato nella medesima amministrazione rimanendo immutato il contratto di lavoro e qualsivoglia altro aspetto riguardante la carriera del dipendente. Nella seconda forma si ha una modalità di mutamento di mansioni equivalenti e implica la cessione di un contratto di lavoro in essere con un’amministrazione e l’instaurazione di un altro rapporto di lavoro presso diverso ente pubblico.

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Le norme che regolano la mobilità esterna.

Esistono le seguenti tipologie di mobilità esterna: 1. Mobilità volontaria, D.Lgs 165/2001 art 30; 2. Mobilità collettiva obbligata, D.lgs. 165/2001 art. 31 e L. 183/2010 art. 13; 3. Mobilità individuale temporanea, D.Lgs. 165/2001 art. 23 e art. 32; 4. Assegnazione temporanea o comando, D.Lgs. 165/2001 art. art 23 e art. 30; 5. Mobilità obbligatoria, D.L. 138/2011 art. 1.

La mobilità esterna a carattere volontario.

E’ la mobilità su richiesta all’ amministrazione da parte del dipendente singolo a una data amministrazione di valutare l’opportunità di assumerlo. Le amministrazioni possono ricoprire posti vacanti mediante cessione del contratto di lavoro di dipendenti appartenenti alla stessa qualifica in servizio presso altre amministrazioni, che presentino domanda di trasferimento. Le amministrazioni sono tenute a rendere pubbliche le disponibilità dei posti in organico da ricoprire con passaggio diretto di personale da altre amministrazioni, fissando preventivamente i criteri di scelta. Tali criteri devono essere previsti nei regolamenti per l’organizzazione degli uffici e dei servizi concertati con le O.S. sulla base dei curriculum, colloqui, titoli, etc, ma non di una selezione vera e propria, dal momento che si tratta di soggetti già dipendenti della P.A. La valutazione sull’accoglimento della domanda è discrezionale mentre deve ritenersi che l’amministrazione cedente possa opporsi solamente se sussistono motivate esigenze che facciano ritenere irrinunciabile la prestazione professionale del dipendente interessato. La legge 246/2005 sancisce la nullità di accordi sindacali che prevedano il ricorso al reclutamento esterno prima di valutare la possibilità di ricorso a tale tipo di mobilità. Il D.L. 150/2010 chiarisce la portata di tale istituto rendendo maggiormente vincolante l’imposizione di far precedere l’attivazione dei concorsi pubblici dalla procedura della mobilità che diviene pertanto la forma principale e obbligatoria di reclutamento.

La mobilità esterna a carattere obbligatorio.

La mobilità obbligata è quella dovuta a processi di accorpamento o di soppressione di amministrazioni o enti pubblici. In tale caso si verifica un trasferimento d’azienda che determina la cessione del rapporto lavorativo, senza soluzione di continuità, al nuovo soggetto subentrante rispetto al quale il lavoratore conserva tutti i diritti maturati. Viene quindi a verificarsi una successione tra due rapporti di lavoro e di conseguenza tra due soggetti amministrativi diversi. Il 183/2010 art. 13 dispone che in caso di conferimento di funzioni statali alle regioni e agli enti locali o di trasferimento di attività svolte da pubbliche amministrazioni ad altri soggetti pubblici o di esternalizzazione di attività e servizi il personale adibito a tali funzioni risulta in eccedenza, al

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personale si applicano le disposizioni in materia di mobilità collettiva e di collocamento in disponibilità.

La mobilità in caso di eccedenza.

La L. 183/2011, legge di stabilità, ridisegna le procedure previste dal D.Lgs. 165/2001 da attivare nel caso di situazioni di soprannumero o eccedenze di personale all’interno delle P.A. Tale legge impone alle amministrazioni l’obbligo di procedere annualmente alla ricognizione delle dotazioni organiche per rilevare eventuali eccedenze di personale rispetto ai fabbisogni. Laddove le eccedenze siano riscontrate, l’ente è tenuto a darne immediata comunicazione al dipartimento della Funzione Pubblica e a osservare il procedimento di mobilità obbligatoria. Se non si rispetta tale obbligo vi è il divieto di assunzioni, pena la nullità dei contratti eventualmente stipulati. Inoltre sono previste sanzioni per il dirigente responsabile. Il testo prevede l’informazione preventiva alle O.S., e passati 10 giorni, 2 possibilità:

1. la risoluzione unilaterale del contratto dei dipendenti che abbiano superato i 40 anni di contributi o la possibilità di ricollocare tutti o parte dei dipendenti in soprannumero nella stessa amministrazione con contratti flessibili (part-time).

2. l’attivazione di trasferimenti forzati presso altre amministrazioni comprese nell’ambito regionale. Necessario la stipula di accordi tra le amministrazioni per definirne le modalità.

L’inquadramento dell’eccedenza.

La normativa demanda ai CCNL la fissazione di criteri generali in base al comparto per la gestione delle eccedenze di personale con il passaggio diretto ad altre amministrazioni anche al di fuori del territorio regionale. L’iter deve concludersi entro 90 giorni dalla comunicazione ai sindacati dello stato di esubero dei dipendenti, decorsi i quali l’amministrazione pone in disponibilità il personale che non possa essere utilmente ricollocato. Dalla data di collocamento in disponibilità , il lavoratore avrà diritto ad un’indennità pari all’80% dello stipendio e dell’indennità integrativa speciale se prevista, con esclusione di qualsiasi altro onere retributivo comunemente denominato, per un periodo non superiore a 24 mesi, trascorsi i quali scatterà il licenziamento. Allo stesso modo, saranno collocati in disponibilità i dipendenti eccedenti che non accettino il trasferimento loro proposto su accordo stipulato tra le amministrazioni interessate. Durante il periodo di disponibilità le amministrazioni legittimate ad assumere, prima di indire nuovi concorsi, sono tenute a verificare la presenza di dipendenti inseriti nelle liste di disponibilità, poiché agli stessi è riconosciuto il diritto di precedenza nelle assunzioni.

La mobilità esterna con carattere di temporaneità.

La mobilità temporanea contempla le ipotesi di destinazione del personale delle pubbliche amministrazioni al servizio presso le amministrazioni degli Stati membri dell’Unione europea, gli organismi amministrativi comunitari e le organizzazioni internazionali.

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Il personale che presta temporaneamente servizio all’estero resta, a ogni effetto giuridico ed economico, dipendente dell’amministrazione di appartenenza. Inoltre l’esperienza professionale realizzata all’estero viene valutata ai fini dello sviluppo professionale e di carriera.

L’assegnazione temporanea.

L’istituto della mobilità temporanea individuale ha carattere volontario. La Legge 145/2002 ha riconosciuto alle PA il potere discrezionale di assegnare temporaneamente il dipendente, previo accordo e per un periodo di tempo determinato. L’assegnazione temporanea costituisce una modificazione del rapporto di servizio del lavoratore, caratterizzandosi per il fatto che il dipendente può essere inviato dall’amministrazione di appartenenza a svolgere la sua attività lavorativa presso un ente diverso dal proprio e con il quale continua a mantenere il rapporto di lavoro. In tal caso non viene modificato lo stato giuridico del lavoratore e il servizio deve essere considerato svolto per l’amministrazione di appartenenza. Il servizio prestato dal lavoratore durante il periodo di assenza deve essere valutato ai fini della carriera del dipendente stesso. Il trattamento economico, compreso quello accessorio, dei lavoratori che vengono trasferiti con assegnazione temporanea diventa a carico degli enti o delle amministrazioni di destinazione secondo i rispettivi comparti di contrattazione. La vigente disciplina sull’utilizzo temporaneo dei dipendenti delle PA è contenuta nelle disposizioni contrattuali. La legge 183/2010 prevede che le pubbliche amministrazioni, per motivate esigenze organizzative, possano utilizzare in assegnazione temporanea personale di altre amministrazioni per un periodo non superiore a 3 anni, fermo restando quanto già previsto da norme speciali in materia.

Le norme che regolano la mobilità interna

La definizione di mobilità all’interno di un’aziend a.

Per mobilità aziendale s’intende l’utilizzazione sia temporanea che definitiva del personale in struttura ubicata in località diversa da quella della sede di assegnazione. Essa avviene nel rispetto della categoria, profilo professionale, disciplina ove prevista e posizione economica di appartenenza del dipendente.

La mobilità a carattere obbligatorio ai sensi del D.L.138/2011 art. 1.

I dipendenti delle amministrazioni pubbliche di' cui all'art.1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, esclusi i magistrati, su richiesta del datore di lavoro, sono tenuti ad effettuare la

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prestazione in luogo di lavoro e sede diversi sulla base di motivate esigenze, tecniche, organizzative e produttive con riferimento ai piani della performance o ai piani di razionalizzazione, secondo criteri ed ambiti regolati dalla contrattazione collettiva di comparto. Nelle more della disciplina contrattuale si fa riferimento ai criteri datoriali, oggetto di informativa preventiva, e il trasferimento e' consentito in ambito del territorio regionale di riferimento; per il personale del Ministero dell'interno il trasferimento

puo' essere disposto anche al di fuori del territorio regionale di riferimento.

Alcune sentenze.

1) Sentenza del Consiglio di Stato, V sezione, del 1 luglio 2003. Una diversa utilizzazione del dipendente nell’ambito del medesimo presidio sanitario, cioè del compimento di un atto che rientra nell’ambito del potere organizzatorio dell’ente è sottratto alla concertazione sindacale.

2) Sentenza della Corte di Cassazione n. 9530/2002. Il lavoratore illegittimamente trasferito ha diritto alla reintegrazione nel posto precedentemente occupato perché il trasferimento deve ritenersi inefficace. Il lavoratore che sia stato illegittimamente trasferito ha diritto non solo al risarcimento del danno, ma anche alla reintegrazione nel posto occupato prima del provvedimento. La tutela reale spetta al lavoratore in quanto il trasferimento di sede non adeguatamente giustificato a norma del codice civile deve ritenersi nullo e conseguentemente inefficace.

3) Sentenza della Corte di Cassazione n. 8096/2002. Il lavoratore può rifiutare il trasferimento, se le mansioni assegnategli nella nuova sede non sono adeguate a quelle in precedenza svolte. La comparazione tra gli incarichi non deve essere eseguita in base a un criterio formalistico. La Suprema Corte ha accolto il ricorso richiamando la sua consolidata giurisprudenza secondo la quale il provvedimento del datore di lavoro di trasferimento di sede di un lavoratore, che non sia adeguatamente giustificato a norma del codice civile, determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza allo stesso provvedimento da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento, sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti;

non si può, invece, ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali, che imponga l'ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio”.