Le produzioni sulle aree agricole e marginali

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Le produzioni sulle aree agricole e marginali L’evoluzione della Politica agricola comunitaria ha aperto scenari fino a qualche anno fa impensabili per l’azienda agricola. All’originario imperativo “produrre di più” si sono aggiunti i nuovi obiettivi “produrre meglio” e “produrre altro” in un mercato sempre più globale dove nuove opportunità di reddito sono legate all’offerta di prodotti e di servizi di elevata qualità, connessi al rispetto dei fondamentali “vincoli ambientali” che caratterizzano i principi dello sviluppo sostenibile. Ecco quindi che le attività forestali e agroforestali tornano ad avere spazio nelle aziende agricole. I possibili interventi da realizzare nell’ambito delle aree marginali del territorio del GAL MERIDAUNIA, possono essere cosi riassunti: arboreti da legno con impianti di “specie a legname di pregio”; impianti per la produzione di biomassa a fini energetici SRF (Short rotation forestry); coltivazione di piante officinali; coltivazione di piccoli frutti; coltivazione di tartufi; produzione di funghi spontanei; allevamenti alternativi. ARBORICOLTURA DA LEGNO CON IMPIANTI DI “LATIFOGLIE A LEGNAME DI PREGIO” L'industria è sempre costretta a importare legname e l'abbandono dei terreni agricoli è in costante aumento, in tale contesto l'arboricoltura da legno con latifoglie di pregio può rappresentare un valido investimento, riducendo l'importazione di legname e contribuendo a migliorare l'ambiente. Le latifoglie a legname pregiato utilizzate sono molte: noce comune, ciliegio selvatico, acero montano, frassino maggiore, frassino meridionale, sorbo domestico, ecc.., ma l'attenzione è incentrata soprattutto sul noce comune per il maggiore valore del legname.

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Le produzioni sulle aree agricole e marginali

L’evoluzione della Politica agricola comunitaria ha aperto scenari fino a qualche

anno fa impensabili per l’azienda agricola. All’originario imperativo “produrre di più” si sono

aggiunti i nuovi obiettivi “produrre meglio” e “produrre altro” in un mercato sempre più

globale dove nuove opportunità di reddito sono legate all’offerta di prodotti e di servizi di

elevata qualità, connessi al rispetto dei fondamentali “vincoli ambientali” che

caratterizzano i principi dello sviluppo sostenibile. Ecco quindi che le attività forestali e

agroforestali tornano ad avere spazio nelle aziende agricole.

I possibili interventi da realizzare nell’ambito delle aree marginali del territorio del

GAL MERIDAUNIA, possono essere cosi riassunti:

• arboreti da legno con impianti di “specie a legname di pregio”;

• impianti per la produzione di biomassa a fini energetici SRF (Short rotation

forestry);

• coltivazione di piante officinali;

• coltivazione di piccoli frutti;

• coltivazione di tartufi;

• produzione di funghi spontanei;

• allevamenti alternativi.

ARBORICOLTURA DA LEGNO CON IMPIANTI DI “LATIFOGLIE A LEGNAME DI PREGIO”

L'industria è sempre costretta a importare legname e l'abbandono dei terreni

agricoli è in costante aumento, in tale contesto l'arboricoltura da legno con latifoglie di

pregio può rappresentare un valido investimento, riducendo l'importazione di legname e

contribuendo a migliorare l'ambiente. Le latifoglie a legname pregiato utilizzate sono

molte: noce comune, ciliegio selvatico, acero montano, frassino maggiore, frassino

meridionale, sorbo domestico, ecc.., ma l'attenzione è incentrata soprattutto sul noce

comune per il maggiore valore del legname.

L'uso di piante idonee alle caratteristiche locali del clima e del terreno, l'attenta

progettazione delle consociazioni e dei sistemi d'impianto sono le premesse per la buona

riuscita degli impianti.

Nella scelta delle aree e delle specie da utilizzare, bisogna porre particolare

attenzione alle caratteristiche fisiche, alla profondità e alla stratificazione del terreno.

Questi parametri possono influire in modo determinante sulla crescita delle piante arboree.

I terreni argillosi e pesanti sono assai sfavorevoli soprattutto per la crescita delle specie

più esigenti (es. noce e ciliegio), mentre i suoli molto superficiali sono totalmente inadatti

all'arboricoltura da legno. La presenza di orizzonti sottosuperficiali più compatti e poco

permeabili (es. suola di lavorazione) può ostacolare la penetrazione delle radici e

determinare periodi di asfissia radicale anche in suoli non particolarmente argillosi. Se tali

difetti non possono essere eliminati o mitigati con opportune lavorazioni ed sistemazioni

pre-impianto, le aree devono essere scartate, o, al massimo, destinate alle specie meno

esigenti.

Gli impianti monospecifici sono oggetto di molte critiche perché richiedono alti

apporti di energia sussidiaria, sono sistemi instabili, in quanto, nel momento in cui

subiscono stress ambientali, diventano vulnerabili alle malattie, alla competizione, al

parassitismo e alla predazione. Per ridurre gli aspetti negativi della monocoltura si tende a

realizzare impianti plurispecifici o misti, caratterizzati dalla presenza sulla stessa superficie

di una specie "principale" che di solito è una specie a legname pregiato e una di

"accompagnamento", sia albero che arbusto, il cui scopo è quello di svolgere un'azione

benefica a vantaggio della principale. Questi benefici consistono nel: maggiore sviluppo in

altezza del fusto; contenimento della ramificazione; miglioramenti del suolo sia per apporti

di lettiera che per la fissazione biologica di Azoto che può ridurre al necessità di riduzione

delle concimazioni azotate; ottenimento di eventuali prodotti integrativi: frutti, miele, ecc.;

maggiori incrementi iniziali in diametro e altezza della specie principale rispetto agli

impianti monospecifici; maggiore stabilità biologica.

Riguardo alle potenzialità produttive degli impianti, per il noce comune, sono state

rilevate nell'Italia centrale produzioni unitarie, riferita al solo tronco da lavoro, comprese tra

25 e 50 m3 a 16 anni, tra 30 e 55 m3 a 20 anni e tra 35 e 60 m3 a 26 anni, pari a

incrementi medi annui di 1-3 m3. Il ciliegio è specie a rapido accrescimento, almeno in

fase giovanile: l'accrescimento è elevato fino a 20 anni in altezza e fino a 50 in diametro.

Sono stimati incrementi medi annui di 4-5 m3.

Oltre all'aspetto quantitativo occorre tener presente anche della qualità: il valore

degli assortimenti varia non solo in relazione alle dimensioni. Così, i fusti più apprezzati

non sono solo quelli, dritti, lunghi almeno 3 m, con diametro maggiore di 30 cm, ma anche

quelli senza nodi, danni meccanici, attacchi parassitari, rami laterali, innesti e fibra storta.

Il Piano di Sviluppo Rurale (Bollettino Ufficiale della Regione Puglia - n. 114 del 30-

7-2001), prevede la realizzazione di impianti di arboreti da legno su terreni con buona

fertilità, sufficiente franco di coltivazione (almeno 100 cm) e con disponibilità irrigue. Questi

impianti sono da considerarsi colture legnose agrarie finalizzate alla produzione di

legname e come tali rientranti nella definizione di “arboricoltura da legno” di cui all’art. 2,

comma 5, del D. Lgs. 227/2001 “Orientamento e modernizzazione del settore forestale”.

Pertanto non sono considerati boschi e neppure soggetti ai vincoli che la legislazione pone

sui boschi.

Gli interventi previsti dovranno in ogni caso rispettare la tutela dell’ambiente e in

particolare garantire l’integrità dei siti della Rete Natura 2000 (Direttiva 79/409/CEE -

Uccelli selvatici e Direttiva 92/43/CEE - Habitat).

Gli impianti dovranno essere effettuati con materiale di propagazione compatibile

con le condizioni pedoclimatiche dell’area interessata e secondo le prescrizioni della

normativa europea in materia di commercializzazione di semi o piante forestali. Il materiale

di propagazione, appartenente a specie vegetali per le quali la normativa vigente lo

preveda, dovrà essere munito della certificazione relativa alla provenienza o all’identità (L.

269/1973 e s.m.i., D. Lgs. 386/2003) e, per le specie che lo richiedono, anche della

certificazione riferita allo stato fitosanitario (passaporto verde).

Gli impianti dovranno essere costituiti da popolamenti arborei di latifoglie, governati

ad alto fusto, con turno superiore a 20 anni. Al fine di consentire un adeguato sviluppo

delle specie di maggior pregio (principali) e di assicurare nel contempo un sufficiente

grado di naturalità, deve essere realizzata preferibilmente la consociazione di specie

accessorie associate a quelle principali. Le specie arboree principali, ovvero quelle che

raggiungeranno la fine del turno e forniranno la maggior parte del reddito, devono essere

in grado di produrre legname prevalentemente per segati e/o tranciatura.

La superficie minima dovrà essere di almeno 1 ettaro, con corpi di almeno 0,5 ettari.

La superficie minima su cui realizzare gli impianti deve calcolarsi al netto di eventuali tare

esistenti (es. strade, capezzagne, fabbricati, canali, boschi, siepi, filari ecc.). La superficie

dell’impianto deve essere omogenea e ravvicinata, cioè un qualsiasi e singolo corpo che

compone l’impianto, al netto di tare di qualsiasi tipo, deve trovarsi ad una distanza non

superiore ai 200 metri da almeno un altro corpo dell’impianto stesso. In ogni caso, l’area

oggetto di intervento deve presentare caratteristiche ecologiche, ambientali ed

economiche adatte all’impianto e all’accrescimento della piantagione.

La densità minima d'impianto dovrà essere di 400 piante/ettaro (specie arboree

principali).

IMPIANTI PER LA PRODUZIONE DI BIOMASSA A FINI ENERG ETICI SRF (SHORT ROTATION FORESTRY)

Oggi la ricerca insaziabile di energia porta un rinnovato interesse verso il legno-

energia. Ecco quindi la coltivazione short rotation forestry (SRF), ossia impianti di colture

legnose a turno breve, un mix di coltura agronomica e forestale: si coltivano piante

legnose a rapido accrescimento (arboree o arbustive) destinate a fornire biomassa per la

produzione di energia elettrica e/o termica.

La realizzazione di un impianto SRF comporta la necessaria presenza di alcuni

fattori indispensabili per la realizzazione della filiera di produzione di biomassa per la

trasformazione in energia, in particolare, la domanda di mercato del prodotto finale.

Le coltivazioni legnose di biomassa sono impianti di specie forestali a rapido

accrescimento, per lo più pioppo, salice, eucalipto e robinia, con impianto ad elevata

densità (oltre 5000 piante per ettaro) con turni che vanno dai 2 ai 10-12 anni.

Nel territorio del GAL, occorre realizzare impianti a più alta sostenibilità ambientale,

con potenzialità produttive medio alte, le cui caratteristiche sono: impianto a struttura

iniziale a densità media (1500 piante/ha); composizione multispecifica, di specie con ritmi

di accrescimento differenziati; turni medi (4-12 anni); polifunzionalità degli impianti;

meccanizazione medio bassa. La funzione principale di questi impianti è quella di produrre

biomassa legnosa sotto forma di cippato, di legna in pezzi o di ambedue gli assortimenti.

Un esempio di ceduo a media rotazione che potrebbe essere realizzato:

• specie impiegate: frassino meridionale, olmo campestre e platano ibrido;

• turno per il platano e l’olmo: 5 anni, per il frassino meridionale: 6-7 anni;

• mescolanza delle specie impiegate per piccoli gruppi.

Il Piano di Sviluppo Rurale (Bollettino Ufficiale della Regione Puglia - n. 114 del 30-

7-2001), prevede la realizzazione impianti di specie forestali a rapido accrescimento a fini

energetici. Questi impianti sono da considerarsi colture legnose agrarie finalizzate alla

produzione di biomassa e come tali rientranti nella definizione di “arboricoltura da legno” di

cui all’art. 2, comma 5, del D. Lgs. 227/2001 “Orientamento e modernizzazione del settore

forestale”. Pertanto non sono considerati boschi e neppure soggetti ai vincoli che la

legislazione pone sui boschi.

Gli interventi previsti dovranno in ogni caso rispettare la tutela dell’ambiente e in

particolare garantire l’integrità dei siti della Rete Natura 2000 (Direttiva 79/409/CEE -

Uccelli selvatici e Direttiva 92/43/CEE - Habitat).

Gli impianti dovranno essere effettuati con materiale di propagazione compatibile

con le condizioni pedoclimatiche dell’area interessata e secondo le prescrizioni della

normativa europea in materia di commercializzazione di semi o piante forestali. Il materiale

di propagazione, appartenente a specie vegetali per le quali la normativa vigente lo

preveda, dovrà essere munito della certificazione relativa alla provenienza o all’identità (L.

269/1973 e s.m.i., D. Lgs. 386/2003) e, per le specie che lo richiedono, anche della

certificazione riferita allo stato fitosanitario (passaporto verde).

Gli impianti dovranno essere costituiti da popolamenti arborei di latifoglie e/o

conifere, a rapido accrescimento e turno inferiore a 15 anni. Sono considerate specie a

rapido accrescimento, infatti, quelle che, nella stazione di impianto, giungono a maturità

con un turno inferiore a 15 anni.

La superficie minima dovrà essere di almeno 1 ettaro, con corpi di almeno 0,5 ettari.

La superficie minima su cui realizzare gli impianti deve calcolarsi al netto di eventuali tare

esistenti (es. strade, capezzagne, fabbricati, canali, boschi, siepi, filari ecc.). La superficie

dell’impianto deve essere omogenea e ravvicinata, cioè un qualsiasi e singolo corpo che

compone l’impianto, al netto di tare di qualsiasi tipo, deve trovarsi ad una distanza non

superiore ai 200 metri da almeno un altro corpo dell’impianto stesso. In ogni caso, l’area

oggetto di intervento deve presentare caratteristiche ecologiche, ambientali ed

economiche adatte all’impianto e all’accrescimento della piantagione. La densità minima

d'impianto dovrà essere di 400 piante/ettaro (specie arboree principali).

COLTIVAZIONE DI PIANTE OFFICINALI

Il consumo di piante medicinali ed aromatiche da parte dell’industria farmaceutica,

alimentare, liquoristica, cosmetica ed erboristica è in continuo aumento in tutto il mondo.

Nel nostro paese, mentre il settore della trasformazione e di quello della

commercializzazione dei prodotti finiti hanno fatto registrare negli ultimi anni un notevole

incremento (il consumo annuo di piante medicinali ed aromatiche coltivabili in Italia è

stimato in circa 100/120 milioni di euro, dati ASSOERBE), quello della coltivazione stenta

a svilupparsi e la superficie investita in Italia a piante officinali erbacee rimane modesta

(circa 1.800 ha). Ciò dipende dal fatto che la produzione Italiana di piante medicinali ed

aromatiche deve confrontarsi per qualità e prezzo con quella di altri Paesi, specialmente

dell'Europa dell’Est e di quelli in via di sviluppo, dai quali proviene circa il 70% delle erbe

consumate nel nostro paese. I maggiori produttori, in campo mondiale di piante medicinali

ed aromatiche coltivabili anche in Italia sono: Albania, Bulgaria, Croazia, Grecia,

Jugoslavia, Macedonia, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Turchia,

Ungheria, Egitto, Marocco, Tunisia, Cina, India, Pakistan, Argentina, Brasile, Cile,

Messico, Centro America, ecc. Il fatto che il 70% del fabbisogno nazionale di erbe venga

importato, porta a dedurre che in Italia ci dovrebbero essere buone possibilità di

incrementare le coltivazioni di piante medicinali ed aromatiche e numerosi produttori

agricoli vedono nelle coltivazioni di queste piante delle nuove opportunità che si augurano

più remunerative di quelle tradizionali. Prima di intraprendere questo tipo di attività è

tuttavia opportuno tenere conto di alcune condizioni di fattibilità.

A causa dell’elevato numero di specie officinali richieste dal mercato ed in

considerazione delle diverse situazioni pedoclimatiche ed aziendali si dovrà valutare caso

per caso quali siano le specie più adatte ad essere coltivate. Fra le specie che più si

adattano alle condizioni pedoclimatiche caratteristiche dei nostri boschi (e che in alcuni

casi vi crescono spontaneamente) ci sono:

Sambucus nigra L., Viola odorata L., Primula officinalis (L.) Hill., Galium odoratum

(L.) Scop, Glechoma hederacea L., Aegopodium podagraria L., Convallaria majalis L.,

Vinca maior L., Vinca minor L., Buxus sempervirens L., Hedera helix L.

Una volta definite le possibili piante coltivabili nell’azienda occorrerà valutarne le

possibilità di vendita e la remuneratività prendendo contatti con le ditte di

commercializzazione oppure con le industrie di trasformazione che possono acquistare le

piante essiccate oppure i prodotti semilavorati.

In breve, non si dovrà mai coltivare senza conoscere la possibile via di

commercializzazione ed i prezzi minimi che si possono realizzare oppure si dovrà

ipotizzare, oltre alla coltivazione, la trasformazione in azienda e la vendita in mercati di

nicchia, che, in realtà particolari, possono rivelarsi abbastanza remunerativi.

Sono da escludere terreni infestati da erbe perenni, troppo sassosi oppure troppo

argillosi, ma si scelgano i terreni migliori come quelli che si usano per le colture orticole. In

caso di terreni incolti si tenga presente che i migliori sono quelli che sono stati

precedentemente coltivati a prato stabile polifita.

Le attrezzature necessarie alla coltivazioni sono quelle che si usano normalmente

per una coltivazione orticola specializzata.

La coltivazione delle piante officinali richiede per lo più un elevato impiego di

manodopera, che fa lievitare i costi di produzione.

Se la manodopera impiegata fa parte dell'impresa coltivatrice (è il caso delle piccole

aziende famigliari) essa creerà un redddito da lavoro interno all'azienda, ma se si deve

ricorrere a manodopera esterna, essa contribuirà ad elevare i costi di produzione.

Per cui, nel programmare le coltivazioni officinali, la manodopera è uno degli

elementi fondamentali che può determinare le scelte di chi si accinge a coltivare.

L'azienda produttrice può avere diversi indirizzi:

- ottenere piantine da vendere sul mercato vivaistico ad altre aziende coltivatrici

- produrre erbe fresche da vendere sui mercati ortofrutticoli

- ottenere piante o loro parti aeree essiccate da destinare all'erboristeria oppure

alle industrie estrattive

- produrre radici, tuberi, rizomi essiccati

- ottenere olii essenziali

Le macchine necessarie alla produzione di qualsiasi gruppo di piante sopra

elencato, sono in dotazione alle comuni aziende orticole e cioè quelle che servono alla

preparazione del terreno (trattrice, aratro, erpice) all’esecuzione delle operazioni colturali

(seminatrici, trapiantatrici) ed al mantenimento delle colture (zappatrici, sarchiatrici

multiple, motocoltivatori per la lavorazione interfila) il cui numero e la cui potenza

dipenderà dall'indirizzo e della dimensione aziendale. Per produrre piantine da trapianto

(primo indirizzo) sono necessari:

- semenzaio a letto caldo, tunnel con copertura in film plastico oppure serre con le

principali attrezzature (irrigazione, riscaldamento, ecc.)

Per la produzione di erbe fresche si può fare riferimento a quelle attrezzature

largamente usate dalle aziende che producono per esempio basilico: seminatrici di

precisione per semina in cellette o contenitori alveolari, serre, ecc.

Per la produzione di erbe essiccate e di radici, che è il caso più frequente, oltre alla

attrezzature per la coltivazione, saranno necessarie le seguenti macchine:

- raccoglitrici dimensionate alla grandezza delle superfici coltivate

- essiccatoio (che è l'attrezzatura fondamentale)

- taglierina per tagliare le erbe o le radici prima o dopo la essiccazione

- selezionatrice per ottenere diversi tipi di assortimenti commerciali

- macchine di pressaggio del prodotto secco e di confezionamento in balle

- magazzini adeguati allo stoccaggio dalle piante medicinali e/o aromatiche

prodotte.

Per la produzione di olii essenziali (di menta, lavanda, timo, ecc.) è naturalmente

necessario un distillatore, che solitamente è un'attrezzatura molto costosa

Per la produzione di semi (anice, finocchio, cardo mariano, coriandolo, ecc.) è

fondamentale disporre della seguente attrezzatura:

- seminatrici di precisione con possibilità di semina da 13 a 70 cm

- trebbiatrici (possono essere adottate quelle usuali con modifiche a seconda dei

tipo di seme da produrre)

- aree di essiccazione

- magazzino

Come si può notare da quanto detto finora, la coltivazione delle piante officinali

richiede un investimento in macchinari più elevato rispetto alle colture tradizionali perché

rispetto a queste ultime necessitano di un grado di trasformazione più o meno spinto.

Un fattore che può contenere i costi di produzione è la disponibilità di manodopera

aziendale. La produzione agricola a basso costo di mano d'opera è tipica delle famiglie

coltivatrici. In caso contrario l’alto costo della mano d'opera salariata rende spesso

improponibile ogni tipo di coltivazione, a meno che il ricorso a quest’ultima non sia limitato

al massimo, grazie ad un’elevata tecnologia ed alla realizzazione di adeguate economie di

scala, il chè tuttavia comporta investimenti in macchinari molto elevati.

I macchinari per la raccolta e/o trasformazione delle piante officinali (separatrici

foglie/fusti, trance per taglio tisana ecc.) sono nella maggioranza dei casi di produzione

straniera e quindi molto costosi e non sempre facili da procurare. Una soluzione per

ovviare agli alti costi è quella di modificare o da soli o con l’aiuto di meccanici specializzati,

macchine agricole destinate ad altre piante o alla lavorazione di altri prodotti.

I prezzi ottenibili per le piante medicinali ed aromatiche coltivate sono sempre

correlati alla qualità del prodotto. Come scelta strategica e competitiva (superiore qualità

dei prodotti e quindi prezzi di vendita più remunerativi), è opportuno adottare tecniche di

coltivazione biologiche e/o biodinamiche. Tuttavia occorre tener conto che entrambe

comportano costi di produzione, nonché capacità tecniche di gestione delle colture e

dell’impresa più onerosi rispetto a quella convenzionale.

Le piante medicinali ed aromatiche per essere commerciabili devono inoltre

possedere i seguenti requisiti:

- residui tossici (diserbanti, pesticidi, ecc.) nei limiti di legge;

- assenza di impurezze e contaminanti;

- sufficiente essiccazione del prodotto;

- carica batterica nei limiti di legge;

- aflatossine nei limiti di legge;

- metalli pesanti nei limiti di legge;

- contenuto di principi attivi secondo farmacopea o monografie relative al prodotto.

Queste caratteristiche possono essere ottenute solo con un’alta specializzazione ed

adeguati macchinari di trasformazione ed ambienti di conservazione.

La resa agronomica è molto influenzata dalla specie coltivata e dal tipo di prodotto

che si vuol ottenere. Ad esempio un ettaro di camomilla fornisce in media 6 q di capoloni

essiccati, un ettaro di menta circa 70 kg di olio essenziale ed un ettaro di lino 10-15 q di

semi.

Nelle nostre zone dove la durata del periodo vegetativo è maggiore, la presenza

dell’irrigazione permette di aumentare la produzione di massa verde e quindi di eseguire

più tagli. Inoltre, grazie alle temperature più elevate, i costi dell’ essiccazione sono minori.

Relativamente ai prezzi, quelli praticati dai grossisti fanno riferimento al prezzo

praticato a livello internazionale e per tanto sono bassi (in media 1, 5 €/kg di prodotto

secco). Il prezzo poi, a causa delle dimensioni intrinseche del comparto, in relazione ai

quantitativi di prodotto commercializzato a livello mondiale, è soggetto a notevoli

oscillazioni cicliche collegate alla disponibilità dell’offerta.

Ogni iniziativa di coltivazione, non dovrà tenere conto dei prezzi momentanei,

specialmente se sono alti, ma dei prezzi medi avuti negli ultimi anni.

Lo sbocco commerciale di produzioni elevate potranno essere indifferentemente le

industrie farmaceutiche, alimentari, liquoristiche, cosmetiche ed erboristiche Occorre

tuttavia tener conto che mentre l’offerta delle officinali è piuttosto polverizzata, il

commercio delle medesime è in mano a pochi grossisti, concentrati nel nord Italia. Nella

maggior parte dei casi le partite trattate, a questi livelli, sono decisamente consistenti. In

caso di grosse produzioni, per potere avere la certezza del collocamento del prodotto

ottenuto, prima di iniziare a coltivare, è necessario concludere un contratto di vendita con i

potenziali acquirenti.

Da parte dell’industria tuttavia, una programmazione nel lungo periodo è oltremodo

difficile, verificandosi spesso variazioni notevoli per prezzo, quantità e qualità da un

raccolto all’altro. Qualora si intenda avvalersi di questo canale commerciale è

indispensabile assicurarsi preliminarmente con adeguati contratti di coltivazione, che

prevedano il ritiro del prodotto, e (come già anticipato) ipotizzare grossi investimenti sia

per quanto riguarda le superfici che si intendono destinare alla coltivazione di piante

officinali, sia per quanto riguarda l’aspetto finanziario collegato (adeguamento aziendale

con attrezzature specifiche). In questo caso è consigliabile produrre piante medicinali ed

aromatiche di consumo consolidato.

Le maggiori richieste di informazioni sulle possibilità di coltivazione di piante

medicinali piante medicinali ed aromatiche provengono però da aziende agricole situate in

zone collinari e montane che dispongono di piccole superfici di terreno.

Risulta particolarmente difficile per un produttore agricolo, che intenda diversificare

la propria produzione sperimentando la coltivazione di piante officinali, proporsi come

possibile fornitore dei grossisti e le coltivazioni con bassi volumi rischiano di non trovare

acquirenti, indipendentemente dal prezzo e gli unici sbocchi commerciali di queste

produzioni possono essere i laboratori cosmetico/erboristici.

Un’altra strada possibile è la creazione di consorzi o cooperative che possono

coltivare piante officinali da affiancate ad altre culture tradizionali. Per le aziende di piccole

dimensioni, singole od associate in cooperative, è opportuno cercare di valorizzare il

prodotto occupandosi direttamente dell’intera filiera produttiva, trasformando e vendendo

direttamente la materia prima lavorata. Ciò è più facile se si ha a disposizione un’azienda

agrituristica, oppure se si opera in zone turisticamente sviluppate. La presenza del turismo

aumenta moltissimo le possibilità di vendere il prodotto attraverso spacci di prodotti tipici

locali o presso gli alberghi, oppure direttamente.

Per le famiglie coltivatrici proprietarie di piccole aziende di collina montagna poste

in luoghi lontani dall’inquinamento, un’altra possibilità oltre a quella della coltivazione è

quella della raccolta spontanea. E’ questa un'attività che può essere fatta sia a tempo

pieno, oppure nel tempo libero. In questo caso, non ci sono problemi di investimenti e di

alta specializzazione, come richiesto dalle coltivazioni, ma solo la conoscenza delle specie

da raccogliere, del loro tempo balsamico e del processo ottimale per il loro essiccamento.

Essendo le quantità giornaliere raccolte molto basse, si potranno essiccare le

piante medicinali ed aromatiche avvalendosi di telai posti in locali preesistenti, senza

l’investimento in costose attrezzature.

Le piante medicinali ed aromatiche spontanee più importanti da raccogliere sono:

Iperico, Tiglio, Ononide, Santoreggia, Timo, Fumaria, Ortica, Equiseto, Achillea, Ginepro,

Assenzio, Ruta.

Occorre, tuttavia, tenere conto che in mancanza di una legge quadro di riordino del

settore, il Ministero della Salute sta emanando delle circolari che adeguano la nostra

legislazione a quella europea. Questo “adeguamento” preoccupa non poco i piccoli

coltivatori e/o trasformatori perché esige una qualificazione del prodotto (analisi) i cui costi

non sono assolutamente sostenibili da parte di piccole aziende o piccoli consorzi. Inoltre

molti compratori richiedono già che il produttore fornisca la documentazione che

garantisca l’adozione delle G.A.P. (Good Agricultural Practices) e delle H.A.C.C.P.

(Hazard Analisis Critical Control Point) nelle varie fasi produttive.

Occorre, infine, sottolineare che per vendere anche semplicemente una tisana,

occorre poter disporre del supporto di un’erborista. La legislazione attuale prevede infatti

che qualsiasi formulazione erboristica messa in commercio sia garantita e certificata nella

sua composizione da questa figura professionale.

COLTIVAZIONE DI PICCOLI FRUTTI

I frutti di bosco, detti anche piccoli frutti, sono delle colture che richiedono un

elevato fabbisogno di manodopera, una buona disponibilità di acqua e un basso

investimento in termini di superficie e quindi particolarmente adatti alle piccole e medie

aziende a conduzione familiare

La coltivazione dei piccoli frutti rappresenta un’interessante opportunità per

integrare il reddito e diversificare le produzioni delle aziende collinari e montane.

Queste colture hanno una spiccata resistenza naturale nei confronti di patogeni, di

conseguenza si prestano bene a sistemi di produzione integrata o biologica e possono

rappresentare una fonte di reddito interessante per i terreni marginali.

Le principali specie di frutti minori coltivate in Italia sono il lampone (Rubus

idaesum), il mirtillo nero (Vaccinium myrtillus) e il mirtillo rosso (Vaccinium vitis idaea), la

mora di rovo (Rubus fruticosus), l’uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi) e la fragola

(Fragaria vesca).

Tutte queste specie sono caratterizzate da un’elevata resistenza al freddo, ma

soffrono la mancanza d’acqua, fattore che in alcuni casi può diventare limitante per la loro

diffusione nelle aree meridionali della nostra penisola.

Anche se le informazioni disponibili sulle quantità e i valori della produzione sono

carenti, si può affermare che questi prodotti possono rappresentare nicchie di mercato che

alimentano delle micro-filiere particolarmente importanti per promuovere politiche di

tipicità, origine e qualità dei prodotti.

La raccolta dei frutti minori avviene durante i mesi estivi e deve essere

programmata adeguatamente attraverso una scelta varietale che consenta di ricoprire le

esigenze di mercato soprattutto in controstagione (aprile-maggio e ottobre-novembre),

quando cioè si riescono a spuntare elevati prezzi.

Moltissimi sono gli esempi e i risultati: di notevole importanza quelli della

Garfagnana conseguenti all’attività svolta dall’ASFD. Piantine di fragoline selvatiche

derivanti dal bosco vengono trapiantati su terreni di montagna irrigui, ben lavorati e

fertilizzati con concimi organici e quindi coltivate. Le coltivazioni danno prodotti di qualità

non inferiore a quelli spontanei. Produzioni di oltre 50 quintali ad ettaro con una redditività

molto elevata. Dati economici parlano di fragoleti di circa mezzo ettaro che rendono oltre

20.000€ all’anno. Impianti produttivi vengono realizzati anche con altre specie del

sottobosco, come il lampone, partendo più spesso da materiale con caratteristiche

superiori a quelle del selvatico. Con questo sistema si può arrivare a produzioni che

oscillano fra gli 80 e i 120 quintali per ettaro. Un ettaro di lamponeto può rendere anche

30.000€ all’anno.

D'altra parte, però, i piccoli frutti non concedono tante alternative: o ci si associa in

cooperative od in altre forme associative, o si soccombe alla realtà di un mercato sempre

più esigente e competitivo.

La disponibilità di prodotto fresco sul mercato trova riscontro in un largo consenso

tra i consumatori e soprattutto nei laboratori di gelaterie e pasticcerie, anche perché

queste ultime utilizzano prodotto conservato. La facile deperibilità del prodotto obbliga una

rapida collocazione dello stesso, fatto che richiede una organizzazione di vendita molto

dinamica e flessibile.

L’utilizzo prevalente dei piccoli frutti è dato dal consumo allo stato fresco: questo

tipo di utilizzazione consente la migliore valorizzazione commerciale del prodotto. La

presenza di picchi produttivi comporta la considerazione di destinazioni alternative quali

dolci confezionati, sciroppi, marmellate e preparati per yogurt. Tali ulteriori opportunità

possono essere sfruttate da piccole aziende di trasformazione che, apprezzato il prodotto,

possono iniziare, con interesse e inventiva, la produzione di dolci confezionati, sciroppi,

marmellate e preparati per yogurt a base di frutti di bosco.

Il lampone è un arbusto che può raggiungere i 2,5 metri di altezza. Si mette a

dimora in novembre, in terreno sciolto, ma tendenzialmente umido e fertile; non cresce

bene nei terreni alcaline siccitosi. Al momento della preparazione del terreno, è

consigliabile distribuire un buon quantitativo di letame maturo; successivamente si ricorre

ai concimi minerali, che devono essere distribuiti ogni anno, nel periodo primaverile. In

novembre si staccano i polloni radicati, cercando di non rovinare le radici, e si mettono

direttamente a dimora; in seguito si tagliano all’altezza di 25 centimetri dal livello del

terreno. Se questa operazione è stata effettuata in primavera, è consigliabile evitare che la

pianta produca frutti nel primo anno, altrimenti potrebbe indebolirsi notevolmente: in

questo caso si asportano i frutti appena cominciano a formarsi. Alla fine del primo anno di

vita delle piante, si eliminano tutti i fusti deboli. I frutti si raccolgono quando sono

completamente maturi e sono utilizzati freschi o usati nella preparazione di dolci, gelati,

sciroppi, succhi, marmellate, caramelle, liquori. Il lampone può avere un impiego anche

farmacologico, in quanto ha azione rinfrescante e diuretica.

La mora di rovo è un arbusto da frutto, spontaneo in Italia, alto 50-150 centimetri;

cresce bene nei terreni freschi e ben drenati, al sole o in posizioni parzialmente

ombreggiate. Dato che la fioritura non avviene all’inizio della primavera, ma più tardi, in

genere non si verifica il problema delle gelate primaverili. Si mette a dimora in autunno e

subito si tagliano i fusti all’altezza di 25-30 centimetri dal livello del terreno. La mora si

coltiva come arbusto prostrato oppure munito di sostegni e si moltiplica facilmente per

propaggine apicale, in quanto radica facilmente all’estremità dei rami. Questi ultimi

vengono interrati in agosto-settembre e staccati dalla pianta madre nella primavera

successiva; si mettono direttamente a dimora o si piantano in vivaio, dove si coltivano fino

all’autunno. La produzione dei frutti inizia nel corso dell’annata seguente. Dopo la raccolta,

si asportano i rami che hanno prodotto i frutti. Questi ultimi si raccolgono quando sono

diventati neri e hanno sapore dolce e vengono consumati direttamente o destinati alla

produzione di marmellate, sciroppi, succhi e gelati.

Il mirtillo, sia rosso sia nero, è un arbusto semilegnoso che raggiunge il mezzo

metro d’altezza e cresce bene nei terreni torbosi non calcarei. Si mette a dimora in

autunno o all’inizio della primavera, al sole o in ombra parziale. In settembre si possono

eseguire propaggini, che vengono staccate dalla pianta madre dopo 1-2 anni. In ottobre o

in febbraio-marzo si dividono le piante e si mettono direttamente a dimora. In luglio si

prelevano talee lunghe 5-8 centimetri e, dopo averle fatte radicare in un miscuglio di torba

e sabbia, si invasano in piccoli contenitori riempiti con miscugli di torba, sabbia grossolana

e terriccio da giardino non calcareo e si tengono in letto freddo fino al mese di ottobre,

quando si trapiantano in vivaio, dove si coltivano per 2-3 anni. I frutti maturi del mirtillo

nero, dal sapore dolce e aromatico, si possono consumare crudi o cotti e vengono

impiegati nella preparazione di succhi, marmellate, gelatine e per aromatizzare grappe e

liquori digestivi. I frutti maturi del mirtillo rosso, dal sapore acidulo-amarognolo, vengono

impiegati nella preparazione di marmellate, gelatine, grappe e liquori casalinghi.

L’uva ursina è un arbusto a fusti prostrati. .Si mette a dimora in settembre-ottobre o

in marzo-aprile in terreno umido, torboso, al sole o in ombra parziale. Si moltiplica per

propaggini, interrando i lunghi rami a marzo; questi vengono separati dalla pianta madre

dopo 1-2 anni, quando hanno radicato bene. Si effettuano anche le talee, prelevando

germogli laterali lunghi 5-8 centimetri, in luglio-agosto; si depongono in un miscuglio di

torba, terriccio privo i calcare e sabbia grossolana; i vasi si interrano all’aperto; in

settembre-ottobre, le piante giovani possono essere messe definitivamente a dimora.

La fragola è una pianta orticola molto diffusa, coltivata in molte zone d’Italia per

ottenere i frutti; si adatta a condizioni ambientali molto diverse e può essere coltivata

anche in zone collinari e montane, fino ai 1000 metri di altezza. Non ha particolari

esigenze pedologiche, anche se sono da sconsigliare i terreni calcarei; resiste bene al

freddo, ma teme le gelate tardive. È una pianta che cresce bene all’ombra, quindi si presta

bene a essere coltivata nel sottobosco. La coltura delle fragole può essere effettuata per

un periodo variabile da 3 a 5 anni sul medesimo terreno. La messa a dimora può essere

effettuata a una distanza di 30 centimetri tra loro e in file distanti 30 centimetri in

settembre-ottobre o in marzo-aprile. La moltiplicazione si effettua per via vegetativa,

sfruttando la caratteristica delle fragole di produrre nuove piantine in corrispondenza dei

nodi degli stoloni. Quando queste sono ben sviluppate, si staccano e si mettono

direttamente a dimora. I frutti della fragola selvatica, ricchi di zuccheri e vitamine, sono

molto più profumati di quelli ottenuti dalle grosse fragole coltivate e si utilizzano per

profumare e decorare gelati, macedonie e torte di frutta. Le foglie si possono utilizzare in

gradevoli tisane primaverili.

COLTIVAZIONE DI TARTUFI

La tartuficoltura può essere considerata un’attività agronomico-forestale piuttosto

recente se paragonata a coltivazioni quali la viticoltura o l’olivicoltura che si praticano da

tempi biblici.

I fattori da tenere sotto controllo per arrivare al risultato finale vale a dire una

produzione di tartufi economicamente valida e costante nel tempo sono molteplici e non

tutti ancora perfettamente noti. Sicuramente rimane molto da fare nel settore della ricerca

e della sperimentazione ma, ne vale la pena, in quanto la tartuficoltura permette di

produrre un bene di elevato valore economico, la cui domanda è in continua crescita sui

mercati mondiali e la cui produzione ha un impatto positivo sull’ambiente in quanto non

può prescindere dal rimboschimento, con tutti i benefici ambientali e paesaggistici che

esso comporta.

In Italia sono presenti allo stato spontaneo, numerose specie di tartufo, di queste

solo sette sono ammesse al commercio, esse sono: il tartufo nero pregiato (Tuber

melanosporum Vittad), il tartufo bianco (Tuber magnatum Pico), il tartufo nero estivo

(Tuber aestivum Vittad.) il tartufo uncinato (Tuber uncinatum Chat.), il tartufo brumale

(Tuber brumale Vittad.), il tartufo nero moscato (Tuber brumale Vittad. forma moschatum

Ferry), il tartufo nero di Bagnoli (Tuber mesentericum Vittad.), il tartufo nero liscio (Tuber

mascrosporum Vittad.) e il tartufo bianchetto o marzuolo (Tuber borchii Vittad.).

La specie più largamente coltivata e che ha dato i migliori successi produttivi è il

tartufo nero pregiato; è stata tentata la coltivazione del tartufo bianco ma con esiti alquanto

deludenti; buoni risultati si sono avuti con il tartufo bianchetto e con il tartufo estivo.

La coltivazione dei tartufi in Italia è incominciata verso la metà degli anni ottanta del

secolo scorso, in questo arco di tempo sono stati registrati risultati estremamente diversi:

da buone produzioni a completi fallimenti.

Sulla scorta delle esperienze fatte, si può affermare che una tartuficoltura razionale

ed economicamente valida debba tenere nella giusta considerazione i seguenti aspetti:

1 - Idoneità del sito alla coltivazione dei tartufi

I tartufi hanno esigenze pedologiche e climatiche molto precise e specifiche per

ciascuna specie. Prima di intraprenderne la coltivazione, bisogna valutare se il terreno

scelto è idoneo ed eventualmente, a quale specie. I terreni estremamente compatti o con

pH acido vanno comunque scartati, quelli che hanno altre caratteristiche vanno

attentamente analizzati. E’ indispensabile un’indagine pedologica in cui vengano analizzati

la tessitura, la struttura, il pH, la presenza di carbonato di calcio totale e di quello libero

nella soluzione circolante. E’ necessaria anche un’analisi stazionale che prenda in

considerazione l’altitudine, l’esposizione, la pendenza e un esame della vegetazione che

metta in evidenza le specie forestali presenti nei boschi limitrofi e il loro sviluppo allo stato

adulto.

2 - Scelta della giusta combinazione pianta – tartufo

Stabilita la specie di tartufo più indicata ad essere coltivata nella tipologia di suolo a

disposizione, bisogna scegliere la specie forestale simbionte in base alle caratteristiche

climatiche e vegetazionali della stazione. Il tartufo nero di Norcia ad esempio ha dato

ottimi risultati produttivi in simbiosi con il leccio però, questa specie forestale non è adatta

alle quote elevate. E’ preferibile realizzare impianti con due o tre essenze forestali per

avere una maggiore variabilità fonte di garanzia verso gli eventuali stress climatici o

patologici.

3 - Fornitura delle piante

Le piante micorrizate sono prodotte da vivai specializzati dislocati soprattutto nel

Centro - Nord Italia. Generalmente la qualità delle piante prodotte in Italia è buona ma, è

sempre opportuno richiedere piante certificate. La certificazione della qualità delle piante

viene effettuata da strutture pubbliche (Università e altri enti di ricerca) sulla base di un

protocollo abbastanza rigido, essa non è obbligatoria in quanto i vivaisti possono fornire

un’autocertificazione, la maggior parte dei vivai italiani comunque, richiede la

certificazione alle strutture preposte. Il prezzo medio di una pianta micorrizata oscilla dai

6,5 euro ai 10,5 euro soprattutto in base alla specie di tartufo simbionte, (le piante

micorrizate col tartufo nero pregiato costano in media uno o due euro in più rispetto a

quelle micorrizate con altre specie), e al fatto se sono certificate o autocertificate (la

certificazione incide per circa 0,5 euro). E’ bene prenotare le piante con un certo anticipo

in quanto, negli ultimi anni, si sta verificando una vera corsa alla piantagione di tartufaie e

pertanto i vivai migliori ne rimangono presto sforniti.

4 - Lavorazioni pre impianto

Tutti gli interventi agronomici devono essere decisi in base alla tipologia di suolo e

alla combinazione pianta tartufo prescelta. In generale le operazioni pre impianto sono:

Decespugliamento

La vegetazione legnosa, sia arbustiva che arborea, deve essere eliminata per

facilitare le lavorazioni, per avere maggiore spazio di piantagione, ma, soprattutto, perché

alcune specie potrebbero essere già micorrizate con funghi presenti nel terreno e quindi

rappresentare una fonte di inoculo di funghi competitori. Prima di intervenire sulla

vegetazione arborea e/o arbustiva, è buona norma verificare la legislazione vigente.

Spietramento

Nel caso di presenza di grossi massi, sarebbe opportuno provvedere al loro

allontanamento, compatibilmente con i costi che questa operazione comporta. In alcuni

impianti, i sassi sono stati macinati sul posto e sparsi sul terreno per sfruttare il loro effetto

pacciamante ma, è una operazione non consigliabile in quanto troppo onerosa.

Lavorazione del terreno

La lavorazione principale deve essere decisa in base al tipo di suolo e alle colture

precedenti l’impianto. In generale la profondità dell’aratura non dovrebbe superare i 30 -

40 cm, profondità maggiori potrebbero portare in superficie orizzonti sterili o troppo

argillosi inoltre, verrebbe alterato l’assetto della flora microbica del suolo. In generale, per

terreni mediamente profondi si consiglia una rippatura incrociata in modo da favorire la

circolazione dell’aria e dell’acqua senza rovesciamento del suolo, seguita da un’aratura

piuttosto superficiale e un successivo affinamento delle zolle. Sarebbe opportuno eseguire

i lavori prima dell’estate in modo che, i probabili propaguli di funghi competitori presenti

naturalmente nel terreno, vengano esposti il più possibile all’aria e inattivati dalle elevate

temperature e dalla carenza idrica estiva.

Sesto d’impianto

Il sesto di impianto deve essere deciso in base alla specie forestale simbionte, allo

sviluppo probabile che la pianta avrà da adulta, alla specie di tartufo e all’esposizione del

terreno. In pratica, si deve riuscire a prevedere l’ombreggiamento operato dalle chiome

delle piante adulte considerando che: il tartufo nero tollera male ombreggiamenti superiori

al 60%, il tartufo estivo tollera ombreggiamenti maggiori, il tartufo bianco predilige un

ombreggiamento del 100%. E’ buona norma adottare sesti larghi piuttosto che stretti:

numerose tartufaie realizzate con la combinazione carpino nero - tartufo nero pregiato, in

stazioni favorevoli allo sviluppo della specie forestale, dopo 10 - 15 anni risultano troppo

ombreggiate. In questi casi bisogna intervenire con le potature che sono abbastanza

onerose o con il diradamento, una scelta molto difficile quando la maggior parte delle

piante sono in produzione.

Piantagione

L’epoca più idonea per la piantagione è quella autunno - vernina se le temperature

non sono troppo basse, se il terreno non è occupato dalla neve per lunghi periodi, ecc.,

oppure la primavera ponendo attenzione ai ritorni di freddo. Qualche giorno prima della

messa a dimora è bene sospendere l’irrigazione delle piantine in vaso, in modo che il pane

di terra sia asciutto e quindi la sua estrazione facilitata.

Irrigazione

Deve essere prevista l’irrigazione di soccorso alle giovani piantine in modo da

favorire il loro attecchimento. Una pianta ben micorrizata è più resistente alla siccità ma, la

fase di affrancamento è molto delicata, uno stress idrico prolungato può compromettere

oltre alla pianta, le micorrize.

Verifica della produzione

La verifica della produzione si incomincia intorno al quarto -quinto anno, dopo

questo lasso di tempi infatti, se gli impianti sono stati realizzati e condotti razionalmente, è

possibile raccogliere i primi tartufi. Per tutte le specie, ad esclusione del tartufo bianco,

produzioni interessanti incominciano ad esserci, in media, dal decimo anno in poi. In caso

di assenza di produzione, si può verificare la permanenza delle micorrize sugli apparati

radicali mediante l’analisi di campioni di radici. Sono analisi che possono essere effettuate

solo in pochi laboratori specializzati e sono abbastanza costose (30 - 60 euro a

campione).

Truffe e raggiri

Da almeno un decennio operano alcune strutture che hanno truffato molti

imprenditori agricoli in tutta Italia. La loro tecnica consiste nel presentarsi come

professionisti esperti del settore, nel dichiarare che le piante micorrizate da essi proposte,

sono eccezionali in quanto prodotte con metodologie innovative in collaborazione con

strutture scientifiche particolarmente note, di volta in volta, italiane o francesi; nel garantire

l’entrata in produzione delle loro piante micorrizate già al terzo anno dall’impianto;

nell’assicurare una produzione di tartufo da 1 a 3 chili per ciascuna pianta; nel rendersi

disponibili a ritirare essi stessi il tartufo prodotto a prezzo di mercato. Nei primi tre anni

forniscono assistenza tecnica con uno o due sopralluoghi sull’impianto e consigliano una

mistura liquida contenente sostanze che favorirebbero la produzione dei tartufi. Le piante

micorrizate vengono vendute a un prezzo che oscilla dai 60 - 120 euro, i sopralluoghi

vengono effettuati dietro pagamento e il costo della pozione è di parecchie centinaia di

euro a litro. Purtoppo le persone truffate sono centinaia e distribuite in tutta Italia

A scanso di equivoci si precisa che:

1 - non esistono piante micorrizate italiane o straniere in grado di produrre un chilo

di tartufo dopo tre anni;

2 - nessuno è in grado di garantire l’entrata in produzione di una pianta micorrizata

e prevedere la quantità di tartufo prodotto;

3 - le strutture di ricerca pubbliche italiane non collaborano con i vivai per la

produzione delle piante micorrizate, su richiesta dei vivaisti e mediante apposite

convenzioni, effettuano il controllo della qualità delle piante e rilasciano un certificato.

4 - Non esistono, attualmente, misture miracolose che possano favorire la

fruttificazione dei tartufi.

Un’altra truffa meno frequente è quella d i vendere come micorrizate, essenze quali

l’olivo, il rosmarino o altre piante che non contraggono la simbiosi micorrizica con le specie

del genere Tuber.

Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate tartufo nero

pregiato (con particolare riferimento all’esperienza delle regioni dell’Italia Centrale)

Nelle zone di collina e montagna che presentano caratteristiche pedoclimatiche

idonee a diverse specie di tartufi neri (Tuber aestivum Vittad., Tuber brumale Vittad.,

Tuber mesentericum Vittad.), è stata privilegiata la coltivazione di Tuber melanosporum

perché più pregiato. Nel primo decennio di coltivazione dei tartufi, la tendenza purtroppo,

è stata quella di dare importanza soprattutto alla micorrizazione della pianta simbionte,

senza tenere nella giusta considerazione i caratteri pedoclimatici del sito di impianto,

nell’errata convinzione che piante ben micorrizate avrebbero comunque prodotto tartufi.

Ovviamente queste prime piantagioni hanno fornito risultati produttivi diversificati e poco

soddisfacenti: accanto a piantagioni produttive se ne registrano altre improduttive

realizzate in ambienti non idonei, oppure con piante simbionti non ben micorrizate o

coltivate in maniera irrazionale.

Gli impianti di tartufo nero pregiato realizzate negli ambienti idonei, utilizzando la

specie di pianta simbionte adatta al sito e adottando opportune pratiche colturali di

impianto e post-impianto, stanno fornendo produzioni soddisfacenti ed in alcuni casi

eccezionali (da 20 - 30 kg/ha a oltre 100 kg/ha).

Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate da tartufo bianco.

Gli impianti di tartufo bianco sono stati realizzati soltanto fino al 1992-93;

successivamente le micorrize che, su basi morfologiche, si ritenevano di tartufo bianco

non sono state confermate come tali dall’analisi molecolare e ciò ha determinato un blocco

della produzione delle piante micorrizate. Nelle ultime due stagioni produttive, due

tartufaie realizzate nel 1985-87 e situate in due località distanti tra di loro, hanno iniziato a

produrre ottimi carpofori di tartufo bianco. Per cui riteniamo che sia possibile coltivare con

successo anche questa specie, debbano però, essere continuati e approfonditi gli studi

sull’ecologia, sulle tecniche di micorrizazione e di coltivazione, fortunatamente ci sono vari

gruppi di ricercatori, prevalentemente italiani che stanno affrontando le varie tematiche

ancora da chiarire per riuscire a coltivare questo prezioso tartufo.

Risultati produttivi delle tartufaie realizzate con piante micorrizate da tartufi minori:

tartufo nero estivo o scorzone e tartufo bianchetto o marzuolo.

Negli ambienti ritenuti non idonei alle due specie pregiate di tartufo, sono state

realizzate tartufaie utilizzando i così detti “tartufi minori” e cioè Tuber aestivum Vittad. e

Tuber borchii Vittad. In alcune piantagioni di Tuber melanosporum si è verificata la

sostituzione delle micorrize del tartufo nero con quelle di Tuber aestivum. In particolare, in

una tartufaia situata nel comune di Spoleto, una parcella di 5000 mq di carpino nero

realizzata con piante micorrizate da Tuber melanosporum, impiantata nel 1984, ha fornito

nelle ultime stagioni produttive buoni quantitativi di tartufi estivi (25-70 kg). Impianti

realizzati con piante micorrizate da Tuber aestivum in siti idonei, hanno dimostrato una

precoce entrata in produzione (quarto - quinto anno dall’impianto) e una produzione

piuttosto elevata ( 30 - 50 kg/ha).

Tuber borchii (bianchetto) è notoriamente una specie a larga diffusione e

apparentemente molto adattabile alle condizioni pedoclimatiche più diverse. Esso,

comunque, mostra una forte dipendenza dalle conifere: in moltissimi rimboschimenti a

Pinus nigra Arnold si raccolgono discreti quantitativi di carpofori di questa specie. Ricerche

sull’ecologia del bianchetto hanno rilevato una larga distribuzione e la capacità di

colonizzare anche i terreni sub-acidi. I migliori risultati produttivi verificati in tartufaie

presenti in Umbria, Lazio e Campania, sono stati ottenuti in terreni con tessitura franco-

sabbiosa o franco-sabbiosa-argillosa, quindi suoli assolutamente non compatti,

caratterizzati da bassi valori di densità apparente, con calcare in basse percentuali e con

pH che può variare dalla lieve acidità a leggermente alcalino. Anche in questo caso le

produzioni sono state relativamente precoci e quantitativamente significative.

PRODUZIONE DI FUNGHI SPONTANEI

La domanda commerciale di funghi, nel 1999, è stata di 70.000 tonnellate. Per

soddisfare questa domanda sono importate massicce quantità di funghi dai paesi dell’Est

europeo e da altri continenti.

Le specie fungine più richieste dal mercato, allo stato fresco, secco e conservato,

sono quasi tutte ectomicoriziche e quasi nessuna di loro può essere coltivata. La

coltivazione dei funghi ectomicorrizici, infatti, è stata realizzata con relativo successo per le

specie pregiate del genere Tuber (tartufi). Per tutte le altre specie ci sono grosse difficoltà

per la preparazione delle piante micorrizate.

La presenza dei funghi spontanei è strettamente legata alla vegetazione forestale

specialmente a quella tipica dei nostri boschi naturali. Oltre alle specie forestali che

caratterizzano il bosco, le produzioni fungine dipendono molto dai vari gradi di densità del

bosco: il bosco ideale per la produzione di funghi è quello ricco di piccoli spazi privi di

vegetazione forestale.

I funghi per arrivare alla fase di fruttificazione necessitano di calore solare che

scaldi il terreno e di acqua di pioggia che favorisca il potenziale di umidità del suolo e,

proprio nelle radure, questo fenomeno si esprime nella sua forma migliore. E’ proprio

ispirandosi alla scarsa densità del bosco e alla presenza di zone prive di vegetazione al

suo interno che sono stati fatti dei tentativi di trattamento selvicolturale studiati

appositamente per arrivare ad un aumento della produzione di funghi. Uno degli interventi

più comuni è l’irrigazione sopra le chiome degli alberi con nebulizzatori nelle zone dove

abitualmente nascono i funghi. L’acqua distribuita in periodi prestabiliti viene ceduta

lentamente al suolo, contribuisce a favorire i processi di fermentazione agendo

direttamente sui miceli con conseguente anticipo della fruttificazione e con produzioni di

tutto rispetto. Altri tentativi importanti sono stati fatti con interventi selvicolturali.

Diradamenti intensi con riduzione della copertura anche del 30-40% hanno favorito la

produzione di funghi.

Effettuare interventi in bosco in grado di aumentare la produzione di funghi può

essere utile per gli operatori agricoli che risiedono nelle aree collinari e montane, spesso

marginali per l’agricoltura. In tali zone la raccolta e la conservazione dei funghi epigei

commestibili, o la loro valorizzazione all’interno di un’azienda agrituristica, possono

rappresentare una risorsa economica integrativa.

ALLEVAMENTI ALTERNATIVI Lo sviluppo economico e sociale che si è avuto in Italia negli ultimi decenni ha

determinato

profonde trasformazioni nell’agricoltura, che hanno portato a modificare il paesaggio

e l’utilizzazione del territorio. In particolare si è assistito ad una concentrazione dell’attività

agricola nelle zone più fertili, cioè nelle zone di pianura e pedocollinari, dove è stato

possibile impiegare tecniche colturali adatte all’incremento delle produzioni e al

miglioramento delle condizioni di lavoro dell’uomo, mentre l’agricoltura di collina e di

montagna è andata marginalizzandosi.

Si sono differenziate quindi due agricolture: una caratterizzata da livelli produttivi

elevati con largo ricorso ai mezzi tecnici moderni, localizzata nelle zone largamente

antropizzate; l’altra, a bassa produttività, basata principalmente sull’utilizzo delle risorse

naturali presenti nelle zone a scarsa antropizzazione, che man mano sono state più o

meno marcatamente abbandonate e ricolonizzate al bosco.

Alla fine degli anni ’70, si è tentato di recuperare alla produttività queste terre

incolte, soprattutto laddove non sussistevano sufficienti condizioni di destinazione delle

stesse ad attività agricole o zootecniche di tipo tradizionale.

Le vie di utilizzazione di queste aree, stimabili in 15 milioni di ettari, sono state

soprattutto quella forestale e quella faunistica, peraltro non in contrasto tra loro e, almeno

in parte, sovrapponibili.

Una maggiore utilizzazione faunistica del territorio, realizzabile con minimi interventi

strutturali e infrastrutturali, ha potuto infatti aumentare le potenzialità di numerose aziende

agricole sotto l’aspetto dell’integrazione dei redditi, e, contemporaneamente, contribuire

alla ricostruzione dell’equilibrio ecologico e al recupero economico attraverso la

produzione di carne e, forse più proficuamente, attraverso lo sviluppo turistico o turistico-

venatorio.

UTILIZZAZIONE FAUNISTICA

La possibilità di allevare selvatici si è presentata come strategia alternativa nella

diversificazione produttiva delle imprese. Nelle aree marginali è stato un fatto

estremamente importante, da non sottovalutare in quanto ha rappresentato una fonte di

reddito e di occupazione, così come da tempo avveniva in altri Paesi dell’Europa e del

Mondo, che avevano avvertito assai prima dell’Italia la portata del problema ed avevano

operato in tal senso.

E’ fuori dubbio che l’animale selvatico si è rivelato un buon utilizzatore delle risorse

naturali, in quanto dotato di grande capacità di adattamento all’ambiente, di spiccata

resistenza alle malattie e di elevata possibilità di sopravvivenza anche in condizioni difficili.

Peraltro, la reintroduzione di selvatici nelle zone ad essi destinabili, ha costituito anche un

fattore di riequilibrio ecologico, oltre che una fonte di proteine animali di elevato pregio.

Gli allevamenti di ungulati selvatici a scopo alimentare sono stati resi possibili in

Italia dalla legge nazionale 968/77 sulla protezione della fauna. I primi allevamenti sono

sorti agli inizi degli anni ’80 con la emanazione delle leggi regionali. E’ necessario ottenere

autorizzazioni per l’esercizio di questa attività, in quanto gli animali in libertà appartengono

allo Stato e la detenzione senza autorizzazione comporta ipotesi di appropriazione di beni

statali con sanzioni di tipo amministrativo e penale.

L’allevamento a scopo alimentare si è configurato quindi come attività zootecnica

(art. 19 L968/77) e si è differenziato, perciò, in maniera sostanziale dalle tipologie di

allevamenti previste dalla legge come strumenti della gestione faunistica e venatoria del

territorio (centri di produzione di selvaggina, recinti di caccia in aziende faunistico-

venatorie). Per questo motivo essi sono sottoposti a vincoli di estensione spaziale minima,

di quantità massima di territorio impiegabile, di autorizzazione e conduzione che ne

rendono meno generalizzabile la realizzazione.

Ogni allevamento viene attuato in un ambiente confinato e, necessariamente, più o

meno artificiale, nel quale gli animali sono sottratti all’azione selettiva dell’ambiente e in

parte anche alle normali interazioni sociali. Oltre al rischio di consanguineità, i soggetti

prodotti in cattività sono per lo più inadatti a sopravvivere e riprodursi con successo in

libertà. Gli allevatori tendono ad utilizzare, per la produzione della carne, gli esemplari più

prolifici e più grossi, che si rivelano invece molto meno adatti per il ripopolamento.

E’ necessario, pertanto, orientare l’allevamento verso un tipo o l’altro di produzione,

perché “materia prima” e criteri di gestione sono completamente diversi.

ALLEVAMENTO DEGLI UNGULATI SELVATICI

Nell’ultimo censimento dei primi anni ’90, in Italia è stata accertata la presenza di

circa 970 allevamenti di ungulati selvatici, per complessivi 28.600 capi, con una media di

circa 30 unità per allevamento. Le prospettive sono per un trend positivo.

Le specie più allevate sono: cinghiali (14.100), daini (9.900), mufloni (2.100), cervi

(1.600) e caprioli (850) in numerosi allevamenti privati (~910), con un numero medio

ridotto di capi (~20), e pubblici (~60), con in media circa 180 capi. Questi allevamenti non

risultano distribuiti uniformemente sul territorio nazionale. Al primo posto per numero di

capi allevati si trova la Toscana (~8.900), seguita da Umbria (~3.900), Piemonte (~3.300)

e Lazio (~2.600); consistenze minori sono state rilevate nelle altre regioni (in media 650

capi).

Si può osservare, pertanto, che la concentrazione maggiore di animali è presente

nell’Appennino centrale, dove si vanno qualificando anche le attività indotte, quali

soprattutto la ristorazione e l’attività venatoria, che possono contribuire alla valorizzazione

del prodotto.

I problemi con cui debbono confrontarsi gli allevatori sono prevalentemente di tre

tipi: legale, finanziario e commerciale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’ottenimento dell’autorizzazione

all’allevamento risulta abbastanza facile, anche se alcune regioni tendono a limitare il

numero di concessioni per evitare di sottrarre troppo territorio alla caccia.

La legislazione sanitaria è quella che crea i problemi più grossi, in quanto la

commercializzazione della carne dei selvatici allevati non può essere ancora effettuata

nelle macellerie accanto a quella degli animali domestici (a meno che si ricorra a

confezioni sotto vuoto o in atmosfera controllata). Inoltre viene favorita la macellazione nei

mattatoi pubblici, con riduzione delle autorizzazioni a livello aziendale.

Il D.P.R. 30.12.1992, n. 559 “Regolamento di attuazione della direttiva 91/495/CEE

concernente la produzione e commercializzazione di carni di coniglio e di selvaggina di

allevamento” (G.U. n. 28 del 4.2.1993), fissa i requisiti igienico-sanitari per la produzione e

la commercializzazione delle carni di coniglio e di selvaggina e stabilisce cosa si intende

per “selvaggina in allevamento”.

Il D.P.R. 17.10.1996, n. 607, “Regolamento recante norme per l’attuazione della

direttiva

92/45/CEE relativa ai problemi sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione

di selvaggina e di commercializzazione delle relative carni” (G.U. n. 280 del 29.11.1996),

stabilisce i requisiti sanitari e di polizia sanitaria in materia di uccisione, preparazione e

commercializzazione di selvaggina cacciata, definendo la “selvaggina cacciata”,

sostanzialmente differente dalla selvaggina allevata per autonomia di ricovero e di

approvvigionamento, anche se confinata in un territorio chiuso.

Così i mammiferi biungulati (daini, cervi, mufloni) possono essere macellati in

impianti autorizzati per grossi animali (bovini, equini, suini, ovini e caprini) ai sensi del

D.L.vo 286/94, in quanto i requisiti di questi mattatoi ben si prestano a far fronte alle

esigenze igienico-sanitarie derivanti dalla macellazione di specie, che con i grossi animali

hanno molto in comune. Analogamente quaglie, piccioni, fagiani possono essere macellati

in mattatoi riconosciuti ai sensi del D.P.R. 503/82 per volatili da cortile (polli, oche, anatre,

ecc.).

Relativamente all’aspetto finanziario, l’impianto di un allevamento completamente

funzionale necessita di investimenti di somme elevate per le recinzioni e per le altre

strutture (trappola di cattura, mangiatoie, abbeveratoi, ecc.).

L’aspetto più critico, con rischio di compromissione della redditività delle aziende, è

quello commerciale, legato soprattutto ai costi molto elevati della carne prodotta da un

numero limitato di animali in allevamenti privati, sui quali incidono fortemente le spese di

macellazione, lavorazione, trasporto, visite sanitarie e ammortamento delle strutture. A

questo si deve aggiungere la concorrenza della carne di provenienza venatoria da altri

Paesi (sia fresca che congelata) e la commercializzazione di animali da vita sotto costo da

parte degli enti pubblici.

Allevamento dei cervidi

L’allevamento dei cervidi e del muflone è riconducibile a tre modelli fondamentali,

semi-intensivo, semi-estensivo e sfruttamento estensivo (gestione faunistica)

Allevamento semi-intensivo

Generalmente adottato per Cervo e Daino, secondo moduli riconducibili ad una

stabulazione libera “ampia”, semplificata rispetto a quella caratteristica degli animali

domestici.

L’allevamento semi- intensivo, finalizzato prevalentemente alla produzione di carne,

prevede una scelta iniziale di soggetti provenienti di preferenza da allevamenti analoghi,

che, naturalmente, non sono adatti al ripopolamento.

In questa tipologia gli animali (densità superiore a 10 q PV/ha) sono alloggiati in

recinti generalmente intercomunicanti, per una utilizzazione a rotazione, e collegati con un

impianto di cattura. Per la recinzione si usa rete metallica, alta circa 2 m leggermente

interrata e sormontata da 2-4 ordini di filo spinato. I sostegni possono essere realizzati con

pali di legno o metallo posti ogni 5-7 m. Ogni recinto deve essere provvisto di abbeveratoi,

mangiatoie a rastrelliera e per concentrati; sono necessari anche ricoveri per la protezione

dai venti dominanti. Un elemento indispensabile è la trappola di cattura, piccolo recinto in

contatto con tutti i paddok dell’allevamento, in rapporto con uno stretto corridoio che

permette il passaggio di un solo animale alla volta. Essa è comunicante con una struttura

in metallo per l’immobilizzazione (crush), munita di finestre laterali e di una bilancia a

bascula, per i controlli ponderali.

Le risorse naturali all’interno dei recinti spesso non sono sufficienti a coprire i

fabbisogni degli animali e quindi si deve provvedere all’integrazione o alla

somministrazione completa della razione ricorrendo ad alimenti prodotti in azienda o del

commercio; per la completa soddisfazione delle loro esigenze nutritive è necessario

considerare l’elevato dispendio energetico, non sempre quantificabile, per il movimento,

per la termoregolazione e per i frequenti stati di stress.

Allevamento semi-estensivo

Presuppone ampie superfici e basso carico di animali (1¸5 q PV/ha). La superficie

deve essere suddivisa in recinti, ognuno dei quali di dimensioni intorno ai 2-3 ha. Gran

parte dell’alimentazione è assunta direttamente dagli animali, che utilizzano le produzioni

vegetali spontanee; tuttavia durante i periodi difficili sono previste integrazioni. I costi per

le recinzioni sono più elevati, dato il maggior sviluppo delle superfici, mentre sono più

bassi i costi di gestione. Anche in questo caso deve essere previsto un impianto di cattura

del tipo precedentemente descritto. Le condizioni di vita degli animali si avvicinano di più

alla situazione naturale, quindi questo tipo di allevamento è più idoneo per la produzione di

soggetti da destinare alla vita in libertà (allevamenti a scopo di ripopolamento, centri

pubblici e privati di riproduzione della fauna selvatica).

Gestione estensiva

Lo scopo principale è quello venatorio. La densità di animali prevista per unità di

superficie è molto bassa. Le spese di investimento, per la realizzazione di quelli che

vengono definiti recinti venatori e che vanno da un minimo di 300 ha in su, sono limitate

alle recinzioni esterne, che possono essere in gran parte sostituite da delimitazioni

naturali. Sono comunque opportuni punti di foraggiamento, di abbeverata, nonché punti di

insoglio e strutture strategiche per le osservazioni; devono inoltre essere previsti punti per

la cattura e i trattamenti sanitari. Il carico deve essere accuratamente controllato e

mantenuto intorno al valore massimo sostenibile all’ambiente, per evitare danni alle

coperture vegetali, onde un’evoluzione negativa delle fitocenosi, e carenze nutrizionali agli

animali; questo presuppone una buona conoscenza dell’offerta pabulare, nei diversi

periodi dell’anno, ed altrettanto buona conoscenza dei fabbisogni alimentari egli animali.

Quindi è corretto calcolare il numero massimo di capi allevabili in funzione dei periodi di

minima offerta. Tutti questi dati concorrono alla predisposizione del così detto “piano di

assestamento”, che prevede un numero adeguato di animali appartenenti alle varie classi

di età di una determinata specie, al fine di conservare le popolazioni senza arrecare danni

alla copertura vegetale. Ad equilibrio raggiunto si può programmare un “piano di

abbattimento selettivo”, cioè definire, nell’ambito di ciascuna specie, il numero e la

categoria di soggetti da abbattere (o vendere) in modo da mantenere la popolazione ai

livelli e nella struttura prevista dal piano di assestamento. Rientrano in questa tipologia di

gestione le aziende faunistico-venatorie.

Allevamento del cinghiale

Per il cinghiale sono previsti sistemi di allevamento intensivi, con attrezzature e

impianti del tutto simili a quelli del suino domestico, e sistemi più o meno estensivi.

Nel primo caso si fa ricorso a vere e proprie stalle in muratura, con box, provvisti di

recinti esterni da utilizzare anche per l’insoglio, separati per i verri, le scrofe e i cinghialetti

in accrescimento; può essere utile un reparto “maternità”, costituito da gabbie provviste di

vie di fuga per i suinetti, nei primi giorni di vita, al fine di evitare i rischi di schiacciamento.

Per quanto riguarda l’alimentazione vengono generalmente impiegati i prodotti del

commercio di norma utilizzati nell'allevamento suino; è comunque sempre opportuna una

integrazione con ghiande e castagne.

I sistemi estensivi e semiestensivi prevedono uno o più recinti, con ampie radure e

zone boscate, delimitati da rete con altezza fuori terra di 140-150 cm, interrata per 30-40

cm, e un impianto di cattura, costituito per lo più da un piccolo recinto, ovale o circolare,

delimitato da una robusta palizzata alta un paio di metri con chiusura a saracinesca

azionata dallo stesso animale. La densità degli animali può essere molto diversa in

funzione della quantità e della qualità dell’alimentazione fornita artificialmente; un capo

ogni due ettari si può considerare il valore ottimale per limitare i danni alla copertura

vegetale, per contenere l’alimentazione artificiale e per mantenere in buona salute gli

animali. Si consiglia comunque di non superare i due capi adulti per ettaro, anche nei casi

in cui si faccia ampio ricorso all’alimentazione “esterna”.

ALLEVAMENTO DELL’AVIFAUNA SELVATICA E DELLA LEPRE

L’allevamento dell’avifauna e della lepre può essere ricondotto a due forme, semi-

estensiva ed intensiva, che hanno però indirizzi e finalità non molto diversi fra loro, in

quanto ambedue destinano la loro produzione al ripopolamento e all’esercizio venatorio.

L’allevamento allo stato naturale (semi-estensivo) è quello in cui le risorse

alimentari spontanee vengono integrate con la somministrazione di mangimi nei periodi

critici dell’anno e con la predisposizione di “colture a perdere”. Possono rientrare in questa

tipologia di gestione le zone di ripopolamento e cattura, le aziende faunistico-venatorie ed

alcuni centri di riproduzione della selvaggina. Più diffuso è l’allevamento intensivo, del

quale vengono di seguito descritte le tecniche più utilizzate per diverse specie.

Allevamento dell’avifauna selvatica

Per questo tipo di allevamento l’ideale sarebbe l’utilizzazione di riproduttori

autoctoni di elevato pregio genetico, al contrario di quanto viene finora attuato attraverso

l’importazione di soggetti, prevalentemente dai paesi dell’Est europeo, con risultati

insoddisfacenti e notevoli danni per la fauna locale. In quest’ottica è preferibile eliminare

gli allevamenti di tipo industriale e far prevalere quelli di piccola e media dimensione,

tenendo conto delle capacità faunistiche della zona. La diminuzione del numero di capi

allevati comporta un aumento dei costi, ma una migliore gestione igienico-sanitaria e

l’ottenimento di animali di maggior pregio, grazie alla conservazione delle caratteristiche di

selvaticità e rusticità.

L’allevamento può essere iniziato in due diversi modi: acquistando uova o

utilizzando riproduttori adulti. Nel primo caso, rispetto al secondo, si ha una riduzione dei

costi, ma un allungamento dei tempi di entrata in produzione (circa un anno). I volatili

vengono allevati in voliere, dette parchetti, poste in luoghi tranquilli e soleggiati, su terreni

permeabili. Allo stato naturale fagiano e quaglia sono poligami, quindi anche in cattività è

necessario rispettare questo stato. Nel caso del fagiano si ricorre più comunemente

all’allevamento in "famiglie", cioè un maschio con 5-7 femmine; in alcuni casi si può optare

per quello in "colonie", in cui 6-7 maschi vengono allevati in grandi recinti con circa 40-45

femmine. La presenza di più maschi determina competizione e quindi una maggiore

attività di quelli più vigorosi; in questa situazione, però, è difficile individuare i riproduttori

poco attivi per procedere alla loro eliminazione.

L’allevamento della quaglia (1 maschio/5-7 femmine) viene effettuato generalmente

al chiuso. La starna e la pernice, sia in libertà che in allevamento, sono monogame, quindi

ogni coppia deve disporre di un proprio parchetto. Poiché in cattività la scelta dei partner

non avviene per simpatia, come in natura, è necessario formare le coppie con debito

anticipo, entro la metà di gennaio nelle regioni a clima mite ed entro la metà di febbraio

nelle regioni a clima freddo.

Generalmente la femmina di fagiano depone in media 50-60 uova a stagione (inizio

aprile-inizio luglio); la starna e la pernice da 20 a 80 uova (fine aprile- fine luglio); la

quaglia produce in media un uovo al giorno per tutto l’anno.

Le uova raccolte, prima di essere incubate, vengono conservate (massimo una

settimana) in luoghi freschi, fino al raggiungimento di un numero sufficiente da giustificare

l’avvio dell’incubatrice. Essa deve essere scelta in funzione del numero di femmine

presenti e delle uova deposte e sistemata in locale apposito (T ambiente intorno ai 16-20

°C). All’interno dell’incubatrice (T media: 37,5 °C ; umidità: 70% - 80%) le uova vengono

rivoltate periodicamente, a mano o in modo automatico, e, sempre periodicamente, si

esegue la speratura, per eliminare le uova non fecondate o con embrione morto. La durata

dell’incubazione è di circa 16 giorni per la quaglia, 24 per il fagiano, per la pernice e per la

starna.

In tutte le specie avicole, i riproduttori restano in produzione per no n più di tre anni,

dopo di che vengono messi in libertà a fine inverno. Al termine della stagione di

riproduzione viene effettuata una cernita dei soggetti più prolifici, che vengono utilizzati per

la rimonta. E’ necessaria l’immissione, ogni 2-3 anni, di alcuni maschi acquistati presso

altri allevamenti per ridurre al minimo i rischi di consanguineità.

Dopo la schiusa i pulcini vengono affidati a madri artificiali (generalmente lampade

a raggi infrarossi del tipo a campana), disposte nelle pulcinaie (~5 m2), locali caldi e ben

aerati, provvisti di abbeveratoi e mangiatoie. La temperatura iniziale di 38-39 °C viene

diminuita gradualmente dopo il quarto giorno per arrivare alla temperatura ambiente verso

il 14° giorno di vita. Trascorse 2-3 settimane, gli allievi sono trasferiti nelle voliere di

transizione, preferibilmente sistemate in luoghi riparati dai venti e ben soleggiati, dove

possono tentare i primi voli e abituarsi all’ambiente aperto.

Da 30 giorni fino a circa 60-90 giorni di età (momento più opportuno per il lancio) gli

animali sostano in voliere di allevamento, dove dispongono ad libitum, oltre che dei

consueti mangimi bilanciati, anche di granaglie e verdure fresche, in modo da abituarsi

all’alimentazione naturale.

Allevamento della lepre

La maggior parte dei tentativi compiuti per allevare le lepri in recinti a terra sono

falliti per l’insorgere, entro breve tempo, di vari tipi di epidemie, i cui agenti patogeni

permangono nel terreno anche per anni, rendendo, di fatto, impossibile un reale controllo

sanitario. Inoltre, le elevate densità, necessarie per rendere economicamente valido

l'allevamento, possono indurre negli animali vere e proprie sindromi da stress.

E' più usuale, pertanto, adottare l’allevamento in gabbia per i riproduttori. Le gabbie,

sollevate da terra per consentire la più completa pulizia e disinfezione, sono di maggiori

dimensioni rispetto a quelle dei conigli; mangiatoie, abbeveratoi, rastrelliere debbono

essere accessibili dall’esterno per non arrecare disturbo agli animali.

I nati per coppia sono in media 8-10 all’anno, con mortalità neonatale molto elevata

(intorno al 50%). I leprotti, tolti alle madri dopo 20-30 giorni dal parto, vengono alloggiati in

gabbie sistemate in zone protette dal vento e sollevate da terra; quelli destinati ai

ripopolamenti vengono trasferiti in recinti a terra, provvisti di buona copertura erbacea e di

un numero sufficiente di ripari, per favorire il loro adattamento alla vita libera. Per

l’alimentazione si ricorre prevalentemente all’uso di mangimi integrati, in minor misura a

quello di alimenti freschi, quali erba, foglie, ortaggi, frutta, ecc..