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SOMMARIO: il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: "Quando presenziate al parto delle donne ebree, osservate il neonato quando è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo ucciderete; se è una femmina, la lascerete vivere". Ma le levatrici ebbero timore di Dio: non fecero come era stato loro ordinato e lasciarono vivere i bambini. Il re d'Egitto chiamò ancora le levatrici e disse loro: "Perché lasciato vivere i bambini?". Le levatrici dissero al faraone: "Le donne ebree sono diverse dalle egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi da loro la levatrice, hanno già partorito!". Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una numerosa famiglia. Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il suo popolo: "Ogni figlio maschio che nascerà presso gli Ebrei, lo annegherete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni femmina". LE LEVATRICI DI EGITTO Vuoi ricevere Partecipare per posta elettronica? Segnala a: [email protected] oppure [email protected] Luglio N. 7 Anno 2014 —————— Direttore Responsabile: SIILVIO DI PASQUA Proprietario: BENIAMINO MICHIELETTO Autorizz. Del Tribunale di Treviso n.463 del 5/11/1980 Redazione e stampa: 31029 VITTORIO VENETO Via Carlo Baxa, 13 tel. 0438-57319 – fax: 0438/946028 ………e-mail: [email protected] “Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale – 70% NE/TV” Hanno collaborato: Le Segreterie Nazionale, Regionale e Territoriale della FLAEI-CISL, Bazzo Giorgio, Griguolo Tiziano, De Luca Adelino, Fontana Sergio, De Bastiani Mario, Perin Rodolfo, Budoia Angelo, Tolot Margherita, Dal Fabbro Edgardo, Battistuzzi Lorenzo, Sandrin Giuseppe, Faè Luciano, Piccin Livio, Da Ros Remigio, Carminati Giovanni, Pilutti Aldo , Tempesta Domenico, Bitto Valter

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SOMMARIO:

il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altraPua: "Quando presenziate al parto delle donne ebree, osservate il neonato quando èancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo ucciderete; se è unafemmina, la lascerete vivere". Ma le levatrici ebbero timore di Dio: non fecero comeera stato loro ordinato e lasciarono vivere i bambini. Il re d'Egitto chiamò ancora lelevatrici e disse loro: "Perché lasciato vivere i bambini?". Le levatrici dissero alfaraone: "Le donne ebree sono diverse dalle egiziane: sono piene di vitalità: prima chearrivi da loro la levatrice, hanno già partorito!". Dio beneficò le levatrici. Il popoloaumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diedeloro una numerosa famiglia. Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il suo popolo:"Ogni figlio maschio che nascerà presso gli Ebrei, lo annegherete nel Nilo, malascerete vivere ogni femmina".

LE LEVATRICI DI EGITTO

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LuglioN. 7

Anno 2014——————

Direttore Responsabile: SIILVIO DIPASQUAProprietario: BENIAMINOMICHIELETTOAutorizz. Del Tribunale di Trevison.463 del 5/11/1980Redazione e stampa:31029 VITTORIO VENETO

Via Carlo Baxa, 13tel. 0438-57319 – fax: 0438/946028

………e-mail: [email protected]“Poste Italiane SpA - Spedizione inabbonamento postale – 70% NE/TV”

Hanno collaborato: Le Segreterie Nazionale, Regionale e Territorialedella FLAEI-CISL, Bazzo Giorgio, Griguolo Tiziano, De Luca Adelino,Fontana Sergio, De Bastiani Mario, Perin Rodolfo, Budoia Angelo, TolotMargherita, Dal Fabbro Edgardo, Battistuzzi Lorenzo, Sandrin Giuseppe,Faè Luciano, Piccin Livio, Da Ros Remigio, Carminati Giovanni, PiluttiAldo , Tempesta Domenico, Bitto Valter

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Offriamo una buona lettura per rinfrancare il cuore, il cervello e lo spiritoFLAEI-CISL di Belluno e Treviso

Indice

Pagina Testo3 CHI E’ LUIGINO BRUNI4 L'amore non cede al potere6 Il grido che ci fa ricchi8 Le liberazioni e le spine10 Dove comincia la vera libertà12 La lealtà apre anche il cielo15 Le piaghe degli imperi invisibili18 Ecco la liberazione più grande21 La gratuità che sa parlare24 La salvezza è danza e occhi26 La giusta legge del pane28 Le parole diverse degli uguali30 Le parole del cielo e della terra33 Ecco la sola immagine vera36 Puro dono è la dote della terra39 Il tesoro del settimo giorno42 La voglia di intrappolare Dio45 Il peso delle parole comuni48 Le spalle e il volto di Dio51 C'è un velo che svela il falso54 Il lavoro è già terra promessa57 Nessun liberatore si fa mai re59 CONCLUSIONE

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CHI E’ LUIGINO BRUNI

Luigino Bruni, nato ad Ascoli Piceno nel 1966, è Professore Associato in Economia Politica alDipartimento di Economia Politica dell’Università Milano Bicocca edall’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI). Dopo la Laurea inEconomia ad Ancona nel 1989, ha conseguito un dottorato nel 1998 inStoria del Pensiero Economico presso l’Università di Firenze, ed unsecondo PhD nel 2004 in Economics presso l’ Università di East Anglia(UK).E’ vicedirettore del Centro interdisciplinare e interdipartimentale CISEPS;e’ vicedirettore del Centro interuniversitario di ricerca sull'etica d'impresaEconometica; è coordinatore del progetto Economia di Comunione emembro del comitato etico di Banca Etica Negli ultimi 15 anni il campo diricerca di Luigino Bruni ha coperto molti ambiti, dalla Microeconomia,all’Etica ed Economia, alla Storia del Pensiero Economico e dalla

Metodologia in Economia alla Socialità e Felicità in Economia. Recentemente i suoi interessi si sono rivoltiall’Economia Civile ed alle categorie economiche ad essa collegate quali Reciprocità e Gratuità. Su questiargomenti Luigino Bruni ha scritto molti libri e vari di questi sono stati tradotti in altre lingue. Nel 2008 ilsuo libro “Civil Happiness” ha vinto il secondo premio del “Templeton Enterprise Awards”. Questo premio èassegnato ogni anno ai migliori libri e articoli sulla cultura d’impresa scritti da autori con meno di 40 anni almomento della pubblicazione. Attualmente la ricerca di Luigino Bruni si è focalizzata sul ruolo dellamotivazione intrinseca nella vita civile e economica.

*°*°*°Libri pubblicati:L’ethos del mercato, Bruno Mondatori, Milano (2010)Dizionario di Economia Civile, con S.Zamagni, Città Nuova, Roma (2009)L'impresa civile, Egea, Milano (2009).Benedetta Economia, con A. Smerilli, Città Nuova, Roma (2008)Reciprocity, altruism and civil society, Routledge, London (2008)La ferita dell'altro. Economia e relazioni umane, Il Margine, Trento, 2007.Civil Economy, con S. Zamagni, Peter Lang, Oxford, 2007Il prezzo della gratuità, Città Nuova, Roma, 2006.Civil Happiness, Routledge, London, 2006.Reciprocità. Cooperazione economia società civile, Bruno Mondadori, Milano, 2006.L’economia, la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere, Città Nuova, Roma, 2004.Economia civile, con S. Zamagni, Il Mulino, Bologna 2004.Vilfredo Pareto and the birth of the modern microeconomics, Elgar, Chelterham, 2002Vilfredo Pareto. Alle radici della scienza economica del novecento, Collana “Economisti Italiani”,Polistampa, Firenze, 1999

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Le levatrici d’Egitto / 1È UNO SGUARDO DI DONNA CHE CI SALVA DAGLI IMPERIL'amore non cede al potere

Dio mandò loro i suoi angeli per lavarli, per ungerli e per fasciarli, e per porre due pietrelevigate: da una succhiavano latte, dalla seconda mangiavano miele. E fece crescere i lorocapelli fino alle loro ginocchia perché si coprissero con essi, e per adornarli e coccolarli nellaSua misericordia per loro Cronache di MosèIl libro dell'Esodo è un grande esercizio spirituale ed etico per chi vuole prendere coscienza

dei 'faraoni' che ci opprimono e iniziare cammini di liberazione La prima arte della terra è quella dellelevatrici: far nascere i bambini Quando questa prima arte si eclissa, la vita perde il primo posto e le civiltàsi ammalano e decadonoAvvenire 10 agosto 2014

Gli imperi ci sono sempre stati, e ci sono ancora. Ma oggi ci stiamo assuefacendo ad essi, e facciamo semprepiù fatica a riconoscerli. E non riconoscendoli non li chiamiamo per nome, non ci sentiamo oppressi, noniniziamo nessun cammino di liberazione.Ci rimane soltanto la 'sovranità' dei consumatori, sempre più infelici e soli sui nostri divani. La lettura e lameditazione del libro dell’Esodo è un grande esercizio spirituale ed etico, forse il più grande di tutti, per chivuole prendere coscienza dei 'faraoni' che ci opprimono, tornare a sentire dentro il desiderio di libertà, udireil grido di oppressione dei poveri, cercare di liberarne almeno qualcuno. E per chi vuole imitare le levatricid’Egitto, le amanti dei bambini di tutti.Tra la Genesi e l’Esodo c’è una diretta continuità: «Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta quellagenerazione. I figli d’Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto forti, e il paese ne fupieno. Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe» (1,5-7). La crescitademografica degli ebrei (1,10), unita al timore che tra i nuovi nati ci potesse essere chi lo avrebbe scalzato(1,22), è vissuta dal Faraone come una grave minaccia.Inasprisce allora la condizione degli ebrei – cioè quel groviglio eterogeneo di popoli nomadi stranieri che sitrovavano in Egitto come servi, tra i quali finirono anche le tribù di Israele. Così «rese loro amara la vitamediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e a ogni sorta dilavoro nei campi» (1,14). Ma il faraone non si limitò ai lavori forzati per gli uomini. Tentò la soluzione piùdrastica, che ci apre una delle pagine più belle di tutta la scrittura: «Il re d’Egitto disse alle levatrici degliEbrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: 'Quando assistete le donne ebree durante il parto,osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, potrà vivere'» (1,15-16).Il mestiere della levatrice era in Egitto molto stimato e sviluppato. A Sais c’era una scuola nota in tuttal’antichità, e due levatrici, Neferica-Ra e più tardi Peseshet, sono ricordate come le prime donne medicodella storia. Le levatrici sono sempre state considerate dalla gente un 'bene comune', donne che affiancano illoro lavoro al travaglio delle madri, sempre a lottare dalla parte della vita, amate da tutta la comunità chericeve i suoi figli dalle loro mani esperte e buone (la 'Signora Germana', l’ultima levatrice del paese in cuisono nato, resta ancora una stella luminosa). Un mestiere nell’antichità tutto e solo femminile, che gestiva lafine del gestare, quel momento sacro in cui le donne ci generano e rigenerano il mondo. Nella culturabiblica, al parto è assegnato un posto centrale. Rachele, una delle figure più belle e importanti della Genesi,muore partorendo. Ed è durante quell’ultimo parto che compare per la prima nella Bibbia la parola levatrice:«La levatrice le disse: 'Non temere: anche questa volta avrai un figlio!'» (Gen 35,17). Quella prima levatricedisse, sussurrò, parole buone e di speranza (alle madri partorienti non si parla: si sussurra, si accarezzano, siparla con le mani). Ma Benomì-Beniamino nacque sulla morte di Rachele. La ritroviamo poi durante il partodi Tamar, mentre pone un «filo scarlatto» sulla mano del suo primo gemello (38,28). E infine le levatricid’Egitto, e per l’ultima volta, perché dopo le parole infinite di Sifra e Pua era tutto detto.Quel popolo nomade, dai parti difficili nelle tende mobili, ha voluto porre all’origine della loro grande storiadi liberazione due levatrici d’Egitto. Di Sifra ('la bella') e Pua ('splendore', 'luce') sappiamo poco. Quasicertamente erano egiziane, forse le responsabili delle levatrici degli ebrei o di tutto l’Egitto. Sappiamo i loronomi, ma soprattutto sappiamo che furono le primeobiettrici di coscienza: «Le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto elasciarono vivere i bambini» (1,17). La prima arte della terra è quella delle levatrici: 'lasciare vivere ibambini', i bambini nostri e quegli degli altri, i bambini di tutti. Quando questa prima arte si eclissa, la vitaperde il primo posto e le civiltà si confondono, si ammalano e decadono. In questi 'no' al faraone e 'sì' allavita è allora custodita anche una grande parola per ogni lavoro: la legge più profonda e vera delle nostre

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professioni e dei nostri mestieri non è quella emanata dai tanti faraoni, dominati dalle brame, antiche enuove, di potere e di onnipotenza.Le loro leggi vanno rispettate solo se e solo quando servono la legge della vita. Quando dimentichiamo che

la 'legge dei faraoni' è sempre la legge seconda, mai la prima, citrasformiamo tutti in sudditi di imperi, e non iniziamo nessunaliberazione, nostra e degli altri. Sifra e Pua ci dicono che 'i bambini non siuccidono', non si uccidono i bambini degli egiziani né quelli degli ebrei.Non si uccidono né in Egitto né in alcun luogo. Ieri, oggi, sempre. Sevogliamo restare umani. E tutte le volte che non facciamo così, non'temiamo Dio', non ubbidiamo alla vita e rinneghiamo l’eredità dellelevatrici d’Egitto.In Sifra e Pua, due donne, due lavoratrici, due esseri umani dalla partedella vita, riecheggia il mito greco di Antigone (che disobbedisce al re perubbidire alla legge più profonda della vita: seppellire suo fratello morto inbattaglia). Rivivono le donne della Genesi, le altre donne della Bibbia. Èannunciata Maria, e tutte le donne che ancora oggi continuano agenerarci. Rivivono i carismi e il 'profilo mariano' della terra.Tutto l’inizio del libro dell’Esodo si svolge sotto il segno delle donne chesalvano la vita. La madre di Mosè disobbedì al nuovo ordine del faraonedi «gettare nel Nilo ogni figlio maschio» (1,22) e salvò il bambino. Lonascose, e quando non poté «tenerlo nascosto più oltre», costruì un cestodi papiro, ve lo pose dentro e lo affidò alle acque del Nilo (2,2-3).

Un’altra donna, la figlia del faraone, trovò il cesto nel fiume, e quando vide che conteneva «un bambinodegli ebrei» ne «ebbe compassione» (2,5-7).L’intera scena del ritrovamento del cesto sulla riva del grande fiume è accompagnata dallo sguardo dellasorella di Mosè: «La sorella del bambino si pose a osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto» (2,4).È stupendo questo sguardo di donna-bambina che accompagna, correndo lungo la riva, lo scorrere della cestalungo il fiume; uno sguardo buono d’amore innocente che ci ricorda quello di Elohim che seguiva lo scorreresulle acque della barca-cesto che conteneva Noè il giusto – non a caso la parola ebraica tevà è usata sia per ilcesto di Mosè che per l’arca di Noè. La sorella di Mosè parlò con la figlia del faraone, e si offrì per trovarleuna nutrice presso gli ebrei. La figlia del faraone accettò l’offerta e le disse: «Porta con te questo bambino eallattalo per me; io ti darò un salario» (2,9).Ancora un lavoro di donna che salva, quello più intimo (il latte scambiato tra donne per la vita), che vieneaccostato a un’altra parola cruciale: salario. In un tempo in cui soffrono sia il lavoro sia il salario, e quandole leggi dei faraoni non vogliono far nascere i bambini o trasformarli in una merce, questo inizio dell’Esodoci deve parlare e scuotere forte. Il Faraone voleva utilizzare due lavori per eliminare i figli di Israele: quelloforzato dei mattoni e quello delle levatrici. Ma nessuno di questi lavori fu alleato della morte. Le levatriciscelsero per vocazione la vita, ma nemmeno i lavori forzati vinsero, perché «quanto più opprimevano ilpopolo, tanto più si moltiplicava e cresceva» (1,14). Nonostante il faraone, il lavoro resta alleato della vita, enon si lascia usare facilmente per scopi di morte. I faraoni sono sempre tentati di manipolare il nostro lavoro,ma possiamo salvarci persino nei lavori peggiori. Lavorare è parte della condizione umana, e quindi abbiamola capacità di farcelo amico a dispetto dei potenti e degli imperi, e convertire il 'lavoro-lupo' in 'fratellolavoro'. Più difficile è oggi salvarsi dal 'non-lavoro forzato'.L’inizio dell’Esodo ci mostra una meravigliosa alleanza tra donne, cooperanti per la vita oltre le gerarchiesociali, i mariti e i padri oppressori e oppressi.Queste alleanze incrociate tra donne hanno salvato molte vite durante le guerre e le dittature degli uomini,costruendo con le loro mani 'cesti' di salvezza. Alleanze che continuiamo a vedere nelle nostre città, e checonsentono ai nostri figli di vivere e di diventare grandi. I bambini si devono salvare: è la legge dellelevatrici, delle donne, la prima legge della terra.«Dio fece sì che alle levatrici tutto andasse bene... E perché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede lorouna numerosa famiglia» (1,20-21). È la 'numerosa famiglia' delle levatrici del mondo, delle persone amanti ecustodi della vita, delle madri delle bambine e dei bambini di tutti.

Figura 1 - William Dyce, «Rachele e Giacobbe»

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Le levatrici d’Egitto / 2IL NOSTRO È UN DIO CHE ASCOLTA E 'RICOMINCIA' LA CURA PER NOIIl grido che ci fa ricchiSvégliati! Perché dormi, Signore?

Dèstati, non respingerci per sempre!Perché nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?La nostra gola è immersa nella polvere, il nostro ventre è incollato al suolo. Àlzati!Salmo 44Per fare l'esperienza della liberazione occorre prima aver sentito il bisogno di essere liberati,

e poi gridare, credendo o sperando che di là, o Lassù, ci sia qualcuno ad ascoltare. I lavori e i non-lavoriforzati continuano a crescere, ma dai nostri campi di lavoro non si lanciano grida verso il cielo. La grandepovertà è oggi indigenza di liberazioni, perché le ricchezze fittizie di merci ci stanno convincendo di nonaver più bisogno di essere liberatiAvvenire 17 agosto 2014

La prima preghiera che incontriamo nella Bibbia è un grido, un urlo verso il cielo che si alza da un popolooppresso. Per fare l’esperienza della liberazione occorre prima aver sentito il bisogno di essere liberati, e poigridare, credendo o sperando che di là, o Lassù, ci sia qualcuno a raccogliere quel grido. Se invece non cisentiamo oppressi da nessun faraone, o se abbiamo perso la speranza che qualcuno ascolti il nostro grido,non abbiamo ragioni per gridare e non siamo liberati.Mosè inizia la sua vita pubblica uccidendo un uomo: «Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoifratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli. Voltatosiattorno e visto che non c’era nessuno, colpì a morte l’Egiziano e lo sotterrò nella sabbia» (Esodo 2,11-12).Mosè, l’annunciatore della Legge «non uccidere», diventa assassino. In questo incipit della storia di Mosè,misterioso e per noi un po’ sconcertante, ritorna una delle leggi più profonde della Bibbia. I patriarchi e iprofeti biblici non sono eroi né modelli di virtù. Ci si mostrano come donne e uomini tutti interi, talmenteumani da includere nel loro repertorio persino il gesto omicida di Caino. È sulla loro umanità a tutto tondoche arrivano le loro immense vocazioni, che iniziano e terminano le loro grandi esperienze spirituali esempre umane. Solo se prendiamo su di noi la loro umanità tutta intera, può accadere che le loro storie disalvezza diventino anche le nostre, nostre le loro speranze e le loro liberazioni.Dopo quell’omicidio, Mosè ha paura e fugge dall’Egitto, e arriva nella terra di Madian come straniero (2,15).Gli anni che Mosè trascorre dai madianiti separato dal suo popolo, sono anche l’immagine dell’eclisse di Dioche Israele sta vivendo in Egitto.L’oppressione del popolo, le levatrici d’Egitto, Mosè salvato dalle donne e dalle acque, si svolgono dentro unorizzonte di silenzio di Dio, in una notte dell’Alleanza.Dio in Egitto tace, come se avesse dimenticato la sua Alleanza. La promessa si è abbuiata, il popolodell’Alleanza è oppresso e schiavo in una terra straniera.Ma il popolo oppresso riesce a trovare la forza per gridare, e sarà il suo urlo a porre fine a questa notte: «GliIsraeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio.Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò lacondizione degli Israeliti, Dio se ne prese cura» (2,24-25).Fino a questo grido, nella preistoria e storia di Israele abbiamo incontrato steli, altari e sacrifici che ipatriarchi hanno alzato verso il cielo per ringraziare. Ma per trovare la prima preghiera siamo dovutiscendere in Egitto, e arrivare fino ai campi di lavoro forzato. Da lì si è alzata verso il cielo la prima preghierad’Israele, che fu urlo collettivo di un intero popolo schiavo. E come quando Dio udì nel deserto il pianto delbambino di Agar (Gen 21,17), anche ora ascolta un pianto-preghiera di oppressi. E risponde. Il Dio bibliconon è il dio dei filosofi: YWHW si commuove, si dimentica, si indigna, ha orecchie per poter ascoltare ilgrido dell’oppresso; si ricorda, si prende cura.In questo grido che sale e che trova ascolto si nasconde allora qualcosa di prezioso. Se anche Dio può'dimenticarsi' del patto, e se le grida del popolo oppresso sono riuscite a fargli ricordare le promesse fatte,allora gridare è molto importante. È importante sempre, ma è essenziale quando si eclissa un patto e siamoabbandonati da chi aveva stabilito con noi un’alleanza, quando siamo lasciati da qualcuno con cui ci eravamofatti delle promesse. Se le urla di dolore dei poveri fecero terminare il silenzio del cielo e poi aprirono ilmare, allora anche noi possiamo e dobbiamo gridare quando chi è legato a noi da un patto di reciprocità cidimentica e ci lascia schiavi in Egitto

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Se Dio si dimenticò del suo patto e il grido del povero glielo ricordò, allora Marco può, deve, gridare quandoGiovanna, dimenticando il suo patto matrimoniale, è uscita di casa e non è tornata. Possiamo e dobbiamo

gridare quando Franco, con cui avevamo coltivato e costruito ilsogno di una cooperativa con e per i poveri, ha seguito i miraggi deimolti guadagni, e ci ha lasciati.Possiamo e dobbiamo gridare quando chi abbiamo mandato inParlamento e nelle Amministrazioni pubbliche dimentica il pattopolitico per il Bene comune e lascia i poveri morire sottol’oppressione degli imperatori dell’azzardo o delle armi.Quando un’alleanza si spezza e, senza colpa, finiamo ai lavoriforzati sotto gli imperi, la prima cosa che dobbiamo fare è gridare,

urlare. Queste grida che salgono verso chi si è dimenticato della sua alleanza con noi, sono il primo passo diuna possibile riconciliazione, perché dicono a noi e agli altri che siamo coscienti di trovarci ingiustamente inEgitto, che soffriamo e vogliamo uscire da quella schiavitù.Gridare, però, non è sempre facile. La prima condizione per poter gridare è credere che chi ci haabbandonato può essere raggiunto dal nostro dolore, commuoversi per il nostro pianto, ricordarsi del patto evoler continuare l’alleanza. Si grida quando si crede che l’altro ci può ancora ascoltare, e può ricominciare. Ilpopolo ebraico gridò perché credeva ancora nell’Alleanza e nella promessa, e credeva che il cielo verso cuigridare non fosse vuoto. Quando, invece, si perde la fede-speranza che ricominciare è ancora possibile, ilgrido si spegne in gola, non si grida più, e il nongrido è il primo segno che in noi è morta la fede-speranza inquel rapporto.Le persone, le comunità, popoli interi, hanno imparato a pregare gridando. Si scopre che il cielo non è vuotoquando lo chiamiamo forte chiedendo, implorando, che ci ascolti.Quando esauriti gli sguardi laterali e frontali, all’improvviso e con stupore senti che te ne resta ancora uno: losguardo si alza verso il cielo, occhi e voce assieme.E inizia il tempo della preghiera vera.Ci sono tanti patti che muoiono e non risorgono perché qualcuno non vuole o non riesce ad ascoltare ilnostro grido di dolore. Gridiamo, urliamo, e nessuno risponde. Di questi non-ascolti delle nostre grida èpiena la terra. Ma ci sono altri patti che non vengono risanati perché non riusciamo a gridare. Non ciriusciamo per mancanza di fede-fiducia in quel patto spezzato, per orgoglio, o per il troppo dolore che ci hatolto il fiato. Non avendo gridato, nessuno l’ha ascoltato, il liberatore non è arrivato per mancanza del gridodi dolore. E così non sapremo mai se dall’altra parte c’era invece qualcuno che non aspettava altro che udireil nostro grido per ricominciare, e che magari continua ancora ad attenderlo. Non riusciamo a curare i nostripatti spezzati se perdiamo la fede che chi ci ha abbandonato (o che sembra averlo fatto) può ancora ascoltareil nostro grido, commuoversi, e forse ricominciare. C’è poi anche chi è certo che l’altro non ascolterà e nonrisponderà, ma grida ugualmente; e non è raro che la fede-fiducia torni dopo questo grido disperato. Gridarepuò essere un canto d’amore, anche quando è una preghieradisperata.Ipoveri continuano a soffrire.Qualche volta riescono a gridare, ogni tanto qualcuno raccoglie il loro grido, e arrivano le liberazioni. Peressere liberati e fare l’esperienza della liberazione, occorre però essere poveri, sentire qualche forma diindigenza. Anche se può apparire paradossale a chi della vita conosce soltanto il lato dei consumi e deipiaceri, l’assenza di grida può essere una grave forma di povertà. I ricchi e i potenti non gridano, e così nonpossono essere liberati: restano schiavi nelle loro opulenze, e non fanno l’esperienza della liberazione, che ètra le più grandi e sublimi che la terra conosca. La grande indigenza della nostra società è indigenza diliberazioni, perché le ricchezze fittizie di merci ci stanno convincendo di non aver più bisogno di essereliberati. Siamo schiavi in altri lavori forzati, ma le nuove ideologie dei nuovi faraoni riescono a non farcisentire il bisogno di liberazione.Non c’è schiavitù più grave di chi non avverte la propria condizione di schiavo. È una schiavitù peggiore diquella di chi, sentendosi oppresso, non grida più perché crede che nessuno lo potrà ascoltare e liberare (chepur sono abbondanti nelle nostre città mute). Oggi i popoli più poveri sono quelli opulenti che non gridandonon vedono o non riconoscono Mosè, e non assistono al miracolo di un mare che si apre verso una terra dove«scorre latte e miele».I lavori e i non-lavori forzati continuano a crescere nel mondo, ma dai nostri campi di lavoro non si elevanopiù grida verso il cielo. È solo tornando indigenti di liberazioni che ritroveremo la forza di gridare insieme,vedremo arrivare nuovi Mosè, e ci metteremo in cammino per attraversare il mare.Figura 2 - Sandro Botticelli, «Prove di Mosè» (1481-1482), affresco della Cappella Sistina

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Le levatrici d'Egitto/3MOSÈ NON È PERFETTO, MA SA ASCOLTARE DIO E RICONOSCERSI FRATELLOLe liberazioni e le spine

Manda, Signore, ancora profeti, / uomini certi di Dio, / uomini dal cuore in fiamme.E tu a parlare dai loro roveti / sulle macerie delle nostre parole, / dentro il deserto dei templi:a dire ai poveri / di sperare ancora David Maria TuroldoGli eventi che veramente ci cambiano accadono nella quotidianità, quando, senza cercarla néattenderla, una voce ci chiama per nome nei luoghi umili del vivere Dubitare della propriavoce è essenziale per credere alla verità della Voce che ci chiama Non liberiamo nessuno se

prima non sentiamo nella nostra carne il dolore per la sua sofferenzaAvvenire 24 agosto 2014

L’incontro decisivo della vita di Mosè avviene durante un ordinario giorno di lavoro: «Mentre Mosè stavapascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivòal monte di Dio, l’Oreb» (Esodo 3,1). Mosè era un uomo straniero che lavorava per vivere. Come Giacobbepresso Laban, come tanti uomini del suo tempo e del nostro. Ed è dentro questo lavoro umile e dipendente,che accade l’evento che cambierà la sua storia e la nostra. Le fabbriche, gli uffici, le aule, i campi, le case,possono essere e sono il luogo degli incontri fondamentali della vita, persino delle teofanie. Gli appuntamentidecisivi ci raggiungono nei luoghi del nostro vivere ordinario, e quindi mentre lavoriamo (lavorare èimportante anche per questo). Possiamo partecipare a mille liturgie, fare cento pellegrinaggi e decine di ritirispirituali, e così vivere esperienze splendide; ma gli eventi che veramente ci cambiano accadono nellaquotidianità, quando senza cercarla né attenderla, una voce ci chiama per nome nei luoghi umili del vivere.Facendo i piatti, correggendo un compito, guidando un tram. O pascolando un gregge, nei pressi dei rovetiche bruciano nelle nostre periferie.Tutta la prima parte della vita di Mosè è all’insegna della normalità. Le vocazioni bibliche non sonospettacolari, né legate alla straordinarietà dei chiamati né al loro merito (chi ama la 'meritocrazia' non trovaalleati nella Bibbia). Mosè non è scelto perché buono o migliore degli altri uomini. Come Noè, è chiamato acostruire un’arca di salvezza: «Dio gridò a lui dal roveto: 'Mosè, Mosè!'.Rispose: 'Eccomi!'. Riprese: 'Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu staiè suolo santo!'. E disse: 'Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe'»(3,4-6).Un altro grido, questa volta di Dio, che Mosè sa ascoltare; una voce alla quale crede, riconoscendola senzaconoscerla. Mosè, infatti, non era stato educato nella sua gente. Era cresciuto con gli egiziani (da cui avevapreso il nome), poi aveva vissuto presso un popolo straniero e idolatra. Non aveva ascoltato le storie deipatriarchi nelle lunghe sere sotto la tenda. Forse gli stessi nomi di Abramo, Isacco, Giacobbe, gli dicevanopoco, o niente. Di chi era allora quella voce che gli parlava dal roveto? Come distinguerla dalla voce dei tantidei che popolavano la terra di Madian? Diversamente dai patriarchi, Mosè dialoga direttamente con Dio, cidiscute, gli domanda il nome ( YWHW), vuole dei segni, recalcitra, e infine parte: «Va’! Io ti mando dalfaraone.Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!». Mosè dice a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e faruscire gli Israeliti dall’Egitto? … Non mi crederanno, non daranno ascolto alla mia voce» (3,9-11; 4,1). Dioallora gli dà dei segni (4,2-9), ma Mosè non è ancora convinto: «Perdona, Signore, io non sono un buonparlatore» (4,10). Ora Mosè mette in discussione la sua capacità di svolgere il compito. Non sa parlare, forseè balbuziente («sono impacciato di bocca e di lingua»), mancante quindi del principale strumento del profeta.Dio lo convince dicendogli che il primo e vero strumento del profeta non è la bocca, ma la sua persona: lavoce glielaresterà suo fratello Aronne: «Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca» (4,15). E così, «Mosè partì»(4,18).In questo dialogo ci si svela una dimensione essenziale di ogni autentica vocazione profetica (ognivocazione, se è autentica, è anche profetica). Non sono i mezzi verbali né le tecniche comunicative a darecontenuto e forza alla profezia. Ci sono profeti che hanno salvato e salvano molti senza saper né parlare néscrivere, che hanno parlato e scritto parole di vita. La profezia è gratuità, e la sua prima espressione èriconoscere che la vocazione che si è ricevuta è tutto dono, non un proprio manufatto. È eccedenza, e chi èchiamato non è il padrone della voce. La sola parola necessaria al profeta è « Eccomi ».

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Il parlare eloquente spesso accompagna i falsi profeti, i sofisti che usano talenti e tecniche per manipolare glialtri e le promesse. Cembali risonanti. La percezione soggettiva (e a volte oggettiva) della propria

inadeguatezza a svolgere il compito cui si è chiamati, è ilprimo segnale dell’autenticità di una vocazione. Dubitaredella propria voce è essenziale per credere alla verità dellaVoce che ci chiama. Occorre allora guardare con sospettochi attende di essere inviato a salvare qualcuno perché si èformato a tale scopo, ha appreso il 'mestiere del profeta' e sisente pronto per esercitarlo.Mosè riconosce quella voce difficile come una voce buonadi salvezza. In tutto il suo dialogo non mette mai in

discussione la verità della voce che lo chiama. Saper riconoscere la voce buona che ci parla negli incontridecisivi della vita è una capacità che possediamo, che fa parte del repertorio dell’umano. Quando arriva,quella voce è inconfondibile. Possiamo non rispondere, negarla perché ci chiede cose scomode, tapparci leorecchie e l’anima, ma la riconosciamo sempre.Questo dialogo ci dice molto anche del Dio biblico: non è un sovrano che dà ordini ai suoi sudditi. È il Diodell’Alleanza, che dialoga, ci convince, si arrabbia, argomenta. È un logos.E ha bisogno del 'sì' di Mosè per agire nella storia; come ai tempi del diluvio, per salvare il suo popolo habisogno della risposta di un uomo. Ha bisogno di diventare amico e compagno dell’uomo - senza le grandivocazioni bibliche, e senza le vocazioni che continuano a riempire la terra, Dio sarebbe troppo lontano. Lagrande vocazione di Mosè ci dice allora che per tornare liberi non è sufficiente trovare la forza e la fede pergridare il nostro dolore dal profondo delle nostre schiavitù. Non basta neanche che questo grido di dolore siaraccolto dal Cielo («Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido»: 3,7). Per usciredalle schiavitù profonde e da quelle collettive c’è bisogno che qualcuno risponda 'sì' a una vocazione diliberazione di altri.Mosè è l’immagine, la più grande, di chi è chiamato a liberare altri dalle schiavitù, senza essere egli stessoschiavo. Mosè non è ai lavori forzati in Egitto, ma è un lavoratore emigrato e salariato nella terra di Madian.È però parte del popolo oppresso, un suo figlio, un fratello. Si trova fuori dalla 'buca' dove sono precipitatigli altri, e così può liberarli. Non è schiavo ma soffre per la condizione di schiavitù dei 'suoi fratelli', al puntodi uccidere un egiziano che aveva colpito uno di loro.Non liberiamo nessuno se prima non sentiamo nella nostra carne il dolore per la sua sofferenza. Gandhi,Madre Teresa, Don Oreste, e migliaia di altri ’liberatori’, sono stati capaci di rispondere un giorno «Eccomi»a una chiamata di liberazione di altri, perché prima avevano sofferto e sentito il dolore per la condizione dischiavitù del loro popolo. Erano fuori dalla fossa, ma soffrivano per e con chi era dentro, si sentivano partedello stesso popolo, provavano veramente lo stesso dolore.Non sono i faraoni a liberarci dai lavori forzati. La liberazione degli oppressi viene dagli oppressi: dalpopolo, da un suo figlio, da un 'fratello' naturale o da chi diventa fratello per vocazione – fratelli si puòdiventare. Senza provare indignazione, dolore, mal di cuore e di anima, per la sorte dei nostri fratelli oppressida qualsiasi forma di 'schiavitù', senza vivere esuli per fuggire dai faraoni, senza rischiare di finire intribunale per le denunce dei potenti (e spesso finirci realmente), non si libera nessuno - e qualche volta siscopre che i 'liberatori' erano sul libro-paga dei faraoni. Gli imprenditori o i politici che hanno liberato eliberano veramente poveri dalle trappole in cui si trovano, sono quelli che hanno provato dolore spirituale efisico incontrando e abbracciando gli abitanti delle periferie del mondo. Si sono sentiti solidali, qualche voltasono diventati loro fratelli, e quando hanno udito forte una voce sono stati capaci di diventare altro, dirispondere e di partire. Senza questi dolori, abbracci, ascolti, fraternità, si può fare forse un po’ di filantropiao lanciare una campagna mediatica. Ma le vere liberazioni nascono da un grido, da un ascolto, da un dolore,e da un «Eccomi».Non vediamo abbastanza liberazioni perché non gridiamo abbastanza, o perché non riusciamo a gridare alposto di chi non ha più la forza di gridare. Ma il mondo soffre soprattutto per mancanza di persone che sannosoffrire per il loro popolo oppresso, ascoltare la voce buona, lasciarsi convertire, e poi rispondere. Soffrireper le ingiustizie che ci circondano è un’alta forma di amoreagape, la premessa di ogni liberazione.Ci sono molte spine che ardono nelle periferie dei nostri pascoli. Bruciano da anni, da secoli, e non siconsumano mai. Da esse partono voci che ci chiamano, che attendono il nostro «Eccomi».

Figura 3 - «Roveto ardente», Raffaello Sanzio (1511), volta della Stanza di Eliodoro, Musei Vaticani

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Le levatrici d’Egitto/4IL CIELO DI DIO E DEGLI UOMINI È SEMPRE PIÙ ALTO DELLE PIRAMIDIDove comincia la vera libertà

«Per tutta la vita, devo confessarlo, sono stato sospinto da due forze che hanno operatoassieme. Innanzitutto la collera, l’impossibilità di accogliere il mondo così com’è. L’altraforza è la luce. Oggi forse parlerei di trasparenza. Potrei dire: è la fede» - PaoloDall’Oglio, «Collera e luce»Quando i nuovi faraoni ci fanno lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, ci riportano nellefabbriche di mattoni dell'Egitto. Il primo e più naturale atto con cui gli imperatori ci

dicono che siamo solo lavoratori forzati è negarci il tempo per il non-lavoro, per il culto, per la gratuità, perla festaAvvenire 31 agosto 2014

Gli imperi hanno sempre cercato di usare il lavoro per far spegnere nelle anime dei lavoratori i sogni dilibertà, di gratuità, di festa. Proprio per il suo essere il principale amico dell’uomo, il lavoro si presta a esseremanipolato e usato contro i lavoratori, diventa facilmente 'fuoco amico'. Poter lavorare è stata ed è una via diliberazione per tanti, e il non poter lavorare continua a essere una delle principali illibertà e violenze di massadel nostro tempo. Ma accanto al lavoro che libera e nobilita, c’è sempre stato, e continua a esserci, un lavorousato dai faraoni come mezzo di oppressione dei poveri. Il lavoro apre la nostra Costituzione repubblicana,ma apriva anche i campi 'di lavoro' nazisti: per capire e amare il lavoro dobbiamo tenere assieme questi due'ingressi'. Oggi continuiamo a vivere lavorando, e continuiamo a non fiorire e a spegnerci perché nonpossiamo lavorare; ma non abbiamo smesso di morire e di essere umiliati dal troppo lavoro e dal lavorosbagliato, quando i nuovi faraoni ci fanno lavorare tutto il giorno e tutti i giorni, non ci permettono dipensare, di pregare e far festa, e così ci riportano nelle fabbriche di mattoni dell’Egitto.Mosè, dopo l’ascolto della Voce presso il roveto, scende dal monte e ha subito un incontro misterioso. ComeGiacobbe che fu attaccato da Dio presso lo Yabbok mentre tornava con la sua famiglia nella terra dei padri,anche Mosè viene affrontato da Dio nel viaggio verso l’Egitto con sua moglie e suo figlio. Quel Dio che gliaveva appena rivelato il suo nome ( YHWH), ora lo affronta e lo combatte: «E avvenne che lungo ilcammino, nel luogo di sosta, YHWH gli venne incontro e cercò di farlo morire» (Esodo 4,24). Dio che affidaun compito al profeta e poi lo combatte, è un tema che attraversa l’intera Bibbia, fino a quel Figlio inviatoper svolgere il compito più grande, che si ritrova crocifisso a un legno, abbandonato da Elohim (Marco15,34). La voce che ti chiama e ti indica la strada di salvezza da percorrere, diventa chi ti ferma e ti combattelungo il cammino che ti aveva aperto. La vocazione e la fede-fiducia sono dono; ma sono anche lotta, uncombattimento che si svolge ai confini tra la vita e la morte, che conosce e ama solo chi ha ascoltato unavoce e l’ha seguita veramente.Diversamente dall’episodio dello Yabbok, che la Genesi descrive con abbondanza di simboli e di dettagli,qui il testo non si sofferma sul combattimento tra Mosè e Dio, ma ci descrive soltanto le azioni di Zippora, lamoglie di Mosè. Durante quell’attacco, Zippora circoncide il figlio, e a quel sangue di figlio èmisteriosamente legata la salvezza di Mosè (4,25-26). Dopo le levatrici d’Egitto, la madre e la sorella diMosè, la figlia del faraone, Mosè è di nuovo salvato dalle donne, dalla loro speciale vocazione alla vita,umili mediatrici tra il divino e le nostre carni.Mosè continua da solo il suo cammino verso l’Egitto. Il suo popolo crede subito alle parole di Aronne, la'bocca' di Mosè (4,27), e tutti «si inginocchiarono e adorarono» (4,30-31). Molto più complicato efallimentare è invece il dialogo con il faraone: «Mosè e Aronne andarono e dissero al faraone: 'Così diceYHWH, Dio di Israele: ’Rilascia il mio popolo, perché celebrino per me una festa nel deserto’'. Disse ilfaraone: 'Chi è YHWH perché io debba ascoltare la sua voce e rilasciare Israele? Non conosco YHWH néIsraele rilascerò'» (5,1-3). Il faraone fa chiamare immediatamente i responsabili dei lavori degli ebrei, einasprisce subito le loro condizioni di lavoro: «Non continuerete a dare la paglia al popolo per fabbricare imattoni, come facevate prima; essi andranno a raccogliersi la paglia. Però imporrete loro il medesimoquantitativo di mattoni che facevano finora, senza alcuna riduzione» (5,7-8). La reazione del faraone difronte alla richiesta di Mosè ci offre una potente descrizione di che cosa diventa il lavoro sotto gli imperi diieri e di oggi. La prima risposta del faraone riguarda direttamente Dio: «Chi è YHWH?», come a dire: 'Machi lo conosce'? Ogni oppressione dei popoli e dei lavoratori inizia dal non ammettere nessun altro dio al difuori del ’faraone’, dal non riconoscere che esiste un cielo più alto di quello toccato dalle loro piramidi. InEgitto il faraone era una divinità, l’unico mediatore tra il divino e gli uomini. Riconoscere YHWH e dare

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ascolto alla sua richiesta, avrebbe significato per il faraone mettere in discussione la sua natura divina eammettere l’esistenza di altri mediatori (Mosè e Aronne). Gli imperi non sono atei, sono tutti idolatri: nonnegano Dio, fanno semplicemente diventare dio le persone, le cose (denaro, potere), le idee, producendo deia loro immagine con cui si trovano molto comodi.

In questo episodio, c’è poi un passaggio particolarmentesignificativo per il lavoro. Al faraone, Mosè e Aronne nonhanno chiesto la liberazione definitiva del popolo. In quelprimo incontro gli avevano soltanto fatto la richiesta dipoter «camminare tre giorni nel deserto» (5,3), per offriresacrifici al loro Dio, per pregare, per fare una festa. Ilfaraone la respinge senza appello, perché se li avesselasciati uscire dai campi di lavoro anche per un sologiorno di festa e di culto avrebbe riconosciuto la loronatura di popolo e non più di schiavi. Si può pregareovunque, e le preghiere elevate verso il cielo dai campi diprigionia sono le più belle e le più vere. Ma uscire daicampi di lavoro per andare a pregare e far festa insiemenon è solo una preghiera, è un atto politico che, ognitanto, ha innescato il crollo anche degli imperi più grandi.Se il faraone avesse permesso al popolo di celebrare nel

deserto, avrebbe riconosciuto non soltanto una religione diversa, ma un diritto a far festa, alla gratuità e alnon lavoro, un diritto che solo l’uomo libero ha, non lo schiavo (anche per questo ricordo della schiavitùdell’Egitto, la Legge d’Israele estenderà lo shabbat a tutti gli esseri viventi). Dicendo di no a quella richiestadi YHWH, il faraone ha allora semplicemente ribadito che i figli di Israele erano solo degli schiavi ai lavoriforzati. Il primo e più naturale atto con cui gli imperatori ci dicono che siamo solo lavoratori forzati è negarciil tempo per il non-lavoro, per il culto, per la gratuità, per la festa. I popoli hanno iniziato le loro liberazionipregando, cantando, facendo festa insieme.Agli imperatori le feste fanno più paura dei cortei di protesta, perché contengono la forza infinita dellagratuità. E quando sentono 'aria di festa' non fanno altro che inasprire i lavori forzati.Tutte le volte che un imprenditore fa prefirmare a una donna il foglio di dimissioni 'volontarie' da presentarein caso di maternità, o quando questo capitalismo ci nega il riposo domenicale e il tempo per la festa,torniamo alla logica di quell’antico faraone e di tutti gli imperi.Quando l’impresa ci chiede di lavorare a tutte le ore e tutti i giorni per raggiungere gli obiettivi, o quando ciimpone le sue feste aziendali e ci nega le feste di tutti, queste imprese diventano molto simili alla fabbrica dimattoni dell’Egitto; e noi torniamo ad assomigliare troppo a quegli antichi schiavi, anche se abbiamo firmatoliberamente un contratto e siamo ben pagati.In tutti gli imperi si muore per mancanza di lavoro, ma si muore anche per il troppo e cattivo lavoro, perchéil lavoratore-persona si spegne quando diventa solo lavoratore. Il lavoro senza non-lavoro è il lavoro forzatodello schiavo, perché è la libertà di porre un limite al lavoro che genera quello scarto antropologico tra noi eil mondo delle cose, tra Marco e l’ingegner Bianchi, uno scarto essenziale per dare dignità alle cose cheproduciamo e salvare l’eccedenza spirituale della nostra vita e di quella degli altri. È bene non dimenticarloproprio in questa stagione di grave crisi del lavoro. Oggi rimpareremo a lavorare e a creare lavoro se saremocapaci di chiedere agli attuali faraoni del tempo per la gratuità e per la festa, parole che essi non amanoperché troppo sovversive e inutili alla produzione dei loro mattoni.La libertà di culto, di gratuità, di festa è la prima forma di eccedenza antropologica e di dignità etica di ogniciviltà, perché dice ai faraoni e ai loro eredi di oggi: 'Voi non siete dio per me, per noi, e non lo siete pernessuno, neanche per voi stessi. Le vostre feste orientate ai profitti non ci bastano, vogliamo altri altari dovecelebrare la nostra libertà e le nostre liberazioni'. Quei tre giorni di cammino verso un altare diversosarebbero stati i primi passi verso la terra promessa, la fine della schiavitù. Il faraone non voleva e nonpoteva concederli. Ma arrivarono. I giorni di cammino libero per celebrare e far festa insieme continuano adaccadere lungo la storia, nonostante gli imperatori. Perché le altissime piramidi non riescono a soddisfare ilnostro desiderio di cielo, che è sempre più alto.Figura 4 - Mosè e Aronne davanti al Faraone (1537)

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Le levatrici d’Egitto/5LA LOGICA DEL BASTONE E QUELLA DEL LAVORO SPALLA A SPALLALa lealtà apre anche il cielo

«Se davvero siete i messi del Signore, allora egli giudicherà fra noi e il faraone. … Siete voi iresponsabili del fetore che si diffonde ovunque dai cadaveri degli ebrei usati come mattoni làdove non avevano prodotto la quota richiesta. Siamo come quella povera pecora rubata daun lupo: il pastore insegue il ladro, la agguanta e tenta di strappargli dalle fauci ladisgraziata preda, che si ritrova fatta a pezzi da entrambi» Louis Ginzberg, Le leggendedegli ebrei

Possiamo fare cose veramente grandi, ma vogliamo molto di più del denaro, perché le “monete” piùpreziose sono quelle del riconoscimento, della stima, della gratitudine Nessun mediatore e nessun dirigenteè un buon “caposquadra” se non è disposto a correre il rischio di essere associato al vizio attribuito daicapi alle persone che da lui dipendono, a essere “bastonato” con e come loroAvvenire 7 settembre 2014

La cultura dell’incentivo sta diventando la nuova ideologia del nostro tempo, che dalle grandi impresecapitalistiche sta emigrando verso la sanità, la cultura, la scuola. Il principale limite e pericolo di questacultura del lavoro è una visione impoverita dell’essere umano, pensato e descritto come un individuo chequando lavora è motivato unicamente da ricompense estrinseche e monetarie, qualcuno da cui puoi ottenerepraticamente tutto e in tutti gli ambiti della vita se lo paghi adeguatamente. Grazie a Dio, gli uomini e ledonne sono molto più ricchi e belli di questa caricatura.Possiamo fare cose veramente grandi, ma vogliamo molto di più del denaro, perché le 'monete' più preziosesono quelle del riconoscimento, della stima, della gratitudine. Siamo capaci di dare il meglio di noi se equando ci sentiamo stimati e riconosciuti, se siamo 'visti' e quindi ringraziati. La grande e vera questione alcentro della cultura dell’incentivo è allora quella della libertà.«Sono fannulloni». Furono queste le parole che il re d’Egitto rivolse ai suoi funzionari dopo il suo incontrocon Mosè e Aronne che gli avevano chiesto, a nome di YHWH, di liberare il popolo per poter celebrare tregiorni nel deserto: «Sono fannulloni, per questo gridano 'vogliamo andare ad offrire un sacrificio al nostroDio' Pesi il lavoro su questi uomini e ne siano occupati; non diano retta a parole d’inganno» (Esodo 5, 8-9).È tipico degli imperi considerare i sudditi pigri e fannulloni, e farli lavorare di più per evitare che nei varchidel non-lavoro possa insinuarsi la voglia di libertà, il desiderio di un Dio diverso dal faraone. Per gliimperatori i loro lavoratori-sudditi lavorano solo quando sentono sulla schiena il pungolo dei'sovraintendenti'. Oggi in molte regioni del mondo (non in tutte) gli imperatori non ci sono più, ma è moltofrequente vedere dirigenti che moltiplicano i compiti dei lavoratori e li costringono a spargersi «su tuttol’Egitto» (5,12) in cerca della 'paglia' mancante. Aumentano stress e malessere nei luoghi di lavoro, e sicontinua a pensare che nei campi non si lavori abbastanza e che gli incentivi non siano ben disegnati. Ifannulloni esistono, ma sono molti meno di quanto pensiamo, perché c’è una invincibile e scientificamentedimostrata tendenza che ci fa sovrastimare la pigrizia degli altri e sottostimare la nostra.Incastonata all’interno di questo episodio dell’Esodo incontriamo anche la prima protesta di 'dirigenti' di cuiparla la Bibbia, quella dei 'capisquadra'. È tra le proteste più belle e le più importanti dell’intera Scrittura,perché racchiude messaggi preziosi per tutti i responsabili di imprese, di istituzioni, di comunità, di ieri oggie domani. I dirigenti dei campi di lavoro erano divisi in due categorie: i 'sovraintendenti' e i 'capisquadra'. Ele loro diverse e opposte reazioni di fronte all’ordine del faraone di inasprire le condizioni di lavoro delpopolo oppresso, ci svelano due diverse e opposte culture della responsabilità e della dirigenza. Le nuovecondizioni di lavoro e di produzione imposte dal faraone (fabbricare gli stessi mattoni di prima ma senzaavere a disposizione la paglia) non potevano essere soddisfatte da lavoratori già sottoposti a condizioniestreme (1,14). E così, infatti, avvenne (5,14). I sovraintendenti, che erano degli egiziani alle dipendenze delfaraone, risposero a questo mancato conseguimento degli obiettivi di produzione prendendosela coicapisquadra dei campi di lavoro, che erano ebrei, fratelli dei lavoratori. I capisquadra degli israeliti, che isovraintendenti del faraone avevano loro preposto, vennero bastonati, con le parole: «Perché né ieri né ogginon avete portato a termine il vostro obbligo di produrre mattoni come prima?'» (5,14).I capisquadra, invece, non bastonarono a loro volta i lavoratori nelle fabbriche. Come già le levatricid’Egitto, anche questi responsabili dei lavoratori scelsero, liberamente e costosamente, di stare dalla parte delpopolo e della verità, e così non obbedirono agli ordini del faraone.

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Scelsero di essere fratelli degli oppressi, condividendone quindi la stessa sorte. E così, invece di infierire suiloro compagni andarono a protestare dal faraone: «Perché fai così ai tuoi servi? Paglia non viene data ai tuoiservi, ma ci dicono: 'Fate i mattoni'» (5,15-16). E, come accade ancora troppe volte, il faraone di fronte aquella protesta leale dei capisquadra non fece altro che associarli alla poltroneria dei loro lavoratori:«Fannulloni siete, fannulloni. Per questo andate dicendo 'Vogliamo offrire un sacrificio a YHWH. Ma oraandate, lavorate'». (5,17-18). A questo punto, «i capisquadra israeliti videro se stessi in una pessimasituazione» (5,19).È questa, sovente, la 'pessima situazione' in cui si trova chi per essere leale con i deboli rifiuta gli ordini dei

potenti e viene da questi accusato di essere anch’egliimmeritevole e fannullone. Nessun mediatore e nessundirigente è un buon 'caposquadra' se non è disposto acorrere il rischio di essere associato al vizio attribuitodai capi alle persone che sta difendendo, ad essere'bastonato' con e come loro. Fuori da questa logicasolidale e responsabile, resta solo il mercenario, che, adifferenza del 'buon pastore', non dà la vita per il suogregge, non ne condivide la stessa sorte. Prendere su disé le 'bastonate' senza scaricarle su chi ci è affidato, è,tra l’altro, anche una grande e bella immagine dellavocazione di ogni vera paternità e genitorialità, naturaleo spirituale. Neanche dopo l’insuccesso della loro

protesta con il faraone i capisquadra andarono a rivalersi sui lavoratori. Continuarono a esercitare la lorolealtà, e affrontarono direttamente Mosè e Aronne. Andarono loro incontro con parole forti: «Perché ci aveteresi odiosi agli occhi del faraone e agli occhi dei suoi ministri, mettendo loro in mano una spada perucciderci?» (5,21).Mosè prese molto sul serio quel grido duro e leale dei capisquadra, e visse la prima crisi della sua missionein Egitto. Ma, soprattutto, in seguito a questo ascolto ebbe un nuovo incontro con la voce che lo avevachiamato. La lealtà costosa e fraterna di quei capicantiere produsse una nuova teofania, un nuovo incontrocon il loro Dio, una nuova vocazione: «Mosè torno da YHWH e disse: 'Mio Signore, perché hai fatto delmale a questo popolo? Per questo mi hai inviato?'» (5,22). E Dio gli parlò, lo chiamò di nuovo: «'Io sonoYHWH. … Vi farò entrare nella terra che ho giurato con la mia mano di dare ad Abramo, a Isacco e aGiacobbe: ve la darò in possesso ereditario. Io sono YHWH'» (6,1-8). Non possiamo sapere fin dove puòarrivare un atto di vera lealtà, che cosa può accadere quando nei nostri 'campi' riusciamo a non obbedire agliordini sbagliati dei faraoni e siamo fedeli alla verità e alla dignità di chi lavora con noi. A volte questa fedeltàpuò spalancare il tetto dei nostri uffici e dei nostri capannoni, far spuntare di nuovo nel cielo l’arcobaleno diNoè. È questa lealtà che rende possibile che tra i dirigenti e i loro lavoratori si generi quella relazione chequalcuno chiama fraternità, che quando nasce da questa lealtà silenziosa e costosa perde ogni patinamoralistica e retorica. Diventiamo veramente fratelli e sorelle di chi lavora alle nostre dipendenze quandomettiamo le nostre schiene tra loro e gli ordini sbagliati dei faraoni.Se quei capisquadra non fossero arrivati fino in fondo al loro processo di protesta leale, se – per paura o perrispetto – si fossero fermati solo un passo prima del volto di Mosè e di Aronne, non avrebbero riaperto ilcielo e YHWH non avrebbe rinnovato la sua promessa. Molti atti di vera lealtà non producono tutti i lorofrutti perché non giungono fino alla fine del processo. La sfida più difficile che deve superare chi risponde auna vocazione e accetta di svolgere un compito di liberazione, è continuare a credere alla verità della suavocazione, del compito ricevuto, della promessa e della voce quando vede aumentare la sofferenza di coloroche dovrebbe amare e liberare; quando il popolo che dovevamo portare fuori dai lavori forzati peggiora lapropria condizione, e il dolore innocente cresce. Da queste prove, sempre molto dolorose e che arrivanosoprattutto (anche se non esclusivamente) nelle prime fasi dei processi di liberazione, si riesce a uscire eriprendere il cammino solo se si ripete, di nuovo, il primo miracolo del monte Oreb, e ci risentiamorichiamare per nome. Un miracolo che ci può essere donato dalla lealtà di qualcun altro, dal suo amore odalla sua protesta, che spesso sono la stessa cosa. Nelle nostre imprese e organizzazioni continuano aconvivere, gli uni accanto agli altri, 'sovraintendenti' e 'capisquadra'. Dirigenti che 'bastonano' i lorosottoposti, pronti a tutto pur di accontentare ogni richiesta dei padroni ingiusti, e responsabili chepreferiscono essere 'bastonati' pur di restare leali con i loro compagni. Molti iniziano da capisquadra e neltempo si trasformano (magari per delusioni o per infelicità) in sovraintendenti, ma non è raro che accadaanche il processo inverso. Lo vediamo tutti, ogni giorno. Ma non dimentichiamo che molti lavoratori non

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muoiono sotto il peso di produzioni impossibili di mattoni perché in mezzo a noi ci sono molti eredi dei lealicapisquadra d’Egitto, e sono certamente di più di quanti ne riusciamo a riconoscere attorno a noi.Figura 5 - ESODO. Nicolas Poussin, «Attraversamento del Mar Rosso» (1634)

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Le levatrici d'Egitto/6NEANCHE I MAGHI DEL FARAONE POSSONO TENERE IN CATENE I POVERILe piaghe degli imperi invisibili

Finché la salvezza non è venuta, per noi oggi come per Israele nel tempo di Mosè, l’attesadella salvezza può essere soltanto un universale continuo aggravamento delle tensioni e dellesofferenze L’annuncio della salvezza, spezzando l’equilibrio mondano, fa emergere solobrutali rapporti di forza Sergio Quinzio, «Un commento alla Bibbia»C'è un punto oltre il quale la sofferenza diventa talmente profonda e radicale da impedire diascoltare i profeti e le loro promesse. Quando gli imperi cominciano a vacillare, i dominatori

chiamano i maghi, gli aruspici, gli indovini, che li tranquillizzano. Ieri con le piaghe delle rane e dellezanzare, oggi con quelle della finanza e dei cambiamenti climaticiAvvenire 14 settembre 2014

Ogni generazione dovrebbe rileggere l’Esodo per scoprire e guardare in faccia i propri faraoni e le proprieschiavitù, agognare le liberazioni, riconoscere le piaghe del proprio tempo, abbandonare le terre degli imperie muovere verso nuove terre di fraternità e di giustizia. Nei veri cammini di liberazione arriva puntuale ilmomento delle 'piaghe d’Egitto', che sono i grandi segni dei tempi nelle stagioni degli imperi, che i faraoninon riescono a interpretare perché il loro 'cuore' è pietrificato. E così chiamano i 'maghi' a divinar responsirassicuranti. L’Esodo ci dice, se sappiamo e vogliamo ascoltarlo bene, che quando gli imperi si dimostranoinconvertibili al bene (e lo sono sempre e tutti, altrimenti non sarebbero imperi), l’unica salvezza che si apredavanti al popolo oppresso è la fuga, abbandonare i territori dei lavori forzati per muovere decisi versoun’altra terra.«Mosè parlò così agli Israeliti, ma essi non lo ascoltarono, perché erano stremati dalla dura schiavitù» (6,9).Dopo la lealtà costosa e fraterna dei 'capisquadra', Mosè tornò dal popolo per ridire loro la promessa diYHWH. Ma essi non ascoltarono le sue parole per il troppo dolore che tappava le orecchie della loro anima.C’è un punto oltre il quale la sofferenza diventa talmente profonda e radicale da impedire di ascoltare iprofeti e le loro promesse. Quando le grandi sofferenze delle persone e delle comunità durano molto tempo, iprofeti, anche i più grandi, non vengono ascoltati, perché il troppo dolore crea una cortina invisibile cheneanche l’efficace parola del profeta riesce a bucare.Ogni generazione ha conosciuto queste forme di sordità disperate, e spesso le ha sapute combattere edeliminare. Anche la nostra età le conosce, ma alle tante sofferenze assordanti degli oppressi che continua aprodurre e a non curare, ha aggiunto le nuove sordità delle opulente periferie spirituali ed etiche, dove lavoce dei profeti non è udita, e non iniziano le liberazioni che sarebbero non meno necessarie di quelle dalleperiferie della miseria.Il racconto delle piaghe d’Egitto ci dice che esiste una soglia del dolore dei popoli e delle persone, oltre laquale l’unico linguaggio credibile della liberazione diventano i fatti, perché riescono ad arrivare a profonditàmaggiori di quelle raggiunte e ferite dal dolore. Lì incontrano l’origine della promessa, la vedono agiredentro la loro oppressione. Le parole di YHWH e di Mosè diventano storia, entrano nelle carni dei popoli, leferiscono e le benedicono. Solo questa parola incarnata può raggiungere le profondità di certi dolori umani.Solo certi fatti, certe parole incarnate – in un gesto, in un’ultima carezza, in mille notti passate dormendo suuna poltrona della corsia dell’ospedale, nel trovare ancora aperta la porta di casa dopo cento tradimenti... –riescono a parlare a quei dolori dove le parole non sanno parlare più, neanche per chiedere e donare unperdono. È anche questa la dignità della sofferenza umana, l’unica realtà che può essere più forte della parola(fu per pareggiare questa dignità di tutti i dolori umani che un giorno la Parola incarnata morì inchiodata a unlegno).La prima luce che il popolo immerso nelle tenebre iniziò a intravedere fu una luce tenebrosa, ma sufficienteper scorgere in mezzo a quelle tenebre l’alba della resurrezione.È dentro il paradosso delle piaghe d’Egitto che rinacque per quei poveri la speranza e la fede nella promessa– e non è raro che anche oggi le nostre speranze risorgano dalle piaghe nostre e degli altri, quando riusciamoa intravvedere in esse, attraversandole, una luce aurorale. E le orecchie dell’anima si aprono in un effatàcollettivo e liberatore.Le piaghe sono l’inizio della pasqua, la premessa e il presupposto dell’attraversamento del mare. C’è unadinamica dominante nello sviluppo delle piaghe. Durante l’azione del flagello, il faraone promette a Mosè dirilasciare il popolo perché celebri il suo Dio nel deserto. Mosè crede o spera che quella nuova piagafinalmente converta il faraone, e chiede a YHWH di porre termine alla piaga. Ma non appena la piagatermina, il faraone sperimenta «un po’ di sollievo» (8,11), e ritratta la sua promessa di liberazione. Il

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messaggio è chiaro: questi imperi e questi faraoni sono inconvertibili, le loro promesse solo chiacchiere,perché l’unico interesse che hanno è aumentare i mattoni per costruire le piramidi che celebrino le lorodivinità idolatriche. Nelle prime piaghe (l’acqua del Nilo cambiata in sangue e l’invasione delle rane)

ritornano i maghi e gli indovini del faraone. Liavevamo già trovati nel ciclo di Giuseppe nellaGenesi (41,8) – l’Egitto nella memoria d’Israelenon è solo il luogo della schiavitù, è anche laterra fertile della fraternità ritrovata. Questimaghi replicano gli stessi fatti 'prodigiosi' diMosè («fecero la stessa cosa i maghidell’Egitto»: 7,22;8,3) per dimostrare che lapresenza delle piaghe si poteva spiegare senzainvocare l’azione del Dio di Israele. Ma allaterza piaga, quella delle zanzare, «i maghicercarono di fare la stessa cosa con le loro artisegrete, ma non poterono» (8,14). Un inizio difallimento, che diventa totale con la sesta piaga

(le ulcere), quando «i maghi non poterono stare alla presenza di Mosè a causa delle ulcere, perché c’eranoulcere sui maghi» (9,11).Quando gli imperi cominciano a vacillare, i dominatori chiamano i maghi, gli aruspici, gli indovini.Chiedono a loro conferme che quanto di nuovo e doloroso sta accadendo nel loro regno non è nulla diveramente preoccupante, e quindi spiegabile utilizzando la stessa logica dell’impero. Abbiamo assistito peranni al susseguirsi di divinazioni e di oroscopi dei maghi della finanza e dell’economia che ci volevano (evogliono) convincere che le 'piaghe' che stavamo (e stiamo) vivendo non erano (sono) un segno forte dellanecessità di conversione e di cambiamento della logica profonda del nostro impero, ma soltanto oscillazioninaturali del ciclo economico, o errori e disturbi interni al sistema e da questo riassorbibili 'nel lungo periodo'.Stiamo da decenni subendo le conseguenze dei cambiamenti climatici, vediamo morire uomini, fiumi,animali, piante, insetti, ma i maghi dell’impero continuano a negare l’evidenza e a volerci dimostrare chequesti eventi sono naturali e quindi spiegabili con le loro arti magiche. Ma le piaghe stanno aumentando, gliimperi iniziano a cedere e le simulazioni degli indovini non funzionano più, perché l’evidenza si mostra conuna tale forza da sbugiardare anche gli indovini più bravi e sofisticati – e qualcuno inizia ad ammalarsi dellestesse malattie che avevano cercato di negare.Il nostro sistema economico, profondamente intrecciato con le vicende ambientali e climatiche, si trovaancora allo stadio della 'piaga delle rane', dove il faraone chiama e lautamente paga i suoi maghi perconvincerlo e convincere che non sta accadendo nulla di veramente nuovo, qualcosa di cui veramentepreoccuparsi. Ma ci sono segni che stiamo forse entrando nella terza piaga, perché la fatica delle simulazionie delle persuasioni degli aruspici cresce. E dobbiamo tutti sperare che, diversamente da quanto accadde aquel faraone, questa volta saremo capaci di convertirci dopo le prime piaghe e non aspettare la 'morte deibambini' (la decima piaga) per liberare finalmente i poveri e salvare la terra.Questo ricco, complesso e variopinto racconto delle piaghe contiene un grande insegnamento sulla gestionedei conflitti, soprattutto di quei conflitti tra un oppressore, dimostratosi inequivocabilmente e ingiustamenteoppressore, e oppressi inequivocabilmente e ingiustamente oppressi.Quando la natura e la logica di queste due parti in conflitto si manifestano definitivamente, arriva unmomento in cui le trattative si devono interrompere, e resta solo una possibilità per vivere: la fuga. L’unicavita possibile è quella che sta fuori dai campi del lavoro schiavistico. Con questi imperi oppressori non sitratta: se vogliamo salvarci e salvare dobbiamo fuggire, perché chi cerca di trattare e di scendere acompromessi si ritrova un giorno dalla parte dei suoi «sovraintendenti», si dimentica dei poveri, del lorogrido, e della prima promessa. Non riusciamo a liberarci da troppi imperatori ingiusti perché, nonriconoscendoli per quello che sono realmente, entriamo in trattative con la loro logica, accettiamo le lororegalìe e i loro sponsor per occuparci delle loro vittime, non liberiamo nessuno e finiamo solo per inasprire lenostre schiavitù e quelle di tutti.Gli imperi del passato erano evidenti, si imponevano stagliati sull’orizzonte di tutti. I nostri imperi sonosempre più invisibili, e riescono a presentarsi come regni buoni e generosi, dove i poveri saranno liberatiproprio da loro. Molta parte della libertà e della giustizia del nostro tempo passa dalla nostra capacitàspirituale ed etica di vedere e chiamare i nostri imperi per nome, riconoscere le piaghe, e fuggire da essi. Mamentre resistiamo, cerchiamo di non morire e speriamo nella liberazione, non dimentichiamo mai che dietro

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alle tante sordità spirituali e le mancate liberazioni che vediamo attorno a noi si possono nascondere grandidolori, quelli prodotti dai nostri imperi visibili e invisibili. Ridurre le sofferenze dei popoli, allentare espezzare le catene che li costringono ai lavori forzati, può consentire a tanti poveri di ascoltare finalmente iprofeti, e prendere insieme la via del mare.Figura 6 - «Le piaghe d’Egitto: la piaga delle locuste». Biblia Sacra Germanaica, XV secolo (Alinari)

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Le levatrici d’Egitto/7DOPO L’ESTREMA PIAGA, L’IDOLO SI PIEGA ED È «L'INIZIO DEI MESI»Ecco la liberazione più grande

Le piaghe non eguagliarono per crudeltà l’oppressione degli egiziani sui figli d’Israele, che siprotrasse sino alla fine della loro permanenza in quella terra. Ancora il giorno stessodell’Esodo, Rachele figlia di Sutela diede alla luce un bambino mentre insieme al marito stavalavorando la malta per i mattoni. Il neonato sgusciò fuori dal ventre e affondò in quellapoltiglia. Allora apparve Gabriele che formò un mattone nel quale incluse il bambino e lo portò

nell’alto dei cieli - Louis Ginzberg Le leggende degli ebreiIl primo Israele nacque da una lotta notturna in mezzo alle acque di un fiume, il nuovo Israele rinasce dauna lotta notturna, attraversando le acque della schiavitù. Oggi noi viviamo una grande epoca idolatrica,probabilmente la maggiore. Abbiamo ridotto il trascendente a manufatto, riempito il 'cielo' di cose che nonsaziano mai. Ma gli imperi idolatrici puri non durano a lungo: passerà presto anche la scena di questocapitalismo divoratoreAvvenire 21 settembre 2014

Le piaghe d’Egitto sono la condizione normale degli imperi idolatrici, e quindi anche del nostro. In questiregimi l’acqua non disseta gli esseri viventi né feconda la terra. Imputridisce e genera rane, zanzare, tafani…, e muoiono gli animali. Il sole non riesce a penetrare attraverso la loro densa polvere, e tutto è avvoltodalla tenebra. Gli imperi degli idoli non hanno discendenti, i loro primogeniti muoiono, perché l’idolo èseducente, ma sterile.Quando gli imperi dimostrano la loro invincibile natura idolatrica, quando nessuna piaga riesce a convertireil faraone, quando l’unica condizione possibile nella terra dell’impero è la schiavitù, l’Esodo ci dice che peril povero non è ancora finita, ci resta ancora una possibilità. Anche in questa condizione tremenda – cosa c’èdi più tremendo della morte dei bambini? – esiste una via di salvezza se si riesce a credere ai profeti, e aresistere fino alla fine: «Ancora una piaga manderò contro il faraone e l’Egitto; dopo di che egli vi lasceràpartire di qui» (12,1).Nello sviluppo delle dieci piaghe non c’è soltanto il ruolo di YHWH; c’è anche quello, essenziale, di Mosè edi Aronne, che nonostante il cuore ostinato del faraone, continuano a chiedergli la conversione. Se siamofedeli a una logica di fondo della Bibbia dobbiamo pensare che Mosè e Aronne si saranno stupiti dopo ognipiaga. Sapevano del duro cuore del faraone, ma non potevano sapere fin dove si sarebbe spinta la suaostinazione. La sua inconvertibilità testarda la scoprono e la riscoprono mentre la vedono, piaga dopo piaga:«Così dice il Signore, il Dio degli Ebrei: 'Fino a quando rifiuterai di piegarti davanti a me?'» (10,3). E hannodovuto assistere e resistere fino alla morte dei bambini, una morte che non avrebbero voluto vedere. YHWH,il loro Dio della vita, era quello che aveva benedetto anni prima le levatrici d’Egitto, e in esse avevabenedetto tutti i bambini degli ebrei, degli egiziani, tutti i bambini mondo. Quel grido di morte deiprimogeniti che sembra annullare il pianto di vita dei neonati, salvati da Dio e dalle donne dalla mano di unaltro faraone omicida, ci deve allora costringere a scavare di più, fino a trovare una vena più profonda. Nelloscavo, però, non dobbiamo perdere completamente contatto col terreno della storia, con il ricordo collettivodi eventi climatici straordinari negli ultimi anni egiziani degli ebrei, o, forse, di una peste che colpì il paese ei bambini (è sempre la nostra lettura che trasforma i fatti in segni). La memoria storica del dolore per le diecipiaghe è rimasta sempre viva nella tradizione biblica (nella sera di pèsach, della pasqua, nelle case ebraichesi versano dal calice dieci gocce di vino: quella non-pienezza del calice è il luogo vivo della memoria, erende mesta la festa).Questi difficili, tremendi e stupendi capitoli dell’Esodo vanno letti anche come una grande lezionesull’idolatria – è questa la vena più profonda che stiamo cercando. La Bibbia non ha alcuna pietà per questofaraone, perché per salvare se stessa e salvarci deve essere spietata contro gli idoli. La prima verità diYHWH è non essere uno dei tanti idoli degli uomini. Israele ha sempre lottato contro gli idoli attorno edentro di sé, compresi quelli che aveva visto in Egitto e dai quali era stato affascinato. Ponendo all’iniziodella Genesi un Dio creatore e un uomo creato a sua immagine, la Bibbia ha voluto fare una scelta radicale efondamentale. Ha scavato un solco profondissimo e invalicabile tra sé e la cultura idolatrica, dove invece è ildio che viene creato a immagine di un uomo impoverito della trascendenza. L’idolo è l’antiYHWH, ma èanche l’anti-Adam, perché una cultura idolatrica nega prima di tutto l’uomo, che finisce schiavo e produttorea vita di mattoni per l’idolo da lui stesso creato.

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Per credere nell’idolo non serve la fede, perché è banalmente evidente nelle piazze e nei mercati di tutti. Lafede biblica è invece fiducia in una voce che non vede, ma che 'sente'. È allora che l’imperatore-idolo viene

colpito dalle piaghe, e la grande liberazione èsoprattutto l’uscita dall’idolatria. I figli che devonomorire sono i figli degli idoli e dei loro imperi chehanno accompagnato lo sviluppo della nostra storia edella storia della salvezza.Oggi viviamo una grande epoca idolatrica,probabilmente la più grande di tutte. Abbiamoridotto il trascendente a manufatto, riempito il 'cielo'di cose che non saziano mai, perché prodotte non pertogliere ma per aumentare la nostra fame di idoliaffamati - gli idoli devono mangiare sempre,finiscono per divorare i loro adoratori, e non sonomai sazi. Il sistema storico più vicino alla cultura

idolatrica pura è il capitalismo finanziario-consumista cui abbiamo dato vita. Basta frequentare i suoi luoghi,parlare con i suoi grandi attori, assistere alle sue liturgie, per appurarlo con estrema chiarezza. È un sistemache conosce e alimenta solo il culto di se stesso, che vede e riconosce un solo fine: massimizzare laproduzione di mattoni per innalzare le proprie piramidi-babele sempre più alte. Gli imperi idolatrici puri nondurano a lungo: passerà presto anche la scena di questo capitalismo divoratore. Ma le nostre piaghe non sonoancora finite, e con esse continua forte il grido dei popoli oppressi.Non deve allora stupirci che le due prime parole della Legge che verrà donata a Mosè sul Sinai sono la fedein un Dio liberatore dall’Egitto e la radicale negazione degli idoli. Un dio che non ci libera è un idolo (anchedentro le nostre religioni), e il Dio biblico non è idoloperché è liberatore, perché libera il popolo oppresso che grida dai campi di lavoro. E non si fa esperienza delDio biblico, ma di uno stupido idolo (una nota di tutti gli idoli è la loro radicale stupidità) se quando loincontriamo non veniamo liberati da una schiavitù, nostra o degli altri. Le esperienze religiose senzaschiavitù e senza liberazioni possono essere replicate perfettamente dai maghi d’Egitto, e dalle legioni deinostri nuovi maghi a scopo di lucro.Dopo la decima piaga, la più tremenda, il popolo finalmente parte: «Il faraone convocò Mosè e Aronne nellanotte e disse: 'Alzatevi e abbandonate il mio popolo, voi e gli Israeliti!Andate, rendete culto al Signore come avete detto. Prendete anche il vostro bestiame e le vostre greggi, comeavete detto, e partite! Benedite anche me!'» (12,31-32). E una volta lasciato l’Egitto scopriamo che la festache il popolo vuole celebrare nel deserto è proprio la pèsach. Nel popolo di Israele la pèsach era precedentel’Egitto, la pasqua era parte della cultura delle antiche tribù nomadi, che offrivano un agnello a Dio perchébenedisse la transumanza loro e delle greggi. Il faraone non permise al popolo di festeggiare per tre giorniquell’antica festa nomade, e YHWH trasformò una festa di pastori nella grande festa della liberazione delpopolo e di tutti gli oppressi dai faraoni idolatri. Così la festa, già grande prima dell’Egitto, divenne la piùgrande dopo la schiavitù. La nuova pasqua diventa «l’inizio dei mesi» (12,2), perché è inizio del nuovoIsraele. È l’origine di una nuova storia. Ma anche ricapitolazione delle prime alleanze e della promessa diYHWH. In quella grande notte c’è, infatti, Noè e in lui tutta l’umanità; ma c’è anche Giacobbe, i patriarchi, isuoi figli e le dodici tribù, simboleggiate dalle 'ossa' di Giuseppe: «Mosè prese con sé le ossa di Giuseppe,perché questi aveva fatto prestare un solenne giuramento agli Israeliti, dicendo: 'Dio, certo, verrà a visitarvi;voi allora vi porterete via le mie ossa'» (13,19).Le piaghe e il mare che travolge i carri e i cavalieri degli egiziani, sono anche immagine di un nuovo diluvio,dove le acque del Nilo e quelle del mar Rosso ridiventano luogo di morte. Ma anche questa volta un uomo(Mosè) si salva e salva dal diluvio, e insieme alla sua famiglia si salvano ancora anche gli animali (Mosè nonvolle partire senza avere gli animali nel suo 'cesto': 10,26). L’arcobaleno brilla ancora sul mondo. Ma inquella nuova pasqua possiamo intravvedere anche Giacobbe. Tra i molti possibili significatidell’antichissima parola pèsach, c’è infatti anche il verbo zoppicare ( psh). E per la Bibbia dire zoppicare èdire Giacobbe, che diventò Israele in un guado notturno di un fiume ( Yabboq), quando il combattimento conYHWH lo ferì al nervo sciatico, lo rese zoppo, gli cambiò il nome. Il primo Israele nacque da una lottanotturna con Elohim in mezzo alle acque, il nuovo Israele rinasce da una grande lotta notturna, mentre ilpopolo del primo Israele attraversava le acque della schiavitù. Da una prima ferita individuale venne unaprima benedizione, da una grande ferita (le piaghe) fiorì una grande benedizione (la liberazione) – e un

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giorno la ferita più grande genererà una benedizione infinita. Giacobbe zoppicò per tutta la vita, la schiavitùe le piaghe accompagnano ancora i figli di Israele, il Risorto porta inscritte le stimmate della croce.Ogni ferita trasformata in benedizione è sempre feconda.Non c’è festa più grande di quella di pèsach, della pasqua.Nessuna liberazione è più grande della liberazione dagli idoli.

Figura 7 - Due piaghe d’Egitto, miniatura dalla Golden Haggadah (XIV sec.), British Library

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Le levatrici d'Egitto/8IL DIO BIBLICO CHIAMA A CAMMINARE I DESERTI SENZA PAURALa gratuità che sa parlare

Guardarsi dall’idolatria significa non eludere la domanda dei figli e delle figlie, che chiedono:'Perché questo rito, perché questo comandamento etico, perché amare il Dio unico?E significa non sottrarsi alle risposte - Jean-Pierre Sonnet, Generare è narrareLa prima nota di fondo di tutti i regimi idolatrici è proprio l'assenza di gratuità, che è invece la

prima dimensione della fede biblica La principale fatica di chi vive o accompagna processi di liberazione èrestare liberi dopo essere stati liberati. Chi governa cercando sempre il consenso di tutti o dellamaggioranza del popolo, può essere un buon leader nella vita ordinaria dei “campi di lavoro”, ma nonsalva nessuno nei momenti delle grandi prove collettiveAvvenire 28 settembre 2014

Fu sufficiente il tempo di una sola notte perché il faraone dimenticasse il grande dolore delle piaghe, e leuniche preoccupazioni dell’impero tornassero a essere i mattoni e il “servizio” degli israeliti: «Quando furiferito al re d’Egitto che il popolo era fuggito, il cuore del faraone e dei suoi ministri si rivolse contro ilpopolo. Dissero: “Che cosa abbiamo fatto, lasciando che Israele si sottraesse al nostro servizio?”. Attaccòallora il cocchio e prese con sé i suoi soldati» (Esodo 14,5-6). L’alba del nuovo giorno ci svela che in quellaliberazione non c’era alcuna gratuità.La prima nota di fondo di tutti i regimi idolatrici è proprio l’assenza di gratuità, che è invece la primadimensione della fede biblica. La creazione è dono, l’alleanza è dono, la promessa è dono, la lottaall’idolatria è dono. Gratuità è l’altro nome di YHWH.La cultura dell’idolo odia il dono. È il suo primo nemico sulla terra, perché l’idolo “sa” che il contatto con lospirito di gratuità lo farebbe morire, gli estrarrebbe il suo potere incantatore. Quando si creano regniidolatrici, la prima operazione dei faraoni è allora cercare di eliminare ogni traccia di vero dono dal lorospazio “sacro”, e riempirlo tutto e solo di oggetti e merci. Nel nostro tempo questa cancellazione è tentatabanalizzando, deridendo la gratuità, considerandola una nostalgia infantile di adulti mal cresciuti. Poi vienetrasformata nei gadget del faraone, nei suoi sconti,fidelity cards e regali innocui consentiti soltanto durante le sue “feste”. Ma il tentativo più subdolo diespulsione della gratuità, è confinarla nel “non-profit”, affidarne il monopolio alle istituzioni filantropiche oagli sponsor che, come il capro espiatorio, hanno lo scopo di addossarsi tutto il dono-gratuità del villaggio,portarlo fuori e farlo morire nel deserto.Ecosì il villaggio resta nel silenzio.L’idolo non può parlare. E così i suoi adoratori finiscono anch’essi per perdere il dono della parola – èsempre straziante vedere il silenzio assordante che regna nelle sale slot che stanno occupando le nostre città,o nei tavoli dei tabaccai, degli autogrill, dei bar e (ahimè!) delle Poste, dove uomini, e tante donne e troppeanziane, “grattano” in religioso silenzio e in solitudini disperate, tenuti lì ai lavori forzati da nuovi faraonisenza pietà: «Essi [gli idoli] sono indorati e inargentati, ma sono simulacri falsi e non possono parlare» (Baruc, 6 ,7 ). Per questo è infinito il valore della parola di YHWH, che non è idolo proprio perché parla, nonè un’immagine ma è una voce che può ascoltare la nostra voce e il nostro grido.Il giorno in cui riuscissimo ad appaltare tutta la gratuità ai suoi professionisti, separandola dalla vita ordinariadella città e delle imprese, l’impero idolatrico/separatore sarà compiuto.Quando ogni banca avrà costituito la sua fondazione, quando le multinazionali dell’azzardo e delle armiavranno finanziato tutte le cure delle loro vittime, il veleno ( gift) iniettato come vaccino nel corpodell’attuale capitalismo avrà raggiunto il suo obiettivo, e saremo finalmente salvati dalla gratuità. Il nuovoculto sarà totale, in tutte le ore di tutti i giorni. Ma non ci riusciranno, perché la gratuità ha una granderesilienza, essendo annidata nella parte più profonda e vera del cuore umano. È l’invincibilità della nostravocazione alla gratuità che fa crollare, prima o poi, gli imperi. E in essa sta la nostra speranza di potercelafare anche oggi.La visione dei cavalli e dei carri degli egiziani produsse la prima prova degli ebrei fuori dall’Egitto: «Alloragli Israeliti ebbero grande paura e gridarono al Signore. E dissero a Mosè: “È forse perché non c’eranosepolcri in Egitto che ci hai portati a morire nel deserto? Che cosa ci hai fatto, portandoci fuori dall’Egitto?Non ti dicevamo in Egitto: lasciaci stare e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l’Egitto chemorire nel deserto”?» (14,10-13).Iniziano qui le «lamentazioni» e le «mormorazioni» del popolo liberato dalla schiavitù dell’Egitto ma cheimpiegherà molto tempo a liberarsi dal ricordo dell’Egitto e dai vantaggi della schiavitù.

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Comprendono immediatamente che una volta liberi il rischio di morire aumenta («non c’erano sepolcri inEgitto?»). Con la libertà la possibilità della morte si fa più prossima. Fuori dai campi di lavoro si sperimenta,

paradossalmente, una maggiore vulnerabilità,poiché in tutte le schiavitù si crea una forma dialleanza tra oppressore e oppressi: lo schiavo ètenuto in vita perché deve produrre mattoni.Nessun padrone razionale (e gli imperi lo sono)uccide il suo strumento di profitto, è benetenerlo in vita per sfruttarlo fino alla fine.Anche per questa ragione se abbiamo paura dirischiare la vita, non liberiamo nessuno – comesanno bene i martiri di ieri e di oggi.La libertà è un “bene” delicatissimo ecomplesso. La cerchiamo, la desideriamo, labramiamo durante le schiavitù, ma non appena

liberati ci accorgiamo che anche la nuova condizione ha dei costi, le sue tipiche sofferenze e fatiche. E così,quasi sempre, finiamo per rimpiangere la schiavitù e i suoi “beni” (che durante le prove della libertà vengonoamplificati e idealizzati).La principale fatica di chi vive o accompagna processi di liberazione è restare liberi dopo essere stati liberati,perché il periodo trascorso nelle schiavitù non ci prepara alla gestione faticosa della libertà reale. È difficileliberarsi da una relazione patologica con un uomo violento; più difficile è resistere e non tornare da luidurante le serate trascorse da sola tra le lacrime («è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto»).Era stato difficilissimo affrancarsi dai padroni che garantivano appalti e lavori all’impresa che avevoereditato dalla mia famiglia; è ancora più difficile non tornare oggi a bussare a quelle antiche e sicure porte,quando la crisi economica è forte, il lavoro non c’è più, e gli “Egiziani” stanno per raggiungerci («Non tidicevamo in Egitto: “Lasciaci stare e serviremo gli Egiziani?”»). I processi di vera liberazione sono moltolunghi, e una volta usciti dalla terra della schiavitù siamo solo all’inizio del cammino. E senza un Mosè (unamico, un’associazione, un’istituzione pubblica, una madre, un figlio …) che continua a credere nellapromessa e nel valore della liberazione, a credere anche per noi, finiamo spesso col ritornare schiavi.Il libro dell’Esodo è allora un grande esercizio spirituale ed etico non solo per chi inizia le liberazioni, maanche per chi deve resistere nella libertà, nei lunghi cammini dopo l’uscita dall’Egitto. Anche per questaragione il Dio biblico non è il dio dello spazio (lo spazio è occupato dagli idoli); è il Dio del tempo, che cichiama a uscire, a camminare attraverso i deserti verso una promessa che è sempre oltre i confini delle nostrecertezze e delle nostre paure.Questa prima prova del popolo e di Mosè nei pressi del mare, contiene poi un insegnamento rivolto in modotutto particolare a chi fonda (ma anche a chi deve continuare) comunità, opere, movimenti, organizzazioni amovente ideale. Si risponde a una chiamata, si inizia un grande processo di liberazione per sé e per tanti, siparte e si prende la via del mare. Ma al termine della notte della liberazione non si trova una via di salvezza,ma un muro che appare insormontabile. Il faraone ci insegue, il mare ci sbarra la strada, e anche il popoloche abbiamo salvato protesta, e sembra voler tornare indietro annullando il senso e il dolore di quella storiadi salvezza.Sono queste solitudini fedeli le prove tipiche dei fondatori, da cui si esce se si è capaci di imitare Mosè:«Mosè rispose: “Non abbiate paura!”» (14,10-13). Anche Mosè avrà avuto paura, forse più di tutti, ma riescea incoraggiare e rincuorare: «Non abbiate paura». Queste prove investono l’intera comunità (tutti hannopaura), ma il fondatore/responsabile vive una prova doppia: la paura di tutti per la possibile morte imminentee l’abbandono da parte della comunità. Si riesce a non morire e ad attraversare il mare se almeno Mosècontinua a credere, a sperare, a resistere, sentendo e agendo nella direzione opposta a quella che vorrebbeimboccare la comunità impaurita.Ci sono momenti decisivi nella vita delle comunità e delle istituzioni quando la salvezza arriva se nei suoiresponsabili c’è la capacità-virtù di non cedere e non assecondare le paure collettive, di remare controcorrente, di resistere allo scoramento del popolo, di continuare a credere nella promessa che un timoreimminente e realissimo sta spegnendo. Chi governa cercando sempre il consenso di tutti o della maggioranzadel popolo, può essere un buon leader nella vita ordinaria dei “campi di lavoro”, ma non salva nessuno neimomenti delle grandi prove collettive, dove serve la sapienza di resistere muovendosi con fatica, e nellasolitudine, in direzioni diverse da quelle che vorrebbe la comunità impaurita e mormorante. Questa capacità-sapienza di continuare a muoversi in direzione ostinata e contraria è particolarmente preziosa anche per l’arte

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del politico nei tempi delle grandi crisi – un’arte che è tutta gratuità, e quindi molto rara nel tempodell’idolatria.E a chi, schiacciato tra gli “egiziani” e il “popolo”, riesce a resistere, può capitare di assistere al miracolo delmare che da muro invalicabile si trasforma in cancello aperto verso la terra della promessa: «Gli israelitientrarono nel mare sull’asciutto, mentre le acque erano per loro un muro a destra e a sinistra» (14,21-22).Figura 8 - Nicolas Poussin, «L’adorazione del vitello d’oro» (1634), National Gallery, Londra –

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Le levatrici d’Egitto/9DOPO LA FRUSTA IL TAMBURELLO, DOPO L’AMARA SETE DOLCI ACQUELa salvezza è danza e occhi

Il libro dell’Esodo è pieno di 'kolòt', voci. ...'Kolòt' è parola che indica i suoni prodotti da uncorno di ariete, dai sonagli di un vestito sacerdotale, dai tuoni. ...Ma nella povertà di unaparola sola c’è qualcosa da custodire: la lingua sacra riconosce che il creato parlaincessantemente, dallo schianto d’una folgore al tintinnio di un sonaglio. Usa una parola solasecondo un’umiltà e una nostalgia: ammette di non saper intendere quelle voci e si riannoda altempo in cui Adam intendeva alla lettera il creato. - Erri de Luca, Esodo/Nomi

Non c’è danza più bella di quella di Miriam, il canto che sale dal tramonto dell’esistenza, perché dice che lavita degli uomini e delle donne è dono in tutte le sue stagioni, e che l’ultimo inno è il più intenso di tutti Laprova alle acque di Mara ci rivela l’importanza dello sguardo del profeta Mosè vede diversamente e di più.E sa usare anche il legno scartato per il bene di tuttiAvvenire 5 ottobre 2014

La liberazione del popolo oppresso in Egitto era iniziata con la frusta dei sovraintendenti sui lavoratori, e oratermina oltre il mare con il tamburello di Miriam danzante. Dove non c’è spazio per il ritmo della danza,prima o poi compare quello della frusta. È la bellezza umile e mite del tamburello che celebra la libertà e cisalva. Dopo il miracolo delle acque arriva il grande Canto del Mare: «Allora Mosè e gli israeliti cantaronoquesto canto a YHWH e dissero: 'Voglio cantare a YHWH, perché è stato veramente magnifico'» ( Esodo15 ,1 ). Questo grandioso inno per l’avvenuta liberazione termina con il canto di Miriam, profetessa e sorelladi Aronne. Tornano ancora le donne nell’avventura di Mosè. Erano state protagoniste nella prima salvezzadalle acque del Nilo – le levatrici, la madre e la sorella di Mosè, la figlia del faraone – e le ritroviamo ora altermine della liberazione dalla schiavitù, oltre il mare, a vedere e a vivere un’altra salvezza da altre acque:«Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un tamburello: dietro a lei uscirono le donnecon i tamburelli e con danze. Maria intonò per loro il ritornello: 'Cantate al Signore, perché ha mirabilmentetrionfato: cavallo e cavaliere ha gettato nel mare!'». (15,20-21).È splendida questa immagine di donne in festa.Quante volte le abbiamo viste anche noi danzare, piangere e cantare alla fine delle guerre e delle carestie.Dopo i grandi dolori di tutti, hanno saputo ricorrere alla loro speciale amicizia con la vita per ricominciare,per farci tornare, di nuovo, a sperare. Ci portiamo iscritti nell’anima il ritmo e il canto perché abbiamodanzato nel liquido amniotico, poi tra le loro braccia e dentro le culle. Abbiamo imparato a camminare e cisiamo addormentati per anni danzando e ascoltando canti di donne – e forse partiremo da questa terra conun’ultima danza dell’anima.Miriam è la prima danzatrice e cantante della Bibbia, ed è una donna anziana. Il popolo ebraico avrà fattofesta, danzato e cantato anche negli anni d’Egitto, durante la schiavitù e i lavori forzati (non si sopravvive anessun lavoro se non si fa ogni tanto festa, se non si danza e canta). Le nuore di Noè avranno danzato ecantato nella terra salva dopo il diluvio. Certamente si sarà ballato durante le nozze tra Giacobbe e Rachele, efatta grande festa con danze e canti in Egitto dopo la fraternità ritrovata tra Giuseppe e i suoi fratelli. Ma laBibbia ha voluto preservare e custodire la parola 'danza' fino al deserto di Sur, ci ha portato oltre il mare el’ha usata per la prima volta per Miriam, per descriverci i sentimenti di donne lodanti in festa.Esiste una naturale affinità tra la danza, il canto, la musica e le donne. Molte nella Bibbia intonano inni(Deborah, Anna, e infine un’altra Miriam-Maria), e molte danzano (tra queste anche la figlia di Erodiade [Mt 14 ,6 ], una danza 'diversa' che ci ricorda l’ambivalenza di molte, forse tutte, le realtà davvero grandidell’umano). È anche questo il talento delle donne.Miriam non è giovane. Era la sorella di Aronne, che l’Esodo ci presenta come un uomo di 83 anni (7,7). Nonsono soltanto i giovani e le giovani a danzare. C’erano molte fanciulle in quell’accampamento, ma fu Miriama impugnare il tamburello, a intonare il canto, a iniziare la danza. Vedere qualcuno che danza e cantalodando è sempre bello. Più bello se a danzare e a lodare è una donna. Un offertorio durante una messa inKenya, dove il pane e il vino dei poveri erano accompagnati verso l’altare dai cori e dalle danze di decine diragazze africane, è tra i miei ricordi più forti e vivi. Ma più bello ancora è vedere una donna anziana danzaree cantare alla vita. Non c’è canto più bello e pieno di speranza di quello che sale dal tramonto dell’esistenza,perché dice che la vita è dono in tutte le sue stagioni, e che l’ultimo inno è il più bello di tutti. Quella diMiriam è la danza della gratuità, quella di un corpo che nella sua essenzialità riesce a dire parole di bellezzache gli anni giovanili e le sue danze diverse e forti non sapevano e potevano dire. Oggi Miriam non danza e

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non intona più il ritornello, perché la nostra cultura non la fa danzare, non ama il suo corpo non più attraenteai nostri sensi che hanno smesso di vedere bellezze diverse e più grandi. E così perdiamo la danza più pura,

quella che solo un corpo fragile e ferito può donarci, facendolespazio ritraendosi.Dopo il canto del Mare, «Mosè fece partire Israele dal Mar Rossoed essi uscirono verso il deserto di Sur» (15,22). Inizia qui la storiadel deserto, in un luogo che al lettore attento della Bibbia evocasubito un’altra donna: Agar. Fu in quel deserto di Sur che quellamadre-serva vagò fuggiasca con suo figlio (Ismaele). Lì fuconsolata dal primo angelo inviato da YWHW sulla terra (Gen16,6-7), e lì si dissetò a una sorgente. Ma quell’acqua e quellaconsolazione che Agar, la serva egiziana (16,3) nella casa diAbramo, trovò in quel deserto, non la trova ora la stirpe di Abramoliberata dagli egiziani: «Arrivarono a Mara ma non poterono bereacqua da Mara, perché erano acque amare… Allora il popolomormorò contro Mosè: 'Che cosa berremo?'».(15,23-24).Ci sono le proteste prima dei miracoli e quelle dopo. L’esperienzanaturale e realissima della sete manda in crisi quella straordinaria

del miracolo del mare. Possiamo vedere anche il mare aprirsi di fronte ai nostri occhi, ma se la fede-fiducianella salvezza non rinasce ogni mattina dentro le nostre seti e fami quotidiane, quei miracoli restano unricordo vero ma incapace di cambiarci la vita qui ed ora. I miracoli ci possono far partire, possono esserel’aurora delle nostre liberazioni, ma neanche i più grandi miracoli sono sufficienti per farci raggiungere laterra promessa. Per attraversare il deserto dobbiamo diventare capaci di trasformare le acque amare delquotidiano in acque che ci dissetano nelle tavole delle nostre mense domestiche e in quelle del lavoro. Nelcammino concreto dell’umano i miracoli dell’acqua umile di casa non sono meno importanti dell’aperturadel Mar rosso.Il segno di Mara è un umile legno: «Mosè gridò al Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua el’acqua divenne dolce» (15,24-25).Nell’episodio delle acque amare-dolci, YWHW, il Dio della voce, non parla. Il popolo mormora controMosè, il profeta grida (quante grida ci sono nel libro dell’Esodo, e negli esodi di oggi), ma YWHW gli indicasemplicemente un legno. Quel legno forse era già sotto gli occhi di tutto il popolo, ma solo gli occhi delprofeta ora lo 'vedono'.Ogni profeta ha un grande rapporto con la parola, è quasi soltanto parola. Parla, dice parole diverse e piùgrandi proprio perché quelle parole non sono sua proprietà privata o un suo manufatto, ma dono ricevuto eridonato al popolo. È la gratuità della parola che fa la differenza tra Mosè e i tanti falsi profeti di ogni tempo,che usano le tecniche della parola a proprio vantaggio.Questa prima prova a Mara ci rivela qualcosa sull’importanza degli occhi del profeta. Il profeta vedediversamente e di più. Parla anche guardando le cose in un altro modo. Tante persone, più di quanti possiamoimmaginare, continuano a salvare il loro mondo semplicemente guardandolo diversamente, a trasformarecon lo sguardo legni scartati in strumenti di salvezza. Li salvano perché sono capaci di 'vederli', diriconoscerli nella loro vocazione e bellezza, e così farli diventare beni di tutti – vedremmo tanta bellezzanelle persone attorno a noi se solo fossimo capaci di guardarle. Ci sono tanti legni di salvezza abbandonatilungo le rive delle nostre città e dentro le nostre scuole, perché nessuno li ha mai visti, guardati, trasformati,amati con gli occhi. Non essere guardati da nessuno, non avere qualcuno, almeno uno, che ci vede, conosce ericonosce, è la povertà più grande.alveremo le nostre imprese se impareremo a guardarle diversamente, e se ricominceremo a vedere e aguardare diversamente i lavoratori. Ma nei nostri luoghi di lavoro ci servirebbero più profeti, più artisti, poetie scrittori (e meno esperti in 'risorse umane'). Saremmo così più capaci di trasformare le acque amare dellenostre crisi in acque dolci che salvano il lavoro e ne creano di nuovo. Potremmo intravvedere un’oasi infondo al deserto, e credere che nessun deserto è infinito: «Poi arrivarono a Elìm, dove sono dodici sorgenti diacqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua (15,27).

Figura 9 - Anselm Friedrich Feurbach, «Miriam», 1862, Nationalgalerie, Berlino

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Le levatrici d'Egitto/10I BENI DI CUI DOBBIAMO GODERE TUTTI, NEI 'DESERTI' DI IERI E DI OGGILa giusta legge del paneMosè insegnò la benedizione da elevare dopo aver consumato la manna: “Benedetto sii tu, Signore nostroDio, sovrano del mondo, che nella tua magnanimità provvedi al mondo intero, che nella tua grazia concedi

pietoso il cibo a ogni creatura, perché eterno è il tuo favore. Grazie alla tua generosità il cibonon ci è mai mancato e mai ci mancherà” Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, IVLo stupore dell'esistere sta nel saper vedere la manna dentro la resina, l'infinito nella rugiada.Nello scoprire che la realtà è più grande dei nostri occhi.La legge della manna ci ricorda che non tutti i beni sono beni economici, e i beni economici

non diventano “mali” solo se alcuni beni restano non-economiciAvvenire 12 ottobre 2014La gratuità più grande è quella che scende dal cielo ogni mattina insieme alla rugiada. Il mondo è immersonella gratuità. È più vera e presente della cattiveria che pur non manca. Abita in mezzo a noi, la possiamotrovare negli alberi, dentro le nostre famiglie, nei cespugli, sotto i nostri capannoni e negli uffici, nei mercati,nelle piazze, negli ospedali, nelle scuole, in fondo al cuore della nostra gente. È qui, nello stupore dellaferialità, dove c’è la gratuità che ci salva. L’attraversamento dei nostri deserti sarebbe molto più sopportabilese solo sapessimo riconoscere, con l’aiuto degli occhi dei profeti, la provvidenza che ci avvolge, ci puònutrire, ci nutre.Lasciato il deserto di Sur, il popolo dissetato riprende il cammino verso il Sinai, attraverso il deserto. E leprove continuano: «Tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israelitidissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso lapentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire difame tutta questa moltitudine”» (Esodo 16,2-3). I popoli hanno sempre gridato nelle carestie di pane ed’acqua, e continuano a farlo. Sono queste le prime grida della vita, lo reimpariamo ogni giorno dai nostribambini. Ma è ancora più vero che i Salmi, tutte le preghiere del mondo, ricorrono al vocabolario della famee della sete per esprimere i sentimenti e le passioni più profonde dell’animo umano. Chi ha conosciuto lavera fame e la vera sete ha potuto raggiungere dimensioni della condizione umana che gli hanno donato,nella tragedia, parole più grandi che hanno arricchito il suo repertorio antropologico e spirituale. Sa parlaremeglio dell’uomo sazio, sa pregare e cantare di più. È anche questo uno dei paradossi della terra: lasofferenza ci dischiude nuovi orizzonti dell’umano, ma non dobbiamo darci pace fino a quando tutte lesofferenze eliminabili non saranno cancellate dalle nostre società.Resteranno sempre quelle ineliminabili, per le quali ci manca oggi una cultura per trasformarle in canti esalmi, per trasformarne almeno qualcuna.La sofferenza, la fame e la sete producono naturalmente le mormorazioni, che sono una delle ultime risorsedei poveri (le mormorazioni bibliche non sono le chiacchiere e il pettegolezzo, che invece sono sempresbagliati). La gente che sta male si lamenta, rimpiange anche il peggior passato. Il dolore, soprattutto quelloche si protrae nel tempo, ci fa dimenticare i doni ricevuti, il mare aperto, i miracoli più grandi, e trasforma inbene anche il ricordo della schiavitù. Ogni mormorazione nasconde un messaggio, anche quando è dettomale per il molto dolore. Pessimo è allora quel responsabile che non vuole o che non sa ascoltare lemormorazioni del popolo che ha sete e fame di acqua, di pane, di lavoro, perché si priva di una delleprincipali fonti di verità sulla vita e sulle persone, non può fare scelte giuste a favore della vita, e così lamanna non arriva sulle nostre carestie.Mosè e Aronne stanno imparando nel deserto ad ascoltare il linguaggio del loro popolo, che parla con iltamburello e la danza delle donne, ma anche con quello delle mormorazioni di tutti. E YHWH è lì, in mezzoa loro, ad ascoltare le loro proteste e le loro nostalgie: «Il Signore disse a Mosè: “Ho inteso la mormorazionedegli Israeliti. Parla loro così: ’Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane”’»(16,12). Ecosì, «la sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intornoall’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine egranulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: “Che cos’è?”,perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: “È il pane che il Signore vi ha dato in cibo”» (16,13-15).È normale che le quaglie si posassero e si posino in quel deserto durante le migrazioni stagionali, e ilfenomeno della “manna” è una resina odorosa e dolce prodotta da due parassiti di una pianta (tamarixmammifera) nella zona centrale del Sinai. Provenendo dall’Egitto, il popolo non poteva conoscere la manna,

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e si chiede: “Che cos’è?”. E Mosè risponde: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo» (16,13-15). Senzagli occhi e le parole dei profeti i nostri “che cos’è?”restano senza risposte, o, più semplicemente, necerchiamo e ne troviamo altre a buon mercato, che cilasciano affamati. I profeti ci donano risposte più veree buone ai nostri “che cos’è” più profondi. Ci fannosentire e capire che tutto ciò che accade attorno a meaccade per me, che la manna non è soltanto la resinasecreta dai parassiti. Lo stupore dell’esistere sta nelsaper vedere la manna dentro la resina, l’infinito nellarugiada. Nello scoprire che la realtà è più grande deinostri occhi, e anche di quelli dei profeti.Nell’Esodo, insieme alla manna arriva anche uncomando: «Ecco che cosa comanda il Signore:“Raccoglietene quanto ciascuno può mangiarne, unomer a testa, secondo il numero delle persone che

sono con voi. Ne prenderete ciascuno per quelli della propria tenda”. … Mosè disse loro: “Nessuno ne facciaavanzare fino al mattino”» (16,16-19). Forse nel codice simbolico della cultura occidentale non c’è nulla chepiù della manna dice gratuità. Viene dal cielo, non è legata ad alcun nostro merito, e la ritroveremo neivangeli quando la Gratuità fattasi carne divenne anche pane. Eppure, la manna arriva insieme alle regole, lagratuità (donum) insieme all’obbligo (munus). La gratuità senza regole di comunione e senza obblighidegenera nel gadget del supermercato, in un’esperienza tutta individuale e quindi piccola, inutile. La gratuitàpiù importante è la gratuità del doveroso, perché è quella alla base delle nostre istituzioni, della politica, dellafamiglia, delle imprese, del patto sociale e fiscale, dei contratti di lavoro. La Bibbia sa che una gratuità nonaccompagnata da regole comunitarie e sociali non costruisce, ma distrugge il bene di ciascuno e di tutti.La gestione del dono della manna segue infatti una precisa legge. Tutti hanno diritto alla stessa quantità dimanna, che viene distribuita in base al numero di membri delle famiglie, quindi sulla base dei bisogni:«Colui che ne aveva preso di più, non ne aveva di troppo; colui che ne aveva preso di meno, non nemancava. Avevano raccolto secondo quanto ciascuno poteva mangiarne» (16,18). Per il pane, per i beniprimari dell’esistere, siamo e dobbiamo essere tutti uguali. Ed è la comunione che non fa imputridire lamanna e il pane di ogni giorno. In quell’accampamento ci saranno stati alcuni più abili e altri meno araccogliere la manna prima che arrivasse il sole a scioglierla; ma al momento del suo consumo i meriti, laforza, l’età, il rango sociale, non contano più. Mosè, Aronne, Miriam, il ragazzo Levi, il pastore Giuseppe esua moglie Lea, hanno tutti la stessa porzione di manna, perché tutti esseri umani.Ci deve essere qualcosa che ci fa uguali prima delle tante differenze. Ci devono essere beni di cui possiamogodere anche se non possiamo comprarli – ieri nel deserto verso il Sinai, oggi nei deserti del capitalismofinanziario. La manna è simbolo di questo tipo di bene primario, che sfama ciascuno solo se sfama tutti.Tutte le volte che qualcuno muore perché non ha potere d’acquisto per procurarsi il pane e gli altri beniprimari dell’esistenza, stiamo rinnegando la legge fondamentale della manna. Molti hanno sognato unasocietà dove ogni essere umano potesse godere di beni non in quanto consumatore e cliente ma perché essereumano: quando la realizzeremo? Non ci manca il pane, ci manca solo, e sempre di più, il rispetto della leggedella manna.La manna, poi, non può essere accumulata, e quindi non può diventare oggetto di commercio: «Essi nonobbedirono a Mosè e alcuni ne conservarono fino al mattino; ma vi si generarono vermi e imputridì» (16,20).Il pane fresco è solo il pane quotidiano. La gratuitàmanna vive, non muore e non svanisce al sole, solo seresta gratuità. La manna nutre se accolta come dono e non trasformata in merce. La legge della manna ciricorda che non tutti i beni sono beni economici, e che i beni economici non diventano “mali” solo se altribeni restano non-economici.Molti beni sono anche merci, ed è bene che lo siano. Ci sono però beni che smettono di essere beni (cosebuone) se diventano merci. L’amicizia non è un business, la preghiera non è magia, una persona non è unarisorsa umana, se e fino a quando restano faccende di gratuità. E la manna-gratuità ha la sua legge intrinsecae fortissima: non si lascia usare a scopo di lucro, e imputridisce nelle mani di chi vorrebbe abusarne. È cosìche si è salvata anche sotto i peggiori imperi, che resiste in tutti i luoghi dell’umano, che continua a sfamare ipoveri della terra: «Gli Israeliti mangiarono la manna per quarant’anni, fino al loro arrivo in una terra abitata:mangiarono la manna finché non furono arrivati ai confini della terra di Canaan» (16,35).Figura 10 - NICOLAS POUSSIN. Gli ebrei raccolgono la manna nel deserto

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Le levatrici d'Egitto/11MOSÈ SEGUE I CONSIGLI DI UN PADRE: È IL DONO DELLA RECIPROCITÀLe parole diverse degli uguali

Quando il Santo benedetto gli disse in Madian: «Va torna in Egitto», Mosè prese sua mogliee i figli, Aronne gli andò incontro, l’incontrò vicino al monte di Dio e gli domandò: «Chisono costoro?». Mosè rispose: «Costoro sono la moglie che ho sposato in Madian e i mieifigli». «E dove li porti?», aggiunse Aronne. «In Egitto», rispose.«Noi siamo addolorati per gli ebrei che si trovano in Egitto e tu vi porti anche loro?». Fucosì che Mosè disse a sua moglie: «Va in casa di tuo padre», ed essa prese con sé i suoi due

figli e se ne andò. Rashi, Commento all’EsodoQuando arrivano certi nemici, per continuare a vivere non è sufficiente la fortezza di Mosè.Occorrono anche le braccia di Aronne e di Cur, che lo sostengono. C'è un mistero di solitudine al cuoredella profezia biblica. La vocazione profetica non è una chiamata a una vita personale felice, ma è un invioper svolgere un compito di liberazione e di felicità per altri.Anche i profeti devono essere figli, e obbedire a chi parla loro per amore e con saggezzaAvvenire 19 ottobre 2014

Sulla terra, mescolati in un mare di provvidenza e di bene, ci sono anche i nemici dei deboli e dei poveri cheattraversano i deserti verso le terre promesse. Questi nemici attaccano all’improvviso, a volte senza ragioni.Tanti poveri, ieri e oggi, si salvano perché qualcuno 'tiene le mani alzate', prega, invoca, grida con loro, perloro, a loro posto. E perché altri, quando i profeti sono stanchi per la lunghezza e durezza della battaglia e leloro braccia iniziano a cedere, si mettono accanto a loro e li sostengono. Il male – è questo un messaggiogrande dell’umanesimo biblico – per quanto potente e astuto è meno profondo e vero del bene, la vita è piùgrande e forte della morte. È su questa parola che chiunque lotta per il bene e per la vita può continuare asperare, e la sua speranza può non essere vana.Dopo la fame, a Massa e Meriba torna la sete e con essa tornano le proteste (Esodo 17,1-7). In quel desertodi Refidim arriva anche l’attacco di Amalek, e il popolo liberato dall’Egitto conosce la prima guerra, cheIsraele vinse perché Mosè riuscì a tenere le mani alzate per tutta la durata della battaglia. Ci riuscì con l’aiutodi Aronne e Cur, che «sostenevano le sue mani uno da una parte l’altro dall’altra» (17,4). Quando arrivanocerti nemici, per continuare a vivere non è sufficiente la fortezza di Mosè. Occorrono anche le braccia diAronne e di Cur, altri 'carismi' co-essenziali perché il popolo non muoia. I profeti possono e devono pregaree a volte urlare, ma senza persone e istituzioni che credono a quella preghiera e agiscono, non si riesce avincere la battaglia, perché le sole braccia del profeta non ce la fanno.Oggi troppi poveri continuano a morire non solo perché mancano i Mosè; muoiono anche per l’assenza diAronne e Cur, o perché se ci sono non sono abbastanza forti e resilienti per arrivare fino al tramonto del sole.E così, nonostante le grida dei profeti, continuiamo a morire nelle mille Lampedusa del mondo.«Udì Ietro, sacerdote di Madian, suocero di Mosè, tutto quello che Dio aveva fatto per Mosè e per Israele,suo popolo» (18,1). Con il suocero, giungono all’accampamento anche sua moglie Zippora (che Mosè avevasposato durante il suo esilio a Madian), e i loro due figli. E subito in quello scenario di deserto, di fame, disete, di guerra, si apre uno squarcio di cielo, uno di quei pezzi di paradiso che solo il ritrovarsi in famigliariesce a farci vedere e vivere: «Mosè uscì per incontrare suo suocero, si prostrò e lo baciò.Chiesero notizie l’un l’altro circa la salute, ed entrarono nella tenda» (18,7). Si baciano, e nella tenda siraccontano la liberazione, il miracolo del mare, la festa, il tamburello di Miriam. E «Ietro esultò» (18,9).Sebbene anch’egli erede di Abramo (per via di Ketura, la sua seconda moglie: Genesi 25,1-4), Ietroapparteneva a un altro popolo, adorava altri dei. Aveva però accolto Mosè esule e fuggiasco, gli aveva datoin sposa sua figlia, avevano lavorato insieme (Mosè pascolava il suo gregge), lo aveva certamente amato.Soprattutto aveva conosciuto e visto la chiamata di Mosè sull’Oreb, e gli aveva detto: «Vai in pace» (3,18).Non poteva conoscere la voce che aveva chiamato suo genero, ma sentì che era una voce vera.Ifamigliari dei profeti hanno spesso, quasi sempre, il dono di capire che la voce che chiama un loro figlio, unfratello, una mamma, è una voce buona e vera. Magari non la conoscono, hanno altra cultura e altri culti, mal’amore e la grazia naturale della famiglia consente loro, spesso nel dolore, di intuire che quella voce èentrata nella loro famiglia per una salvezza.L’incontro di Mosè con la sua famiglia ci rivela anche l’assenza di Zippora e dei suoi figli durante laliberazione del popolo dal faraone. Li avevamo lasciati sulla via tra l’Oreb e l’Egitto, quando Mosè fusalvato da un’azione misteriosa di Zippora dall’attacco di Dio che voleva farlo morire (3,24-26).

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Ma durante la sua missione in Egitto Mosè era senza moglie e senza figli.C’è un mistero di solitudine al cuore della profezia biblica. La vocazione profetica non è - nondimentichiamolo - una chiamata a una vita personale felice, ma un invio per svolgere un compito di

liberazione e di felicità per altri. C’è una certa felicitàanche nel seguire la voce, ma è una felicità diversa emisteriosa, che dovremmo chiamare 'verità'. Quandouna persona riceve questo tipo di vocazione, sa che serisponde 'eccomi' non gli è assicurata la presenza deisuoi affetti e della loro tipica e sublime felicità.Nella chiamata del profeta non ci sono promesse dicompagnia durante le piaghe e il cammino dell’esodo;c’è la certezza che si sta seguendo una voce vera ebuona per sé e per tutti, e ci sono le sorprese di vedereun mare aprirsi, una colonna di fuoco che indica lastrada, di udire le nubi parlare. Questa forma disolitudine, accompagnata e riempita da una voce che

non si vede ma che si sente, è parte essenziale della vocazione profetica, anche quando si resta dentro casacircondati dai propri famigliari.Ietro resta anche il giorno seguente presso la tenda di Mosè, lo vede nell’esercizio quotidiano del suoministero (e mistero). E gli chiede: «'Che cos’è questo che fai per il popolo? Perché siedi tu solo, mentre ilpopolo sta presso di te dalla mattina alla sera?'» (18,14). Mosè gli risponde: «'Perché il popolo viene da meper consultare Dio. Quando hanno qualche questione, vengono da me e io giudico'» (18,15-16). Ietro replica:«'Non va bene quello che fai! Finirai per esaurirti, tu e il popolo che è con te, perché il compito è troppopesante per te; non puoi attendervi tu da solo'» (18,17-18).È importante lo sguardo tipico dei famigliari e degli amici dei profeti, e la loro misteriosa ma reale autorità(«Non va bene quello che fai»). Il popolo e gli anziani avevano un altro sguardo su Mosè: era il loroliberatore e la loro guida, l’interprete della volontà di Dio per loro, il sapiente che amministrava la giustizia.Ietro giunge da fuori, vuole bene a Mosè, lo ha conosciuto da giovane, ha visto sbocciare i suoi affetti e lasua vocazione. Così riesce a vedere che la vita concreta di Mosè non è sostenibile. Senza una moglie, unfiglio, un genitore che ci guardano diversamente e ci dicono: 'Se vai avanti così, ti esaurirai', non riusciamo acapire che il nostro lavoro e il nostro compito stanno peggiorando la nostra vita. Non sono i nostri colleghiné i clienti che ci possono dire queste parole diverse, tantomeno le persone che ci vedono come loro guida.Ma senza queste parole 'altre' non raggiungiamo la terra promessa, ci perdiamo nel deserto, smarriamo la via.Questi sguardi sono essenziali non solo per i profeti. Lo sono anche per i responsabili di comunità religiose ecivili, per i fondatori di movimenti e di associazioni, per tutti coloro che hanno responsabilità morali espirituali su altri. Ci si smarrisce e non si porta a complimento il proprio compito senza lo sguardo diversodei famigliari e degli amici, almeno di uno di loro.Ifamigliari, gli amici veri, anche quelli provenienti da culture diverse dalle nostre, anche quelli che noncredono nel nostro Dio ma ci vogliono veramente bene, hanno per noi una grazia di tipo profetico. Possonoparlarci, ci parlano, a nome di Dio; e se li ascoltiamo ci aiutano molto a svolgere la nostra missione. Perquesta ragione le comunità che non hanno altri sguardi al di fuori di quelli 'interni', raramente sono luoghi disalvezza.La presenza di sguardi esterni di amore naturale consente al 'profeta' di sperimentare la reciprocità tra uguali,che può mancare, e spesso manca, con i membri della comunità che guida. Un genitore, una moglie, unsuocero gli possono donare l’esperienza di incrociare gli 'occhi alla pari', che la Genesi ha posto come leggefondamentale dell’umano (2,18). Il profeta è prima Adam e poi Mosè. Anche i profeti più grandi hannobisogno di vivere la figliolanza, grazie a qualcuno che con un’altra autorità può dare loro consigli efficaci.Anche i profeti devono obbedire agli uomini. «'Ora ascoltami – aggiunge Ietro –.Sceglierai tra tutto il popolo uomini validi che temono Dio, uomini retti che odiano i guadagni disonesti, percostituirli sopra di loro come capi di migliaia, capi di centinaia, capi di cinquantine e capi di decine'». Mosè«fece quanto gli aveva suggerito» (18,24). Poi Ietro riparte per «la sua strada» (18,27), e Zippora ritornasullo sfondo della Bibbia. Fa parte della funzione e della grazia dei famigliari e degli amici dei profeti saperequando è il momento di ripartire. Ma prima, col loro passaggio, possono guardarli in un altro modo, e aiutarlia portare a termine il loro compito.Figura 11 - Jan Victors, «Mosè si congeda da Ietro», 1635

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Le levatrici d’Egitto/12SOLO UNA SINFONIA DI VOCI È ADEGUATA AL DIALOGO CON DIOLe parole del cielo e della terraLe montagne discutevano fra loro per avere l’onore di essere scelte come il sito della rivelazione. «Su di me

dimorerà la presenza divina, mia sarà la gloria», esordì una, e un’altra replicò con lemedesime parole. Il monte Tabor disse all’Ermon: «Su di me si poserà la Šekinah, mio saràquesto onore…». Il Sinai, invero, fu prescelto non solo per la sua umiltà, ma perché non eramai stato sede di culti idolatrici, diversamente dalle altre montagne che, in virtù della loroaltezza, erano state scelte per i santuari pagani. Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, IV

Il primo segnale che ci dice che abbiamo a che fare con una idolatria e non con una fede, è il disprezzo perle fedi degli altri. E la pretesa di opporre ragione e fede non fa del mondo la terra della libertà, ma loriempie di totem La lezione impartita ai piedi del Sinai è anche quella che nelle comunità umane lacreazione di livelli intermedi di potere non è garanzia di maggiore democrazia e di vera partecipazione algoverno: può diventare un modo per fare più alta la piramide del faraoneAvvenire 26 ottobre 2014

La prima riforma sociale e organizzativa del popolo di Israele arriva da un consiglio di Ietro, suocero diMosè, uno straniero di fede diversa. Tra l’uscita dagli idoli dell’Egitto e il dono della Torah sul Sinai,l’Esodo ha voluto inserire una figura buona di credente non idolatrico, e lo ha posto al cuore di un evento dicruciale importanza per la vita del popolo. Un messaggio di grande apertura e speranza, che ci raggiungeanche oggi dove i credenti nel Dio della vita dovrebbero unirsi e stimarsi di più, per liberarci e proteggercidai mille culti idolatrici del nostro tempo. Gli anziani, Aronne, i sapienti di Israele, avevano senz’altro vistol’affaticamento di Mosè e le sue difficoltà nel gestire da solo un popolo numeroso e complesso.Ma perché si attuasse il nuovo assetto organizzativo che preparò il popolo alla grande teofania del Sinai, civolle uno sguardo diverso di uno straniero, di qualcuno di un altro popolo e di un’altra fede che peròrispettava YHWH sebbene non fosse il suo Dio.Mosè non considera suo suocero un idolatra. Sa che non crede in YHWH, ma nonostante questo lo ascolta egli ubbidisce, perché gli riconosce una sua verità. Mosè non avrebbe mai ascoltato e amato un idolatra,tantomeno gli avrebbe ubbidito. Non è l’avere una fede diversa dalla mia che ti fa idolatra. Ietro non èidolatra anche perché rispetta il Dio di Mosè. Il primo segnale che ci dice che abbiamo a che fare con unaidolatria e non con una fede, è il disprezzo per le fedi degli altri. Anche oggi possiamo dialogare, incontrarcie persino pregare tra religioni e fedi diverse solo se nessuno di noi pensa che il Tu che l’altro accanto a mesta pregando è un idolo, e se ognuno di noi crede o spera che la fede dell’altro sia un riflesso autenticodell’unico Dio di tutti, che è troppo 'altro' per essere espresso o posseduto soltanto dalla 'mia' fede. Lapovertà spirituale del nostro tempo non dipende dalla moltiplicazione delle fedi nelle nostre città, ma dallacrescita impressionante degli idoli nello spazio lasciato vuoto dalle religioni (e dalle ideologie). Abbiamovoluto combattere la pietà popolare e la fede semplice dei nostri nonni, ma quando ci siamo risvegliati dal'sonno della ragione' ci siamo ritrovati in un mondo popolato da nuovi totem, non nella terra della libertà. Lemolti fedi fanno il mondo più bello e variopinto, e lo proteggono dall’idolatria.La riforma di governance nel deserto di Refidìm, fu un evento cruciale per Israele. In essa si nascondonomolti messaggi e molte verità. La sua importanza è testimoniata anche dalla pluralità di versioni cheritroviamo nei libri del Pentateuco. Nel racconto di quella riforma che troviamo nel libro dei 'Numeri', c’è unelemento che ci svela molto del significato profondo di quel decentramento organizzativo: «Mosè dunqueuscì e riferì al popolo le parole del Signore; radunò settanta uomini tra gli anziani del popolo e li fece stareintorno alla tenda. Allora il Signore scese nella nube e gli parlò: tolse parte dello spirito che era su di lui e lopose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro quelli profetizzarono» (Numeri11,24-25).Qui c’è qualcosa di molto importante per ogni processo di decentramento e di delega. È lo stesso Spirito cheviene donato a chi dovrà svolgere funzioni di governo del popolo. Il principio del potere e della sapienza nonè il talento del profeta, ma è lo spirito che era stato donato prima a lui e che ora viene condiviso ad altri.Questo decentramento e questa delega richiedono che il 'profeta' (fondatore, responsabile …) non si senta ildetentore né tantomeno la fonte dello spirito, ma il beneficiario di un dono che non considera gelosopossesso. Il profeta riconosce che gli altri chiamati a governare con lui/lei hanno la sua stessa luce esapienza, perché tutti l’hanno ricevuta dalla stessa sorgente (lo spirito).

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La delega e la corresponsabilità, allora, prima di essere faccende tecniche o pragmatiche, sono cose moltoserie, eventi spirituali; e lo sono sempre, ma soprattutto quando si ha a che fare con organizzazioni a

movente ideale e con realtà carismatiche.Senza interpretare la delega comepartecipazione e condivisione dello stessodono-carisma, chi decentra non fa altro cherafforzare le gerarchie della comunità, perchéla delega aumenta l’asimmetria tra chi delegae il popolo. In queste deleghe senza dono esenza spirito, la creazione di gradi gerarchiciintermedi aumenta soltanto la distanza tra ilcapo e la base - il numero di caste e di ranghiin una società o in una organizzazione èsempre proporzionale al grado di gerarchia.Nelle comunità umane la creazione di livelliintermedi di potere non è garanzia dimaggiore democrazia e partecipazione al

governo. Se chi delega è convinto (o è stato convinto) che il suo 'spirito' sia diverso e più puro di quello chericeveranno coloro scelti per collaborare con lui, il processo di decentramento crea soltanto nuove caste enuovi sciamani, che diventano semplici sgabelli per aumentare l’altezza del trono del sovrano supremo.L’aumento dei collaboratori accanto ai capi spesso finisce per rendere i capi più potenti e più distanti dallagente, moltiplicando i veli tra loro e i sudditi. Ci sono molti responsabili di comunità che creano ordiniintermedi di governo al solo scopo di aumentare l’altezza della propria piramide, al cui vertice c’è semprel’unico vero faraone.Dopo il passaggio di Ietro, lo spirito condiviso, la riforma, il popolo arriva finalmente alle pendici del Sinai:«Levate le tende da Refidìm, giunsero al deserto del Sinai, dove si accamparono; Israele si accampò davantial monte. Mosè salì verso Dio, e il Signore lo chiamò dal monte» (Esodo 19,1-3). YHWH parlò di nuovo aMosè, su quello stesso monte dove lo aveva chiamato per la prima volta, dove gli aveva rivelato la suavocazione di liberatore del popolo oppresso in Egitto - la Bibbia sa che i luoghi non sono tutti uguali perascoltare e capire bene le voci. Ora, dopo le piaghe, la liberazione, il mare aperto, gli inni, le fame, la sete, laguerra, Mosè ritorna su quello stesso monte, e, ancora una volta, la Voce gli parla: «Il Signore disse a Mosè:'Ecco, io sto per venire verso di te in una densa nube, perché il popolo senta quando io parlerò con te ecredano per sempre anche a te'» (19, 9). E gli parla coinvolgendo, ancora, nel suo discorso anche la natura.YWHW gli aveva sempre parlato ricorrendo al linguaggio della natura: il roveto, le rane, la grandine; e poi ilmare aperto e il legno a Mara. Ora, prima del grande evento dell’Alleanza, con la voce di YWHW arrivanoanche la nube, i tuoni, i lampi, il fumo, il fuoco, il suono forte del corno. Suoni naturali che diventano parole,tonalità di quella stessa voce che lo aveva chiamato per nome, che gli aveva continuato a parlare durante laliberazione e l’Esodo; che continua a rispondergli: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni elampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamentofu scosso da tremore. … Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, ene saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventavasempre più intenso: Mosè parlava e Dio gliAll’uomo biblico, quell’Adam figlio del cielo ( Elohim) e della terra ( Adamah), non bastano le voci umaneper poter parlare e vivere. Nel suo dialogo vuole coinvolgere tutto l’universo e le sue tante voci. Nelle granditeofanie - e questa del Sinai è certamente una delle più grandi teofanie dell’umanità - solo una sinfonia divoci è adeguata per dialogare con il Dio della voce. Per raccontare che cosa stava accadendo su quel monte,le sole parole umane non bastavano. Non bastavano nemmeno quelle di YHWH: occorrevano anche le altreparole della terraLa natura partecipa agli eventi degli uomini. Non abbiamo altro ambiente dove dar vita alle nostre storie. Maè particolarmente presente durante la celebrazione delle alleanze (Mosè e il popolo qui stanno per rinnovarel’alleanza con YWHW), che sono eventi troppo grandi per poter essere espresse solo con le nostre parole. Ildiscorso della vita è un incontro tra le parole del cielo, quelle degli uomini e quelle della terra.Un matrimonio, un patto ricomposto dopo anni di dolore, coinvolge la natura, la terra, il cielo. E tutto parla eci parla, e tutto entra nelle foto, nei ricordi: e ricordiamo tutto, dettagli umani e naturali. L’arcobaleno dopola pioggia che bagnò la sposa fu un linguaggio forte come le parole e le lacrime che ci eravamo scambiatequel giorno. La fraternità nel mondo è più grande della fraternità tra gli umani: fratello sole, sorella luna.

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Se la natura è creazione, allora è viva, viva come noi; e se è viva comunica, parla, partecipa, accompagnatutte le vicende umane. Ma occorrono occhi capaci di vedere i segni e orecchi capaci di riconoscere questialtri suoni, troppo semplici e veri per essere capiti dalla nostra cultura del virtuale e del consumo.Reimpariamo a guardare la natura con gli occhi dei bambini, dei poeti, dei profeti, dei mistici, che sannovedere e udire diversamente e di più. Perché la terra e ilFigura 12 - Dipinto - rispondeva con una voce» (19,16-19).

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Le levatrici d’egitto/13DIO PARLA PER RICORDARCI LA LIBERTÀ. GLI IDOLI CI FANNO SERVIEcco la sola immagine veraIl Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura: vi era

soltanto una voce. Deuteronomio, 4 ,12È parte della condizione umana la tentazione di ridimensionare il divino e ridicolizzarlo con lenostre immagini. L’unica immagine possibile e vera di Dio è l’uomo vivente Si trova qui ilcuore del Decalogo È il disconoscimento del valore del “sabato”, del giorno della festa, ciòche più dice, oggi, della natura idolatrica del capitalismo che stiamo sperimentando.

Governato da logiche che chiedono alle donne di congelare gli ovuli in cambio di carriera e di monetaAvvenire 2 novembre 2014

La storia umana non è una linea retta uniforme e monotòna. Alcuni eventi possiedono la forza di curvare iltempo, di piegarne, a volte spezzarne, le traiettorie, dischiudendo all’umano nuove dimensioni. La voce delSinai è uno di questi eventi. Quelle parole dette e donate a un popolo di ex schiavi liberati e pellegrini in undeserto, hanno fatto entrare l’umanità in una nuova epoca morale e religiosa. Un’era tutta ancora dacompiere, che resterà sempre incompiuta. Quindi sempre di fronte a noi, ad attenderci, a chiamarci.Alle pendici del Sinai, tutta la terra e tutto il cielo parlano, dialogano tra di loro. L’Adam, l’albero della vita,Abele, Caino e Lamek, Noè, Abramo, Agar, Giacobbe, lo Yabboq, la veste di Giuseppe, le levatrici, ledonne, le piaghe, il mare aperto, Miriam, la manna, Ietro. Ora sono tutti lì, col popolo, di fronte al Sinai. Leparole del Sinai non sono la legislazione di un popolo (Israele). Sono la legge etica di tutti, le parole primeper chiunque voglia essere e restare umano, libero, in cammino verso una promessa: «Elohim pronunciò tuttequeste parole: 'Io sono YHWH, tuo Dio [Elohim], che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizioneservile'» (Esodo 20,1-2). Lo aveva già fatto, parlando dal roveto ardente, ma ora con una nuova solennità edefinitività, l’Elohim, la divinità, rileva al popolo il suo nome: il nome della voce è YHWH. Ci sono semprestate, e ci sono ancora, esperienze religiose che si fermano all’Elohim, a una 'fede' nell’esistenza di un Dioche si trova da qualche parte. Ma se non arriva il giorno in cui quella generica divinità ci rileva il suo nome,la fede non cambia la nostra vita né, tantomeno, quella degli altri.La fede biblica è fede-fiducia-fedeltà in una voce con un nome, che ha chiamato per nome i suoi profeti e chel’uomo ha potuto chiamare per nome. Al di fuori di questo 'incontro di nomi chiamati' ci sono le fediintellettuali della filosofia, o le non-fedi negli idoli.YHWH si presenta come il liberatore dalla schiavitù.Poteva dire molte altre cose ('sono il Dio di Abramo, il creatore del mondo, il donatore della manna neldeserto'…); e invece ha solo detto 'Io sono colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto'. Basta questo breveincipit per dare contenuto al nome di Elohim. Non si comprendono le parole del Sinai, la Torah (Legge),forse l’intera Bibbia, se non li leggiamo dalla prospettiva dei campi di lavoro dell’Egitto e della liberazione:«Non ti farai idolo né immagine alcuna... Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (20,4-5). Non'servirai' (’ bd) gli idoli perché sei stato liberato dalla condizione 'di servo' (’ bd). La liberazione, se è vera, èuna sola. Questo comando anti-idolatrico è una grande rivoluzione religiosa e antropologica, ed è un donoimmenso a difesa di ogni libertà. La Bibbia non ha voluto soltanto separare, con il primo comandamento,YHWH dagli altri dei adorati dai popoli cananei («Non avrai altri elohim sopra il mio volto» (20,3)); havoluto e dovuto far di tutto per evitare che anche il suo Dio fosse trasformato dal popolo in idolo - e non ciriuscirà mai fino in fondo. La proibizione di raffigurare Dio è un inedito che dal Sinai irrompe nella storiadell’umanità, e che non troviamo in nessun altro culto circostante. Ed è meraviglioso, perché dice che l’unicoocchio capace di dare forma visibile alla voce che parla è quello della fede. Un Dio che si vede non habisogno della fede, e quindi è un idolo. Il Dio biblico scompare se visto, o l’uomo muore se lo vede, perchénel momento in cui è visto diventa manufatto o nevrosi, o entrambi. Il comandamento anti-idolatrico è il piùtrascendente, ma è anche quello più al centro dell’esperienza umana. L’uomo è animale spirituale e religioso,perché per vivere non gli basta la terra con le sue cose visibili. Vuole anche l’invisibile. E quindi è espostoper natura all’idolatria, dentro e fuori le religioni, perché l’idolo è a un tempo malattia e sostituzionedell’esperienza religiosa.Il Dio biblico è una voce che parla e che rivela il suo nome. Di più non poteva fare per aiutarci a nondiventare schiavi degli idoli. Ma non poteva fare neanche di meno, perché YHWH è un Dio vicino che persua natura comunica e parla. Parlando e rilevando il suo nome diventa però vulnerabile ed esposto agli abusi.Da qui la terza parola-comando: «Non pronuncerai invano il nome di YHWH» (20,7). La Bibbia non è uno

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dei tanti testi di culti misterici, il cui scopo è confinare il divino in uno spazio sacro inaccessibile, oaccessibile solo ai professionisti del culto. La Bibbia è una ri-velazione, un togliere il velo da Elohim, che da

divinità muta e lontana si fa vicino, parla, e ci dicepersino il suo nome, la sua realtà intima. Anche laconoscenza del nome può produrre idolatria: YWHWpuò essere ridotto a idolo anche attraverso l’usomanipolatorio del suo nome. Tutte le forme di magiausano i nomi per cercare di gestire le divinità.Anche il nome è un volto, e così usandolo possiamocostruirci sue immagini invocandolo 'invano'. Laviolazione del terzo comandamento del nome è unaforma di idolatria tipica dell’uomo religioso, che sa ilnome di Elohim. L’autentica esperienza religiosa èsempre sobria nell’uso del nome di Dio. Una nota diautenticità biblica è la sobrietà nel lessico religioso.Quando Dio e il suo nome vengono 'usati' troppo einvano finiscono per essere 'abusati', e l’esperienzareligiosa si trasforma poco alla volta in idolatria. Dietroal divieto dell’abuso del nome di Dio si cela, ancora unavolta, il grande tema della gratuità (che è l’anti-magia).Il Dio biblico non è idolo perché è tutto gratuità. Sevogliamo incontrarlo veramente e non finire perincontrare uno stupido idolo, dobbiamo allora muovercidentro le coordinate della non-idolatria e della gratuità.Dentro queste coordinate si comprende anche il sabato:«Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei

giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: nonfarai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né ilforestiero che dimora presso di te» (20,8-11). Se inedito è il divieto di riprodurre immagini, altrettantoinedito e stupefacente è il comandamento sul sabato. Forse solo un popolo che aveva conservato vivissima lamemoria della schiavitù dell’Egitto e poi dell’Esilio babilonese poteva comprendere il valore del sabato,porlo a cuore del Decalogo, erigerlo a muro maestro della propria civiltà. La schiavitù, la servitù, i lavoriforzati, sono negazione dell’uomo anche perché negano il riposo, la festa, il valore del non-lavoro. È ildisconoscimento del valore del sabato che più dice oggi la natura idolatrica del capitalismo che stiamosperimentando. La logica del profitto non conosce riposo, e quindi non riconosce più l’umano vero, e cosìarriva a chiedere alle donne di congelare gli ovuli in cambio di moneta. L’esperienza del non-riposo dallavoro in Egitto fu talmente forte e fondamentale da fare inserire al cuore della teofania del Sinai e dellanuova legge del mondo un comandamento sul 'non-lavoro' e sul riposo.Talmente forte e fondamentale da estenderla a tutti gli esseri umani, agli animali, a tutta la creazione; oltregli status, oltre le asimmetrie degli altri sei giorni. La fraternità tra gli abitanti della terra è possibile solo inun mondo liberato dagli idoli.È allora l’Adam liberato, e in esso la liberazione della terra, la nota della prima parte del Decalogo. È la'gelosia' (20,5) per questo capolavoro e culmine della creazione, che ispira quelle prime parole: sei statoliberato dall’Egitto, non tornare più sotto la schiavitù degli idoli. Gli idoli non conoscono e non riconosconoil sabato, né, tantomeno, la domenica. Il loro culto è perenne, e con esso la nostra schiavitù. C’è, infine, uncollegamento esplicito e forte tra il Sinai e i primi capitoli della Genesi. Non solo «perché in sei giorni ilSignore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno» (20,11). Maperché la radice più profonda del divieto di farsi immagini di Dio è la natura dell’Adam: è l’essere umanol’immagine di Dio, è solo lì dove scorgere un riflesso vero di YHWH. Se vuoi trovare un’immagine vera delDio biblico cercala in Andrea mentre lavora nella sua officina, in Fatima che il lavoro lo ha perso, nella salaparto dell’ospedale della tua città, in Giovanna, malata terminale di Alzheimer che riposa in un altro repartodi quell’ospedale. E in tutti i crocifissi. Non troveresti immagine migliore nell’universo.È a partire dall’Adam, immagine e somiglianza di quell’Elohim rivelatosi come YHWH, liberato dagli idolie dal lavoro-forzato, amato con gelosia, che si deve leggere la seconda parte del Decalogo: «Onora tuo padree tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.

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Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuoprossimo. Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né ... alcunacosa che appartenga al tuo prossimo» (20,12-17). Se l’uomo è l’unica possibile immagine di Dio, perchél’unica vera, allora devi onorarlo, non devi ucciderlo, devi rispettarlo, non devi tradirlo nelle sue relazionifondamentali. Le 'dieci parole' del Sinai sono ancora di fronte a noi. Ogni giorno vengono calpestate, gli idolisi moltiplicano, e con essi si riduce la nostra libertà. Ma quell’immagine non si è spenta, l’alleanza del Sinainon è stata revocata. La speranza nell’era della fraternità non può essere vana.Figura 13 - MANIFESTAZIONE. Sebastien Bourdon, «Il roveto ardente»

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Le levatrici d’Egitto/14LA 'LEGGE DEL MANTELLO DEL POVERO' FONDA UN’ALTRA ECONOMIAPuro dono è la dote della terra

Se un uomo ha contratto un debito e se ha dato per denaro moglie, figli, figlie, o se li haconsegnati in servitù, durante tre anni essi lavoreranno nella casa del loro compratore o dicolui che li tiene in servitù; ma nel quarto anno recupereranno la loro libertà - Codice diHammurabiIl cuore dell’umanesimo biblico sta nell’impasto di parole di cielo con parole di terra. E lasaggezza del Libro ci dice che all’indigente non si presta a scopo di lucro, perché non si

specula sulle povertà. Ma nonostante il soccorso fraterno di tanti, troppi poveri sono lasciati “nudi” nellanotte, e muoiono al freddo delle nostre città opulenteAvvenire 9 novembre 2014

Per capire e rivivere, qui ed ora, il grande messaggio delle “dieci parole” donate da Elohim-YHWH, cisarebbe bisogno di unacultura dell’alleanza, di una civiltà delle promesse fedeli, capace di patti, che riconosca il valore del “persempre”. Una grande nota del nostro tempo è invece la trasformazione di tutti ipatti in contratti, una nota che risuona sempre più forte fino a coprire tutti gli altri suoni del concerto dellavita in comune. Lo vediamo con estrema nitidezza nell’ambito dei rapporti familiari, ma anche nel mondodel lavoro, dove le relazioni lavorative che nel XX secolo erano state concepite e descritte ricorrendo alregistro relazionale del patto, oggi si stanno sempre più appiattendo sul solo contratto. Come se la monetapotesse compensare sogni, progetti, attese, la fioritura umana, soprattutto quella dei giovani. Stiamosmarrendo il principio alla base di ogni civiltà capace di futuro: che ai giovani va dato credito, va donatafiducia quando ancora non la meritano perché non la possono meritare. Credito e fiducia ricevuti, chedomani potranno e dovranno a loro volta ridonare ai nuovi giovani. Il lavoro cresce e vive in questa amiciziae solidarietà attraverso il tempo, si nutre di questa reciprocità intertemporale. Senza questa staffetta generosatra generazioni, il lavoro non nasce o nasce male, perché gli manca l’humus della gratuità e dei patti. Ma nonlo capiamo più, e così ci stiamo perdendo. Forse avremmo bisogno di rivedere la nube e il fuoco, riudire iltuono dell’Oreb; avremmo bisogno dei profeti, dei loro occhi, della loro voce.Mentre Mosè ascolta le dieci parole dentro la nube del Sinai, il popolo “vede” i segni della presenza di Dio, eha paura: «Allora dissero a Mosè: “Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimentimoriremo!”».(Esodo 20,19). E Mosè: «Non abbiate paura» (20,20).Ritornano qui, alle pendici del monte, quelle stesse parole – «non abbiate paura» – che aveva pronunciato neipressi del Mare, quando il popolo si sentiva schiacciato tra gli egiziani e il muro delle acque (14,13). I profetisono necessari sempre, ma sono indispensabili nei tempi delle paure collettive.Fuori dall’Egitto, il popolo si sta abituando un po’ alla volta all’idea di un Elohim diverso, che lo ha liberatodalla schiavitù, che lo ama ed è misericordioso. Ma il processo è lungo e difficile, perché l’esperienzareligiosa dell’uomo antico, inclusa quella dei popoli circostanti Israele, è primariamente quella della paura,del timore, della colpa.Occorre sacrificare agli dei gli animali migliori e offrire loro le primizie perché plachino la loro ira e sianobenigni.YHWH sta offrendo al suo popolo un’altra esperienza religiosa, un altro “timore di Dio” (20,20), che dapaura delle divinità diventa sempre più “timore di uscire dall’alleanza con YHWH”. La rivelazione di unaltro volto di Dio è stata un processo lento e accidentato, che si è svolta nel tempo e nello spazio concreti.Questa dimensione storica e geografica della Torah emerge con grande forza e chiarezza nel cosiddetto“Codice dell’Alleanza”, quella lunga e mirabile raccolta di norme, raccomandazioni, leggi, una sorta dicommento, di applicazione e concretizzazione del decalogo. In questi capitoli dell’Esodo si sente l’eco (atratti nitidissima) delle leggi dei popoli semitici, del codice di Hammurabi, e della grande sapienza popolarematurata nel dolore e nell’amore della gente lungo i secoli e i millenni. Quel popolo dal Dio diverso,l’Elohim che parla e non si vede, volle porre quelle parole di sapienza-dolore-amore a corredo delle dieciparole di YWHW, donando loro una dignità altissima. Volle con quelle parole terrestri rispondere al donodelle parole celesti. È la dote della terra, il dono per le nozze dell’Alleanza, la risposta al dono della Legge.L’Alleanza è reciprocità anche perché è un dialogo tra cielo e terra, dove le parole inedite e nuove chesquarciano la nube si incontrano con le parole terrestri fiorite dalle ferite amate della storia dell’Adam, creato

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a immagine della voce che aveva detto le dieci parole. L’Esodo ci dice allora che l’asino sfiancato dal peso,il bue che cozza e uccide, il feto della donna schiava, la festa del raccolto, possono stare vicino al «Non

uccidere» e al «Non ti farai idoli». Tutta parolache salva e libera. Sta qui, in questo impasto diparole di cielo con parole di terra, il cuoredell’umanesimo biblico.Incastonate in questo grande “Codicedell’Alleanza”, si trovano delle autenticheperle eterne di civiltà, che devono arrivaredentro i nostri giorni, per cambiarli oquantomeno scuoterli, per mandare in crisi lenostre certezze. «Quando tu avrai acquistatouno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni enel settimo potrà andarsene libero, senzariscatto» (21,2). Anche in Israele c’erano glischiavi (sebbene, in modo significativo, solo

dopo la monarchia). Anche nel popolo di un Dio che si presenta sul Sinai come liberatore dalla schiavitù, cheè l’anti-idolo perché nemico delle schiavitù, esistevano schiavi. È uno dei paradossi dell’incarnazione dellaparola nella storia, che però ci dice molte cose. Questi schiavi erano persone “acquistate” ( qnh, è un verbousato per gli acquisti in moneta), dei debitori insolventi che perdevano la libertà perché non riuscivano arestituire i prestiti ricevuti. E con loro spesso finivano schiavi anche moglie, figli, e soprattutto figlie (21,3–5).Questa forma di schiavitù per debiti è ancora ben presente e in crescita nel nostro capitalismo, doveimprenditori, cittadini, quasi sempre poveri, precipitano nella condizione di schiavo solo perché non riesconoa ripagare i debiti. E così perdono, ancora oggi, la libertà, la casa, i beni, la dignità, e non di rado anche lavita. Tra gli schiavi per debiti ci sono senz’altro, ieri e oggi, sprovveduti, speculatori maldestri, creduloni; maci sono anche imprenditori, lavoratori e cittadini giusti caduti semplicemente in sventura – la Bibbia ciricorda, basterebbe pensare a Giobbe, che anche il giusto può cadere in sventura, senza nessuna colpa: nontutti i debitori insolventi sono colpevoli. Persone ridotte in condizione di schiavitù non solo dalle mafie edagli usurai, ma anche da società finanziarie e banche protette dalle nostre “leggi” scritte troppo spesso daipotenti contro i deboli. Ma noi, diversamente dal popolo del Sinai, non riusciamo a chiamare per nome(”schiavi”) questi sventurati, e nessuna legge li libera alla scadenza del settimo anno.Eppure quella antica Legge continua a ripeterci da millenni che nessuna schiavitù deve essere per sempre,perché prima di essere debitori siamo abitanti della stessa terra, siamo figli dello stesso cielo, e quindi,veramente, fratelli e sorelle. Perché la ricchezza che possediamo, e che prestiamo ad un altro, prima di esserenostra proprietà privata è dono ricevuto, è provvidenza, perché «mia è tutta la terra» (19,5). Ilriconoscimento che la ricchezza e la terra che possediamo non sono dominio assoluto perché prima sonodono, ispira tutta la legislazione biblica sul denaro e sui beni. Quando, invece, noi oggi pensiamo che lanostra ricchezza sia solo conquista individuale e merito, allora i debiti non vengono mai rimessi, gli schiavinon vengono liberati mai, la giustizia diventa filantropia. Il dominio assoluto dell’individuo sulle sue cose èinvenzione tipica della nostra civiltà, ma non è la logica del Sinai, non è la legge vera della vita.Dentro questa grande cornice vanno lette anche le parole del Codice dell’alleanza sui doveri verso il nemico,il divieto di chiedere gli interessi sul denaro all’indigente, la legge del mantello: «Quando vedrai l’asino dicolui che ti odia accasciarsi sotto il carico, astieniti dal rimuoverlo solo per la bestia, ma lo devi rimuovereinsieme a colui che ti odia» (23,5). Non è sufficiente sollevare l’asino accasciato per pietà verso la poverabestia: quell’incidente deve diventare occasione per la riconciliazione con il fratello-nemico che ti odia.Nessun nemico cessa di essere fratello, e il dolore dell’umile asino deve diventare via di ricomposizionedella fraternità spezzata.«Se tu presti al mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai da creditore, non imporrai su dilui interesse alcuno» (22,24). All’indigente non si presta a scopo di lucro, non si specula sulle povertà. Einvece nel sistema economico che abbiamo costruito fuori dall’Alleanza, sono soprattutto i poveri, non iricchi né i potenti, ad essere ridotti in schiavitù da interessi sbagliati e insostenibili. E il povero continua agridare. «Se veramente prendi in prestito in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderei al tramontodel sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello della sua pelle, con che cosa potrebbe dormire? Avverràche quando griderà verso di me, io lo ascolterò, perché io sono misericordioso» (22,26).

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Dovremmo provare a scrivere una nuova economia a partire dalla “legge del mantello del povero”; almenoimmaginarla, sognarla, desiderarla, se vogliamo essere degni della voce del Sinai. Dovremmo stampare eaffiggere queste parole dell’Esodo sugli stipiti delle nostre banche, sulle porte delle agenzie delle entrate,nelle aule dei tribunali, di fronte alle nostre chiese. Troppi poveri sono lasciati “nudi e senza mantello” nellanotte, e muoiono al freddo delle nostre città opulente. Ma il loro grido non resta inascoltato: sono tanti, ancheoggi, le persone animate da carismi che tutte le sere coprono con i loro mantelli molti poveri delle milleStazioni Termini del mondo. Non sono sufficienti a coprire le troppe pelli ancora denudate di giorno e dinotte. Ma la loro presenza rende vive e vere quelle antiche parole di vita, che così possono parlarci più forte,scuoterci, farci dormire meno tranquilli al caldo dei nostri molti mantelli.Figura 14 - Cosimo Rosselli, «Discesa dal monte Sinai», Cappella Sistina.

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Le levatrici d'egitto/15LA TERRA E IL TEMPO SONO DONO. NON FACCIAMOCELI RUBARE ùIl tesoro del settimo giorno

A Montgomery, Alabama, in una piccola chiesa battista, ascoltai il sermone più straordinarioche avessi mai ascoltato: l’argomento era il libro dell’Esodo e la lotta politica dei neri delsud. Dal suo pulpito il predicatore mimò l’uscita dall’Egitto e ne espose le analogie colpresente; piegò la schiena sotto la frusta, sfidò il Faraone, esitò timoroso davanti al mare,accettò l’alleanza e la legge ai piedi della montagna.

M. Walzer, Esodo e rivoluzioneIl nostro umanesimo ha radici salde: non siamo noi i padroni del mondo e i veri beni portano il segno dellagratuità. Va ricompresa e resa attuale la «legge del maggese» e del settimo giorno: ogni proprietà èimperfetta, ogni dominio è secondo, nessun straniero è veramente e soltanto straniero, nessun povero èpovero per sempre, c'è sempre un giorno di Dio e della comunità che non è uguale agli altriAvvenire16 novembre 2014

Gli umanesimi che si sono mostrati capaci di futuro, sono fioriti grazie a rapporti non predatori con il tempoe con la terra. Il tempo e la terra non li produciamo; li possiamo solo ricevere, custodire, accudire, gestire,come dono e promessa. E quando non lo facciamo, perché usiamo tempo e terra a scopo di lucro, l’orizzontefuturo di tutti si annuvola e si accorcia.L’umanesimo biblico aveva tradotto questa dimensione di radicale gratuità del tempo e della terra con lagrande legge del sabato e del giubileo, con la cultura del maggese: «Per sei anni seminerai la tua terra e neraccoglierai il prodotto, ma il settimo anno la lascerai riposare e la lascerai incolta; mangeranno i poveri deltuo popolo e ciò che resta lo mangeranno le bestie della campagna.… Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno ti cesserai, perché possano riposare il tuo bue e tuoasino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero» (Esodo 23,10-12).Non siamo noi i padroni del mondo. Lo abitiamo, ci ama, ci nutre e ci fa vivere, ma siamo suoi ospiti epellegrini, abitanti e possessori di una terra tutta nostra e tutta straniera, dove ci sentiamo a casa e viandanti.La terra è sempre terra promessa, mèta di fronte a noi e mai raggiunta. E lo è anche la terra su cui abbiamocostruito la nostra casa, quella del nostro quartiere, quella dove cresce il grano del nostro campo.Alle radici della cultura biblica del maggese non c’è solo una tecnica saggia e sostenibile di coltivazionedella terra. Nell’Esodo il maggese lo troviamo assieme al sabato e al giubileo, ed è quindi espressione di unalegge più profonda e generale che riguarda la natura, il tempo, gli animali, le relazioni sociali, è profeziaradicale di fraternità umana e cosmica. Puoi usare la terra sei giorni, non il settimo; puoi farti servire dallavoro di altri uomini per sei giorni, non il settimo. Puoi e devi lavorare, ma non sempre, perché semprelavoravamo quando eravamo schiavi in Egitto. L’animale domestico lavora sei giorni per te, ma il settimonon è per te. Il forestiero non è forestiero tutti i giorni, nel settimo è persona di casa con e come tutti. C’è unaparte della tua terra e della tua “roba” che non è tua, e che devi lasciare all’animale selvatico, allo straniero,al povero. Ciò che hai non è tutto e soltanto per te.Appartiene anche all’altro da te, che non è mai così “altro” da uscire dall’orizzonte del “noi”. Tutti i veri benisono beni comuni.Ma se sulle cose e sulle relazioni umane c’è impresso uno stigma di gratuità, allora ogni proprietà èimperfetta, ogni dominio è secondo, nessun straniero è veramente e soltanto straniero, nessun povero èpovero per sempre. Il cristianesimo ha, profeticamente, mandato in crisi la “lettera” della legge del sabato,ma non per ridurre il settimo giorno agli altri sei. Nel “regno dei cieli”, dove i poveri sono chiamati felici e iservi amici, i primi sei giorni sono chiamati a convertirsi alla profezia di gratuità e di fraternità universaleracchiusa nell’ultimo.La legge del settimo giorno ci dice allora che gli animali, la terra, la natura non hanno valore solo in rapportoa noi umani, valgono anche in se stessi.La terra e il lago vanno rispettati, e quindi lasciati riposare liberi dal nostro imperio e dal nostro istintoacquisitivo, non solo perché i loro frutti saranno per noi più sani e buoni: vanno rispettatati per il loro valoreintrinseco e per la loro dignità, che dovremmo riconoscere e non oltraggiare anche quando una terra non èmessa a cultura, e quando in un lago non c’è nessun pesce da pescare. Perché i campi, i laghi, i boschi sonocreazione e dono, come lo siamo noi umani, gli animali, il mondo. È la fraternità della terra la legge cheispira il maggese, il sabato, il giubileo.

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La diversità radicale del settimo giorno ci ricorda, poi, che le leggi dei sei giorni, quelle delle asimmetrie edelle diseguaglianze, non sono né le uniche né le più vere, perché il settimo giorno è il giudizio sulla

giustizia e sull’umanità degli altri sei.Il grado di umanità e di civiltà vera di ognisocietà concreta si misura sulla base delloscarto tra il sesto e il settimo giorno. L’ultimogiorno diventa allora la prospettiva da cuiguardare e giudicare gli altri sei, la loroqualità etica, spirituale, umana.Quando manca il settimo giorno, il lavorodiventa schiavitù per chi lavora, servitù eassenza di respiro per la terra e per glianimali; il forestiero non diventa mai fratello,il povero solo scarto e mai redenzione di sé edella città. Gli imperi hanno sempre tentato dieliminare l’idea stessa del settimo giorno el’utopia concreta in esso contenuta, pensando

così di eliminare il giudizio sulle ingiustizie da loro perpetrate nel sesto – è bello pensare che mentre isacerdoti ebrei scrivevano il libro dell’Esodo, o almeno alcuni brani di esso, si trovavano schiavi inBabilonia, senza sabato. Per questo lo amavano e lo desideravano come grande speranza e promessa dilibertà da tutti gli idoli e da tutti gli imperi, e come giudizio sul loro tempo: la profezia di un “giorno”diverso è sempre rinata nelle sofferenze e nelle schiavitù, e può rinascere ancora.Finché salviamo la profezia del settimo giorno teniamo viva la speranza degli umili e degli oppressi e di tutticoloro che non si accontentano delle schiavitù e delle umiliazioni dei sei giorni della storia. E diciamo chevogliamo che quelle ingiustizie non siano per sempre.La legge del settimo giorno interpella tutte le dimensioni della vita. Come singole persone ci invita a nonconsumarci e non possederci fino in fondo, a lasciare spazio nella nostra anima non occupato dai nostriprogetti, perché vi possano fiorire semi che non sappiamo di ospitare. Senza questa dimensione di gratuità edi rispetto del mistero che siamo, alla vita manca quello spazio di libertà e generosità dove vive l’humusspirituale che fa maturare il “già” nel “non-ancora”. È il luogo intimo e prezioso della generatività piùfeconda. È lì, nella terra libera perché non “messa a reddito” per noi, dove ci raggiungono le grandi sorpresedella vita che la cambiano per sempre, dove nasce la creatività vera. È dal quel pezzo di terra incolta e nonsfruttata del giardino che riusciamo a vedere la linea più alta dell’orizzonte tra cielo e terra, dove i nostriocchi malati di infinito si distendono e trovano finalmente riposo.Ma la logica del maggese (da maggio, il mese in cui nel mondo romano si lasciavano riposare i campi) dicecose importanti anche alle comunità e alle istituzioni. Una comunità senza maggese non ha tempo per lafesta, non è accogliente, si impossessa delle persone e dei beni, non conosce la fraternità, e quindi non vi sisente il soffio del “respiro” dello spirito. Dove, invece, è presente i suoi indicatori sono chiari e forti: legerarchie e il potere durano solo sei giorni, la gratuità della festa e l’efficienza del lavoro hanno la stessadignità. I bambini e i poveri si sentono sempre a casa, perché ci sono zone della case non occupate e lasciatelibere per loro.La cultura del maggese non è la cultura del capitalismo che sperimentiamo, che per la sua natura idolatricavive di un culto perenne e totale, che ha bisogno di consumatori-lavoratori sette giorni su sette: «Fareteattenzione a quanto vi ho detto: non pronunciate il nome di altri dèi» (23,13). E così una grande indigenzadella nostra generazione, forse la più grande, è la morte del settimo giorno, che è stato fatto scomparire dalnostro codice simbolico collettivo. Perché il valore del settimo giorno non è solo un settimo del totale: èlievito e sale di tutti gli altri, che senza di esso restano sempre e tutti azzimi e sciapi. È soltanto il non-giogodel settimo giorno che rende sostenibili, persino leggeri e soavi, i gioghi di tutti gli altri.Ci siamo lasciati rubare il settimo giorno, lo abbiamo barattato con la cultura del week-end (dove i poverisono ancora più poveri, gli animali ancora più soggiogati, gli stranieri ancora più stranieri). E la notte delsettimo giorno sta inesorabilmente abbuiando gli altri sei. La terra non respira più, e a noi manca la sua aria.Abbiamo il dovere di ridonarle e ridonarci respiro, di ridonarlo ai nostri figli che hanno diritto a vivere in unmondo con un giorno diverso in più, a rifare l’esperienza del dono del tempo e della terra.Ma possiamo ancora sperare. La profezia del settimo giorno non è morta, la Bibbia l’ha custodita per noi.Con essa ha custodito il suo giudizio sui nostri sei giorni diventati sette tutti identici, e ha conservato, sempreper noi, la sua promessa. La parola è viva, genera e ci rigenera sempre. Ci ridona tempo e terra, ci allarga gli

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orizzonti, ci fa sentire e vedere cieli più limpidi: «Mosè salì con Aronne, Nadab, Abiu e i settanta anzianid’Israele. Essi videro il Dio d’Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di lapislazzuli,limpido come il cielo» (24,9-11).Figura 15 - L’Angelus, J. F. Millet (1855). Parigi, Museo del Louvre

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Le levatrici d’Egitto/16LA BANALITÀ DEGLI IDOLI TRIONFA QUANDO I PROFETI SONO ASSENTILa voglia di intrappolare Dio

Il re Geroboamo preparò due vitelli d’oro e disse al popolo: «Siete già saliti troppe volte aGerusalemme! Ecco, Israele, i tuoi dèi che ti hanno fatto salire dalla terra d’Egitto». Necollocò uno a Betel e l’altro lo mise a Dan. Questo fatto portò al peccato; il popolo, infatti,andava sino a Dan per prostrarsi davanti a uno di quelli Primo libro dei Re, 12Il vitello d’oro non è un altro dio: il suo nome è YHWH. È la Voce ridotta a nostra comodamisura. Ma la Bibbia ci salva dall’inevitabilità dell’idolatria, custodendo per noi un’idea di

Dio incontenibile nei nostri manufatti E finché YHWH resta YHWH e il vitello resta un idolo, possiamoconvertirciAvvenire 23 novembre 2014

La fede biblica non è necessaria soltanto agli uomini: serve anche a YWHW per non essere trasformato in unidolo, per non tornare un ordinario Elohim senza nome. Sul Sinai sì è operata una rivoluzione antropologica,culturale, sociale di portata epocale. Lì l’umanità ha raggiunto un nuovo stadio nel suo processo diumanizzazione, grazie a una esperienza religiosa radicalmente altra da quella che facevano popoli diversi,con i loro dèi semplici o con i loro muti idoli di legno. Ma alle pendici di quello stesso monte si è svoltaanche la più grande crisi del popolo uscito dall’Egitto in cammino verso la terra promessa, che contiene unostraordinario insegnamento sulla malattia più grave di ogni esperienza religiosa o ideale: la sua riduzione aidolatria. La trasformazione di YHWH in un toro aureo è un messaggio forte rivolto a tutte quelle persone,comunità, istituzioni che sono date da un 'carisma', che sono stati raggiunte e abitate da una voce che le hachiamate a un compito, che ha annunciato loro una promessa diversa e più grande. In queste esperienze e inqueste persone è sempre forte il fascino di ridimensionare e normalizzare la chiamata e la promessa, diridurre il mistero a banale evidenza – un fascino-tentazione che agisce e opera per tutta la vita, e diventaparticolarmente tenace nella sua ultima fase.Il Dio che si era rivelato a Mosè non si vedeva, non si toccava, non appagava i sensi. Nemmeno Mosè lovedeva (lo vedrà solo un attimo, e di spalle), ascoltava solo la sua parola. YHWH era, e continua a essere,una voce.Tutti gli altri popoli avevano dèi con immagini chiare, naturali, immediate. Tutti tranne il popolo di Israele,che aveva ricevuto il dono dell’Alleanza da un Dio tutto diverso e tutto nuovo. Per 'vederlo' e 'sentirlo' c’erabisogno di una duplice fede: in Mosè e nella voce che gli parlava. La lotta religiosa più difficile di Israelenon è stata quella combattuta per non abbandonare YWHW per darsi agli dèi (Baal o Astarte). YHWH eranelle radici del popolo, ne custodiva la stessa identità, e anche dopo i tradimenti il popolo riusciva a tornareal suo solo e unico Dio. La sua grande tentazione è stata un’altra: perdere la novità della sua fede, ridurrequel Dio diverso e nuovo in un dio più facile, più comprensibile, più gestibile col solo buon senso e piùsemplice da raccontare agli altri e a se stesso. È questo il grande e forse il principale messaggio dell’episodiodel 'vitello d’oro', uno dei racconti più straordinari e centrali dell’intera Bibbia. Quel vitello costruito daAronne e dal popolo alle pendici del Sinai, non è un altro dio, né un idolo: il nome del vitello manufatto èYHWH: «Allora dissero: 'Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto!'. Ciòvedendo, Aronne costruì un altare davanti al vitello e proclamò: 'Domani sarà festa in onore diYHWH'»(Esodo 32,4-5).Dopo il dono del decalogo, del codice dell’Alleanza, del settimo giorno, Mosè scende dal Monte per ricevereil 'sì' solenne del popolo all’alleanza: «'Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!'» (24,3 ). E quindi, «di buon mattino» (23,4), risale sul monte richiamato dalla stessa voce, come fece Abramoquando salì sul monte Moria con Isacco, o come quando si alzo «di buon mattino» per preparare Ismaeleprima di abbandonarlo, con la madre Agar, nel Deserto di Sur: «Mosè entrò in mezzo alla nube e salì sulmonte. Mosè rimane sul monte quaranta giorni e quaranta notti» (24,18). Mosè resta a lungo sul Sinai, riceveda YHWH istruzioni dettagliatissime sulla costruzione dell’arca, del tempio, dell’altare, del candelabro, sugliabiti dei sacerdoti (capp. 25-31), indicazioni che terminano con il dono delle tavole di pietra (31,18). Ilvitello viene eretto durante l’assenza di Mose, che «tardava a tornare». Noi, lettori della Bibbia, sappiamodunque che Mosè rimane sul monte per quaranta giorni e poi scende. Il popolo però non sapeva né se néquando sarebbe tornato. E se vogliamo rifareveramente l’esperienza del popolo, se vogliamo sentire il fascino sbagliato ma forte del dio semplice evisibile, e poi imboccare nuovamente, feriti, la via di casa, dobbiamo anche questa volta leggere queste

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pagine come fosse la prima volta. Non dobbiamo sapere se il Dio d’Israele resterà per sempre intrappolatonel vitello d’oro, né se e né quando tornerà Mosè.

Così, mentre sopra il monte si svolge il dialogo sullacostruzione dell’arca e del santuario, il popolo inbasso fa esattamente l’opposto di quanto avevasolennemente promesso a Mosè-YHWH pochigiorni prima («Tutti i comandamenti che il Signoreha dato, noi li eseguiremo!»).Nell’assenza del suo profeta, e nell’incertezza delsuo ritorno, il popolo che aveva visto i segni e lanube sul monte, Aronne, i settanta anziani cheavevano addirittura 'visto' Dio, danno un’immagineal loro Dio: «Il popolo, vedendo che Mosè tardava ascendere dal monte, fece ressa intorno ad Aronne egli disse: 'Fa’ per noi un dio che cammini alla nostratesta, perché a Mosè, quell’uomo che ci ha fattouscire dalla terra d’Egitto, non sappiamo che cosasia accaduto'... Tutto il popolo tolse i pendenti checiascuno aveva agli orecchi e li portò ad Aronne.Egli li ricevette dalle loro mani, li fece fondere in

una forma e ne modellò un vitello di metallo fuso» (32,1-4). Il liberatore, il Dio della voce, il Dio diverso,viene trasformato in uno stupido vitello costruito con il loro oro che doveva costruire la sua Arca (25,3).Gravissima è l’adorazione del vitelloidolo; più grave ancora è l’adorazione del vitello-YHWH.Il popolo d’Israele ha fatto sempre una grande fatica a salvare la sua religione-fede diversa. Il suo è il Diodella vita che però non può essere rappresentato con i simboli della vita e della fertilità (tori, donne); è il Diodella voce che però solo Mosè riesce ad ascoltare; è il Dio che ha svelato il suo nome, un nome peròimpronunciabile.Troppo diverso, troppo nuovo. La principale fatica e il travaglio più grande di chi – persona o comunità – haricevuto una vocazione – artistica, civile, scientifica, religiosa... – non è resistere alla tentazione di imitare levocazioni degli altri (c’è anche questa, ma non è la più pericolosa quando la vocazione è vera), quantopiuttosto di ridurre o eliminare il portato specifico della chiamatacarisma ricevuta. Perché durante le crisi – edurante l’assenza dei profeti – è sempre forte la seduzione di semplificare e normalizzare il proprio compitoe la propria vocazione. La possibilità di perdere la fede nel dono che si è ricevuto, la fiducia in quel dono conun nome e con una voce. La fede, questa fede, è anche esperienza tutta antropologica: è continuare a crederealla parte migliore di sé, di noi, a non ridurla ai gusti dei 'consumatori' e dei 'clienti', di contenerla tuttadentro l’orizzonte dei nostri limiti – anche per questa ragione una cultura senza una fede non riesce a fiorire.Chi ha ricevuto una vera vocazione sa e sente che quella vocazione-carisma è iscritta nel proprio essere. Nonsi esce da questo tipo di vocazione 'identitarie'. Qui la tentazione vera e più subdola è allora ridurla ad altro,lasciarle il 'nome' cambiandone il contenuto. Si esce da una alleanza, da una chiamata, da un carisma nonsolo andandosene: l’uscita senza ritorno è quella di chi resta in qualcosa di diverso che però continua achiamare con l’antico nome della giovinezza. In queste uscite-senzauscita non si torna più 'a casa'. FinchéYHWH resta YHWH e il vitello resta un idolo, è possibile convertirsi anche dopo lunghe stagioni dilontananza. È quando riduco YWHW a vitello che la possibilità della conversione è persa per sempre, chenon è più possibile nessuna conversione e nessuna ri-conversione. Possiamo sperare di tornare a casa finchénon perdiamo la capacità di distinguere le ghiande dei maiali dal cibo della tavola paterna. Dalla strada cheabbiamo imboccato per seguire le seduzioni dei nostri idoli si può tornare sempre indietro verso casa, perchéla via di ritorno è viva nelle carni della nostra nostalgia di verità. È dalla vocazione-carisma ridotta a nostraimmagine e somiglianza che non c’è via di ritorno, perché non c’è più nessun luogo verso cui tornare. Si puòtornare a riamare la verità finché la distinguiamo dalla bugia, degli altri e nostra. La fatica di chi custodisceuna vocazione è non chiamare con il nome della prima voce i nostri comodi e innocui manufatti che nelfrattempo abbiamo fabbricato, anche quando quei manufatti nel tempo erano diventati gli unici compagni pernon morire di solitudine.Ivitelli d’oro arrivano quasi sempre durante l’assenza dei profeti. È anche questo un messaggio forte diquesto grande capitolo dell’Esodo. L’idea giusta e vera di Dio e di noi stessi è molto legata al volto raggiantedei profeti che rischiarano le nostre giornate e le nostre anime. Finché essi ed esse sono in mezzo a noi,

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riusciamo a intravvederesenza- vedere il volto vero di Elohim e il nostro, a percepire qualche suono della suavoce buona e vera fuori e dentro di noi, a riconoscere segni di vita e di fecondità ovunque.Quando invece mancano, arrivano i vitelli d’oro a colmare un vuoto che diventa troppo grande. Forse oggiavremmo meno idoli e meno servitù se i 'profeti' fossero stati più presenti nella politica, nell’economia, neiluoghi ordinari del vivere. La Bibbia ci ha salvato dall’inevitabilità dell’idolatria custodendo per noi un’ideadi Dio non ridotta alla misura dei nostri manufatti. Ma senza la presenza e senza i volti dei profeti finiamoper trasformare le fedi in idolatrie, le vocazioni in semplici mestieri, di perdere la via di casa.Tornate profeti, scendete dal monte. Non fermatevi nei templi e nei santuari: scendete fino alle nostre piazze,alle nostre scuole, arrivate dentro le nostre imprese ferite.Tornate a parlarci del vostro Elohim diverso, a liberarci dai nostri culti troppo banali per poter essere buoni,veri, liberatori.Figura 16 - . A. Danducci, «Adorazione del vitello d’oro», 1602

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Le levatrici d’Egitto/17I PROFETI PLACANO PERSINO DIO. E NON DISSIMULANO GLI ERRORIIl peso delle parole comuni

Con l’ebraismo condivido il viaggio, non l’arrivo. Non in terra promessa, la mia residenzaè in margine all’accampamento… Scegliessi un dove e un come di nascita, ribadirei glistessi: al Sinai, da straniero. Erri De Luca, E disseQuando mancano profeti, carismi e artisti, il mondo si riempie necessariamente di idoli.I leader, gli imprenditori, i politici, i sacerdoti, diventano “dei” per i loro seguaci,

dipendenti, elettori, fedeli. In assenza di un cielo più alto, il soffitto delle loro case diventa per tuttil’orizzonte ultimo. Una grande tentazione del nostro tempo idolatrico è svuotare le parole della loro verità.E responsabilitàAvvenire 30 novembre 2014

Senza profeti, carismi e artisti siamo destinati all’adorazione perpetui di vitelli d’oro.Ridurremmo le religioni a idolatrie, le comunità religiose a consumismo spirituale, l’opera d’arte a puramerce. Questi testimoni di 'gratuità per vocazione' ricordano con la loro sola esistenza la natura di dono dellavita, perché ci costringono ad alzare lo sguardo al di sopra di essi se vogliamo trovare la sorgente dei doniche li abitano. Il profeta sa di parlare in nome di un Altro, e ci dice che non è lui/lei che ci libera dal faraoned’Egitto. L’artista sa di non essere il padrone della parte migliore di sé, e che il dono che custodisce non èsua proprietà (e quando se ne appropria muoiono il dono e l’artista).Quando mancano profeti, carismi e artisti, il mondo si riempie necessariamente di idoli. I leader, gliimprenditori, i politici, i sacerdoti, diventano 'dei' per i loro seguaci, dipendenti, elettori, fedeli. In assenza diun cielo più alto, il soffitto delle loro case diventa l’orizzonte ultimo dell’esistenza di tutti. Per evitare diridurre YHWH a vitello non bastano i sacerdoti (Aronne), non è sufficiente la saggezza dei padri (glianziani). Senza i profeti anch’essi finiscono per costruire col popolo il dio d’oro, per adorarlo, per fare danzee feste in suo onore.Mentre il popolo è immerso nei festeggiamenti al suo nuovo YWHW, finalmente ridotto a un dio semplice ebanale, Mosè è sul monte in dialogo col suo Dio diverso: «Va, scendi, perché il popolo che hai fatto usciredal paese d’Egitto si è pervertito» (Esodo 32,7).YHWH gli annuncia la sua decisione di punire il popolo: «Lasciami in pace, perché la mia ira si accendacontro di loro e li divori». E rinnova la promessa al solo Mosè: «Di te invece farò una grande nazione»(32,10). È dentro questa grande crisi della storia di Israele che inizia uno dei passaggi più belli della Bibbia,che ci fa capire ancora di più che cosa sia una autentica vocazione profetica, e ci apre un altro squarcio sul'volto' del Dio biblico.Mosè invece 'non lascia in pace' YHWH, non accetta la sua decisione. Non gli basta salvare se stesso, vuoleessere solidale col suo popolo traditore: «Mosè placò il volto di YHWH, suo Dio, e disse: 'Perché sidovrebbe accendere la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dal paese d’Egitto? ... Desistidall’ardore della tua ira e pentiti dal male minacciato al tuo popolo.Ricordati di Abramo, di Isacco, di Israele'» (32,11-13).Durante il tradimento più grande è la parola di un uomo, quella di Mosè, che lo fa pentire, gli fa ricordare isuoi atti e la sua promessa. E accade l’impensabile, qualcosa di impossibile al dio della filosofia, ma non alDio biblico: «YHWH si pentì del male che aveva detto di fare al suo popolo» (32,14).Al profeta, però, non interessa la sua salvezza individuale, perché il senso stesso della sua esistenza è lasalvezza di un popolo. Mosè non partì dal roveto dell’Oreb verso l’Egitto per cercare la sua felicitàpersonale. I profeti sono così: si salvano solo salvando gli altri, a loro non interessa la propria realizzazione.E non interessa per vocazione e natura, non per altruismo né per filantropia. Il senso della loro vita è un altro.La ricerca della felicità individuale, posta al centro dell’umanesimo moderno, non è la molla che muove iprofeti. Essi ci sono perché devono e vogliono svolgere un compito.Questa nota della vocazione profetica la ritroviamo anche nei carismi e, in un certo senso vero, negli artisti.Chi ha ricevuto in dono un carisma – civile, spirituale, politico... – sente di avere un talento da trafficare inattesa del 'ritorno' del datore dei doni, che chiederà soltanto se i talenti sono moltiplicati. Non gli sarà chiestose è stato più o meno felice durante la sua vita, ma se quei talenti hanno portato frutto. Non ha ricevuto undono per il proprio 'consumo' ma per moltiplicarlo e 'produrne' altri per altri. Anche l’artista vive qualcosa dimolto simile. Ha ricevuto una vocazione che è tutta gratuità, un dono che ospita in sé e che deve accudire eservire. Il profeta non si salva senza il suo popolo, il carismatico si smarrisce senza la sua comunità e senza i

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poveri, l’artista senza la sua arte e le sue opere. La gratuità non potrebbe diventare esperienza sociale,politica, economica se non ci fossero profeti, carismi e artisti che ce ne svelano la natura. Il momento

cruciale nella loro vita, è però la prova del 'vitellod’oro', quando il senso ultimo e unico della propriavocazione si perverte. Il mondo continua ad andareavanti e a non morire perché profeti, carismi e artistiriescono a essere solidali anche col popolo guastato,con comunità che si sono smarrite, con il propriotalento spento e silente.L’ Esodo ci dice che la presenza e l’azione dei profetipossono far pentire persino Dio, possono smorzare eplacare gli effetti delle nostre parole e dei nostri gestiperversi. Ma ci dice anche qualcos’altro: neanche iprofeti possono evitare che le nostre parole e i nostrigesti siano realtà vive e quindi producano conseguenze.Il giorno in cui il popolo sotto il Sinai decise di negaree di spezzare l’alleanza riducendo YHWH a manufattodi metallo fuso, quel vitello, quelle danze e quelle festesbagliate sono comparsi sulla scena del mondo.Nessuno può negare questa loro esistenza, nessuno puòcancellare le conseguenze di quegli atti compiuti e di

quelle parole pronunciate nei giorni del toro aureo. Neanche YHWH. Perché se riuscissimo a negarlarimpiccioliremmo troppo la nostra dignità e la nostra libertà, e negheremmo la nostra vocazione. L’immaginedi sé impressa da Elohim nell’Adam si esprime anche nella sua capacità di tradire, di tradirsi e di subirne poile conseguenze, nel suo dovere etico di dover rispondere per i gesti che fa, per le parole che dice. Di essereresponsabile.La parola è efficace – è questo un grande principio della Bibbia –, anche quando quella parola è sbagliata,idolatrica, sleale. Tra tutte le parole, quelle pronunciate assieme hanno uno statuto particolare e forte. Lealleanze e i patti sono, per loro natura, atti sociali efficaci, eventi che cambiano per sempre la nostra vita. Ilmatrimonio, la fondazione di una comunità, lasciano tracce nelle nostre carni individuali e collettive, leincidono e le trasformano. I patti possono essere sciolti e le alleanze possono essere rotte, ma i segni che cihanno lasciato restano per sempre. E se le parole e i gesti dei patti ci cambiano indipendentemente dallanostra fedeltà, anche i tradimenti e le rotture dei patti producono effetti in noi e attorno a noi, vivono di vitapropria.I grandi perdoni possono sanare anche le ferite relazionali più profonde, ma gli effetti operati da queltradimento restano vivi perché la storia è vera e non è inganno. Il prezzo da pagare affinché un incontro didue 'sì' pronunciati crei una nuova realtà, perché parole dette su pane e vino li trasformino in cibo e bevandadi vita eterna, è la verità degli effetti dei nostri 'no'. Un prezzo comunque giusto e buono, perché l’unicaalternativa possibile al mondo delle parole efficaci e della nostra responsabilità è il regno del vitello d’oro edi tutti gli idoli, un mondo dove tutti i 'sì' e tutti i 'no' sono solo fiato, perché tutte le parole sono false. Unagrande tentazione del nostro tempo idolatrico è svuotare le parole della loro verità. Non abbiamo più le virtùche ci fanno capaci di assumerci tutte le conseguenze delle parole che diciamo, ma invece di convertirci ecercare di tornare responsabili, preferiamo ridurre le parole a chiacchiere, a soffi di vento che possiamosmentire, ritirare, cancellare perché hanno perso ogni contatto con la realtà, e noi con esse.È solo dentro questa cultura della parola e delle parole efficaci che si comprende la scena che si compie sottoil monte, quando Mosè scende dal Sinai e vede lo spettacolo che si sta svolgendo attorno al vitello: «Quandosi fu avvicinato all’accampamento, vide il vitello e le danze. Allora l’ira di Mosè si accese: egli scagliò dallemani le tavole, spezzandole ai piedi della montagna. Poi afferrò il vitello che avevano fatto, lo bruciò nelfuoco, lo frantumò fino a ridurlo in polvere, ne sparse la polvere nell’acqua e la fece bere agli Israeliti»(32,19-20). E così «I figli di Levi agirono secondo il comando di Mosè e in quel giorno perirono circatremila uomini del popolo» (32,26).Mosè aveva ottenuto il pentimento di YHWH, ma per sperare una 'nuova alleanza', doveva correggere edeliminare gli effetti prodotti dal tradimento del popolo.Il perdono e il pentimento di YHWH non era sufficiente per poter ricominciare. Mosè doveva fare altri gestie dire altre parole, perché se non lo avesse fatto avrebbe negato la differenza tra il vitello di metallo e il suoDio, che non è un idolo anche perché prende sul serio le nostre parole e i nostri gesti, e così li riempie di

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realtà e di verità. Gli idoli non ci puniscono, non si pentono, né fanno alleanze con noi, perché sono soltantofantocci.L’inevitabile efficacia delle conseguenze delle nostre azioni ci dice che la storia nostra e quella degli altrinon è inganno, e che il mondo è vero. I profeti, che sanno placare Dio, curano le alleanze che noi abbiamospezzato, e ci danno la possibilità di ricominciare anche dopo le costruzioni dei vitelli d’oro. Stanno anchequi la bellezza e l’amore della vita e del mondo.Figura 17 - . de Champaigne, «Mosè presenta le tavole della legge»

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Le levatrici d’Egitto/18PROMESSE E PATTI FANNO LA SPERANZA, LA 'SEQUELA' LI REALIZZALe spalle e il volto di Dio«Gloria» è presenza troppo violenta per i sensi dell’uomo. Iod (YWHW) lascia attraversare il volto di Mosè

dalla brezza forse tollerabile di un’altra sua emanazione, la bontà. Per quanto immensa, essanon è più di una carezza per l’uomo. Erri de Luca, Esodo–NomiSe la prima casa di YHWH fu una tenda, anche l’ultima non sarà un grande tempio, maqualcosa di piccolo e umile come quella prima tenda. Umile è anche l’esercizio di chi cercala presenza di Dio nel mondo: saperlo riconoscere nei suoi beni senza, però, trasformare ibeni in dio. È possibile che Lui passi in mezzo a noi e noi non ce ne accorgiamo solo perché

lo vediamo da dietro, vediamo la sua “bontà” e non la sua “gloria”

Avvenire 7 Dicembre 2014

La speranza vera di poter ricominciare dopo le grandi crisi si trova attingendo alle parole più vere cheabbiamo detto nei momenti migliori della nostra vita, ai gesti più grandi e generosi che abbiamo fatto,ritornando alle promesse delle madri e dei padri che ci hanno generato. Ma senza la presenza dei profetiquesto 'ritorno' non si compie, o si compie a costi troppo alti. Mosè sopra il monte Sinai riesce a ottenerepersino la 'conversione' di YHWH ricordandogli le sue parole più grandi e l’antica e mai smentita promessaai padri: «Ricorda Abramo, Isacco, Israele ai quali hai giurato in te e hai detto loro: renderò numeroso ilvostro seme come le stelle del cielo» (Esodo 32,13). Se oggi riusciamo ancora a lavorare e a vivere dentro un

certo benessere, lo dobbiamo in grande misura allepromesse e ai patti che i nostri padri e le nostre madri sisono fatti gli uni gli altri. Promesse e patti che hannogenerato la Repubblica, le cooperative, le imprese, leistituzioni, le cattedrali. Ma prima ancora le loro promessenuziali, che ci hanno consentito di crescere accuditi eamati nei primi anni di vita, quelli davvero decisivi, unaccudimento e un amore che ci hanno fatto diventare poianche buoni lavoratori e cittadini. Promesse mantenutespesso a costi molto alti, perché quei 'per sempre' fedelierano pronunciati dentro una cultura dove la felicità piùimportante era quella dei figli, non la propria - una veritàche ha fondato e alimentato nei secoli la nostra civiltà, eche tre soli, piccoli decenni di edonismo individualistaminacciano di spazzare via.«E Mosè era solito prendere la tenda e la piantava fuoridall’accampamento, lontano dall’accampamento, e lachiamava Tenda del convegno … E avveniva che quandoMosè usciva verso la tenda, tutto il popolo si alzava eognuno stava in piedi all’ingresso della propria tenda e

seguivano con lo sguardo Mosè, finché non fosse entrato nella tenda. E avveniva che quando Mosè entravanella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda e parlava con Mosè» (33,7-8). Ilprimo tempio di YHWH sulla terra è stata una tenda mobile. Mosè aveva ricevuto istruzioni dettagliatissimesu come costruire l’arca e il grande tempio, ma la prima casa di Dio fu un’umile e semplice tenda. E se laprima casa di YHWH fu una tenda, anche l’ultima non sarà un grande tempio dorato e potente, ma qualcosadi piccolo e umile come quella prima tenda. Le grandi cattedrali e i grandi e dorati templi sono cose secondee penultime, perché la prima e l’ultima parola sul 'convegno' tra gli uomini e Dio sono quelle pronunciatesotto una piccola tenda mobile fuori e lontano dall’accampamento. L’Esodo, allora, non ci dice soltanto chela condizione umana è nomade e pellegrina: ci dice anche che la casa di Dio è nomade e pellegrina su questaterra.Dentro quella piccola, mobile e umile tenda avviene però il convegno più impensabile per gli umani: «EYHWH parlava con Mosè faccia a faccia così come parla un uomo al proprio compagno» (33,11). Questaidea di Dio-amico ci giunge come un inedito assoluto - la filosofia greca (Aristotele) non ammetteval’amicizia ( philia) tra uomo e Dio, proprio per sottolineare e salvare l’asimmetria di questa relazione. Il Dio

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biblico può invece essere chiamato 'amico' da Mosè, da un uomo, e per questo resterà sempre esposto alrischio dell’abuso più grande: l’idolatria. Per questa ragione mentre ci annuncia questo dialogo 'faccia afaccia', l’Esodo deve subito negare che Mosè possa vedere il volto di Dio, neanche nell’intimità e nel segretodella tenda del convegno. L’unico 'volto' che Mosè vedrà durante la sua vita sarà una voce (nondimentichiamo mai che anche nel cristianesimo, dove quel Dio biblico assume un volto umano, perriconoscerlo e non scambiarlo per il giardiniere del sepolcro sarà necessario udire e riconoscere una voce:«Maria», Gv 20,16).Come e dove ci mettiamo di fronte alle parole che stiamo leggendo? Possiamo accostarci a questi testi con losguardo disincantato moderno, spogliandoli della colonna di nube, del dialogo tra Mosè e il suo Dio, e datutti i dettagli che lo accompagnano. Ma possiamo anche leggere questi versi mettendoci oggi sulla soglia diuna tenda di quell’accampamento e, accanto alle donne e agli uomini del popolo, seguire con gli occhi ilprocedere di Mosè verso il convegno. Vedere veramente quindi la colonna di nube che si posava sulla tenda,attendere in piedi o prostrati a terra che Mosè esca raggiante dal convegno, credere col popolo che sottoquella tenda si sta svolgendo un incontro vero di reciprocità tra l’infinito e il finito, e che è un dialogod’amore («hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome»: 33,17). Poi, correre incontro a Mosèper farci raccontare le parole della Voce, e ascoltarle come parole di vita dette oggi per noi, per me. Senza inostri occhi accanto agli occhi di quegli antichi uomini e donne, non vediamo né Mosè né il suo Dio, e noncapiamo la tragedia del vitello aureo, e continuiamo a chiamarlo YHWH.Al culmine di questo dialogo mirabile, Mosè arriva a chiedere l’impossibile: «Mostrami la tua gloria!». Mosèsapeva (certamente lo sapeva lo scrittore dell’Esodo) che il loro Dio diverso non poteva essere visto dai vivi.Finché siamo nella storia siamo talmente dentro Dio che non riusciamo a vederlo in volto: siamo come unbambino nel seno della madre, che può 'udire' qualche suono della sua voce, può sentirla attorno, ma pervederla in volto deve nascere.Mosè però spinge la sua 'amicizia' con Dio al limite delle possibilità, e sembra ottenere anche qui unarisposta di reciprocità: «YHWH rispose: 'Farò passare davanti a te tutta la mia bontà'» (33,19). Mosè glichiede di vedere la sua 'gloria' e YHWH gli concede solo di vedere passare la sua 'bontà'. Solo per un attimo,e di spalle: «Tu starai sopra la rupe: … Io ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò lamano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (33,21-23).Un brano meraviglioso, che dice tante cose, tutte preziose e che non ci diciamo abbastanza l’un l’altro. Lapresenza di Dio nel mondo è nella sua bontà, nei beni che ci dona, nel 'latte e miele' della sua-nostra terra, intutta la sua creazione-dono. Allora il vero e unico esercizio di chi cerca il 'volto' e la presenza di Dio nelmondo è saperlo riconoscere nei suoi beni senza però trasformare i beni in dio. Le idolatrie sono sempre difronte a noi perché nei beni del mondo (persone, cose) c’è veramente qualcosa di divino - la meditazioneincarnata della Bibbia è un grande aiuto per chi non vuole commettere questo errore fatale. L’idolatria èfacile perché ci piacciono di più le grandi piramidi delle piccole e fragili tende mobili, e ci piacciono gli deiche possiamo usare e possedere. Quel Dio diverso invece ci si mostra passando veloce, mettendoci una manosugli occhi, attraversando di corsa la nostra tenda. Tutte le 'tende del convegno' sparse sulla terra ci diconouna presenza vera di Dio e non di idolo se sanno custodire nel dolore-desiderio dell’attesa un’assenza senzavolerla riempire con la presenza facile degli idoli. L’accesso al mistero buono della vita è un vuoto di volti inuna abbondanza di parole.Ma c’è un’ultima perla nascosta nel terreno di questo grande capitolo dell’Esodo. Mosè, il profeta piùgrande, l’amico di Dio, colui che può parlargli 'bocca a bocca' (Numeri 18,2), quando riceve il donostraordinario di vederlo un attimo lo vede solo di spalle, non in volto.Allora è possibile che Dio passi in mezzo a noi e non ce ne accorgiamo solo perché lo vediamo da dietro. Edè anche possibile che la notte della nostra cultura, e molte notti della nostra anima, siano solo buio creato dauna mano buona. Ma quando quella mano verrà tolta, se non crederemo alla parola dei profeti vedremosoltanto il retro di qualcosa che fugge. I profeti e i carismi sono il dono che ci dice che il buio di fronte ainostri occhi può essere amore, che dietro quelle spalle fuggenti c’è il volto della vita.Sulla terra ci sono, soprattutto nel nostro tempo impoverito di occhi profondi, moltissime persone cheonestamente cercano il bene, il bello e il vero e non credono in Dio perché vedendone soltanto le spalle nonriescono a riconoscerne il volto. È questa la base per una vera e autentica solidarietà e amicizia tra chi cercail bene, il bello e il vero e grazie alla fede crede-spera che quelle spalle sono il retro di YHWH, e chi seguequella stessa realtà senza riconoscerlo. Seguiamo tutti la stessa 'persona', vediamo tutti solo le stesse spalle,che prima o poi, se se la sequela è genuina, diventano amore per le spalle dell’uomo umiliato, piegato,piagato dalla vita e da chi quel bene-bello-vero non cerca. Non è impossibile, anzi è molto probabile. Lapossibilità però di continuare a camminare fianco a fianco sta nell’incontro tra due atteggiamenti etici e

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spirituali. Chi vede solo le spalle non deve negare che dall’altra parte ci possa essere un volto, e chi crede-spera che quelle spalle nascondono un volto deve ammettere la possibilità che qualcuno possa essere giusto evero anche se non sente il bisogno di andare oltre quella 'schiena' perché gli basta camminare verso unapromessa. È questa sequela comune, mutuamente rispettosa e aperta al mistero, che affratella tutti i giustinell’accampamento mobile della vita.

Figura 18 - Marc Chagall, «Mosè riceve le tavole della legge»

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Le Levatrici d'Egitto/19IL VERO PROFETA SERVE SEMPRE UNA PAROLA CHE NON È SUAC'è un velo che svela il falsoFra un comandamento e l’altro furono segnati sulle tavole tutti i precetti della Torah fin nei minimi

particolari, e malgrado fossero di pietra granitica esse potevano essere arrotolate come unfoglio.Quando l’Eterno le afferrò per consegnarle a Mosè coprì con le mani la terza parte superioredi esse, mentre questi ne coprì la terza parte inferiore: dalla terza parte rimasta liberascaturirono le scintille divine che irradiarono il volto di Mosè Louis Ginzberg, Le leggende

degli ebreiLa parola è l'unica immagine possibile del Dio diverso del popolo dell'Esodo, una parola che ora diventaanche parola scritta, scrittura. E da quando la 'parola della voce' ha deciso di diventare 'parola scritta', lostatuto etico e spirituale di ogni parola scritta s'è innalzato. Ma tocca tutta a noi la fatica di 'tagliare' letavole della 'parola prima' che ci è stata dettataAvvenire 14 dicembre 2014

Il perdono non riporta indietro il tempo, né cancella atti e parole. Ma ha la forza di farci rinascere, dirisuscitarci a vita nuova, di raccogliere e accogliere il corpo ferito e farne un corpo nuovo e diverso, dove lestigmate diventano volto raggiante di luce. La terra vive perché ogni mattina ci sono persone che perdonandoe accettando il perdono sono capaci di nuove alleanze dopo i grandi tradimenti, di riscrivere nuove promessesu nuove tavole dopo che le prime erano state spezzate dalla nostra cattiveria. È anche la capacità diperdonare e di ricominciare veramente che fa dell’umano qualcosa di immenso, di «poco inferiore agliElohim» (Salmo 8). Se c’è un momento in cui le donne e gli uomini sono veramente degni della loroimmagine divina è quando perdonano. Il perdono è l’atto spirituale più vicino all’atto creativo divino, perchéri-crea i nostri rapporti dal nulla nel quale li avevamo fatti precipitare, genera nuove alleanze. «YHWH dissea Mosè: 'Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le parole che erano sulletavole di pietra, che hai spezzato'» (Esodo 34,1). Le prime tavole, quelle preparate e scolpite direttamente daYHWH, non ci sono più, il delitto collettivo del vitello d’oro le ha spezzate e distrutte per sempre. Questenuove tavole dovranno essere 'tagliate' da Mosè, con le sue mani e con il suo lavoro.Il verbo 'tagliare' ( psl) ha la stessa radice di 'immagine' ( pesel). C’è allora un legame forte tra le tavoletagliate e il divieto assoluto e unico di farsi immagine di YHWH. La parola è l’unica immagine possibile diquel loro Dio diverso, una parola che ora diventa anche parola scritta, scrittura. Per comprendere che cosa siala Scrittura e quale sia il suo posto in tutto l’umanesimo biblico, dobbiamo prendere coscienza che quandoleggiamo la Bibbia stiamo rifacendo l’esperienza della voce che diventa scrittura; torniamonell’accampamento, e, ancora scossi e feriti dal tradimento del vitello d’oro, veramente vediamo stupiti edemozionati Mosè scendere luminoso con in mano la parola ascoltata sul monte e scritta su due tavole dipietra.Di fronte alla buona immagine della parola scritta e custodita, tutti i poeti, gli scrittori, i compositori, igiornalisti, dovrebbero esultare di gioia e di riconoscenza. L’Esodo, col dono della voce visibile, pone cosìuna opposizione netta tra il vitello d’oro (l’immagine sbagliata) e la parola scritta, e ci insegna che la curadella tendenza idolatrica che c’è in ognuno di noi è l’ascolto della parola detta, ma è anche la lettura dellaparola scritta. Ci dice che ogni lettura della parola scritta è ascolto, è dialogo, è esercizio prima dell’orecchioe poi degli occhi. Ci possiamo salvare dai feticci mettendoci in ascolto, ma forse ci possiamo salvare daimolti totem che occupano il nostro tempo anche tornando a leggere e reimparando a scrivere le parole.Questo capitolo dell’Esodo ci dona allora un’intuizione del perché gli uomini e le donne ricevono una certavera salvezza anche 'ascoltando' grandi romanzi e 'incontrando' la poesia. Quando la parola della voce decisedi diventare parola scritta, innalzò lo statuto etico e spirituale di ogni parola scritta – analogamente allaparola (verbo) che diventando uomo ha innalzato il valore di ogni uomo e di tutti gli uomini. E ha aumentatola responsabilità delle nostre parole dette e scritte, la responsabilità di tutte le parole. Al tempo stesso,l’Esodo ci dice che questa e ogni parola scritta è parola seconda, perché la prima parola scritta, scolpitadirettamente da YHWH, è stata spezzata dalla ribellione del popolo. La prima parola scritta non c’è più, e lenostre parole scritte dopo il vitello aureo nell’accampamento della storia portano impressa una profondanostalgia di una parola prima perduta per sempre. Sta anche qui, forse, il dolore del travaglio del parto chegenera la vera scrittura e la poesia che rimane. Ma l’Esodo ci ricorda che anche le seconde parole sono veree dettate da YHWH, ma noi dobbiamo fare la fatica di tagliare le tavole della parola prima dettata poi scritta.

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Chiunque scrive o compone versi sa che ogni vera parola che gli nasce è prima parola dettata: la scoperta diricevere le parole è la prima esperienza di ogni scrittore e poeta, una scoperta che deve lasciare ogni voltasenza fiato. E non è raro che la fatica del 'tagliare le tavole' ci faccia sentire ancora gli odori e vedere il fuocodella teofania del Sinai.

Mosè prepara le nuove tavole («egli tagliò due tavole di pietracome le prime»: 34,4), sale di nuovo sul Sinai, e chiede a YHWHil perdono per il popolo: «Se ho trovato grazia ai tuoi occhi,Signore, che il Signore cammini in mezzo a noi. Sì è un popolo didura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e il nostro peccato»(34,9). Mosè usa la grazia che ha conquistato con la sua fedeltàper ottenere il perdono del popolo. È questo il primo 'mestiere' diogni vero responsabile di comunità. E arrivarono il perdono, lanuova alleanza, il dono delle tavole: «YHWH disse a Mosè:'Scrivi queste parole, perché sulla base di queste parole io hostabilito un’alleanza con te e con Israele'» (34,27).Mosè scende dal monte con le tavole «nelle sue mani», ma «nonsapeva che la pelle del suo viso era diventata raggiante, poichéaveva conversato con lui» (34,29). È misterioso e meravigliosoquesto splendore del volto del profeta. Mosè non è consapevoleche il suo volto splende di una luce nuova e diversa. Lo splendore

del proprio viso – ogni splendore – è esperienza relazionale, sono gli altri che guardandoci ce lo rivelano:«Aronne e tutti gli Israeliti, vedendo che la pelle del suo viso era raggiante, ebbero timore di avvicinarsi alui» (34,30). Mosè non vedeva il volto di YHWH, ascoltava solo una voce; eppure il suo volto umanoportava in sé le tracce di quell’incontro e di quel dialogo.L’esperienza spirituale e mistica è sempre esperienza incarnata. Il volto e gli occhi luminosi sono il primosegno (sacramento) che non abbiamo incontrato un idolo. Gli idoli oltre ad asservirci ci rendono più brutti, egli altri lo vedono. Il dialogo con la voce ci fa più belli, e gli altri devono vedere questa bellezza diversa. Nonvediamo il volto di Dio, ma possiamo vedere la sua luce nei nostri volti. Anche il profeta ha bisogno dellacomunità per scoprire che il suo volto è luminoso. La fede di tutti è sempre un’esperienza relazionale. Mosènon vede il volto della voce che gli cambia il volto, lo vede solo con gli occhi del popolo. È l’incrocio diocchi che ci fa vedere Dio. Il profeta vive una sua tipica solitudine che attraversa tutto l’Esodo, ma habisogno degli altri per vedere i segni della sua vocazione che fiorisce in pienezza solo grazie agli occhifiduciosi dei compagni dello stesso viaggio. Il non riuscire a vedere lo splendore del proprio volto è unatipica sofferenza di ogni vera vocazione profetica, che la rende umile e perenne mendicante di reciprocità.«Quando Mosè ebbe finito di parlare a loro, si pose un velo sul viso. Quando entrava davanti al Signore perparlare con lui, Mosè si toglieva il velo, fin quando non fosse uscito» (34,33-34). Questo misterioso velo cheMosè indossava quando terminava di narrare al popolo la parola ascoltata, ci suggerisce una dimensioneimportante della vocazione profetica. Dopo il Sinai ci sono 'due parole' di Mosè: quelle pronunciate senza ilvelo, quando ascoltata la voce nella 'tenda del convegno' la trasmette al popolo, e le parole dette, invece, conil velo, quando concluso il suo convegno profetico vive la sua vita ordinaria e parla parole diverse. Saperedistinguere le parole diverse dei profeti, riuscire a vedere il loro velo, è un’operazione fondamentale in tuttele comunità religiose, in particolare nei movimenti e nelle comunità carismatiche nate da un fondatore (ognicarisma è profezia). Una grave patologia, forse la più grave, di comunità nate attorno a un 'profeta', iniziaquando il profeta o i suoi compagni/compagne cominciano a pensare che le parole sotto la 'tenda delconvegno' siano della stessa identica natura delle parole pronunciate sotto la 'tenda di casa'. Così i profetidiventano falsi profeti (o rivelano la loro vera natura). Il profeta parla diversamente perché prima ascolta unavoce non sua. È custode di beni che non sono suoi, in quanto il profeta serve una parola che non è la sua.Un primo segno inequivocabile che indica la natura di falso profeta è la non esistenza del 'velo', la mancatadistinzione tra le sue parole e quelle della voce, la convinzione che ogni parola che esce dalla sua bocca siaparola della voce. E il profeta si trasforma, o viene trasformato, in un idolo: ogni vero profeta sa che lasalvezza più difficile ma cruciale che deve donare al suo popolo è la salvezza dal profeta stesso, la cui vocenon deve prendere il posto della voce di YHWH – è questa la grande tentazione di ogni profeta, il rischiofatale di ogni profezia.Non tutte le parole dei profeti sono parole di YHWH. La Bibbia non è una 'trascrizione' di tutte le parolepronunciate dai profeti, ma solo di quelle ascoltate e dette sul monte o sotto la tenda del convegno: «Gli

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Israeliti, guardando in faccia Mosè, vedevano che la pelle del suo viso era raggiante. Poi egli si rimetteva ilvelo sul viso, fin quando non fosse di nuovo entrato a parlare con il Signore» (34,35).La terra è piena di persone che anche in buona fede si costruiscono itinerari e pratiche 'spirituali' fai-da-te,che conducono a un dialogo con un 'tu' che non ha nulla né di YHWH né di Elohim. I profeti, col loro voltoraggiante e con il loro 'velo', ci garantiscono che alla fine della nostra ricerca di vita non troviamo unfeticcio, che la voce che ascoltiamo non è soltanto l’eco della nostra. E così continuano a salvarci.

Figura 19 - Philippe de Champaigne, «Mosè con le tavole della legge»

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Le levatrici d'Egitto/20COMUNITÀ, PERDONO, INTELLIGENZA E PREGHIERA DELLE MANIIl lavoro è già terra promessaÈ bello vedere un pugno di muratori, arrestati da una difficoltà, riflettere ciascuno perproprio conto, indicare diversi mezzi d’azione, e applicare unanimemente il metodo concepitoda uno di loro, il quale può avere o non avere una autorità ufficiale sugli altri. In similimomenti l’immagine di una collettività appare pura.- Simone Weil in G. Borrello, Il lavoro e

la graziaMosè benedice il lavoro, ed è una benedizione alla mente e alle mani del lavoro, che sono due momenti dellastessa intelligenza e della stessa anima, l'uno a servizio dell'altro Il lavoro vero è uno solo: mani a serviziodell'intelligenza e intelligenza a servizio delle mani. Dobbiamo tornare a bene-dire il lavoro, a dirlo e (aregolarlo) con parole buoneAvvenire 21 Dicembre 2014Esiste un profondo rapporto tra comunità e perdono. Non si dà comunità senza perdono, ed è il perdono ilgrande generatore e rigeneratore delle comunità. Cum-munus (dono reciproco) e per-dono. Le relazionisociali che non hanno bisogno di perdono sono quelle funzionali, burocratiche, anonime, contrattuali, dovenon essendoci incontri immediati non c’è bisogno del perdono, che diventa solo una parola stonata estraniera. Qui sono sufficienti la mediazione del superiore gerarchico, le compensazioni monetarie, i ricorsi,le cause in tribunale. Nelle comunità, invece, sono soprattutto i corpi a parlare e a incontrarsi; e quindi ci siferisce spesso, più o meno intenzionalmente. Solo il perdono può curare veramente le ferite delle relazionicomunitarie (nelle famiglie, ma anche in molte imprese), dove i risarcimenti in moneta, i decreti ingiuntivi ei tribunali non sono di nessun aiuto per ricominciare, e non fanno altro che decretare la morte delle comunitàe spesso anche delle anime delle persone. Nelle comunità dovremmo, semplicemente e dolorosamente, soloperdonarci. È il perdono che trasforma un popolo in una comunità. Siamo riusciti a diventare comunitàquando, dopo le pazze guerre fratricide, ci siamo perdonati collettivamente, ci siamo riconciliati piangendoinsieme sulle tombe dei morti di tutti, gioendo, cantando e ballando nelle feste di tutti. È così che abbiamofatto anche i 'miracoli' economici. Soltanto i popoli-comunità sanno fare grandi economie; i popoli-ebastavivono (quando vivono) grazie alle rendite da capitali generati ieri da altri popoli-comunità. Torneremo avedere nuovi miracoli economici e civili se saremo capaci di tornare a essere comunità, certamente in unmodo tutto nuovo e diverso, ma ancora comunità: ancora cum-munus e perdono.«Mosè radunò tutta la comunità degli Israeliti e disse loro: 'Queste sono le cose che il Signore ha comandatodi fare'» (Esodo 35,1). Dopo il vitello d’oro, dopo il perdono richiesto da Mosè a YHWH e ottenuto, dopo lanuova alleanza, ecco comparire nel libro dell’Esodo la parola 'comunità'. Quel popolo (’ am) è diventato 'lacomunità (’ eda) degli israeliti'. Mosè la convoca e le trasmette le istruzioni per la costruzione della dimoradi YHWH in mezzo al suo popolo, quelle ricevute sul Sinai. Tra queste, inaspettatamente, troviamoincastonate parole meravigliose sugli artigiani, sugli artisti, sul lavoro umano: «Mosè disse agli Israeliti:'Vedete, il Signore ha chiamato per nome Besalèl, figlio di Urì, figlio di Cur, della tribù di Giuda'».Troviamo qui la base più profonda del lavoro inteso e vissuto come vocazione: anche per lavorare benedobbiamo essere 'chiamati per nome' come Besalèl, certamente per poter realizzare santuari, cattedrali, lacappella Baglioni e le sinfonie di Mahler; ma anche per costruire tavoli e impianti elettrici, o per pulire beneun bagno. A Besalèl YHWH mette accanto un altro lavoratore: Ooliàb , e benedice anche lui (35,34). Illavoro è attività del 'due o più'. Nessun lavoro è atto esclusivamente individuale, perché c’è sempre qualcunaltro accanto, prima, al di là del nostro lavoro. YHWH ha chiamato quei due architetti-artisti-artigiani pernome e «li ha riempiti di saggezza per compiere ogni genere di lavoro d’intagliatore, di disegnatore, diricamatore in porpora viola, in porpora rossa, in scarlatto e in bisso, e di tessitore: capaci di realizzare ognisorta di lavoro e di ideare progetti» (35,35).Questa di Mosè è una benedizione alla mente e alle mani del lavoro, che sono due momenti della stessaintelligenza e della stessa anima, l’uno a servizio dell’altro. Il lavoro vero è uno solo: mani a serviziodell’intelligenza e intelligenza a servizio delle mani. Il corpo che diventa le nostre opere; la mente, l’anima ele mani che danno, insieme a quelle degli altri, forma al mondo. Gli artisti sono i grandi maestri e testimonidi questo dialogo incessante ed essenziale tra mente, anima, mani, mani che diventano anima, anima che si famani, mani che diventano opere. La Bibbia nel lodare e benedire anche il lavoro delle mani, ha innovatorispetto a tutta una cultura antica che considerava attività impura il lavoro delle mani, e dunque degna solodegli schiavi e dei servi. È grande allora il valore di questo capitolo dell’Esodo che pone il lavoro delle manial centro della nuova alleanza, oggetto di una specifica benedizione di Mosè. Come il tabernacolo, l’arca, il

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santuario. Mosè dà la sua benedizione a 'ogni genere di lavoro': per 'ideare progetti' e per 'intagliare,incastonare'.Benedice gli artisti, gli architetti, gli artigiani. La benedizione sullavoro è una sola. La dignità è la stessa. Il lavoro di chi ideaprogetti e il lavoro dell’artista e dell’artigiano che danno forma e'carni' a quelle idee, ricevono il medesimo spirito all’internodell’unica benedizione del lavoro. Uno solo è lo spirito della vita,di tutta la vita. Nell’umanesimo biblico non esiste uno spirito per illavoro intellettuale (ideare) e uno diverso per quello manuale(intagliare). Ci viene donata una fraternità tra mestieri diversiraggiunti tutti dallo stesso soffio. I mestieri degli uomini e quellidelle donne: «Tutte le donne esperte filarono con le mani e

portarono filati di porpora viola e rossa, di scarlatto e di bisso. Tutte le donne che erano di cuore generoso,secondo la loro abilità, filarono il pelo di capra» (35,25-26).In una cultura che non capisce più il corpo e così non capisce più il valore etico e spirituale della manualità,dobbiamo ricordare che il primo atto di intelligenza è quello delle mani. Conosciamo il mondo toccandolo, loabitiamo con le mani. Sono esse il primo linguaggio che dà nome alle cose, le plasma, le trasforma, il primostrumento con cui entriamo in contatto con l’esistenza, con la vita, con gli altri. Da bambini, da adulti, davecchi, da malati, sempre. Anche quando le mani non si muovono più – o quando non si sono mai mosse –continuiamo a immaginare la realtà come se le avessimo, e a conoscerla 'toccandola'. Anche quando siamoimmobili in un letto e riusciamo a scrivere poesie e preghiere col movimento della sola pupilla. C’è tuttaun’arte delle mani alla base della nostra economia vera. È più facile scoprirla nei lavori quotidiani e umiliche compongono la grammatica della nostra cooperazione civile. Parliamo, ci stimiamo, ci serviamo, ciincontriamo, prima di tutto lavorando, quindi parlando, stimando, servendo, e incontrandoci soprattutto conle mani. Sono le mani delle infermiere e degli infermieri, dei medici, delle casalinghe, dei baristi e degliarchitetti, degli elettricisti degli idraulici dei muratori, degli uomini e delle donne che puliscono i nostri ufficie le nostre fabbriche, le mani delle maestre, dei mastri carpentieri, degli scrittori e dei giornalisti (che restano'mani' anche quando pigiano su una tastiera o toccano uno schermo) che ci fanno vivere e fanno rivivere lanostra società. Possiamo prendere lauree, diplomi, frequentare dieci master, ma finché quelle conoscenzeastratte non diventano conoscenza delle nostre mani, non abbiamo ancora appreso un mestiere, siamo inattesa nell’anticamera del lavoro.Il libro dell’Esodo, e l’intero umanesimo della bibbia, ci dice allora che gli artigiani, gli artisti e i lavoratorinell’economia della nuova alleanza del Sinai hanno il compito di essere i costruttori della dimora di YHWHin mezzo al popolo. La costruzione del santuario è la grande opera che incarna l’alleanza e rende vicina lapromessa. Una costruzione possibile perché ci sono gli artigiani, gli artisti, perché esiste il lavoro umano.Senza il lavoro di costruzione del tempio durante i sei giorni, nel settimo non sarebbe possibile nessunacelebrazione. Occorre allora leggere questo passaggio dell’Esodo assieme alla Genesi che ci mostra l’Adamche lavora e trasforma il mondo lavorando. Il lavoro ci fa con-creatori della terra e del tempio. È qui la veralaicità dell’umanesimo biblico: la prima preghiera dei lavoratori è la costruzione dei 'santuari' e la noncostruzione degli idoli. La nostra prima preghiera è quella delle mani. Lo spirito riempie il mondo grazie allavoro umano. Basterebbe solo questa verità per guardare diversamente il lavoro e i lavoratori. La grandelegge del settimo giorno ci dice poi che il lavoro è sesto, penultimo giorno, come penultimo è anche ilsantuario. Ma ci ricorda anche che nei sei giorni della storia la benedizione del lavoro è dentro l’alleanza, ègià terra promessa.Non tutto il lavoro umano, però, è benedetto e riempito dallo spirito di Dio. C’è anche il lavoro per costruirei vitelli d’oro. Quei lavoratori, quegli stessi artigiani che ora stanno per costruire il santuario, avevanocostruito il vitello d’oro nell’accampamento alle pendici del Sinai. Con quelle stesse mani e con quegli stessitalenti. Ma quel lavoro aveva ottenuto la maledizione più grande. Artisti, artigiani, lavoratori possonoedificare cattedrali come possono costruire i vitelli d’oro e gli idoli. Le mani, l’intelligenza e il lavoro degliartigiani, possono essere usati - lo sono stati e lo sono ancora - anche per costruire mine anti-uomo, i non-luoghi dell’azzardo e le disumane sale bingo. Oggi ci sono mani e intelligenze a servizio dei vitelli d’oro edegli idoli, e altre mani e menti che continuano a costruire 'cattedrali'. È solo questa la differenza in dignitàdel lavoro che la Bibbia ci pone davanti, e che la nostra società dei consumi non vede più. La qualità e ladignità morale delle società si dovrebbe misurare - se tornassimo all’Esodo - a partire dalla riduzione deilavori al servizio degli idoli e dalla creazione, al loro posto, di lavori che edificano il bene - che sono ancorala grande maggioranza.

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Il mondo del lavoro ha una grande fame e sete di benedizioni. Benedizione, cioè bene-dicere, dire 'buoneparole'. Benedire il lavoro è dirci l’un l’altro parole buone sul lavoro e sui lavoratori. Il lavoro è parte dellacondizione umana, e quindi è sempre al centro delle nostre parole, parole di bene-dizione o di male-dizione(le parole importanti non sono mai neutrali). Il lavoro soffre perché lo abbiamo circondato di parole cattive,di disistima, di disprezzo. Torniamo a benedire il lavoro: è questa la premessa di ogni buona riforma dellavoro e di ogni autentico umanesimo.

Figura 20 – Salvator . Dalí, «Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet»

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Le levatrici d’Egitto/21LA VICENDA DI MOSÈ CI RIPETE UNA GRANDE PAROLA: GRATUITÀNessun liberatore si fa mai re

Nessuno conosce il luogo in cui riposa. Per gli uomini della montagna, la sua tomba si trovanella valle; per gli uomini della valle, si trova sulla montagna. È dappertutto e altrove,sempre altrove. Nessuno era presente al momento della sua morte. In un certo senso, egli viveancora in noi, in ognuno di noi. Perché, finché un figlio di Israele, da qualche parte,proclama la sua Legge e la sua verità, Mosè vive attraverso di lui, in lui, come vive il rovetoardente, che consuma il cuore degli uomini senza consumare la loro fede nell’uomo e nei suoi

richiami strazianti - Elie Wiesel, Personaggi biblici attraverso il MidrashMosè, il solo uomo che parlava con Dio “bocca a bocca”, muore fuori dalla terra promessa. Tutti i profetimuoiono fuori dalla terra promessa, perché la promessa non era per loro, ma per il popolo liberato. C’è unmomento preciso in cui il profeta deve mettersi da parte, cancellarsi ed essere cancellato, se non vuolediventare un idoloAvvenire 28 Dicembre 2014Per imparare a rinascere dobbiamo reimparare a morire, lo abbiamo dimenticato. La civiltà dei consumi èprima di ogni altra cosa un gigantesco tentativo di esorcizzare la morte, il limite, la vecchiaia, un’enorme

sofisticatissima industria d’intrattenimento perpetuo, che non deve lasciarcitempo e spazio per pensare che un giorno il grande gioco dei consumi finirà, lagiostra arriverà al suo ultimo giro. Così cancelliamo l’ultimo giornodall’orizzonte del nostro capitalismo, e celebriamo culti ai suoi idoli che sinutrono delle nostri merci.Gli idoli promettono esorcismi sbagliati e inefficaci della morte e del dolore. LaGenesi e l’Esodo sono grandi, sublimi ed eterni canti alla vita, a tutta la vita, eper questo sono anche grandi insegnamenti sulla morte. Abramo, Isacco,Giacobbe, Giuseppe, ci hanno insegnato a vivere e ci hanno insegnato a morire'sazi di giorni', in 'una bella canizie'. La morte di Mosè, misteriosa e tutta

diversa, è il culmine della sua vita, il senso ultimo delle parole che aveva ascoltato dalla 'voce', lo svelamentopieno della sua vocazione, e di quella di chi cerca di rispondere a una vocazione di liberazione verso unaterra promessa. Con la costruzione della dimora, resa possibile dalle mani e dalla mente benedette deilavoratori, termina il libro dell’Esodo, non l’avventura di Mosè, che continua negli altri libri della Torah:«Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore glimostrò tutta la terra: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, la terra di Èfraim e di Manasse, tutta la terra di Giudafino al mare occidentale e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Soar. IlSignore gli disse: «Questa è la terra per la quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: 'Io la daròalla tua discendenza'. Te l’ho fatta vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai!» (Deuteronomio 34,1-4).Mosè, il liberatore dalla schiavitù, colui che ha rivelato al popolo il nome di Elohim e la sua Legge, il solouomo che parlava con Dio 'bocca a bocca' (Numeri 12,8), muore fuori dalla terra promessa. YHWH glielamostra da lontano, ma non potrà raggiungerla: «Tu non attraverserai questo Giordano» ( Deut 3, 28 ).I Patriarchi della Genesi erano morti diversamente, circondati da mogli, figli, figlie, nipoti, dalle tante 'stelle'promesse il giorno della chiamata. Muoiono a casa, molti di loro sepolti nella stessa grotta di Macpelàh(Genesi 23), che fu l’unico lembo di terra promessa posseduto da Abramo. Mosè muore da solo, senzanessuno che lo accompagni nell’ultimo viaggio, senza la consolazione degli affetti. Muore come avevavissuto, dentro quel dialogo solitario e continuo con la voce, che lo aveva chiamato dal roveto quandopascolava, da solo, il gregge di suo suocero Ietro sull’Oreb, e che poi gli aveva parlato ancora sul monte,nella tenda del convegno, in solitudine. Non sappiamo se in quell’ultimo viaggio sul monte Nebo la vocecontinuò a parlagli, se lo accompagnò o se si ritirò come è accaduto a molti profeti che sono morti nelsilenzio della voce. Possiamo immaginarlo in compagnia del suo Dio se torniamo alle espressioni del librodell’Esodo che ci suggeriscono un rapporto di vera intimità tra Mosè e YHWH: «amico di Dio» (Esodo33,11), «hai trovato grazia ai miei occhi», «ti ho conosciuto per nome» (33,17). Per la tradizione midrashicamentre Mosè esala l’ultimo respiro YHWH lo bacia sulla bocca, continuando fino alla fine quel dialogo'bocca a bocca' misterioso e unico.In questa morte misteriosa e dolorosa si rivela in tutta la sua forza e pienezza la natura della vocazione diMosè, ma anche di ogni fondatore di comunità e di movimenti carismatici, di grandi opere spirituali. Tutti iprofeti muoiono fuori dalla terra promessa, perché la promessa non era per loro ma per il 'popolo' liberato.Mosè è il liberatore dalla schiavitù e la guida attraverso il deserto, non è il sovrano del nuovo regno di

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Canaan. I profeti sono i compagni negli esodi, negli attraversamenti dei deserti, sono gli abitanti della tendamobile dell’arameo errante. Il loro compito è portarci via dalla schiavitù, proteggerci dagli idoli, farciriconciliare e ricominciare dopo i tradimenti collettivi, portarci fin sulla soglia della nuova terra, farcelavedere. Senza oltrepassarla. La loro terra è quella che sta tra i campi di lavoro e Canaan, tra il Nilo e ilGiordano. Sono gli uomini e le donne del guado notturno del fiume della liberazione, del passaggio, dellasoglia. Così, dopo i libri del Pentateuco, Mosè scompare quasi del tutto dalla Bibbia. Non lo troviamo nellegenealogie di Gesù, nella liturgia della Pasqua ebraica, è quasi assente nei Profeti, nei libri storici, nei Salmi.Mosè fu troppo grande, e Israele sentì il bisogno di proteggersi dalla sua grandezza. Un bisogno che laBibbia non sentì per altri grandi protagonisti della salvezza (da Abramo a Davide). Ma Mosè era troppogrande, il più grande di tutti; fu necessario 'farlo morire' e quasi cancellarlo dalla memoria dopo laliberazione. Mosè è il profeta che muore per ordine di Dio, per suo comando scompare dalla scena, quandoancora «gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno» ( Deut 34 ,7 ). Non muore divecchiaia, muore perché il suo compito è finito, per fare spazio a Giosuè, su cui Mosè aveva «imposto lemani» (34,9).C’è un momento preciso in cui il profeta deve 'morire', deve mettersi da parte, cancellarsi ed esserecancellato, se non vuole diventare un idolo e prendere il posto della voce (è questo il grande rischio di ogniprofeta). È questo l’ultimo grande decisivo atto che dice definitivamente che le parole che il profeta haascoltato e trasmesso al popolo non erano parole della sua voce, ma che parlava al posto di un altro ( pro-phetés), che le sue parole erano grandi perché non sue.Tutti i fondatori muoiono prima del Giordano, e se lo oltrepassano diventando i re della nuova terrapromessa, o la terra non è quella della promessa o sono falsi profeti. La terra raggiunta è quella dellapromessa se il profeta non la raggiunge. E non per una strana punizione di Dio (Mosè era stato sempregiusto), ma per la natura intima della vocazione. Qui Mosè va oltre Noè che salì anch’egli nell’arca cheaveva costruito. Mosè costruisce un’arca che non è per lui, e per questo è il profeta più grande di tutti: «Nonè più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia» ( Deut 34 ,10 ). Inquesta morte di Mosè troviamo anche un paradigma della fede biblica. Dio non si vede, non lo si puòrappresentare. È una voce che ci arriva attraverso la voce dei profeti. Il confine però tra la voce che parla alprofeta e la voce del profeta diventa col tempo sempre più sfumato, sottile, quasi scompare, e per il popolofiniscono per diventare una sola voce. Il profeta si distingue dal falso profeta perché un giorno sa mettersi daparte, scomparire, cancellarsi, e così dire: 'Io non sono Elohim per voi'. Se Mosè fu il più grande di tutti,allora la fede biblica non è possesso. La fede è saper abitare lo 'scarto' tra la promessa e la fine del deserto,saper restare nel guado senza farsi travolgere dalla corrente del fiume. È questo scarto che consente alla fededi non diventare idolatria, adorazione degli idoli, degli altri, di se stessi. Nella morte di Mosè c’è, infine,anche un meraviglioso insegnamento sulla condizione umana. Nessuna terra promessa è raggiunta, perché lavita è cammino, pellegrinaggio, esodo. C’è il momento - quasi sempre prima dell’ultimo giro di giostra - incui ci accorgiamo che le promesse della vita non si sono compiute. Anche quando la vita è stata stupenda,anche quando abbiamo visto Dio 'faccia a faccia', i roveti ardere, la manna scendere dal cielo, la nube posarsisulla nostra tenda, sentiamo che la promessa era un’altra, quella oltre il Giordano.La storia e la morte di Mosè ci dicono però che lo scarto tra la terra promessa e la terra raggiunta non èfallimento: è semplicemente la vita, è la nostra buona condizione umana.Quel guado non compiuto del fiume dice a tutti, incluso Israele, che la vera promessa non è una terra ferma,ma un cammino nomade attraverso un deserto, dietro ad una voce; per scoprire, alla fine, che la terrapromessa era proprio il deserto che si stava attraversando, perché è lì che si è svolta la nostra storia d’amore(Osea). Lì abbiamo visto scendere la colonna di fuoco, lì abbiamo ascoltato la voce e ricevute le sue parole,lì abbiamo liberato schiavi e li abbiamo protetti dagli idoli, lì abbiamo visto per il nostro popolo la terrapromessa, lì abbiamo parlato con Dio 'bocca a bocca'.Allora la conclusione della vita di Mosè ci ripete, ancora una volta e definitivamente, la parola che ci hannoaccompagnato durante tutta la meditazione del libro dell’Esodo: gratuità. La più grande gratuità che ilprofeta vive è il distacco dalla terra promessa, poterla e doverla vedere senza raggiungerla. Perché il prezzodella gratuità del profeta è tener vivo per tutti lo scarto tra ogni terra e ogni promessa. È nello scarto che siaccende la vita, è lì dove si alimentano i desideri e i sogni grandi (il grande inganno del nostro tempo èspegnere con le merci i desideri dei bambini). È questo scarto che ci ricorda che ogni terra promessa è per la'nostra discendenza', non è per noi. Il mondo vivrà finché continueremo a liberare qualcuno dalla schiavitù, efinché cammineremo verso una terra promessa da donare ai figli e ai nipoti, ai giovani di oggi e di domani.La felicità più importante non è la nostra, ma quella dei figli di tutti.Figura 21 - La levatrice esulta per la nascita di Gesù, altare di Sant’Ambrogio a Milano, particolare

Page 59: Le levratici di Egitto · d’Egitto, e per l’ultima volta, perché dopo le parole infinite di Sifra e Pua era tutto detto. ... Non si uccidono né in Egitto né in alcun luogo.

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CONCLUSIONEAbbiamo iniziato il nostro viaggio con le levatrici d’Egitto, con quelle mani di donna amanti della vita chehanno salvato i bambini e Mosè, che disobbedendo al faraone hanno iniziato la liberazione dalla schiavitù.Ora lo terminiamo in tempo di Natale, con un altro bambino, un’altra donna, un’altra esultanza per un’altravita che nasce e salva. Un profondo grazie a chi mi ha seguito, con impegno e non senza difficoltà, in questo'anno biblico', in cerca di parole più grandi per ricominciare. Alcune le abbiamo trovate, e nelle prossimedomeniche le useremo per tornare a leggere la nostra situazione economica, morale e civile, che ha semprepiù bisogno di essere guardata e amata da altre parole. Altre le continueremo a cercare continuando (traqualche settimana) il cammino biblico, in compagnia prima di Giobbe e poi dei profeti e delle loro parole,che sono sempre diverse e più vere delle nostre.