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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 593-610 GIUSEPPE PIGNATELLI LE CAVE DISMESSE SULLA COSTA SORRENTINA TRA STORIA LOCALE, DANNI AMBIENTALI E FORME DI RIUSO […] quante ignobili cicatrici sulla costiera stanno a testimoniar lo sfregio! La serie comincia con la Conca, alla Marina d’Alimuri, continua con le cave del Capo di Sorrento, della Marina di Puolo; ora è la volta di Jeranto, oltre la quale sono ancora due gemme – la Marina del Cantone e la Marina di Crapolla – alle quali i cavatori di pietra non hanno ancora pensato. Ma ci penseranno certamente, se non ci pensa qualche altro prima a sottrarle alla sorte cui sembrano destinati i luoghi più incantevoli della leggendaria contrada (Cerio, 1937, p. 5). Premessa. – Dalla metà del secolo scorso, di fronte alla progressiva afferma- zione di nuovi modelli di sviluppo indotti dai processi di industrializzazione e di urbanizzazione e dai fenomeni territoriali a essi connessi, oltre che dall’assenza di un’adeguata legislazione, l’Italia è stata interessata da un inarrestabile proces- so di degrado in cui il paesaggio ha finito con l’essere irrimediabilmente dan- neggiato non solo nelle sue forme visibili, ma anche nelle sue più intime valen- ze identitarie (Mautone, 2001, p. 12). Tra le attività economiche maggiormente responsabili delle trasformazioni del territorio, quelle estrattive occupano un ruolo rilevante soprattutto quando opera- no a cielo aperto, incidendo direttamente sulla stessa struttura morfologica che del paesaggio costituisce il supporto essenziale. Ciò avviene in particolare nel nostro Paese, ricco di materiali lapidei utilizzati prevalentemente nel settore delle costru- zioni, dove la coltivazione di grandi e piccole cave ha – e in alcune zone ancor di più ha avuto nel passato – una larghissima diffusione e un ruolo spesso trainante per la crescita socio-economica (Laureti, 1988, p. 330). La pressione che tali attività hanno generato sul territorio ha già d’altra parte provocato danni assai evidenti, spesso insanabili, rischiando di produrne di ulteriori se il delicato tema della post- dismissione non dovesse essere finalmente affrontato e regolamentato con inter- venti tesi a cancellare situazioni di degrado e, molte volte, di illegalità e di specu-

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BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANAROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 593-610

GIUSEPPE PIGNATELLI

LE CAVE DISMESSE SULLA COSTA SORRENTINA TRA STORIA LOCALE,

DANNI AMBIENTALI E FORME DI RIUSO

[…] quante ignobili cicatrici sulla costiera stanno atestimoniar lo sfregio! La serie comincia con la Conca,alla Marina d’Alimuri, continua con le cave del Capodi Sorrento, della Marina di Puolo; ora è la volta diJeranto, oltre la quale sono ancora due gemme – laMarina del Cantone e la Marina di Crapolla – alle qualii cavatori di pietra non hanno ancora pensato. Ma cipenseranno certamente, se non ci pensa qualche altroprima a sottrarle alla sorte cui sembrano destinati iluoghi più incantevoli della leggendaria contrada(Cerio, 1937, p. 5).

Premessa. – Dalla metà del secolo scorso, di fronte alla progressiva afferma-zione di nuovi modelli di sviluppo indotti dai processi di industrializzazione e diurbanizzazione e dai fenomeni territoriali a essi connessi, oltre che dall’assenzadi un’adeguata legislazione, l’Italia è stata interessata da un inarrestabile proces-so di degrado in cui il paesaggio ha finito con l’essere irrimediabilmente dan-neggiato non solo nelle sue forme visibili, ma anche nelle sue più intime valen-ze identitarie (Mautone, 2001, p. 12).

Tra le attività economiche maggiormente responsabili delle trasformazioni delterritorio, quelle estrattive occupano un ruolo rilevante soprattutto quando opera-no a cielo aperto, incidendo direttamente sulla stessa struttura morfologica che delpaesaggio costituisce il supporto essenziale. Ciò avviene in particolare nel nostroPaese, ricco di materiali lapidei utilizzati prevalentemente nel settore delle costru-zioni, dove la coltivazione di grandi e piccole cave ha – e in alcune zone ancor dipiù ha avuto nel passato – una larghissima diffusione e un ruolo spesso trainanteper la crescita socio-economica (Laureti, 1988, p. 330). La pressione che tali attivitàhanno generato sul territorio ha già d’altra parte provocato danni assai evidenti,spesso insanabili, rischiando di produrne di ulteriori se il delicato tema della post-dismissione non dovesse essere finalmente affrontato e regolamentato con inter-venti tesi a cancellare situazioni di degrado e, molte volte, di illegalità e di specu-

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lazione (1). Si tratta di un percorso che molti paesi europei hanno intrapreso già datempo; appare perciò evidente che anche l’Italia deve necessariamente adeguarsiper offrire un’opportunità di riscatto a troppe aree altrimenti condannate alla pro-gressiva umiliazione della propria identità, e per costruire un futuro che tenga in-sieme attività largamente storicizzate con pratiche innovative al centro di interven-ti di recupero e di rivalorizzazione che sappiano coniugare risanamento ambienta-le e utilità economica e sociale nell’ottica di uno sviluppo realmente sostenibile.

L’attività estrattiva nell’economia sorrentina. – Gran parte degli effetti sulpaesaggio appena ricordati appaiono in tutta evidenza nella penisola sorrenti-na (2), propaggine orientale del Golfo di Napoli che, dopo essere a lungo riusci-ta a mantenere pressoché intatte le proprie peculiarità paesistico-ambientali, èstata mortificata sin dagli inizi del secolo scorso dall’irresponsabile azione del-l’uomo soprattutto lungo la costa, interessata, prima ancora che dallo scempioedilizio, dall’apertura di numerose cave – concentrate soprattutto nel territorio diMassa Lubrense – che hanno irrimediabilmente modificato un paesaggio distraordinaria valenza ambientale (3). Dal punto di vista geologico, nell’area domi-nano formazioni calcareo-dolomitiche sulle quali appoggiano alternanze arena-ceo-argillose, depositi detritici (ghiaie e conglomerati) e vulcanici (tufi e materia-li piroclastici di origine flegrea e vesuviana). Ai margini dei rilievi e lungo la co-sta sono in particolare presenti vaste brecce calcaree stratificate e detriti di faldacon differenti gradi di cementificazione (Dainelli, 1930; Castaldi, 1968, p. 11).Considerati i molteplici impieghi dei materiali che costituiscono l’impalcaturarocciosa del territorio, è ben comprensibile il ruolo che questi hanno ricopertofin dall’antichità, generando un fiorente mercato legato alla loro estrazione e allaloro successiva lavorazione (4). Le diverse fasi della coltivazione delle cave sono

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(1) Appare opportuno riportare alcune sintetiche informazioni sulla situazione delle cave in Ita-lia (Legambiente, 2014). Nonostante negli ultimi anni la crisi del settore edilizio abbia notevolmenteridotto l’attività estrattiva, sono 5.592 i siti attualmente (2012) attivi, ai quali vanno aggiunte le oltre16.000 cave abbandonate, dato, quest’ultimo, che non include quelle situate in Calabria e in Friuli-Venezia Giulia. A governare un settore così delicato è il RDL 1443/1927, redatto in un momento incui il Paese necessitava di ingenti prelievi per la realizzazione di opere pubbliche senza tener contodegli impatti sul territorio. Solo dopo cinquanta anni (DPR 616/1977) le competenze in materia mi-neraria sono state trasferite alle Regioni, anche se in molte di esse il quadro normativo è tuttora ina-deguato. L’assenza di «piani cava» e, laddove ci sono, leggi e regolamenti farraginosi e incompletinon fanno che favorire, tra l’altro, appetiti speculativi che finiscono con l’alterare il già precario equi-librio idrogeologico del territorio, apportando ulteriori danni al paesaggio.

(2) Per un inquadramento geografico dell’area, si rimanda all’ampia bibliografia esistente e inparticolare a Castaldi (1968) e Ruocco (1982).

(3) Per le peculiarità del paesaggio sorrentino, si rimanda a de Seta (1977) e Manzi (2001).(4) Toponimi quali Cava, Cavone, Cavoncello, Cementaro e Petriere (così come Calcara, Calca-

rella, Forno) sono molto diffusi lungo la costa, indicando i luoghi deputati all’estrazione e alla lavo-razione dei materiali utilizzati nell’edilizia, nella pavimentazione stradale e nella realizzazione deimuri di contenimento che ancora oggi contribuiscono alla difesa del suolo.

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infatti state a lungo tra le principali fonti dell’economia locale, certamente menorilevanti delle attività legate alla marineria, all’agricoltura, alla pesca e alla produ-zione casearia, ma comunque in grado di offrire un sia pur modesto guadagnoalle famiglie dei cavatori, considerato che in un sito anche di piccole dimensionipotevano trovare occupazione diversi tagliamonte, cavapietre, carcarari e piper-nieri (Pignatelli, 2006, p. 33).

In quest’ottica, lo sfruttamento intensivo dei più estesi giacimenti calcareidella provincia di Napoli, avviato tra la fine dell’Ottocento e il primo ventenniodel Novecento, avrebbe portato alla progressiva scomparsa delle attività estrat-tive tradizionali, costituendo nel contempo, e per oltre cinquant’anni, un im-portante settore nell’economia sorrentina. Per contro, i danni irreparabili alpaesaggio costiero, più evidenti nelle zone meno antropizzate (come nel casodella baia di Jeranto), rappresentano l’altra faccia della medaglia, avendo inne-scato una lunga serie di problemi di gestione territoriale ulteriormente aggrava-ti dalla definitiva chiusura dell’intero sistema estrattivo entro gli anni Settantadel secolo scorso.

Le cave costiere tra Castellammare di Stabia e Sorrento. – «Per la via di Stabiaed Equa […] il Monte dalla parte del Mare è ferace di pietre, che servon per cal-ce, e cimenti, onde si suol dire da questo Monte esser nata Napoli, portandose-ne continuamente in quella città per le fabbriche e per imbiancare» (Parrino,1709, p. 245). Così si presentava, agli inizi del XVIII secolo, il tratto iniziale dellacosta sorrentina, caratterizzato da numerosi siti per l’estrazione e la cottura dellapietra calcarea. Fino ai primi decenni del Novecento, continuarono infatti a es-sere commercializzate nel Napoletano la calce forte delle fornaci sorrentine eamalfitane (5), e quella dolce di Stabia, entrambe apprezzate per qualità e resi-stenza. Dagli anni Trenta, questa produzione avrebbe subito un rapido declinodeterminato dagli elevati costi di produzione e dalla scarsa qualità del materialerispetto a quello industriale.

Tra i promontori di Pozzano e dello Scrajo, lungo la Strada Statale Sorrentina,fino agli anni Settanta si sfruttavano un gran numero di cave per l’estrazione dimassi utilizzati nelle barriere portuali, oltre che di pietrisco adoperato per alimen-tare i forni del vicino stabilimento della Calce e Cementi (6). Oggi i diversi piazza-li di cava giacciono in uno stato di totale abbandono, occupati da paramassi percontenere le frequenti cadute di rocce; solamente gli edifici della Calce e Cemen-ti sono stati riconvertiti in un complesso turistico nell’ambito di un programma di

(5) Antiche fornaci (o calcare) lungo la costa amalfitana sono ancora visibili presso Punta Ger-mano, a Vettica Maggiore e nei dintorni di Capo d’Orso (Visetti, 1991, pp. 158 e 174).

(6) Oltre alla Scrajo, dotata di quattro forni per la produzione di calce, si ricorda la Pozzano Rea-le per l’estrazione di pietrisco. La Calce e Cementi, dismessa nel 1975, ebbe la sua massima espansio-ne alla fine degli anni Cinquanta, quando occupava circa 180 addetti (Mastrogiacomo, 2000, p. 49).

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recupero archeologico-industriale avviato una quindicina di anni orsono in dero-ga al Piano Urbanistico Territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana.

Anche il costone della Marina di Equa è stato oggetto, dagli anni Venti delsecolo scorso, di un’intensa attività per la produzione di pietrisco destinato almercato edile di Napoli e dei comuni vesuviani e flegrei (Bianchini, Pecora e Al-bertini, 1957, p. 52). Più avanti, sul promontorio di Punta Gradelle, sono poiconcentrati numerosi altri siti aperti negli anni Cinquanta, e rimasti in attività si-no a pochi decenni orsono per continuare a soddisfare il fabbisogno locale dipietre e di brecciolino dopo la chiusura delle cave di Massa Lubrense, di Alimu-ri e di Equa (Ruocco, 1982, p. 319); anche in questo caso il costone ha in piùpunti ceduto ed è ingabbiato da reti e ancoraggi metallici per garantirne la tenu-ta (7). Fino alla metà degli anni Sessanta, lungo la costa sottostante era attiva lacava di Alimuri, che alimentava un fiorente commercio di calce (Cerio, 1937; Pa-ne, 1955, p. 49); dopo la dismissione, sul piazzale è stata realizzata una grandestruttura con destinazione alberghiera che giace tuttora incompiuta a pochi me-tri dal mare nonostante ne sia stata più volte ordinata la demolizione (8).

Le cave costiere in territorio lubrense. – Nel territorio lubrense, parte estremadella penisola sorrentina, la coltivazione del calcare è rimasta per lungo tempocircoscritta a siti di modesta estensione, e affidata a pochi spaccapietre altamentespecializzati (9). Come ricordato dal Filangieri di Candida (1910, p. 555), «di benpoca importanza nelle industrie è stata nei tempi passati la roccia calcarea […].Ora, una colossale cava sulla solitaria marina di Marcigliano estrae a migliaia letonnellate di pietre sulla grande frattura trasversale del Monte Corbo, per costruirdighe all’entrata del porto di Napoli». Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni delNovecento fecero infatti la loro comparsa le compagnie nazionali per lo sfrutta-mento intensivo di vasti giacimenti costieri, strategicamente posti tra i golfi diNapoli e Salerno in insenature ben riparate e facilmente raggiungibili dalle im-barcazioni da carico. Dalla baia di Puolo a quella di Crapolla (estremi ammini-strativi della costa lubrense), entro gli anni Venti furono aperti ben sette stabili-menti – la Merlino a Puolo, la Chianella al Capo Massa, la Vitale a Marcigliano, lecave del Cenito e di Mitigliano e, nel versante salernitano, quelle di Jeranto e Re-commone – alcuni dei quali in luoghi fino ad allora esclusi da questo tipo di at-tività. Le più piccole cave nell’entroterra, a gestione familiare e caratterizzate an-

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(7) Nel PRG di Meta era stato previsto di utilizzare i piazzali di cava come parcheggi di inter-scambio al fine di snellire il traffico di autoveicoli e bus turistici, ipotesi bocciata dalla Provincia diNapoli che, nel 2002, ha ritenuto inconciliabile questa destinazione d’uso con lo stato dei luoghi.

(8) Nel 2014 il Comune di Vico Equense ha definitivamente approvato il progetto preliminare didemolizione.

(9) Numerosi e ben organizzati erano invece i siti per l’estrazione del tufo grigio (Pastena e Ci-mentaro presso Monticchio) e della pietra di Massa, arenaria locale cavata alla Chiaja della Marinadella Lobra, alle Petriere di Monte San Nicola e alle Tore (Pignatelli, 2006, pp. 31-35).

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cora da metodi estrattivi tradizionali, subirono di conseguenza un inevitabile de-clino, e furono destinate a chiudere nel giro di pochi decenni (10).

Negli stabilimenti delle grandi compagnie minerarie, che potevano viceversacontare su numerosi occupati, l’estrazione del materiale avveniva tramite il posi-zionamento di dinamite o di tritolo misto a polvere da sparo, operazione agevo-lata ogni due o tre anni dall’esplosione di cariche più potenti. Sul piazzale pote-va così essere organizzata la vita dello stabilimento: in posizione defilata trova-vano sistemazione le baracche dei minatori, dei manovali e dei tecnici, oltre aiservizi, agli uffici dell’amministrazione, alla mensa, alla santabarbara e alla cen-trale elettrica; al di sotto del costone erano invece poste le gru a vapore per ilcarico dei massi, la forgia e, verso il mare, i frantoi per la produzione di brecciae brecciolino. Tutt’intorno si snodava poi un fitto reticolo di binari sui qualiscorrevano i carrelli sino ai moli di imbarco, dotati di alte forche per il carico delmateriale sulle chiatte o su più piccole imbarcazioni.

La cava Merlino a Puolo. – Lo sfruttamento del giacimento di Puolo iniziò al-la fine dell’Ottocento con l’apertura di due moderni forni per la produzione di

(10) Le cave di calcare lungo la costa alla fine dell’Ottocento erano alla Calcarella di Puolo, alleFontane, a Mitigliano e alle Mortelle della Marina del Cantone, quest’ultima rimasta in attività sino a-gli anni Cinquanta (Bianchini, Pecora e Albertini, 1957, p. 56). Più numerose erano invece quellenell’entroterra, concentrate nei pressi dei casali di Monticchio, di Torca e di Sant’Agata.

Fig. 1 – Le cave di calcare lungo la costa sorrentina e amalfitanaFonte: elaborazione dell’autore

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calce; a questa attività, cessata intorno al 1920, si affiancò qualche anno più tar-di quella, ben più redditizia, dell’estrazione del calcare anche lungo i costonidella Montagna e della Calcarella. Dal 1927, con l’acquisizione del sito da partedella ditta Merlino, l’attività riguardò principalmente la lavorazione di blocchi digrandi dimensioni da utilizzare per le barriere portuali (Esposito, Cuomo e Mof-fa, 1986, p. 35). Nel modesto borgo, la cui sussistenza era stata fino ad allora ga-rantita dalla pesca e dal commercio marittimo, la presenza della cava avrebbeofferto una grande opportunità di crescita economica, anche perché alla mano-valanza locale si aggiunsero numerosi cavatori e artificieri provenienti dalla Sar-degna, assunti per la loro riconosciuta esperienza in campo minerario. Anche ilpiccolo porto fu ben presto sacrificato alle necessità dell’industria, perennemen-te impegnato dalle chiatte (Campania, Asti, Savoia, Torino e Teresa) che pren-devano poi il largo trainati da potenti rimorchiatori (11).

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(11) Le notizie sull’attività della cava, unitamente all’ampia documentazione fotografica inedita,sono state fornite da Francesco di Leva, che a partire dagli anni Quaranta è stato manovratore dei ri-morchiatori Pietro Micca, Andrea Doria, Utile e Santos.

Fig. 2 – La cava di Puolo agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorsoFonte: collezione privata famiglia di Leva

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Già nel 1929 veniva denunciato lo snaturamento della baia e la perdita delladomus romana di Pollio Felice al Portiglione, che «soccombe alla devastazionedella dinamite, che fa del bel paesaggio litorale un orribile cumulo di rovine!»(Filangieri di Candida, 1929, p. 55). Così come l’archeologo Amedeo Maiuri(1990, p. 9), che aveva lanciato il suo grido di dolore per lo scempio perpetratoal lido della Calcarella, «squarciato, ahimè, da una immensa cava di pietra», an-che Roberto Pane (12) (1955, p. 74), testimone attento del momento più fecondodell’attività estrattiva, ne avrebbe descritta qualche decennio più tardi la totaledistruzione, denunciando in particolare che «nessun impedimento si è saputo, ovoluto, opporre ad una simile barbarie».

Dopo la chiusura della cava alla metà degli anni Settanta, tutta l’area è stataoggetto di un tentativo di speculazione edilizia, e poi abbandonata. Come in unvillaggio fantasma, la centrale elettrica è oggi ridotta a deposito di materiali diogni tipo; i moli, spogliati delle forche e dei pontili, sono in rovina così come il vi-cino frantoio, anch’esso destinato a soccombere sotto l’azione del mare. La vastaspianata sottostante il costone roccioso, mai messo in sicurezza, ospita attualmen-te un ricovero di imbarcazioni da diporto e un parcheggio; soltanto la forgia, unabassa costruzione in tufo grigio, è stata recuperata nelle sue strutture originarie.

Proseguendo lungo la costa si apre poi la piccola insenatura della Chianella,che un tempo ospitava una serie di modeste cave per la produzione di breccio-lino, direttamente collegate al Portiglione tramite un lungo tunnel scavato nellaroccia. A testimonianza di questa remota attività è ancor oggi ben visibile unatramoggia, anche in questo caso innalzata sui resti di una villa marittima di epo-ca imperiale (Pane, 1955, p. 76).

Le Vitale di Marcigliano e le cave del Cenito e di Mitigliano. – Poco più avanti,nella cala di Marcigliano, nei primi anni del Novecento sono state aperte le CaveVitale, utilizzate fino agli anni Sessanta per la fornitura di blocchi in opere portua-li. Lo sfruttamento intensivo dei costoni calcarei iniziò con qualche anno di antici-po rispetto a Puolo, tanto che già nel 1910 ne veniva denunciata la progressiva di-struzione (Filangieri di Candida, 1910, p. 555). Tutta la zona è attualmente occu-pata da un complesso turistico; edifici di scarso valore architettonico ma di note-vole impatto ambientale fanno da sfondo a uno stabilimento balneare realizzatosui pontili di carico ancora occupati dalle forche e da altre strutture di vario tipo.

Nella cala del Cenito, sono ben visibili i resti di una cava chiusa negli anni Ses-santa e trasformata, come la precedente, in una struttura turistica da poco recupe-rata dopo anni di abbandono. Doppiata la punta di Baccoli, si apre infine la solita-

(12) Storico dell’architettura, fu convinto sostenitore della salvaguardia del paesaggio e dellacittà storica. Nel 1955 pubblicò Sorrento e la costa, in cui confluiscono tutti i temi riesposti venti annipiù tardi nella proposta di Piano Territoriale di Coordinamento e di Piano Paesistico dell’Area Sor-rentino-Amalfitana, redatto tra il 1974 e il 1977 (Regione Campania, 1977).

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ria cala di Mitigliano, dove sino alla metà del secolo scorso era attiva una modestacava per l’estrazione e la lavorazione della breccia, come testimoniato dai resti diuna calcara e di un piccolo pontile di carico.

Le cave di Jeranto e di Recommone. – Sul versante salernitano della penisolasi staglia la vasta baia di Jeranto, deturpata dalla profonda ferita infertale dallostabilimento aperto dall’ILVA nei primi anni del Novecento. A differenza deglialtri siti, legati essenzialmente alla produzione di materiale edile o di massi perdighe foranee, la pur breve vita di questa cava è stata caratterizzata da un’attivitàestrattiva assai intensa, dovendo ininterrottamente rifornire gli altiforni degli im-pianti siderurgici di Bagnoli (13). Centinaia di migliaia di metri cubi di roccia cal-carea sono così saltati con inaudita violenza, e caricati con cadenza quasi gior-naliera su grandi navi da trasporto attraverso le sei grandi tramogge ancora oggiben visibili ai margini della spianata.

Solo in occasione del primo Convegno del Paesaggio, tenutosi a Capri nell’e-state del 1922, il sindaco di Massa Lubrense avrebbe denunciato lo scempio che

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(13) I lavori per la realizzazione dell’impianto dell’ILVA di Bagnoli, avviati grazie alla legge spe-ciale 351/1904 (Provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli), terminarono in-torno al 1910 (Cardone, 1993, pp. 226-234; Mazzetti, 2001, pp. 253-261). L’attività della cava di Jeran-to, che rifornì fin da subito gli altiforni, iniziò verosimilmente in quegli stessi anni.

Fig. 3 – L’ex cava Vitale di Marcigliano e, al centro, il complesso turistico ConcaAzzurraFonte: foto dell’autore

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si andava consumando nella baia (Cerio, 1923, p. 72); all’accorata protesta si as-sociò anche Norman Douglas (14), stupito «nel vedere come a causa di certeodiose attività estrattive sulla collina vicina, l’incanto di questo luogo, un tempoappartato, è stato completamente distrutto» (De Angelis, 2003, p. 183). Molti an-ni più tardi Edwin Cerio (15) ribadì d’altra parte la necessità di preservare quelche ancora restava del luogo, «sommerso dal rimbombo delle mine esplodentiper lacerare il promontorio […], devastato più che dalla furia degli elementi, dal-la rabbia distruttrice degli uomini» (Cerio, 1937, p. 5) (16). Ciò nonostante, la cava

(14) Scrittore austriaco di origini scozzesi, si stabilì per la prima volta a Capri nel 1903, ritornan-dovi poi per lunghi periodi nel 1914 e nel 1946, quando ricevette la cittadinanza onoraria per i nu-merosi scritti in difesa del paesaggio caprese e sorrentino (fra tutti, Siren Land, 1911).

(15) Sindaco di Capri tra il 1920 e il 1923, combatté una personalissima battaglia in difesa delpaesaggio, in particolare contro l’espansione edilizia e il diffondersi di «modi architettonici» estraneialla tradizione dell’isola.

(16) «[…] la montagna si deve lacerare, perché occorre il pietrame per le massicciate delle strade,occorrono i blocchi per le opere portuali. Sono necessarissime le cave di pietra; ma quando una re-gione di tanta incantevole bellezza come la Penisola Sorrentina è stata così ripetutamente sfregiata[…], non si potrebbe domandare a queste imprese – o meglio imporre loro – il rispetto per le vesti-gia di quel paesaggio classico che è pure una ricchezza incomparabile del nostro paese?» («Il Matti-no», 5 marzo 1937). Gli risponderà, qualche giorno più tardi, Norman Douglas: «Mio caro Cerio, laringrazio […] per la sua meritevole denuncia contro lo sfacelo di Jeranto. Spero che porterà i suoifrutti! Temo, però, il contrario, poiché ci sono già state simili rimostranze sulla stampa locale, senzaalcun risultato» (Centro Caprese Ignazio Cerio, 2003, p. 40).

Fig. 4 – Il costone sventrato dalla cava dell’ILVA nella baia di JerantoFonte: foto dell’autore

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continuerà a operare a pieno ritmo fino agli anni post-bellici, occupando oltreduecento addetti; incapace di reggere la crescente domanda di calcare (17), e digarantire nel contempo il rifornimento agli altiforni anche durante le mareggiateinvernali, sarà definitivamente chiusa nel 1952 (Ruocco, 1964, p. 54). Sul pro-montorio, a ricordo di mezzo secolo di attività, rimangono oggi i fabbricati de-stinati alla cucina, alla direzione, alla forgia, alla centrale elettrica e alla santa-barbara, oltre naturalmente al molo, alle vasche per il gasolio e, soprattutto, allegrandi tramogge, tutte «brutture di un cantiere fuori uso che, non facendosi ob-bligo a nessuno di portar via, sono testimonianza della irresponsabilità civile delnostro Paese» (Pane, 1955, p. 49).

Oltrepassata la rada di Marina del Cantone, si apre infine la riparata cala di Re-commone, dove fino agli anni Cinquanta ha operato una piccola cava che hasventrato la punta della Sciuscelluzza; anche in questo caso tutta l’area di lavoro èstata occupata da uno stabilimento balneare di pertinenza di una struttura ricettiva.

Crisi e dismissione delle cave sorrentine. Le attuali forme di riuso. – Dallametà del secolo scorso, parallelamente alla crisi del settore primario che avrebbeportato all’inesorabile ridimensionamento dell’agricoltura e della pesca, da sem-pre attività trainanti dell’economia sorrentina (Manzi, 2001, p. 485), anche la col-tivazione delle cave iniziò ad avvertire il peso di un’organizzazione troppo farra-ginosa e che già da tempo ne rendeva poco conveniente la gestione. Il traspor-

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(17) Nel dopoguerra lo stabilimento di Bagnoli subì un notevole aumento di produzione, e nel1951 si affiancò a esso la Cementir per la produzione di cemento d’altoforno (Cardone, 1993, p. 233;Andriello, Belli e Lepore, 1991, p. 93).

Fig. 5 – Strutture di cava abbandonate nella baia di JerantoFonte: foto dell’autore

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to del materiale via terra, in grado di offrire un notevole risparmio di tempo eun’indiscutibile elasticità di utilizzo, avrebbe inoltre soppiantato i tradizionaliviaggi per mare, troppo legati alle condizioni atmosferiche. Già alla fine deglianni Quaranta, i cementifici e gli impianti siderurgici napoletani avevano d’altraparte iniziato a servirsi, seppur ancora occasionalmente, delle cave site in pros-simità delle aree di consumo e dei principali assi di comunicazione, riattivateper far fronte alle crescenti necessità della ricostruzione post-bellica (18). Se perpoche cave sorrentine (Pozzano, Scrajo e Gradelle) la sopravvivenza fu solo mo-mentaneamente garantita dal fabbisogno locale di materiale minuto (Ruocco,1982, p. 319), per tutte le altre (da quella di Jeranto a quella di Puolo, rimasta te-nacemente aperta sino alla metà degli anni Settanta) si sarebbe così prospettatoun inevitabile quanto rapido declino, portando a una lunga serie di problemi digestione territoriale particolarmente evidenti nel comune di Massa Lubrense.

Al di là di modeste attività legate alla produzione e al commercio di prodottitipici (liquori di agrumi, olio d’oliva e latticini), l’economia lubrense è oggi basa-ta su un turismo prevalentemente elitario. Diversamente dal resto della penisola

(18) Ci si riferisce, in particolare, agli impianti del Basso Casertano (concentrati prevalentementetra Caianello, il monte Tifata e Maddaloni), aperti tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Nove-cento ma potenziati, a differenza di quelli sorrentini, a partire dagli anni Cinquanta.

Fig. 6 – L’ex cava di Recommone alla fine degli anni Sessanta del NovecentoFonte: cartolina postale, collezione privata

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sorrentina, le numerose seconde case, il numero esiguo di strutture ricettive e lamancanza di un moderno porto turistico (19) fanno dell’estrema propaggine dellapenisola un unicum; a dispetto di una costa di straordinaria suggestione, è pro-prio nell’accessibilità al mare e nella scarsa offerta di stabilimenti balneari che ilterritorio lubrense mostra, paradossalmente, le carenze maggiori. Ripidi pendiicaratterizzano infatti la quasi totalità della linea costiera, senza dimenticare cheanche i pochi tratti di costa bassa sono di fatto preclusi alla balneazione di massaperché difficilmente raggiungibili. Tutto ciò comporta, come è prevedibile, il so-vraffollamento delle poche aree attrezzate (marine di Puolo, della Lobra e delCantone in primis), con il conseguente decadimento della qualità dell’offerta.

Proprio in quest’ottica, i vasti piazzali di cava dismessi (e con questi i moli dicarico e tutti gli edifici che ne costituivano l’ossatura) rappresentano i luoghiideali dove impiantare attività turistiche, in zone di assoluto pregio paesaggisti-co. Se, tuttavia, il destino di gran parte di queste strutture (Puolo, Marcigliano,Cenito e Recommone) è già da tempo orientato verso il riutilizzo a fini ricettivi,è opportuno sottolineare come tutto questo sia stato portato avanti in manieraspontanea se non addirittura abusiva, in totale assenza di una pianificazione dibase in grado di sfruttarne appieno le molteplici potenzialità.

Fino all’entrata in vigore, alla fine degli anni Settanta, delle diverse normativeregionali (20), l’apertura delle cave non contemplava in effetti alcun parere tecnicopreventivo sui danni prodotti dall’inquinamento dei terreni e delle acque, nonchédall’alterazione dell’assetto idrogeologico; il già citato RDL 1443/1927 prevedevaanzi, da parte dei gestori, solo un generico risarcimento ai proprietari dei suolinel totale spregio dei valori storici e paesaggistici delle aree interessate.

È proprio in un panorama normativo del tutto inadeguato che è stata d’altraparte consentita, per quasi un secolo, la sistematica devastazione di vaste por-zioni della costa sorrentina, permettendo che si continuasse a speculare impu-nemente su quegli stessi luoghi con l’apertura di nuove attività che ne hanno ul-teriormente mortificato l’aspetto, laddove sarebbero stati opportuni interventivolti, se non al ripristino ambientale integrale, quantomeno al contenimento diun impatto paesaggistico fortemente negativo.

La localizzazione di strutture ricettive negli ambienti di cava, spesso in totaleinosservanza delle norme urbanistiche, si configura d’altra parte come una scel-ta assai discutibile, senza dimenticare che i costoni artificiali, se non bonificati,sono frequentemente soggetti a frane e distacchi di materiale roccioso con grave

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(19) Al termine di un lungo iter burocratico, nel marzo del 2014 il Consiglio di Stato ha definiti-vamente bocciato il progetto per il nuovo porto di Marina della Lobra, giudicando le opere previstedal Comune incompatibili con l’assetto idrogeologico della zona.

(20) In Campania, in particolare, la coltivazione delle cave e torbiere è attualmente regolamenta-ta dalla LR 54/1985; con la LR 13/1995 è stato istituito il PRAE (Piano Regionale delle Attività Estratti-ve), la cui proposta, approvata nel 2001, è orientata alla «salvaguardia dell’ambiente e il rilancio del-lo sviluppo, in modo compatibile con esso, del settore estrattivo e delle imprese ad esso collegate»(Del Gaudio e Vallario, 2007, pp. 225-253).

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rischio per l’utenza. Il recupero a fini ricreativi delle aree da tempo dismesse,pratica ormai consolidata anche in Italia attraverso interventi sia pubblici sia pri-vati, riguarda siti morfologicamente diversi, trattandosi il più delle volte di zonepianeggianti o comunque caratterizzate da minori acclività (21). Nel caso, infatti,di cave impiantate su pendii molto accentuati, il ripristino e il successivo riutiliz-zo risultano estremamente complessi per l’impatto che quasi sempre questeoperazioni esercitano sull’ambiente circostante (Legambiente, 2014, p. 86).

Proprio in quest’ottica – nonostante negli anni immediatamente successivi al-la chiusura degli ultimi impianti sulla costa sorrentina la necessità di ridurre i ri-schi idrogeologici per favorirne nel contempo un riutilizzo sostenibile fosse sta-ta ribadita con forza nella proposta di Piano Territoriale di Coordinamento e diPiano Paesistico dell’Area Sorrentino-Amalfitana (Regione Campania, 1977, p.46) – non è mai stato in realtà attuato alcun provvedimento specifico (22).

Parchi minerari e rinaturalizzazione. – Nel 1986, dopo un trentennio di to-tale abbandono, gli oltre 45 ettari della cava di Jeranto sono stati donati dall’IRI(ultima società proprietaria del sito) al Fondo per l’Ambiente Italiano, che nel2001 ha avviato una serie di interventi per il recupero dell’area. Il ritracciamentodegli antichi sentieri, il ripristino delle zone coltivate e il restauro della cinque-centesca torre di Montalto hanno rappresentato i primi passi verso la definizionedi un vero e proprio parco minerario; all’interno del centro di accoglienza, at-trezzato in un antico frantoio poco distante dall’area di lavoro, sono stati infattisistemati vecchi macchinari e documenti relativi all’attività della cava, il tutto in-tegrato da un agile sistema di percorsi che si snoda fra gli edifici dismessi in mo-do da raccontare ai visitatori la vita quotidiana di quello che è stato il più im-portante sito industriale della penisola sorrentina. Appare dunque evidente lavolontà di puntare, oltre che sugli aspetti squisitamente naturalistici della baia,

(21) Ci si riferisce, ad esempio, al ripristino delle cave di Merone, in provincia di Como, e di Ro-bilante-Roccavione presso Cuneo, entrambe riconvertite in oasi naturali attraverso interventi di rim-boschimento e la creazione di specchi d’acqua artificiali (Legambiente, 2014). Interessante è inveceil riuso a destinazione turistica della cava belga di Blegny-Trembleur, affidata a un’associazione pri-vata e riconvertita in museo con hotel annesso (APAT, 2007, p. 30).

(22) L’art. 17 del Piano Urbanistico Territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana (LR 35/1987), re-lativamente all’individuazione delle «zone territoriali prescrittive per la formazione dei piani regolato-ri generali», prevede per la Zona Territoriale I («emergenze tettoniche e morfologiche che si presen-tano prevalentemente con roccia affiorante o talvolta a vegetazione spontanea») la tutela integraledell’ambiente naturale e, ove necessario, una serie di interventi di restauro del paesaggio. La Campa-nia è ancora priva del Piano Paesistico Regionale, indispensabile strumento di pianificazione in lineacon le disposizioni del Piano Territoriale Regionale, LR 13/2008 (Regione Campania, 2008), che oltrea costituire il quadro di riferimento per lo sviluppo sostenibile del territorio regionale, ha fra i suoi o-biettivi principali riqualificare gli ambiti deteriorati. Approvato dalla Giunta Regionale nel 2012 (Re-gione Campania, 2012), ma duramente osteggiato da diverse associazioni ambientaliste (Italia No-stra, Legambiente, WWF, FAI), il PPR non è infatti operativo perché non ancora (agosto 2014) ratifi-cato dal Consiglio Regionale.

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sulla presenza stessa delle strutture superstiti, in un’ottica che vede nell’archeo-logia industriale un modo per preservare la storia e la memoria dei luoghi. Inparticolare, il FAI e il Comune di Massa Lubrense hanno congiuntamente pro-mosso una serie di ulteriori iniziative finalizzate alla valorizzazione dell’ex cavaunitamente alla riserva protetta di Punta Campanella, che proprio nella baia diJeranto ha uno dei punti di maggiore attrattività (23).

L’utilizzo a fini culturali e didattici delle aree dismesse, sull’esempio dei par-chi sorti da tempo nei principali distretti minerari europei e italiani (24), apparequindi il più appropriato, soprattutto per le cave sorrentine (e lubrensi in parti-colare) che conservano ancora in situ molti degli impianti e delle attrezzature disupporto, testimonianze di un importante, seppure poco noto, aspetto della lo-cale storia economica e sociale.

Proprio in quest’ottica va ricordato il progetto «Miglio Blu», nato una decinadi anni orsono nell’ambito della partecipazione del Comune di Massa Lubrensealla formazione del Progetto Integrato Territoriale della Penisola Sorrentina-Amalfitana, che ha previsto la riqualificazione dell’offerta turistica attraverso l’in-dividuazione di un itinerario sostenibile lungo la costa tra le marine della Lobrae di Puolo (Comune di Massa Lubrense, 2003, p. 3). L’intervento riguarda in par-ticolare il rinverdimento della scarpata dell’antica cava della Chiaja, la bonificadei piazzali di Marcigliano e della Calcarella e, soprattutto, la riapertura dellagalleria di servizio tra la Chianella e il Portiglione. Non un vero e proprio parcominerario, quindi, ma pur sempre un apprezzabile intervento incentrato intornoa una lunga passeggiata in grado di diffondere la conoscenza di alcune tra learee maggiormente degradate dall’attività estrattiva, migliorandone nel contem-po il contesto ambientale e preservandone soprattutto la memoria.

La strada percorsa dall’autorità comunale sembra, dunque, quella più corret-ta. Sulla falsariga di quanto finora promosso, l’antica cava abbandonata del Ci-mentaro, tra i casali di Monticchio e di Schiazzano, potrebbe ad esempio diveni-re, per l’eccezionale stato di conservazione delle gallerie e dei pozzi, il luogo

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(23) L’Area Marina Protetta di Punta Campanella, istituita nel 1997 nell’ambito della Legge Quadro394/1991, si estende per oltre 40 km di costa dal Capo di Sorrento a Punta Germano, interessando iComuni di Sorrento, Massa Lubrense, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Vico Equense (in provincia diNapoli) e Positano (in provincia di Salerno), con l’obiettivo di preservare il valore naturalistico, pae-saggistico e storico dell’area sottoponendola a tutela nel rispetto delle attività economiche tradizionali.

(24) Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, parallelamente al declino dell’attività e-strattiva, è stato avviato in Germania un censimento finalizzato al recupero delle aree dismesse, cir-coscritto dapprima ai soli edifici storici (come le ottocentesche Malakowturm), ed esteso progressi-vamente a tutti gli ambienti di cava, trasformati in veri e propri musei del territorio en plein air. In I-talia, dove il fenomeno è più recente, possiamo ricordare gli interventi nelle miniere di zolfo sicilia-ne, gli otto siti del Parco Geominerario, Storico e Ambientale della Sardegna, il Parco Minerario del-l’Isola d’Elba, l’Ecomuseo delle miniere e della Val Germanasca a Prali (Torino) e, in particolare, l’E-comuseo delle miniere di Gorno (Bergamo), che con i suoi percorsi differenziati può essere parago-nato a quanto realizzato a Jeranto. Per un’ampia panoramica sulle più recenti iniziative italiane, si ri-manda a APAT (2006; 2007); ISPRA (2011).

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ideale per la realizzazione di un centro di documentazione delle attività estratti-ve tradizionali; solo con il supporto della memoria degli oggetti, delle trame edelle persone che hanno contribuito a costruire la storia di un territorio è infattipossibile porre le premesse conoscitive per salvaguardarlo, valorizzarlo e riqua-lificarlo (Lago, 2001, p. 77).

Un discorso a parte andrebbe affrontato per il ripristino ambientale dellearee più degradate, in particolare per quel che riguarda i costoni calcarei sven-trati dalle mine. Se per rinaturalizzazione si intende il tentativo di riprodurre lecondizioni naturali antecedenti alla coltivazione industriale, questa forma di re-cupero non sembra applicabile ai siti costieri sorrentini; come accennato in pre-cedenza, nelle cave di materiali lapidei grossolani caratterizzate da forti acclivitànon è infatti adottabile né il modello di rimodellamento meccanico dei terreni,né tantomeno quello del riempimento con materiali alternativi. Anche il grado-namento artificiale, al fine di ridurre le pendenze e offrire un aspetto più natura-le ai costoni, si configura come una scelta non facilmente perseguibile per gli al-ti costi e per i risultati attesi poco soddisfacenti. D’altra parte, sia per la posizio-ne a pochi metri dal mare sia per la natura stessa dei terreni, non sono neancheipotizzabili operazioni di rinverdimento, per quanto le moderne tecniche agrariepermettano di impiantare vegetazione anche su superfici particolarmente acclivie rocciose (Montalbano, 2005, p. 15).

Per concludere, va comunque sottolineato che, al di là delle diverse modalitàdi rinaturalizzazione o di riuso alternativo, non sempre per le aree degradate

Fig. 7 – Massa Lubrense. L’area interessata dal progetto «Miglio Blu», tra la Mari-na della Lobra e l’ex cava di MarciglianoFonte: www.corsoitalianews.it

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dall’attività di cava sono necessariamente richiesti interventi specifici di recupe-ro. Qualunque forma di alterazione ambientale prodotta dall’industria estrattivatende infatti, dopo la sua dismissione, a ridursi gradualmente e in maniera spon-tanea attraverso più o meno lenti processi di adattamento e di rigenerazione deiterreni e dei flussi idrici, di dispersione degli agenti inquinanti e di ricolonizza-zione delle specie vegetali (Mazzanti, 1993, p. 29). Ciò vale, in particolare, per lecave più piccole, come quelle della Chiaja, delle Fontane, di Mitigliano e delleMortelle, abbandonate da oltre mezzo secolo. A differenza dei luoghi devastatidalle mine, oggi disordinatamente trasformati al di fuori di qualsivoglia piano ur-banistico o criterio dettato dal buon senso, qui le ferite inferte dall’attività estrat-tiva si sono, fortunosamente, quasi rimarginate, complice la minore pendenzadei costoni, la natura dei terreni e, soprattutto, la mancanza di qualunque ulte-riore intervento antropico.

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DISUSED QUARRIES ON THE SORRENTO COAST. LOCAL HISTORY, ENVIRON-MENTAL DAMAGE AND REUSE. – Mining activities play a prominent role in landscapedeterioration, and their effects are especially evident in the Sorrento peninsula, wheremany quarries have been working along the coast for more than seventy years.Although it has always been an essential area of the local economy, the intensiveexploitation of limestone ridges (as analyzed in the first part of this essay) has given riseto many territorial management issues which have been worsened by the closing downof the main coastal mines and by the ways they are being reused. The inadequacy ofthe national and local laws allowed the ruin of an area with high environmental value,which resulted in the conversion of many disused structures into tourist facilities, whilemore appropriate operations could have capitalized better on their potentials. Since thelocating of tourist infrastructure in a mine site is very questionable and the configurationof the land makes it extremely difficult the re-naturalization, any idea of reuse shouldtherefore involve the rehabilitation and valorization of abandoned workplaces, such asthe mining park in the Jeranto Bay created by FAI, the Fund for Italian Environment.

Seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Lettere e Beni Culturali

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