LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA … · industriale, appare a tutti un...

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Versione preliminare ed incompleta. Non citare. Commenti benvenuti. LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE E FRAMMENTAZIONE INTERNAZIONALE DEI PROCESSI PRODUTTIVI Daniele Langiu 1 Francesco Morello 2 Fabio Sdogati 3 SOMMARIO Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia ‘locale’. In questo lavoro si sostiene che il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere pronte ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni. 1 Politecnico di Milano, email: [email protected] 2 Politecnico di Milano, email: [email protected] 3 Ordinario di Economia Internazionale, Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano e Direttore, Executive Education, MIP School of Management, email: [email protected].

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Versione preliminare ed incompleta.

Non citare.

Commenti benvenuti.

LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE E

FRAMMENTAZIONE INTERNAZIONALE DEI PROCESSI PRODUTTIVI

Daniele Langiu1

Francesco Morello2

Fabio Sdogati3

SOMMARIO

Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che

prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al

massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia ‘locale’. In questo lavoro si sostiene che

il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si

immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la

conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la

riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con

l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di

produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico

attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo

attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere

pronte ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per

finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni.

1 Politecnico di Milano, email: [email protected]

2 Politecnico di Milano, email: [email protected]

3 Ordinario di Economia Internazionale, Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano e

Direttore, Executive Education, MIP School of Management, email: [email protected].

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Indice

Introduzione .................................................................................................................................. 3

1. Il mondo come era ................................................................................................................. 5

1.1. Il rapporto famiglie-banche-imprese produttive nel vecchio modello ‘originate to hold’ 5

1.2. La separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (1933-34) e la

deregolamentazione (1999) ....................................................................................................... 7

2. Il mondo come è. La seconda rivoluzione industriale: caduta dei profitti industriali,

frammentazione internazionale della produzione, l’emergere del modello ‘produrre valore per

l’azionista’ ..................................................................................................................................... 9

2.1. La frammentazione internazionale della produzione .................................................. 10

2.2. La “creazione di valore per l’azionista” ...................................................................... 15

2.3. La finanziarizzazione delle imprese industriali e la deindustrializzazione dei paesi a

più alto reddito pro-capite ....................................................................................................... 16

3. Il nuovo modello finanziario: ‘originate to distribute’ ...................................................... 18

4. Il contesto macroeconomico attuale .................................................................................... 19

5. Note conclusive ................................................................................................................... 22

Bibliografia ................................................................................................................................. 23

3

Introduzione

Molti si sono chiesti, negli ultimi anni, perché gli economisti non abbiano previsto la

crisi attuale. Tra le molte risposte possibili, e probabilmente corrette, quella che preferiamo è

che la professione non si occupa più, in generale, dell’economia nel suo complesso, della

sociologia dei rapporti economici, delle implicazioni economiche di cambiamenti nella

normativa: di quel metodo, cioè, che pure era dei classici, quando ciò che oggi chiamiamo

“economia” era chiamato “filosofia morale”.

In questo lavoro cerchiamo, nei nostri limiti, di recuperare quel metodo per studiare il

modificarsi nel tempo del ruolo delle banche in un contesto di finanziarizzazione dell’economia

mondiale e frammentazione internazionale della produzione.

La tesi che sosteniamo in questo lavoro non è del tutto facile da dimostrare, ma è

sufficientemente semplice da formulare. Quando gli effetti espansivi della più grande politica di

stimolo all’economia mondiale mai conosciuta dall’umanità, la seconda guerra mondiale,

cominciarono ad esaurirsi, la profittabilità dell’investimento industriale cominciò a diminuire.

Due forze vennero messe in movimento per, quantomeno, rallentare questa caduta: da un lato la

ricerca di minori costi di produzione unitari mediante il ricorso alla frammentazione

internazionale della produzione, il che avvenne gradualmente a partire dai settori produttivi in

cui il basso costo del lavoro non qualificato costituisce una quota importante dei costi –

abbigliamento, calzature e pellami, arredamento. Negli Stati Uniti si osservavano fenomeni

importanti di frammentazione internazionale della produzione già a partire dall’inizio degli anni

settanta. Parallelamente, e quasi contemporaneamente, viene prodotta, nelle università

statunitensi, la teoria poi nota come shareholder value revolution, cioè un nuovo approccio

teorico che reclama quote crescenti di profitti distribuiti agli azionisti a parità di valore aggiunto

e, di conseguenza, quote decrescenti destinate agli investimenti e al miglioramento delle

condizioni di lavoro, salariali o meno. Gli azionisti industriali diventarono così liberi di

destinare la propria quota di valore aggiunto a qualsivoglia attività d’investimento, e il settore

finanziario si rese presto conto che era possibile catturare quote crescenti di quella liquidità

offrendo rendimenti superiori a quelli offerti dal ‘vecchio’ settore industriale. Nasceva qui

l’ingegneria finanziaria che, nelle nuove condizioni in cui si sarebbe trovata ad operare

l’economia dalla metà circa degli anni novanta, avrebbe generato la crisi finanziaria all’origine

di questa recessione feroce.

4

Il lavoro è articolato in cinque paragrafi. Nel primo paragrafo si offre uno schema

interpretativo del mondo ‘come era’. Nella prima parte del paragrafo (1.1) l’enfasi è sul rapporto

famiglie-banche-imprese in un assetto istituzionale che prevede la netta separazione tra banche

commerciali e banche di investimento; nella seconda parte (1.2) si valutano costi e benefici

della separazione tra banche commerciali e banche di investimento che caratterizza il mondo ad

economia di mercato a partire dal Glass-Stegall Act del 1933. Il secondo paragrafo discute

invece del mondo ‘come è’, cioè del nuovo modo di organizzare la produzione a livello

mondiale anziché a livello locale, vale a dire del passaggio da processi di produzione localizzati

in un solo paese a processi produttivi globalmente integrati – noti anche come “catene globali di

produzione” (2.1); del contemporaneo emergere del modello “creare valore per gli azionisti”

(2.2) e, infine, del fenomeno di finanziarizzazione delle imprese industriali (2.3). Il terzo

paragrafo discute del nuovo modello di rapporto tra banche e finanza, cioè del passaggio dal

vecchio modello finanziario caratterizzato in letteratura come “originate to hold” al nuovo,

definito “originate to distribute”. Il quarto paragrafo discute gli effetti finanziari delle politiche

monetarie espansive, adottate da ormai quasi cinque anni, e presenta una ipotesi interpretativa

delle ragioni alla loro base. Il quinto paragrafo conclude.

5

1. Il mondo come era

1.1. Il rapporto famiglie-banche-imprese produttive nel vecchio modello

‘originate to hold’

Il rapporto famiglie-banche-imprese prevalente fino a non molti anni fa nei paesi ad alto

reddito pro capite è facilmente schematizzabile, poiché si tratta di una struttura di relazioni nota

a tutti e conosciuta a molti sotto il nome di ‘flusso circolare del reddito’. In questo schema le

famiglie vendono alle imprese i servizi dei fattori produttivi (tra cui il lavoro) e ne ricevono in

cambio un reddito (il lavoro riceve il salario); questo reddito viene in parte speso nell’acquisto

di beni e servizi prodotti dalle imprese e in parte risparmiato: i risparmi trovano la loro

collocazione materiale nei depositi bancari, i quali costituiscono la liquidità a fronte della quale,

in regime di riserva obbligatoria, è consentito alle banche di erogare prestiti alle imprese e alle

famiglie. Le banche di cui si parla sono, ovviamente, banche commerciali. Di quelle banche

cioè, autorizzate alla raccolta mediante depositi, le quali non possono investire né fondi propri

né fondi dei propri clienti, e che godono del privilegio di potersi rivolgere alla banca centrale in

qualità di prestatore di ultima istanza, vale a dire nel caso in cui non trovino sul mercato

interbancario altre banche disposte a soddisfare loro domanda di liquidità a prezzi ‘accettabili’.

In questo mondo5, i rischi associati ai prestiti erogati dalle banche commerciali sono del

tipo ‘originate to hold’: la banca commerciale emette il credito e lo tiene in portafoglio fino a

scadenza. Va da sé che, dato questo modo di operare, dato cioè che il rischio rimane in

portafoglio per anni e anni, la banca che emette il credito sarà particolarmente scrupolosa

nell’accertare il merito di credito del mutuatario/debitore; chiederà, e accerterà l’esistenza di,

‘garanzie’ che il mutuatario/debitore ritiene spesso vessatorie; chiederà che una parte assai

consistente del valore dell’attività per la quale il debito/mutuo viene chiesto venga finanziata

immediatamente dal debitore/mutuatario. I mutui “zero-i”, cioè a tasso di interesse zero, sono

ancora una cosa del futuro.

Il rischio è dunque rigorosamente controllato, poiché i clienti sono ben conosciuti, i

modelli ‘locali’ garantiscono un elevato tasso di successo nei rimborsi, il ricorso all’esproprio

raro, anche perché l’economia cresce prima a tassi da miracolo e poi a tassi comunque elevati.

Le perdite vennero solo quando esplose quell’inflazione contro la cui occorrenza le banche non

avevano immaginato di doversi assicurare mediante forme contrattuali adeguate –ad esempio

prevedendo tassi di interesse di rimborso indicizzati alle variazioni nel livello dei prezzi.

5 Seccareccia (2012) offre una buona rappresentazione del modello del flusso circolare con settore

finanziario.

6

Il rapporto tra i tre settori qui di interesse, e cioè famiglie, imprese e banche, è

ovviamente un rapporto intrinsecamente conflittuale; ma si tratta di un conflitto gestibile, perché

a tutti i soggetti è chiara la loro complementarietà economica, la dipendenza di ciascuno di essi

dagli altri. Certo, il conflitto sulla distribuzione del reddito c’è, in particolare tra la famiglie

(lavoro) da un lato e le imprese produttive dall’altro; ma il modello, che chiamerò capitalistico-

industriale, appare a tutti un miglioramento epocale rispetto al modello economico precedente,

nel quale profitti e salari erano in guerra per la spartizione di un reddito la cui dimensione

complessiva era fortemente condizionato dalla rendita, in particolare rendita fondiaria6.

Se si segue la classificazione adottata dagli economisti classici, il reddito viene

suddiviso tra chi contribuisce capitale, chi contribuisce lavoro, e chi contribuisce terra. Dunque,

la distribuzione tradizionale del valore aggiunto è tra questi fattori produttivi, i quali ricevono

rispettivamente interesse, salario, e rendita fondiaria. Con quale criterio il reddito tra i tre fattori

produttivi viene distribuito? Secondo la scuola neo-classica, ogni fattore di produzione riceve il

valore del proprio prodotto marginale. Se, a parità di tutto il resto, un lavoratore aggiuntivo sarà

in grado di produrre un certo numero di unità di prodotto in più, allora il salario sarà uguale al

valore di quel numero di unità di prodotto aggiuntive. Di conseguenza, tanto maggiore sarà il

prodotto marginale di un fattore di produzione, tanto maggiore sarà il reddito che quel fattore

percepirà.

Attorno alla metà del diciannovesimo secolo ebbe inizio una trasformazione importante

nella struttura della distribuzione del reddito tra i fattori della produzione, che fino ad allora

aveva visto la rendita fondiaria appropriarsi della quota maggiore del reddito prodotto. Con

l’affermarsi della rivoluzione industriale, infatti, le quote di valore aggiunto distribuite al

capitale (industriale) e al lavoro cominciarono a crescere, e quella della rendita (fondiaria) a

diminuire. Molti hanno autorevolmente scritto di una alleanza tra capitale e lavoro per

l’abbattimento delle rendite, realizzata mediante il progresso tecnico: gli incrementi di

produttività di capitale e lavoro garantivano a questi due fattori quote sempre maggiori del

reddito nazionale.

Che i destini di lavoro e capitale siano migliorati enormemente tra la seconda metà

dell’ottocento e l’inizio dell’ultimo quarto del novecento è fuori discussione. Se si guarda al

capitale, si osserva una crescente libertà di movimento, politiche di spesa pubblica a favore della

ricerca e dell’innovazione, sussidi e protezioni tariffarie; se si guarda al lavoro, basta ricordare

la riduzione del tempo di lavoro, il sorgere dei diritti all’organizzazione sindacale, la difesa del

lavoro femminile e minorile, i programmi pubblici di sicurezza sociale.

6 Si pensi, a titolo di esempio, al blocco dei fitti in Italia.

7

Poi, dalla fine degli anni ’70, la quota dei salari sul prodotto interno lordo di Stati Uniti

e Italia è andata progressivamente diminuendo, a favore dei redditi delle imprese e della rendita

finanziaria. Questo cambiamento è rappresentato rispettivamente in figura 1 per gli Stati Uniti e

in figura 2 per l’Italia.

La figura 3 presenta l’andamento del monte salari da un lato e l’andamento dei rendimenti

da capitale dall’altro, ma suddivisi tra rendimenti da capitale industriale e rendite finanziarie. Si

vede chiaramente come i profitti delle imprese produttive, del settore finanziario e i salari

statunitensi abbiano mantenuto un andamento crescente e simile fino alla fine degli anni ’70.

Terminata la Volcker recession degli anni ‘80, si è assistito alla netta divergenza dei tassi di

crescita dei profitti finanziari e non finanziari, con i primi sempre maggiori dei secondi. La crisi

del 2007 non ha certo invertito l’andamento: lo spostamento secolare della distribuzione dei

redditi verso il capitale, finanziario in particolare, continua imperturbato, ed anzi accelera.

1.2. La separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (1933-

34) e la deregolamentazione (1999)

L’assetto regolatorio delle attività bancarie in essere fino al 1999, anche se

progressivamente indebolito con il passare del tempo, fu originato dal Congresso degli Stati

Uniti nel 1933, quando venne approvato il Glass-Steagall Act. L’obiettivo di questo nuovo

assetto post crisi del 1929 era di tenere ben distinte tra loro le imprese bancarie sulla base del

principio che alcune tra loro dovessero gestire attività a basso contenuto di rischio ed altre

potessero gestire attività più rischiose: da qui la distinzione nettissima tra banche commerciali

da un lato e banche di investimento dall’altro. Le banche commerciali avrebbero potuto

raccogliere attraverso i depositi i quali, opportunamente ri-depositati presso la banca centrale

secondo il modello della riserva frazionale obbligatoria, avrebbero consentito loro di erogare

prestiti alle imprese e alle famiglie. Il privilegio dell’accesso ai fondi delle famiglie e delle

imprese mediante il canale dei depositi veniva invece interamente negato alle banche di

investimento. In secondo luogo, le banche commerciali non avrebbero potuto investire capitale

proprio né capitale dei propri clienti, mentre avrebbero potuto farlo le banche di investimento.

In terzo luogo, le banche commerciali avrebbero goduto del privilegio di potersi

approvvigionare presso la banca centrale nella sua qualità di prestatore di ultima istanza nel caso

il mercato interbancario negasse loro liquidità, mentre questa via al finanziamento sarebbe stata

negata alle banche di investimento. Infine, e allo scopo di rafforzare la ‘sicurezza’ delle banche

commerciali, tutti i depositi in essere presso banche commerciali sarebbero stati

automaticamente assicurati dalla Federal Deposit Insurance Corporation7.

7 Si noti come il compito di proteggere il risparmio delle famiglie venne assegnato ad una agenzia dello

Stato e non ad un ‘fondo interbancario……’

8

E’ facile immaginare come, superato lo scoglio della seconda guerra mondiale e

ristabilitesi le condizioni ‘normali’ di funzionamento dell’economia, tanto le banche

commerciali quanto quelle d’investimento dessero vita ad attività di lobbying di intensità

crescente, finalizzata alla rimozione di quelli che ciascuna categoria sentiva come vincoli

assurdi, limitativi della propria libertà di produrre profitti. Si può immaginare quanto le banche

di investimento aspirassero ad un emendamento alla Glass-Steagall che consentisse anche a loro

di poter raccogliere attraverso depositi, il che le avrebbe liberate dalla dipendenza dal mercato

interbancario e dai costi di approvvigionamento che, ovviamente, erano più alti di quanto non

fosse la raccolta attraverso depositi. Ed è altrettanto facile immaginare quanto le banche

commerciali si sentissero limitate dal lato degli impieghi, e quanto avrebbero voluto essere

libere di investire fondi: quantomeno fondi propri e, perché no, progressivamente, anche i fondi

dei propri correntisti.

A fronte di queste pressioni, a partire dagli anni ’80 si è assistette ad una progressiva

liberalizzazione del settore finanziario. Per permettere alle banche e, in particolare, alle savings

and loans8 di competere con i fondi comuni d’investimento, furono introdotti due importanti

provvedimenti: il primo, approvato nel 1980, è il Depository Institutions Deregulation and

Monetary Control Act (DIDMCA). Attraverso questa legge fu istituita una commissione con il

compito di sovrintendere, nei successivi sei anni, all’eliminazione graduale e completa del tetto

sui tassi d’interessi. In questo modo anche alle banche e alle savings and loans fu concessa la

possibilità di offrire al mercato tassi d’interesse sui depositi concorrenziali. Attraverso il

secondo provvedimento, il Garn-St. Germain Depository Institutions Act del 1982, venne data

agli istituti di deposito la possibilità di concedere prestiti commerciali per un ammontare

superiore al dieci per cento del valore dell’attività per l’acquisto della quale il prestito veniva

erogato e di utilizzare nuovi strumenti per attrarre risparmiatori. Un secondo importante aspetto

del processo di deregolamentazione del settore finanziario riguarda la divisione tra banche

commerciali e banche d’investimento, stabilita – come abbiamo visto prima - dal Glass-Steagall

Act, e dal Bank Holding Act del 1956, il quale estendeva lo stesso tipo di limitazioni del Glass-

Steagall alle holding bancarie.

A partire dal 1986, questi provvedimenti vennero progressivamente svuotati e resi

impotenti, fino alla loro completa abrogazione. Nel 1986, per la prima volta, la Federal Reserve

reinterpretò le limitazioni del Glass-Steagall Act, consentendo alle banche commerciali di

8 Le savings and loans rappresentano una delle forme in cui viene esercitata l’attività bancaria

commerciale negli Stati Uniti. Le savings and loans sono istituzioni simili alle casse di risparmio italiane,

le operazioni che effettuano sono principalmente la contrazione di depositi da una clientela locale e la

concessione di finanziamenti che per lo più sono erogati sotto la forma di mutui ipotecari per l’edilizia

residenziale

9

ottenere fino al cinque percento dei propri ricavi lordi da attività d’investimento. Nel 1987

venne concessa alle banche commerciali la possibilità di entrare in alcuni mercati finanziari. Nel

1996 venne permesso alle holding bancarie di detenere e svolgere attività d’investimento fino a

un valore pari al venticinque percento dei loro ricavi. Le attività di lobbying delle banche

ottennero il loro risultato finale nel 1999 quando, Bill Clinton Presidente, ciò che era rimasto

della legislazione Glass-Steagall venne definitivamente revocato, attraverso il Financial

Modernization Act. La Tabella 1 riassume le principali modifiche legislative introdotte nel

settore finanziario statunitense a partire dagli anni ’80.

Da quel momento non vi erano più limiti alla fantasia delle singole banche: nasceva la

‘banca universale’. Questi e altri provvedimenti hanno progressivamente deregolamentato i

mercati finanziari e facilitato la loro espansione; inoltre hanno permesso alle imprese non

finanziare di modificare le proprie fonti di reddito, dal lavoro al capitale e a favore degli

interessi del settore finanziario (Palley, 2007).

2. Il mondo come è. La seconda rivoluzione industriale: caduta dei

profitti industriali, frammentazione internazionale della

produzione, l’emergere del modello ‘produrre valore per

l’azionista’

Le tre decadi che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni

settanta sono state, correttamente, definite “l’età dell’oro” delle economie di mercato

appartenenti al sistema di Bretton Woods. L’alleanza tra capitale industriale e lavoro a discapito

della rendita fondiaria consentiva tassi di crescita ‘miracolosi’, una progressiva riduzione della

disparità inerente nella distribuzione del reddito, una crescita importante nella retribuzione del

lavoro, la nascita e lo sviluppo dello stato sociale. Ma, come documenta la figura 4 per il caso

statunitense, è anche vero che quel periodo fu caratterizzato dalla caduta, non drammatica ma

sistematica, della quota dei profitti sul totale del valore aggiunto nell’industria.

Un tale andamento è stato riscontrato non solo negli Stati Uniti, ma anche nelle altre

economie aderenti al sistema di Bretton Woods. In questi paesi, il tasso di profitto lordo delle

grandi imprese del settore non finanziario tra gli anni ’60 e gli anni ’80 ha subìto una forte

caduta, con una riduzione stimabile il circa il 50% a seconda dei settori e degli anni ritenuti

come inizio e fine del fenomeno. In particolare, come riporta Gallino (2009), tra il 1965 e il

1982 negli Stati Uniti il tasso di profitto lordo delle società non finanziarie è sceso dal 24% al

12%, mentre altre stime indicano un calo dal 21% al 10% nel periodo 1968-80. In Francia,

10

Germania, Regno Unito la percentuale media di riduzione del tasso di profitto per l’insieme

dell’economia nei due decenni 1965-1974 e 1975-84 è stata simile a quella statunitense (oltre il

23%). In Francia, Germania, Regno Unito, Giappone è marcatamente sceso il rapporto tra PIL e

capitale fisso complessivamente investito nei rispettivi paesi; infine, in Italia la quota del

capitale sul totale del valore aggiunto è diminuita da oltre il 36% nel 1963-64 a meno del 30%

nei primi anni ’80. Se si guarda al solo settore manifatturiero, la caduta della quota del capitale

sul valore aggiunto risulta molto più marcata: dal 38% del 1960 al 25% del 1975.

Tra le tante strategie che le imprese adottarono per contrastare questa tendenza due sono

quelle che avrebbero costituito i pilastri del nuovo modello di produzione e accumulazione

della ricchezza: la Frammentazione Internazionale della Produzione (FIP) e la “Creazione di

Valore per gli Azionisti”(CVA).

2.1. La frammentazione internazionale della produzione

Quando pensiamo al mondo, tendiamo a pensarlo in termini di ‘paesi.’ Il mondo è un

insieme di paesi. Il concetto di ‘paese’ permea il nostro modo di pensare, e si arriva al punto di

sentir dire che ‘un paese è meglio di un altro’: ad esempio, l’Italia è la migliore nel fashion e,

come ho saputo di recente, aspira ad ‘esportare la dolce vita’9.

Nella nostra cultura, quella degli stati nazionali appunto, una cultura molto recente che

risale al Trattato di Westfalia (1648), i confini nazionali sono sicuramente da difendere. Dal

punto di vista economico ciò equivale a dire che occorre difendere l’industria nazionale,

rendendo oneroso per gli stranieri l’accesso al mercato nazionale. L’esistenza della fabbrica, il

luogo in cui il lavoro aggiunge valore alle cose trasformandole in cose desiderabili, va

salvaguardata ad ogni costo. Essa è il luogo in cui si produce ricchezza, e il suo prodotto è la

fonte della ricchezza dei sudditi tanto quanto del principe, per il quale la fabbrica è, tra tante

altre cose forse, certamente base imponibile.

Si pensi al termine ‘delocalizzazione,’ molto usato (a sproposito) in Italia: esso vuole

dare il senso della perdita di controllo del sovrano sulla fonte del reddito proprio (la base

imponibile) e su quello dei suoi sudditi, e quindi di una tragedia da evitare ad ogni costo.

L’unitarietà del processo produttivo non consente alternative: o la fabbrica è ‘nostra’, e allora

sarà fonte di reddito pubblico e privato, o è ‘loro’, e perderemo il controllo sul processo di

produzione di quella ricchezza e, conseguentemente, sul suo godimento. Così, lo stato-nazione

moderno si comporta esattamente come il principe medioevale: impone dazi e altri ostacoli alle

importazioni, ostacoli tanto più gravosi quanto più importante è l’industria locale con cui quei

beni importati entrano in concorrenza.

9 Dal titolo di una recente pubblicazione congiunta del Centro Studi Confindustria, Prometeia, SACE.

11

Peraltro, alla fabbrica va data l’opportunità di esportare al di fuori dei confini nazionali,

perché soltanto così si possono pagare le importazioni che, per quanto odiose, sono pur sempre

utili, vuoi perché sono materie prime o fonti energetiche, e dunque ‘necessarie’, vuoi perché la

domanda nazionale non può essere soddisfatta dall’offerta nazionale per le ragioni più diverse.

Ed ecco i sussidi alle esportazioni da un lato e gli sgravi fiscali per i produttori che riescono a

penetrare mercati esterni. E anche questa è politica commerciale.

È questa la nostra cultura, la cultura dello stato-nazione. Non è né giusta né sbagliata. È

la cultura che nasce dalla centralità della fabbrica come luogo di produzione della ricchezza,

privata e pubblica, localizzata in un certo luogo in un certo periodo.

L’esistenza del concetto di “divisione internazionale del lavoro” presuppone l’esistenza

di economie nazionali che, sulla base di un qualche meccanismo, sono indotte a ‘dividersi’ il

lavoro tra loro. Ma questo non è un concetto immediatamente ovvio, nel paradigma tradizionale:

che cosa si vuol dire quando si dice che le economie nazionali si “dividono il lavoro”? La genesi

del concetto di divisione del lavoro è, in effetti, entro la fabbrica, dove il lavoro viene suddiviso

tra i lavoratori in modo tale che, mediante la specializzazione, la produttività aumenti. Il

seguente passo dalla Ricchezza delle Nazioni (1776) non sarà mai abbastanza citato:

“La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior

parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata

la divisione del lavoro.” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1976).

Ma dove ha luogo questo processo? Nella teoria smithiana, e dunque nella nostra

cultura, esso ha luogo entro la fabbrica. Smith è ovviamente cosciente del fatto che aumenti di

produttività saranno tanto più benvenuti quanto più, a parità di tutte le altre condizioni, esista un

‘mercato’, una domanda pronta ad assorbire la produzione pre-innovazione e quella aggiuntiva

dovuta all’innovazione. E infatti prosegue:

“[…] Poiché la possibilità di scambiare è la causa originaria della divisione del lavoro, la

misura in cui la divisione del lavoro si realizza non può che essere limitata dalla misura di tale

possibilità o, in altre parole, dall’ampiezza del mercato.” (Adam Smith, La ricchezza delle

nazioni, 1976).

Occorre dunque trovare il modo di ‘allargare il mercato,’ di offrire sbocchi all’impresa

che innova, se non si vuole che i benefici dell’aumento di produttività vadano perduti. Pur

cosciente del fatto che la divisione del lavoro stessa, creando specializzazione dei singoli

produttori, genera mercato, poiché sempre meno i produttori produrranno tutto l’insieme delle

merci (e dei servizi) che producevano nell’economia pre-industriale, Smith ha chiaro che

l’estensione del mercato deve procedere a ritmi sostenuti perché tutto il prodotto aggiuntivo

generato dalla rivoluzione industriale in atto in Inghilterra possa essere venduto.

12

Questa divisione internazionale del lavoro sarà tanto più approfondita quanto più

facilitati saranno i flussi di scambio internazionale, i flussi mediante i quali un paese esporta una

merce e ne importa un’altra. Ma la divisione del lavoro entro la fabbrica non si realizza così:

essa è il prodotto di una riorganizzazione del processo produttivo! Qui, nella fabbrica, sono i

lavoratori a specializzarsi, e le loro mansioni diventano sempre più definite e limitate in scopo;

là, quando si parla di stati-nazione, è l’apparato produttivo di un paese che si specializza

abbandonando la produzione di una merce e concentrando tutte le proprie capacità nella

produzione di un altra.

L’asimmetria tra le due situazioni è assai evidente a chi scrive, e l’accettazione acritica

del dictum di Smith ha portato a lasciare inesplorato per decenni e decenni un altro quesito di

importanza cruciale per le tesi che si vuol dimostrare qui: perché un “grande regno” non

potrebbe specializzarsi nello stesso modo in cui si specializzano i lavoratori della fabbrica

smithiana? Perché non può darsi il caso che la specializzazione di un paese non si estrinsechi nel

suo concentrare la propria capacità produttiva nella merce che sa produrre con maggiore

produttività, e non invece in una fase del processo produttivo di quella o di qualsiasi altra

merce? Nel senso di Smith, il concetto di “divisione del lavoro” è valido nel contesto del

processo di produzione, e individua la possibilità di frammentarlo in modo tale che la

produttività del lavoro aumenti all’aumentare del grado di “divisione del lavoro”. Perché allora

non potremmo intendere il concetto originario di “divisione del lavoro” in quanto

frammentazione internazionale del processo produttivo in segmenti specifici, un processo

produttivo che assegni l'esecuzione di ogni segmento di attività produttiva a gruppi diversi di

lavoratori, stavolta diversi perché localizzati in paesi diversi?

Certo, sorprende che due secoli non siano stati sufficienti a capire che la mappatura

uno-a-uno del concetto di “divisione del lavoro” in quella di “divisione internazionale del

lavoro” è metodologicamente errata. Ma alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo

imprese ed economisti si accorgono che qualcosa sta cambiando nella configurazione della

divisione internazionale del lavoro. Sul piano teorico Jones e Sanyial (1982), Baldone, Sdogati e

Zucchetti (1997), Jones e Kierzkowski (2001) aprono una linea di ricerca in cui il concetto di

“divisione internazionale del lavoro” viene associato a quello di ‘frammentazione internazionale

della produzione’, la quale viene definita come il fenomeno che consiste nell’approvvigionarsi

all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato in un solo paese e,

talvolta, in un solo impianto nel ‘nostro’ paese – e, in maniera complementare, nella fornitura

all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato e, talvolta, in un

solo impianto nel ‘loro’ paese .

Ma la pratica della frammentazione internazionale della produzione precede, come

sempre avviene, la sua concettualizzazione. Già negli anni settanta le imprese statunitensi si

13

avviano sulla strada della frammentazione, affidando segmenti sempre più estesi di processi

produttivi ai quattro paesi che a quel tempo divennero noti come ‘le quattro tigri asiatiche’, e

cioè Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan. La composizione dei flussi commerciali

comincia a mostrare una quota crescente di semilavorati e prodotti intermedi sul totale del

valore scambiato, esportato da alcuni ed importato da altri (figura 5). In un mondo caratterizzato

dalla crescente frammentazione internazionale della produzione, il concetto di ‘made in’ diventa

sempre meno potente e, al limite, perde ogni potenza esplicativa (Palmisano, 2006; Lamy,

2011). Piuttosto, ogni economia nazionale può essere identificata come il luogo in cui viene

prodotto un particolare segmento del processo produttivo globalmente integrato: sarà sempre

possibile che un paese si specializzi nella produzione di segmenti ad alta intensità di capitale o

in quelli ad alta intensità di lavoro, cioè in un segmento di un processo di produzione, ma non

nella produzione di un bene particolare. Il “made in Italy” è l’illusione, in versione debole, di

chi aspira ad ‘esportare la dolce vita’.

Il processo di ri-localizzazione della produzione degli Stati Uniti all'estero ha subito una

rapida accelerazione a partire dall’inizio degli anni ’80. Dopo la fine del sistema di Bretton

Woods formalizzata nel 1971, la strategia mediante la quale gli Stati Uniti riassunsero il

controllo del ciclo economico mondiale e della divisione del lavoro tra paesi e aree geo-

politiche, fu quella incarnata da Paul Volcker, Presidente della Fed dalla fine del 1979 e da

Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti dall’inizio del 1981. Il combinato disposto di una

politica monetaria fortemente recessiva da un lato e di una politica fiscale altrettanto fortemente

espansiva dall’altro, portava ad un apprezzamento del dollaro molto consistente che sarebbe

durata fino al marzo 1985 e il cui scopo era imporre un cambio altamente non competitivo per i

prezzi dei prodotti statunitensi. All’inizio degli anni ottanta, dunque, la politica statunitense

aveva l’obiettivo di liberare dalle imprese poco produttive dei settori tradizionali risorse da

destinare progressivamente ai settori emergenti quali l’informatica, le comunicazioni satellitari,

le biotecnologie, le nanotecnologie.

Questo processo, che dura ancora oggi e che durerà per anni e anni a venire, è quanto

abbiamo definito nel titolo di questo paragrafo “seconda rivoluzione industriale”. Che cosa

spinge le imprese a globalizzarsi, dimenticando il marchio ‘made in’ sui loro prodotti se non per

ragioni commerciali? Partendo dal presupposto che ogni fattore di produzione cercherà di

massimizzare la propria remunerazione la quale, a parità di tutto il resto, dipenderà dal proprio

prodotto marginale, allora i fattori della produzione andranno alla ricerca di condizioni entro cui

realizzare prodotti marginali elevati, perché quanto maggiore sarà il prodotto marginale, tanto

maggiore sarà la propria remunerazione. Come si può aumentare il prodotto marginale del

capitale? Andando a impiegarlo in quei paesi in cui il prodotto marginale del capitale è più alto,

in quei paesi, cioè, relativamente più dotati di lavoro che di capitale. Una unità di macchinario

14

sarà in grado di produrre più unità di prodotto al crescere del numero di lavoratori a sua

disposizione. E quali paesi sono relativamente più dotati di lavoro che non di capitale, se non i

paesi sottosviluppati? Di conseguenza, il capitale industriale ha iniziato a migrare verso i paesi

sottosviluppati, contribuendo a trasformarli in paesi ‘emergenti’.

La nascita e l’espansione delle catene di produzione globali hanno avuto, di

conseguenza, un ruolo determinante sulla profittabilità delle imprese manifatturiere. Infatti,

l’allocazione di fasi del processo produttivo all’estero ha permesso alle imprese di recuperare i

profitti che si erano ridotti a causa della saturazione della domanda interna dei beni di massa

(Gallino, 2009) - come le automobili, gli elettrodomestici e l’elettronica audio-video - e della

crescente competizione sul mercato globale. La frammentazione internazionale della produzione

ha consentito alle imprese di ridurre i costi di produzione, allocando all’estero alcune delle

attività produttive. La scelta del paese in cui è svolta una specifica attività produttiva è, infatti,

effettuata sulla base del vantaggio di costo assoluto di quel paese nello svolgere tale attività

(Jones, 1980; Milberg, 2004; Baldone, Sdogati, & Tajoli, 2007). I continui incrementi di

produttività e la riduzione del costo delle attività esternalizzate hanno permesso alle imprese di

recuperare i propri profitti e di ridurre la necessità di investimenti nazionali in capitale

industriale. In questo modo le imprese si sono ritrovate a disposizione una quantità maggiore di

profitti (Milberg, 2008; Milberg & Winkler, 2009).

La possibilità di incrementare i profitti è stata consentita anche dall’evoluzione della

struttura di mercato in cui operano le imprese che hanno sperimentato l’esternalizzazione di

alcune attività. Infatti, le imprese che hanno frammentato il proprio processo produttivo si

trovano ad operare in un sistema di mercato di oligopolio. Inoltre, le imprese dei paesi in cui

vengono rilocalizzate le attività produttive si trovano in una struttura mercato simile a quella di

concorrenza perfetta (Milberg, 2008). È quindi anche l’asimmetria tra la struttura di mercato in

cui operano le imprese che ‘offrono’ il frammento di produzione e quella in cui operano le

imprese che lo ricevono che determina l’aumento dei profitti delle imprese che guidano il

processo di frammentazione internazionale della produzione. Infatti, quest’asimmetria permette

a tali imprese di ottenere crescenti profitti, dato che sostengono costi decrescenti, e non

competono sul prezzo per continuare ad operare nel mercato. Tali profitti, tuttavia, sono stati

destinati crescentemente agli azionisti per perseguire il ‘nuovo’ obiettivo: la creazione di valore

per l’azionista.

15

2.2. La “creazione di valore per l’azionista”

Il processo di produzione di valore, cioè di reddito e, quindi, di ricchezza, è ovviamente

al centro dell’attenzione degli economisti. Come, e soprattutto, chi, crea valore? Gli economisti

classici modellavano questo processo ad un solo fattore produttivo, il lavoro. Era una

modellazione storicamente giustificata dalla assenza, o quantomeno dalla recente, sporadica

comparsa del capitale, che alcuni modellavano addirittura come ‘lavoro morto’, il che

consentiva di sottolineare che tutto il valore viene generato dal lavoro. Quando vi è un solo

fattore produttivo, un solo creatore di valore, non si pongono problemi di distribuzione del

reddito, poiché questo appartiene per definizione a chi lo ha prodotto e chi lo ha prodotto è uno

solo.

Ma l’affermarsi di processi produttivi che impiegavano quantità non trascurabili di

capitale pose il problema di come il valore prodotto vada distribuito tra i due fattori produttivi –

vale a dire tra i due gruppi sociali in cui può essere suddiviso l’aggregato ‘famiglie’, e cioè

capitalisti e lavoratori. A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo una nuova scuola di

economisti, detti neo-classici, elabora la teoria secondo cui il fattore lavoro va retribuito con il

valore del proprio prodotto marginale, il salario, mentre il profitto sarà un’entità residuale, cioè

che rimane dopo che tutti gli altri costi di produzione sono stati onorati. Che si creda o meno a

questo particolare teoria, ciò che conta è che sia stato stabilito il principio secondo cui esiste un

secondo fattore produttivo e che esso va remunerato.

Sorge, all’inizio degli anni ottanta del XX secolo, una letteratura la quale enfatizza che

il management delle imprese deve preoccuparsi di più della remunerazione del capitale e

aumentare la quota dei profitti distribuiti sul totale del valore aggiunto, e prestare minore

attenzione alla quota di profitti non distribuiti – quella cioè potenzialmente destinabile ad

investimenti, miglioramento delle condizioni di lavoro, ricerca e sviluppo. Figura 6 riporta

l’andamento nel tempo dei profitti distribuiti dal settore industriale rispetto al totale del valore

aggiunto generato nel processo produttivo industriale.

Secondo questa teoria, l’obiettivo dell’impresa è quello di aumentare il valore che gli

azionisti riconoscono ad essa. Tale valore è positivamente correlato ai flussi di cassa attesi che

l’impresa sarà in grado di distribuire agli azionisti e al capital gain che gli azionisti otterranno

dall’aumento del valore delle azioni delle imprese stesse. Nel momento in cui l’obiettivo di

massimizzazione del valore economico per gli azionisti diventa il fine ultimo secondo cui

l’amministrazione dell’impresa deve agire, le imprese agiscono per aumentare il prezzo delle

azioni della società, in modo da generare un capital gain per gli azionisti, distribuiscono

crescenti dividendi, pagati anche attraverso l’acquisizione di nuovo debito, e accrescono il

16

riacquisto di azioni della società stessa, in modo da aumentare il prezzo delle azioni stesse e in

modo da distribuire risorse agli azionisti (Lazonick & O'Sullivan, 2000; Krippner, 2005; Palley,

2007; Gallino, 2009). Dunque, si è passati dall’attenzione alla crescita, finanziata con i profitti

trattenuti e reinvestiti, alla massimizzazione del valore per gli azionisti e dei rendimenti di breve

periodo, ottenuta attraverso tre azioni principali: la riduzione delle dimensioni dell’impresa, la

distribuzione di una percentuale di profitti maggiore attraverso dividendi più alti e, infine, un

maggior volume di acquisti di azioni proprie.

Non è difficile immaginare quale sia il nuovo problema dell’azionista il quale abbia

osservato per anni una caduta dei profitti industriali: egli chiederà che il management trovi il

modo di ricostituire margini post-seconda guerra mondiale o, quanto meno, fermarne la caduta.

La frammentazione internazionale della produzione è esattamente la strategia industriale che le

imprese adottano per rispondere alla richiesta degli azionisti: dalle maquilladoras (Messico) alle

forniture di abbigliamento (Hong Kong), processori (Singapore), televisori (Taiwan) e

automobili (Corea del Sud). La strategia complementare adottata dall’azionista è di rientrare al

più presto in possesso del proprio capitale e, con ciò, della liberta di allocarlo dove meglio

crede: laddove, inevitabilmente, il rendimento sarà più alto, a parità di rischio. In breve, si

vengono accumulando quantità crescenti di capitale sganciato dall’impiego industriale di lungo

periodo, capitale pronto ad essere impiegato tanto sul mercato monetario (impieghi di breve)

quanto su quello finanziario (impieghi di lungo).

2.3. La finanziarizzazione delle imprese industriali e la deindustrializzazione

dei paesi a più alto reddito pro-capite

L’aumento della quota di dividendi è in linea con la teoria di massimizzazione del

valore economico per gli azionisti. Tale obiettivo ha cambiato la strategia delle imprese, che

passano da un modello che incentivava le imprese a trattenere profitti per poi essere investiti in

capitale industriale ad un modello che prevede una riduzione delle attività svolte dall’impresa,

perché crescentemente esse sono svolte all’estero, e una maggiore distribuzione agli azionisti

dei profitti generati a valle del processo produttivo. Le imprese sono passate da un modello di

svolgimento delle loro attività denominato “trattieni e investi” ad un modello “ridimensiona e

distribuisci” (Lazonick & O'Sullivan, 2000). Tale ridimensionamento delle attività svolte

dall’impresa ha ridotto, di conseguenza, la necessità di investimenti in capitale industriale. In tal

modo i profitti delle imprese devono trovare una nuova fonte di rendimento e sono

crescentemente ‘dirottati’ verso attività finanziarie e/o distribuiti agli azionisti. È da tenere

presente che la pressione degli azionisti ha un ruolo rilevante nella finanziarizzazione del

capitale, in particolar modo a seguito dell’ascesa degli investitori internazionali (assicurazioni,

17

fondi comuni di investimento mobiliare, fondi pensione) come detentori delle azioni delle

imprese non finanziarie10

. Infatti, tali investitori allocano il loro capitale, costituito dai risparmi

di persone ed entità giuridiche, tra le imprese che gli garantiscono il maggior rendimento

relativo, in altre parole tra le imprese che distribuiscono una quota relativamente maggiore dei

profitti generati. Le imprese saranno, dunque, incentivate a distribuire una quota crescente di

profitti in modo tale che l’investitore istituzionale non faccia mancare il suo apporto di capitale

nell’impresa.

La riduzione della profittabilità relativa delle imprese del settore industriale ha spinto le

imprese a trovare modi alternativi per aumentare i profitti. Da questo punto di vista, la

frammentazione internazionale della produzione ha consentito alle imprese di ridurre i costi di

produzione. Questi maggiori profitti non solo sono stati crescentemente distribuiti agli azionisti,

ma sono stati investiti anche in attività finanziarie. In questo modo si sono create le condizioni

per la trasformazione del modello di accumulazione del capitale: da un modello capitalistico

industriale ad un modello capitalistico finanziario. La finanziarizzazione ha, dunque, l’effetto di

aumentare la quota parte dei profitti realizzati dalle imprese che vengono distribuiti agli

azionisti tramite dividendi o acquisto di azioni dell’impresa stessa.

Si sta dunque assistendo ad una profonda trasformazione delle economie dei paesi ad

alto reddito pro-capite. Il processo di deindustrializzazione riduce la quota di valore aggiunto

derivante dal settore industriale dei paesi ad alto reddito pro-capite, tramite due processi: la

frammentazione internazionale della produzione e la finanziarizzazione delle imprese al suo

interno. Il primo processo modifica il modo di produrre delle imprese del settore industriale e

oltrepassa i tradizionali confini del settore industriale nel senso che alcune attività non vengono

più svolte nel settore industriale nazionale ma nel settore industriale estero. Il secondo processo

coinvolge il settore finanziario. È il settore finanziario che, crescentemente, influenza le

decisioni di organizzazione della produzione e le scelte di investimento. Esso, infatti, diventa il

settore d’uso dei profitti realizzati dalle imprese industriali che progressivamente accrescono le

proprie attività finanziarie (Figura 7 e Figura 8). Inoltre, esso rappresenta la destinazione dei

profitti delle imprese industriali, dato che crescentemente esse distribuiscono dividendi agli

azionisti.

I fattori fondamentali che determinano questi processi e, indirettamente, la

deindustrializzazione sono la riduzione della profittabilità delle attività industriali e la crescente

rilevanza della teoria secondo cui le imprese devono creare valore per l’azionista.

10

Tale ascesa è avvenuta in primo luogo negli Stati Uniti durante gli anni ottanta a seguito della

deregolamentazione del settore finanziario (Lazonick & O'Sullivan, 2000).

18

3. Il nuovo modello finanziario: ‘originate to distribute’

Nel giro di pochi anni attorno all’inizio degli anni ’80 si osserva dunque l’affermarsi di

tre fenomeni concomitanti:

1. La progressiva deindustrializzazione dei paesi a più alto reddito pro-capite;

2. La ‘liberazione’ di capitale dall’immobilizzo di lungo termine nella forma di

capitale industriale e la crescente finanziarizzazione delle imprese industriali;

3. L’emergere di nuovi comportamenti sul mercato dei prestiti bancari e, di

conseguenza, la crescente finanziarizzazione delle economie.

Gran parte della letteratura definisce il terzo di questi fenomeni come ‘innovazione

finanziaria’, ma non spiega quali ne siano state le cause scatenanti. Qui si sostiene che tale

innovazione fu da un lato il frutto dei primi due, e cioè dell’aumentare progressivamente più

rapido della disponibilità di capitale finanziario sempre meno affezionato all’impiego industriale

e sempre più alla ricerca di impieghi alternativi; e dall’altro di un cambiamento radicale nella

comprensione del rischio creditizio da parte delle banche e degli intermediari finanziari: un

cambiamento che fu alla base del passaggio dal vecchio modello ‘originate to hold’ al nuovo

‘originate and distribuite.’

Si ricorderà che nel modello originate to hold la banca origina il rischio, cioè offre

credito e, in via di principio, trattiene il titolo rischioso fino a maturità. Nel modello originate

and distribute l’erogazione del prestito ha una motivazione aggiuntiva: il rischio insito nel

‘mutuo’ viene venduto e il credito rimosso dal bilancio della banca erogante. Si forma così un

mercato nuovo, quello di mutui ipotecari cartolarizzati (Mortgage Backed Securities, MBS) che

non esisteva nel vecchio modello in cui le banche commerciali non potevano eseguire queste

operazioni. E le MBS sono uno degli strumenti finanziari preferiti dagli investitori.

Nel nuovo sistema finanziario le banche hanno rinunciato in gran parte alla loro

funzione di prestiti a imprese e famiglie per contrarsi invece sul commercio di titoli e divise e

sulla speculazione condotti sia in proprio, sia per conto di imprese e detentori di grandi

patrimoni (Gallino, 2011). Questo è il nuovo ruolo delle banche, le quali progressivamente

hanno sostituito i tradizionali metodi per fare profitti – i prestiti alle imprese e alle famiglie –

con la più allettante speculazione sul mercato finanziario, con soldi propri o con i ‘soldi degli

altri’ (Gallino, 2010). È evidente dalla Figura 9 e dalla Figura 10 che le banche commerciali

statunitensi hanno progressivamente ridotto i prestiti concessi sia alle imprese sia alle famiglie.

L’intermediazione finanziaria tradizionale del modello capitalistico industriale che vedeva le

banche commerciali il meccanismo attraverso cui si ‘moltiplicava’ la liquidità in circolazione

sembra trasformarsi.

19

La riduzione dei prestiti concessi a famiglie e imprese è una conseguenza necessaria se

le banche hanno la possibilità di accrescere i propri profitti in altri modi, precedentemente non

attuabili. Ecco quindi che l’innovazione finanziaria, intesa come la trasformazione del modello

di funzionamento delle banche, ha permesso alle banche stesse di aumentare il rendimento delle

proprie attività. Se nel tradizionale modello ‘originate-to-hold’ le banche si limitavano a creare

il prestito e mantenerlo nel proprio bilancio, nel modello ‘originate-to-distibute’ le banche

possono rivendere il prestito da loro creato e distribuirlo sia ad altre banche sia a istituti

finanziari non bancari. In particolare, dall’inizio degli anni novanta questo secondo modello ha

consentito alle banche di trasferire il rischio di credito al di fuori del tradizionale sistema

bancario (Bord & Santos, 2012). La cartolarizzazione dei debiti delle imprese e delle famiglie

ha, infatti, permesso alle banche di trasferire il rischio di credito ad istituti finanziari non

necessariamente di natura bancaria.

4. Il contesto macroeconomico attuale

E dunque, quale destino per le banche?

La buona teoria economica ci insegna a non aspettarci straordinari tassi di crescita

economica mentre la spesa pubblica viene contratta e, di conseguenza, c’è alta disoccupazione

e i redditi delle famiglie cadono. E le banche non danno a prestito ad imprese produttive in

difficoltà. E ogni volta che una impresa chiude, chi lavora ne soffre, e ne soffre la banca

esposta. Un circolo vizioso che solo la spesa pubblica potrebbe spezzare. Ma non lo si vuole.

Irragionevolmente? O esiste invece una agenda diversi dei governi europei, una agenda al cui

centro non c’è, evidentemente, la ripresa economica?

Quanto ancora possiamo vivere in questo scenario? Le previsioni del FMI pubblicate il

9 Luglio dicono che c’è poca ragione di credere che l’Europa uscirà dalla sua ‘mite recessione’

prima del 2014. E la cosiddetta ‘strategia di riduzione del debito’? Bene, le prospettive non

appaiono rosee nemmeno su quel fronte. Proviamo a giocare con un esempio.

Il governo italiano ha un debito pubblico che ammonta pressappoco a 2 trilioni di €, pari

a circa il 125% del suo PIL. Se si prende sul serio le decisioni assunte a livello europeo il 2

marzo 2012 e note come ‘fiscal compact,’ questo rapporto dovrà essere uguale al 60% circa nel

2032. Vero, il linguaggio del testo non è davvero stringente e saranno fatte delle concessioni.

Dunque, supponiamo di limare solo un quarto del debito. Assumendo che la recessione di cui

siamo tutti testimoni sia un invenzione del FMI e dell’OCSE e che il reddito è, e sarà, stabile

(cioè, assumendo che la teoria economica abbia torto e che le riduzioni del debito non siano

recessive), noi stiamo parlando di ridurre il debito di 25 miliardi all’anno per vent’anni

consecutivi. Il che, ponendola in maniera diversa, implica un surplus di bilancio dello stesso

ammontare.

20

Naturalmente, questa non è una strada percorribile da alcun governo. Esiste quindi

soltanto un modo che io vedo in grado di garantire che la riduzione del debito rimarrà al livello

desiderato: privatizzazioni. Non sto parlando, ovviamente, di idee ridicole di cui si è sentito

parlare in fase di avvicinamento a questa politica, quali la vendita di vecchie caserme militari o

di strisce di spiagge di proprietà dello Stato. Mi riferisco alla cosa reale, quegli ‘articoli’ che

sono ad un tempo grandi, corpulenti e non redditizi (in questo momento) per il settore privato:

mi riferisco ai servizi di pubblica utilità, la sanità, l’istruzione, il trasporto pubblico e le

municipalizzate in genere.

E chi si può permettere questi ‘articoli’? Bene, forse le banche, che potrebbero aver

trovato un investimento meno rischioso di quello chiesto loro dalle imprese produttive. Questo

scenario è caratterizzato da due aspetti principali. Secondo l’ipotesi che stiamo sviscerando, nel

lato reale dell’economia troviamo governi che tagliano il debito pubblico, per la maggior parte

attraverso privatizzazioni; e nel lato finanziario dell’economia le banche detengono molta

liquidità che da anni ormai non stanno dando a prestito alle imprese - né la daranno. Non è

difficile immaginare le banche commerciali che prestano denaro a qualche agente privato per

comprare, ad esempio, servizi di pubblica utilità. Ma dove, si chiederà, potranno le banche

trovare la liquidità necessaria? Semplice: la liquidità viene fornita da anni ormai nelle forme

più tradizionali ed avveniristiche allo stesso tempo mediante le Long Term Refinancing

Operations, dalle Quantitative Easing 1, 2, 3 … La Banca Centrale Europea, la Federal

Reserve, la Bank of England e, in misure ed intensità relativamente inferiori, la Bank of Japan

hanno intrapreso politiche monetarie fortemente espansive sia riducendo il proprio tasso di

sconto (Figura 11) sia adottando operazioni di mercato aperto, definite ‘non convenzionali’,

aumentando il totale dell’attivo iscritto nel proprio bilancio (Figura 12). Tutta liquidità che le

banche non riversano sul mercato del credito e che preferiscono invece ri-depositare presso la

banca centrale o, al massimo, utilizzare per comperare titoli del debito dei governi. Tutta

liquidità, in altre parola, in attesa di impieghi proficui. E le Outright Monetary Transactions

servono, nell’interim, a sostenere i bilanci delle banche.

Perfino in uno scenario in cui il rimborso delle LTRO innescasse una riduzione nella

disponibilità di credito, le banche avrebbero la soluzione per qualsiasi problema di liquidità.

Qual è la soluzione? Emettere Asset Backed Securities, cioè obbligazioni garantite: garantite,

naturalmente, dalle public utilities, sanità, istruzione……

La risposta alla domanda ‘perché così tanta liquidità, visto che non serve a rilanciare

l’attività produttiva?’ Dal 2007 la risposta è una sola: per dare tempo a sufficienza alle banche

di ripulire i propri bilanci. Ma sorge un’altra domanda: ma perché, allora, una politica fiscale

recessiva? Non dovremmo adottare una politica fiscale espansiva, se fosse quello l’obiettivo?

Non aiuterebbe le banche nel loro intento? Non è forse vero che il processo di riduzione della

leva dura molto più a lungo quando più è persistente la stagnazione dell’economia reale?

21

È proprio questa combinazione di politiche monetarie aggressivamente espansive e

politiche fiscali aggressivamente recessive ad aver attirato la nostra attenzione. Le prime sono

state costantemente espansive fin dall’agosto 2007 e, addirittura, lo sono diventate ancora di più

con QE, LTRO, OMT; le seconde, decisamente espansive nel 2008 e prima metà del 2009, si

sono poi trasformate in politiche recessive. Per di più, se si prendono seriamente le istanze di

politica annunciate dalle istituzioni e dai leader europei, si è già detto che la politica fiscale

continuerà ad essere aggressivamente recessiva negli anni a venire.

E’ chiaro a tutti che la combinazione politica monetaria espansiva e politica fiscale

recessiva non genera ripresa. In particolare, è possibile mostrare che i paesi che hanno adottato

politiche di austerità maggiori hanno mostrato, contemporaneamente, una riduzione della

crescita maggiore rispetto agli altri paesi (Figura 13). Lo sapevamo anche cinque anni fa, ma i

governi europei, e i loro consiglieri economici, hanno continuato a battere la grancassa della

ripresa promettendo che minori debiti pubblici avrebbero generato un miglioramento delle

aspettative delle famiglie e delle imprese, le quali avrebbero ricominciato a spendere ed

investire…. Credo fortemente che questa sia una favola che nessuno può prendere sul serio. A

generare i surplus dei bilanci dei governi saranno necessariamente entrate di tipo non fiscale.

Inizialmente per paesi come Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Portogallo e a seguire, probabilmente,

per Slovenia, Francia, Olanda, cioè per quei paesi che hanno le percentuali più abbondanti di

capitale preso a prestito dai governi, l’intervento di consolidamento sarà costituito dalla vendita

di attività detenute dai governi, come la scuola pubblica, la sanità, le autostrade, municipalizzate

e così via. Chiaramente, se questo dovesse accadere, il grande ammontare di liquidità messo a

disposizione dalle autorità monetarie e detenuto dalle banche, avrebbe trovato l’impiego

appropriato.

Tuttavia, la nostra discussione ci ha portato a concludere che questo non è un risultato

voluto a tutti i costi dagli intermediari finanziari. Infatti, il finanziamento delle privatizzazioni

potrebbe addirittura essere lasciato a qualche banca locale, piccola, relativamente non

competitiva. Le banche più grandi e più competitive potrebbero moltiplicare i propri

investimenti, iniziati anni fa, nei paesi emergenti, ad alta crescita, politicamente affidabili. In

quei paesi cioè, in cui la produttività del capitale è più alta e, di conseguenza, lo sono anche i

rendimenti dell’investimento finanziario.

22

5. Note conclusive

La crisi finanziaria attuale, emersa in un primo momento come un problema di debito

privato, è stata poi scientemente trasformata in una questione di debito pubblico. Dato che non

vi è nulla all’interno della buona teoria economica che suggerisca che vi siano debiti buoni e

cattivi, non vi è una spiegazione ovvia al perché il debito pubblico sia finito sotto un attacco

così feroce da parte del settore finanziario. L’interpretazione dell’evidenza fin qui discussa è che

il processo di costituzione di reti di produzione internazionali ha superato la sua fase esplorativa

ed è ora pronto a decollare su di una scala nuova e massiccia. Ma questo richiede grandi

quantità di capitali, la cui provenienza può essere soltanto l’Europa. E ciò richiede un enorme

ridimensionamento del settore pubblico. Che questa sia una politica voluta o meno dal settore,

un’ondata di privatizzazioni è nelle carte. E la liquidità per renderla possibile è già presente. E’

proprio questo che deve avvenire se si vuole realizzare quella inversione del ciclo della

distribuzione del reddito che, iniziata moderatamente circa quaranta anni fa negli Stati Uniti, sta

assumendo carattere di generalità in tutti i paesi ad alto reddito pro capite.

Nel frattempo, un tempo probabilmente molto lungo, che cosa avverrà della liquidità

che, ci è stato assicurato ancora in questi giorni, le banche centrali continueranno a riversare nel

sistema per un periodo di tempo “prolungato”? Una cosa è certa: non andrà a finanziare attività

produttive in molti dei paesi ad alto reddito pro-capite. Certamente verrà invece utilizzata per

finanziare il processo di deindustrializzazione e, parallelamente, per contribuire, negli stessi

paesi, al processo di produzione di reddito senza produzione.

E dal punto di vista normativo, quale potrebbe essere uno scenario plausibile? Per

rispondere, occorre guardare ancora una volta agli Stati Uniti, dove il dibattito ruota attorno a

tre posizioni principali:

i. Quella di Paul Volcker, già Presidente della Fed e autore, insieme a Ronald Reagan, della

grande deindustrializzazione. Volcker vede con favore un ritorno alla separazione

radicale tra banche commerciali e banche di investimento, realizzata attorno alle grandi

linee della Glass-Steagall;

ii. Quella di Lawrence Summers, già membro del Council of Economic Advisors del

Presidente Obama. Summers sembra prediligere una forma di banca universale non

lontana da quella affermatasi negli ultimi quindici anni, ma soggetta a più stringente

regolazione da parte delle autorità di controllo;

iii. Quella di Jamie Dimon, amministratore delegato di J. P. Morgan e grande sostenitore

della campagna elettorale di Obama. Dimon lotta per una deregolamentazione la più

ampia possibile del settore.

23

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25

Figura 1. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite

finanziarie dall’altro negli Stati Uniti (dati in miliardi di dollari).

Fonte: Federal Reserve Bank of the United States.

Figura 2. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite

finanziarie dall’altro, in Italia (dati in miliardi di euro).

Fonte: ISTAT

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Figura 3. Profitti delle imprese statunitensi e monte salari negli Stati Uniti (1° trimestre

1980=100 – 4° trimestre 2012)

Fonte: Federal Reserve Bank of United States of America

Figura 4. Rapporto tra profitti netti e valore aggiunto alla produzione nazionale delle imprese

manifatturiere statunitensi (1950-2011)

Fonte: National Income and Product Accounts Tables, Bureau of Economic Analysis, Aprile

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Figura 5. Importazioni di beni intermedi, dati annuali, 1990-2010

Fonte: OECD.Stat, Maggio 2013

Figura 6. Quota di dividendi distribuiti dalle imprese statunitensi sul totale dei profitti

lordi, 1946-2011

Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012

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Figura 7. Quota di attività in fondi di investimento comuni sul totale delle attività finanziarie

detenute dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011

Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012

Figura 8. Rapporto tra il totale delle attività finanziarie e delle attività non finanziarie iscritte a

bilancio dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011

Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012

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Figura 9. Quota di prestiti commerciali e industriali erogati dalle banche commerciali

statunitensi sul totale del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013

Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013

Figura 10. Quota di prestiti alle famiglie erogati dalle banche commerciali statunitensi sul totale

del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013

Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013

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Figura 11. Tasso di sconto di alcune Banche Centrali, gennaio 2007 – maggio 2013

Fonte: US Federal Reserve, Eurostat, Bank of England, Bank of Japan, 2013

Figura 12. Totale dell’attivo iscritto a bilancio di alcune Banche Centrali alla fine di ciascun

periodo, gennaio 2007(=100) – maggio 2013

Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis, European Central Bank, Bank of England, 2013

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Figura 13. Variazione del PIL pro-capite reale e misure di austerità – tagli alla spesa e aumenti

del prelievo fiscale – in rapporto al PIL

Fonte: IMF World Economic Outlook, aprile 2013; IMF Fiscal Monitor, ottobre 2012

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Tabella 1: Deregolamentazione del settore finanziario statunitense, USA. Eventi principali,

1980-2004

Fonte: Adattato da Sherman (2009)

1980, Depository Institutions Deregulations and Monetary Control Act (DIDMCA)

Per permettere alle banche e alle saving and loans di competere i fondi d'investimento comuni, viene creata un commissione il cui compito è quello di sovrintendere nei successivi sei anni alla graduale ma completa eliminazione del tetto sui tassi d'interesse

1982, Garn-St. Germain Depository Insitutions Act

Deregolamentazione quasi completa delle saving and loans. Viene consentita loro la concessione di prestiti commerciali e l'utilizzo di nuovi strumenti per competere direttamente con i fondi comuni d'investimento.

1994, Riegle-Neal Interstate Banking and Branching Efficiency Act

Rimozione delle pre-esistenti restrizioni sulla possibilità di svolgere attività bancaria e/o di possedere succursali a livello interstatale.

1996, Fed Reiterprets Glass-Steagall Act

La Federal Reserve reinterpreta il Glass-Steagall Act diverse volte. Alla fine viene concesso alle holding bancarie di ottenere fino al venticinque percento dei propri ricavi da operazioni effettuate attraverso le banche d'investimenti appartenenti al gruppo.

1999, Financial Modernization Act (conosciuto anche come Gramm-Leach-Bliely Act)

Il Glass-Steagall Act viene completamente abrogato.

2000, Commodity Futures Modernization Act

Viene impedito alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC) di regolamentare la maggior parte dei contratti derivati over-the-counter (OTC), inclusi i credit default swaps (CDS).

2004, Voluntary Regulation

La Security and Exchange Commission (SEC) propone un sistema di regolamentazione volontaria sotto il programma Consolidated Supervised Entities, consentendo alle banche d'investimento di detenere un'ammontare inferiore di capitale a riserva e di aumentare la leva finanziaria