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Versione preliminare ed incompleta.
Non citare.
Commenti benvenuti.
LE BANCHE TRA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA MONDIALE E
FRAMMENTAZIONE INTERNAZIONALE DEI PROCESSI PRODUTTIVI
Daniele Langiu1
Francesco Morello2
Fabio Sdogati3
SOMMARIO
Il modificarsi del ruolo delle banche nell’economia viene quasi sempre studiato in modelli che
prescindono dal modificarsi della struttura produttiva che caratterizza l’economia reale o, al
massimo, tengono conto del modificarsi dell’economia ‘locale’. In questo lavoro si sostiene che
il legame tra struttura produttiva e settore finanziario è molto più forte di quanto non si
immagini normalmente, e in particolare si sostiene che la finanziarizzazione dell’economia, e la
conseguente trasformazione del modo di essere delle banche, sono fenomeni correlati con la
riconfigurazione della divisione mondiale del lavoro o, come si dice in termini più moderni, con
l’emergere della frammentazione internazionale dei processi produttivi e delle catene globali di
produzione. L’analisi della evoluzione di questi fenomeni da un lato e del contesto storico
attuale dall’altro conducono alla conclusione che difficilmente le banche ritroveranno un ruolo
attivo nel finanziamento delle attività delle famiglie e delle imprese, e che preferiranno essere
pronte ad utilizzare la liquidità posseduta, e tanto generosamente offerta dalla BCE, per
finanziare la privatizzazione di attività oggi erogate dalle pubbliche amministrazioni.
1 Politecnico di Milano, email: [email protected]
2 Politecnico di Milano, email: [email protected]
3 Ordinario di Economia Internazionale, Dipartimento di Ingegneria Gestionale, Politecnico di Milano e
Direttore, Executive Education, MIP School of Management, email: [email protected].
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Indice
Introduzione .................................................................................................................................. 3
1. Il mondo come era ................................................................................................................. 5
1.1. Il rapporto famiglie-banche-imprese produttive nel vecchio modello ‘originate to hold’ 5
1.2. La separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (1933-34) e la
deregolamentazione (1999) ....................................................................................................... 7
2. Il mondo come è. La seconda rivoluzione industriale: caduta dei profitti industriali,
frammentazione internazionale della produzione, l’emergere del modello ‘produrre valore per
l’azionista’ ..................................................................................................................................... 9
2.1. La frammentazione internazionale della produzione .................................................. 10
2.2. La “creazione di valore per l’azionista” ...................................................................... 15
2.3. La finanziarizzazione delle imprese industriali e la deindustrializzazione dei paesi a
più alto reddito pro-capite ....................................................................................................... 16
3. Il nuovo modello finanziario: ‘originate to distribute’ ...................................................... 18
4. Il contesto macroeconomico attuale .................................................................................... 19
5. Note conclusive ................................................................................................................... 22
Bibliografia ................................................................................................................................. 23
3
Introduzione
Molti si sono chiesti, negli ultimi anni, perché gli economisti non abbiano previsto la
crisi attuale. Tra le molte risposte possibili, e probabilmente corrette, quella che preferiamo è
che la professione non si occupa più, in generale, dell’economia nel suo complesso, della
sociologia dei rapporti economici, delle implicazioni economiche di cambiamenti nella
normativa: di quel metodo, cioè, che pure era dei classici, quando ciò che oggi chiamiamo
“economia” era chiamato “filosofia morale”.
In questo lavoro cerchiamo, nei nostri limiti, di recuperare quel metodo per studiare il
modificarsi nel tempo del ruolo delle banche in un contesto di finanziarizzazione dell’economia
mondiale e frammentazione internazionale della produzione.
La tesi che sosteniamo in questo lavoro non è del tutto facile da dimostrare, ma è
sufficientemente semplice da formulare. Quando gli effetti espansivi della più grande politica di
stimolo all’economia mondiale mai conosciuta dall’umanità, la seconda guerra mondiale,
cominciarono ad esaurirsi, la profittabilità dell’investimento industriale cominciò a diminuire.
Due forze vennero messe in movimento per, quantomeno, rallentare questa caduta: da un lato la
ricerca di minori costi di produzione unitari mediante il ricorso alla frammentazione
internazionale della produzione, il che avvenne gradualmente a partire dai settori produttivi in
cui il basso costo del lavoro non qualificato costituisce una quota importante dei costi –
abbigliamento, calzature e pellami, arredamento. Negli Stati Uniti si osservavano fenomeni
importanti di frammentazione internazionale della produzione già a partire dall’inizio degli anni
settanta. Parallelamente, e quasi contemporaneamente, viene prodotta, nelle università
statunitensi, la teoria poi nota come shareholder value revolution, cioè un nuovo approccio
teorico che reclama quote crescenti di profitti distribuiti agli azionisti a parità di valore aggiunto
e, di conseguenza, quote decrescenti destinate agli investimenti e al miglioramento delle
condizioni di lavoro, salariali o meno. Gli azionisti industriali diventarono così liberi di
destinare la propria quota di valore aggiunto a qualsivoglia attività d’investimento, e il settore
finanziario si rese presto conto che era possibile catturare quote crescenti di quella liquidità
offrendo rendimenti superiori a quelli offerti dal ‘vecchio’ settore industriale. Nasceva qui
l’ingegneria finanziaria che, nelle nuove condizioni in cui si sarebbe trovata ad operare
l’economia dalla metà circa degli anni novanta, avrebbe generato la crisi finanziaria all’origine
di questa recessione feroce.
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Il lavoro è articolato in cinque paragrafi. Nel primo paragrafo si offre uno schema
interpretativo del mondo ‘come era’. Nella prima parte del paragrafo (1.1) l’enfasi è sul rapporto
famiglie-banche-imprese in un assetto istituzionale che prevede la netta separazione tra banche
commerciali e banche di investimento; nella seconda parte (1.2) si valutano costi e benefici
della separazione tra banche commerciali e banche di investimento che caratterizza il mondo ad
economia di mercato a partire dal Glass-Stegall Act del 1933. Il secondo paragrafo discute
invece del mondo ‘come è’, cioè del nuovo modo di organizzare la produzione a livello
mondiale anziché a livello locale, vale a dire del passaggio da processi di produzione localizzati
in un solo paese a processi produttivi globalmente integrati – noti anche come “catene globali di
produzione” (2.1); del contemporaneo emergere del modello “creare valore per gli azionisti”
(2.2) e, infine, del fenomeno di finanziarizzazione delle imprese industriali (2.3). Il terzo
paragrafo discute del nuovo modello di rapporto tra banche e finanza, cioè del passaggio dal
vecchio modello finanziario caratterizzato in letteratura come “originate to hold” al nuovo,
definito “originate to distribute”. Il quarto paragrafo discute gli effetti finanziari delle politiche
monetarie espansive, adottate da ormai quasi cinque anni, e presenta una ipotesi interpretativa
delle ragioni alla loro base. Il quinto paragrafo conclude.
5
1. Il mondo come era
1.1. Il rapporto famiglie-banche-imprese produttive nel vecchio modello
‘originate to hold’
Il rapporto famiglie-banche-imprese prevalente fino a non molti anni fa nei paesi ad alto
reddito pro capite è facilmente schematizzabile, poiché si tratta di una struttura di relazioni nota
a tutti e conosciuta a molti sotto il nome di ‘flusso circolare del reddito’. In questo schema le
famiglie vendono alle imprese i servizi dei fattori produttivi (tra cui il lavoro) e ne ricevono in
cambio un reddito (il lavoro riceve il salario); questo reddito viene in parte speso nell’acquisto
di beni e servizi prodotti dalle imprese e in parte risparmiato: i risparmi trovano la loro
collocazione materiale nei depositi bancari, i quali costituiscono la liquidità a fronte della quale,
in regime di riserva obbligatoria, è consentito alle banche di erogare prestiti alle imprese e alle
famiglie. Le banche di cui si parla sono, ovviamente, banche commerciali. Di quelle banche
cioè, autorizzate alla raccolta mediante depositi, le quali non possono investire né fondi propri
né fondi dei propri clienti, e che godono del privilegio di potersi rivolgere alla banca centrale in
qualità di prestatore di ultima istanza, vale a dire nel caso in cui non trovino sul mercato
interbancario altre banche disposte a soddisfare loro domanda di liquidità a prezzi ‘accettabili’.
In questo mondo5, i rischi associati ai prestiti erogati dalle banche commerciali sono del
tipo ‘originate to hold’: la banca commerciale emette il credito e lo tiene in portafoglio fino a
scadenza. Va da sé che, dato questo modo di operare, dato cioè che il rischio rimane in
portafoglio per anni e anni, la banca che emette il credito sarà particolarmente scrupolosa
nell’accertare il merito di credito del mutuatario/debitore; chiederà, e accerterà l’esistenza di,
‘garanzie’ che il mutuatario/debitore ritiene spesso vessatorie; chiederà che una parte assai
consistente del valore dell’attività per la quale il debito/mutuo viene chiesto venga finanziata
immediatamente dal debitore/mutuatario. I mutui “zero-i”, cioè a tasso di interesse zero, sono
ancora una cosa del futuro.
Il rischio è dunque rigorosamente controllato, poiché i clienti sono ben conosciuti, i
modelli ‘locali’ garantiscono un elevato tasso di successo nei rimborsi, il ricorso all’esproprio
raro, anche perché l’economia cresce prima a tassi da miracolo e poi a tassi comunque elevati.
Le perdite vennero solo quando esplose quell’inflazione contro la cui occorrenza le banche non
avevano immaginato di doversi assicurare mediante forme contrattuali adeguate –ad esempio
prevedendo tassi di interesse di rimborso indicizzati alle variazioni nel livello dei prezzi.
5 Seccareccia (2012) offre una buona rappresentazione del modello del flusso circolare con settore
finanziario.
6
Il rapporto tra i tre settori qui di interesse, e cioè famiglie, imprese e banche, è
ovviamente un rapporto intrinsecamente conflittuale; ma si tratta di un conflitto gestibile, perché
a tutti i soggetti è chiara la loro complementarietà economica, la dipendenza di ciascuno di essi
dagli altri. Certo, il conflitto sulla distribuzione del reddito c’è, in particolare tra la famiglie
(lavoro) da un lato e le imprese produttive dall’altro; ma il modello, che chiamerò capitalistico-
industriale, appare a tutti un miglioramento epocale rispetto al modello economico precedente,
nel quale profitti e salari erano in guerra per la spartizione di un reddito la cui dimensione
complessiva era fortemente condizionato dalla rendita, in particolare rendita fondiaria6.
Se si segue la classificazione adottata dagli economisti classici, il reddito viene
suddiviso tra chi contribuisce capitale, chi contribuisce lavoro, e chi contribuisce terra. Dunque,
la distribuzione tradizionale del valore aggiunto è tra questi fattori produttivi, i quali ricevono
rispettivamente interesse, salario, e rendita fondiaria. Con quale criterio il reddito tra i tre fattori
produttivi viene distribuito? Secondo la scuola neo-classica, ogni fattore di produzione riceve il
valore del proprio prodotto marginale. Se, a parità di tutto il resto, un lavoratore aggiuntivo sarà
in grado di produrre un certo numero di unità di prodotto in più, allora il salario sarà uguale al
valore di quel numero di unità di prodotto aggiuntive. Di conseguenza, tanto maggiore sarà il
prodotto marginale di un fattore di produzione, tanto maggiore sarà il reddito che quel fattore
percepirà.
Attorno alla metà del diciannovesimo secolo ebbe inizio una trasformazione importante
nella struttura della distribuzione del reddito tra i fattori della produzione, che fino ad allora
aveva visto la rendita fondiaria appropriarsi della quota maggiore del reddito prodotto. Con
l’affermarsi della rivoluzione industriale, infatti, le quote di valore aggiunto distribuite al
capitale (industriale) e al lavoro cominciarono a crescere, e quella della rendita (fondiaria) a
diminuire. Molti hanno autorevolmente scritto di una alleanza tra capitale e lavoro per
l’abbattimento delle rendite, realizzata mediante il progresso tecnico: gli incrementi di
produttività di capitale e lavoro garantivano a questi due fattori quote sempre maggiori del
reddito nazionale.
Che i destini di lavoro e capitale siano migliorati enormemente tra la seconda metà
dell’ottocento e l’inizio dell’ultimo quarto del novecento è fuori discussione. Se si guarda al
capitale, si osserva una crescente libertà di movimento, politiche di spesa pubblica a favore della
ricerca e dell’innovazione, sussidi e protezioni tariffarie; se si guarda al lavoro, basta ricordare
la riduzione del tempo di lavoro, il sorgere dei diritti all’organizzazione sindacale, la difesa del
lavoro femminile e minorile, i programmi pubblici di sicurezza sociale.
6 Si pensi, a titolo di esempio, al blocco dei fitti in Italia.
7
Poi, dalla fine degli anni ’70, la quota dei salari sul prodotto interno lordo di Stati Uniti
e Italia è andata progressivamente diminuendo, a favore dei redditi delle imprese e della rendita
finanziaria. Questo cambiamento è rappresentato rispettivamente in figura 1 per gli Stati Uniti e
in figura 2 per l’Italia.
La figura 3 presenta l’andamento del monte salari da un lato e l’andamento dei rendimenti
da capitale dall’altro, ma suddivisi tra rendimenti da capitale industriale e rendite finanziarie. Si
vede chiaramente come i profitti delle imprese produttive, del settore finanziario e i salari
statunitensi abbiano mantenuto un andamento crescente e simile fino alla fine degli anni ’70.
Terminata la Volcker recession degli anni ‘80, si è assistito alla netta divergenza dei tassi di
crescita dei profitti finanziari e non finanziari, con i primi sempre maggiori dei secondi. La crisi
del 2007 non ha certo invertito l’andamento: lo spostamento secolare della distribuzione dei
redditi verso il capitale, finanziario in particolare, continua imperturbato, ed anzi accelera.
1.2. La separazione tra banche commerciali e banche d’investimento (1933-
34) e la deregolamentazione (1999)
L’assetto regolatorio delle attività bancarie in essere fino al 1999, anche se
progressivamente indebolito con il passare del tempo, fu originato dal Congresso degli Stati
Uniti nel 1933, quando venne approvato il Glass-Steagall Act. L’obiettivo di questo nuovo
assetto post crisi del 1929 era di tenere ben distinte tra loro le imprese bancarie sulla base del
principio che alcune tra loro dovessero gestire attività a basso contenuto di rischio ed altre
potessero gestire attività più rischiose: da qui la distinzione nettissima tra banche commerciali
da un lato e banche di investimento dall’altro. Le banche commerciali avrebbero potuto
raccogliere attraverso i depositi i quali, opportunamente ri-depositati presso la banca centrale
secondo il modello della riserva frazionale obbligatoria, avrebbero consentito loro di erogare
prestiti alle imprese e alle famiglie. Il privilegio dell’accesso ai fondi delle famiglie e delle
imprese mediante il canale dei depositi veniva invece interamente negato alle banche di
investimento. In secondo luogo, le banche commerciali non avrebbero potuto investire capitale
proprio né capitale dei propri clienti, mentre avrebbero potuto farlo le banche di investimento.
In terzo luogo, le banche commerciali avrebbero goduto del privilegio di potersi
approvvigionare presso la banca centrale nella sua qualità di prestatore di ultima istanza nel caso
il mercato interbancario negasse loro liquidità, mentre questa via al finanziamento sarebbe stata
negata alle banche di investimento. Infine, e allo scopo di rafforzare la ‘sicurezza’ delle banche
commerciali, tutti i depositi in essere presso banche commerciali sarebbero stati
automaticamente assicurati dalla Federal Deposit Insurance Corporation7.
7 Si noti come il compito di proteggere il risparmio delle famiglie venne assegnato ad una agenzia dello
Stato e non ad un ‘fondo interbancario……’
8
E’ facile immaginare come, superato lo scoglio della seconda guerra mondiale e
ristabilitesi le condizioni ‘normali’ di funzionamento dell’economia, tanto le banche
commerciali quanto quelle d’investimento dessero vita ad attività di lobbying di intensità
crescente, finalizzata alla rimozione di quelli che ciascuna categoria sentiva come vincoli
assurdi, limitativi della propria libertà di produrre profitti. Si può immaginare quanto le banche
di investimento aspirassero ad un emendamento alla Glass-Steagall che consentisse anche a loro
di poter raccogliere attraverso depositi, il che le avrebbe liberate dalla dipendenza dal mercato
interbancario e dai costi di approvvigionamento che, ovviamente, erano più alti di quanto non
fosse la raccolta attraverso depositi. Ed è altrettanto facile immaginare quanto le banche
commerciali si sentissero limitate dal lato degli impieghi, e quanto avrebbero voluto essere
libere di investire fondi: quantomeno fondi propri e, perché no, progressivamente, anche i fondi
dei propri correntisti.
A fronte di queste pressioni, a partire dagli anni ’80 si è assistette ad una progressiva
liberalizzazione del settore finanziario. Per permettere alle banche e, in particolare, alle savings
and loans8 di competere con i fondi comuni d’investimento, furono introdotti due importanti
provvedimenti: il primo, approvato nel 1980, è il Depository Institutions Deregulation and
Monetary Control Act (DIDMCA). Attraverso questa legge fu istituita una commissione con il
compito di sovrintendere, nei successivi sei anni, all’eliminazione graduale e completa del tetto
sui tassi d’interessi. In questo modo anche alle banche e alle savings and loans fu concessa la
possibilità di offrire al mercato tassi d’interesse sui depositi concorrenziali. Attraverso il
secondo provvedimento, il Garn-St. Germain Depository Institutions Act del 1982, venne data
agli istituti di deposito la possibilità di concedere prestiti commerciali per un ammontare
superiore al dieci per cento del valore dell’attività per l’acquisto della quale il prestito veniva
erogato e di utilizzare nuovi strumenti per attrarre risparmiatori. Un secondo importante aspetto
del processo di deregolamentazione del settore finanziario riguarda la divisione tra banche
commerciali e banche d’investimento, stabilita – come abbiamo visto prima - dal Glass-Steagall
Act, e dal Bank Holding Act del 1956, il quale estendeva lo stesso tipo di limitazioni del Glass-
Steagall alle holding bancarie.
A partire dal 1986, questi provvedimenti vennero progressivamente svuotati e resi
impotenti, fino alla loro completa abrogazione. Nel 1986, per la prima volta, la Federal Reserve
reinterpretò le limitazioni del Glass-Steagall Act, consentendo alle banche commerciali di
8 Le savings and loans rappresentano una delle forme in cui viene esercitata l’attività bancaria
commerciale negli Stati Uniti. Le savings and loans sono istituzioni simili alle casse di risparmio italiane,
le operazioni che effettuano sono principalmente la contrazione di depositi da una clientela locale e la
concessione di finanziamenti che per lo più sono erogati sotto la forma di mutui ipotecari per l’edilizia
residenziale
9
ottenere fino al cinque percento dei propri ricavi lordi da attività d’investimento. Nel 1987
venne concessa alle banche commerciali la possibilità di entrare in alcuni mercati finanziari. Nel
1996 venne permesso alle holding bancarie di detenere e svolgere attività d’investimento fino a
un valore pari al venticinque percento dei loro ricavi. Le attività di lobbying delle banche
ottennero il loro risultato finale nel 1999 quando, Bill Clinton Presidente, ciò che era rimasto
della legislazione Glass-Steagall venne definitivamente revocato, attraverso il Financial
Modernization Act. La Tabella 1 riassume le principali modifiche legislative introdotte nel
settore finanziario statunitense a partire dagli anni ’80.
Da quel momento non vi erano più limiti alla fantasia delle singole banche: nasceva la
‘banca universale’. Questi e altri provvedimenti hanno progressivamente deregolamentato i
mercati finanziari e facilitato la loro espansione; inoltre hanno permesso alle imprese non
finanziare di modificare le proprie fonti di reddito, dal lavoro al capitale e a favore degli
interessi del settore finanziario (Palley, 2007).
2. Il mondo come è. La seconda rivoluzione industriale: caduta dei
profitti industriali, frammentazione internazionale della
produzione, l’emergere del modello ‘produrre valore per
l’azionista’
Le tre decadi che vanno dalla fine della seconda guerra mondiale all’inizio degli anni
settanta sono state, correttamente, definite “l’età dell’oro” delle economie di mercato
appartenenti al sistema di Bretton Woods. L’alleanza tra capitale industriale e lavoro a discapito
della rendita fondiaria consentiva tassi di crescita ‘miracolosi’, una progressiva riduzione della
disparità inerente nella distribuzione del reddito, una crescita importante nella retribuzione del
lavoro, la nascita e lo sviluppo dello stato sociale. Ma, come documenta la figura 4 per il caso
statunitense, è anche vero che quel periodo fu caratterizzato dalla caduta, non drammatica ma
sistematica, della quota dei profitti sul totale del valore aggiunto nell’industria.
Un tale andamento è stato riscontrato non solo negli Stati Uniti, ma anche nelle altre
economie aderenti al sistema di Bretton Woods. In questi paesi, il tasso di profitto lordo delle
grandi imprese del settore non finanziario tra gli anni ’60 e gli anni ’80 ha subìto una forte
caduta, con una riduzione stimabile il circa il 50% a seconda dei settori e degli anni ritenuti
come inizio e fine del fenomeno. In particolare, come riporta Gallino (2009), tra il 1965 e il
1982 negli Stati Uniti il tasso di profitto lordo delle società non finanziarie è sceso dal 24% al
12%, mentre altre stime indicano un calo dal 21% al 10% nel periodo 1968-80. In Francia,
10
Germania, Regno Unito la percentuale media di riduzione del tasso di profitto per l’insieme
dell’economia nei due decenni 1965-1974 e 1975-84 è stata simile a quella statunitense (oltre il
23%). In Francia, Germania, Regno Unito, Giappone è marcatamente sceso il rapporto tra PIL e
capitale fisso complessivamente investito nei rispettivi paesi; infine, in Italia la quota del
capitale sul totale del valore aggiunto è diminuita da oltre il 36% nel 1963-64 a meno del 30%
nei primi anni ’80. Se si guarda al solo settore manifatturiero, la caduta della quota del capitale
sul valore aggiunto risulta molto più marcata: dal 38% del 1960 al 25% del 1975.
Tra le tante strategie che le imprese adottarono per contrastare questa tendenza due sono
quelle che avrebbero costituito i pilastri del nuovo modello di produzione e accumulazione
della ricchezza: la Frammentazione Internazionale della Produzione (FIP) e la “Creazione di
Valore per gli Azionisti”(CVA).
2.1. La frammentazione internazionale della produzione
Quando pensiamo al mondo, tendiamo a pensarlo in termini di ‘paesi.’ Il mondo è un
insieme di paesi. Il concetto di ‘paese’ permea il nostro modo di pensare, e si arriva al punto di
sentir dire che ‘un paese è meglio di un altro’: ad esempio, l’Italia è la migliore nel fashion e,
come ho saputo di recente, aspira ad ‘esportare la dolce vita’9.
Nella nostra cultura, quella degli stati nazionali appunto, una cultura molto recente che
risale al Trattato di Westfalia (1648), i confini nazionali sono sicuramente da difendere. Dal
punto di vista economico ciò equivale a dire che occorre difendere l’industria nazionale,
rendendo oneroso per gli stranieri l’accesso al mercato nazionale. L’esistenza della fabbrica, il
luogo in cui il lavoro aggiunge valore alle cose trasformandole in cose desiderabili, va
salvaguardata ad ogni costo. Essa è il luogo in cui si produce ricchezza, e il suo prodotto è la
fonte della ricchezza dei sudditi tanto quanto del principe, per il quale la fabbrica è, tra tante
altre cose forse, certamente base imponibile.
Si pensi al termine ‘delocalizzazione,’ molto usato (a sproposito) in Italia: esso vuole
dare il senso della perdita di controllo del sovrano sulla fonte del reddito proprio (la base
imponibile) e su quello dei suoi sudditi, e quindi di una tragedia da evitare ad ogni costo.
L’unitarietà del processo produttivo non consente alternative: o la fabbrica è ‘nostra’, e allora
sarà fonte di reddito pubblico e privato, o è ‘loro’, e perderemo il controllo sul processo di
produzione di quella ricchezza e, conseguentemente, sul suo godimento. Così, lo stato-nazione
moderno si comporta esattamente come il principe medioevale: impone dazi e altri ostacoli alle
importazioni, ostacoli tanto più gravosi quanto più importante è l’industria locale con cui quei
beni importati entrano in concorrenza.
9 Dal titolo di una recente pubblicazione congiunta del Centro Studi Confindustria, Prometeia, SACE.
11
Peraltro, alla fabbrica va data l’opportunità di esportare al di fuori dei confini nazionali,
perché soltanto così si possono pagare le importazioni che, per quanto odiose, sono pur sempre
utili, vuoi perché sono materie prime o fonti energetiche, e dunque ‘necessarie’, vuoi perché la
domanda nazionale non può essere soddisfatta dall’offerta nazionale per le ragioni più diverse.
Ed ecco i sussidi alle esportazioni da un lato e gli sgravi fiscali per i produttori che riescono a
penetrare mercati esterni. E anche questa è politica commerciale.
È questa la nostra cultura, la cultura dello stato-nazione. Non è né giusta né sbagliata. È
la cultura che nasce dalla centralità della fabbrica come luogo di produzione della ricchezza,
privata e pubblica, localizzata in un certo luogo in un certo periodo.
L’esistenza del concetto di “divisione internazionale del lavoro” presuppone l’esistenza
di economie nazionali che, sulla base di un qualche meccanismo, sono indotte a ‘dividersi’ il
lavoro tra loro. Ma questo non è un concetto immediatamente ovvio, nel paradigma tradizionale:
che cosa si vuol dire quando si dice che le economie nazionali si “dividono il lavoro”? La genesi
del concetto di divisione del lavoro è, in effetti, entro la fabbrica, dove il lavoro viene suddiviso
tra i lavoratori in modo tale che, mediante la specializzazione, la produttività aumenti. Il
seguente passo dalla Ricchezza delle Nazioni (1776) non sarà mai abbastanza citato:
“La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior
parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata
la divisione del lavoro.” (Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, 1976).
Ma dove ha luogo questo processo? Nella teoria smithiana, e dunque nella nostra
cultura, esso ha luogo entro la fabbrica. Smith è ovviamente cosciente del fatto che aumenti di
produttività saranno tanto più benvenuti quanto più, a parità di tutte le altre condizioni, esista un
‘mercato’, una domanda pronta ad assorbire la produzione pre-innovazione e quella aggiuntiva
dovuta all’innovazione. E infatti prosegue:
“[…] Poiché la possibilità di scambiare è la causa originaria della divisione del lavoro, la
misura in cui la divisione del lavoro si realizza non può che essere limitata dalla misura di tale
possibilità o, in altre parole, dall’ampiezza del mercato.” (Adam Smith, La ricchezza delle
nazioni, 1976).
Occorre dunque trovare il modo di ‘allargare il mercato,’ di offrire sbocchi all’impresa
che innova, se non si vuole che i benefici dell’aumento di produttività vadano perduti. Pur
cosciente del fatto che la divisione del lavoro stessa, creando specializzazione dei singoli
produttori, genera mercato, poiché sempre meno i produttori produrranno tutto l’insieme delle
merci (e dei servizi) che producevano nell’economia pre-industriale, Smith ha chiaro che
l’estensione del mercato deve procedere a ritmi sostenuti perché tutto il prodotto aggiuntivo
generato dalla rivoluzione industriale in atto in Inghilterra possa essere venduto.
12
Questa divisione internazionale del lavoro sarà tanto più approfondita quanto più
facilitati saranno i flussi di scambio internazionale, i flussi mediante i quali un paese esporta una
merce e ne importa un’altra. Ma la divisione del lavoro entro la fabbrica non si realizza così:
essa è il prodotto di una riorganizzazione del processo produttivo! Qui, nella fabbrica, sono i
lavoratori a specializzarsi, e le loro mansioni diventano sempre più definite e limitate in scopo;
là, quando si parla di stati-nazione, è l’apparato produttivo di un paese che si specializza
abbandonando la produzione di una merce e concentrando tutte le proprie capacità nella
produzione di un altra.
L’asimmetria tra le due situazioni è assai evidente a chi scrive, e l’accettazione acritica
del dictum di Smith ha portato a lasciare inesplorato per decenni e decenni un altro quesito di
importanza cruciale per le tesi che si vuol dimostrare qui: perché un “grande regno” non
potrebbe specializzarsi nello stesso modo in cui si specializzano i lavoratori della fabbrica
smithiana? Perché non può darsi il caso che la specializzazione di un paese non si estrinsechi nel
suo concentrare la propria capacità produttiva nella merce che sa produrre con maggiore
produttività, e non invece in una fase del processo produttivo di quella o di qualsiasi altra
merce? Nel senso di Smith, il concetto di “divisione del lavoro” è valido nel contesto del
processo di produzione, e individua la possibilità di frammentarlo in modo tale che la
produttività del lavoro aumenti all’aumentare del grado di “divisione del lavoro”. Perché allora
non potremmo intendere il concetto originario di “divisione del lavoro” in quanto
frammentazione internazionale del processo produttivo in segmenti specifici, un processo
produttivo che assegni l'esecuzione di ogni segmento di attività produttiva a gruppi diversi di
lavoratori, stavolta diversi perché localizzati in paesi diversi?
Certo, sorprende che due secoli non siano stati sufficienti a capire che la mappatura
uno-a-uno del concetto di “divisione del lavoro” in quella di “divisione internazionale del
lavoro” è metodologicamente errata. Ma alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo
imprese ed economisti si accorgono che qualcosa sta cambiando nella configurazione della
divisione internazionale del lavoro. Sul piano teorico Jones e Sanyial (1982), Baldone, Sdogati e
Zucchetti (1997), Jones e Kierzkowski (2001) aprono una linea di ricerca in cui il concetto di
“divisione internazionale del lavoro” viene associato a quello di ‘frammentazione internazionale
della produzione’, la quale viene definita come il fenomeno che consiste nell’approvvigionarsi
all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato in un solo paese e,
talvolta, in un solo impianto nel ‘nostro’ paese – e, in maniera complementare, nella fornitura
all’estero di segmenti di un processo di produzione originariamente integrato e, talvolta, in un
solo impianto nel ‘loro’ paese .
Ma la pratica della frammentazione internazionale della produzione precede, come
sempre avviene, la sua concettualizzazione. Già negli anni settanta le imprese statunitensi si
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avviano sulla strada della frammentazione, affidando segmenti sempre più estesi di processi
produttivi ai quattro paesi che a quel tempo divennero noti come ‘le quattro tigri asiatiche’, e
cioè Corea del sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan. La composizione dei flussi commerciali
comincia a mostrare una quota crescente di semilavorati e prodotti intermedi sul totale del
valore scambiato, esportato da alcuni ed importato da altri (figura 5). In un mondo caratterizzato
dalla crescente frammentazione internazionale della produzione, il concetto di ‘made in’ diventa
sempre meno potente e, al limite, perde ogni potenza esplicativa (Palmisano, 2006; Lamy,
2011). Piuttosto, ogni economia nazionale può essere identificata come il luogo in cui viene
prodotto un particolare segmento del processo produttivo globalmente integrato: sarà sempre
possibile che un paese si specializzi nella produzione di segmenti ad alta intensità di capitale o
in quelli ad alta intensità di lavoro, cioè in un segmento di un processo di produzione, ma non
nella produzione di un bene particolare. Il “made in Italy” è l’illusione, in versione debole, di
chi aspira ad ‘esportare la dolce vita’.
Il processo di ri-localizzazione della produzione degli Stati Uniti all'estero ha subito una
rapida accelerazione a partire dall’inizio degli anni ’80. Dopo la fine del sistema di Bretton
Woods formalizzata nel 1971, la strategia mediante la quale gli Stati Uniti riassunsero il
controllo del ciclo economico mondiale e della divisione del lavoro tra paesi e aree geo-
politiche, fu quella incarnata da Paul Volcker, Presidente della Fed dalla fine del 1979 e da
Ronald Reagan, Presidente degli Stati Uniti dall’inizio del 1981. Il combinato disposto di una
politica monetaria fortemente recessiva da un lato e di una politica fiscale altrettanto fortemente
espansiva dall’altro, portava ad un apprezzamento del dollaro molto consistente che sarebbe
durata fino al marzo 1985 e il cui scopo era imporre un cambio altamente non competitivo per i
prezzi dei prodotti statunitensi. All’inizio degli anni ottanta, dunque, la politica statunitense
aveva l’obiettivo di liberare dalle imprese poco produttive dei settori tradizionali risorse da
destinare progressivamente ai settori emergenti quali l’informatica, le comunicazioni satellitari,
le biotecnologie, le nanotecnologie.
Questo processo, che dura ancora oggi e che durerà per anni e anni a venire, è quanto
abbiamo definito nel titolo di questo paragrafo “seconda rivoluzione industriale”. Che cosa
spinge le imprese a globalizzarsi, dimenticando il marchio ‘made in’ sui loro prodotti se non per
ragioni commerciali? Partendo dal presupposto che ogni fattore di produzione cercherà di
massimizzare la propria remunerazione la quale, a parità di tutto il resto, dipenderà dal proprio
prodotto marginale, allora i fattori della produzione andranno alla ricerca di condizioni entro cui
realizzare prodotti marginali elevati, perché quanto maggiore sarà il prodotto marginale, tanto
maggiore sarà la propria remunerazione. Come si può aumentare il prodotto marginale del
capitale? Andando a impiegarlo in quei paesi in cui il prodotto marginale del capitale è più alto,
in quei paesi, cioè, relativamente più dotati di lavoro che di capitale. Una unità di macchinario
14
sarà in grado di produrre più unità di prodotto al crescere del numero di lavoratori a sua
disposizione. E quali paesi sono relativamente più dotati di lavoro che non di capitale, se non i
paesi sottosviluppati? Di conseguenza, il capitale industriale ha iniziato a migrare verso i paesi
sottosviluppati, contribuendo a trasformarli in paesi ‘emergenti’.
La nascita e l’espansione delle catene di produzione globali hanno avuto, di
conseguenza, un ruolo determinante sulla profittabilità delle imprese manifatturiere. Infatti,
l’allocazione di fasi del processo produttivo all’estero ha permesso alle imprese di recuperare i
profitti che si erano ridotti a causa della saturazione della domanda interna dei beni di massa
(Gallino, 2009) - come le automobili, gli elettrodomestici e l’elettronica audio-video - e della
crescente competizione sul mercato globale. La frammentazione internazionale della produzione
ha consentito alle imprese di ridurre i costi di produzione, allocando all’estero alcune delle
attività produttive. La scelta del paese in cui è svolta una specifica attività produttiva è, infatti,
effettuata sulla base del vantaggio di costo assoluto di quel paese nello svolgere tale attività
(Jones, 1980; Milberg, 2004; Baldone, Sdogati, & Tajoli, 2007). I continui incrementi di
produttività e la riduzione del costo delle attività esternalizzate hanno permesso alle imprese di
recuperare i propri profitti e di ridurre la necessità di investimenti nazionali in capitale
industriale. In questo modo le imprese si sono ritrovate a disposizione una quantità maggiore di
profitti (Milberg, 2008; Milberg & Winkler, 2009).
La possibilità di incrementare i profitti è stata consentita anche dall’evoluzione della
struttura di mercato in cui operano le imprese che hanno sperimentato l’esternalizzazione di
alcune attività. Infatti, le imprese che hanno frammentato il proprio processo produttivo si
trovano ad operare in un sistema di mercato di oligopolio. Inoltre, le imprese dei paesi in cui
vengono rilocalizzate le attività produttive si trovano in una struttura mercato simile a quella di
concorrenza perfetta (Milberg, 2008). È quindi anche l’asimmetria tra la struttura di mercato in
cui operano le imprese che ‘offrono’ il frammento di produzione e quella in cui operano le
imprese che lo ricevono che determina l’aumento dei profitti delle imprese che guidano il
processo di frammentazione internazionale della produzione. Infatti, quest’asimmetria permette
a tali imprese di ottenere crescenti profitti, dato che sostengono costi decrescenti, e non
competono sul prezzo per continuare ad operare nel mercato. Tali profitti, tuttavia, sono stati
destinati crescentemente agli azionisti per perseguire il ‘nuovo’ obiettivo: la creazione di valore
per l’azionista.
15
2.2. La “creazione di valore per l’azionista”
Il processo di produzione di valore, cioè di reddito e, quindi, di ricchezza, è ovviamente
al centro dell’attenzione degli economisti. Come, e soprattutto, chi, crea valore? Gli economisti
classici modellavano questo processo ad un solo fattore produttivo, il lavoro. Era una
modellazione storicamente giustificata dalla assenza, o quantomeno dalla recente, sporadica
comparsa del capitale, che alcuni modellavano addirittura come ‘lavoro morto’, il che
consentiva di sottolineare che tutto il valore viene generato dal lavoro. Quando vi è un solo
fattore produttivo, un solo creatore di valore, non si pongono problemi di distribuzione del
reddito, poiché questo appartiene per definizione a chi lo ha prodotto e chi lo ha prodotto è uno
solo.
Ma l’affermarsi di processi produttivi che impiegavano quantità non trascurabili di
capitale pose il problema di come il valore prodotto vada distribuito tra i due fattori produttivi –
vale a dire tra i due gruppi sociali in cui può essere suddiviso l’aggregato ‘famiglie’, e cioè
capitalisti e lavoratori. A partire dall’ultimo quarto del XIX secolo una nuova scuola di
economisti, detti neo-classici, elabora la teoria secondo cui il fattore lavoro va retribuito con il
valore del proprio prodotto marginale, il salario, mentre il profitto sarà un’entità residuale, cioè
che rimane dopo che tutti gli altri costi di produzione sono stati onorati. Che si creda o meno a
questo particolare teoria, ciò che conta è che sia stato stabilito il principio secondo cui esiste un
secondo fattore produttivo e che esso va remunerato.
Sorge, all’inizio degli anni ottanta del XX secolo, una letteratura la quale enfatizza che
il management delle imprese deve preoccuparsi di più della remunerazione del capitale e
aumentare la quota dei profitti distribuiti sul totale del valore aggiunto, e prestare minore
attenzione alla quota di profitti non distribuiti – quella cioè potenzialmente destinabile ad
investimenti, miglioramento delle condizioni di lavoro, ricerca e sviluppo. Figura 6 riporta
l’andamento nel tempo dei profitti distribuiti dal settore industriale rispetto al totale del valore
aggiunto generato nel processo produttivo industriale.
Secondo questa teoria, l’obiettivo dell’impresa è quello di aumentare il valore che gli
azionisti riconoscono ad essa. Tale valore è positivamente correlato ai flussi di cassa attesi che
l’impresa sarà in grado di distribuire agli azionisti e al capital gain che gli azionisti otterranno
dall’aumento del valore delle azioni delle imprese stesse. Nel momento in cui l’obiettivo di
massimizzazione del valore economico per gli azionisti diventa il fine ultimo secondo cui
l’amministrazione dell’impresa deve agire, le imprese agiscono per aumentare il prezzo delle
azioni della società, in modo da generare un capital gain per gli azionisti, distribuiscono
crescenti dividendi, pagati anche attraverso l’acquisizione di nuovo debito, e accrescono il
16
riacquisto di azioni della società stessa, in modo da aumentare il prezzo delle azioni stesse e in
modo da distribuire risorse agli azionisti (Lazonick & O'Sullivan, 2000; Krippner, 2005; Palley,
2007; Gallino, 2009). Dunque, si è passati dall’attenzione alla crescita, finanziata con i profitti
trattenuti e reinvestiti, alla massimizzazione del valore per gli azionisti e dei rendimenti di breve
periodo, ottenuta attraverso tre azioni principali: la riduzione delle dimensioni dell’impresa, la
distribuzione di una percentuale di profitti maggiore attraverso dividendi più alti e, infine, un
maggior volume di acquisti di azioni proprie.
Non è difficile immaginare quale sia il nuovo problema dell’azionista il quale abbia
osservato per anni una caduta dei profitti industriali: egli chiederà che il management trovi il
modo di ricostituire margini post-seconda guerra mondiale o, quanto meno, fermarne la caduta.
La frammentazione internazionale della produzione è esattamente la strategia industriale che le
imprese adottano per rispondere alla richiesta degli azionisti: dalle maquilladoras (Messico) alle
forniture di abbigliamento (Hong Kong), processori (Singapore), televisori (Taiwan) e
automobili (Corea del Sud). La strategia complementare adottata dall’azionista è di rientrare al
più presto in possesso del proprio capitale e, con ciò, della liberta di allocarlo dove meglio
crede: laddove, inevitabilmente, il rendimento sarà più alto, a parità di rischio. In breve, si
vengono accumulando quantità crescenti di capitale sganciato dall’impiego industriale di lungo
periodo, capitale pronto ad essere impiegato tanto sul mercato monetario (impieghi di breve)
quanto su quello finanziario (impieghi di lungo).
2.3. La finanziarizzazione delle imprese industriali e la deindustrializzazione
dei paesi a più alto reddito pro-capite
L’aumento della quota di dividendi è in linea con la teoria di massimizzazione del
valore economico per gli azionisti. Tale obiettivo ha cambiato la strategia delle imprese, che
passano da un modello che incentivava le imprese a trattenere profitti per poi essere investiti in
capitale industriale ad un modello che prevede una riduzione delle attività svolte dall’impresa,
perché crescentemente esse sono svolte all’estero, e una maggiore distribuzione agli azionisti
dei profitti generati a valle del processo produttivo. Le imprese sono passate da un modello di
svolgimento delle loro attività denominato “trattieni e investi” ad un modello “ridimensiona e
distribuisci” (Lazonick & O'Sullivan, 2000). Tale ridimensionamento delle attività svolte
dall’impresa ha ridotto, di conseguenza, la necessità di investimenti in capitale industriale. In tal
modo i profitti delle imprese devono trovare una nuova fonte di rendimento e sono
crescentemente ‘dirottati’ verso attività finanziarie e/o distribuiti agli azionisti. È da tenere
presente che la pressione degli azionisti ha un ruolo rilevante nella finanziarizzazione del
capitale, in particolar modo a seguito dell’ascesa degli investitori internazionali (assicurazioni,
17
fondi comuni di investimento mobiliare, fondi pensione) come detentori delle azioni delle
imprese non finanziarie10
. Infatti, tali investitori allocano il loro capitale, costituito dai risparmi
di persone ed entità giuridiche, tra le imprese che gli garantiscono il maggior rendimento
relativo, in altre parole tra le imprese che distribuiscono una quota relativamente maggiore dei
profitti generati. Le imprese saranno, dunque, incentivate a distribuire una quota crescente di
profitti in modo tale che l’investitore istituzionale non faccia mancare il suo apporto di capitale
nell’impresa.
La riduzione della profittabilità relativa delle imprese del settore industriale ha spinto le
imprese a trovare modi alternativi per aumentare i profitti. Da questo punto di vista, la
frammentazione internazionale della produzione ha consentito alle imprese di ridurre i costi di
produzione. Questi maggiori profitti non solo sono stati crescentemente distribuiti agli azionisti,
ma sono stati investiti anche in attività finanziarie. In questo modo si sono create le condizioni
per la trasformazione del modello di accumulazione del capitale: da un modello capitalistico
industriale ad un modello capitalistico finanziario. La finanziarizzazione ha, dunque, l’effetto di
aumentare la quota parte dei profitti realizzati dalle imprese che vengono distribuiti agli
azionisti tramite dividendi o acquisto di azioni dell’impresa stessa.
Si sta dunque assistendo ad una profonda trasformazione delle economie dei paesi ad
alto reddito pro-capite. Il processo di deindustrializzazione riduce la quota di valore aggiunto
derivante dal settore industriale dei paesi ad alto reddito pro-capite, tramite due processi: la
frammentazione internazionale della produzione e la finanziarizzazione delle imprese al suo
interno. Il primo processo modifica il modo di produrre delle imprese del settore industriale e
oltrepassa i tradizionali confini del settore industriale nel senso che alcune attività non vengono
più svolte nel settore industriale nazionale ma nel settore industriale estero. Il secondo processo
coinvolge il settore finanziario. È il settore finanziario che, crescentemente, influenza le
decisioni di organizzazione della produzione e le scelte di investimento. Esso, infatti, diventa il
settore d’uso dei profitti realizzati dalle imprese industriali che progressivamente accrescono le
proprie attività finanziarie (Figura 7 e Figura 8). Inoltre, esso rappresenta la destinazione dei
profitti delle imprese industriali, dato che crescentemente esse distribuiscono dividendi agli
azionisti.
I fattori fondamentali che determinano questi processi e, indirettamente, la
deindustrializzazione sono la riduzione della profittabilità delle attività industriali e la crescente
rilevanza della teoria secondo cui le imprese devono creare valore per l’azionista.
10
Tale ascesa è avvenuta in primo luogo negli Stati Uniti durante gli anni ottanta a seguito della
deregolamentazione del settore finanziario (Lazonick & O'Sullivan, 2000).
18
3. Il nuovo modello finanziario: ‘originate to distribute’
Nel giro di pochi anni attorno all’inizio degli anni ’80 si osserva dunque l’affermarsi di
tre fenomeni concomitanti:
1. La progressiva deindustrializzazione dei paesi a più alto reddito pro-capite;
2. La ‘liberazione’ di capitale dall’immobilizzo di lungo termine nella forma di
capitale industriale e la crescente finanziarizzazione delle imprese industriali;
3. L’emergere di nuovi comportamenti sul mercato dei prestiti bancari e, di
conseguenza, la crescente finanziarizzazione delle economie.
Gran parte della letteratura definisce il terzo di questi fenomeni come ‘innovazione
finanziaria’, ma non spiega quali ne siano state le cause scatenanti. Qui si sostiene che tale
innovazione fu da un lato il frutto dei primi due, e cioè dell’aumentare progressivamente più
rapido della disponibilità di capitale finanziario sempre meno affezionato all’impiego industriale
e sempre più alla ricerca di impieghi alternativi; e dall’altro di un cambiamento radicale nella
comprensione del rischio creditizio da parte delle banche e degli intermediari finanziari: un
cambiamento che fu alla base del passaggio dal vecchio modello ‘originate to hold’ al nuovo
‘originate and distribuite.’
Si ricorderà che nel modello originate to hold la banca origina il rischio, cioè offre
credito e, in via di principio, trattiene il titolo rischioso fino a maturità. Nel modello originate
and distribute l’erogazione del prestito ha una motivazione aggiuntiva: il rischio insito nel
‘mutuo’ viene venduto e il credito rimosso dal bilancio della banca erogante. Si forma così un
mercato nuovo, quello di mutui ipotecari cartolarizzati (Mortgage Backed Securities, MBS) che
non esisteva nel vecchio modello in cui le banche commerciali non potevano eseguire queste
operazioni. E le MBS sono uno degli strumenti finanziari preferiti dagli investitori.
Nel nuovo sistema finanziario le banche hanno rinunciato in gran parte alla loro
funzione di prestiti a imprese e famiglie per contrarsi invece sul commercio di titoli e divise e
sulla speculazione condotti sia in proprio, sia per conto di imprese e detentori di grandi
patrimoni (Gallino, 2011). Questo è il nuovo ruolo delle banche, le quali progressivamente
hanno sostituito i tradizionali metodi per fare profitti – i prestiti alle imprese e alle famiglie –
con la più allettante speculazione sul mercato finanziario, con soldi propri o con i ‘soldi degli
altri’ (Gallino, 2010). È evidente dalla Figura 9 e dalla Figura 10 che le banche commerciali
statunitensi hanno progressivamente ridotto i prestiti concessi sia alle imprese sia alle famiglie.
L’intermediazione finanziaria tradizionale del modello capitalistico industriale che vedeva le
banche commerciali il meccanismo attraverso cui si ‘moltiplicava’ la liquidità in circolazione
sembra trasformarsi.
19
La riduzione dei prestiti concessi a famiglie e imprese è una conseguenza necessaria se
le banche hanno la possibilità di accrescere i propri profitti in altri modi, precedentemente non
attuabili. Ecco quindi che l’innovazione finanziaria, intesa come la trasformazione del modello
di funzionamento delle banche, ha permesso alle banche stesse di aumentare il rendimento delle
proprie attività. Se nel tradizionale modello ‘originate-to-hold’ le banche si limitavano a creare
il prestito e mantenerlo nel proprio bilancio, nel modello ‘originate-to-distibute’ le banche
possono rivendere il prestito da loro creato e distribuirlo sia ad altre banche sia a istituti
finanziari non bancari. In particolare, dall’inizio degli anni novanta questo secondo modello ha
consentito alle banche di trasferire il rischio di credito al di fuori del tradizionale sistema
bancario (Bord & Santos, 2012). La cartolarizzazione dei debiti delle imprese e delle famiglie
ha, infatti, permesso alle banche di trasferire il rischio di credito ad istituti finanziari non
necessariamente di natura bancaria.
4. Il contesto macroeconomico attuale
E dunque, quale destino per le banche?
La buona teoria economica ci insegna a non aspettarci straordinari tassi di crescita
economica mentre la spesa pubblica viene contratta e, di conseguenza, c’è alta disoccupazione
e i redditi delle famiglie cadono. E le banche non danno a prestito ad imprese produttive in
difficoltà. E ogni volta che una impresa chiude, chi lavora ne soffre, e ne soffre la banca
esposta. Un circolo vizioso che solo la spesa pubblica potrebbe spezzare. Ma non lo si vuole.
Irragionevolmente? O esiste invece una agenda diversi dei governi europei, una agenda al cui
centro non c’è, evidentemente, la ripresa economica?
Quanto ancora possiamo vivere in questo scenario? Le previsioni del FMI pubblicate il
9 Luglio dicono che c’è poca ragione di credere che l’Europa uscirà dalla sua ‘mite recessione’
prima del 2014. E la cosiddetta ‘strategia di riduzione del debito’? Bene, le prospettive non
appaiono rosee nemmeno su quel fronte. Proviamo a giocare con un esempio.
Il governo italiano ha un debito pubblico che ammonta pressappoco a 2 trilioni di €, pari
a circa il 125% del suo PIL. Se si prende sul serio le decisioni assunte a livello europeo il 2
marzo 2012 e note come ‘fiscal compact,’ questo rapporto dovrà essere uguale al 60% circa nel
2032. Vero, il linguaggio del testo non è davvero stringente e saranno fatte delle concessioni.
Dunque, supponiamo di limare solo un quarto del debito. Assumendo che la recessione di cui
siamo tutti testimoni sia un invenzione del FMI e dell’OCSE e che il reddito è, e sarà, stabile
(cioè, assumendo che la teoria economica abbia torto e che le riduzioni del debito non siano
recessive), noi stiamo parlando di ridurre il debito di 25 miliardi all’anno per vent’anni
consecutivi. Il che, ponendola in maniera diversa, implica un surplus di bilancio dello stesso
ammontare.
20
Naturalmente, questa non è una strada percorribile da alcun governo. Esiste quindi
soltanto un modo che io vedo in grado di garantire che la riduzione del debito rimarrà al livello
desiderato: privatizzazioni. Non sto parlando, ovviamente, di idee ridicole di cui si è sentito
parlare in fase di avvicinamento a questa politica, quali la vendita di vecchie caserme militari o
di strisce di spiagge di proprietà dello Stato. Mi riferisco alla cosa reale, quegli ‘articoli’ che
sono ad un tempo grandi, corpulenti e non redditizi (in questo momento) per il settore privato:
mi riferisco ai servizi di pubblica utilità, la sanità, l’istruzione, il trasporto pubblico e le
municipalizzate in genere.
E chi si può permettere questi ‘articoli’? Bene, forse le banche, che potrebbero aver
trovato un investimento meno rischioso di quello chiesto loro dalle imprese produttive. Questo
scenario è caratterizzato da due aspetti principali. Secondo l’ipotesi che stiamo sviscerando, nel
lato reale dell’economia troviamo governi che tagliano il debito pubblico, per la maggior parte
attraverso privatizzazioni; e nel lato finanziario dell’economia le banche detengono molta
liquidità che da anni ormai non stanno dando a prestito alle imprese - né la daranno. Non è
difficile immaginare le banche commerciali che prestano denaro a qualche agente privato per
comprare, ad esempio, servizi di pubblica utilità. Ma dove, si chiederà, potranno le banche
trovare la liquidità necessaria? Semplice: la liquidità viene fornita da anni ormai nelle forme
più tradizionali ed avveniristiche allo stesso tempo mediante le Long Term Refinancing
Operations, dalle Quantitative Easing 1, 2, 3 … La Banca Centrale Europea, la Federal
Reserve, la Bank of England e, in misure ed intensità relativamente inferiori, la Bank of Japan
hanno intrapreso politiche monetarie fortemente espansive sia riducendo il proprio tasso di
sconto (Figura 11) sia adottando operazioni di mercato aperto, definite ‘non convenzionali’,
aumentando il totale dell’attivo iscritto nel proprio bilancio (Figura 12). Tutta liquidità che le
banche non riversano sul mercato del credito e che preferiscono invece ri-depositare presso la
banca centrale o, al massimo, utilizzare per comperare titoli del debito dei governi. Tutta
liquidità, in altre parola, in attesa di impieghi proficui. E le Outright Monetary Transactions
servono, nell’interim, a sostenere i bilanci delle banche.
Perfino in uno scenario in cui il rimborso delle LTRO innescasse una riduzione nella
disponibilità di credito, le banche avrebbero la soluzione per qualsiasi problema di liquidità.
Qual è la soluzione? Emettere Asset Backed Securities, cioè obbligazioni garantite: garantite,
naturalmente, dalle public utilities, sanità, istruzione……
La risposta alla domanda ‘perché così tanta liquidità, visto che non serve a rilanciare
l’attività produttiva?’ Dal 2007 la risposta è una sola: per dare tempo a sufficienza alle banche
di ripulire i propri bilanci. Ma sorge un’altra domanda: ma perché, allora, una politica fiscale
recessiva? Non dovremmo adottare una politica fiscale espansiva, se fosse quello l’obiettivo?
Non aiuterebbe le banche nel loro intento? Non è forse vero che il processo di riduzione della
leva dura molto più a lungo quando più è persistente la stagnazione dell’economia reale?
21
È proprio questa combinazione di politiche monetarie aggressivamente espansive e
politiche fiscali aggressivamente recessive ad aver attirato la nostra attenzione. Le prime sono
state costantemente espansive fin dall’agosto 2007 e, addirittura, lo sono diventate ancora di più
con QE, LTRO, OMT; le seconde, decisamente espansive nel 2008 e prima metà del 2009, si
sono poi trasformate in politiche recessive. Per di più, se si prendono seriamente le istanze di
politica annunciate dalle istituzioni e dai leader europei, si è già detto che la politica fiscale
continuerà ad essere aggressivamente recessiva negli anni a venire.
E’ chiaro a tutti che la combinazione politica monetaria espansiva e politica fiscale
recessiva non genera ripresa. In particolare, è possibile mostrare che i paesi che hanno adottato
politiche di austerità maggiori hanno mostrato, contemporaneamente, una riduzione della
crescita maggiore rispetto agli altri paesi (Figura 13). Lo sapevamo anche cinque anni fa, ma i
governi europei, e i loro consiglieri economici, hanno continuato a battere la grancassa della
ripresa promettendo che minori debiti pubblici avrebbero generato un miglioramento delle
aspettative delle famiglie e delle imprese, le quali avrebbero ricominciato a spendere ed
investire…. Credo fortemente che questa sia una favola che nessuno può prendere sul serio. A
generare i surplus dei bilanci dei governi saranno necessariamente entrate di tipo non fiscale.
Inizialmente per paesi come Italia, Spagna, Grecia, Cipro, Portogallo e a seguire, probabilmente,
per Slovenia, Francia, Olanda, cioè per quei paesi che hanno le percentuali più abbondanti di
capitale preso a prestito dai governi, l’intervento di consolidamento sarà costituito dalla vendita
di attività detenute dai governi, come la scuola pubblica, la sanità, le autostrade, municipalizzate
e così via. Chiaramente, se questo dovesse accadere, il grande ammontare di liquidità messo a
disposizione dalle autorità monetarie e detenuto dalle banche, avrebbe trovato l’impiego
appropriato.
Tuttavia, la nostra discussione ci ha portato a concludere che questo non è un risultato
voluto a tutti i costi dagli intermediari finanziari. Infatti, il finanziamento delle privatizzazioni
potrebbe addirittura essere lasciato a qualche banca locale, piccola, relativamente non
competitiva. Le banche più grandi e più competitive potrebbero moltiplicare i propri
investimenti, iniziati anni fa, nei paesi emergenti, ad alta crescita, politicamente affidabili. In
quei paesi cioè, in cui la produttività del capitale è più alta e, di conseguenza, lo sono anche i
rendimenti dell’investimento finanziario.
22
5. Note conclusive
La crisi finanziaria attuale, emersa in un primo momento come un problema di debito
privato, è stata poi scientemente trasformata in una questione di debito pubblico. Dato che non
vi è nulla all’interno della buona teoria economica che suggerisca che vi siano debiti buoni e
cattivi, non vi è una spiegazione ovvia al perché il debito pubblico sia finito sotto un attacco
così feroce da parte del settore finanziario. L’interpretazione dell’evidenza fin qui discussa è che
il processo di costituzione di reti di produzione internazionali ha superato la sua fase esplorativa
ed è ora pronto a decollare su di una scala nuova e massiccia. Ma questo richiede grandi
quantità di capitali, la cui provenienza può essere soltanto l’Europa. E ciò richiede un enorme
ridimensionamento del settore pubblico. Che questa sia una politica voluta o meno dal settore,
un’ondata di privatizzazioni è nelle carte. E la liquidità per renderla possibile è già presente. E’
proprio questo che deve avvenire se si vuole realizzare quella inversione del ciclo della
distribuzione del reddito che, iniziata moderatamente circa quaranta anni fa negli Stati Uniti, sta
assumendo carattere di generalità in tutti i paesi ad alto reddito pro capite.
Nel frattempo, un tempo probabilmente molto lungo, che cosa avverrà della liquidità
che, ci è stato assicurato ancora in questi giorni, le banche centrali continueranno a riversare nel
sistema per un periodo di tempo “prolungato”? Una cosa è certa: non andrà a finanziare attività
produttive in molti dei paesi ad alto reddito pro-capite. Certamente verrà invece utilizzata per
finanziare il processo di deindustrializzazione e, parallelamente, per contribuire, negli stessi
paesi, al processo di produzione di reddito senza produzione.
E dal punto di vista normativo, quale potrebbe essere uno scenario plausibile? Per
rispondere, occorre guardare ancora una volta agli Stati Uniti, dove il dibattito ruota attorno a
tre posizioni principali:
i. Quella di Paul Volcker, già Presidente della Fed e autore, insieme a Ronald Reagan, della
grande deindustrializzazione. Volcker vede con favore un ritorno alla separazione
radicale tra banche commerciali e banche di investimento, realizzata attorno alle grandi
linee della Glass-Steagall;
ii. Quella di Lawrence Summers, già membro del Council of Economic Advisors del
Presidente Obama. Summers sembra prediligere una forma di banca universale non
lontana da quella affermatasi negli ultimi quindici anni, ma soggetta a più stringente
regolazione da parte delle autorità di controllo;
iii. Quella di Jamie Dimon, amministratore delegato di J. P. Morgan e grande sostenitore
della campagna elettorale di Obama. Dimon lotta per una deregolamentazione la più
ampia possibile del settore.
23
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25
Figura 1. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite
finanziarie dall’altro negli Stati Uniti (dati in miliardi di dollari).
Fonte: Federal Reserve Bank of the United States.
Figura 2. Distribuzione del PIL tra reddito da lavoro da un lato e redditi da capitale e rendite
finanziarie dall’altro, in Italia (dati in miliardi di euro).
Fonte: ISTAT
0
1000
2000
3000
4000
5000
6000
7000
8000
9000
1959
1961
1963
1965
1967
1969
1971
1973
1975
1977
1979
1981
1983
1985
1987
1989
1991
1993
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900.0
1000.0
Mil
iard
i d
i €
Reddito da lavoro dipendente Reddito da capitale, rendita finanziaria e altro
26
Figura 3. Profitti delle imprese statunitensi e monte salari negli Stati Uniti (1° trimestre
1980=100 – 4° trimestre 2012)
Fonte: Federal Reserve Bank of United States of America
Figura 4. Rapporto tra profitti netti e valore aggiunto alla produzione nazionale delle imprese
manifatturiere statunitensi (1950-2011)
Fonte: National Income and Product Accounts Tables, Bureau of Economic Analysis, Aprile
2013
-400-200
0200400600800
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Monte Salari
Profitti lordi delle imprese non finanziarie
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20
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10
27
Figura 5. Importazioni di beni intermedi, dati annuali, 1990-2010
Fonte: OECD.Stat, Maggio 2013
Figura 6. Quota di dividendi distribuiti dalle imprese statunitensi sul totale dei profitti
lordi, 1946-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
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00
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03
20
06
20
09
28
Figura 7. Quota di attività in fondi di investimento comuni sul totale delle attività finanziarie
detenute dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
Figura 8. Rapporto tra il totale delle attività finanziarie e delle attività non finanziarie iscritte a
bilancio dalle imprese 'corporate' non finanziarie, 1970-2011
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2012
0%
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02
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20
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11
29
Figura 9. Quota di prestiti commerciali e industriali erogati dalle banche commerciali
statunitensi sul totale del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013
Figura 10. Quota di prestiti alle famiglie erogati dalle banche commerciali statunitensi sul totale
del loro attivo, gennaio 1973 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve Bank, Flow of Funds Account, Schedule Z.1., 2013
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15%
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30
Figura 11. Tasso di sconto di alcune Banche Centrali, gennaio 2007 – maggio 2013
Fonte: US Federal Reserve, Eurostat, Bank of England, Bank of Japan, 2013
Figura 12. Totale dell’attivo iscritto a bilancio di alcune Banche Centrali alla fine di ciascun
periodo, gennaio 2007(=100) – maggio 2013
Fonte: Federal Reserve Bank of St. Louis, European Central Bank, Bank of England, 2013
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1
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31
Figura 13. Variazione del PIL pro-capite reale e misure di austerità – tagli alla spesa e aumenti
del prelievo fiscale – in rapporto al PIL
Fonte: IMF World Economic Outlook, aprile 2013; IMF Fiscal Monitor, ottobre 2012
32
Tabella 1: Deregolamentazione del settore finanziario statunitense, USA. Eventi principali,
1980-2004
Fonte: Adattato da Sherman (2009)
1980, Depository Institutions Deregulations and Monetary Control Act (DIDMCA)
Per permettere alle banche e alle saving and loans di competere i fondi d'investimento comuni, viene creata un commissione il cui compito è quello di sovrintendere nei successivi sei anni alla graduale ma completa eliminazione del tetto sui tassi d'interesse
1982, Garn-St. Germain Depository Insitutions Act
Deregolamentazione quasi completa delle saving and loans. Viene consentita loro la concessione di prestiti commerciali e l'utilizzo di nuovi strumenti per competere direttamente con i fondi comuni d'investimento.
1994, Riegle-Neal Interstate Banking and Branching Efficiency Act
Rimozione delle pre-esistenti restrizioni sulla possibilità di svolgere attività bancaria e/o di possedere succursali a livello interstatale.
1996, Fed Reiterprets Glass-Steagall Act
La Federal Reserve reinterpreta il Glass-Steagall Act diverse volte. Alla fine viene concesso alle holding bancarie di ottenere fino al venticinque percento dei propri ricavi da operazioni effettuate attraverso le banche d'investimenti appartenenti al gruppo.
1999, Financial Modernization Act (conosciuto anche come Gramm-Leach-Bliely Act)
Il Glass-Steagall Act viene completamente abrogato.
2000, Commodity Futures Modernization Act
Viene impedito alla Commodity Futures Trading Commission (CFTC) di regolamentare la maggior parte dei contratti derivati over-the-counter (OTC), inclusi i credit default swaps (CDS).
2004, Voluntary Regulation
La Security and Exchange Commission (SEC) propone un sistema di regolamentazione volontaria sotto il programma Consolidated Supervised Entities, consentendo alle banche d'investimento di detenere un'ammontare inferiore di capitale a riserva e di aumentare la leva finanziaria