Giordano Sivini La finanziarizzazione del capitale ... G. (2011), La... · analizzare le...
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Giordano Sivini
La finanziarizzazione
del capitale produttivo
in Foedus, n. 31, 2011, pp. 3 – 17.
Gli effetti della finanziarizzazione sul sistema produttivo sono oggetto di questa analisi, che si
collega a precedenti lavori pubblicati su Foedus (Sivini 2008, 2009, 2010). L’obiettivo è di
analizzare le trasformazioni che si sono avute con il passaggio - nei termini di Giovanni Arrighi
(1996) - dalla fase di espansione materiale alla fase di espansione finanziaria, al fine di mettere in
evidenza la stretta relazione tra aumento della ricchezza finanziaria, aumento dello sfruttamento del
lavoro e peggioramento delle condizioni generali di vita. Come negli altri lavori, faccio riferimento
a processi che originano negli Stati Uniti.
Luciano Gallino, nel lavoro più recente (2011), distingue la fase attuale, definita
finanzcapitalismo, da quella del capitalismo industriale che l’ha preceduta, per il differente modo in
cui avviene l’accumulazione di capitale. “Il capitalismo industriale - scrive - lo faceva applicando la
tradizionale formula D1-M-D2, che significa investire una quantità di denaro, D1, nella produzione
di merci, M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime una quantità di denaro, D2, maggiore di
quella investita. (…) Per contro il finanzcapitalismo persegue l’accumulazione di capitale facendo
tutto il possibile per saltare la fase intermedia. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare
sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente una maggiore quantità di denaro. La
formula dell’accumulazione diventa D1-D2”. E’ una tesi che già Giovanni Arrighi aveva sostenuto.
Non distinguendo, come in precedenti lavori, tra profitti e rendimenti, Gallino confonde
accumulazione materiale e espansione finanziaria. D1-D2 riguarda non l’accumulazione materiale
ma l’espansione finanziaria, che si accresce finché non scoppiano le bolle. Lo scoppio avviene
perché i titoli finanziari hanno stretti legami con frammenti della realtà materiale.
“Rendimento e rischio è il ‘paradigma seducente’ del sistema finanziario”, scrive Paul
Dembinski, economista e direttore dell’Observatoire de la Finance di Ginevra, tracciando la
traiettoria costitutiva del sistema finanziario come progressiva trasformazione di ogni quantità di
ricchezza materiale in attivi da cui vengono estratti rendimenti. “L’emancipazione del capitale come
attivo finanziario - prosegue - ha stimolato l’emergenza, nel magma della realtà tangibile e non
tangibile, di un numero infinito di oggetti finanziari. Questi ‘oggetti’ traggono la loro esistenza dal
solo fatto che sono nel contempo matematizzabili e radicati in uno spazio giuridicamente coerente
di diritti, doveri o convenzioni. Esistono dunque in quanto derivati dalla realtà che li contiene.
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Perciò, all’estremo, tutti gli elementi della realtà possono essere introdotti nello spazio teorico e
pratico della finanza (…). L’attività sottostante è uno stock autonomo di ricchezza che ha la
funzione di generare un flusso di ‘rendimenti’ da preservare dal rischio, da gestire e da accrescere”
(Dembinsky 2008). Quando i processi nella ‘realtà sottostante’ si bloccano, il flusso si interrompe.
L’espansione della liquidità, che si presenta come D1-D2, ha origine in processi reali. Da un
lato sottrae profitti ai reinvestimenti produttivi, spingendo a ridurre l’immobilizzazione del capitale
e ad aumentare lo sfruttamento del lavoro. Dall’altro svaluta capitale fisso e lavoro per realizzare
una traslazione di ricchezza dall’economia reale al sistema finanziario. La grandezza D2 si realizza
grazie alla combinazione di questi dispositivi di dispossession (Harvey 2006, Arrighi 2007), che
complessivamente incidono negativamente sulle condizioni di vita del proletariato. E’ questo che
intendo sostenere nell’analisi che segue.
Il valore per gli azionisti
“Il sistema finanziario internazionale era andato a pezzi proprio mentre le aziende scoprivano
il mercato globale. Il mondo di Bretton Woods era una specie di paniere di mercati nazionali
distinti. Quando avevano cominciato la loro espansione internazionale, le grandi corporations
avevano perseguito questo obiettivo aprendo società indipendenti in diversi paesi (...). Ciascuna
gestiva le proprie attività come se fosse stata, di fatto, una società nazionale del paese in questione:
concentrava l’attività di vendita sui mercati interni ed era protetta come qualunque impresa
nazionale da un muro di barriere commerciali, che teneva lontani i concorrenti internazionali”. Con
la fine di Bretton Woods la situazione cambiò. “I manager dovevano tener conto degli effetti
monetari quando decidevano dove costruire degli impianti, dove acquistare parti e forniture, come
finanziare le attività, come fissare i prezzi e come valutare i risultati” (Millman 1995, p. 218).
I tassi di cambio delle valute divennero un importante fattore strategico nella pianificazione
della produzione all’estero, e anche l’andamento dei tassi di interesse interni dovette essere tenuto
sotto controllo. Al di là delle capacità delle imprese di confrontarsi con questi rischi, adottando i
nuovi strumenti che la finanza proponeva, la speculazione mise in evidenza la possibilità di
capovolgere, con questi stessi strumenti, il rapporto tra attività produttive e finanziarie.
“In un passato non molto remoto gli economisti ritenevano che il paese che avesse delle
imprese manifatturiere efficienti e competitive e un governo in grado di gestire le finanze in modo
oculato potesse godere, teoricamente, del privilegio della stabilità monetaria. Ma adesso, per quanto
efficienti e competitive possano essere le aziende industriali di un paese, sono gli operatori
finanziari a determinare, almeno nel breve periodo, il valore delle divise attraverso i loro tentativi di
accaparramento. E dal momento che sono i valori monetari a determinare i prezzi ai quali i
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produttori venderanno i loro prodotti sui mercati mondiali, gli operatori monetari possono decidere
indirettamente se i lavoratori dell’industria automobilistica americani, giapponesi o tedeschi
continueranno a costruire vetture oppure rimarranno disoccupati” (Millman 1995, p. 15).
Fin qui il valore si crea nella produzione, e il mercato finanziario determina dove viene
realizzato e come viene distribuito. La situazione cambia quando, dagli anni ’80-’90, nella
determinazione delle scelte gestionali delle grandi imprese entrano in massa nuovi soggetti, gli
investitori istituzionali, entità che dispongono di capitali amministrati per conto di terzi, e il termine
valore viene utilizzato per riferirsi al prezzo dei titoli finanziari.
Negli anni ‘50 il 90 per cento delle azioni era in mano a privati; a fine anni ‘60 la percentuale
era scesa al 59 per cento. Nel 1995 i privati ne possedevano il 48, i fondi pensione il 26, i fondi
comuni di investimento il 12, le banche e le assicurazioni il 14, e l’insieme di questi investitori
istituzionali controllava i due terzi dei movimenti in borsa (Domhoff 2010). Alla fine degli anni ’80
cominciarono a far sentire il loro peso sulle aziende in cui investivano, e nei primi anni ’90 uno
shareholder movement cominciò ad esigere crescenti rendimenti per gli investimenti, vendendo le
azioni quando il prezzo non rispondeva alle aspettative. Valutavano sul breve periodo, così che le
imprese dovevano rispondere sul breve periodo.
Presto si parlò della “rivoluzione degli azionisti”. La spinta venne dai fondi pensione, quando
nel 1978 fu loro concesso di allontanarsi dalla regole del “prudent man” e di investire in attività
rischiose. Vi si aggiunsero negli anni ‘80 i fondi di investimento, che assunsero una importanza
rilevante poiché i lavoratori furono spinti ad accantonarvi somme investite a fini pensionistici. La
ricerca di alti rendimenti per far fronte agli impegni con aderenti e sottoscrittori mise la massa
crescente di liquidità a disposizione di ogni genere di iniziative speculative.
Questi fondi “non si comportano né da imprenditori, perché non costruiscono e non
producono nulla; né da consumatori, perché non consumano; si preoccupano di gestire il valore nel
tempo (…). Tra il mercato dove si valutano e si trattano gli attivi finanziari e questi ‘silos di
risparmio’ si è progressivamente aperto un potenziale di intermediazione che viene occupato da un
ventaglio di attori” (Dembinsky 2008, p. 63).
L’attenzione al valore di mercato si generalizzò quando le remunerazioni dei managers
vennero legate all’andamento del prezzo delle azioni, attraverso il sistema delle stock options. Parte
crescente del loro reddito venne dalle azioni che essi ricevevano ad un prezzo predeterminato, e che
potevano vendere ad una scadenza determinata, e, più tardi, nel momento più conveniente.
“Attraverso la distribuzione di azioni, alti rendimenti azionari e alte remunerazioni vanno di pari
passo” (Lazonick 2008).
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Gli investitori istituzionali non esercitavano una influenza diretta sulle decisioni
imprenditoriali. La loro partecipazione al capitale di una impresa era limitata. Il controllo delle
scelte imprenditoriali richiedeva capacità e costi che non erano disposti a sostenere (Gillan 1998).
Perciò agivano nella presunzione che il sistema delle stock options allineasse l’interesse del
management a quello loro. Solo alcuni grandi fondi pensione di enti pubblici si erano organizzati
per esercitare collettivamente pressioni sul management di imprese troppo lente a rispondere alle
loro sollecitazioni (Opler, Sookobin 1998).
Gli investitori istituzionali, nella quotidiana ricerca dei massimi rendimenti, erano diventati
azionisti nomadi. Spostavano rapidamente la loro liquidità da un titolo ad un altro. In condizioni
normali avevano l’obiettivo di realizzare rendimenti minimi del 15 per cento su base annua,
sommando dividendi e plusvalenze, o prestando liquidità a chi la richiedeva per svolgere attività
speculative.
Le plusvalenze derivano dalla differenza di prezzo tra vendita e acquisto di un titolo, e non
dipendono dai risultati produttivi dell’impresa che lo emette. Il prezzo del titolo si basa
generalmente da un lato sulla comparazione dell’utile annunciato dalla relazione trimestrale con
quello medio dell’indice S&P 500 (che considera le prime 500 imprese) e con quello medio del
settore specifico di attività; dall’altro da aspettative e altri fattori contingenti.
Chi gestisce un portafoglio, decide ogni giorno dell’anno “to-buy or not-to-buy” e “to-sell or
not-to-sell” (Rappaport 2005), e i titoli, che un tempo restavano in portafoglio mediamente per sette
anni, ora cambiano di mano in meno di un anno. Se il portafoglio è imponente, come nel caso di
molti fondi pensione, buona parte è investito in titoli considerati liquidi, il resto fornisce liquidità ad
altri soggetti - fondi di private equity e hedge funds - che promettono alti rendimenti da operazioni
che intendono realizzare.
Per Luciano Gallino la finanziarizzazione è una “risposta efficace alla caduta dei profitti”, che
tra gli anni ’60 e ’70 hanno subito una riduzione del 50 per cento. “Per superare la crisi della fine
degli anni ’60 - scrive - bastava concepire l’impresa non più come un’istituzione che crea profitti
producendo beni e servizi, ma piuttosto come un’entità capace di accrescere il capitale, misurato dal
proprio valore in borsa. Il paradigma socioeconomico che ha fornito legittimazione razionale a tale
intento reca il nome di ‘massimizzazione del valore per gli azionisti’ (Gallino 2009, p. 100)”.
Il termine profitto, in queste osservazioni, comprende ogni forma di utile, sia profitti
conseguiti a seguito di investimenti produttivi, sia plusvalenze realizzate in borsa. La crisi della fine
degli anni ’60 riguarda le imprese e la loro capacità di conseguire profitti, mentre il recupero è fatto
con una traslazione della redditività dai profitti alle plusvalenze, e dall’accumulazione materiale
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all’espansione della liquidità. Solo confondendo profitti e plusvalenze è possibile concludere che la
caduta dei profitti è stata recuperata.
Se a metà degli anni ’80 il capitale ha avuto una redditività netta che ha toccato il 16 per cento
e si è mantenuta, pur con alti e bassi, a questo livello fino agli anni 2000, si tratta “di una
percentuale di per sé dissennata - rileva lo stesso Gallino (2009, p. 118) - quanto indicativa della
svolta verso la finanziarizzazione dell’economia, perché in economie che crescono al più del 3-4
per cento l’anno, ma per lunghi periodi anche meno (…), è impossibile realizzare stabilmente tassi
di profitto così alti. Soltanto con un aumento artificioso del valore delle azioni ci si può avvicinare”.
L’osservazione è di tutto rilievo, anche se il raffronto non tiene conto del fatto che utili di
quell’entità sono attesi solo dalle grandi imprese, e, inoltre, che l’aumento del valore delle azioni
rientra nelle regole di funzionamento dei mercati finanziari. Uno dei motori del sistema finanziario
sono infatti le plusvalenze. I managers d’impresa “hanno, in primo luogo e innanzi tutto, il compito
di espandere il valore azionario, piuttosto che realizzare prodotti e servizi migliori” (Crotty 2006, p.
101). Spesso lo conseguono con operazioni di buyback, acquisto di azioni proprie incanalando qui
gli utili e anche indebitandosi.
L’aumento delle plusvalenze non si raggiunge solo con quella che, con riferimento ai
movimenti di borsa, Warren Buffet (2008) definisce ”economia di carta”. “L’attività di management
implica il ricorso ad una serie infinita di bassi espedienti finanziari: un anno consegue l’obiettivo
chiudendo un fondo pensionistico a prestazioni definite per risparmiare sui costi del lavoro, l’anno
dopo prende in leasing gli automezzi affinché il costo gravi sul bilancio di qualcun’altro.
Inframezza queste attività con ristrutturazioni e cambiamenti di proprietà, dove, per l’ingegneria
finanziaria, è cruciale la consistenza del capitale dopo la fusione e la quantità di lavoratori
licenziati”. Quando questo non basta, sostiene ancora Buffet, si utilizzano “imbrogli contabili per
ottenere gli importi che si desiderano”, facendo “solo quello che fanno tutti. Quando questo
comportamento-che-fanno-tutti si impone, gli scrupoli morali svaniscono” (Buffet 2001).
Il passaggio dal regime “retain and reinvest”, che sostiene gli investimenti produttivi, a quello
“divest and distribute” (Dembinsky 2008, p.150), che espande la liquidità, ridetermina le condizioni
generali di accumulazione, spingendo all’intensificazione dello sfruttamento.
Il management comprime i costi del lavoro, si disfa delle componenti che hanno redditività
insufficiente magari positiva ma sotto la media, esternalizza e delocalizza attività che richiedono
forti immobilizzazioni, e struttura una serrata gerarchia lungo la filiera del prodotto che riduce la
quantità di lavoro necessario e realizza aumenti di produttività. I piccoli capitali subordinati ai
grandi vengono compressi, e la compressione si scarica sull’attività lavorativa, con orari di lavoro
lunghi e ritmi intensi, e su bassi salari, in un processo di dispossession che abbassa i livelli di vita,
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per consentire alle grandi imprese di impadronirsi del valore prodotto e di accontentare gli
investitori.
Il processo di subordinazione delle attività produttive alla finanza è iniziato negli anni ’80 con
una fase di violente incursioni speculative, che hanno segnato l’affermazione generalizzata delle
stock options e del buyback come strumenti di governance delle imprese quotate in borsa. Ne sono
stati protagonisti grandi gruppi di investitori che con il leverage buyout hanno indicato come
appropriarsi, utilizzando la liquidità altrui, di ricchezza produttiva tramutandola in denaro proprio,
una pratica in seguito largamente perseguita dai fondi di private equity. Gli uni e gli altri hanno
agito su un terreno di grande trasformazione dell’assetto produttivo, caratterizzato anche da una fitta
attività di fusioni e acquisizioni promossi dal management.
Fino agli anni ‘70 le corporations controllavano i mercati da posizioni oligopolistiche e,
impedite da una legge del 1950 a realizzare ulteriori concentrazioni, si erano espanse in molteplici
settori secondari. La Coca cola, ad esempio, possedeva un allevamento di gamberetti. La gestione
complessiva delle diverse attività richiedeva una complessa organizzazione basata su divisioni di
settore o di prodotto, relativamente indipendenti dalla direzione generale che valutava i risultati e
decideva gli investimenti (Budros 1997).
La situazione cambiò quando la grande industria si trovò ad affrontare le difficoltà create dalla
crisi sociale e dall’antagonismo in fabbrica da un lato e dalla competizione internazionale, di
Giappone e Germania, dall’altro. La risposta fu una concentrazione sul core business e l’impegno in
investimenti tecnologici, che contribuì a determinare un eccesso globale di capacità produttiva.
Chiusero impianti e licenziarono dipendenti, delocalizzarono ed esternalizzarono.
Negli anni ‘80 quasi la metà delle conglomerate furono oggetto di scalate ostili, in parte nella
forma speculativa del leverage buyout. Quando la legislazione antitrust che ostacolava le
concentrazioni di imprese venne modificata, meno del 25 per cento erano impegnate in un solo
settore produttivo; alla fine degli anni ‘80 erano diventate due terzi. Negli anni ’90 non furono le
scalate ostili a caratterizzare i rapporti tra le imprese e di queste con i fondi di private equity, bensì
fu il management a prendere l’iniziativa, complici le generose distribuzioni di stock options,
decuplicate tra il 1980 e il 1998. L’innalzamento del valore per gli azionisti diventò un loro
obiettivo strategico. La Business Roundtable (che raggruppa i dirigenti delle maggiori imprese), a
lungo ostile ai cambiamenti, dichiarò nel 1997 che “il dovere fondamentale del management e dei
consigli di amministrazione era di fare gli interessi degli azionisti” (Holmstron, Kaplan 2001). Le
fusioni ed acquisizioni si moltiplicarono (grafico 1).
I grandi investitori istituzionali, che avevano raddoppiato la loro presenza in borsa, erano
cointeressati alle fusioni e alle acquisizioni. Potevano realizzare plusvalenze dal 15 al 30 per cento
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più consistenti dei dividendi che il management distribuiva (Burkart, Panunzi 2006). Cedevano
consistenti blocchi di azioni a chi voleva acquistare un’impresa, e fornivano liquidità a credito.
“Senza il notevole aumento dei fondi pensione, che concentrarono il potere finanziario,
difficilmente ci sarebbe stata la volontà e la capacità di sostenere scalate multimiliardarie”
(Holmstron, Kaplan 2001). Queste implicavano dismissioni e licenziamenti; nel giro di un decennio
vennero eliminati milioni di posti di lavoro.
L’incursione speculativa nel mondo della produzione
L’incursione della finanza nel mondo della produzione risale agli anni ’80, con uno strumento
specifico, il leveraged buyout, utilizzato in maniera diffusa per impadronirsi delle imprese e trarne
rendimenti. Prima di allora la crisi economica aveva incentivato accordi per fusioni e acquisizioni,
sostenute finanziariamente dalle banche, a volte da esse suggerite.
“Le banche adorano le fusioni e le acquisizioni - innanzi tutto per l’eccitazione che creano, e
in secondo luogo per le enormi commissioni che riescono a generare. Dal punto di vista di un
banchiere, non esiste una fusione con caratteristiche negative: si guadagna quando si fa, e si
guadagna quando si disfa” (Stiglitz 2004, p. 156).
I processi di fusione e acquisizione determinati dall’obiettivo di superare limiti o inefficienze
gestionali e produttive erano rari, perché la normativa ostacolava le concentrazioni. Quando venne
rimossa, le acquisizioni furono promosse con obiettivi di speculazione finanziaria e realizzate
attraverso scalate ostili. Vi concorsero altri fattori: da un lato l’allentamento nel 1978 del vincolo
imposto quattro anni prima ai fondi pensione a non impegnarsi in investimenti rischiosi; dall’altro
la deduzione fiscale degli interessi sui debiti, e, per gli investitori, l’abbassamento deciso da Reagan
nel 1981 dell’imposta sulle plusvalenze, da cui comunque i fondi pensione erano esentati (Saunders
1988).
Molteplici soggetti che disponevano di liquidità si coagulavano attorno a chi - banche e gruppi
privati - promuoveva le operazioni di leveraged buyout. Il termine leveraged si riferisce
all’utilizzazione della leva del debito come metodo di finanziamento dell’iniziativa; il termine
buyout al fatto che la finalità era di impadronirsi di una impresa, con patrimonio e flussi di cassa
consistenti, per ritirarla dal mercato. I promotori anticipavano una modesta parte del denaro per
l’acquisto delle quote di proprietà; la parte preponderante - che in qualche caso è arrivata al 97 per
cento - veniva raccolta con l’emissione di titoli che promettevano alti interessi. Erano junk bonds,
titoli spazzatura, che avevano rendimenti fino a 8-10 punti percentuali più alti dei titoli di stato.
Venivano offerti ad investitori propensi al rischio. I costi dell’operazione, degli interessi sui titoli e
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del loro rimborso venivano scaricati sui bilanci dell’impresa conquistata, che, al fine di produrre
utili, veniva ristrutturata e ridimensionata, con lo scorporo e la vendita di parte del patrimonio.
“I mercati impazzirono: i ritorni sui primi investimenti furono così spettacolari che i grandi
investitori, come i fondi pensione e quelli delle fondazioni, non vedevano l’ora di entrare in gioco. I
nuovi fondi spuntavano come funghi. A differenza di altri settori (...), i mercati finanziari
promettevano ritorni rapidi e di gran lunga superiori, attraendo operatori di pochi scrupoli che
investivano denaro normalmente preso in prestito dalle banche” (Morris 2008, p. 50).
Negli anni ’80 i casi di leveraged buyouts furono duemila. Si formarono e consolidarono
gruppi di investitori privati, alcuni promossi da banche commerciali come Chemical Bank, Citicorp
e First Chicago Bank, altri da conglomerate come la General Electric, altri ancora da ricchi
investitori. Non pochi hanno continuato in seguito a perseguire obiettivi di leveraged buyout. Tra i
più importanti Carlyle Group, bersaglio di Michael Moore in Fahrenheit 9/11 per i legami con i
Bush; e Blackstone Group, un pool di fondi pensione, assicurazioni, fondi sovrani e ricchi individui.
I successi di queste operazioni suscitavano l’interesse di un ampio spettro di investitori.
“Banche, fondi pensione e altri finanziatori, impressionati dai guadagni che potevano fare con i
leveraged buyouts si sono precipitati a mettere assieme contanti per miliardi di dollari, da usare in
queste operazioni. Sono aumentate le somme a disposizione di chi vuole realizzarle. Tra poco
persino i piccoli investitori potranno entrare nel gioco. Dean Witer Reynolds, società di
intermediazione, progetta di costituire un leveraged buyout fund che consente di partecipare anche
con quote di soli duemila dollari” (Taylor 1984).
Però le operazioni si fecero sempre più rischiose. La Drexel Burnham Lambert, una banca di
investimento impegnata più di altre, finì in rovina, travolta anche da scandali, nel 1990.
Il leveraged buyout ha segnato il passaggio degli agenti della finanza dalle funzioni di
sostegno e sviluppo dell’economia reale - credito, consulenze alle imprese, gestioni di fondi,
collocazioni di titoli obbligazionari - alla speculazione sui patrimoni delle imprese e sulle loro
capacità di accumulazione materiale, sottraendo risorse produttive per alimentare i rendimenti
finanziari.
Modigliani osservò che ”i leveraged buyouts riducono la sicurezza; il management perde
molte capacità di movimento” (Time 1988). In realtà il management raramente stava a guardare. Si
difendeva caricando i bilanci di debiti per ricomprare le proprie azioni, così che quelle rimaste
salivano di prezzo. Questa pratica, buyback, si affermò nel contesto della strategia di aumento del
valore per l’azionista, perché lo faceva lievitare.
A volte, per restare in sella, il management si accordava con coloro che promuovevano le
operazioni, prendendo iniziative mirate a far ridurre il prezzo di borsa delle azioni. A volte, invece,
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per difendersi metteva in atto varie forme di poison pills, misure per scoraggiare scalate ostili,
rendendo l’impresa più cara e meno appetibile: l’emissione di nuove azioni riservate a chi già ne
deteneva; l’aumento dell’indebitamento; la fissazione a proprio favore di golden parachutes,
costose buonuscite.
Anche queste iniziative producevano danni all’economia. “Il termine poison pill, venne usato
per evocare il carattere nocivo ma anche, in qualche misura, suicida della manovra. I piani
rendevano impossibile l’acquisto dell’impresa, ma la gonfiavano tanto sul mercato, anche se non
nel prezzo delle singole azioni, da spingerle al disastro” (Surowiecki 1997).
La Federal Reserve guidata da Paul Volker aveva tentato di intervenire contro queste attività
speculative, che sottraevano risorse alla produzione. Wall Street aveva reagito duramente, sostenuta
dal segretario al Tesoro, che un tempo era stato dirigente di Merrill Lynch. L’amministrazione
Reagan evitava di esercitare i controlli ancora possibili. “Al responsabile della Federal Reserve
divenne chiaro che Wall Street e non più le banche commerciali avevano assunto il controllo del
settore finanziario” (Parentau 2005, p. 134).
Il sistema di leverage buyout ha continuato, nella sua essenza, ad operare sotto il nome di
private equity funds. “Nel 1980 private equity era un luogo di cani sciolti; adesso richiama le
persone più in vista degli affari, della politica e della cultura, compresi molti dei top managers del
mondo (...). Dà lavoro a politici e funzionari di governo che rientrano nel settore privato.
Blackstone ha assunto Paul O’Neill, fin poco fa segretario del Tesoro, Carlyle ha affidato incarichi
ben remunerati a molte persone illustri, compreso George Bush senior, Fidel Ramon ex presidente
delle Filippine, John Major ex primo ministro britannico, e Arthur Levitt, che aveva diretto la
Securities and Exchange Commission, principale ente regolatore del mercato finanziario
statunitense” (Economist 2004).
Alcuni fondi, come Blackstone e Clarlyle, sono molto grandi, altri più piccoli. Operavano
originariamente negli Stati Uniti, ma hanno esteso le operazioni nel mondo, compartecipando a
fondi locali di private equity (Gaughan 2010). Si pongono l’obiettivo specifico di investire in
imprese, al fine di trarne utili consistenti, e lo fanno direttamente o tramite veicoli di investimento
appositamente costituiti (Bailey, Clark, De Ruyter 2010). Chi partecipa ad un fondo di private
equity conferisce denaro per un periodo pluriennale, a conclusione del quale riceve dai gestori del
fondo i rendimenti realizzati dal complesso delle operazioni (Froud, Williams 2007).
Un fondo, di solito, diversifica l’investimento assumendo il controllo azionario di una
molteplicità di imprese, che ristruttura per rivendere dopo un periodo che varia da 3 a 5 anni.
Ricorre al debito per coprire gran parte dei costi dell’operazione, garantendolo col patrimonio, i
flussi di cassa, o il fondo pensione dell’impresa bersaglio.
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I fondi di private equity hanno enormi disponibilità finanziarie e operano in ogni parte del
mondo. Cercano di scrollarsi di dosso l’immagine negativa che deriva dalla loro stessa storia.
Attualmente Blackstone controlla 100 aziende con 680 mila dipendenti. “Ci impegniamo – scrive il
fondo - esclusivamente in transazioni amichevoli in collaborazione con gruppi di managers capaci,
e con l’obiettivo di raggiungere nel tempo risultati eccezionali”. Carlyle controlla circa 230 aziende
e “impiega – scrive sul proprio sito - un approccio di investimento metodico e prudente”.
Non è l’immagine che conta, rileva l’Economist (2004). “Il problema cruciale è se siano
davvero in grado di sviluppare le aziende che acquistano, e quanto siano condizionati i loro
investimenti. Se non c’è un exit possono non esserci profitti, ed oggi è più difficile che nel passato
praticare le due strade principali: venderle ad un grosso acquirente o collocarle in borsa”. Questa
osservazione è del 2004. Ed ecco, tra i tanti, il caso - successivo - della Travelport.
“In agosto [2006], la Blackstone, un operatore di private equity, ha acquistato la Travelport
assieme a un partner minore. La Blackstone ha pagato un miliardo di dollari del proprio capitale,
quindi ha utilizzato il bilancio della stessa Travelport per prendere in prestito altri 3,3 miliardi per
completare l’acquisto (...). Dopo sette mesi, sono stati licenziati 841 dipendenti (...).
Successivamente i due partner hanno preso in prestito altri 1,1 miliardi dal bilancio della Travelport
e se li sono portati a casa (...). Insomma, il valore era stato distrutto, non creato” (Morris 2008, p.
185).
Le attività dei fondi di private equity hanno bisogno di condizioni favorevoli: prezzi in ascesa
in Borsa e sul mercato immobiliare, bassi tassi di interesse. Per questo si intensificano ad ondate, tra
il 1995 e il 2000, e tra il 2003 e il 2006; in quest’ultimo anno sono state acquistate 654 aziende nei
soli Stati Uniti. Nel 2007 i fondi sono entrati in crisi perché le azioni detenute in portafoglio si
erano svalutate al punto di non consentire di ripagare i debiti con cui erano state acquisite, ma già
nel 2009 hanno ripreso le operazioni (Gaughan 2010).
L’incubazione speculativa dell’ innovazione
La speculazione finanziaria ha fatto da incubatrice alla formazione e allo sviluppo della
“nuova economia”. Sono state le società di venture capital, capitale di rischio, ad investire
nell’avvio di imprese innovative che, sviluppandosi e diffondendosi su scala globale, hanno
determinato l’affermazione dell’information technology e delle biotecnologie. Tra le prime aziende
avviate, o di cui hanno sostenuto lo sviluppo, sono Intel (1968), Microsoft (1975), Genentech
(1976), Apple (1977), Compaq (1982), Lotus (1982). Il successo ha portato alla moltiplicazione
delle iniziative di venture capital, sostenute dalla liquidità di investitori istituzionali in cerca di
consistenti rendimenti.
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Le società di venture capital sono costituite da nuclei di professionisti che, esponendosi
finanziariamente in misura limitata, raccolgono e gestiscono la liquidità altrui, per realizzare
investimenti altamente rischiosi ma fortemente remunerativi, puntando ad utili che vanno oltre il 40
per cento. Hanno una vita di almeno 10 anni, nel corso della quale investono su molteplici progetti,
che durano dai 3 ai 5 anni. Valutano le proposte di start-up, operano il monitoraggio delle imprese
che finanziano e di cui detengono consistenti quote proprietarie, le pongono sul mercato nel
momento in cui ritengono possibile realizzare i vantaggi attesi. Detratte le spese di gestione del 2
per cento annuo, gli utili vengono di norma ripartiti per il 20 per cento alle società e per l’80 per
cento agli investitori passivi esterni.
Il venture capital si è sviluppato per il concorso di una serie di fattori. Nel 1978 ai fondi
pensione è stato concesso di impegnarsi in investimenti rischiosi, e la loro liquidità ha superato di
gran lunga quella messa fino allora a disposizione da banche e da ricchi individui, gli angel
investors. Nel 1980 una normativa ha consentito di brevettare e sfruttare i risultati della ricerca
finanziata con fondi pubblici, e di vendere i diritti o di creare joint venture con capitali privati. Il
principio di brevettabilità si è esteso progressivamente, fino a comprendere gli algoritmi matematici
e il gene umano. Si sono così consolidate le relazioni tra imprese innovative e mercati finanziari
garantiti dai brevetti. Nel 1984 la National Association of Security Dealer ha stabilito che i diritti di
proprietà intellettuale potevano costituire voci dei bilanci aziendali, e gli operatori del NASDAQ, il
mercato in cui si quotano le nuove imprese, ne hanno fatto oggetto di valutazione, diventando un
“potente catalizzatore” di investimenti e scambi prima di allora oggetto di transazioni private (Orsi,
Coriat 2006).
Il venture capitalism si è così affermato per la capacità di garantire le complesse relazioni tra
finanza e innovazione. “Il prodotto finanziario consisteva nel finanziamento del capitale e non più
nel credito offerto dalle banche. Veniva dato insieme ad un valore aggiunto che comprendeva
servizi commerciali e gestionali, supporti manageriali, certificazioni, e connessioni reticolari. Il
tutto in cambio di proprietà azionarie e altri diritti relativi al management” (Antonelli, Teubal
2011).
Per consentire alle società di venture capital di realizzare profitti e rendimenti, le imprese
innovative dovevano essere capaci di trasformare le invenzioni in prodotti, materiali o immateriali,
al fine di produrre dividendi e rendimenti per gli investitori. In questo “finance-driven model of
innovation” la ricerca e l’applicazione è venuta in larga misura a dipendere dalla liquidità messa a
disposizione dagli investitori (Orsi, Coriat 2006).
Negli anni ’80, le società di venture capital si erano moltiplicate e i fondi pensione le avevano
abbondantemente finanziate. Si era creato un ingorgo sul mercato per la collocazione delle nuove
12
imprese, facendo scendere gli utili al di sotto di quelli realizzati con il leveraged buyout. Le attività
ripresero decisamente nella metà degli anni ’90, con 500 società concentrate in California,
Massachussets e pochi altri Stati. Furono rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie informatiche.
“La Nuova Economia assunse forte evidenza empirica. Ci fu un boom in borsa, alimentato
dall’information technology e dalle imprese “dot-com”. Negli Stati Uniti aumentò la produttività e
la crescita economica. Ogni americano medio si fece perciò l’idea che esisteva realmente una
Nuova Economia” (Pohjola 2002). Il trend ascendente dei valori azionari - anche di imprese
materialmente inconsistenti - si bloccò nel 2000 con lo scoppio della bolla speculativa, quando
molte società di venture capital dovettero chiudere con pesanti perdite. “Con il collasso del
NASDAQ nel 2000 e l’inizio della recessione nel 2001, i critici della nuova economia sono tornati
alla ribalta. Non solo erano tornate le brutte giornate - aumento della disoccupazione, calo dei
profitti - ma neanche quelle precedenti sembravano più così belle. La bolla non c’è stata solo in
borsa, perché tutta l’economia degli ultimi anni ’90 è stata una bolla, a causa degli investimenti
eccessivi delle imprese, della spesa imprudente dei consumatori indebitati, e del denaro a buon
prezzo della Federal Reserve” (Madryck 2002).
Il rapporto annuale dell’associazione dei venture capitalists (NVCA 2011) indica che
l’esplosione della bolla delle dot-com ha solo ridimensionato un fenomeno in crescita dagli anni 90,
che ha continuato ad avere un peso significativo negli anni 2000. Gli investimenti annui sono
passati da mille miliardi di dollari nel 1990, a 1500 nel 1995, a 6500 nel 2000; nel 2002 sono calati
a 2500, punto più basso di un nuovo trend ascendente fino ai 3400 miliardi del 2008, accompagnati
da valori del NASDAQ nuovamente crescenti (grafico 2).
Gran parte delle imprese dei più importanti nuovi settori industriali hanno radici in operazioni
lanciate dal venture capital. “Non ci sono altri investitori che assumono il rischio, accompagnando
con pazienza gli imprenditori a portare sul mercato idee e tecnologie innovative. Negli ultimi
quarant’anni questi prodotti hanno cambiato profondamente il nostro modo di vivere e di lavorare
(…). Venture ha dimostrato di essere il sistema più efficiente per spostare rapidamente il capitale
verso le tecnologie e le industrie emergenti più promettenti, movendosi agilmente verso dove si
possono cogliere le occasioni del futuro” (Heesen 2011)
Dalle catene di valore agli imperi
Sotto la pressione degli azionisti, fusioni ed acquisizioni sono stati strumenti utilizzati dalle
imprese sia per ridimensionarsi, sia per espandersi, tendendo, nell’insieme, ad adottare una
organizzazione lean and mean. Il termine vorrebbe connotare essenzialità ed efficienza, in
13
conseguenza di una concentrazione sul core business e alla esternalizzazione e delocalizzazione del
più gran numero di funzioni possibile.
L’utilizzazione di forza lavoro nei paesi a basso reddito e a basso costo, fu resa possibile dalla
liberalizzazione del movimento dei capitali. Venne sorretta dalla teoria economica che magnificava
i vantaggi comparati tra paesi con diverso rapporto capitale-lavoro. Fu facilitata dall’allargamento
del General Agreement on Tariffs and Trade, dalla istituzione del North American Free Trade
Agreement, e, infine, dalla World Trade Organization. Venne imposta ai paesi in via di sviluppo dal
Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale.
Le quattro tigri asiatiche si rafforzarono economicamente fino alla metà degli anni ‘90
proteggendo i processi interni di industrializzazione, che consideravano condizioni per
l’esportazione dei propri prodotti manifatturieri. Gli altri paesi in via di sviluppo diventarono invece
piattaforme produttive per le grandi imprese, con l’obiettivo non di realizzare un commercio
bilanciato tra importazioni ed esportazioni bensì di aumentare l’occupazione e di realizzare
guadagni tecnologici che non ci furono.
Spostando con relativa facilità le proprie strutture periferiche, le grandi imprese hanno
generato una gara verso il basso, “in cui i paesi in via di sviluppo si scalzano l’una con l’altra nel
tentativo di guadagnare vantaggi competitivi comprimendo salari, riscrivendo regolamenti sul
lavoro e sugli affari, riducendo gli standard sociali e ambientali, creando zone di esportazione
extragiudiziali, promuovendo svalutazioni competitive: una dinamica distruttiva di cui sole
beneficiarie sono le multinazionali” (Palley 2001).
Questa dislocazione ha fatto diminuire in maniera rilevante gli investimenti produttivi. Sono
invece aumentati in maniera crescente quelli finanziari, così che il patrimonio finanziario ha
superato quello non finanziario (Orhangazi 2007) (grafico 3). Le entrate servono per pagare
interessi sui prestiti e sulle obbligazioni, distribuire dividendi, fare buybacks per alzare il valore
delle azioni, realizzare fusioni, allargare il patrimonio finanziario (Milberg 2008). L’indebitamento
da un lato supplisce alla mancanza di profitti, dall’altro fornisce liquidità per operazioni finanziarie.
Per James Crotty si tratta del ‘neoliberal paradox’: l’intensa competizione rende difficile a molte
imprese di conseguire incessantemente alti utili, ma i mercati finanziari li richiedono in misura
sempre crescente, pena la caduta dei prezzi delle azioni e il rischio di essere oggetto di scalate ostili
(Crotty 2005).
Secondo Robert Boyer (2000), la propensione per gli investimenti finanziari non deriva da una
comparazione degli utili conseguibili rispetto ai profitti realizzabili mediante investimenti
produttivi. E’ invece la “norma finanziaria” che impone alle grandi imprese di raggiungere risultati
che producono rilevanti effetti sui prezzi delle azioni. Questa tesi supera la contrapposizione tra
14
altre due. Quella, relativamente diffusa, di chi sostiene che gli investimenti finanziari scacciano
quelli produttivi per la maggiore redditività, e implicitamente attribuiscono questa scelta al
management. E quella secondo cui la spinta alla finanziarizzazione è attribuibile alla struttura
produttiva oligopolistica e alla produzione che eccede una domanda limitata dalle ineguaglianze di
reddito e di ricchezza, determinando la crisi delle opportunità di profitto (Foster 2008).
Il sistema produttivo originato dalla dissoluzione delle conglomerate viene considerato come
un insieme di global value chains, riferite ad unità economiche che realizzano processi
verticalmente connessi, dalla fornitura di materie prime e dalla loro trasformazione fino alla
realizzazione di prodotti e alla loro collocazione sul mercato. Secondo questa rappresentazione, ai
vertici delle catene stanno le imprese leader. I loro rapporti con le unità subordinate dei fornitori
variano a seconda della complessità delle transazioni, della possibilità di codificarle, e della
capacità di realizzarle. Possono basarsi su mere relazioni di mercato, su una diretta dipendenza, o,
ancora, su varie forme di coordinamento. Quando le transazioni non sono codificabili, il
coordinamento mira alla comune progettazione di componenti. Se sono codificabili, il
coordinamento può essere di tipo modulare, per la realizzazione di componenti complesse - i
moduli - che vengono inserite in processi produttivi controllati dalle aziende leader (Gereffi,
Humphrey, Sturgeon 2005). L’organizzazione modulare è “al centro della fase attuale di sviluppo
capitalistico” (Starosta 2010).
Le imprese leader sono concentrate su attività finanziarie, di stimolo all’innovazione e di
controllo del mercato, e commissionano all’esterno quelle di servizio e quelle produttive (Milberg
2008). Molteplici fornitori di primo livello, con funzioni di global contractor, consentono loro di
stare al passo con lo sviluppo tecnologico (Cantwell, Santangelo 2006), fornendo tecnologie di
processo e di prodotto, logistiche di produzione e di mercato, manutenzioni e riparazioni;
realizzando economie di scala e di scopo con l’integrazione verticale dei subfornitori. Anche se
possiedono know-how tecnologico e capacità di progettazione e realizzazione di moduli complessi,
i global contractors non controllano i processi in cui inseriscono i propri prodotti, e il loro nome di
solito non appare su quelli finali che l’azienda leader immette sul mercato (Luthje 2002). A volte
sono più grandi delle aziende leader per cui operano, rispondono alle esigenze di flessibilità dei
committenti, ed esercitano un controllo sui fornitori mettendoli tra loro in concorrenza. Sono quotati
in borsa, e, come le aziende leader, mirano al conseguimento di risultati finanziari che soddisfino gli
azionisti.
Nell’industria automobilistica “i fornitori di primo livello consegnano componenti che vanno
direttamente inseriti nella vettura, come l’impianto elettrico o i dischi di frenaggio. I fornitori di
secondo livello generalmente forniscono elementi che compongono le componenti ora citate. I
15
fornitori di terzo livello procurano materie prime, come il rame o la gomma (…). Molti fornitori
svolgono una pluralità di funzioni e vendono anche ad altre industrie; un fornitore di secondo livello
può vendere ai produttori di lavastoviglie; un’impresa come US Steel vende sia ai fornitori sia alle
case automobilistiche” (Rattner 2011).
L’occupazione nelle imprese di fornitura è quattro volte maggiore di quella nelle case
automobilistiche. I subfornitori statunitensi, che rispondono ad esse o ai global contractor, sono per
la metà aziende familiari, che realizzano nel settore dell’auto i due terzi delle vendite. “I
subfornitori dicono di non essere in grado di investire perché il loro orizzonte non va oltre i sei
mesi. Il 40 per cento pensa che il committente può rivolgersi ad un altra azienda non appena questa
offre un prodotto analogo ad un prezzo più basso” (Helper 2011). D’altra parte i fornitori di primo
livello sostengono che nella scelta dei subfornitori devono insistere sul prezzo, perché hanno le
mani legate dalle case automobilistiche, che, per sostenere la concorrenza, impongono tagli annuali
ai prezzi dal 3 al 5 per cento.
“Ogni livello della catena genera profitti spremendo valore dal livello sottostante (...)
L’estrema enfasi posta sul prezzo di una componente potrebbe essere razionale per aziende
concentrate su profitti immediati, ma con una così ristretta prospettiva non si realizza una buona
vettura, e persino la sua produzione può non costare di meno”. I prezzi, infatti, incidono facilmente
sulla qualità, e “l’auto è un prodotto molto complesso: 5 mila parti devono combaciare, con
tolleranze persino inferiori ad un millesimo di inch” (Helper 2008). Non pochi fornitori, anche di
primo livello, sono finiti in bancarotta nell’ultimo decennio, una cinquantina già prima della crisi.
Alcuni si erano indebitati per espandersi, per altri sono venuti meno gli ordini da parte di case cui
erano legati.
Le analisi delle global value chains si sono moltiplicate nell’ultimo decennio. La catena
dell’elettronica è quella che più si approssima a quella dell’automobile. I global contractor, in
parziale competizione, sono multinazionali con reti in tutto il mondo e sedi principali negli Stati
Uniti. Producono moduli per imprese finali che si occupano di personal computer, telefonia
cellulare, videogiochi, componentistica elettronica per l’industria automobilistica, aereonautica e
spaziale.
Le forme di governance messe in evidenza nelle analisi delle global value chains, incentrate
su relazioni funzionali alla produzione, sottolineano le asimmetrie di potere all’interno di ogni
catena. Gli studiosi di geografia economica della Scuola di Manchester, rilevando che “ciascun
livello di una catena di produzione è inserita in un più ampio insieme di relazioni orizzontali non
lineari” (Coe, Dicken, Hess 2008), hanno richiamato l’attenzione sulla necessità di allargare
l’analisi alle condizioni economiche, politiche e sociali che strutturano la produzione: Hanno
16
coniato la terminologia distintiva delle global production networks. Tuttavia “in gran parte,
entrambe le letterature consistono soprattutto di ricche analisi di casi, che riguardano reti
commerciali e produttive nelle industrie globali”(Bair 2008).
Consentono di vedere come catene e reti si articolano, non perché si articolano. Il termine
‘sfruttamento’ viene frequentemente riferito all’asimmetria delle relazioni, non all’origine del
valore e alle modalità con cui le aziende leader se ne appropriano. E’ questo invece l’elemento
centrale dell’analisi della catena agro-alimentare di Jan Douwe van der Ploeg, che ha coniato il
termine impero per rappresentare i rapporti di potere finalizzati allo sfruttamento che legano una
impresa leader ai suoi fornitori. All’apice dell’impero c’è una struttura finanziaria – una cupola –
che esercita il controllo sulle condizioni di produzione attraverso i punti di entrata, di
trasformazione e di uscita delle merci di origine agricola. I processi produttivi sono invece realizzati
da agenti da essa formalmente indipendenti, sia di agricoltori sia di imprese di trasformazione.
“Gli imperi alimentari connettono i luoghi di povertà, dove avviene la produzione, con i
luoghi della ricchezza, dove c’è il consumo. Realizzando la connessione, la cupola si appropria di
un’enorme quantità di valore, continuamente crescente perché il gap tra prezzi alla produzione e
prezzi al consumo si allarga” (Van der Ploeg 2009). L’appropriazione avviene nella sfera della
circolazione.
Van der Ploeg non lo dice, ma la coesistenza di più imperi alimentari in posizione
oligopolistica poggia su un elemento unificatore, la borsa di Chicago, dove si determinano i prezzi
delle materie prime a livello mondiale (Sivini 2009).
L’accumulazione
Nelle borse di tutto il mondo sono presenti 50 mila società. Le prime 800 megaimprese non
finanziarie hanno 30 milioni di dipendenti, generano il 10 per cento del prodotto mondiale; ne
determinano, direttamente o indirettamente, un altro 30 per cento; hanno un accesso privilegiato ai
mercati finanziari mondiali; controllano tecnologie e innovazioni; dispongono di marchi, filiali e
reti di distribuzione. Sono “la punta di diamante della globalizzazione” (Dembinski 2008, p. 133).
In questo segmento stanno le imprese leader e i global contractor delle diverse catene. Si
finanziano sul mercato. Concentrati sulle attività strategiche “usano il bastone della concorrenza e la
carota del comando, spingendo all’aumento della produttività, dei cui risultati si appropriano”. Sono
“architetti del valore aggiunto” (Dembinki 2008, p. 157). Le loro direzioni finanziarie hanno una
funzione rilevante nel comando di una moltitudine di centri di profitto sparsi nel mondo, dove, su
fornitori e subappaltatori, scaricano le pressioni del mercato finanziario, che esige risultati
significativi di breve periodo.
17
Le medie e piccole imprese da esse dipendenti non perseguono strategie di massimizzazione
del valore per gli azionisti, ma guardano ai risultati produttivi e ai profitti che ne possono trarre. Si
autofinanziano, dipendono dal credito, o ricevono finanziamenti dalle megaimprese se si tratta di
fornitori strategici. Se incontrano difficoltà, quelle più promettenti diventano preda di fondi di
private equity, che le ristrutturano e le rivendono.
Questo quadro mette in evidenza le asimmetrie di potere interne alla struttura del capitale
produttivo, derivate dal rapporto con il sistema finanziario, che determinano le modalità di
appropriazione del valore realmente prodotto. Per coglierne, invece, l’origine, Guido Starosta ha
proposto di distinguere tra capitali normali e piccoli capitali, considerando ‘normali’ quelli che,
avendo la concentrazione necessaria per impiegare metodi di produzione socialmente normali,
concorrono a determinare il tasso generale di profitto. L’articolazione in catene è conseguenza della
ricerca di extraprofitti da parte dei capitali ‘normali’, che realizzano appropriandosi nella
circolazione del valore prodotto dai piccoli capitali. L’esistenza di quest’ultimi dipende dal livello
del tasso di interesse, che condiziona il loro finanziamento e che generalmente è più basso del tasso
medio di profitto. “Non possono raggiungere la produttività del lavoro sociale per sostenere la
battaglia competitiva, ma possono estendere la loro agonia, comprimendo il valore della forza
lavoro al di sotto della sussistenza” (Starosta 2010)..
Attraverso le catene il capitale trae dalle molteplici storie locali della classe lavoratrice le
combinazioni di sfruttamento più efficaci. “Ogni luogo tende a concentrare un certo tipo di forza
lavoro con caratteristiche produttive ‘morali e materiali’ di una specifica complessità (…) da
sfruttare nel modo meno dispendioso”. La governance delle catene impone ai piccoli capitali norme
sempre più drastiche di costo, di flessibilità e di velocità di circolazione, che sono essenziali per la
produzione di valore appropriabile dai capitali “normali” (Ivi).
Questa tesi omette da un lato di considerare quella ‘norma finanziaria’, richiamata da Robert
Boyer, che impone non ai piccoli capitali ma a quelli ‘normali’ articolati in catene di raggiungere
obiettivi loro imposti dal mercato finanziario; dall’altro di considerare lo sfruttamento della forza
lavoro come condizione di produzione del valore, per mettere invece l’accento sulla sua
appropriazione.
Sullo sfruttamento si concentra invece l’interpretazione teorica di Laura Fiocco. Capovolge
l’ordine dei soggetti implicati nelle catene, da chi produce valore reale a chi se ne appropria, in una
analisi che colloca l’uno e l’altro entro il rapporto antagonistico di capitale specifico della fase di
finanziarizzazione. L’articolazione in catene a livello mondiale è finalizzata alla frammentazione
della forza lavoro, imbrigliata in cellule produttive separate.
18
“Quelli che vengono denominati ‘nodi’, sia che rappresentino singole unità produttive o
singoli luoghi (come città o regioni) o singoli spazi virtuali non hanno un’esistenza separata,
esistono come parti di un tutto. Ciò che li costituisce realmente come parti di un tessuto vivente è il
dominio sul lavoro ‘avenire’ (Negri) e non le diverse funzioni strumentali rispetto alle merci da
produrre e da vendere”. L’indebolimento della forza lavoro, rafforzato dalla tendenza alla
finanziarizzazione di ogni contesto vitale, “tende a determinare sul fronte materiale una sorta di
peonaggio su scala globale (lavorare per pagare i debiti)” (Fiocco 2011).
L’orizzonte del peonaggio è insito nella prospettiva dell’incessante accumulazione by
dispossession, che ho esaminato attraverso i processi più rilevanti del rapporto tra finanza e capitale
produttivo. Il capitale produttivo è imbrigliato dalla “norma finanziaria” che provoca la
ristrutturazione in global value chains con uno spostamento degli investimenti verso la sfera
finanziaria e l’intensificazione dello sfruttamento; i leveraged buyouts e i fondi di private equity
distruggono ricchezza materiale abbassando le condizioni sociali di vita; la sfera di sussistenza e di
riproduzione del proletariato vengono compresse dalla svalutazione del capitale fisso e del lavoro.
In un contesto espansione finanziaria e di ridotta accumulazione, la crescita materiale viene
condizionata dal venture capital alla prospettiva di pingui rendimenti.
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