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progetto LAVORO per una sinistra del XXI secolo 12 aprile 2012 6 Euro Samir Amin Marco Bersani Antonio Califano Ferruccio Capelli José Luiz Del Roio Oliviero Diliberto Piero Di Siena Alfiero Grandi Maurizio Landini Franco Martini Nicola Nicolosi Mimmo Pantaleo Mimmo Porcaro Cesare Salvi Yannis Stavrakakis Gianni Tamino COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (Art. 1). La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavo- ratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro. (Art. 35) Registrazione Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010

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progetto

LAVOROper una sinistra del XXI secolo

1122aapprriillee 22001122

66 Euro

Samir AminMarco Bersani

Antonio CalifanoFerruccio Capelli

José Luiz Del RoioOliviero Diliberto

Piero Di SienaAlfiero Grandi

Maurizio LandiniFranco MartiniNicola Nicolosi

Mimmo PantaleoMimmo Porcaro

Cesare SalviYannis Stavrakakis

Gianni TaminoCOSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme enei limiti della Costituzione. (Art. 1). La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavo-ratori. Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.(Art. 35)

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Nicola NicolosiUna “riforma del lavoro” da non subireCesare SalviIl governo socialmente più a destra della storia repubblicanaRedazionaleDe Magistris ha ragioneLuigi VinciUn progetto per la ripresa fragile e compromessoRedazionaleLa nuova legge elettoraleAppello degli economistiLettera aperta sulla crisi dell'Europa

Stefano SquarcinaPossibile ritorno riformista in FranciaS. S.La (bella) sorpresa Mélenchon

Piero Di SienaOpporre a Monti un’alternativaAlfiero GrandiCostruire subito l’alternativa di governoMaurizio LandiniRicostituire la democrazia a partire dai luoghi di lavoroFerruccio CapelliUnire la sinistraOliviero DilibertoReinterpretare e rilanciare il ruolo del pubblicoFranco MartiniIl mondo del terziarioPaolo Parodi (intervista a cura di M. G.)Una “riforma del mercato del lavoro” assai negativaMimmo PantaleoSapere bene comuneMimmo PorcaroPerché mai la classe operaia dovrebbe votare per la sinistra? Marco BersaniDisarmare i mercati

Yannis StavrakakisLa crisi della Grecia non è un’infelice eccezioneJosé Luiz Del RoioQuale il peso del “BRICS” nel nostro futuro?L. V.Il pessimo pulpito di una pessima predicaGiulio Girardi e altriLa beatificazione di Giovanni Paolo II.Appello alla chiarezza

Gianni TaminoL’agricoltura nel mondoSamir AminAgricolture capitaliste o agricolture nel capitalismo?

Antonio CalifanoE un’ astronave sbarcò nella piana di San Nicoladi MelfiMatteo GaddiEvitata la chiusura della MichelinM. G.Evitata la delocalizzazione della Fiber di Arcene

Recensioni

RIVISTA MENSILE PROMOSSADALL’ASSOCIAZIONE PUNTO ROSSO E DALMOVIMENTO PER IL PARTITO DEL LAVORO

ESSA RITIENE CENTRALE NELLA CRISISISTEMICA IN CORSO LA RICOSTITUZIONEDEL VERSANTE POLITICO DI MASSA DELMOVIMENTO OPERAIO

Registrazione presso il Tribunale diMilano n. 650 del 03/12/2010

Edizioni Punto Rosso

DIRETTORE RESPONSABILEGiancarlo Saccoman

CONDIRETTORELuigi Vinci

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COLLABORATORIMario Agostinelli, Anna Belligero, Paola Bentivegna, Elio Bonfanti,Giacinto Botti, Franco Calamida,Antonio Califano, Giovanna Capelli,Tatiana Cazzaniga, Bruno Ceccarelli,Leo Ceglia, Luca Ciabatti, Paolo Ciofi,Erminia Emprin Gilardini, MarcelloGraziosi, Paolo Hlacia, Igor Kocijancic,Gian Luca Lombardi, Emilio Molinari,Raul Mordenti, Gianni Naggi, NicolaNicolosi, Giuliano Pennacchio, RobertoPolillo, Mimmo Porcaro, RobertoRomano, Stefano Squarcina, GianniTamino, Leopoldo Tartaglia, Mauro Tosi.

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Questo numero della rivista è statochiuso il 18 aprile 2012

NOTE DI POLITICA

ELEZIONI IN FRANCIA

DISCUSSIONE A SINISTRA

ESTERI

AGRICOLTURA E

MONDIALIZZAZIONE

INCHIESTE E RICERCHE

SUL LAVORO

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UNA “RIFORMA”DEL LAVORO DA NON SUBIRE

Sono in ballo le regole su come si entranel processo produttivo e su come se ne

possa uscire licenziati. Molti chiamanoquesto “mercato del lavoro”: ma altri, daMarx a Polanyi, lo definiscono ben altroche un mercato, per la non riduttività apura merce dei portatori di capacità di

lavoro e cioè degli esseri umani, in altreparole per il fatto che essi sono portatori dibisogni di vita che l’esercizio delle capacità

di lavoro dovrebbe soddisfare.

Si tratta dunque di una questio-ne sociale e culturale cruciale,che, nelle condizioni del capi-

talismo, porta a conflitti e a mediazio-ni tra le parti in conflitto. Il GovernoMonti ha rotto proprio su questo ter-reno di fondo, non su elementi secon-dari: impostando un conflitto ideologi-co la cui intenzione è il rifiuto di rico-noscere nel movimento sindacale ita-liano la rappresentanza organizzata delmondo del lavoro, dunque la consegnaai padroni della possibilità di trattare ilavoratori come pura merce, di fare delsalqario una pura questione di mercato.Le parti sociali, allo scopo di masche-rare quest’intenzione, vengono rappre-sentate dal Governo Monti come pureportatrici di interessi parziali di tipocorporativo, e solo il governo (questogoverno) sarebbe invece portatore diuna posizione che guarda all’“interessegenerale” del paese, della sua popola-zione. Non a caso i provvedimenti digoverno hanno, su qualsiasi materia,nomi del tipo “Salva Italia”.

Quando “Progetto Lavoro” saràstampato il dibattito parlamentare sullariforma delle regole del lavoro, avviatoa seguito dell’intesa tra Governo Montie maggioranza parlamentare (PdL, PD,UDC), non sarà ancora concluso: l’11aprile i due relatori in CommissioneLavoro al Senato, Treu e Castro, sisono infatti impegnati a licenziare iltesto relativo di legge entro il 2 mag-gio. Esso poi doovrà passare allaCamera. La mobilitazione perché iltesto del governo non passi ovverovenga corretto in radice dunque èdestinata a continuare. Dal cantonostro, sinistra sindacale, è importanteperciò ribadire le ragioni per le qualil’intesa governo-maggioranza parla-

del lavoro a tempo indeterminatocome forma fondamentale dell’eserci-zio lavorativo. Parimenti il testo deveessere modificato in fatto di ammortiz-zatori sociali, poiché in esso non rag-giungono l’obiettivo dell’universalità, edeve prevedere la cancellazione dinorme odiose come quella previstadall’art. 9 legge 148/11 (manovra diagosto) sui disabili. In fatto di licenzia-menti individuali, se vi sia insussisten-za del licenziamento per motivi econo-mici il giudice dovrà reintegrare, nonpotrà; inoltre va eliminata l’aggettiva-zione “manifesta”, relativamente all’in-sussistenza, che tende a rendere impra-ticabile il reintegro. L’indennizzo eco-nomico in caso di licenziamento illegit-timo, o in presenza di vizi formali diprocedura o di motivazioni, va sostitui-to con il reintegro del lavoratore. Inultimo tutto ciò deve diventare piatta-forma rivendicativa.

Bisogna allora giungere in tempoutile allo sciopero generale, mettendoin fila le nostre ragioni di metodo e dimerito, rivendicando una netta inver-sione di tendenza. Abbiamo già valuta-to come insopportabile la supponenzacon la quale la Ministra del Lavoro hatrattato argomenti che hanno a chefare con la carne viva delle lavoratrici edei lavoratori, una supponenza per dipiù assommata all’arroganza con laquale il governo continua a porrecome modello da imitare quello dellarecente controriforma previdenziale,gravemente penalizzante per chi vedaallontanarsi la propria “finestra” pen-sionistica oltre che per il complesso deilavoratori precari e dei giovani che siaffacciano (con crescente difficoltà esempre meno garanzie) al mondo dellavoro. Né smette di infastidire l’assur-

mentare è assolutamente insoddisfa-cente per non dire inaccettabile.

Del resto – e lo dico a beneficio dichi vede il bicchiere mezzo pienoquando non è così – fa fede la precisa-zione rilasciata giorni fa dal premierMonti al principale telegiornale italia-no: “Per il motivo economico non èpiù previsto il reintegro. Solo nel casoche il motivo economico sia considera-to manifestamente insussistente il giu-dice può (non “deve”: “può”) decidereper il reintegro”. Una puntualizzazioneche vale più di mille chiacchiere, avva-lora tutte le nostre preoccupazioni e lanostra richiesta – immediatamenteavanzata a tutta la Cgil subito dopol’intesa governo-maggioranza parla-mentare – di proseguire con il nostrocalendario di mobilitazioni e scioperi.Ed è molto importante che la Cgilabbia successivamente precisato comele intenzioni di governo sulle regole infatto di lavoro mostrino “una fortecoerenza con il taglio alle pensioni econ la logica della lettera Bce”: tuttiinterventi “che il sindacato deve conti-nuare a contrastare”. Nella memoriascritta che consegnata dalla Cgil alSenato lo stesso 11 aprile era scrittochiaro e argomentato che il testo dilegge inviato dal governo deve deveessere cambiato sul complesso dellamateria. Poi il Comitato Direttivo dellaCgil il 19 aprile ha confermato tutte leiniziative di lotta, essendo anche parsoevidente a tutta quanta che non esisto-no “ragioni politiche” che ci possanoindurre ad accettare riduzioni dei dirit-ti di chi lavora.

C’è, intanto, tutta la questione delsuperamento del precariato, che deveessere reale, dunque dell’affermazione

di NICOLA NICOLOSI

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da inaccettabile modalità con cui ilgoverno giunge alle mediazioni: atten-to ai rapporti con i partiti della mag-gioranza parlamentare e per nulla allerichieste popolari e del mondo dellavoro, tartassato sia dal lato delle con-troriforme sul terreno occupazionale eprevidenziale e che da quello delpesantissimo fardello delle impostedirette e indirette.

E se anche volessimo mostrare, inipotesi astratta, un po’ di ottimismomuovendo da alcuni elementi del testoconvenuto tra governo e partiti dellamaggioranza parlamentare, andrebbetuttavia rimarcato come il timidissimopasso indietro del governo rispetto adalcune formulazioni iniziali lo si devealle mobilitazioni organizzate dallaCgil di lavoratrici e lavoratori. Ma sitratta di un passo indietro assoluta-mente insufficiente a ritirare lo stato diagitazione e gli scioperi conseguenti.Deve infatti proseguire, prima di tutto,la mobilitazione in difesa dell’articolo18, cioè per il mantenimento del rein-tegro anche in caso di licenziamentoper motivi disciplinari ed economicisenza giusta causa e giustificato moti-vo. D’altra parte negli intendimenti digoverno permane, ed è questa la que-stione fondamentale, la concezione diun mercato del lavoro basato sulla pre-carietà sostanziale della condizionelavorativa e di una condizione econo-mica delle famiglie e dei lavoratori nonaccettabile in quanto fatta di miseria(come per esempio si vede nel testo inquestione, proprio in quanto vuole ilpeggioramento della disciplina cheregola i licenziamenti collettivi). Laregolazione del lavoro voluta dal

Governo Monti non aiuta certamentené la ripresa economica né la crescita,fatta che sia di investimenti italiani ostranieri. Anzi al contrario tira all’ag-gravamento della recessione e alladepressione. Che la posizione di que-sto governo cosiddetto “tecnico” siafallimentare in radice lo si evince benedalla recente presa di posizione delpremio Nobel Joseph Stiglitz. In un’in-tervista rilasciata nei giorni scorsi aRepubblica egli ha attaccato pesante-mente le posizioni in fatto di “austeri-tà” di Bruxelles: posizioni a cui Monti,come è noto, si ispira. Continuare aimporre tagli di spesa e tesse ai paesi incrisi, ha sostenuto Stiglitz, è completa-mente sbagliato rispetto ai fini di cre-scita dichiarati: “Nel mondo non c’èun solo precedente a dimostrare che lariduzione dei salari, delle pensioni e deiservizi sociali possa dare sollievo a unpaese malato. Le probabilità che ulte-riori tagli di spesa risolvano i problemisono vicine allo zero”. E ancora:“Quando si attraversano momenti dif-ficili, i governi non dovrebbero con-trarre la spesa dello Stato, ma aumen-tarla. Il deficit di bilancio non si espan-de necessariamente, se al tempo stessosi aumentano le tasse. In questo modol’economia può moltiplicarsi rispettoalle risorse allocate”.

Di fronte alle esperienze fallimenta-ri dei governi europei – quasi tutti dicentrodestra – e a chi ne segue le ormein Italia, si tratta dunque di rilanciare (afianco alle mobilitazioni e per loroeffetto) lo strumento dell’interventopubblico contro i perduranti deliriiperliberisti. Prima che sia troppo tardi.

LA VERGOGNA DEGLI “ESODATI”. UN GOVERNO IRRESPONSABILE

La controriforma previdenziale e dellavoro Monti-Fornero, con l’allungamentodell’età pensionabile e la riduzione degliammortizzatori sociali, ha enormementedilatato il numero delle persone che, afronte della perdita del lavoro, avevanoprogrammato, spesso per via negozialee con la garanzia dello stato, il propriopercorso verso la pensione, e ora si tro-vano in una situazione insostenibile,senza lavoro, senza pensione e senza ilsostegno degli ammortizzatori. Fornerone riduce irresponsabilmente il numero asoli 65.000, ma i dati dell’Inps, che ilgoverno non vuol rendere ufficiali,mostrano come tale dato riguardi le usci-te dal lavoro del solo 2012, cui dunquevanno aggiunti 100.000 persone nel2013, 90.000 del 2014 e 70.000 del2015, per un totale di 331.000 persone.Esse inoltre risultano così suddivisesecondo le loro caratteristiche: - 70.000 (21%) sono i cosiddetti “esoda-ti”, in due diverse situazioni: (a) gli esu-beri delle grandi aziende, espulsi dallavoro e accompagnati alla pensione conun accordo collettivo, che, se non “sal-vaguardati”, restano scoperti dall’allun-gamento dell’età pensionabile, e (b) gliesodi incentivati con un accordo indivi-duale che prevede un compenso per ilperiodo che li separa dalla pensione,che ora risulta insufficiente rispetto alperiodo più lungo di attesa determinatodalla controriforma delle pensioni. - 45.000 (13%) sono i lavoratori in mobi-lità, più lunga a sud e più breve a nord,che vengono schiacciati fra la controri-forma del lavoro e quella delle pensioni.La prima prevede una progressiva ridu-zione del sostegno, dal 2013 al 2017,anno in cui la mobilità verrà sostituitadall’Aspi, che nel sud riduce l’interventodai 48 mesi oggi previsti a soli 18 per gliultracinquantacinquenni. La seconda lilascia senza copertura per il periodo diallungamento dell’età pensionabile. - 15.000 (4,6%) sono i lavoratori inclusinei fondi di solidarietà, la cui durata pre-vista non copre più l’allungamento del-l’età pensionabile.- 1.000 (0,3%) sono i lavoratori in conge-do per assistere figli con disabilità grave,con accesso al prepensionamento dopo24 mesi, spiazzati dalla nuova normati-va.- 200.000 (60%) sono i lavoratori chehanno perso il lavoro e versano i contri-buti a proprio carico, in prosecuzionevolontaria, e dovranno continuare a farloper un numero molto più elevato di anni,in genere senza disporre dei mezzinecessari.

(G.S.)

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E’ socialmente di destra per lasua composizione, per la suaconclamata ideologia, per i

provvedimenti che ha preso e per quel-li preannunciati. Il risultato è la pro-gressiva “americanizzazione” dellasocietà italiana, con un aumento espo-nenziale delle diseguaglianze.

La richiesta al Parlamento di appro-vare lo stravolgimento dell’art.18 stadeterminando, a giudicare almenodalle prime reazioni, un disvelamentodel carattere classista del governoanche nella percezione di una parteampia e crescente di quell’opinionepubblica, che sembrava fino a oraappagata dalla caduta del governoBerlusconi. Particolarmente importan-te la reazione operaia, che ha indotto(lo ha ammesso esplicitamente il segre-tario della Ugl) anche i sindacati che inun primo momento avevano dato il vialibera a modificare la propria posizio-ne.

Molto positiva, naturalmente, è stataed è la ferma posizione della Cgil;significativo è che Susanna Camussoabbia sottolineato il filo nero che legatutti i provvedimenti del governo, apartire dalle pensioni e passando per lecosiddette liberalizzazioni.

La novità è anche nel sistema politi-co, finalmente. Il Pd questa volta nonha abbozzato. Interessante mi sembrala posizione di Massimo D’Alema. Daesperto real-politico, infatti, egli hacolto il significato dell’iniziativa delgoverno sull’art.18. Per i sostenitori diMonti si tratta infatti di dare un colpoall’idea che il Pd possa, dopo le prossi-me elezioni, acquistare una autonomiache – per quanto relativa – lo porti aseguire, in sintonia con quanto sembramuoversi in altri settori del centrosini-stra europeo, un orientamento non

Ma questo a mio avviso non basta.Occorre proporre e indicare una viad’uscita da questa situazione. Credoanzitutto che vada posto con determi-nazione il tema delle elezioni anticipa-te. La domanda infatti è: come saràimpiegato da governo e Parlamentol’anno che rimane alla scadenza ordi-naria della legislatura?

Per quanto riguarda il Governo,esso sta seguendo pedissequamente leprescrizioni contenute nella letterainviata da Trichet e Draghi al governoBerlusconi lo scorso anno. E quioccorre chiarire un punto solitamentetrascurato. Quando si dice “ce lo chie-de l’Europa”, a parte ogni altra consi-derazione, bisogna precisare che le isti-tuzioni dell’Unione europea hannouna loro precisa dimensione giuridica.Sono istituzioni che non mi piacciono,prive di legittimazione democraticaadeguata, inidonee a realizzare politi-che fiscali e sociali comuni. Tuttaviaesistono e sono regolate dai trattati.Ma nessuna norma dei trattati prevede,e nemmeno consente, che il presidentedella Banca centrale europea e il presi-dente di una banca nazionale scrivanolettere a un governo prescrivendo neipiù precisi dettagli che cosa debba fare,in quali tempi, con quali procedure.

La lettera è illegale, ed è un indicedella inconsapevolezza dei veri terminidel problema il fatto che nessuna forzapolitica lo abbia denunciato.

Questa lettera fu considerata unultimatum a Berlusconi, che infatti hadovuto – fortunatamente – cedere. Ilguaio è che il governo Monti segue leindicazioni in essa contenute perché èconvinto che siano quelle le cose dafare: come ha detto in Giappone, eglipensa che la libertà di licenziamentoaumenti l’occupazione, secondo il piùpuro (e assurdo) dettato dell’ideologia

totalmente subalterno alle pretese delcapitalismo finanziario e alla logica delneo-liberismo.

L’insieme delle iniziative e delledichiarazioni del Presidente delConsiglio (e la stessa intervista dellasignora Monti a Chi) mi sembra delresto dimostrino che quanto gli facapo intenda proseguire l’esperienzaanche dopo le elezioni del 2013, e l’im-pressione è che nel PD ci sia chi se nesta rendendo conto, chi con preoccu-pazione (la segreteria), chi con soddi-sfazione (il giovane Letta e Veltroni).

Ma la reazione d’insieme in questopartito è ancora ben lontana dall’essereadeguata alla gravità della situazione.

L’asse moderato è ancora prevalen-te, e solo i prossimi mesi ci diranno sealla fine prevarrà la continuità con ilmontismo, apertamente auspicata dalladestra interna, o la ricerca di una stra-da diversa, come quella che emerge daldocumento sottoscritto da Bersani conil Psf , la Spd e altri partiti socialdemo-cratici.

Il compito della sinistra politica èoggi evidentemente quello, anzitutto,di essere a fianco di chi protesta e chie-de che venga bloccata la controriformadello Statuto dei lavoratori. Si trattaanche di rendere chiare le ragioni difondo dell’orientamento complessivodel governo, e come non sia in ballosolo la pur importantissima questionedella salvaguardia dell’art.18, ma leprospettive complessive del Paese.Seguendo la strada indicata dal capita-lismo finanziario e dalla destra politicaeuropea, peggioreranno ulteriormentei diritti e il reddito dei ceti popolari,aumenteranno le diseguaglianze socia-li, si finirà di smantellare quel che rima-ne dello stato sociale.

IL GOVERNOPIÙ A DESTRADELLA STORIAREPUBBLICANA.E’ da mandare a casa

Se qualcuno poteva ritenere esagerato ilgiudizio per il quale il governo Monti è un

governo socialmente di destra, la propostasull’art.18 fuga ogni dubbio. Si può anzi

dire che questo è il governo socialmentepiù di destra in Europa (se privilegiamo lacomparazione) e anche dell’Italia unitaria

(se privilegiamo la storia).

di CESARE SALVI

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neoliberista. Della lettera dei banchierinon è stato ancora realizzato il puntoche riguarda le privatizzazioni (l’assaltodella finanza anglo-americana alle ban-che, all’Eni, all’Enel…); mentre sulversante delle politiche fiscali il gover-no ha già presentato linee guida (daoggi al 2017!) che, stravolgendo il det-tato costituzionale, dichiarano di volerspostare il peso prevalente dell’imposi-zione da quella diretta a quella indiret-ta; ed è del resto in agguato l’aumentodell’Iva, già deciso dall’ineffabile duoBerlusconi/Tremonti.

Nuova inflazione, quindi, con con-seguente nuova riduzione del potered’acquisto dei ceti popolari; mentrerestano salvi i grandi patrimoni e imega-redditi alla Marchionne. Gravi eulteriori danni sociali sono in agguato.

Altrettanto allarmante è il quadro diciò che potrebbe accadere sul pianoistituzionale se si concretizzassero iprogetti di riforma costituzionale edelettorale concordati tra i tre partiti dimaggioranza. L’attuale legge elettoraleè pessima, ma se ne sta preparandouna ancora peggiore, espressamentefinalizzata a incrementare i seggi deidue partiti più forti e a confermarel’eliminazione dal Parlamento di ognivoce critica. Casini accetta questo pro-getto perché sa che esso ha un solosbocco possibile, come dimostratosulla base dei dati numerici da uno stu-dioso esperto come D’Alimonte: laformazione, dopo le elezioni, di unacoalizione, che continui, con Monti osenza Monti, le stesse politiche delgoverno attuale.

Quanto alle riforme costituzionali,esse non prevedono nessuna dellemodifiche che i problemi odierni dellademocrazia italiana potrebbero sugge-rire: la messa in sicurezza dellaCostituzione attraverso una riformula-zione dell’art.138, il controllo preventi-vo di costituzionalità delle leggi comein Francia e in Germania, il rafforza-mento degli istituti di partecipazionepopolare – ad esempio con il divieto disvuotare il risultato referendario e ildovere del Parlamento di esaminare idisegni di legge di iniziativa popolare–, la definizione dei rapporti traCostituzione italiana e poteridell’Unione europea. Sono ripreseinvece alcune vecchie proposte diBerlusconi, come i poteri del premiersullo scioglimento delle Camere e la

ratificherà il fiscal pact nel suo testoattuale, mentre cresce il consenso perle più radicali proposte del candidatodel fronte della sinistra, il socialistaMélenchon. Torni dunque la parola aicittadini. Le elezioni anticipate sonol’unica via d’uscita dalla pericolosasituazione che ho cercato di descrivere.A questa richiesta occorre aggiungerela proposta di una alternativa politica,che sia un’alternativa di governo, la piùampia possibile.

Non si tratta adesso di esercitarsisulle formule o sulle sigle, molto saràchiarito nei prossimi mesi, a comincia-re dalla posizione del Pd. Ma la sinistrapiù conseguente non deve avere remo-re a unirsi e a dire, anzitutto al Paese,alle lavoratrici e ai lavoratori, che pro-pone non solo la sacrosanta protestama anche una proposta di governoalternativo, che unisca tutte le forze delcentrosinistra disponibili a convergeresu un programma di cambiamento:nuove politiche economiche e sociali,finalizzate alla rimozione delle disegua-glianze sociali e alla piena e buonaoccupazione, l’allargamento degli spazidi democrazia, la più rigorosa intransi-genza sulla questione morale.

I lavoratori e i ceti popolari, infatti,hanno il diritto a una proposta di cam-biamento effettiva e realistica, e leforze della sinistra hanno il dovere dipredisporla.

corsia preferenziale per le leggi delgoverno, e una raffazzonata riformadel bicameralismo, che svuoterebbeogni residua centralità del Parlamentoe rafforzerebbe la deriva federalista.

Nel frattempo, corruzione, sprechi,conflitti di interesse, arroganza deipolitici, dalla Lombardia alla Puglia, dalcentrodestra al centrosinistra… Lalegge anticorruzione è ferma, perché ilproblema principale è l’impunità diBerlusconi sul caso Ruby. Come mera-vigliarsi se crescono l’antipolitica, lasfiducia e il risentimento, la propensio-ne all’astensionismo?

In breve nulla di buono può veniredal protrarsi della situazione attuale, eil rischio di forme oggi inedite dipopulismo di destra è in agguato.

Da ultimo ma non per ultimoincombe la ratifica del “fiscal pact”,cioè dell’accordo europeo che imponeall’Italia di ridurre il debito pubblicofino al 60% in vent’anni. Ciò vuol dire– come è stato calcolato – manovre dioltre 40 miliardi l’anno. E’ possibileratificare questo patto senza una previaespressione della volontà popolare?

Qualcosa si muove in Europa. Leforze più conseguenti della sinistrariprendono fiato, la stessa socialdemo-crazia fa qualche passo in avanti. Ilcandidato del Psf alle elezioni presi-denziali francesi ha dichiarato che non

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Ifirmatari (gli amici e compagniFerrajoli, Gallino, Ginzborg,Perna e tanti altri) hanno in que-

sta critica ragione da vendere. Ma unatale riforma, benché decisiva in sede diqualità ed effetti del rapporto tra parti-to e società, operativamente non puòche riguardare le militanze di partito.Sono esse sole a disporre delle compe-tenze per farla, in quanto composte dipolitici per passione e in quanto partedelle classi subalterne. Invece dubitia-mo che il popolo possa orientarsi criti-camente nei confronti di un partito peril fatto che esso è nelle mani di un lea-der carismatico e di apparati incontrol-lati, se non altro perché il carisma inpolitica è un rapporto sociale, presso-ché necessario, di quelli che primaria-mente vanno dal basso verso un leader.Non si ha conoscenza nella storia uni-versale di un processo politico rilevan-te che non abbia avuto o non abbiauna leadership carismatica. Occorrereprenderne atto e dunque porsi l’obiet-tivo, non già dell’abolizione della lea-dership, più in generale dei politici diprofessione, inventandosi rotazioni e,sostanzialmente, una deprofessionaliz-zazione della politica, dunque la suaincompetenza radicale, bensì della loroselezione democratica, della democra-zia per davvero in quei pezzi di sinistrapolitica nei quali si militi o per i quali sisimpatizzi, di come possa essere solidi-ficato il controllo della militanza suipropri politici di professione, di comepossano esserne prevenute separatez-ze, di una concezione davvero demo-cratica del socialismo, ecc. Marx pro-pose una serie di misure a questoriguardo che riteniamo tuttora valide,magari accompagnate da altre prodot-te dalla (spesso dolorosa) esperienzastorica del Novecento.

I rischi di una discussione dentroalla sinistra (in realtà dentro solo aisuoi professionisti e alla sua intelli-

lo siamo neppure a partecipare al qua-lunquismo di questi anni, alimentatodalla destra berlusconiana e dai mass-media, avente a bersaglio i “politici” e i“partiti” come tali. Politici e partitihanno nomi e cognomi e sono diver-sissimi tra loro, nelle posizioni comenel costume.

Qualche tempo fa venne propostoda Luigi De Magistris un percorso diconvergenza a sinistra, in vista delleelezioni politiche, che comprendessesia le formazioni della sinistra (SEL,IdV, Federazione della Sinistra) chemovimenti, associazioni, pezzi disocietà civile, pezzi di sindacato, quan-to si è venuto quagliando in moltecittà, non facilmente riducibile a unaformula, che ha portato alle vittorie diNapoli, Milano, Cagliari, Genova,altrove. E’ un itinerario non semplice,non tutte ascrivibili ai difetti dei parti-ti. Sarebbe stato necessario un percor-so di discussioni comuni, che solo inparte c’è stato.

Da parte di De Magistris viene oratirata una conclusione (su il manifestodell’1 di aprile): si tratta di lavorare allacostruzione di una “lista civica nazio-nale” (l’analogia posta all’esperienza diNapoli è evidente), cioè a “un quid plu-ris che serva a vincere le elezioni del2013”, raccogliendo una pluralità diapporti, quelli della sinistra politicacompresi. Senza la quale, infatti, nonsarà possibile combinare granché. Né,ha aggiunto De Magistris, il PD è fuoridall’orizzonte di questa proposta: inquanto solo una sinistra ricomposta eampia può condizionare gli orienta-menti del PD, ovvero tentare dicostringere “una parte del PD a sce-gliere con chi stare”.

Siamo completamente d’accordo.

ghenzia) centrata sul tema della rifor-ma del partito novecentesco sono dipiù tipi. Il primo è di una discussioneinfinita, che non aiuterà per nulla lasinistra politica a superare fraziona-menti e reciproci settarismi. Il secondoè che questa discussione eluda il temadel funzionamento del partito. Un par-tito che non abbia leadership e profes-sionisti semplicemente non funziona.

Oppure cade nelle mani di figureincontrollabili, che approfittano del-l’inesistenza conseguente di elementidi coesione culturale e organizzativasostanziale nella militanza. Il terzo è dimettere da canto gli obiettivi politiciche si dichiara di voler perseguire. Nonbasta menzionare questi obiettivi, cioèla difesa delle condizioni di vita popo-lari, minacciate da una poderosa opera-zione di impoverimento, perdita didiritti e liquidazione dello stato sociale,e la difesa, in solido, della democrazia,minacciata dalle istituzioni di governoeuropee, dal governo Monti e da unalegge elettorale orientata a cancellaredalla rappresentanza ogni forza criticadi sinistra: occorre anche ragionare sucome si fa. Secondo noi la sproporzio-ne tra le forze in campo e il conseguen-te carattere difensivo degli obiettivirichiedono che la sinistra lavori allapropria unità, alla costruzione di unoschieramento largo e a una propriasuperiore capacità di mobilitazionesociale. Occorre riuscire a condiziona-re l’orientamento del PD. Occorre farecome la CGIL. E’ tutto il contrario cheinventarsi nuovi soggetti.

Questo ragionamento serve a moti-vare due cose. La prima, che non è pernulla utile il crescendo di appelli emanifesti che invocano nuovi soggettipolitici fatti in questo o quel modo. Ciòfa anche pensare a pregiudiziali setta-rie. La seconda, che, come non siamodisponibili a settarismi di partito, non

DE MAGISTRISHA RAGIONE

Tra i temi su cui la sinistra politica deverapportarsi alla società non c’è certamente

la riforma del partito operaio novecentesco,come recita un recente autorevole appello,per quanto tale partito abbia mostrato una

forte tendenza all’autoreferenzialità dei pro-pri capi, gruppi dirigenti, apparati, rappre-

sentanze istituzionali, governanti (i propri politici professionali).

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Aciò, è vero, egli unisce blan-de critiche al governo dellaGermania, che considera

troppo cauto e lento nell’impegnaredenari nella costruzione di un fondoeuropeo capace davvero di bloccare laspeculazione finanziaria: d’altra parteMonti condivide la posizione liberistae monetarista esasperata del governodella Germania, cioè ritiene egli pureche l’uscita dalla crisi in cui versal’Europa vada conseguita attraversoquelle “riforme strutturali”, che inrealtà significano l’abbattimento dellecondizioni di vita e delle tutele deilavoratori e dei pensionati, l’abbatti-mento della domanda interna, dunquei cui effetti risultano prociclici ergo ilcontrario di ciò che serve alla ripresaeconomica. Più sinceramente, invece(o, forse, con superiore cognizione dicausa), Passera, dichiaratamente consa-pevole di come tali “riforme” incenti-vino e prolunghino la recessione e ilsuo sbocco depressivo, propone ditentare alcune misure di rilancio pro-duttivo tramite interventi dello stato, ealla fine ha portato Monti a porsianch’egli su questo terreno. Il governo,sotto la pressione di un crescente rifiu-to sociale delle sue politiche, non soloappare ormai in apnea ma anche attra-versato da fratture che potrebberoallargarsi.

Stando alle informazioni di cui aquesto momento disponiamo, le misu-re proposte da Passera sono soprattut-to di tre tipi: la prima, il rilancio degliinvestimenti pubblici (appoggiati dacapitale privato) in “infrastrutture”; laseconda, incentivi al ricambio in sededi fonti energetiche; il terzo, un mecca-nismo un po’ complicato che consenti-rebbe alle imprese in credito presso lapubblica amministrazione (stato o enti

che prima di effettuare anticipazioniguarderanno con attenzione alla situa-zione finanziaria da un lato delle variepubbliche amministrazioni e dall’altroa quella delle varie imprese loro credi-trici, quanto a effettiva solvibilità ditutte quante. Data dunque la condizio-ne finanziaria di una quantità di entilocali e di una quantità di piccole emedie imprese, c’è molto da temereche le banche ci penseranno dieci volteprima di anticipare denaro, e che inuna quantità di casi rifiuteranno glianticipi.

Quanto agli investimenti in “infra-strutture” la prima questione che sipone è di quali infrastrutture si tratte-rebbe. Le mega-opere (si tratta soprat-tutto di queste) hanno certamenteeffetti economici positivi, ma moltilimitati: intanto perché vanno a vantag-gio di territori più o meno ristretti(quelli nei quali le infrastrutture vengo-no realizzate), in secondo luogo perchéil reddito prodotto dai relativi investi-menti vanno a beneficio quasi solodelle imprese appaltanti e del loroindotto tecnologico, pochissimo deiterritori coinvolti. C’è inoltre un ulte-riore tipo di controindicazioni. L’Italiasi caratterizza per un territorio moltofragile e per una popolazione moltonumerosa e spalmata sulla quasi totali-tà del territorio, anziché largamentecentralizzata in grandi aree metropoli-tane (come è in Francia, in GranBretagna o in Spagna): ciò significa chele mega-opere hanno un potenzialedevastante rispetto sia al territorio chealle condizioni delle popolazioni, lequali quindi quasi sempre si oppongo-no. Passera appare fautore di quelloche chiama “sistema francese” di débatpublic, cioè di “coinvolgimento” in“discussioni” delle popolazioni dei ter-

locali) di ottenere immediatamente ilrelativo denaro anziché attendere seimesi e più.

Cominciamo il nostro ragionamen-to critico guardando a questo meccani-smo. Esso consente a un’impresa cheabbia operato su commessa di unapubblica amministrazione di accederea una banca portandovi la documenta-zione del proprio credito presso questapubblica amministrazione e di ottenereimmediatamente che venga scontato,cioè il suo pagamento. In caso di ina-dempienza successiva di questa pubbli-ca amministrazione rispetto a questabanca, essa tuttavia si rifarà, non già suquesta pubblica amministrazione, masull’impresa cui aveva scontato il credi-to presso di essa. La ragione sta nell’in-tenzione del governo di non aggiunge-re in una botta sola il complesso del-l’indebitamento delle pubbliche ammi-nistrazioni al bilancio pubblico, por-tandone così il passivo a 2 mila miliar-di (oggi sono poco più di 1.900). Ilgoverno tedesco indubbiamente tire-rebbe le orecchie di Monti, e poi incoda lo farebbe un certo numero diburocrati della Commissione Europea.Sembrerebbe questa un’inezia dovutaalla cavillosità dei meccanismi definitiin sede europea in fatto di calcolo deibilanci pubblici. La cosa invece non èindifferente quanto a possibili, anziprobabili, effetti reali negativi.Vediamo.

Le banche non possono essereobbligate dallo stato (sempre perdisposizione europea) a effettuare anti-cipazioni alle imprese del denaro lorodovuto da pubbliche amministrazioni(Passera infatti sta lavorando a un gen-tlemen agreement con l’ABI, l’associazio-ne delle banche italiane): quindi le ban-

UN PROGETTOPER LA RIPRESAfragile e compromesso dal tentativo di costituzionalizzazione del pareggio di bilancio

Dovremo tornare sulle misure proposte dalministro Passera in fatto di crescita (quindi di

contenimento immediato della recessione dellanostra economia, delineatasi già a metà del2011 e caratterizzata da un continuo incre-

mento). Monti insiste nell’affermazione che lecause di fondo dei guai economici dell’Italia

stiano altrove, in una recessione mondialescatenata dalla crisi finanziaria del 2007-2008

negli Stati Uniti: quindi contrastabile solo nelmedio periodo, a suo modo di vedere graziealle “riforme strutturali” di governo in materia

di pensioni, di lavoro e fiscali.

di LUIGI VINCI

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note politiche

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ritori coinvolti dalla costruzione dimega-opere: sembra finalmente la rea-lizzazione su questo terreno di un po’di democrazia, a correzione del dispo-tismo imposto ai territori dalla “leggeobiettivo” berlusconiana. Sarà così?Intanto notiamo come il comporta-mento francese sia semplicementel’applicazione in Francia del direttivadel 2001 della Commissione Europeain fatto di “valutazione ambientalestrategica”, e come quest’ultimaimponga, non già il semplice coinvolgi-mento delle popolazioni in discussioni,bensì una trattativa con le loro rappre-sentanze, istituzionali ma anche politi-che e di movimento, che tenganoconto tassativo anche delle contropro-poste di queste rappresentanze ergodelle popolazioni. L’esatto contrario,per essere chiari, di quanto sta avve-nendo ancor oggi in Val di Susa.

Parimenti c’è da segnalare come sto-ricamente in Italia le mega-opere ven-gano decise, non semplicemente inpresenza di veri fabbisogni locali onazionali, ma anche in risposta allarichiesta di grandi imprese dotate diprotezioni o di influenza in sede politi-ca (FIAT, Impregilo, ecc.); e da segna-lare che anche quando si sia trattato dimega-opere utili, esse sono state sosti-tutive di ciò che sarebbe stato di granlunga meglio fare. Un buon esempio èla costruzione di inceneritori o didiscariche in luogo della raccolta diffe-renziata dei rifiuti. Gioverebbe assaipiù, invece, liberare risorse da parte delgoverno nella direzione della manuten-zione del territorio e delle infrastruttu-re delle città, a opera degli enti locali.Con molto meno mezzi di quanti nerichieda, per dire, l’ennesima autostra-da nel nord del paese si avrebberoeffetti di crescita (e di benessere socia-le) assai maggiori, in quanto mobilite-rebbero risorse locali spalmate sullaquasi totalità dei territori.

Quanto, infine, agli incentivi alricambio delle fonti energetiche (alla“decarbonizzazione dell’economia ita-liana”), va intanto constatato come ilgoverno Monti abbia ridotto nelle set-timane scorse, in solido ai tanti tagliorizzontali di cose utili e di cose inuti-li, anche questi incentivi: affermandoche erano eccessivi ovvero che com-portavano una rendita di fatto dal latodelle imprese percettrici. Come al soli-to si è trattato di tagli senza cervello:indubbiamente ci sarà stata qualche

costituzionalizzazione dunque bisognaassolutamente impedirla. Tutto questooltre che orribilmente antisociale è, intutta evidenza, insensatamente antie-conomico: inoltre appare insensatotenendo conto della fragilità di quegliassetti europei che hanno voluto questidisastri, a partire dall’egemonia delladestra di governo tedesca sull’UnioneEuropea e dalla sua alleanza con ladestra di governo francese: quest’ulti-ma probabilmente nei prossimi mesisloggerà dalla gestione del propriopaese, sostituita da una presidenzasocialista e da una maggioranza parla-mentare di sinistra, ostili al corso libe-rista-monetarista, in specie alla costitu-zionalizzazione del pareggio di bilan-cio. Che cosa farà l’Italia, blocco con laGermania contro la Francia, e soprat-tutto contro i propri interessi basilari?

Passera davvero ritiene che la ripre-sa possa essere avviata in Italia con ini-ziative della portata (50 miliardi, divaria provenienza) e della qualità dellesue proposte? Ritiene davvero (dato ilcorso drammatico dell’economia italia-na) che non gli verranno progressiva-mente tagliate? Già mancano alla spesaa regime 17 miliardi. Non ritiene, dun-que, che le risorse della Banca Depositie Prestiti (si tratta, solo in liquiditàimmediate, di più di 200 miliardi) deb-bano essere impiegate a fondo, anche,per esempio, in attività larghe di manu-tenzione del territorio e in infrastruttu-re urbane, finanziando ampiamente glienti locali, e in quelle “infrastrutture”che si chiamano elevata qualificazionedel lavoro, quindi lavoro stabile, assor-bimento in sede pubblica della disoc-cupazione, salari decenti, tutele piùampie, stato sociale, dunque usate nonsolo in ausilio all’investimento statalein mega-opere (come egli propone)?Passera dice, desolato, che le risorse dicui lo stato dispone sono poche: guar-dando anche solo alla cassa Depositi ePrestiti (di proprietà al 70% delTesoro) non sembrerebbe. I denari inItalia ci sono (e anche su altri versanti):ed è solo questione di volontà politicaappropriarsene e utilizzarli da partedello stato.

impresa (soprattutto estera) che traevadagli incentivi anche un vantaggiofinanziario: tuttavia è soprattutto acca-duto che molte piccole imprese, ingenere vivaci, in genere costruite dagiovani, si siano trovate in difficoltà enon poche abbiano chiuso. Gli incenti-vi dunque erano per loro della misuragiusta. Che cosa succederà, gli incenti-vi verranno modulati tenendo contodelle diverse caratteristiche delleimprese e delle loro produzioni diimpianti e servizi, oppure si andràavanti considerandole tutte eguali? Nelfrattempo giova sottolineare come iloro recenti tagli abbiano semplice-mente incrementato la dipendenzadell’Italia dagli impianti tedeschi infatto di solare voltaico (quelli più diffu-si), consolidando quella situazioneparadossale che vede l’Italia esseremolto inoltrata nell’adozione di questaforma di energia alternativa rispetto aquella basata sul petrolio, ma dipende-re quasi completamente dall’estero,soprattutto appunto dalla Germania,in fatto di fornitura di impianti, quindiche vede l’Italia, anziché risparmiaresulla generale bolletta energetica,subirne l’aumento anche da questo lato(oltre, voglio dire, che da quello delcaro-petrolio).

Va in ultimo posta la questione digran lunga più grave. La recessionedella nostra economia viene aggravan-dosi, il FMI prevede che il pareggio dibilancio l’Italia, sic stantibus rebus, riu-scirà a raggiungerlo solo nel 2017(onestamente crediamo di più allestime del FMI che a quelle del governoo delle istituzioni europee, che parlanodel 2013): tutto ciò significa, nella pro-spettiva liberista-monetarista esaspera-ta del governo, leggi finanziarie ancorpiù lacrime e sangue di quanto sia sino-ra accaduto, e probabilmente “mano-vre” (anche se il governo ne nega lanecessità) di analoga qualità. A riprovadecisiva di ciò si veda come il governoabbia imposto al Parlamento di mette-re il piede sull’acceleratore della costi-tuzionalizzazione del pareggio di bilan-cio: misura questa che piu pesante-mente prociclica non si può. Traparentesi: il PD questa costituzionaliz-zazione l’accetta. Però, come pensa ilPD di rettificare gli indirizzi di politicaeconomica del governo Monti nelsenso realmente della ripresa, se equando andrà esso al governo, datoappunto questo vincolo, non soloeuropeo, ma costituzionale? Questa

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Per semplicità esamineremosolamente la formazione dellaCamera dei Deputati (in ogni

caso per quel che riguarda la formazio-ne del Senato le cose sono ancora peg-giori). La Camera con la nuova leggerisulterà formata in una sua parte tra-mite sistema maggioritario ed esatta-mente tramite collegi uninominali: iquali per loro natura avvantaggiano ipartiti maggiori più le formazioni loca-li. In un’altra sua parte essa verra for-mata invece tramite sistema proporzio-nale ed esattamente tramite collegi dipiccola dimensione (più o meno comequella delle province): ciò che pureavvantaggia i partiti maggiori o a inse-diamento locale, vigendo di fatto unasoglia di sbarramento assai alta (ben-ché mutevole in relazione alla dimen-sione dei collegi). Infine in un’altra suaparte la Camera verrà formata tramiteassegnazione di un premio di maggio-ranza al primo partito oppure ai primidue partiti oppure a quei partiti chesuperino la soglia dell’8 o del 10% (allostato attuale si tratta solo dei primi duepartiti). Ci sarebbe, ancora, una sogliadi sbarramento del 4 e più probabil-mente del 5%, a tagliare fuori i partitiminori, salvo l’assegnazione loro, qua-lora ottenessero più del 2 o del 3% deivoti, di alcuni seggi complessivamente(10 o 12): si tratta di a quello che vienechiamato “diritto di tribuna”. Ladistorsione, già gigantesca, della rap-presentanza politica del popolopotrebbe infine essere ulteriormentecaricata, nella ripartizione tra i partitidella quota della Camera eletta consistema proporzionale, del mancatorecupero dei resti tramite collegiounico nazionale (in analogia al cosid-detto sistema elettorale spagnolo, con-tinuamente evocato sui media). Sicchèil risultato relativo a questa parte della

la nuova legge potrebbe portare agoverni del paese composti dal soloPD o dal solo PdL, benché ciascunodei quali parecchio minoritario nelpaese. Concludendo, la nuova leggeelettorale non solo ripropone, tra glieffetti probabili, l’imposizione forzosaal paese del bipolarismo (con i medesi-mi difetti di quando faceva capo a coa-lizioni caotiche: poiché obbligherà idue partiti principali a continuare acaratterizzarsi essi per primi come coa-lizioni caotiche), ma addirittura getta lebasi della possibile reiterazione, in unaforma o nell’altra, dell’esperienzaMonti, cioè di un governo che prendegli ordini dalle istituzioni di destra chegestiscono l’Unione Europea e che èappoggiato da un Parlamento cheesclude quasi completamente ognivoce critica.

Viene detto che con la nuova leggeelettorale finalmente il popolo italianopotrà decidere esso, non più le segrete-rie dei partiti, chi entrerà inParlamento. L’improntitudine di quan-ti, politici o giornalisti, dichiarano ognigiorno che è a questo ciò a cui la nuovalegge elettorale guarda fa davvero ver-gogna. Con il Porcellum, è vero, nonessendoci la possibilità di esprimeresulla scheda elettorale preferenze persingoli candidati, il popolo di fattoeleggeva un Parlamento già disegnatodalle segreterie di partito. E con lanuova legge elettorale? Una parte dellaCamera, quella formata su base pro-porzionale, verrà eletta senza la possi-bilità di esprimere preferenze. La parteformata su base maggioritaria, a suavolta, presenterà (il maggioritario uni-nominale è questo) un solo candidatoin ogni collegio elettorale per ogni par-tito. Dove sta la possibilità della sceltadi popolo dentro alle candidature di

Camera diverrebbe sostanzialmenteeguale a quello della sua parte maggio-ritaria. Andando dunque ai risultati,avverrebbe l’appropriazione dellaquasi totalità dei seggi parlamentari daparte delle formazioni maggiori e diquelle a radicamento locale. Avremmouna Camera dei Deputati formata daPD e PdL per un 80% circa dei seggi,il resto, in ordine, a Lega e UDC, e soloqualche briciola a tutti gli altri (tra iquali formazioni consistenti come IdVe SEL e formazioni minori ma inripresa come la Federazione dellaSinistra).

Giova dunque porre tra i numerosieffetti sostanziali della nuova leggeelettorale il fatto che essa massacrereb-be gli alleati di Vasto del PD (IdV,SEL); non già la Lega, già alleata delPdL. Non solo. Viene detto che questanuova legge elettorale porrà fine allecoalizioni coatte di partiti eterogenei,in grado di vincere ma poi incapaci digovernare coerentemente o senzarisse. In realtà si tratta di una legge cheporterà a soli tre possibili schieramentidi governo: grande coalizione PD-PdL-UDC (la più probabile, quantomeno subito dopo le elezioni), alleanzaPD-UDC, alleanza PdL-UDC (lameno probabile). Addirittura se il PdLrisultasse in ripresa consistentepotremmo assistere a una maggioranzaparlamentare PdL-Lega (sempre che laLega non risulti troppo ridimensionatadai suoi recenti guai con la giustizia).Insomma uno dei difetti sostanziali del“Porcellum” (l’attuale legge elettorale),il fatto che ad avere la maggioranza inParlamento e a formare il governosiano coalizioni eterogenee nel paese eper di più minoritarie, salvo grandicoalizioni di quasi tutti, non verrebbeper nulla rimosso. Addirittura, ancora,

UNA NUOVALEGGE ELETTORALE… contro le richieste e laconfigurazione politica del paese reale

La nuova legge elettorale in corso di progettazione da parte di PdL, PD e UDC,

da quel che trapela sui media, apparecome ben più di una ridefinizione dei criteri

di formazione della rappresentanza parlamentare della società italiana.

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partito? Si intende per scelta che, seper esempio ritenessimo che nellaparte maggioritaria il candidato delnostro partito e quelli di partiti conti-gui siano incompetenti o mediocri,allora possiamo spostare il nostro votosu PdL, Lega o UDC, se uno dei lorocandidati ci sembri capace? Insommasi intende che la libertà di scegliere icandidati consiste nel guardare alleloro capacità soggettive prescindendodai programmi dei loro partiti? Poichél’elettore normale sceglie in primoluogo, salvo rarefatte eccezioni, perquale partito votare, il risultato globaleè che saranno ancora le segreterie dipartito a decidere su tutti quelli cheentreranno in Parlamento, a seguito didiscussioni interne (guardando ai gran-di partiti attuali) tra correnti, fazioni,famiglie e tribù: piazzando quantidovranno essere eletti eletti nei collegidove c’è una ragionevole possibilità dielezione.

E’ quindi in cantiere un passaggiosostanziale da un sistema democraticodella rappresentanza, cioè vicino allacomposizione politica del popolo, ecome tale condizionabile da parte delleclassi subalterne, dalle loro organizza-zioni e dalle loro mobilitazioni, a unsistema di finta rappresentanza, fuorida ogni possibilità di controllo popola-re, incaricato della realizzazione diorientamenti, presi da parte di leader digoverno e di istituzioni e tecnocrazieeuropee da loro medesimi nominate,tendenti alla distruzione di ogni con-quista sociale, e anche politica, dellelotte del movimento operaio.

La domanda è d’obbligo: chi glielofa fare al PD? E in particolare aBersani? Ragionevolmente, se si votas-se con una legge elettorale democrati-ca uno schieramento di centro-sinistrarisulterebbe vincitore alle prossimeelezioni. Lo stesso vale se si votassecon l’orribile Porcellum. Qualora man-casse qualcosa a fare maggioranza par-lamentare assoluta il PD potrebbeeffettuare un accordo con l’UDC: mada posizioni di grande forza. Con lanuova legge elettorale il PD rischiainvece di legarsi in perpetuo mani epiedi a un’UDC che potrà minacciarlo,in presenza di divergenze in materiaeconomica e sociale, di allearsi invececon il PdL. Peggio ancora, rischia for-temente di trovarsi riobbligato a parte-cipare a una grande coalizione del tipodi quella attuale (e condotta politica-

esse lavoreranno da subito alla costitu-zione di un’alleanza elettorale largaorientata a presentare liste unitarie. Iltonnellaggio elettorale realistico di unatale alleanza oscilla attorno al 20%, nési possono escludere incrementi signi-ficativi di questa quota, data la situa-zione economica e sociale del paese:alla condizione che all’alleanza eletto-rale si unisca una capacità effettiva diricomposizione politica a sinistra e diiniziativa e mobilitazione nella società.I giochi sono solo al loro inizio:potranno esserne scombinati positiva-mente se la prospettiva di un’alleanza asinistra assumerà concretezza e opera-tività, se non altro per la sua capacitàcompetitiva anche elettorale nei con-fronti del PD. Il PD se sarebbe, conmolta probabilità, fortemente condi-zionato da subito in senso positivoquanto a orientamenti, comportamen-ti, determinazione a portare avanti l’at-tuale progetto di nuova legge elettora-le. Va da sé che per quanto sta nellenostre possibilità opereremo a favorirequesta prospettiva.

Resta infine da dire qualcosa suiguai nostrani. Il segretario diRifondazione Comunista PaoloFerrero ha apprezzato la proposta diDe Magistris di un soggetto unificatodella sinistra politica e di movimento.Parimenti è uscito con dichiarazioni digrande giubilo nei confronti del pro-getto di nuova legge elettorale. Ci vede,bontà sua, la fine del bipolarismo coat-to. Invita Vendola e tutti quanti a lavo-rare per l’unità a sinistra, al tempo stes-so dichiarando, in sostanza, che gli vabene il danno che la nuova legge elet-torale reca a SEL (e all’IdV). Ancormeno gli importa che questa sua posi-zione picconi la FdS. Il suo obiettivoreale palesemente sono i due-tre seggidell’ipotetico “diritto di tribuna” aRifondazione Comunista. Tanto glibasta, anzi ne avanza. Auguriamoci uncambiamento di posizione.

mente come quella attuale).Probabilmente uno dei motivi di untale comportamento del PD (ma anchedel PdL) è che attraverso quest’iniziati-va in materia di legge elettorale essi difatto dichiarano l’intenzione (a cuisono obbligati, per quanto non con-vintissimi, dai media e da Napolitano)di consentire al governo Monti di giun-gere alla fine naturale della legislatura(più o meno a maggio 2013). Si tengapresente, a questo riguardo, che assie-me a una nuova legge elettorale sonoaffrontate da PdL, PD e UDC unaserie di altre “riforme” della rappre-sentanza che richiedono modificazionicostituzionali, quindi due passaggi deitesti di riforma a distanza di almeno seimesi in ambedue le camere delParlamento (una di queste misure è lariduzione del numero dei parlamentari;un’altra è la divisione del lavoro di legi-ferazione tra Camera e Senato, chedovrebbe accorciarne i tempi).

L’altro motivo del comportamentodel PD è che la sua destra interna fa iltifo per Monti ed è per la continuazio-ne della politica di questo governo diqui all’eternità. Quindi all’opposizionealle misure di governo dal lato dellalibertà padronale di licenziamento deilavoratori, che segreteria del PD, suabase e CGIL hanno voluto fosse laposizione di questo partito, ha dovutocombinarsi una concessione al gover-no sul piano della durata, dotata di unacerta solidità. Ancora, né PD né Pdlsono in grado di reggere l’urto deimass-media, ovvero di reggerne lecampagne a forte valenza qualunquistae antidemocratica contro “politici” e“partiti” in generale, che andrebbero amille nel caso di uno scontro apertocon il governo.

Da parte di IdV e di SEL si prote-sta, ovviamente. Il progetto di nuovalegge elettorale è non solo il tentativodi assassinare due formazioni dotate diuna dimensione elettorale di tuttorispetto ma anche, e prima di tutto, iltentativo di affermare e consolidareuna realtà di governi sempre e comun-que antisociali, di destra liberista, for-temente orientati alla liquidazione diuna democrazia inclusiva anche con lariduzione, non solo di diritti sociali edel lavoro, ma anche dell’agibilità diuna parte delle posizioni politiche pre-senti nel paese, appunto quelle di sini-stra antiliberista. La protesta di IdV eSEL sarà tanto più efficace quanto più

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Nel quinto anno della crisiglobale più grave da quelladel 1929, una drammatica

prospettiva di recessione incombesull’Europa mettendone a rischio nonsolo l’Euro ma anche il modello socia-le e l’ideale della “piena e buona occu-pazione”, pur sancito in tutte le strate-gie europee, a partire dall’Agenda diLisbona. E’ proprio nel VecchioContinente infatti che si stanno ostina-tamente portando avanti politiche eco-nomiche fortemente depressive cheminacciano un aumento della disoccu-pazione, specialmente giovanile e fem-minile. Non a caso il FMI afferma che,anche a causa di ciò, il mondo corre ilrischio di una nuova “grande depres-sione” stile anni ‘30.

Eppure, si è scelta la linea dell'auste-rità, del rigore di bilancio – a comincia-re dal Patto di Stabilità e Crescita, pas-sando per il Patto Euro Plus, per arri-vare all’attuale “Fiscal Compact” – conl’idea di contrarre il perimetro Statalecontinuando a sperare che i privatiaumentino investimenti e consumi,sulla base della fiducia indotta dalleimmissioni di liquidità nel circuito ban-cario, a sua volta “sollecitato” ad acqui-stare titoli di Stato europei. Si è, dun-que, deliberatamente optato per lanon-correzione delle distorsioni strut-turali di un modello di sviluppo econo-mico basato sui consumi individuali,sull’ipertrofia della finanza, sul sovrau-tilizzo delle risorse naturali e sull’inde-bitamento, in contraddizione con ilmodello sociale europeo. Si è nuova-mente scelta una politica monetarista eliberista. Si è pensato di contrarre ideficit pubblici – e con essi spesa einvestimenti pubblici – per ridurre ilricorso all’indebitamento, nel tentativodi arginare gli attacchi speculativi suidebiti sovrani, sperando così di salvarel’Euro e i precari equilibri economici

tutte le linee di politica economica e difinanza pubblica adottate sinora nonsono altro che una risposta alle soleconseguenze della crisi globale scop-piata nel 2008, ma non alle cause allaradice della stessa, in questo modoacuendone e persino moltiplicandonegli effetti. Il double dip e il fendentespeculativo sui debiti sovrani europeirappresentano un continuum della crisiscoppiata nel 2008 dovuto anche allasottovalutazione scientifica della natu-ra strutturale della recessione globale.E’ ormai noto che la crisi finanziaria èscaturita dal debito privato e che l’at-tuale stress dei bilanci pubblici è soloconseguenza e non causa della stessacrisi, anche se ciò sta ora creando unrischio di default per alcuni Paesi. Lacrisi finanziaria ha avuto inizio nellaseconda metà del 2007 e la sequenza èStata: scoppio della bolla immobiliare,crisi finanziaria, credit crunch, reces-sione, aumento dei disavanzi e deidebiti (per stabilizzatori automatici,manovre di sostegno all’economiareale e soprattutto salvataggi delle ban-che), attacco ai debiti sovrani, rispostesbagliate delle politiche economiche apartire dal 2009. Le cause della crisi –identificate anche dal FMI, dallaCommissione Europea, dall’ILO e damolte altre istituzioni internazionali –sono riscontrabili nell’aumento delledisuguaglianze, nel formarsi di squilibristrutturali nei rapporti commerciali trai diversi Paesi e nella degenerazionedella finanza.

Questa è una crisi di modello eoccorre una riforma del modello perritrovare la ripresa. Bisogna assumereuno sguardo più vasto, una prospettivadi lungo periodo. Nemmeno i Paesieuropei in avanzo commerciale, neiprossimi anni, potranno contare suuna “locomotiva” americana o cinese,tanto meno sulla capacità di assorbi-

tra gli Stati membri. Ma non sta fun-zionando, perché non può funzionare.

Non basta scommettere sulle aspet-tative dei mercati finanziari, degli inve-stitori privati, delle banche, dei consu-matori. Non è sufficiente puntare sulla“credibilità” dei governi. In Europa,ne sono cambiati ben cinque in 18mesi (Irlanda, Portogallo, Spagna,Grecia e Italia), addirittura con duegoverni tecnici sostenuti da larghemaggioranze. La “crisi dei governinazionali” è solo una delle tre crisi chesi sovrappongono: restano da affronta-re la “crisi delle economie nazionali” ela “crisi dell’economia sovranaziona-le”. Solo così, peraltro, si possonorisolvere le debolezze strutturali delledemocrazie nazionali piegate dagliinteressi economico-finanziari costitui-ti. L’attuale quadro europeo rappresen-ta il frutto di una serie impressionantedi errori: il mancato salvataggio dellaGrecia, a cui è seguito il contagio deglialtri debiti sovrani, con l’aggravantedelle politiche deflattive imposte indi-scriminatamente a tutti i Paesidell’Unione monetaria.

Le principali fonti Statistiche istitu-zionali prefigurano per il 2012un’Europa divisa fra Paesi in stagna-zione e Paesi in recessione, senza alcu-na ripresa dell’occupazione. Tutto que-sto si sommerà alla prosecuzione delletensioni sugli interessi dei titoli dilungo periodo della maggioranza degliStati che inevitabilmente proseguirà.La disoccupazione ha assunto caratte-re strutturale. Il commercio internazio-nale registra un’imponente flessione eaumentano le misure protezionistiche.I Paesi emergenti rallentano vistosa-mente la crescita. Aumentano i poverie le disuguaglianze sociali. Crollano leproduzioni, i consumi, i risparmi e gliinvestimenti. Eppure, è evidente che

LETTERA APERTASULLA CRISIDELL'EUROPA.Sconfiggere la recessione,cambiare strada finché c'è ancora tempo

A: il Parlamento Europeola Commissione Europea

il Consiglio Europeoil Presidente della Banca Centrale Europea

il Governo e il Parlamento della Repubblica Italiana

i rappresentanti italiani presso le Istituzionidell’Unione europea

i rappresentanti delle forze politiche e socialie per opportuna conoscenza:

il Presidente della Repubblica Italiana

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note politiche

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mento degli altri Paesi europei. Anzi,proprio la divergenza competitiva deiPaesi dell’Area Euro impedisce la riso-luzione della crisi. Inutile spostare lasvalutazione competitiva dalla monetaai costi della produzione e, più precisa-mente, al costo del lavoro. Inutileridurre le pensioni, i beni collettivi e loStato sociale. Questa è una crisi didomanda. La lezione che viene dallacrisi è chiara.

Il nodo che oggi si pone in Europasta nel decidere se il riequilibrio inevi-tabile avverrà attraverso la “depressio-ne” (con una ricaduta regressiva edemocraticamente pericolosa) oppurecon lungimiranti scelte di cooperazio-ne, rilanciando l’originaria “spinta”europeista, evitando che i Paesi in disa-vanzo non intervengano sui proprisquilibri e, allo stesso tempo, che iPaesi che hanno approfittato dell’Euro(come la Germania) accumulino sur-plus invece di svolgere la funzione dilocomotiva a cui sono tenuti in un con-testo di moneta unica. La partita non èancora chiusa ma la risorsa tempo èdrammaticamente scarsa. Occorre unsalto di qualità nel promuovere e orga-nizzare una proposta alternativa.

In questo quadro, le iniziative deigoverni nazionali, comprese quelle delgoverno dei tecnici in Italia, non sonoin grado di scongiurare il rischio didefault finanziario di alcuni Paesi,rischio aggravato dall’effetto depressi-vo delle politiche europee e delle con-seguenti politiche degli stessi governi.Abbiamo bisogno di nuova crescitaeconomica ma questa non può cheessere una crescita “nuova”, anche indirezione di un’economia della cono-scenza e di un’economia sostenibile intermini ambientali, distributivi e socia-li. Oggi più che mai “cosa produrre” èimportante almeno quanto “come pro-durre”. Ci vuole un nuovo modello incui lo Stato e le istituzioni sovranazio-nali orientino i risparmi, gli investi-menti e lo sviluppo. E’ necessario dun-que un programma di riforme appog-giato sui lineamenti di una nuova poli-tica economica, ispirata da una nuovaidea di sostenibilità di lungo periodo,economica, sociale, ambientale e inter-generazionale, fondata, in primoluogo, su investimenti e consumi col-lettivi.

L’equità è la frontiera su cui orienta-re le scelte politiche nazionali e inter-nazionali. Ridurre le disuguaglianzevuol dire crescere e crescere bene.Ridurle fra popoli, fra nazioni e all’in-

native diventa il rafforzamento dellagovernance democratica europea,attraverso innanzitutto l’europeizza-zione del debito dei Paesi dell’UnioneMonetaria e la modifica dei trattatieuropei affinché la BCE possa emette-re moneta a garanzia dei debiti pubbli-ci e diventare a tutti gli effetti “banca diultima istanza”. Numerose le propostein tal senso, come quella presentata dai“cinque saggi” tedeschi che pensanoad un fondo che smaltisca nel lunghis-simo periodo la parte di debiti pubbli-ci europei che eccede il 60%.Basterebbe prendere le proposte inconsiderazione e non derubricarleideologicamente.

L’Europa non è stabile e non cresce.Il Patto di Stabilità e Crescita è certa-mente fallito, non perché non sia statoben applicato, semplicemente perchénon poteva funzionare. Il Patto diStabilità andrebbe non rafforzato, macambiato. Invece del solo indebita-mento pubblico, i parametri vincolantidi riferimento dovrebbero comprende-re il debito totale – somma del debitopubblico e privato –, il debito sull’este-ro e il saldo della bilancia dei pagamen-ti di ciascun Paese. E’ necessario inol-tre includere tra i parametri un obbiet-tivo di crescita e un obbiettivo occupa-zionale, perché l’Europa deve tornarea porsi la finalità della piena occupa-zione. Bisognerebbe, appunto, partiredalla crescita e non dalla stabilità, perregolare su di essa la politica macroe-conomica, definendo poi il tasso diinflazione e il livello dei deficit pubbli-ci accettabili in una determinata fase,articolando il tutto tra i vari Paesidell’Unione anche con l’obbiettivo diridurne le divergenze di competitività.Occorre recuperare una politica indu-striale, europea e dei singoli Stati, ingrado di sostenere e riorganizzare i fat-tori per una “nuova crescita”, ancheimponendo un modello redistributivofunzionale alla sua implementazioneed alla sua qualità. D’altra parte, la crisipuò essere scongiurata solo se il pesodel riequilibrio commerciale e finanzia-rio graverà oltre che sulle spalle deiPaesi debitori anche su quelle dei Paesicreditori, attraverso un’espansionedella domanda da parte di questi ulti-mi. In questa prospettiva è necessariauna politica dei redditi europea fonda-ta sulla leva fiscale, sul welfare e,soprattutto, su uno “standard retributi-vo europeo” che garantisca, a livello diarea e con le differenze coerenti conl’obbiettivo della convergenza deilivelli di competitività, una crescitadelle retribuzioni reali almeno uguale

terno degli Stati. Non a caso i Paesieuropei con minori disuguaglianze – equindi con gli indici di concentrazionedel reddito e della ricchezza più bassi –sono anche quelli che stanno soffren-do meno la crisi e che si sono sviluppa-ti meglio, con più PIL pro-capite ebenessere diffuso (per limitarciall’Europa: Danimarca, Francia,Germania, Finlandia, Olanda, Svezia,Norvegia). Per questo, all’interno di unprogetto di armonizzazione fiscaleeuropea, ci vuole un riequilibrio deisingoli sistemi fiscali nazionali peraumentare la tassazione sulle grandiconcentrazioni di reddito e di rendita,tassare le grandi ricchezze parassitariee liberare le risorse private tenuteimprigionate, aumentare la spesa e gliinvestimenti pubblici.

In sintesi, bisogna ripartire dal lavo-ro. Bisogna realizzare piani di spesapubblica diretta per il lavoro e per gliinvestimenti – a partire da quelli verdi,infrastrutturali, ad alta intensità tecno-logica e di conoscenza – finanziati conuna tassazione ad hoc e anche in disa-vanzo, se necessario, tenendo insiemedomanda e offerta. In altre parole:“socializzare gli investimenti e l’occu-pazione” per riqualificare l’offerta eaumentarne la produttività, sostenen-do la domanda e, al tempo stesso, con-tenendo l’inflazione e il rapporto debi-to/PIL nel medio-lungo periodo. Lacapacità dello Stato di elaborare strate-gie di investimento per realizzare que-sti obbiettivi può essere una leva ancheper la mobilitazione del risparmio pri-vato. L’imprescindibile disciplina dibilancio, in ragione del consolidamen-to strutturale nel lungo periodo, va rea-lizzata in modo lungimirante ma coe-rente con la scelta della via alta dellacompetitività, della ricerca della pienaoccupazione e della qualità delle pro-duzioni, con l’aiuto e lo stimolo dell’in-tervento pubblico, coordinato a livelloeuropeo.

E’ proprio l’inadeguata architetturadell’Euro che offre l’opportunità allaspeculazione di agire. Il disegno istitu-zionale dell’Euro priva i singoli Paesidella possibilità di emettere moneta edi svalutare. Ma non garantisce il debi-to pubblico. Qualunque Paese puòessere aggredito, con successo, in que-ste condizioni. Chi specula, infatti, nondovrà temere né la svalutazione, nél’acquisto di titoli da parte della BancaCentrale. L’attuale configurazione dellaBCE mette gli Stati dell’Euro in sogge-zione dei mercati. Condizione necessa-ria alla realizzazione di politiche alter-

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note politiche

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alla crescita della produttività. Tuttociò significa avere una strategia di cre-scita a livello europeo e far compieresia pure gradualmente un salto all’uni-tà politica.

Queste sono le prerogative per l’av-vio di una vera unificazione fiscale,distinguendo il “debito buono” dal“debito cattivo” come condizione perpolitiche di sviluppo di dimensioneeuropea, stimolando la definanziariz-zazione delle economie avanzate e ilcontrollo dei movimenti di capitale(cominciando con la separazione dellebanche commerciali e da quelle diinvestimento e con l’introduzione diuna tassa sulle transazioni finanziarieinternazionali, che può servire a limita-re la libertà di movimento speculativodei capitali) in funzione delle prospet-tive dell’economia reale, riaprendo cosìuna prospettiva di futuro per le nuovegenerazioni. Le istituzioni europeevanno, per questo, democratizzate raf-forzando il Parlamento Europeo eintroducendo il voto a maggioranzaqualificata ed il peso dei diversi Statisecondo la loro popolazione.

Il presente appello vuole proporreun ultimo “avviso ai naviganti”.

Pur consapevoli delle difficoltà edelle spinte diverse che portano le isti-tuzioni europee e i governi nazionali

PRIMI FIRMATARI

Acocella Nicola Università’ di Roma "LaSapienza", Amato Massimo UniversitàBocconi, Andriani Silvano Presidente CESPI,Antonelli Cristiano Università di Torino,Arachi Giampaolo Università del Salento,Artoni Roberto Università Bocconi, BaranesAndrea Economista, Biasco SalvatoreUniversità La Sapienza Roma, Bosi PaoloUniversità di Modena, Brancaccio EmilianoUniversità del Sannio, Cacace NicolaPresidente Onesis di Roma, Canale RosariaRita Università di Napoli "Parthenope", CarloGiannone Università del Sannio, Carra AldoEconomista, Caselli Gian Paolo Università diModena e Reggio E., Cesaratto SergioUniversità di Siena, Clericetti CarloGiornalista Economico, De Marzo GiuseppePortavoce Associazione A Sud, De VivoGiancarlo Università di Napoli "Federico II",Devillanova Carlo Università Bocconi, DiMaio Amedeo Università di NapoliL’Orientale, Eboli Maria GiuseppinaUniversità La Sapienza Roma, Fantacci LucaUniversità Bocconi, Ferrari Sergio giàDirettore Generale ENEA, Franzini MaurizioUniversità’ di Roma "La Sapienza", GianniAlfonso già Sottosegretario di Stato Tesoro eBilancio, Ginzburg Andrea Università diModena e Reggio E., Gnesutta ClaudioUniversità La Sapienza Roma, GottardiDonata Università di Verona, GranagliaElena Università Roma Tre, Grillo MicheleUniversità Cattolica di Milano, Leon PaoloUniversità Roma Tre, Leoni RiccardoUniversità di Bergamo, Lettieri AntonioPresidente Centro Internazionale di StudiSociali, Lucarelli Stefano Università diBergamo, Macciotta Giorgio giàSottosegretario di Stato tesoro e bilancio,Marcon Giulio Portavoce della campagnaSbilanciamoci, Masina Pietro Università diNapoli L’Orientale, Merletto GerardoUniversità di Sassari, Militello Giacintogiàcomponente Comm. Antitrust,Montebugnoli Alessandro Università’ diRoma "La Sapienza", Paladini RuggeroUniversità’ di Roma "La Sapienza", PalmaDaniela ENEA, Pennacchi Laura FondazioneBasso, Petri Fabio Università di Siena, PiniPaolo Università di Ferrara, Pizzuti FeliceRoberto Università La Sapienza Roma,Pochini Silvia Universita di Pisa, RaitanoMichele Università’ di Roma "La Sapienza",Ramazzotti Paolo Università di Macerata,Ricci Andrea Economista ISFOL, RicciGilberto Economista, Ricottilli MassimoUniversità di Bologna, Romano RobertoEconomista, Ruffolo Giorgio PresidenteCentro Europa Ricerche, Russo VincenzoUniversità La Sapienza Roma, ScacciatiFrancesco Università di Torino, Sdogati FabioPolitecnico di Milano, Solari StefanoUniversità di Padova, Stirati AntonellaUniversità Roma Tre, Stroffolini FrancescaUniversità di Napoli "Federico II", SylosLabini Stefano Ricercatore ENEA,Tamborini Roberto Università di Trento,Tiberi Mario Università La Sapienza Roma,Tomassi Federico Università’ di Roma "LaSapienza", Travaglini Giuseppe Università diUrbino Carlo Bo, Visco Vincenzo PresidenteNENS, già Ministro delle Finanze

ad adottare politiche di corto respirostrategico e riformatore, crediamo chela visione dei conservatori europei nonpossa costituire una soluzione alla crisi.Le politiche europee attuali insistonosu un approccio sbagliato.

A tutti coloro che – in buona fede –continuano a credere nei presuppostiscientifici in base ai quali si ritiene cheattraverso le politiche in atto si possamigliorare la situazione economica efinanziaria globale, europea e naziona-le (compresa quella italiana), suggeria-mo di “dubitare” delle loro posizioni.A tutti coloro, invece, più consapevolidell’impatto economico e sociale che lapolitica delle disuguaglianze e dell’au-sterità incentrata sul mantra “menoStato, più mercato” sta generando sul-l’umanità, chiediamo di assumere unatto di denuncia e di responsabilità percorreggere una traiettoria altrimentiirrimediabilmente segnata. Occorronoil coraggio e la visione per imporre unanuova politica economica.

A tutti coloro che dispongono diquesto coraggio e di questa visione,chiediamo di usarli per cambiare la sto-ria.

PETIZIONE POPOLARE PER LA DIFESA E L’ESTENSIONE DELL’ARTICOLO 18 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI

Noi sottoscritti/e consideriamo l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori unanorma di civiltà.L’obbligo della reintegra di chi viene ingiustamente licenziato è garanzia perogni singolo lavoratore ed è al tempo stesso il fondamento per l’esercizio deidiritti collettivi delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire dal diritto a contrattaresalario e condizioni di lavoro dignitose.Se l’articolo 18 fosse manomesso ogni lavoratrice e ogni lavoratore sarebbeposto in una condizione di precarietà e di ricatto permanente, essendo licen-ziabile arbitrariamente da parte del datore di lavoro. Se l’articolo 18 fossemanomesso verrebbero minate in radice le agibilità e libertà sindacali.Per questo motivo va respinta ogni ipotesi di manomissione o aggiramento del-l’articolo 18. L’articolo 18 va invece esteso a tutte le lavoratrici e i lavoratorinelle aziende di ogni dimensione.

Firmatari: Vittorio Agnoletto, Ciro Argentino, Giovanni Barozzino, Francesco Barra, RiccardoBellofiore, Marco Bersani, Fausto Bertinotti, Emiliano Brancaccio, Alberto Burgio, Loris Campetti,Francesco Caruso, Luca Casarini, Adelmo Cervi, Paolo Ciofi, Giorgio Cremaschi, Alessandro DalLago, Don Vitaliano Della Sala, Luigi De Magistris, Oliviero Diliberto, Piero Di Siena, Antonio DiStasi, Mario Dondero, Angelo D'Orsi, Roberta Fantozzi, Anna Fedeli, Gianni Ferrara, PaoloFerrero, Luciano Gallino, Don Andrea Gallo, Fabrizio Gatti, Vladimiro Giacchè, Alfonso Gianni,Michele Giorgio, Alfiero Grandi, Dino Greco, Haidi Giuliani, Margherita Hack, Carlo Guglielmi,Wilma Labate, Antonio La Morte, Mimmo Locasciulli, Giorgio Lunghini, Giacomo Marramao, CittoMaselli, Maria Grazia Meriggi, Gianni Minà, Dino Miniscalchi, Roberto Musacchio, GiovanniNaccari, Nicola Nicolosi, Manuela Palermi, Fulvio Vassallo Paleologo, Ulderico Pesce, ValentinoParlato, Gian Paolo Patta, Francesco Piccioni, Marco Pignatielli, Felice Roberto Pizzuti, FrancaRame, Carla Ravaioli, Gianni Rinaldini, Roberto Romano, Anna Maria Rivera, Massimo Rossi,Franco Russo, Cesare Salvi, Giancarlo Saccoman, Pasquale Scimeca, Patrizia Sentinelli, MarinoSeverini, Tommaso Sodano, Antonella Stirati, Fabrizio Tomaselli, Nicola Tranfaglia.

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elezioni in Francia

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Il tandem franco-tedesco haimposto al resto dell’UE unagovernance economica e finan-

ziaria che sta ridisegnando i caratteripolitici e istituzionali dell’UE. In nomedel controllo del deficit e dell’abbatti-mento del debito di bilancio stannodistruggendo il modello sociale euro-peo, distruggendo l’autonomia dei par-lamenti da esecutivi e tecnocrazie; ilpeso della crisi viene scaricato su lavo-ro dipendente e fasce più deboli dellapopolazione, milioni di lavoratori epensionati sono abbandonati al lorodestino; la priorità è data al consolida-mento del sistema bancario privato –salvato a suon di migliaia di miliardi dieuro di aiuti pubblici. C’è un solomodo politico immediato per fermarequest’assurda spirale fatta di immiseri-mento sociale e depressione economi-ca, che ha portato la disoccupazione inEuropa ai massimi storici: spezzarel’intesa strategica tra Berlino e Parigi,rompere l’asse politico conservatorecon cui la destra europea ha imposto lesue politiche antisociali. E questo, neinostri sistemi politici, passa per le urneelettorali.

L’occasione che si presenta inFrancia è unica nel suo genere, ancheper il contesto politico europeo in cuisi colloca: l’esito delle elezioni presi-denziali di aprile/maggio a Parigi edintorni, a cui seguiranno poche setti-mane dopo le elezioni legislative, èdestinato ad avere un impatto in tuttal’Unione Europea. In gioco non c’èsolo il dopo-Sarkozy in Francia, ma lapossibilità di immaginare per tuttal’UE nuove politiche economiche diexit strategy dalla crisi, anche perché sele dovesse venir meno il principalealleato (Sarkozy) la Merkel non sarà ingrado – da sola – di continuare adimporre le politiche economiche pro-cicliche che stiamo pagando tutti. In

grandi linee della sua futura politicaeuropea, nel caso acceda allaPresidenza. Hollande parla di “rinasci-ta” e “riorientamento” dell’UnioneEuropea, parte innanzitutto da unacontestazione profonda delle fonda-menta culturali, politiche e istituzionalisu cui si è sviluppata l’“Europa dell’au-sterità voluta dalla destra”, cui lui con-trappone “un patto di responsabilità,governance e crescita”. “I conservato-ri parlano di disciplina di bilancio, ma ècon Sarkozy che la spesa pubblica èesplosa e che le tasse sono aumentate”,ha detto davanti a tutti i leader “socia-listi e democratici europei” venuti aParigi a sostenerlo, Pierluigi Bersani intesta. Hollande rivendica “nuove rego-le per la governance”, partendocomunque dal presupposto che “le esi-genze della disciplina di bilancio nonpossono essere negate; se sarò eletto –dice – farò votare una legge di pro-grammazione economica e di bilancioche tuttavia porterà le nostre finanzepubbliche al pareggio di bilancio entroil 2017, e non già nel 2013, perché ciòsignificherebbe solo amplificare larecessione in corso”, dice Hollande.“L’obiettivo del 2017 sarà raggiunto inmodo graduale e concertato sul pianosociale, a partire dai principi di equità egiustizia. L’ho detto e lo ripeto, rinego-zierò il Trattato sul fiscal compact,quello che impone la costituzionalizza-zione del principio deficit zero”, conti-nua. “Lo farò per la Francia e per tuttal’Europa, non si tratta di un meroannuncio elettoralistico, ritengo al con-trario che si tratti di un atto di respon-sabilità; senza crescita economica gliobiettivi di quel Trattato non possonoessere raggiunti, è un rischio che nonpossiamo correre. Mi accusano divoler abbandonare il tavolo dei nego-ziati; ci resterò invece tutto il temponecessario per ottenere un nuovoaccordo sulla crescita, l’occupazione,

gioco, dunque, c’è il riassetto politico ela ridislocazione socio-economicadell’UE – stando almeno agli annuncie all’analisi politica del principale can-didato anti-Sarkozy, il socialista france-se François Hollande. Nonostante idrammatici eventi di Toulouse, chehan ridato fiato a Sarkozy, Hollandesembra mantenere il vantaggio in tuttii sondaggi che riguardano il secondoturno – quello decisivo – delle elezionipresidenziali, che lo vedrà certamenteopposto al Presidente uscente. E’ ine-vitabile perciò che su Hollande si stia-no concentrando le attese e le speran-ze dei socialisti europei, e non solo. Mala partita è pesante, non ancora conclu-sa: Sarkozy sta conducendo una cam-pagna elettorale orientata soprattuttoal recupero dell’elettorato di estremadestra, quello che lo fece vincere nel2007, poco importa se si tratta di strac-ciare i valori della RepubblicaFrancese. Sarkozy si sta giocando iltutto per tutto, per attrarre l’elettoratopopulista non esita (oggi) a urlare con-tro l’“Europa della crisi e delle ban-che” che lui stesso ha creato, control’“Europa di Schengen che ogni giornofa entrare migliaia di clandestini chevogliono approfittare del nostro siste-ma di protezione sociale”, control’“Europa dell’assistenzialismo e dellaspesa pubblica che rifiuta i sacrifici eche vuole mantenere i privilegi di chiha un posto di lavoro fisso”. Sembranogli ultimi, indegni fuochi di artificio dichi, in caso di sconfitta, ha annunciatoil suo ritiro definitivo dalla vita politica:un annuncio esso pure ad effetto, cheperò non sembra aver spostato a suofavore l’elettorato, a dimostrazione deldistacco forse definitivo tra l’iper-pre-sidente e l’opinione pubblica francese.

L’ago della bilancia sembra oggipendere a favore di François Hollande,il quale ha presentato a metà marzo le

POSSIBILERITORNORIFORMISTAIN FRANCIA

Dall’austerità alla recessione il passo èbreve, e l’Unione Europea è caduta datempo nella trappola, colpevoli le politi-che promosse dai governi della destraeuropea che oggi operano nella stra-grande maggioranza dei Paesi UE, in

particolare di quelli di Angela Merkel edi Nicolas Sarkozy.

di STEFANO SQUARCINA

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elezioni in Francia

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lo sviluppo e il progresso, da sostenerecon finanziamenti adeguati”.

Secondo François Hollande i soldiper rilanciare la crescita nell’UnioneEuropea ci sono, vanno trovati innan-zitutto nei “fondi disponibili, utilizzatisolo in minima parte, della BancaEuropea degli Investimenti, che devesostenere le piccole e medie imprese”.Si tratta poi di creare gli eurobond,perché l’UE deve avere la possibilità diemettere titoli di stato europei (euro-obbligazioni) per finanziare grandi especifici progetti industriali (projectbonds). E’ urgente anche la creazionedi una tassa sulle transazioni finanzia-rie, “da applicare ad un largo ventagliodi prodotti finanziari, a partire da quel-li speculativi”. “Vanno poi usati perdavvero i fondi dormienti”, ovvero lecentinaia di miliardi di euro di investi-menti in politiche europee di coesioneeconomica e territoriale “stanziati sullacarta ma in realtà mai usati”, prosegueHollande, che propone poi “la creazio-ne di un’Agenzia pubblica europea dinotazione” (rating), “nuove misuresulla reciprocità commerciale e disupervisione bancaria”. Hollande èinvece parco di parole sul ruolo dellaBanca Centrale Europea, si limita achiederne interventi più incisivi nonmeglio definiti; stessa prudenza anchesulla critica ai meccanismi di gestionepolitica e tecnica dell’euro.

Quello che si ricava dalle parole diFrançois Hollande, insomma, è il ten-tativo di delineare una nuova politicaeuropea per la crescita e l’occupazione,diversa da quella di Merkel e Sarkozy.La vittoria di Hollande in Francia apri-rebbe certamente una breccia nel muro– oggi impermeabile – della destraliberista europea. Per questo è ancheimportante che l’affermazione del can-didato socialista sia accompagnata dauna parallela affermazione del candi-dato di sinistra del Front de Gauche,Jean Luc Mélenchon. I sondaggidanno quest’ultimo tra il 10 ed il 14 percento, erano anni che non si vedevanotali numeri per la sinistra. Mélenchon èriuscito a portare quasi centomila per-sone a Place de la Bastille a Parigi, è daitempi di Mitterand nel 1981 che nessu-no aveva osato tanto, un successo oltretutte le aspettative, che Mélenchonspera di trasformare in milioni di votinelle cruciali elezioni legislative di giu-gno/luglio. In Francia la performancedi Mélenchon sta rimescolando le carte

certamente nuove prospettive politichein tutta l’Unione Europea. Lo sa benis-simo Angela Merkel che, dicono imedia tedeschi più autorevoli, teme un“effetto Hollande” in Germania, dovesi voterà nell’autunno del 2013. Per ilmomento, l’SPD non riesce a sfondaree il consenso elettorale a Merkel sem-bra solido. Ma in politica, soprattuttoin quella europea, nulla va mai dato perscontato. Nonostante le parole inutil-mente rassicuranti dei leader, la crisieconomica è tutt’altro che conclusaanzi, e lo sanno benissimo. La relativacalma sui mercati si deve solo ed esclu-sivamente agli interventi monetaridella Banca Centrale Europea degliultimi due/tre mesi, mentre i “fonda-mentali” della crisi sembrano tuttiintatti. Il Portogallo e la Spagna sononuovamente in fibrillazione, non puòessere scartata – se non per cecità omalafede politica – una nuova emer-genza finanziaria. Persino l’inossidabi-le Angela Merkel potrebbe pagare unprezzo politico salato, anche perchéverrebbe additata come ‘”l’ultima deiMohicani”, quella che si ostina a vede-re una realtà politica europea che nonc’è più.

a sinistra, sta riportando un soggettopolitico che sembrava definitivamentedimenticato – la sinistra radicale, imovimenti sociali, in particolare ilPartito Comunista Francese – al centrodella scena, o quanto meno li sta tra-sformando in interlocutori essenzialiper i socialisti di Hollande. I quali, datempo, hanno invece scelto comealleato strategico i verdi di Europe-Ecologie, con cui hanno già sottoscrit-to un patto elettorale per le legislativeche – se confermato – dovrebbe per-mettere a questi ultimi, per la primavolta nella loro storia, di formare ungruppo parlamentare autonomoall’Assemblée Nationale. Ma i socialistihanno fatto i conti senza l’oste, JeanLuc Mélenchon, che sta conducendouna campagna elettorale efficace chesta ridando dignità al popolo di sinistrafrancese. In più, la candidata diEurope-Ecologie, l’ex-magistrato diorigine norvegese Eva Joly, è accredita-ta di un magro 1 o 2 per cento nei son-daggi, lontana comunque da quellasoglia psico-politica del 5 per centoche tanto vuol dire oltralpe.

Una vittoria di François Hollandeaccompagnata da una buona afferma-zione di Jean Luc Mélenchon aprirà

JeanLuc

Mélenchon

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elezioni in Francia

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Si tratta di Jean-Luc Mélenchon,il candidato alle presidenzialidel Front de Gauche: i sondag-

gi lo danno tra il 12 e il 15%, se tuttova come sembra sarà il terzo dopoNicolas Sarkozy e François Hollande.“Per principio mi batto per essere pre-sente al secondo turno”, diceMélenchon, “ma confesso che il mioprimo obiettivo è ottenere più voti diMarine Le Pen, la fascista del FrontNational”. Innanzitutto dunque vuole“riportare a casa i voti degli operai edei giovani, caduti da troppo temponell’antipolitica razzista del FrontNational”.

Mélenchon è il candidato di unampio fronte politico, che va dalPartito Comunista Francese a varimovimenti, da ATTAC alle organizza-zioni antiliberiste, e sfonda nell’eletto-rato del Nuovo Partito Anticapitalista(la ex Lega Comunista Rivoluzionariadi Alain Krivine e Olivier Besancenot)che pure ha presentato un suo candi-dato. Stando all’analisi dei flussi eletto-rali, Mélenchon assorbirebbe anchegran parte degli elettori alle presiden-ziali di Europe Ecologie (i verdi fran-cesi), delusi della loro candidata, EvaJoly.

Mélenchon è uno che parla chiaro.Bravo oratore polemico, ricercato daimedia, è stato militante e dirigente delPartito Socialista francese, da cui èuscito “da sinistra alcuni anni fa inaperto dissenso con le posizioni con-servatrici e antisociali del partito”. Isuoi meeting elettorali sono sempreeventi anche di migliaia di persone,fino all’“apoteosi della presa dellaBastiglia” di metà marzo, quando hariunito centomila simpatizzanti e mili-tanti in questa piazza parigina. Le ele-zioni diranno se i sondaggi hannovisto giusto, ma Mélenchon appareormai un fenomeno politico e sociolo-

democratico”; inoltre occorre “dar vitaa un fondo europeo di sviluppo socia-le, ecologico e di solidarietà che siaalternativo ai piani di austerità e alMeccanismo Europeo di Stabilità, chehanno disseminato miseria sociale inGrecia, Spagna, Portogallo”. Tra le sueproposte, ancora, ci sono “la creazionedi un salario minimo legale valido intutta Europa, la lotta al dumping socia-le e la proibizione per legge delle delo-calizzazioni d’impresa, l’armonizzazio-ne verso l’alto dei diritti, una tassazio-ne maggiore per i più ricchi, la nazio-nalizzazione delle grandi banche priva-te e dei principali centri finanziari”.

Lo scenario futuro più accreditato èil seguente, a meno d’inaspettate sor-prese elettorali: François Hollande saràil nuovo Presidente della Repubblicafrancese ma i socialisti non avranno lamaggioranza assoluta dei seggi in par-lamento, e allora Mélenchon e il suoFront de Gauche saranno determinan-ti per la formazione di un futurogoverno di sinistra. L’interlocutoreprincipale dei socialisti non sarannopiù i verdi bensì il Front de Gauche.Non a caso chi spara a zero suMélenchon è Daniel Cohn-Bendit, unodei leader ecologisti europei. “Certiattacchi me li sarei aspettati da Sarkozyo da Marine Le Pen”, replicaMélenchon. “Considero gli attacchi diConh-Bendit come l’effetto di uno cheha capito che il popolo di sinistra starientrando nella scena politica france-se. Lui la sinistra la vuole morta esepolta, io la voglio forte e combatti-va”. Ma anche Hollande questo parel’abbia capito.

gico che lascerà una traccia in Francia.Subito dopo le presidenziali ci sarannole elezioni per il rinnovodell’Assemblée Nationale, ed è a lì cheMélenchon soprattutto guarda. Egliinfatti non intende limitarsi a porsicome alternativo alla destra francese,vuole “richiamare i socialisti alle lororesponsabilità, alle loro radici di sini-stra”, e a questo scopo punta a unrisultato che ne faccia un interlocutorenecessario del PSF.

Lo slogan di Mélenchon è “ripren-detevi il potere”: egli parla infatti di“una nuova fase rivoluzionaria inFrancia”. Prendiamone le proposte dipolitica europea. Egli sottolinea come“il Trattato di Lisbona imponga il libe-rismo a detrimento dei diritti socialiconquistati dagli operai con le lorolotte democratiche, alimenti la derivaautoritaria dell’Europa concentrando ilpotere nelle mani di istituzioni nonelette, come la Commissione”. Anzi sitratta di un trattato “illegittimo”. Sitratta quindi di “respingere tutti i pattieconomici e i piani di austerità cheamplificano la recessione economica ela regressione sociale”. Egli ponel’obiettivo di “mettere in cantiere unnuovo trattato europeo, da approvareper via referendaria dopo un estesodibattito pubblico e popolare, che con-tenga clausole di non-regressionesociale e ambientale. La Francia”,aggiunge, “deve prendere l’iniziativa diconvocare gli Stati Generali della rifon-dazione europea, facendo appello atutte le forze disponibili in Europa. Lanostra disobbedienza si allargherà amacchia d’olio nell'UE e nella zonaeuro. Il nostro obiettivo è rompere ilblocco liberista che soffoca l’UE, biso-gna uscire dal pessimismo e dalla sot-tomissione alla tecnocrazia europea”.Parimenti occorre “rivedere finalità estatuto della Banca Centrale Europea,essa deve essere sottoposta a controllo

LA (BELLA)SORPRESAMÉLENCHON

E’ la vera sorpresa della campagna presi-denziale francese. Sta sparigliando tutte le

carte con le sue proposte sulla “SestaRepubblica” (non più presidenziale, che

descrive come “una forma perversa direpubblica monarchica”, bensì parlamenta-

re), sta ridando fiato elettorale all’opposi-zione di sinistra, preoccupando non poco i

socialisti francesi.

di S. S.

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Il tracollo del regime politico,che abbiamo sommariamentedefinito “berlusconismo”, in cui

per circa un ventennio l’Italia ha vissu-to dopo la fine dei partiti di massa nonè stato solo una crisi politica e istitu-zionale. Esso è stato accelerato dallaconsapevolezza sempre più diffusanell’opinione pubblica e nelle classidirigenti medesime che quell’impastodi capitalismo straccione e speculativo,attraversato da gravissimi fenomeni dicorruzione, di connessione con la cri-minalità organizzata e di populismostava portando l’Italia alla rovina. Chese era riuscito a consentire al Paese di“tirare a campare” nella fase ascenden-te della globalizzazione, fidando suglispiriti animali di un’Italietta che peranni ha veleggiato, soprattutto nellaprovincia profonda del nord lombardoe veneto, tra evasione fiscale, compres-sione del costo del lavoro e delocaliz-zazione all’Est delle attività imprendi-toriali, una volta easauritisi gli effettidella svalutazione competitiva della liradel 1992 (durati sino all’avvento del-l’euro) non aveva le risorse per affron-tare la riorganizzazione della divisioneinternazionale del lavoro indotta dallagrave crisi che ha investito il capitali-smo mondiale a partire dal 2008.

Le classi dirigenti del Paese hannocompreso che questa sfida devonoaffrontarla se non vogliono perire. Daquesto punto di vista il GovernoMonti è l’espressione diretta della bor-ghesia del nostro Paese, di quella checonta, che detiene le leve della finanzae di quel poco che resta di grande capi-tale industriale. L’impresa con cui si stamisurando Monti e il suo governo è diportata strategica e ha l’ambizione digettare le basi di quella che sarà l’Italiadei prossimi anni, di ridisegnare lastruttura di fondo della nostra econo-

derlo idoneo a una sistematica penetra-zione del capitale asiatico e renderlocoerente con un certo modo in cui,attorno ad esso, si possa riorganizzarel’economia mondiale. Anche l’avvio diuna più incisiva azione di contrasto allacorruzione e all’evasione fiscale che ilgoverno può rivendicare a suo meritova collocato entro un tale orizzontestrategico.

E’ difficile dire se questa scelta e laprospettiva che la sorregge costituiran-no una soluzione efficace, dal punto divista dell’Italia, per uscire dalla crisi.Ma per capire come stanno le cosebisogna prendere sul serio gli argo-menti che esponenti della finanza e delgoverno, e il codazzo di economisti diformazione neoliberista che li circon-da, vanno a dicendo in tutti i modi. Ladiscussione in atto sulle diverse misuredel governo si concentra sul fatto se lericette per uscire dalla crisi siano più omeno adatte allo scopo. Ma in poco onulla si applica al modello di sviluppoche viene proposto e al ruolo che siindica per l’Italia e per l’Europa nellaprofonda riorganizzazione della divi-sione internazionale del lavoro che lacrisi sta imponendo.

Ci si sta collocando su questo terre-no a sinistra per fronteggiare la politi-ca di Monti e del suo governo? Non mipare. Il massimo dell’opposizione chesi riesce a esprimere da sinistra riguar-da l’inefficacia delle misure proposte, ola loro iniquità sociale, ma non emergealcun contrasto al disegno di politicaindustriale ed economica che sta die-tro. Ma la posta in gioco è tale che, asinistra, sarebbe del tutto vano limitarela propria azione a un inasprimentodell’opposizione politica e sociale, purlegittima e necessaria, alle misure che ilgoverno assume. Dovrebbe, infatti,

mia e della nostra società. E in questosenso di definire anche le condizioni difondo entro le quali devono cambiarela democrazia e la politica. Ed è ovvioche lo scenario entro cui questa impre-sa si svolge non è solo nazionale maeuropeo e mondiale.

Illuminante da questo punto di vistaè stato il viaggio del Presidente delConsiglio in Estremo Oriente, allaricerca di nuovi rapporti dell’Italia nonsolo con la Cina ma anche con laCorea e il Giappone e potenzialmentecon l’intera realtà del capitalismo asia-tico. Perduto l’appuntamento con lapossibilità di affrontare le sfide dellacompetizione globale seguendo la stra-da imboccata dalla Germania da ormaidue decenni, quella dell’innovazione diprodotto nei segmenti alti della produ-zione manifatturiera, per Monti l’alter-nativa che si offre all’Italia è quella diessere terreno elettivo di investimentida parte delle nuove potenze economi-che mondiali, nel momento in cui que-ste affrontano la sfida dell’espansionenei mercati dei paesi a capitalismomaturo. L’insistenza di Monti e degliesponenti del suo governo che in Italiabisogna creare le condizioni per attrar-re investimenti stranieri non è unamera scelta congiunturale, ma un’op-zione che riguarda il nostro modello disviluppo e il profilo che deve assumerel’Europa per fronteggiare la lunga sta-gnazione che si profila per la sua eco-nomia. In questa visione tutto si tiene– dall’attacco all’articolo 18 al ridise-gno delle relazioni industriali impostoda Marchionne in Fiat – perché, sebbe-ne non sia vero che le misure che ten-dono a smantellare diritti dei lavorato-ri e stato sociale siano di per sé risolu-tive per attrarre investimenti dall’este-ro, nel loro insieme alludono a unmodello sociale trasformato per ren-

OPPORRE AMONTI UN’ALTERNATIVAdi pari spessore strategico

Nel momento in cui il Presidente dellaRepubblica e le forze che si accingevano asostenerlo in Parlamento hanno convenuto

che il Governo Monti avrebbe guidato il Paesesino al compimento della legislatura, da solu-

zione di emergenza e transitoria esso si è tra-sformato in quel governo “costituente” chiama-

to a traghettare il nostro Paese oltre il maretempestoso del vero e proprio sfascio della

Seconda Repubblica.

di PIERO DI SIENA

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essere del tutto evidente che se l’azio-ne del governo dovesse fallire, senzache intanto si profilino alternative, isentimenti di fondo del Paese ritorne-rebbero a orientarsi verso pulsioni tipi-che di destra populista. A Monti biso-gna opporre un’alternativa che abbiapari spessore strategico e che ponga incampo un altro modello di sviluppo, euna diversa combinazione tra misure abreve e scelte di prospettiva per usciredalla crisi. Insomma non solo di oppo-sizione c’è bisogno ma di un’effettivaalternativa di governo fondata su unaltro disegno strategico per l’Italia eper l’Europa.

Bisogna inoltre fare i conti con ilfatto che questo governo è stato il pro-tagonista del superamento del regimeberlusconiano e che la sinistra ha man-cato completamente questo appunta-mento. Questo dà al governo una basedi consenso nell’opinione pubblica enell’elettorato che ha sue fondateragioni e che può produrre effettidurevoli sia sugli orientamenti dell’opi-nione pubblica, sia nei processi di rior-ganizzazione del sistema politico e diricollocazione ed evoluzione dei parti-ti. E’ come se all’indomani del fasci-smo la soluzione finale alla sua crisifosse stata rappresentata da Badoglio enon dai partiti antifascisti e dellaResistenza. La storia della Repubblica,a cominciare dal fatto che non avrem-mo questa Costituzione, sarebbe statadiversa. E’ per questa ragione che,all’indomani della rottura del Pdl daparte di Fini, mi permisi di avanzarel’ipotesi che proprio alla sinistra toc-casse il compito di proporre una largacoalizione democratica per superare ilregime in formazione attorno aBerlusconi e lo feci, non a caso, dallecolonne di Liberazione, il giornaledella forza politica di sinistra che sem-brava la più lontana da questa imposta-zione, perché era essenziale che quellabandiera venisse sollevata da sinistra sesi voleva imprimere un corso virtuosoalla crisi democratica del Paese.

Il risultato è che invece di una largacoalizione democratica abbiamo unamaggioranza che include anche il par-tito di Berlusconi, con elementi di con-tinuità che lo stesso Monti non esita arivendicare. La borghesia italiana, quin-di, ha risolto da sola i problemi legatiall’emergenza democratica rappresen-tata dal berlusconismo ed è un meritoche il Paese le riconosce e con cui biso-

cipale ostacolo al rinnovamento strate-gico e culturale della sinistra europeanel suo complesso. La terza è costitui-ta dal rilancio di una prospettiva dicentrosinistra su basi totalmentenuove, entro un orizzonte strategicorinnovato, capace di porre le basi di uncompromesso tra capitale e lavorofinalizzato alla costruzione di unmodello di sviluppo europeo alternati-vo a quello che oggi il Governo Monti,in totale sintonia con i governi didestra europei, persegue.

Ma perché questo possa essere pos-sibile è il lavoro che deve ritornare afarsi partito. E se questo per avventuranon dovesse accadere, nessuna indi-gnazione o rivolta, e nemmeno nessu-na pratica della partecipazione demo-cratica, potrebbero riempire un vuotostorico che rimarrebbe incolmabile.

gna fare i conti. Saprà la sinistra nonmancare anche l’appuntamento nelquale il confronto riguardi gli assettieconomici e sociali del futuro, su comel’Italia e l’Europa dovranno usciredalla crisi? La posta in gioco è ardua: sitratta non solo di rappresentare il con-flitto ma di produrre egemonia. E per-ché ciò possa diventare possibile, sononecessarie alcune condizioni. La primaè che la sinistra sia unita e che soprat-tutto si stabilisca un circolo virtuosotra sinistra politica e sinistra sociale.Solo così potrà nascere quella nuovasoggettività politica capace di restituirelo scettro della sovranità ai cittadini,invocata da tempo da più parti e daultimo dal Manifesto per un nuovosoggetto promosso da una parte signi-ficativa dell’intellettualità di sinistra cheha visto in questi anni deluse e frustra-te le sue aspettative da parte della sini-stra attuale. La seconda condizione èche la dimensione europea sia effetti-vamente praticata invece che solo reto-ricamente invocata. E che si lavori, inEuropa, al superamento di quelle “duesinistre” – l’una radicale e l’altra rifor-mista – che sono state ambedue il prin-

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Non mi riferisco solo allasituazione economica e aquella dei conti pubblici,

che pure sono aspetti fondamentali,ma ad un vero e proprio regime politi-co arrogante e pervasivo, ad un’eticapubblica sempre più in disfacimento, lecui metastasi hanno colpito in profon-dità l’organismo politico e sociale delnostro paese.

Purtroppo anche la parte del paeseche avrebbe dovuto reagire e così man-tenersi vitale – proprio in vista dellafine del regime – non sempre è riusci-ta a dare una speranza alternativa difuturo. Il Governo Berlusconi è cadu-to ma sono fin troppi gli elementi dicontinuità politica che troviamo nelGoverno Monti, ovviamente depuratadal “bunga bunga”. Del resto la baseparlamentare su cui si è rettoBerlusconi fino alla crisi di Governoresiste arroccata in una strenua autodi-fesa e condiziona pesantemente l’at-tuale Governo – come si è visto –sulle liberalizzazioni, sulla Rai, sulleconcessione delle nuove frequenze(depista il nome di beauty contest).

Il massimo condizionamento delletruppe parlamentari berlusconiane orasta nello spingere il Governo Montiallo scontro con i sindacati, in partico-lare con la Cgil, sull’articolo 18. In veri-tà Monti non ha fatto certo resistenzaa questa pressione.

Anche tenendo conto di come lacrisi del Governo Berlusconi sia avve-nuta perché si è arrivati ad una crisi dicredibilità a livello internazionale maivista prima, ci sono provvedimenti delGoverno Monti ugualmente indigeri-bili, che non sono né obbligati, néaccettabili e la manomissione dell’arti-colo 18 primeggia tra questi, così comelo è la manovra sulle pensioni che halasciato almeno 350.000 lavoratori

so è proprio questo: c’erano altre viepossibili? Perché se, data la crisi, ilrimedio possibile era uno solo ci sareb-be poco spazio per protestare. Per que-sto è centrale il merito della situazionee quindi delle misure da adottare: per-ché le conseguenze di schieramento nediscendono, ed è proprio questo ilpunto lasciato spesso fin troppo inombra nell’ambito dello schieramentoche fu di centro-sinistra.

Se le uniche misure possibili peraffrontare la situazione di crisi sonoquelle adottate dal Governo Monti c’èpoco da fare. Ma se un’altra imposta-zione fosse possibile anche la soprav-vivenza del Governo dei tecnici nerisentirebbe. Il problema è dunquemettere in campo delle proposte. Delresto l’anomalia della situazione èavvertita anche dagli estensori dell’ap-pello a prima firma Zagrebelsky, chenon a caso chiedono ai cittadini di ridi-ventare protagonisti, in vista dell’au-spicato ritorno ad una normale dialet-tica democratica, con la possibilità cioèdi scegliere tra alternative politiche. Peravere alternative politiche occorronoletture diverse, da cui discendonorimedi diversi, con scelte alternativechiare e nette.

La novità è che sull’articolo 18 si èconsumata la luna di miele tra ilGoverno Monti e una larga parte del-l’opinione pubblica italiana. Del restoil Governo Monti tende a ristrutturarepesantemente il quadro politico, com-preso il centro-sinistra: infatti tende adaggravare la crisi di credibilità dei par-titi, che tuttavia sono strumenti indi-spensabili per proporre sia le alternati-ve politiche che i gruppi dirigenti pergovernarle. Siamo abituati da tempo asentire proporre ad ogni pié sospinto ilruolo dell’esperto per risolvere i pro-blemi. Il Governo Monti partecipa diquesto clima nevroticamente alla ricer-

nella terra di nessuno di chi è senzalavoro e senza pensione, per non par-lare dei milioni a cui è stata cambiata lavita alzando l’età di pensione all’im-provviso.

E’ vero che l’opposizione non è riu-scita a fare crollare il GovernoBerlusconi con la sua iniziativa, quindiil quadro politico che ne è risultatodopo ha una forte impronta conserva-trice. Il Governo Monti sembra con-vinto che i guai dell’Italia si risolveran-no d’incanto togliendo i vincoli al mer-cato. Per questo risulta sempre menocomprensibile che una parte decisivadella precedente opposizione debbasobbarcarsi il sostegno a misure con-traddittorie con la sua impostazione,con i suoi valori.

Il vero argomento forte delGoverno, confermato dai sondaggi suMonti, è il timore diffuso nel paese difinire come la Grecia. La Grecia èusata spregiudicatamente come lospauracchio per annichilire l’opinionepubblica italiana e condurla ad uncerto grado di rassegnazione.

La situazione finanziaria ed econo-mica dell’Italia era certamente difficilee andava affrontata con decisione, mapochi ricordano che nel 2007 il debitoera già sceso ad un rapporto con il Pildel 103% e che alla fine del 2011 – conil Governo Berlusconi – era arrivato al120%, cioè alla percentuale di 15 annifa. La situazione difficile poteva essereaffrontata in modo diverso, come delresto conferma anche Bersani quandodichiara che un Governo con la pre-senza del Pd adotterebbe misure dialtro tenore. In sostanza il Pd sostienele proposte del Governo Monti innome dell’emergenza, ma non si iden-tifica con il Governo: un equilibrio dif-ficile da trovare, come si è visto sull’ar-ticolo 18.

Il punto di partenza per ogni discor-

COSTRUIRESUBITO L’ALTERNATIVADI GOVERNO

Forse Gramsci può aiutarci. In questa fasedobbiamo fare appello all’ottimismo dellavolontà e al pessimismo dell’intelligenza.

Prima o poi il Governo Berlusconi dovevacadere. Ovviamente prima avveniva meglio

era. Purtroppo la situazione lasciata dalGoverno Berlusconi è molto peggiore di

quanto si poteva immaginare.

di ALFIERO GRANDI

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ca dell’esperto di turno a cui affidare leproprie sorti. Per di più non viene tra-scurata occasione per ricordare che itecnici sono stati chiamati per affron-tare una fase difficile che la “politica”non sarebbe stata in grado di affronta-re, con il corollario di ovvietà che percurare una “malattia” come questaoccorre somministrare una medicinaamara.

La questione principale oggi non èse si arriverà alla scadenza naturale delvoto, probabilmente sarà questa la sca-denza, ma è come ci si arriverà. Se cioèil paese potrà finalmente pronunciarsisu proposte alternative, scegliendo traopzioni politiche diverse. Operanodiversità di valutazione della fase eco-nomica e del risanamento dei contipubblici come distinzione di fondo,anche se non mancano altri problemiimportanti da affrontare, tra cui si puòevidenziare il problema della scuola edel complessivo sistema educativo.

La Francia sceglierà tra qualche set-timana tra opzioni diverse, ben distin-guibili. Tanto è vero che tutta la destraeuropea è scesa in campo a sostegno diSarkozy. Perché l’Italia non dovrebbescegliere come farà la Francia tra qual-che settimana?

L’uso spregiudicato della retoricadegli interventi fatti in nome dei giova-ni contro i più anziani ha già fatto vit-time proprio tra i giovani. Infatti serestano al lavoro più a lungo i lavora-tori più anziani, che sarebbero andatiin pensione, diminuiranno le possibili-tà di entrare nel mercato del lavoro deigiovani, tanto più in fase di occupazio-ne calante. Infatti il provvedimentopensionistico adottato dal GovernoMonti non è affatto a favore dei giova-ni, ma solo punitivo verso i lavoratoripiù anziani. Rispondere che in futuroaumenteranno i posti di lavoro vuoldire che per un lungo periodo l’occu-pazione in Italia non aumenterà, anziimpiegherà molto tempo per tornare allivello precedente. Avere alzato l’etàpensionabile all’improvviso produrràl’effetto di lasciare più giovani disoccu-pati o, in alternativa, di condannare alladisoccupazione, e alla miseria, gli even-tuali licenziati.

C’era bisogno di risorse? Vero!Andavano trovate rapidamente perchéla disastrosa situazione della finanzapubblica lasciata da Berlusconi nonconsentiva ritardi ulteriori., ma era

to in cambio un immediato endorse-ment di Marchionne.

Se Obama avesse ragionato così laChrysler avrebbe chiuso e la Fiat nonavrebbe messo piede negli Usa. IGoverni esistono per porre condizionied obiettivi, pure mettendo sul piattopropri possibili interventi, quando ènecessario, anche ricordando quanto èstato fatto in passato.

L’articolo 18 è assurto alle cronachecome il saracino da infilzare per con-vincere i mercati e per soddisfare ildecalogo della Bce. Questo accani-mento del Governo Monti sull’articolo18 si spiega solo perché il Governo siera già impegnato a neutralizzarlo. Lafamosa lettera della Bce era un decalo-go per il Governo italiano a cui si pote-va resistere dimostrando che c’eranoaltre vie possibili. Se non si reagisce sifinisce con il discutere solo dellemodalità di applicazione, non se siaquella la scelta più valida.

Per inciso dire “tecnici” cosa signifi-ca in realtà? Era tecnico anche Ciampima ha fatto della concertazione con leparti sociali un punto di forza della suafase politica. Ora è il contrario.L’insistenza ora è piuttosto sul proce-dere comunque, anche nel disaccordo,perché questa sarebbe una facoltà diun Governo tecnico che non si misuraalle elezioni. Non viene anche da atteg-giamenti come questo un’ulteriorecaduta della credibilità dei partiti?

Ora quello che fu il centro-sinistra(difficile trovare un modo di definirlo)deve decidere cosa fare.

C’è chi pensa che il Governo Montisia il Governo del centro-sinistra e loafferma in piena sintonia con i centri-sti. Il corollario non può che esserecercare di prolungare la durata di que-sto Governo, in un modo o nell’altro.E’ evidente che il “partito” che vuoleprolungare questa fase politica è inpieno movimento.

C’è chi pensa che il Governo Montidebba arrivare alle elezioni nel 2013 eche poi dovrà lasciare il campo ad unanormale dialettica tra alternative politi-che. E’ una posizione più accettabilema ha un punto debole e parecchieambiguità: difficile sostenere questafase e rivendicarne una alternativa. Sipuò seriamente pensare che Montiarriverà al 2013, avendo svolto il suoruolo con determinazione e contando

possibile una politica di prelievi deltutto diversa da quella attuata dalGoverno Montil, basta ricordare letitubanze del Governo Monti verso gli“scudati” e verso i capitali, vecchi enuovi, esportati illegalmente inSvizzera. Anzi neppure si capiscono letitubanze di Monti sulla patrimoniale,un momento dipinta come strumentoche fa fuggire i capitali e nell’altrocome già realizzata. Eppure se ci fosseaccordo sulla patrimoniale si potrebberealizzare un pacchetto ben diverso dimisure di sostegno allo sviluppo.Inoltre proprio la campagna eclatantecontro gli evasori mette sotto il naso ditutti che ci sono settori della societàche non risentono della crisi, e che anzidurante la crisi hanno aumentato patri-monio e redditi. Quindi un contributopotrebbe e dovrebbe essere richiesto aquesti soggetti. Per fare cosa?Anzitutto per riattivare la domandainterna, che risente in modo dramma-tico della caduta dei redditi reali deilivelli medio-bassi, al punto da relegareil nostro paese a fanalino di coda inEuropa dei salari dei lavoratori.

Si dice che c’è un problema di pro-duttività. Certo che c’è, ma dipendedirettamente dalla scelta di puntare,anziché su investimenti e innovazione,su un meccanismo usa e getta applica-to al lavoro. Precarietà anziché coin-volgimento. Ad esempio laVolkswagen durante la crisi ha scelto diridurre l’orario di lavoro e di ricorreremassicciamente alla solidarietà, senzalicenziare, e ora che l’attività è ripresaha riassorbito i lavoratori ad orarioridotto e ha distribuito premi salarialiinvidiabili, mentre si avvia a diventareleader mondiale. Il coinvolgimento dichi lavora può essere non solo per pro-durre più e meglio ma anche permigliorarne le condizioni.

In Italia Marchionne spadroneggiaalla Fiat, mette al bando un’organizza-zione sindacale come la Fiom, ripor-tando il nostro paese agli anni bui dellediscriminazioni antisindacali. Quandoil padrone decideva chi poteva operarenel luogo di lavoro e chi no. IlGoverno Berlusconi ha offerto aMarchionne un assist come l’articolo 8,che consente alla Fiat di derogare atutto, contratti e leggi, con il soloaccordo dei sindacati consenzienti.Monti aveva la possibilità di cambiareregistro, invece ha riconosciuto allaFiat libertà di decisione, e ne ha ricevu-

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sull’arrendevolezza di chi lo sostiene,per poi dire “ora basta”, “arrivederci egrazie? In realtà arrivare all’appunta-mento elettorale senza affrontareprima possibile la discussione sullescelte da compiere è un modo per fareun enorme favore alla prima posizione,perché a quel punto sarà molto diffici-le trovare gli argomenti e la forza poli-tica per reagire, rivendicando il purlegittimo ruolo dei partiti.

In realtà l’unico modo per prepara-re il ritorno alla normale, fisiologicadialettica tra opzioni politiche alterna-tive è quello di preparare prima possi-bile il programma e di seguito lo schie-ramento alternativo di centro-sinistra.

Per tutta un fase sono state enfatiz-zate le primarie, come se i campi in cuisvolgerle fossero definiti ed immodifi-cabili. Ora è chiaro che il problema èmolto più consistente. Anche trala-sciando tanti incidenti di percorso, leprimarie non bastano a definire uncampo politico alternativo. Anzi senon c’è una definizione dei contenutidi fondo potrebbero esserci sorpresedi non poco conto anche negli schiera-menti. Certo è anche necessario saperese ci sarà o meno una nuova legge elet-

ed impegnativa, che consenta allapopolazione di riconoscere come pro-pria la rappresentanza politica.Occorre la partecipazione delle perso-ne, a partire dai lavoratori e dai giovanie delle forze sociali organizzate, a par-tire dal sindacato.

Importante in un processo comequesto è farsi aiutare dalle competenzeeconomiche e finanziarie per mettere apunto idee e proposte. E’ un lavoroche richiede tempo e capacità di sinte-si, e certo durante la sua costruzionefarebbe emergere le differenze, anchedal Governo Monti.

Chi dovrebbe partecipare allacostruzione dello schieramento di cen-tro-sinistra? Tutti quelli che lo voglio-no, senza pregiudiziali. Definita la piat-taforma comune saranno meglioaffrontabili anche i problemi di schie-ramento. Il bisogno di trasparenza ecoerenza è tanto e la piattaforma dovràessere la guida verificabile degli atti delfuturo Governo di alternativa e, perchéno, anche rispetto al Governo Monti.

torale e quale sarà. Dunque non stiamoparlando solo della competizione tragruppi dirigenti ma dei fondamentalidel nostro paese.

Nell’impostazione del GovernoMonti, tralasciando – si fa per dire – iproblemi di equità, ci sono seri limitiche riguardano il modello di sviluppo.

Il primo bivio è tra arretramento persacrificare tutto al moloch del debito opuntare sulla ripresa economica, ancheper ridurlo. Per rilanciare l’economiaoccorrono investimenti pubblici e pri-vati e un quadro europeo non osses-sionato dal debito. Le risorse, almenoper parte italiana, debbono per forza dicose essere reperite negli strati abbien-ti, con la lotta all’evasione, ma nonsolo.

Il secondo bivio è il modello di svi-luppo. La ripresa economica non puòessere vista come un modo per torna-re al punto di partenza. Occorre inno-vare profondamente il modello di svi-luppo in campi essenziali come l’ener-gia e l’ambiente.

Un processo come questo non èracchiudibile solo nei partiti. Occorreuna grande partecipazione, impegnata

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La sufficienza con cui si è guar-dato al “caso greco” senzache questo fosse indagato

nelle cause e negli effetti ha spiazzatotutte le organizzazioni sindacali, socia-li e politiche. Per la prima volta unPaese della Comunità Europea è statoespropriato della sua sovranità demo-cratica in nome delle politiche di auste-rity varate da organismi sovranazionaliademocratici.

Contro chi scioperi, manifesti, se latua controparte “ricatta” il Governocol default? Con chi negoziano, con-trattano le organizzazioni sindacali se ilParlamento è chiamato semplicementea ratificare le lettere della BancaCentrale Europea? E’ emblematicoquanto accaduto in Grecia: il capo delGoverno è stato costretto alle dimis-sioni per la sola ragione di aver propo-sto, dopo scioperi generali e scontridurissimi, un referendum sulle politi-che di austerity. Il risultato è che lademocrazia risulta essere “tropporischiosa” per i tecnocrati europei.Questi fatti non sono una cronaca durae drammatica di accadimenti eccezio-nali, ma l'evoluzione della crisi globaleche è penetrata nel cuore dell'Europamettendone in discussione i suoi fon-damenti.

Il “contratto sociale” pattuito nel900 è entrato in crisi sotto i colpi dellacrisi economica e finanziaria. In tuttaEuropa l’attacco ai diritti del lavoro, iltaglio dei salari e la privatizzazione delwelfare vengono portati con la motiva-zione di evitare il “grande crollo”. Allostesso tempo il tasso di disoccupazionecresce a ritmi vertiginosi, aumenta lapercentuale di inoccupati, sempre piùtra i giovani sono quelli fuori dal siste-ma formativo e non cercano lavoro, edinfine il sistema industriale delocalizzanei Paesi dove il costo del lavoro edecologico è più basso. Scioperi e mani-

contratto, chiedendo semplicementel’adesione alle organizzazioni sindacali,è stato letto da molti come una ecce-zionalità non ripetibile altrove.Purtroppo la storia è andata diversa-mente, oggi alle 86.000 lavoratrici elavoratori dipendenti del gruppo Fiat èstato imposto il Contratto CollettivoSpecifico. A Pomigliano e poi aMirafiori fu imposto un voto sottoricatto per celebrare con un plebiscito,nelle intenzioni dell'azienda, il nuovocontratto. Così non è stato e da alloranonostante le 20.000 firme raccolteper cancellare il Contratto Specificonon si è più votato.

Dalla fabbrica alla società il “meto-do Marchionne” sta cambiando ilvolto della democrazia reale. Bastavedere come l’attuale Governo affron-ta le questioni del lavoro. Al netto dellapeggiore riforma delle pensionid’Europa, riguardo a cui non ha nean-che proceduto ad una vera consulta-zione, in queste ore il Governo vaverso lo stravolgimento dei diritti dellelavoratrici e dei lavoratori rifiutando la

festazioni in molte parti d’Europa par-lano di un dissenso diffuso.

Nel nostro Paese nonostante ilbavaglio alle lotte in corso cresce laconvinzione che gli interventi delGoverno, prima sulle pensioni, poisulla fiscalità e infine sul lavoro, peg-giorano le condizioni di vita per oggi eper il futuro. In nome della “salvezzadell’Italia” le politiche economichehanno di fatto accelerato il processo dipolarizzazione della ricchezza: dall’ini-zio della crisi nel 2008 i ricchi sonosempre più ricchi e i poveri sempre piùpoveri e i privilegi non sono stati scal-fiti, mentre si sono colpiti duramentepensionati e lavoratori dipendenti.Anzi l’unilateralismo dei rapporti diforza ha rotto gli argini posti dalle leggie dalla Costituzione allo strapoteredella finanza e delle imprese.

Un esempio chiaro è l’introduzionedell’articolo 8 del Governo Berlusconiper sanare ex post la situazione Fiat.Anche la vicenda Fiat è stata sottovalu-tata. La scelta dell’amministratore dele-gato di imporre unilateralmente un

RICOSTITUIRELA DEMOCRAZIAa partire dai luoghi di lavoro

La fotografia della situazione sociale, eco-nomica e democratica che ci consegna la

crisi dovrebbe costringerci ad una riflessio-ne profonda su quanto è accaduto e acca-drà nel prossimo futuro. La sottovalutazio-ne di quanto stesse accadendo in Grecia

presenta un bilancio non ancora definitivo,e una prospettiva di grande

preoccupazione.di MAURIZIO LANDINI*

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trattativa, cioè promuovendo sempli-cemente l’ascolto delle parti sociali. E’possibile che possa accadere che simetta in discussione l’art.18, si peggio-ri la condizione dei precari, senza che ilGoverno avvii una vera e propria trat-tativa? Si può ascoltare il Ministrocompetente dire che se ci fosse unacondivisione delle organizzazioni sin-dacali bene, se no procederebbecomunque? E’ accettabile che ilGoverno annunci il raggiungimentodell’accordo sulla “riforma” mentre èancora aperto un tavolo di confrontocon le organizzazioni sindacali e la Cgilha espresso il suo dissenso? Sempre dipiù l’interesse generale si separa dallepersone che lavorano, che sono preca-rie e sempre più coincide con quellodella finanza e delle imprese.

I provvedimenti del Governo indi-cano nei diritti dei giovani, dei lavora-tori e dei precari il problema della“mancata crescita” del Paese.L’aggressività con cui vengono liquida-te idee alternative di futuro impongo-no una seria riflessione.Metalmeccanici come lavoratrici elavoratori dello spettacolo, dell’istru-zione, partite iva, ricercatori, lavoratoria progetto, studenti, solo per citarealcune figure, non hanno contrapposto

tiva precarizzazione del mondo dellavoro.

E’ utile riflettere sul fatto che diquesto passo la frammentazione dellelavoratrici e dei lavoratori impedirà alsindacato di avere un ruolo generale dirappresentanza. Il rischio è che l’unicospazio possibile concesso sarà quellodi un sindacato di mercato dentro leaziende e dei soli servizi fuori.L’esercizio della negoziazione e dellacontrattazione sono ritenuti dalle con-troparti vecchi arnesi che impedisconoil libero dispiegarsi delle prerogative dimercato, basti vedere quello che staaccadendo in Fiat. Rimettere al centrola democrazia a partire dai luoghi dilavoro deve essere l’obiettivo da perse-guire. Questo è possibile solo se chinon ha un lavoro e chi ce l’ha nonsono ricattabili.

Se con la crisi per giustificarel’espropriazione di diritti e salario sipaventa il baratro greco e l’incubodella disoccupazione e della miserianon si può essere liberi, e se non sonolibere le lavoratrici e i lavoratori non loè neanche il sindacato ed è sotto scac-co la democrazia.

* segretario generale Fiom-Cgil

la conservazione di quello che c’è alcambiamento. Non si possono subirecondizioni inaccettabili di vita e dilavoro e non si può assistere come senulla fosse alla crescita della povertà,all’imbarbarimento della società fino almoltiplicarsi dei suicidi per la dispera-zione. Non può esserci prima della vitadi chi lavora o è disoccupato il pareg-gio di bilancio e poco importa se que-sto significa cancellare la possibilità diavere una politica economica pubblica,la ricerca, l’istruzione, le pensioni e ilwelfare.

Spetta alla Cgil provare a fermare iltentativo del Governo di andare allacancellazione degli effetti dell’art. 18dello Statuto delle Lavoratrici e deiLavoratori spacchettando le motiva-zioni del reintegro. E’ in gioco nonsolo la libertà e l’autonomia di ognisingola lavoratrice e lavoratore, ma lostesso filo che lega la storia della nostraorganizzazione, il rapporto di fiduciainsito nella rappresentanza generale.Ed è proprio per queste ragioni chemercato del lavoro e art.18 devonoessere tenuti insieme: per impedire chela campagna di divisione e contrappo-sizione tra giovani e anziani, tra“garantiti” e non diventi la “riforma”,sicché questa determinerebbe la defini-

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Prima questione: lo scenariogenerale è quanto menoinquietante. Cinque anni di

crisi e non si vede una via d’uscita.Unica cosa chiara è il carattere poli-morfo della crisi: stiamo facendo iconti con la sua metamorfosi, da crisifinanziaria in crisi del debito. Siamoadesso alla seconda recessione dal2008 e la cosa ancora più grave è che ladirezione dei processi politici ed eco-nomici sembra ritornata saldamentenelle mani di coloro che hanno provo-cato la crisi stessa. L’epicentro dellacrisi è ora in Europa: in questomomento sono i paesi dell’area euro ipiù esposti alla pressione aggressivadei mercati. Come risposta l’establi-shment europeo ha compiuto una scel-ta che si riduce sostanzialmente a dueopzioni: austerità, per ridurre il debitopubblico, e liberalizzazioni del mercatodel lavoro, per riprendere competitivi-tà sui mercati internazionali.Conseguenza: è a rischio quel modellosociale europeo costruito pezzo apezzo in oltre in secolo di storia e con-solidato nei “trent’anni d’oro” delprimo dopoguerra.

L’urto di questa seconda ondatadella crisi ha sbalzato di sella in Italia ilgoverno Berlusconi-Bossi. Notiamobene: Berlusconi è caduto non perchéincalzato dalle forze democratiche, maa seguito della pressione speculativadei mercati. L’estate 2011 dovrà esseremeditata attentamente: il board dellaBCE ha fissato alcune condizioni; ilgoverno Berlusconi si è lanciato in unaffannoso tentativo di assecondarne lerichieste (tre manovre in poche setti-mane) ma ha dovuto poi levarsi daipiedi perché non era in grado di porta-re a termine la quarta e decisiva mano-vra chiesta dalla BCE; per quest’ultimaè stato necessario ricorrere al “gover-

reggono il governo tecnico, il PD.Proviamo a guardare, anche se costaqualche forzatura, il bicchiere mezzopieno: è un segnale che uniti, assieme,qualcosa si può fare per mettere unfreno all’offensiva dei mercati e del-l’establishment.

Vi sono spiragli aperti: questo è unpunto che può essere sottolineato. Lapartita è assai difficile anche perchénon si gioca solo in Italia: è la politicaeuropea che deve essere cambiata, ainiziare da quella che con perversaostinazione stanno imponendo i con-servatori tedeschi. Molto dipende dacosa accadrà nei prossimi appunta-menti elettorali in altri paesi, ad inizia-re da quello ormai vicinissimo dellaFrancia. Il problema è trovare forze ealleanze con cui mettere in discussionel’opzione micidiale: austerità più libe-ralizzazioni. Notiamo per altro che,man mano che si toccano con mano glieffetti dell’austerità alla Draghi e allaMerkel, si alzano voci critiche perfinoin alcune centrali del neoliberalismo: lagrande gelata europea comincia a pre-occupare seriamente anche ambientimolto lontani dalla nostra sensibilità.

In uno scenario europeo in movi-mento diventerebbe possibile delineareun altro approccio alla crisi. In pocheparole, costruire innanzitutto barrierealla speculazione finanziaria: l’ideadegli eurobond meriterebbe di essereripresa proprio con questa finalità. Epoi lotta concreta contro i paradisifiscali, a iniziare da quelli a due passi dacasa, come quella Svizzera su cui ilgoverno Monti tergiversa e rimandaogni intervento. E ancora: riprendere ildiscorso su quella patrimoniale chepotrebbe ridurre seccamente il debitopregresso. Queste misure nel loroinsieme libererebbero risorse per riatti-

no dei tecnici”. E’ la prima volta, senon vado errato, che un grande paeseeuropeo e occidentale subisce un com-missariamento di fatto da parte deipotentati tecno-economici. Questasorte nel passato era incorsa a moltipaesi in via di sviluppo, brutalmentemessi alle corde dal Fondo MonetarioInternazionale. Questa volta – duranemesi della storia! – la stessa sorte ètoccata a un grande paese occidentale.Qualcosa del genere, con brutalità per-fino maggiore, stava toccando in quel-le settimane alla piccola Grecia e poi,in un succedersi rapidissimo, alPortogallo, all’Irlanda e alla Spagna.

Quanto accaduto nell’estate e nel-l’autunno 2011 è denso di implicazionidi enorme rilevanza. Si è trattato, difatto, della più grave crisi della demo-crazia europea dal dopoguerra ad oggi:ai governi e ai parlamenti democratica-mente eletti sono state imposte deci-sioni di grande rilevanza definite inaltre sedi e da altri poteri. In circolazio-ne non vi sono camice nere o brune eneppure generali, ma ugualmente sitratta di uno svuotamento di fatto dellarappresentanza democratica.

Le ricette del “governo tecnico”,come stiamo verificando, sono assaiamare. Notiamo però una cosa: l’of-fensiva per liberalizzare il mercato dellavoro trova in Italia qualche ostacoloin più che altrove. Il “compromesso”che si sta delineando in Italia nellariforma del mercato del lavoro (vedre-mo nelle prossime settimane cosaaccadrà in Parlamento) è a tutt’oggil’unica increspatura nella quale hadovuto impattare lo schiacciasassimesso in moto dalla BCE. Vi è statouno scatto nell’opinione pubblica, unapressione unitaria delle forze sindacali,una sponda in uno dei partiti che sor-

UNIRE LASINISTRA, fruendo degli spazi che si aprono

Innanzitutto un apprezzamento per la scel-ta di una discussione “plurale” a sinistra.

La tendenza prevalente, come ben sappia-mo, è di tutt’altro genere: ognuno discute

solo con chi gli è più vicino. Con le conse-guenze che sono note a tutti noi: una sini-

stra divisa in pezzi separati e impermeabili,con un tasso di differenziazioni inversa-

mente proporzionale all’influenza e all’efficacia reale.

di FERRUCCIO CAPELLI*

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vare una politica di investimenti pub-blici e per mettere su basi concrete unadiscussione altrimenti surreale sulrilancio dello sviluppo (ovviamente:sostenibile).

Penso anche che oggi ogni energiadebba essere messa soprattutto nelmettere in discussione la supposta ine-sorabilità delle politiche che si stannoadottando. Il problema dei problemi èquel “non c’è altro da fare”. Dettoaltrimenti, il problema di fondo è ilpensiero unico, l’egemonia culturaledel neoliberalismo, la presa anche alivello di massa degli assiomi neolibe-rali. Il mercato, l’utilitarismo e l’iperin-dividualismo come regolatori dell’eco-nomia, della società, della politica, per-fino della vita delle persone: ecco ipunti da aggredire criticamente erimettere in discussione. Mai comeoggi avverto l’urgenza di recuperarel’importanza e la centralità della “bat-taglia delle idee”: c’è bisogno di rimet-tere in movimento il pensiero critico.D’altronde questo è proprio il puntosu cui è stato più fecondo lo scambiotra Punto Rosso e la Casa dellaCultura. Vi è qui un lavoro immensoda compiere per rielaborare e ripro-porre le idee e i valori connessi allademocrazia e al bene comune.

Aggiungo una preoccupazione chepenso sia ormai doveroso esplicitare.Ognuno di noi incontra e registra millefermenti nuovi: elaborazioni generosedi tante idee e di tanti progetti e inven-zione di sempre nuove forme di resi-stenza umana. Eppure tutto questo èframmentato e disperso in mille rivoli.A me sembra ormai il caso di esplicita-re che questa frammentazione non èpiù un segno di ricchezza: essa è anche(e soprattutto) l’esplicitazione di unagrave debolezza. Le diversità di accen-ti nel mondo della sinistra sono infini-te: la sinistra dei diritti civili parla dicose diverse da quella che privilegia idiritti sociali; la sensibilità ambientaletende a divaricarsi da quella sindacale;l’attenzione al locale contrasta conprogetti di portata generale. C’è uncontrasto singolare tra la frammenta-rietà delle opzioni ideali e culturalidella sinistra e la compattezza delnucleo di pensiero neoliberale: non sicontrastano le falangi compatte delneoliberalismo con un esercito tantodisordinato e disperso. Si tratta di unamolteplicità di voci che talvolta sconfi-na con la cacofonia. Si tratta di andare

zione unitaria si è messo in moto e si èmotivato un tessuto vastissimo e arti-colato di energie civili e culturali: asso-ciazioni, centri culturali, gruppi di cit-tadini hanno composto una rete flessi-bile e solidale di impegno e di mobili-tazione comune. Per alcuni mesimigliaia e migliaia di milanesi hannotrovato il modo di fare convergereattorno a un unico obiettivo la lorovolontà di impegno e di cambiamento:quella stessa città che era stata la capi-tale del berlusconismo durante la pri-mavera 2011 ha pulsato di pensierocritico e di impegno civile. Si è trattatodi una parentesi casuale e occasionale,un rinnovato “miracolo a Milano”come quello descritto a suo tempodalla passione poetica e visionaria diZavattini e di De Sica, oppure in quel-l’esperienza vi sono tracce di un’altrarisposta e di una nuova possibile pro-posta politica? Propendo con decisio-ne per questa seconda ipotesi. La “pri-mavera milanese” non è stata soloun’esperienza indimenticabile, unmomento bello della nostra vita da col-locare ora nella galleria dei ricordi carie gelosamente custoditi. Nella campa-gna elettorale che ha permesso diriportare la sinistra alla guida della piùimportante città d’Italia vi sono lezionidi metodo e suggestioni politiche eprogrammatiche che possono assume-re un valore generale.

* Direttore della Casa della Cultura di Milano

alle radici di questo problema.Probabilmente la questione trova lesue motivazioni prime nell’ingenuabaldanza con cui, a suo tempo, si salu-tò la “fine delle grandi narrazioni”. Intanti a sinistra hanno confuso la festapostmoderna (vera o presunta chefosse) con un atto liberatorio: in realtàsi trattava solo di un modo eleganteper accettare e interiorizzare il cedi-mento e la subalternità. Per questo misento di suggerire che oggi il problemapiù urgente e più difficile è la ricerca diun punto di vista in cui possano con-vergere e riconoscersi le tante e diver-se voci critiche.

Ci può aiutare, forse, l’ascolto atten-to di quanto si sta muovendo nelmondo culturale. In un recente conve-gno svoltosi in Casa della Cultura unanziano e autorevole filosofo, FulvioPapi, ha sintetizzato all’incirca conqueste parole il mutamento di climaculturale: “dopo trenta e più annisegnati dal nichilismo (e noi potremmoaggiungere: presentati con la copertinapatinata e luccicante del postmoderno)si avverte nell’aria una nuova tensioneumanistica”. Penso che questa consta-tazione sia sostanzialmente corretta:c’è una spinta diffusa alla ricerca di un“nuovo umanesimo”. Da tante diverseangolature si sta convergendo in que-sta direzione. Per resistere alla pressio-ne e all’invadenza del mercato, perrecuperare senso e finalità, per rico-struire una prospettiva e un percorsoverso il futuro sta riaffiorando la que-stione di un “nuovo umanesimo”. E’accaduto altre volte nel passato: men-tre, sotto la pressione dei fascismi, deitotalitarismi e della guerra, si stavanochiudendo tutti gli orizzonti la partepiù vigile e sensibile della cultura euro-pea avviò un recupero della grandecultura e dell’ispirazione umanisticadell’Europa. A mio parere, qualcosadel genere sta fermentando anche oggie a me sembra una prospettiva cui valela pena prestare grande attenzione.

Ultima questione, per chiudere conuna nota di ottimismo. Non molti mesifa, proprio a Milano, abbiamo costrui-to assieme, unitariamente, una vicendapolitica di grande rilevanza: la “prima-vera milanese”. Riportiamola davantiai nostri occhi. La crisi drammatica deipartiti è stata brillantemente aggiratada un nuovo corpo intermedio, la coa-lizione che si è raccolta attorno al can-didato sindaco Giuliano Pisapia.Attorno al candidato e a questa coali-

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Con l’Europlus, il Six Pack e ilFiscal Compact l’Europadetta vincoli stringenti come

il pareggio di bilancio inserito nellecostituzioni e la riduzione forzosa deldebito pubblico. I parlamenti, i gover-ni, la democrazia rappresentativa e lecostituzioni vengono subordinate almercato e al capitale. E’ la più concre-ta realizzazione di ciò di cui aveva par-lato Marx: lo Stato è lo Stato della clas-se dominante.

L’Italia sta facendo i compiti che gliha dettato l’Europa e l’inserimento delpareggio di bilancio in Costituzione staper essere approvato in Senato (forsequando questo testo sarà pubblicato lavotazione sarà già avvenuta). E’ laseconda lettura, l’ultima per l’approva-zione definitiva. Il testo è passato consoli 3 voti contrari nella seconda deli-berazione alla Camera. Se anche inSenato si determinasse analoga vota-zione, non ci sarebbe possibilità disvolgere il referendum confermativoprevisto dall’art. 138 dellaCostituzione.

Keynes sarà anticostituzionale. Ilrigore economico in una situazione dicrisi produce recessione e peggiora iconti pubblici. Esattamente per questomotivo cinque premi Nobel dell’eco-nomia hanno scritto un appello aObama contro l’ipotesi di inserire ilpareggio di bilancio nella Costituzioneamericana. Il dogma del pareggio dibilancio è una teoria di destra.Impedisce di perseguire la piena occu-pazione, impone la privatizzazione deiservizi pubblici e delle imprese stataliper fare cassa e favorisce lo smantella-mento dello stato sociale. LaCostituzione della Repubblica fondatasul lavoro diventa, con il pareggio dibilancio, la Costituzione dellaRepubblica fondata sul liberismo. La

no già producendo una grave recessio-ne economica in Italia. I dati ISTATsul primo trimestre del Pil dimostranoche l’Italia è già in recessione. La reces-sione e le imprese in difficoltà (Marxparlava di distruzione di capitale neces-saria per ristrutturare la produzione incrisi) richiedono una compressione deicosti del lavoro (ovvero, il rialzo delsaggio di plusvalore) e, dunque, unamaggiore libertà di licenziare e un defi-nitivo smantellamento dei diritti dellavoro.

C’è, dunque, una stretta correlazio-ne tra le politiche di austerità e la rifor-ma del lavoro (in Italia, ma anche quel-la che si sta discutendo in Spagna).Questo è il quadro in cui va collocata lariforma Fornero. Keynes, al contrario,ci insegna che durante una crisi biso-gna adottare misure anticicliche, cioèstimolare la domanda, per far ripartirel’economia. Numerosi premi Nobeldell’economia, come Stiglitz,Krugman, Spence, sostengono questatesi. Una posizione giusta. E a Keynesbisogna aggiungere Marx, che oggi, inquesta fase, significa reintrodurre ilruolo del pubblico nel governo del-l’economia. Bloomberg.com ha pub-blicato un sondaggio secondo il qualegli investitori internazionali dicono cheil capitalismo è in crisi a causa diun’enorme e crescente disparità nelladistribuzione del reddito e della ric-chezza nelle società occidentali e cheper dare un futuro ai giovani “occorreun intervento pubblico di dimensionigigantesche”. L’ascesa dei BRICS è lì adimostrarci che sono le economie incui il ruolo del pubblico è più forte cheriescono a rispondere alla crisi globale.

L’Europa, invece, pretende di cura-re il malato con le stesse ricette chel’hanno fatto ammalare. Tutte figliedelle idee fallite emerse dalla stagione

modifica costituzionale prevede, inol-tre, che debbano essere in pareggioanche tutti i bilanci delle pubblicheamministrazioni, dei comuni, delleprovince e delle regioni. Il che signifi-ca una drastica riduzione dei poteri edell’autonomia di regioni ed enti locali.C’è di più. In questi anni gli enti localie le regioni hanno subito pesantissimitagli dei trasferimenti statali. Questariforma li costringerà ad avere ancorameno risorse, aprendo la strada allosmantellamento della spesa sociale ealla privatizzazione dei servizi pubblicilocali.

Una modifica della Costituzione dital enorme portata sta passando senzaun dibattito pubblico vero, senza che icittadini ne sappiano nulla. Decidere distravolgere la sostanza stessa dellanostra Costituzione nel giro di pochis-simi mesi (a dimostrazione che, se sivuole, le riforme in Italia è possibilefarle) e senza un barlume di discussio-ne pubblica, è una scelta politica gra-vissima.

Il neoliberismo, dunque, produce inEuropa una profonda crisi della demo-crazia e, insieme, una gravissima crisieconomica. I provvedimenti che lepolitiche neoliberiste impongono peruscire dalla crisi non sono solo ingiusti,ma sono profondamente sbagliati, per-ché palesemente recessivi. La recessio-ne provoca disoccupazione e riduzionedel potere d’acquisto e cioè aggrava lecondizioni materiali di vita delle perso-ne. La recessione ha anche la direttaconseguenza di peggiorare il rapportotra debito pubblico e Pil, ottenendol’effetto opposto a quello che si prefig-ge l’Europa della stabilità dei conti. Lepolitiche di austerità sono l’arma delladestra per colpire lo stato sociale e idiritti del lavoro. Le “manovre” diBerlusconi prima e di Monti poi stan-

REINTERPRETAREE RILANCIARE il ruolo del pubblico ineconomia

L’Europa è ancora, nonostante tutti idisastri prodotti con la crisi, il cuore pul-

sante del neoliberismo. Bce,Commissione europea e Fmi stanno

imponendo ai governi europei politicheche mirano a far pagare la crisi del capi-

talismo ai lavoratori.

di OLIVIERO DILIBERTO

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neoliberista. Nonostante il suo falli-mento, il neoliberismo continua adessere egemone perché i paesi che lodifendono e lo propagandano sonoancora molto forti e perché la classeche lo propone (quella dei padroni e dichi governa il mercato) non è né inde-bolita né disorganizzata né trova anco-ra dinnanzi a sé un soggetto politicoforte in grado di fronteggiarla.

Il ruolo del pubblico è indispensabi-le per tornare a crescere.Reinterpretare il ruolo del pubblicoper un nuovo modello di sviluppo è laquestione centrale per sconfiggere ilneoliberismo proponendo un modoalternativo con cui governare i proces-si economici e sociali europei. Che iltema del ruolo del pubblico non sia piùeludibile, del resto, lo si vede seguendoad esempio il dibattito apertodall’Economist, che recentemente hamesso in copertina Lenin per parlaredi “ascesa del capitalismo di Stato” inun intero dossier dedicato ai successidella “mano visibile dello Stato” nelsostenere la crescita economica inpaesi come Cina, Brasile, India. Non sitratta di mettere in discussione i mec-canismi di mercato nell’allocazione deibeni e dei servizi o nella determinazio-ne dei prezzi in base alla concorrenza.La questione oggi è di trovare il giustoequilibrio tra pubblico e mercato. Soloil pubblico può fare i grandi investi-menti strategici e solo il pubblico può,con gli strumenti di una rinnovata pro-grammazione, indirizzare al meglio gliinvestimenti privati. E’ la democraziache decide lo sviluppo economico delsuo popolo, non le imprese, non lebanche. Il pubblico, inoltre, è l’unicosoggetto che può investire massiccia-mente nello sviluppo della “societàdella conoscenza”. E’ questa l’unicastrada che possiamo percorrere peressere competitivi (rimanendo il capi-talismo) sul mercato globale: perché lacorsa al ribasso sul costo del lavoro civedrà sempre sconfitti rispetto ai paesiin via di sviluppo. Dobbiamo produrrecose migliori, con un tasso maggiore diconoscenza incorporato. E capire chela conoscenza, di per sé, genera ric-chezza, crescita, sviluppo e occupazio-ne.

Per riuscire in questa impresa titani-ca dobbiamo fare una battaglia politicadi livello europeo: abbiamo bisogno diuna forte sinistra di classe che contra-sti le politiche neoliberiste. Abbiamo

stioni politiche. Ad esempio, l’Italia deiValori è favorevole all’introduzione delpareggio di bilancio nella Costituzione.Le cose che ci uniscono, però, sonomolte.

In tutta Europa le forze comuniste edella sinistra sono in crescita enorme.Dalla Grecia alla Spagna passando perFrancia e Germania. In Italia, no. C’èuna ripresa, anche della FdS, ma non sivede alcun fenomeno in grado di pro-iettare la sinistra italiana oltre le duecifre, come avviene in tanti altri paesieuropei. Quei sondaggi che mettonoinsieme la sinistra, dinanzi a un’ipotesidi accordo elettorale tra Bersani,Alfano e Casini (assai improbabile peraltro), danno, però, risultati strabilianti:più del 25%. Sarà per questo che ABCparlano di legge elettorale mentre c’è ilmassacro dei lavoratori.

E’ una follia continuare a muoversiin ordine sparso. Una sinistra unitasedimenterebbe una forza rilevante.Un fronte della sinistra (con SEL, IdV,FdS e chi altri volesse starci) potrebbeprodurre un’opposizione al governoMonti assai incisiva. Sarebbe una spon-da politica notevole per la CGIL e laFIOM, una rappresentanza vera per ilmondo del lavoro. E potrebbe con-frontarsi con il PD a testa alta sul temadelle alleanze.

Bisogna agire. Per questo come FdSabbiamo indetto una manifestazionenazionale per il 12 maggio a Roma,contro il Governo Monti e per la dife-sa del lavoro. Vorremmo che tutta lasinistra fosse in piazza assieme.Intanto come FdS cominciamo.

bisogno, altresì, di guardare con inte-resse e di interloquire con il nuovocorso che sembra aver imboccato lasocialdemocrazia europea, in particola-re quella francese e tedesca.

Con la “riforma” del lavoro ilGoverno Monti ha gettato la mascherarivelando ciò che è ed è sempre stato:un governo di destra. Il thatcherismodella Fornero è tutto politico, l’attaccoall’art. 18 non ha nulla di tecnico: ilGoverno mira a spaccare il sindacato,isolare la CGIL, mettere in difficoltà ilPD, chiudere ogni prospettiva futura diriformismo forte, affermare definitiva-mente il neoliberismo nel nostropaese. La trappola sembra aver funzio-nato. Il Governo infatti ha accettato ilreintegro da parte del giudice basato sumotivi manifestamente infondati: ciòche però non sposta di una virgola ildato di fondo che l’art. 18 è stato difatto abrogato. Un capolavoro dell’or-rore che nemmeno a Berlusconi erariuscito.

Vendola e Di Pietro hanno presoposizioni molto dure, che sono dive-nute ancora più nette contro l’ipotesidi legge elettorale. La Federazionedella Sinistra ha lanciato una campagnadi raccolta firme per la difesa dell’arti-colo 18 che ha raccolto consensi enor-mi per i nostri numeri. A sinistra c’è giàun fronte che sulle questioni concretela pensa allo stesso modo: contro ilgoverno Monti, contro le politicherecessive dell’austerità, contro l’ipotesidi porcellum-bis sulla legge elettorale.Questo fronte, però, non ha il coraggioe la capacità di coalizzarsi in un proget-to politico unitario. E’ vero che ci sonodelle differenze rilevanti su alcune que-

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Le conseguenze della crisi si abbat-tono quindi su un settore per nienteprotetto da necessari strumenti di tute-la, a partire dagli ammortizzatori socia-li. Essi sono pressoché inesistenti in unmercato del lavoro tra i più flessibili edestrutturati che si conosca. Questo fasì che il mondo del terziario sia pro-fondamente coinvolto nella riformadel mercato del lavoro di cui si stadiscutendo proprio in questi giorni.

Ma prima di occuparci di questocapitolo, occorre sottolineare che pro-prio la natura della crisi pone in esserela necessità di ridiscutere i modelli chehanno guidato lo sviluppo del settorenegli ultimi decenni.

E’ vero che il terziario ha svolto unafunzione importante nell’offrire utilialternative alla crisi del manifatturiero,ma ciò è avvenuto nella riproduzioneacritica di un modello non più ripetibi-

portato i principali paesi europei doveil modello della grande distribuzione ènato ad una vera e propria retromarcia.

Per questo la Filcams ha contestatola natura del decreto sulle liberalizza-zioni nel commercio: poiché ispiratoproprio ad una logica riproduttiva delmodello da superare. Non è un casoche solo la grande distribuzione orga-nizzata ha espresso soddisfazione pertale scelta (alla faccia della invocatalibera concorrenza!).

Si tratta inoltre di un modello chescarica sul lavoro le sue principali con-traddizioni; un modello che per trova-re il proprio equilibrio deve poggiaresulla flessibilità del lavoro, spesso por-tata ai suoi estremi, dunque fonte diprecarietà. Part-time, contratti a termi-ne, associazione in partecipazione equant’altro, un vero e proprio super-mercato delle tipologie contrattuali inquesti anni si è sprecato, con l’unicoscopo di avere manodopera a bassocosto e sempre a disposizione, sullabase di modelli organizzativi incompa-tibili con una necessaria conciliazionetra i tempi di vita e quelli di lavoro.Non va dimenticato che stiamo parlan-do di un mondo del lavoro ad altaintensità di presenza femminile, contutte le contraddizioni che si possonoimmaginare, in una società dove le pariopportunità rappresentano ancora unachimera.

Per queste ragioni il mondo del ter-ziario aveva guardato con molto inte-resse e speranza alla riforma del mer-cato del lavoro. I due obiettivi princi-pali conclamati, lotta alla precarietà euniversalità degli strumenti di tutela, apartire dagli ammortizzatori sociali,per questo settore rappresentavano e

le. L’esempio più lampante viene pro-prio dalle dinamiche che hanno inve-stito la grande distribuzione, cresciutasull’esplosione delle grandi superfici divendita, ipermercati, centri commer-ciali; un modello che ha trasformato lastessa struttura urbana e sociale dellenostre città e che oggi evidenzia il pro-prio limite. Questo modello distributi-vo è espressione di un modello di con-sumi, del quale la stessa crisi imponeun ripensamento. Riorientare i consu-mi, contro gli sprechi e per una nuovasostenibilità sociale e ambientale, èl’asse lungo il quale deve avanzare unanuova proposta di politica settoriale.Assimilare questa visione alla tesi delladecrescita (sulla quale si possono avereopinioni anche diverse) costituiscesolo un alibi per non affrontare il nodovero della questione, cioè una nuovastrategia del consumo fondata su pro-cessi di innovazione che investano lastessa struttura distributiva: che hanno

IL MONDO DELTERZIARIO pone problemi allo stesso sindacato

Il mondo del terziario vive la fase politica esociale del Paese con effetti e conseguenze

inedite rispetto al passato. Innanzitutto la crisi.Quella che ha colpito l’Italia in questi anni, nel

contesto della più grave crisi economica deldopoguerra, che investe la stessa Europa e

l’economia globale, è la prima grande crisi vis-suta dal terziario, in particolar modo dal setto-re distributivo. Un settore che, soprattutto conla nascita e lo sviluppo della grande distribu-

zione, aveva conosciuto solo fasi di grandeespansione e crescita degli addetti.

di FRANCO MARTINI*

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rappresentano la via maestra per con-tribuire ad un processo di qualificazio-ne delle risorse umane. Poi la questio-ne dell’articolo 18, puntato sugli occhidel Paese come un faro accecante, harischiato di mettere in secondo piano iveri limiti dell’operazione che ilGoverno sta conducendo. Un bilanciosostanzialmente insufficiente, sia sulversante della riduzione delle formeflessibili di ingresso, sia in relazionealla diffusione degli ammortizzatori. Ilmondo del terziario rischia di usciresenza sostanziali novità positive daquesta vicenda, e se si pensa che perterziario non si deve intendere sologrande distribuzione, la delusione si faancora più consistente. Questo è unmondo nel quale, assieme alle cassieredei supermercati, lavorano anche i gio-vani laureati degli studi professionali,poi le lavoratrici domestiche, moltestraniere, le guardie giurate, le donne egli uomini delle imprese di pulizia inappalto, interi formicai di impreseesternalizzate nel sistema alberghierodel nostro Paese. E potremmo prose-guire. Un mercato del lavoro fragile,destrutturato, che necessita di regolenuove e di protezioni più diffuse e chenon ricaverà granché di innovativo dauna riforma che alla fine rischia di par-torire un topolino, soprattutto se nonverrà respinto l’ultimo assalto di

offrire un contenitore alla polverizza-zione diffusa, di innovare le propriepolitiche organizzative ed i propri stru-menti di comunicazione e di interven-to nei luoghi di lavoro. Non basta dire“democrazia e rappresentanza”. Il sin-dacato deve dirlo sapendo che la tradu-zione concreta incontra una scala didifficoltà immensamente diversa trauno stabilimento chimico o metalmec-canico ed uno studio professionale oun albergo interamente esternalizzato.Dire RSU, RSA, RLS, significa assume-re la diversità dei lavori come una con-dizione di innovazione, di nuova speri-mentazione, di messa in discussionedegli stereotipi trasmessi dalla tradizio-ne, ricchi di storia e cultura, ma nonsempre utili ad interpretare il mondoche viviamo.

Per questo il rinnovamento del sin-dacato, in questa fase politica e sociale,deve investire su tutto il patrimoniodisponibile, dalla memoria alla immen-sa diversità. Il mondo del terziario, perqueste ragioni, rappresenta un labora-torio eccezionale delle innovazionipossibili, un laboratorio per la confe-derazione. Questa è la sfida che al con-gresso la Filcams ha lanciato per sé eper la Cgil.

* Segretario Generale FILCAMS

Confindustria e delle altre associazioniimprenditoriali, intenzionate a vanifi-care anche quel poco di buono chesulle flessibilità è stato proposto.

Naturalmente, il mondo del terzia-rio riconduce al tema della confederali-tà e della capacità del sindacato di rap-presentare mondi del lavoro estrema-mente diversi, di come rappresentarli edi come agire attraverso la leva dellacontrattazione. Democrazia è parolachiave anche in questo mondo. Il con-tratto separato del commercio ha rap-presentato la principale discontinuitànegativa nella storia sindacale del set-tore. Sicuramente, esso è figlio di unascelta delle controparti e di ricetteimposte per competere nella crisi, sca-ricando sul lavoro i costi principali. Mala Filcams, che non si è mai sottrattaall’assunzione di responsabilità anchenei momenti difficili, non ha potutocondividere la firma del contratto,soprattutto per l’assenza di regoledemocratiche. Per questo, nella faseche stiamo vivendo, il tema dellademocrazia e della rappresentanzadeve essere iscritto al pari degli obietti-vi riformatori di cui tanto si discute.

Naturalmente, ciò impone anche alsindacato una nuova capacità di rap-presentare il mondo degli invisibili, di

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UNA “RIFORMA”DEL “MERCATODEL LAVORO”ASSAI NEGATIVA

Agire a sinistra per un cambio di governo.

Intervista a Paolo Parodisegretario FILCTEM-CGIL di Alessandria

a cura di Matteo Gaddi

Il Governo si appresta a modifi-care l’articolo 18 dello Statutodei Lavoratori (la novità più rile-

vante riguarda la modifica dei licenzia-menti per motivi economici, con laproposta di un semplice indennizzoeconomico, e anche sui licenziamentidisciplinari ci sono rilevanti modifi-che).

Domanda. Che conseguenze avrebbe unamodifica dell’articolo 18 così come presentatadal Governo? Che cosa ne pensi della posizio-ne della CGIL espressa dalla segretaria gene-rale Camusso?

Risposta. La conseguenza principaleè di creare una via (che diventerà pro-babilmente esclusiva) che consente alleimprese di espellere i lavoratori utiliz-zando la “motivazione economica”come schermo per qualunque tipo dilicenziamento e assicurandosi in ognicaso la certezza di monetizzare l’abuso.L’effetto deterrente dell’art.18 si capo-volgerebbe consegnando all’impresaun livello di “controllo sociale” moltopiù ampio dell’attuale. La CGIL inquesta fase molto delicata sta cercandodi coniugare la necessità di tenereferma la sostanza della tutela del-l’art.18 con quella di uscire dalla logicadegli accordi separati propria degli ulti-mi anni.

D. Il Governo Monti ha definito un pro-getto di riforma degli ammortizzatori socialiche prevede l’ASPI (assicurazione sociale perl’impiego) come strumento di sostituzionedella mobilità e delle indennità di disoccupa-zione. Inoltre si prevede di eliminare laCIGS nei casi in cui essa non sia connessaalla conservazione del posto di lavoro (cioè intutti i casi di ristrutturazione, riorganizza-zione con esuberi ecc.). Che tipo di conseguen-ze avrebbe questo provvedimento nel tuo terri-torio/categoria/luogo di lavoro? Ti chiediamodi argomentare la risposta con dati ed esempiconcreti derivanti dalla tua esperienza.

R. L’effetto principale è di ridurre la

della necessità di protrarre nel tempole iniziative.

D. Che percezione hai avuto dell’atteggia-mento tenuto dai partiti di sinistra e centro-sinistra su questa vicenda (PD, IDV, SEL,Federazione Della Sinistra)? A tuo avvisoche tipo di iniziative dovrebbe assumere lasinistra politica su questi temi e che tipo direlazione col sindacato?

R. La prima iniziativa che mi aspet-terei è quella di favorire in ogni modoun cambio di governo del paese, l’op-posizione in questi tempi non produceil benché minimo risultato di migliora-mento delle condizioni di vita delleclassi lavoratrici e dei pensionati.Credo sia fondamentale il manteni-mento/consolidamento di una relazio-ne tra la sinistra politica e il sindacato,prestando attenzione al confronto (nelcaso della CGIL) con laConfederazione, evitando di dare lasensazione di distinguere tra buoni emeno buoni, con il rischio di favoriredivisioni, anche dentro il sindacato, chenon hanno contribuito in positivonella storia recente della sinistra italia-na.

tutela degli ammortizzatori in molticasi, anche se la CIGS viene meno soloper i casi di cessata attività. L’esempio,un’azienda fallita sopra 15 dipendenti:oggi si dispone di 12 mesi di CIGS (piùun periodo di eventuale CIGS in dero-ga) più la mobilità di 12, 24, 36 mesi aseconda che il lavoratore abbia menodi 40, fino a 50, oltre 50 anni di anzia-nità anagrafica. Domani nello stessocaso il nuovo strumento coprirebbe12/18 mesi complessivi

D. Ti chiediamo di ragionare analogamen-te con riferimento alle “Linee di interventosulla disciplina delle tipologie contrattuali”presentate dalla Ministra Fornero. Questodocumento interviene su: contratto a tempodeterminato, apprendistato, contratto di lavo-ro a tempo parziale, contratto di lavoro inter-mittente, collaborazione a progetto, partiteIVA, associazione in partecipazione, lavoroaccessorio. I contenuti del documento Fornero,che impatto avrebbero sul mondo del lavoroper quanto concerne i contratti a tempo deter-minato, le collaborazioni a progetto, l’appren-distato ecc.?

R. Ritengo che il permanere di tuttele tipologie di rapporto esistenti (aparte un piccolo ridimensionamentodell’associazione in partecipazione)rimarrà senza mutazioni sensibilirispetto al quadro odierno. In pratica viè una divaricazione notevole tra ciòche si ipotizzava e quello che è statopartorito.

D. Se il Governo procedesse con l’approva-zione delle riforme qui sopra richiamate(mobilità, tipologie contrattuali, art. 18),secondo te cosa dovrebbe fare la CGIL in ter-mini concreti? Le iniziative deliberate dalDirettivo della CGIL del 21 marzo (sciope-ro generale di 8 ore + altre 8 ore di iniziati-ve articolate con assemblee ecc.) ti sembranoadeguate? Cos’altro eventualmente proporre-sti?

R. Credo che le iniziative messe incampo siano adeguate, tengono conto

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L’esito del voto conferma chele persone hanno bisogno dicontare e che la qualità della

democrazia sui posti di lavoro è lapriorità per ridare forza e credibilitàalla funzione del sindacato. Abbiamosconfitto paura, sfiducia e rassegnazio-ne grazie soprattutto alla capacità dimettere sempre al centro della nostrainiziativa le condizioni di lavoro. Ladura e coerente opposizione alGoverno Berlusconi, la capacità diesercitare la contrattazione nonostantela Legge Brunetta, l’azione quotidianasui posti di lavoro per coniugare tutelaindividuale e vertenzialità collettiva e lacredibilità dei nostri candidati ci hannopermesso di conquistare la fiduciadelle lavoratrici e dei lavoratori.

Siamo stati percepiti come l’unicosoggetto in grado di affermare un verocambiamento e che non si sarebbe maipiegato alle sirene che pretendeveno,nel nome di un falso riformismo, dimercificare l’istruzione e la ricerca. Ildiritto al sapere come bene comuneriguarda il futuro delle nuove genera-zioni e di ogni cittadino, della demo-crazia e dei caratteri di uguaglianzadella società. Ma serve soprattutto acambiare il modello di sviluppo. Dopocinque anni di crisi globale apparesempre più evidente che questa è unacrisi di modello. Le politiche liberisteche hannno determinato la crisi vengo-no riproposte da un Europa impresen-tabile perché sempre più lontana daicittadini e subalterna ai poteri forti. IlGoverno Monti rappresenta quelladestra liberista europea che vuoleimporre la distruzione del modellosociale europeo, la cancellazione deidiritti nel lavoro e la riduzione dei sala-ri. I segni regressivi sono evidenti efrancamente si fa fatica a scorgeresegnali di discontinuità, se non nellamaggiore credibilità internazionale delPresidente del Consiglio rispetto a

sione l’Europa del potere assoluto delmercato, delle speculazioni finanziarie,delle tecnocrazie autoritarie e della pre-carizzazione generalizzata della vita edel lavoro. Alla crisi della rappresen-tanza bisogna rispondere attraversouna domanda di più e migliore politicacapace di intervenire e condizionarel’azione dell’impresa, della finanza edei mercati. La politica non è mai unterreno neutro, può essere alternativaall’ortodossia liberista oppure sudditaai mercati. Rappresentanza politica erappresentanza sociale devono potersiconfrontare alla pari, nella distinzionedei ruoli, e la democrazia economicarappresenta il riferimento indispensa-bile per un nuovo compromesso tracapitale e lavoro.

Si avverte il bisogno di una sinistrache superi i vecchi schemi ideologicidel passato ma che non scambi mai ilriformismo con il moderatismo e assu-ma una dimensione collettiva metten-do in soffitta il leaderismo. Una sinistrache non venda mai la propria animapur di arrivare al potere e che rappre-senti le istanze del mondo del lavoro.

* Segretario Generale FLC-CGIL

Berlusconi. La tentata cancellazionedell’art.18 risponde all’idea aberranteche licenziamenti più facili rendono leimprese più competitive e che nonsono gli investimenti a creare occupa-zione ma è le flessibilità. Dopo averstrombazzato l’intenzione di affronta-re il tema della precarietà e dei giovaniil risultato finale è che rimangono tuttele tipologie di lavoro non a tempoindeterminato, non vengono estesi gliammortizzatori sociali e dunque sipenalizzano le nuove generazion. Aesse in più cui si continua a negare,oltre il diritto al lavoro, anche il dirittoallo studio.

Anche per queste ragioni occorrevauna risposta complessiva, che partissedalla difesa intransigente dell’art.18,onde riproporre un rapporto intangibi-le tra diritto al lavoro e diritti nel lavo-ro. Occorreva lottare per il ripristinodel reintegro come unica tutela realenel caso di licenziamento illegittimo.Risarcire un lavoratore licenziatoingiustamente significa mercificarne lapersona! Se dovessimo accettare lalogica della limitazione del danno nonriusciremmo a sintonizzarci con le sof-ferenze sociali che si allargano erischiano di travolgere tutto e tutti.

La posta in gioco è la possibilità dimantenere il profilo di un sindacatoconfederale, e questo dipende moltoda come usciamo da questa fase. Sevogliamo riconquistare il contrattonazionale e l’esercizio pieno della con-trattazione, a partire dai comparti pub-blici, dobbiamo scardinare il quadrodelle compatibilità che imprese eGoverno Berlusconi con l’art.8 dellafinanziaria hanno imposto unilateral-mente. Certamente, inoltre, non bastauna risposta nazionale, come confer-mano le vicende della Grecia e dellaSpagna. Il sindacato europeo e le forzedella sinistra devono mettere in discus-

SAPERE BENECOMUNE

La Flc-Cgil ha vinto le elezioni per il rinno-vo delle rsu in tutti i comparti della cono-

scenza. E’ stato per la Cgil uno straordina-rio risultato perché siamo riusciti a favorireun’alta partecipazione al voto e ad aumen-

tare i consensi rispetto alle precedenti elezioni.

di MIMMO PANTALEO*

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Nelle ultime elezioni politi-che, poi (paragonate daIlvo Diamanti ad un nuovo

1948), anche questa maggioranza èandata perduta, e la distribuzione deivoti ha sostanzialmente ricalcato quel-la che risultò dalla sfida “fondativa” traDemocrazia Cristiana e FrontePopolare, essendo i voti operai del Pdle della Lega Nord localizzati, ad undipresso, proprio nei bacini che furonodella vecchia DC. Spiccano, tra lemolte suggestioni che le elezioni del2008 possono offrire, due dati: 1) laparte più significativa dei voti operai inuscita dalla sinistra non è rifluita nelleformazioni del centro-destra, ma nel-l’astensione; 2) in generale, in Italia, ivoti dei lavoratori qualificati vanno asinistra, mentre quelli dei lavoratoridequalificati e dei giovani (soprattuttodei giovani meridionali) vanno adestra.

Si tende a volte a pensare chel’acuirsi della crisi possa in parte sana-re questa apparente discrasia, ma lecose non sono affatto così semplici,perché alcune delle modalità d’azioneche la sinistra ha maturato negli ultimianni tendono più a riprodurre che aridurre la distanza tra la sinistra stessaed il grosso dei lavoratori dequalificati(ossia dei lavoratori più esposti alleforme ed ai contenuti della comunica-zione populista). Sono almeno tre ipunti di maggiore distanza tra quel cheresta delle organizzazioni “rosse” (nontratto, qui, della sinistra più o menoliberista) e la classe che essa pretende,quasi per investitura storica, di rappre-sentare.

Prima di tutto, si è diffuso unmodello altruistico d’azione collettiva,tipico delle associazioni di impegnocivile: un modello in cui ciò che conta

mente sinonimo di “burocratico”).Infine, tutta la sinistra appoggia con

giustificata convinzione le battaglie perla libera scelta individuale in materia diorientamento sessuale, di modellifamiliari e di stili di vita, nonché per ilrispetto delle differenze etniche e reli-giose. Anche in questo caso si tratta diun indubbio progresso, sia perché la“causa” è giusta in sé, sia perché tuttociò costituisce uno degli antidoti allacostruzione di società autoritarie epopuliste (di qualunque tipo), chehanno un inesausto bisogno, persopravvivere, di stigmatizzare tutti icomportamenti definiti come “diffor-mi” al fine di nutrire un conformismodi massa a sostegno dei dominanti diturno. Ma purtroppo, anche in questocaso, un innegabile progresso della cul-tura della sinistra si traduce in un fatto-re di incomunicabilità con gli strati piùdeprivati (economicamente e cultural-mente) della popolazione.

Questi ultimi infatti, se da un latocondividono pienamente il “disordineaffettivo” che connota i nostri tempi,dall’altro non possono spingere questacondivisione fino alla completa messain discussione – in nome della “liberaindividualità” – delle strutture familiarie comunitarie, perché queste costitui-scono pur sempre, per loro, una condi-zione essenziale di sopravvivenza eduna forma irrinunciabile di orienta-mento nel mondo. Ecco quindi convi-vere, in una larga parte della popola-zione italiana, il libertinaggio ed ilfamilismo, il culto per la televisionesedicente trasgressiva ed il culto per isanti. Nessuna sorpresa, quindi, sel’eroe popolare per eccellenza è statoproprio Silvio Berlusconi, e nessunasorpresa se i codici politici della sini-stra appaiono completamente estraneial “popolo”, quando siano calibrati

non è la rivendicazione specifica persé, ma, almeno all’apparenza, la riven-dicazione generica per gli altri. Si trattadi un indubbio progresso nella storiadella coscienza solidale e dei movi-menti di emancipazione, ma è un pro-gresso che non interessa affatto coloroche hanno bisogno, oggi, di risposteimmediate ad altrettanto immediatibisogni: le nuove solidarietà fra gli stra-ti popolari possono nascere solo dalotte che sono, in un primo momento,inevitabilmente egoistiche quando noncorporative.

In secondo luogo, soprattutto inItalia, la sinistra si è lungamente spesaper la piena valorizzazione dell’operadel Terzo settore in materia di welfare.Cosa assolutamente positiva quandocostituisce integrazione di un’attivitàstatale capace comunque di garantire ilivelli essenziali di assistenza, ma assaimeno positiva quando ci si illude dipoter sostituire, nella specifica situa-zione italiana, l’attività universalisticastatale con l’occasionalità dell’attivitàassociativa. Una credibile mobilitazio-ne del Terzo settore, e della sinistra chelo appoggia, a difesa del welfare,avrebbe dovuto prendere le mosse dalripudio dell’ascesa della sussidiarietà aprincipio di rango costituzionale.Senza questo ripudio, ed anzi con l’ap-poggio esplicito al principio di sussi-diarietà, una parte purtroppo rilevantedel Terzo settore “dà” con una mano,ma “toglie” con due, ossia soccorresolidalmente coloro che sono privi diprotezione proprio a causa dell’effettocongiunto della sussidiarietà e dellaprivatizzazione. La maggior parte deglielementari bisogni d’assistenza oggiinsoddisfatti, sempre più acuti e diffu-si, può trovare risposta solo in uningente e pianificato intervento di assi-stenza statale (che non è necessaria-

PERCHÉ MAI LACLASSE OPERAIADOVREBBE VOTARE PER LASINISTRA?

Se si eccettuano alcuni momenti della sua sto-ria, la sinistra italiana non ha mai raccolto la

maggioranza dei consensi del proletariatoindustriale. Ha raccolto, in alcuni casi, la mag-

gioranza dei consensi del lavoro dipendenteglobalmente inteso, ossia quello composto dalproletariato industriale e dai lavoratori dei ser-

vizi, in particolare dei servizi pubblici: media-mente più qualificati, questi ultimi, di quanto in

genere non sia la classe operaia.

di MIMMO PORCARO

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esclusivamente o soprattutto sulla que-stione dei diritti individuali. Infine,come riassunto di tutto ciò, la stessalotta per la democrazia, quando questanon sia presentata come effetto dellelotte sociali, ma come valore in sé,rischia di aumentare la distanza constrati sociali che non sanno cosa farse-ne della libertà di scelta politica se que-sta non comporta effetti sulla propriacondizione di vita.

Chi ha ragione, allora? Chi è più“avanzato” e chi è più “arretrato”: lafrazione colta della classe lavoratrice ola frazione meno qualificata?

Direi che la frazione colta è, almomento, certamente la più avanzatasu tutto, tranne che sull’essenziale. Nelsenso che, se è vero che i bisogni fon-damentali sono identici per tutte le fra-zioni dei lavoratori, quelli della frazio-ne colta possono però giovarsi dell’ap-parente risarcimento costituito da unintero set di forme di mediazione cul-turale (comunicazione informatica,abitudine alla mobilitazione politica,continua creazione di agorà), mentrequelli della frazione dequalificata ten-dono ad esprimersi in modi radicali edassoluti, spesso prepolitici, ma comun-que indicanti una sostanziale impossi-bilità di risolversi nelle attuali condizio-ni. La disperazione di coloro che nonhanno risposte, nemmeno simbolica-mente risarcitorie, indica con maggiorenettezza la radicalità della situazioneattuale ed il bisogno di uscirne consoluzioni che sono, rispetto agli ultimitrent’anni, del tutto inedite: una nuova,ingente presenza di uno Stato demo-craticamente controllato e, in nonremota prospettiva, una ipotesi sociali-sta come risposta alla crisi del capitali-smo.

Qui non posso ovviamente parlaredei contenuti particolari di queste solu-zioni, né dei mezzi per realizzarle. Inquesta sede mi limito a far notarecome, per raggiungere questi obiettivie per tornare in sintonia con i più lar-ghi strati popolari, sia inevitabile averea che fare col populismo, costeggiarlo,attraversarlo, reinterpretarlo.

Tre sono, a mio parere, gli enunciatifondamentali del populismo:

1) Il popolo è un soggetto unitario,immediatamente dotato delle piùimportanti virtù, quali la laboriosità,l’onestà, la semplicità.

2) Ogni popolo si definisce come

rienza di Tony Blair. Questa variante sicaratterizza prima di tutto per unaframmentazione ed individualizzazio-ne del popolo, che sembra completa-mente opposta al comunitarismo concui il popolo viene presentato nellaprima variante, ma in realtà è un diver-so modo per ottenere lo stesso risulta-to del comunitarismo, ossia la scom-parsa del conflitto di classe e delle sueespressioni politiche. Infatti, intesocome massa di cittadini-consumatori, ilpopolo diviene un aggregato di indivi-dui che di volta in volta sceglie, senza“pregiudizi ideologici”, questa o quellasoluzione politica in base a generiche emutevoli preferenze che non fannocapo all’individuazione costante di pre-cisi interessi di classe. Salta dunque, inquesta concezione, la mediazioneofferta dai partiti che si richiamano adidentità stabili, e ciò che conta è il rap-porto più o meno diretto, o mediatodai soli sondaggi, tra il popolo e l’ese-cutivo. Ma salta anche, pur se in modopiù sottile di quanto non avvenga nellaprima variante, la mediazione del dirit-to, giacché la deregolamentazione tipi-ca di ogni prospettiva liberista lasciacampo libero al fluttuare delle normein relazione ai rapporti di forza che sistabiliscono nel mercato. Infine, anchequesto populismo non si esime dall’in-dividuare comportamenti “difformi”da additare come esecrabili percostruire un conformismo di massa: ilgoverno Monti, per esempio, col suoodio maniacale per tutti i lavoratori chehanno ancora memoria delle lotte e deidiritti, ha bandito una crociata a favoredella parte sana del popolo, ossia quel-la che non vorrebbe altro che la pienarealizzazione di un (presunto) universomeritocratico, contro la parte “garanti-ta” e perciò profittatrice ed egoista, delpopolo stesso.

Mentre la prima e la seconda varian-te del populismo hanno come trattocomune l’occultamento della lotta diclasse, la variante progressista, di cui sihanno esempi in alcuni tratti dell’espe-rienza latino-americana, ma anchenella crescente tendenza alla persona-lizzazione delle organizzazioni politi-che della stessa sinistra europea, sicaratterizza in genere per una più pre-cisa individuazione degli avversari (giu-stamente identificati con uno o piùblocchi di diverse ed articolate frazionidi capitalisti, nazionali e sovranaziona-li), ed anche per la convinzione che le“virtù popolari” possano esprimersi

tale in rapporto ad un nemico esternoal popolo stesso, e l’eventuale travia-mento di una parte del popolo e deisuoi capi non può dipendere che dal-l’opera di divisione e corruzione eser-citata dall’esterno.

3) La risposta ai problemi popolaripuò avvenire solo attraverso la rotturadelle abituali mediazioni istituzionali eculturali, e grazie alla costruzione di unrapporto diretto tra il popolo ed uncapo, la cui principale caratteristica èquella di esibire una omologia antro-pologica con il popolo stesso.

Dati questi tratti comuni, si possonoindividuare almeno tre varianti delpopulismo, una reazionaria, una liberi-sta ed una progressista.

La variante reazionaria si fonda suuna forte delimitazione degli stratisociali che meritano l’appellativo di“popolo”, dal quale sono esclusi tutti i“diversi” ed in particolare gli immigra-ti ed i soggetti che attuano comporta-menti “alternativi”. Per essa il popolonon si costituisce attraverso le espe-rienze di autoeducazione ed autorga-nizzazione che furono tipiche, adesempio, del primo socialismo italiano,ma grazie alla semplice appartenenzaalla comunità e alla continua opera di“purificazione” contro l’elementoesterno. Oltre ai “diversi” i nemiciprincipali di questa variante di populi-smo sono alcune categorie di capitali-sti: in genere le banche e gli speculato-ri, contrapposti al “sano” capitalismoproduttivo, ma con possibilità di modi-ficare il tiro a seconda delle esigenzetattiche. Tutti i capitalisti che superanoquesta “selezione”, e sono moltissimi,fanno invece parte del popolo tantoquanto i loro lavoratori, dando cosìluogo ad una delle più viete forme dioccultamento della lotta di classe. Lemediazioni che questo populismoprende di mira sono essenzialmentequelle dei partiti, dei sindacati e degliintellettuali (con l’ovvia esclusione delpartito, del sindacato e dell’intellighen-tzia “popolari”), ma soprattutto quelladel diritto, al quale deve essere tenden-zialmente sostituita l’espressione diret-ta della volontà popolare, così comeinterpretata dal leader.

Mentre la variante reazionaria delpopulismo è stata oggetto di numerosistudi, minore attenzione è stata dedica-ta alla variante liberista, se non perquanto riguarda alcuni tratti dell’espe-

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veramente solo attraverso processi diautoeducazione ed autorganizzazione.Limite (attuale) di questa posizione,che peraltro non si presenta quasi maiin forma pura, ma come elemento diaccompagnamento di esperienze ten-denzialmente socialiste, è la bassa isti-tuzionalizzazione e la scarsa autono-mia delle organizzazioni popolari, equindi la loro tendenza a connettersidirettamente al leader e a dipendere daesso.

E’ probabilmente inevitabile, anchea causa dell’indebolimento dei sindaca-ti e della sostanziale scomparsa in Italiadi una sinistra degna di questo nome,che i conflitti che già si accendonointorno alla gestione capitalistica dellacrisi assumano una forma tendenzial-mente populista. Giungono all’appun-tamento con un nuovo, inevitabileciclo di lotte anticapitalistiche, genera-zioni di lavoratori che non sono maistate influenzate e “disciplinate” da unpensiero socialista, che non hanno maiconosciuto sindacati stabili e partiticredibili, e che nemmeno avranno laforza, almeno in un primo momento,di costruire dei veri e propri movimen-ti.

Infatti il movimento, questa formadell’azione collettiva con la qualesiamo abituati ormai da tempo a misu-rarci, possiede caratteristiche di conti-nuità, stabilità organizzativa, omoge-neità culturale e capacità di gestionepubblica di conflitti di lungo periodo,che possono essere proprie solo digenerazioni politiche dotate di ingentirisorse di mobilitazione e di matureabitudini democratiche. Tutto questotende oggi a scomparire, in una con lascomparsa dei modelli di mediazionisociale che dei movimenti hanno costi-tuito sia l’incubazione che, sovente, ilbersaglio. Assisteremo probabilmentesempre di più a quelli che SidneyTarrow e Charles Tilly chiamano “con-flitti senza movimento”, ossia adesplosioni di lotte momentaneamenteincapaci di sedimentare organizzazio-ne e identità. Conflitti che sarannosempre meno “contenuti” e semprepiù “trasgressivi”, ossia espressi informe non previste e quindi non tolle-rate dall’establishment, disordinate edaperte verso l’ignoto.

Conflitti disordinati ed aperti versol’ignoto richiedono un approcciodiverso da quelli a cui siamo abituati.

sce qualsiasi seria e stabile risposta allestesse questioni relative alla produzio-ne ed alla distribuzione del reddito.Sovranità popolare e nazionale, si èdetto, non per preparare perdenti evelleitarie chiusure nazionaliste, maperché oggi la distruzione dello spazionazionale è l’obiettivo principale dellalotta delle classi capitalistiche egemoni,in quanto elimina l’ambito di decisionedemocratica potenzialmente costituitodalla nazione, sostituendolo con entitàsovranazionali apertamente ademocra-tiche.

Certo, sovranità popolare e sovrani-tà nazionale, da sole e senza ulteriorispecificazioni, possono ben essere leparole d’ordine di qualunque populi-smo. Ma deve essere chiaro che quisovranità popolare non è sinonimo didittatura della maggioranza, e sovrani-tà nazionale non è sinonimo di nazio-nalismo. Pensiamo infatti alla sovranitàpopolare nei termini suggeriti da LuigiFerrajoli, ossia come concetto negati-vo, che indica che il titolare della deci-sione democratica non può essere altriche il popolo, ma non intende con ciòche questo popolo possa decidere ciòche vuole, magari conculcando i dirittifondamentali di altre parti del popolostesso, ed anzi ne sottopone le formedi espressione ai dettami di unaCostituzione. Caratteristica basilare diogni populismo è quella di considerareil popolo come totalità unitaria: mentreil popolo reale è un insieme di gruppi,di interessi e di valori diversi e contra-stanti, tanto che una vera sovranitàpopolare esiste solo quando ogni partedel popolo è posta nelle condizioni didiventare maggioranza, e nessunamaggioranza può manomettere i dirittifondamentali. Quanto alla sovranitànazionale questa non si identifica colnazionalismo perché, nelle attuali con-dizioni geopolitiche, si manifestasoprattutto come rivendicazione dipoter decidere liberamente quale sia lospazio sovranazionale in cui la nazionedeve inserirsi e quali debbano essere lecaratteristiche politiche ed istituzionalidi questo spazio.

Richiedono “forme d’ordine” che,soprattutto in un primo momento,devono raccogliere e dare consistenzaalle lotte nello stesso spazio in cui essesi generano, e quindi modalità di orga-nizzazione di carattere mutualistico,capaci di fornire risposte immediate,anche se parziali, agli immediati biso-gni sociali. Richiedono, per essereconosciuti, non soltanto studi sociolo-gici condotti dall’esterno, ma vere eproprie inchieste in cui gli “oggetti”dell’analisi siano anche soggetti attividell’analisi stessa. E richiedono infineuna politica capace di proporre unaforte visione del futuro e, nell’imme-diato, di rompere l’alleanza subalternadelle frazioni colte e qualificate delpopolo con la borghesia transnaziona-le (quell’alleanza che ancora garantisceconsistenza alla sinistra liberista e che èuna delle matrici dello sviluppo delpopulismo) e di ricostruire l’alleanzatra le diverse frazioni popolari.

Probabilmente la parola d’ordinecapace di raccogliere, tradurre e tra-sformare il linguaggio populista in cuioggi inevitabilmente si presenta il con-flitto di classe, è quella del recuperodella sovranità popolare e quindi dellasovranità nazionale, intese non comeriduzione, ma come estensione dellanozione stessa di classe e lotta di clas-se.

Non mi soffermerò, qui, sul com-plesso di motivi che rendono necessa-rio il recupero della nozione di sovra-nità popolare e nazionale. Dirò soloche la nozione di sovranità popolareconsente prima di tutto di estendere lanozione di classe a tutte quelle frazionidi lavoratori subalterni che, per laframmentazione delle unità produttivee delle tipologie di lavoro o per tradi-zione culturale non si pensano comemembri di classe, e serve inoltre adaggregare al “popolo” gran parte diquella imprenditoria individuale, fami-liare o comunque subalterna al merca-to capitalistico la cui “conquista” ècompito decisivo di ogni movimentodi classe. Inoltre, in quanto allude nonsolo ad una diversa forma di distribu-zione del reddito, ma ad una diversaforma di Stato, la nozione di sovranitàpopolare si mostra capace di concen-trare il conflitto di classe non solo suiproblemi strettamente economici, maanche e soprattutto sulle questionirelative ai rapporti di potere tra le clas-si, la cui mancata “soluzione” impedi-

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Allora, grazie ad una serie diinnovazioni tecnologiche nelcampo dell’informatica,

della comunicazione e dei trasporti,l’ideologia neoliberale ha raccontato atutti la favola oggi trasformatasi inincubo: “Facciamo dell’intero pianetaun unico grande mercato, liberalizzia-mo i mercati finanziari e diamo pienalibertà ai movimenti di capitali; toglia-mo loro ‘lacci e lacciuoli’, legati a con-cezioni obsolete e sconfitte dalla storia,eliminiamo tutti i vincoli sociali eambientali, e sarà il libero dispiegarsidel mercato a regolare la società, pro-ducendo un’enorme ricchezza che, seanche non eliminerà le diseguaglianzesociali, produrrà a cascata benessereper tutti”.

La favola ha trovato un suo primomomento di empasse già alla fine deglianni 80, quando, contrariamente aquanto enfaticamente annunciato, lediseguaglianze tra la parte più ricca equella più povera del pianeta si sonorivelate mai così ampie nella storia del-l’umanità, al punto che la stragrandemaggioranza della popolazione puòessere considerata “fuori mercato”,ovvero talmente impoverita e depreda-ta da non poter accedere neppure alruolo di consumatore.

Contemporaneamente, la parteminoritaria della popolazione, che hacontinuato a detenere un potere d’ac-quisto, si è trovata nella condizione diaver sostanzialmente già compratoquasi tutto, determinando per ilmodello capitalistico una situazione disovrapproduzione di merci e una cre-scente difficoltà nell’allocarle su nuovimercati.

La prima conseguenza di questaempasse è stata l’abnorme espansionedei mercati finanziari: Poiché l’obietti-vo di ogni detentore di capitali è quel-lo di ottenere, nel più breve tempo

facendo irrompere nell’immaginariocollettivo la categoria dei beni comunie nella pratica sociale l’esigenza di unnuovo protagonismo diretto delle per-sone e di una nuova democrazia.

E’ anche per rispondere a questanuova insorgenza democratica che si èprodotta la sapiente costruzione delloshock del debito e della relativa emer-genza. Noncuranti del fatto di comel’innalzamento del debito pubblico siastato direttamente provocato dallepolitiche liberiste messe in atto – dra-stica riduzione delle imposte sui reddi-ti da capitale, spinta all’elusione eall’evasione fiscale come politica disostegno ai profitti, corruzione genera-lizzata nella gestione della cosa pubbli-ca – l’aumento del debito pubblicoviene spiegato alle popolazioni comeuna sorta di colpa collettiva per averabusato di garanzie sociali e di privile-gi individuali, l’espiazione dei qualirende inevitabili anni di rigore, diausterità e di sacrifici.

E se fino a cinque anni prima l’ideo-logia del “privato è bello” parlava aicuori e alle menti delle persone conl’obiettivo di convincerle, ora si passaal “privato è obbligatorio e ineluttabi-le”, chiedendo non più un’adesioneideale, bensì una mesta rassegnazione.

Se il modello capitalistico, per la suastessa sopravvivenza, è necessitato amettere a valorizzazione finanziarial’intero pianeta e la vita delle persone,diviene evidente come l’etimologiadella parola crisis, che significa scelta,ponga ai movimenti sociali la necessitàdi una nuova consapevolezza sull’inso-stenibilità strutturale di tale modello edi un salto di qualità nell’azione collet-tiva. Si tratta di un passaggio sostanzia-le dall’intervento a valle dei processi indirezione dell’intervento a monte,ovvero nei luoghi della accumulazionedelle risorse e della decisionalità politi-

possibile, più denaro di quanto neavesse prima, in caso di difficoltà nelcampo della produzione di merci e diservizi si apre la via della valorizzazio-ne dentro la sfera finanziaria e del capi-tale fittizio. Con esiti da incubo chealcuni semplici dati possono ben chia-rire: gli scambi di valute all’interno delsistema finanziario hanno oggi supera-to i 3.000 miliardi di dollari al giorno afronte di un commercio transfrontalie-ro di beni di 10.000 miliardi di dollaril’anno; i prodotti finanziari derivati,negoziati sui mercati non regolamenta-ti “over the counter”, hanno raggiun-to una cifra pari a 12/15 volte l’interoPil del pianeta.

L’espansione della sfera finanziariadell’economia, lungi dall’aver provoca-to la crisi di una presupposta “buona”economia reale, ne ha invece consenti-to la posticipazione di almeno duedecenni, fino ai giorni nostri, con loscoppio della bolla dei subprime edella “crisi” del debito.

La seconda conseguenza è stata – edè tuttora – la necessità da parte delmodello capitalistico di mettere a valo-rizzazione finanziaria l’intera vita dellepersone, smantellando l’insieme deidiritti del lavoro e lo stato sociale dauna parte e consegnando ai capitalifinanziari la natura, i beni comuni e iservizi pubblici locali.

Terreno sul quale si è tuttavia svi-luppata una variegata, per quantoframmentata, conflittualità sociale,fino all’esperienza del movimento perl’acqua che, attraverso un lavoro capil-lare di radicamento territoriale e disensibilizzazione sociale di massa, hapermesso – con la straordinaria vitto-ria referendaria del giugno 2011 – diaffermare la rottura collettiva dellacatena culturale che per decenni avevalegato le persone all’idea dell’indiscuti-bilità del pensiero unico del mercato,

DISARMARE I MERCATI

La crisi morde, attanaglia, non dà respiro.Investe l’economia e la società, l’ambien-te e le condizioni di vita, la democrazia ele relazioni sociali. La crisi rivela. Scoprela grande menzogna di quaranta anni di

modello neoliberista e l’enorme espropria-zione sociale messa in atto ai danni

delle persone.

di MARCO BERSANI*

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ca. Non ci si può più accontentare del-l’esercizio quotidiano del consumo cri-tico a valle senza rivendicare la criticadella produzione e la riconversioneecologica a monte, non si possono piùcontrastare le politiche di privatizza-zione a valle senza rivendicare un altromodello sociale e le relative risorse amonte.

Emerge nella sua piena drammatici-tà la crisi della democrazia. L’attaccodelle politiche liberiste e monetaristedella Bce e dei poteri forti all’anomaliadel continente europeo – lo statosociale – e ai diritti collettivi in ognisingolo Paese, rende evidente il pro-gressivo divorzio fra capitalismo edemocrazia, anche nella sua versionepiù formale, quella di una democraziarappresentativa consegnata agli inte-ressi particolaristici di piccoli o grandipotentati.

E, d’altronde, la richiesta comune atutte le conflittualità sociali – che sianoi metalmeccanici della Fiat, la resisten-za valsusina al TAV o la battaglia per laripubblicizzazione dell’acqua – è pro-prio quella di una nuova democrazia,fondata sulla partecipazione direttadelle persone e sulla collegialità deiluoghi in cui si possa affermare.

La questione della democrazia chia-ma in causa la relazione fra movimentie politica che rappresenta, da Genova2001 in poi, uno dei nodi irrisolti cheattraversa le mobilitazioni sociali inquesto Paese. E’ su quel nodo che ilmovimento di allora si è infranto, nonsapendo affrontare in maniera com-piuta la dialettica tra democrazia diret-ta e democrazia rappresentativa, comeil disastro del Governo Prodi ha resoevidente.

E’ un nodo particolarmente difficileda sciogliere, perché presenta contrad-dizioni da qualunque punto lo siaffronti: se da una parte il ruolo deipartiti è venuto progressivamente sce-mando sino a metterne in discussionel’utilità sociale, dall’altra il problemaper i movimenti di accumulare forzasociale per vederla ogni volta respintadal muro di gomma di istituzioniimpermeabili fino all’“autismo” sipone con sempre maggiore evidenza.

Occorre prendere atto, dal punto divista dei partiti, che il filo rosso chefino agli anni 70 collegava in pienaosmosi l’espressione di bisogni da

priazione sociale dei beni comuni, dellafinanza e della democrazia, ovveroragionare sulla costruzione di una coa-lizione sociale plurima che dal livellolocale a quello nazionale e internazio-nale ponga la necessità di ricostruireluoghi pubblici, trasparenti e collettividentro i quali si prendano le decisioni esi destinino le risorse sociali.

Occorre sottrarre al mantra dellaredditività finanziaria i beni comuninaturali e sociali che sono essenzialialla vita e alla sua dignità; occorronopolitiche di controllo democratico deicapitali finanziari e di risocializzazionedel credito, a partire dall’enorme patri-monio collettivo raccolto dalla CassaDepositi e Prestiti; occorre una lottacontro le politiche monetariste euro-pee e l’attuale “patto di stabilità”,anome di investimenti per i benicomuni e il welfare collettivo; occorreprendere di petto l’artificio del debito,rimettendone in discussione i presup-posti e i pagamenti. Ma per poter faretutto ciò, serve una grande battagliaper la riapertura degli spazi di demo-crazia a tutti i livelli, dagli enti locali diprossimità allo spazio sociale europeo.

La costruzione di una grande coali-zione sociale che veda al suo internomovimenti sociali, forze sindacali,associative e culturali, forze politichediviene il primo passo per un “asse-dio” ai luoghi oggi impermeabili delladecisionalità politica e per il riconosci-mento della necessità di una democra-zia partecipativa plurilivello comehumus di un nuovo modello economi-co e sociale. Una coalizione che nonfinalizzi la mobilitazione sociale all’ap-prodo nelle aule parlamentari di qual-che rappresentanza più o meno cari-smatica, ma che abbia come scopo l’al-largamento della partecipazione e deglispazi di democrazia e che, solo conquesta lente, valuti di volta in voltasenso e possibilità di una presenza isti-tuzionale.

Occorre disarmare i mercati perpoter parlare di futuro.

*ATTAC-Italia

parte della società, la loro rappresen-tanza sociale attraverso grandi organiz-zazioni sindacali e associative, dunquela rappresentanza politica di questeultime, in quanto organizzazioni dimassa, attraverso i partiti, si è definiti-vamente rotto. Oggi i partiti sonoquasi sempre luoghi autoreferenzialiche leggono la realtà come proiezionedelle proprie analisi sempre più inade-guate o sedi di interessi particolaristicidi piccola bottega o vero e proprioclan.

L’idea che il ruolo dei partiti sia larappresentanza generale di interessisociali, di per sé parziali, costringe glistessi a sottovalutare ogni nuova con-flittualità perché non “centrale” e,nello stesso tempo, a sottovalutarel’esigenza di un protagonismo socialenon mediato da istanze che rischino dianestetizzarne la tensione radicale.

Occorre tuttavia contemporanea-mente prendere atto di un’ancorainsufficiente elaborazione da parte deimovimenti sociali in merito alla com-plessità del tema, spesso dagli stessirisolto o con il definitivo approdo adun’antipolitica accompagnata da unapoco realistica idea di autosufficienzadei movimenti, sia specularmenteattraverso spericolate operazioni diincursione dentro la politica istituzio-nale, nelle diverse forme della coopta-zione, contrattazione politicista diposti o nell’idea di nuovi soggetti poli-tici, in genere incamminati sulla stradadella vecchia politica, fatta di delega,leadership carismatica e contrattazionenel mercato della rappresentanza.

Il tema in tutta evidenza c’è e rima-ne sul piatto, ma entrambe le straderischiano solo di aggravare le conse-guenze di questa situazione. Perché èsui nodi della riapertura di spazi pub-blici della decisionalità politica che variaperto il confronto e la conflittualitàpolitica e sociale: dentro l’espropria-zione di diritti e beni comuni portataavanti dai mercati finanziari, il ruolodello Stato non si riduce quantitativa-mente, bensì viene stravolto qualitati-vamente. E se il pubblico non può piùessere la sede della programmazioneeconomica e sociale, né il luogo chedispensa servizi e garantisce diritti col-lettivi, il suo ruolo non può che verti-calizzarsi assumendo i connotati del-l’autoritarismo e del controllo sociale.Rompere questa spirale significa aprireuna vasta mobilitazione per la riappro-

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Prendiamo ad esempio il setto-re pubblico in Grecia: sisostiene che la sua ecceziona-

le ampiezza, rispetto alle condizioninormali europee, sia uno dei grandimotivi a sostegno dei tagli profondidell’occupazione e della spesa pubbli-ca: ma statisticamente tutto questo èsemplicemente falso. Ovviamente èverissimo che il settore pubblico grecoè altamente burocratizzato e poco effi-ciente: ma si poteva procedere ad unsuo ammodernamento in senso pro-gressista, attraverso una più equa ridi-stribuzione dei redditi e dei ruoli, unapiù efficiente organizzazione del lavo-ro, così come dei servizi pubblici, eforti riduzione degli sprechi. L’idea cheinvece è passata è stata lo smantella-mento complessivo, sostenuto daun’ideologia di forte discredito delpubblico in sé e di preconcetta bontàdelle privatizzazioni, con lo scopo ulti-mo di distruggere lo stato sociale.

Così il settore pubblico è stato ilprimo a essere colpito dopo l’esplosio-ne della crisi. Ad esempio la miaUniversità a visto il budget complessi-vo ridotto del 50% e i salari del 20-30%. In questo modo moltissimagente è stata travolta in un gorgo senzasoluzione, che ci trascina sempre piùverso il basso, impedendo anche unarinnovata mobilitazione sociale asostegno di proposte progressiste. Maappunto questa situazione di profondoattacco allo stato sociale non è perniente una specificità della crisi greca,ma è comune in tutta Europa. Infattiin ogni paese entrato in crisi si parla dieccezionalità: c’è l’eccezione Irlanda,quella portoghese, quella spagnola,quella italiana. Per nascondere le causecomuni della crisi, ogni situazione spe-cifica diventa eccezionale, unica, equindi incomparabile. Io non sono uneconomista e quindi non affronterò i

ovvio che quando si presentano frattu-re radicali, occorre del tempo percapirle e metabolizzarle, come quandoaccadono disastri naturali. Io ho stu-diato ad esempio cosa è avvenuto inItalia quando ci fu il caso dell’Icmesadi Seveso: all’iniziale rifiuto ad accetta-re la frattura, a seguito dello shock,subentra la paura. A questo livello c’èun vero è proprio ménage della paura,con lo scopo di gestirla in modo daperpetuare lo stato di shock e la conse-guente incapacità di risposta. Le moda-lità dell’erogazione degli “aiuti” allaGrecia da parte della UE e del FMI egestiti dalla trojka si muovono in taledirezione: ogni tre mesi si fa l’esamealla Grecia, si dà il consenso o menoalla continuazione degli aiuti, metten-do sotto tutela uno Stato sovranocome se invece non lo fosse, trattando-lo come un bambino, e così si reitera lostato di paura, cioè con il pericolomortale del fallimento. Il default èdipinto come un disastro naturale cata-strofico, per cui l’economia del paesemai si riprenderà, e tutti saranno ridot-ti alla fame: quindi bisogna subire i dik-tat portati dalla trojka.

Tutte queste immagini della realtàsono come una coreografia che poco apoco avvolge tutto e alla quale non cisi può sottrarre. Grazie a questo, adesempio, più di 40 parlamentari deipartiti di maggioranza che non aveva-no votato il secondo pacchetto di aiuti(leggi: la seconda tornata di tagli a mas-sacro della popolazione) sono statidenigrati e financo espulsi dai loro par-titi.

In secondo luogo, in relazione a ciò,si creano due riferimenti ideologici. Ilprimo è la Nazione: a difesa della giu-stezza e “inevitabilità” dei tagli e deisacrifici si richiamano tutti al patriotti-smo e ai “doveri” di fronte alla Patria.

dettagli della crisi economica in sensostretto. Indico solo una dato emblema-tico, riportato dai giornali in Grecia:nel dicembre 201, il numero dei disoc-cupati ha superato la fatidica soglia delmilione di persone (su dieci milioni diabitanti complessivi), ciò che equivalea un saggio di disoccupazione del 21%.Un anno fa, nel dicembre 2010, era del15%. Un aumento del 6% in un soloanno! E, come in Italia, tra i giovaniquesto tasso è ancora più alto: tra il 30e il 50% a seconda delle fasce di età.

Ma il problema non è soltanto eco-nomico, in senso tecnico o tecnocrati-co: per capire bisognerebbe tornarealla critica dell’economia politica comela intendevano Marx o anche MaxWeber. Occorrerebbe uno sguardo piùampio che investa complessivamente ilvalore sociale del comportamento eco-nomico e che faccia la critica del“discorso” economico dominante edella sua funzione legittimante versouna determinata direzione di sviluppopiuttosto che verso altre. Procedendocosì si scopre che alcune misure adot-tate in Grecia dal potere politico nonhanno alcun significato dal punto divista strettamente economico, neppurenel senso del neoliberismo economico,ma lo hanno in senso simbolico e pun-tano a un effetto egemonico, per disci-plinare e regolare il comportamentosociale in una precisa direzione: cosache tuttavia riproduce, paradossalmen-te, le stesse cause della crisi. In partico-lar modo questo riguarda il “discorso”politico, cioè le varie barriere che essointroduce per impedire che la coscien-za collettiva si spinga su strade econo-miche alternative a quelle proposte epresentate come inevitabili. Faccioalcuni esempi.

In primo luogo, l’uso dell’effettoshock (nel senso di Naomi Klein): è

LA CRISI DELLAGRECIA NON ÈUN’INFELICEECCEZIONE

Prima di entrare in argomento, occorre evi-tare un errore che spesso si commette par-

lando della crisi greca: il fatto di conside-rarla come un’eccezionalità. Non perché

non serva sottolineare le differenze con lasituazione pre-crisi, quanto perché la tesi

dell’eccezionalità è una delle più forti usataideologicamente a sostegno delle

ricette neoliberiste.

di YANNIS STAVRAKAKIS*

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E poi si demonizza il consumo, propo-nendo il passaggio a uno stile di vitapiù “sobrio” (paradossalmente in con-trasto con lo stesso spirito del capitali-smo). Il secondo riferimento ideologi-co, in apparente contrasto al primo, èproprio l’Europa: si dice che la Grecianon può essere esclusa dall’Europa,essendo la madre della sua stessa civil-tà, quindi che deve accettare condizio-ni draconiane per restarvi.

Ora, sono molte le altre barriereideologiche, ma in generale si tratta dimistificare la realtà attraverso un pro-cesso di sua semplificazione e banaliz-zazione. La forma più comune di que-sto processo è l’argomento che l’eco-nomia di uno Stato funziona in analo-gia a quella di una famiglia, e che quin-di il tema del debito pubblico va vistocome quello di un debito privato, perdi più contratto inavvertitamente. Cosìsi eliminano tutta la complessità socia-le e con essa gli aspetti politici (e leresponsabilità politiche). Così si ali-menta un cattivo senso comune per cui“non ci sono alternative” a ciò che“bisogna fare”.

Un altro importante aspetto è lametafora moralistica. Con più tipi didiscorso: uno con riferimenti esterni,l’altro che guarda all’interno. Il primo èallo scopo di creare un senso di vergo-gna, mentre il secondo è finalizzato aun senso di colpa. Dalla parte dellavergogna c’è l’idea, assieme ad altripaesi, di essere considerati con metafo-re come animali. Non a caso questipaesi definiti PIGS (maiali), assom-mando le iniziali di Portogallo, Irlanda(e ora anche Italia), Grecia e Spagna.Qui sono implicite delle sfumaturecolonialiste e di impronta razzisticafrancamente insopportabili. Un’altrametafora, questa volta per alimentare ilsenso di colpa, è quella del bambinocattivo, che merita la punizione. Unprofessore di economia di Harvard,nella prima metà del 2010, quindiprima dell’apice della crisi, rilasciòun’intervista a un giornale greco in cuiusava proprio quest’esempio: i greci sisono dimostrati dei bambini cattivi,che non sono stati capaci di seguire legiuste indicazioni su che cosa è bene esu che cosa è male, e che quindi meri-tano in pieno le punizioni inflitte. Esseper questo vanno accettate. Così siassegna pure una giustificazione scien-tifica alla condanna morale del poten-te. Cosa che ricorda molto le intuizioni

demonizzata come populista. Ma sic-come neanche questa strategia staavendo il successo sperato (la popola-zione non ci casca), si passa anche allaricerca del capro espiatorio all’internodello stesso sistema. Ad esempio nelleultime settimane in Grecia si è parlatomolto, in modo assordante, di un indu-striale (marito di una deputata diNuova Democrazia) che ha portatoall’estero in maniera sospetta (parelegalmente, ma eticamente esecrabile)un milione di euro. Gran rumore,distorsione dell’attenzione socialerispetto al cuore delle questioni.Ovviamente non si menzionano lecentinaia di milioni di euro sottratti difatto alla popolazione da un furto lega-lizzato continuo e a cui hanno presoparte le classi dominanti greche; sibanalizza invece la questione attraver-so la moralistica condanna di un tale,ciò che consente di nascondere la real-tà. Però anche questo tentativo pareattenuare lo scetticismo popolare e lacostruzione progressiva di una resi-stenza.

Non so se questo processo di rispo-sta collettiva e solidale alla crisi e allestrategie dominanti, che pure è iniziatoin modo molto evidente in Grecia, riu-scirà a continuare oppure no, se avrà laforza di crescere fino a diventare unprogetto politico di alternativa; certo èche la sua forma di organizzazionepredominante (soprattutto a livellogiovanile) non è quella tradizionale,anzi è molto critica rispetto alle classi-che istituzioni della politica collettiva,in primis partiti e sindacati, ui c’è uncomplesso problema, in ultima analisidi come realizzare la saldatura politicatra le forze sociali che si ribellano.Tuttavia è anche vero che la strategiadella paura funziona sempre meno eche la verità delle cose si fa sempre piùsentire.

* Università di Salonicco

di Foucault, sulla storia e sul ruolosociale della medicina. L’ultima meta-fora è quella della malattia. Certi paesisono malati e possono contaminare glialtri, si usa così la matafora della peste,oppure sono le metastasi di un cancroche possono diffondersi nel corpocomplessivo europeo sano. Questipaesi quindi hanno il dovere morale dicurarsi, di bere l’amara medicina, diamputare gli organi malati.

Queste metafore del bambino catti-vo e della malattia possono portarefacilmente alla demonizzazione dialcuni paesi e dei loro popoli; anzi giàquesto succede nel rapporto tra Greciae Germania, aprendo la strada adatteggiamenti populisti e razzistipotenzialmente molto pericolosi. Masuccede anche all’interno dello stessopaese, tra parti diverse della popolazio-ne, mettendo un gruppo sociale vitti-ma contro l’altro.

Tuttavia tutta questa strategia ideo-logica dispone di alcuni limiti o barrie-re, perché, se vogliamo usare la termi-nologia categoriale di Ernesto Laclau,la sua esasperazione fa intrecciare le“catene di differenze” (le serie di rela-zioni diverse tra gruppi sociali e all’in-terno degli stessi, con funzione singo-larizzante) con le “catene di equivalen-ze” (le serie di relazioni che invecefanno riconoscere come soggetto uni-tario diversi gruppi e li spingono aun’azione collettiva contro un avversa-rio comune). E’ questo sta succedendoattualmente in Grecia. E più si raffor-za la “catena delle equivalenze”, emeno possono funzionare le strategiedella paura, della vergogna, del sensodi colpa e infine della frammentazionee della immobilità (si veda. ErnestoLaclau-C. Mouffe, Egemonia e strategiasocialista, il melengolo, Genova 2011).

Il processo ideologico antisocialesta quindi entrando in questo momen-to in una nuova fase. In primo luogovengono stigmatizzate tutte le formedi resistenza che si stanno producendocontro il massacro sociale a seguitodelle misure economiche imposte dallatrojka, e la parola-chiave in questo casoè “populismo”. Chiunque non accettila politica dominante viene denunciatocome populista irresponsabile, e abbia-mo un proliferare di discorsi legittima-tori imperniati sull’eccellenza della tec-nocrazia, la meritocrazia, la responsa-bilità, ecc. E anche la sinistra viene

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Da qui la necessità di trovarealcuni fatti reali abbastanzarobusti da potere servire

come pilastri per avviare analisi consi-stenti, indispensabili nell’attività dicoloro che lottano per la trasformazio-ne della società in una direzione pro-gressista.

Uno di questi fatti reali che merita-no di essere seguiti e meglio conosciu-ti è l’esistenza del BRICS. Si tratta diun animale assai strano, con cinquezampe, multicolore e senza dubbiomolto grande e potente, tanto da pote-re essere addirittura minaccioso.

Ancora molto giovane, istituzional-mente è apparso solo cinque anni fa,nella città di Ekaterinburg, in Russia. Igoverni di Brasile, Russia, India e Cinadecisero di creare uno spazio perma-nente di discussioni e analisi comunisul pianeta. Nel 2011, al terzo verticeche si tenne a Sanya in Cina, si ebbel’ingresso dell’Africa del Sud.

ordine che chiamano multipolare edequitativo. Gli strateghi del BRICSsanno che è un cammino lungo e deli-cato. Quindi hanno cominciato a lavo-rare insieme per aumentare il pesonegli organismi internazionali, comeFMI, Banca Mondiale, OMC e ONU.

Un esempio piuttosto chiaro è datodalla costante richiesta di prestiti daparte dell’Unione Europea al BRICS, ilquale risponde che ne concederà soloattraverso il FMI, ma a condizione diaumentare le proprie quote in esso;cioè chiede maggiore potere, conl’obiettivo di superare il peso degliUSA e dei suoi alleati nel FMI.

Comunque il mondo non è fattosolo di organismi internazionali e difinanze. Esiste la questione della famee della sicurezza alimentare. Nelle riu-nioni fra ministri dell’agricoltura ilBRICS ha suggerito un Piano diAzione per la Cooperazione Agricola2012-2016. Esso ha lo scopo di incide-re nelle aree del BRICS stesso, nellequali esistono popolazioni vulnerabili,garantendo accesso all’alimentazione, edi realizzare studi e adattamenti tecno-logico che mitighino le conseguenzeche i cambiamenti climatici avrannosull’agricoltura. Questo sforzo puòrisultare molto significativo se si pren-de in considerazione la massa di popo-lazione che abita in questi paesi.Questo è solo un esempio, dalmomento che attualmente vengonorealizzati incontri periodici settorialiper affrontare congiuntamente un’am-pia gamma di problemi.

Il 29 marzo 2012 si è tenuto aNuova Delhi il quarto vertice annualedei capi di stato e di governo delBRICS: Dilma Rousseff del Brasile,Dmitri Medvedev della Russia, HuJintao della Cina, Jacob Zuma delSudafrica e l’ospite, il primo ministroindiano Manmohan Singh; presentianche numerosi ministri.

Apparentemente si tratta di un orga-nismo impossibile, dal momento che ipaesi che lo compongono sono lonta-ni per geografia, storia, cultura, sistemisociali, lingue… Eppure esso è riusci-to a fare grandi passi in questo brevetempo di vita. Senza alcun dubbio èstata di lievito e incentivo la crisi siste-mica del capitalismo che ha colpito gliStati Uniti e soprattutto l’Europa.

I paesi del BRICS rappresentano il40% della popolazione del pianeta,dovranno generare un terzo della cre-scita economica mondiale nei prossimianni e coprire il 23% della produzionecomplessiva nel 2015. E tutto indicache continueranno a crescere almenofino al 2025.

Chiaramente il punto centrale che liunifica è il desiderio di modificare lacorrelazione di forze mondiali, ancoratenuta nelle mani degli USA e dei suoipiù prossimi alleati, cioè l’Europa dellaNATO. Essi propongono un nuovo

QUALE IL PESO DEL “BRICS” NELNOSTRO FUTURO?

Difficile riuscire a capire, e magari a preve-dere, che cosa ci riservino gli anni a venire,

nei vortici di tensioni che attraversano ipopoli in questo inizio di XXI secolo.

Ci perdiamo dietro a minuzie, notizie fram-mentarie, in un oceano di numeri che crea

più nebbia che illuminazione.

di JOSÈ LUIZ DEL ROIO

Questo grafico appare sommamente indicativo della divaricazione degli andamenti produttivi tra le tre principali economie sviluppate del pianeta

e quella del principale paese BRICS, la Cina.

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I rappresentanti dei cinque paesiavevano congiuntamente preparatouna relazione di 204 pagine dal titolo“Brics by Brics”, identificando 13 areenelle quali le relazioni potevano essereincrementate. Dopo un giro di oriz-zonte sull’attuale situazione internazio-nale, in pratica sono state accolte leproposte della relazione. Esse, fonda-mentalmente, riaffermano posizionigià note. Rifiuto di sanzioni control’Iran, accusando l’Occidente di essereresponsabile dell’aumento dei prezzidel petrolio, volendo boicottare il com-mercio di questo bene da parte diTeheran; appoggio alla missione diKofi Annan in Siria e opposizioneall’ingerenza militare straniera in que-sto paese; critiche pesanti alle politicheeconomiche degli Stati Uniti e dellaBanca Centrale Europea. In particola-re si sottolinea che la BCE inonda ilpianeta di capitali, senza indirizzarliverso la produzione e verso la soluzio-ne dei problemi dei popoli europei.Così questi capitali diventano solo spe-culativi, alla ricerca di terreni fertili perla propria riproduzione allargatasoprattutto nei paesi emergenti. Unadelle conseguenze è la valorizzazionedi monete quali il real e il rublo, ciò checrea intralci alle esportazioni di Brasilee Russia, mentre facilita l’ingresso dei

Credo che sia inutile sottolinearel’importanza e le conseguenze globaliche ci saranno se queste misure fun-zioneranno.

E’ ancora necessario accennare aduna decisione che potrà avere il suopeso: lo sforzo del BRICS per operarecongiuntamente alla riunione Rio+20che si terrà a giugno prossimo inBrasile. Ad essa oltre 80 capi di stato edi governo hanno annunciato la loropartecipazione.

Ed infine un’annotazione curiosa,che viene dal fondo della storia. SanPaolo in Brasile e Mumbai in Indiasono metropoli che sono state fondateentrambe dai portoghesi nel 1554. Ilusitani diedero vita ad una linea dinavigazione che legava l’India alBrasile, servendo gli interessi del loroimpero coloniale. Dilma Rousseff eManmohan Singh hanno firmatoaccordi per ridare vita a tale linea, oracon la finalità di attivare canali perma-nenti di scambio.

prodotti dei paesi a capitalismo maturonei mercati emergenti. In realtà il tonodiplomatico è stato soave, ma lasostanza ha rivelato una totale diver-genza su tutti i punti rispetto allavisione dominante nei governi degliUSA e dell’Europa-Nato.

Sul piano “interno” del BRICS leprincipali decisioni sono state di creareun gruppo di lavoro per porre in tempirapidi le basi affinché tutto l’interscam-bio commerciale, di credito e investi-mento fra i suoi cinque paesi avvenganelle monete nazionali, cioè rupia, real,rublo, renminbi, rand. Ecco dunque le“cinque r” che in un futuro non lonta-no potranno creare problemi moltoseri al dollaro e all’euro e scuotere unavolta di più il sistema finanziario mon-diale, così come esso è attualmente.

Allo stesso tempo verranno poste lebasi per la creazione di un BancoBRICS per lo sviluppo. Su propostadel Brasile, la sua funzione principalesarà il finanziamento di progetti comu-ni per lo sviluppo del consumo e delrisparmio interno, con ridistribuzionedel reddito come motore della crescitaeconomica. Secondo le previsioni, essodovrà cominciare a funzionare nel2014.

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Papa Benedetto XVI non haperso l’occasione per invitareCuba ad abbandonare comu-

nismo e marxismo. E’ dichiarato aper-tamente da Benedetto XVI che sia laChiesa cattolica, nelle figure della suagerarchia e di quella del papa sopratutte le altre, la portatrice di ogni veri-tà e delle terapie per curare i mali delmondo: ed è questo un dogma arro-gante e superstizioso che, proprio per-ché tale, reagisce con riflesso distrutti-vo a qualsiasi apparato di idee che sibasi sulla libertà di critica e sulla lottaper l’emancipazione degli esseri umanida ogni oppressione, materiale comeintrodotta nelle forme del pensiero.Ciò che da oltre un secolo accade almarxismo da parte della gerarchia vati-cana è solo l’ultimo momento di unastoria che condannò al rogo altri cri-stiani perchè “eretici” e GiordanoBruno, obbligò all’abiura dei risultatidelle sue ricerche astronomicheGalileo Galilei, scomunicò illuministi,liberali e democratici, barricò Romacontro l’unità dell’Italia. La pretesa diBenedetto XVI, se attendibile, dovreb-be avere a verifica l’adesione crescentedi immense masse alla Chiesa cattolicae segnatamente alla sua gerarchia. Tra imotivi della visita di Benedetto XVI cistanno invece gli abbandoni di massadi questa chiesa, spesso verso altreconfessioni cristiane, proprio in quelleparti del mondo dove il cattolicesimo èstato più influente: America latina,molti paesi dell’Africa, Filippine.

La ragione di ciò è molto semplice:la svolta reazionaria fondamentalista diPapa Giovanni Paolo II, di cuiBenedetto XVI, allora JosephRatzinger, fu il braccio armato delleepurazioni contro quei sacerdoti e queivescovi latino-americani che avevanooperato per unire la Chiesa cattolica a

tale nevrotizzante dell’impossibilitàper i sacerdoti di rapporti sessuali nor-mali, eterosessuali od omosessuali chesiano, nel quadro del matrimonio o noche sia.

Certo Cuba registra il fallimentosostanziale del “modello” socialista dimatrice stalinista recuperato all’UnioneSovietica, autoritario, burocratico, inef-ficiente: ma tenta di cambiarne gli ele-menti caduchi o errati, non già diabbandonare il socialismo. E quindi ilmarxismo. Così come al socialismo e almarxismo, innovati ma tali, si richia-mano i governi di sinistra latino-ameri-cani. Le prese di posizione anticomu-niste e antimarxiste di Benedetto XVInon sono perciò altro che la continua-zione della sua guerra arcaica, sostan-zialmente dal lato dei potenti, contronon solo credenti che la pensano altri-menti ma la povera gente latino-ameri-cana che tenta di emanciparsi; il tuttocome parte di un tentativo vano diinvertire la crisi nel mondo dell’assolu-tismo vaticano sui credenti cattolici.

Ciò non toglie che l’obiettivo direcuperare in America latina consensoal cattolicesimo obblighi BenedettoXVI (come già 14 anni fa obbligòGiovanni Paolo II) a esprimersi pole-micamente contro l’embargo statuni-tense a danno di Cuba (analogamente,contro le mafie armate nel Messicolaico). Bene dunque hanno fatto efanno i dirigenti cubani a costruire dia-logo con i papi. Ciò inoltre serve aconsolidare a Cuba quel rapporto trapotere e masse credenti, a cui compa-gni come Giulio Girardi diedero a suotempo un grande contributo, convin-cendo il potere a sostituire nellaCostituzione cubana l’ateismo di statocon la sua laicità, e ad aprire il PartitoComunista anche ai credenti.

povera gente delle baraccopoli, conta-dini, braccianti, operai, disoccupati,aiutandoli a organizzare sindacati elotte per bisogni e diritti elementari,contro la violenza delle bande armatedegli agrari, delle polizie, delle organiz-zazioni paramilitari, delle dittaturemilitari di estrema destra. E fu braccioarmato, Benedetto XVI, dell’epurazio-ne delle libere voci anti-integriste inseno alla Chiesa cattolica, che percor-revano nuove vie della ricerca filosofi-ca al servizio della liberazione delle vit-time, portando al marxismo contributiessenziali come i diritti umani e le cate-gorie di autonomia della persona e diautonomia delle relazioni in cui gliesseri umani in più forme si legano,così come alla definizione di unaforma evoluta di democrazia socialista,quella che i marxisti latino-americani,al governo ormai di molti stati, chia-mano “democrazia partecipativa”.Infine fu e continuerà a essere braccioarmato Benedetto XVI di quanti inseno alla Chiesa cattolica chiedevanoun atteggiamento ribaltato, non piùrepressivo, non più basato su pregiudi-zi e ossessioni medioevali e su unmachismo insopportabile, nei con-fronti di divorziati e persone omoses-suali, così come il riconoscimento deidiritti delle donne a vivere la propriavita secondo le proprie attese, a gestireesse la natalità, a essere eguali agliuomini nella stessa Chiesa. Persino lacontraccezione era entrata nel mirino.Le centinaia di migliaia di bimbi siero-positivi effetto di questo veto nei paesipiù poveri sono cosa risaputa. Ad ali-mentare infine gli abbandoni dellaChiesa cattolica è venuta l’esplosionedello scandalo della pedofilia in senoalle sue istituzioni, tremendamente dif-fusa, a cui la gerarchia vaticana propo-ne come rimedio… la causa del malestesso: l’imposizione inumana e come

IL PESSIMO PULPITO DI UNA PESSIMAPREDICA.Benedetto XVI inAmerica latina

L’occasione della visita di fine aprile di PapaBenedetto XVI in Messico e a Cuba ci offre

l’attualizzazione, per così dire, di un atto cheGiulio Girardi, nostro compagno per tanti anni,assieme ad altri sacerdoti o esponenti del cat-

tolicesimo collocato dalla parte delle vittime delcapitalismo, in Occidente e nella periferia capi-talistica, effettuarono a fine 2009: la critica del-l’intenzione, poi realizzata, della beatificazione

di Papa Giovanni Paolo II.

di L. V.

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Giulio Girardi e altri

LA BEATIFICAZIONE DIGIOVANNI PAOLO II:

APPELLO ALLA CHIAREZZAPer l’Ufficio di postulazione

della causa, Vicariato di Roma

L’apertura ufficiale, il 28 giugno2005, della causa di beatificazione diGiovanni Paolo II, sollecita tutti i cat-tolici, uomini e donne, che si sentonopartecipi e responsabili della vita dellaloro Chiesa, ad inviare le loro testimo-nianze sulle opere del Romano ponte-fice scomparso il 2 aprile.

Come è stato correttamente annun-ziato, possono essere inviate, all’ufficiocompetente del Vicariato di Roma, siatestimonianze a favore che testimo-nianze contrarie alla glorificazione diKarol Wojtyla, purché tutte siano fon-date su dati obiettivi.

Tenendo peraltro conto dellasovraesposizione mediatica che si èverificata, non sempre per motivi spiri-tuali, durante gli ultimi giorni dellamalattia del papa e in occasione del suodecesso, ci sembra opportuno propor-re dei riferimenti a quelle donne euomini cattolici che – senza voler igno-rare naturalmente gli aspetti positividel suo pontificato, come l’impegnoper la pace o il tentativo di ammetterele colpe storiche dei figli e figlie dellaChiesa nel passato; senza negare aspet-ti virtuosi della sua persona; e senzavolerne giudicare l’intima coscienza –danno però una valutazione per moltiaspetti negativa del suo operato comepapa. Perciò, con questo appello invi-tiamo tali persone a superare la ritrosiae la timidezza, e ad esprimere formal-mente, con libertà evangelica, fatti che,secondo le loro conoscenze e i loroconvincimenti, dovrebbero essered’ostacolo alla beatificazione.

Le/i firmatari del presente appelloritengono che, rispetto al pontificato diGiovanni Paolo II, si debbano critica-mente valutare, in particolare, i seguen-ti punti:

1° - La repressione e l’emarginazio-ne esercitate su teologi, teologhe, reli-giose e religiosi, mediante interventiautoritari della Congregazione per ladottrina della fede.

2° - La tenace opposizione a ricon-

7° - L’isolamento ecclesiale e fattua-le in cui la diplomazia pontificia e laSanta Sede hanno tenuto mons. OscarArnulfo Romero, arcivescovo di SanSalvador, e l’improvvida politica didebolezza verso governi – dal Salvadorall’Argentina, dal Guatemala al Cile –che in America latina hanno persegui-tato, emarginato e fatto morire laici,uomini e donne, religiose e religiosi,sacerdoti e vescovi che coraggiosa-mente denunciavano le «strutture dipeccato» dei regimi politici dominantie dei poteri economici loro alleati.

Con spirito ecclesiale,

Jaume Botey, teologo e storico,Barcellona; José María Castillo, teolo-go, San Salvador; GiancarlaCodrignani, saggista, Bologna; RosaCursach, teologa, Palma de Mallorca;Casiano Floristán, teologo,Salamanca; Giovanni Franzoni, teolo-go, Roma; Filippo Gentiloni, giorna-lista e scrittore, Roma; Giulio Girardi,teologo, Roma; Martha Heizer, teolo-ga, Innsbruck; Casimir Martí, teologoe storico, Barcellona; Ramon MariaNogués, teologo, Barcellona; JoséRamos Regidor, teologo, Roma;Juan José Tamayo, teologo, Madrid;Adriana Zarri, teologa, Ivrea; VittorioBellavite (per “Noi Siamo Chiesa”)

Roma, 28 dicembre 2009

siderare – alla luce dell’Evangelo, dellescienze e della storia – alcune normati-ve di etica sessuale che, durante unpontificato di oltre 26 anni, hannomanifestato tutta la loro contradditto-rietà, limitatezza e insostenibilità.

3° - La dura riconferma della disci-plina del celibato ecclesiastico obbliga-torio nella Chiesa latina, ignorando ildiffondersi del concubinato fra il clerodi molte regioni e celando, fino a chenon è esplosa pubblicamente, la deva-stante piaga dell’abuso di ecclesiasticisu minori.

4° - Il mancato controllo su mano-vre torbide compiute in campo finan-ziario da istituzioni della Santa Sede, el’impedimento a che le Autorità italia-ne potessero fare piena luce sulle oscu-re implicazioni dell’Istituto per leopere di Religione (Ior, la banca vatica-na) con il crack del BancoAmbrosiano.

5° - La riaffermata indisponibilitàdel pontefice, e della Curia da lui gui-data, ad aprire un serio e reale dibatti-to sulla condizione della donna nellaChiesa cattolica romana.

6° - Il rinvio continuo dell’attuazio-ne dei princìpi di collegialità nel gover-no della Chiesa romana, pur cosìsolennemente enunciati dal ConcilioVaticano II.

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agricoltura e mondializzazione

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Questa pratica non permette-va agli esseri umani, giàpresenti in tutto il Pianeta,

di superare la dimensione di qualchemilione di abitanti; l’agricoltura faràcrescere questo numero nel corso deimillenni fino a centinaia di milioni,prima della rivoluzione industriale.L’origine dell’agricoltura va collocataindipendentemente in più aree dellaTerra: anzitutto la Mezzaluna fertile(cioè l’area mediorientale compresa traIran, Turchia orientale e Palestina), epoi l’India, la Cina, la Mesoamerica(Messico e America centrale) e le Ande(e forse altre regioni, come l’Etiopia, ilSahel, l’area sud-orientale del NordAmerica, l’Amazzonia, la NuovaGuinea).

L’agricoltura industriale e la “rivo-luzione verde”

Dopo la rivoluzione industriale, si ècercato sia di aumentare la superficiecoltivata, conquistando nuove terre, siadi aumentarne la resa produttiva perettaro, impiegando altre fonti di ener-gia, soprattutto fossile, oltre quellasolare (fotosintesi) e animale (trazio-ne).

La “rivoluzione verde”, come è statachiamata l’industrializzazione dell’agri-coltura avvenuta il secolo scorso, hacomportato oltre ad un incremento diproduttività anche un notevole aumen-to dei consumi di acqua e di energia,non di origine solare, ma fornita daicombustibili fossili sotto forma di fer-tilizzanti, pesticidi, irrigazione e tra-sporti, alimentati da idrocarburi.Secondo Giampietro e Pimentel(1993) la “rivoluzione verde” haaumentato in media di 50 volte il flus-so di energia rispetto all’agricoltura tra-dizionale e nel sistema alimentare degliStati Uniti sono necessarie fino a 10calorie di energia fossile per produrre

persona è cresciuta del 24%. Ma nel1960 si stimava che - in tutto il mondo- ci fossero 80 milioni di persone chesoffrivano la fame, mentre nel 2006sono diventate 880 milioni e nel 2009gli affamati nel mondo hanno superatoil miliardo, secondo i dati della FAO.

Fino al 1960 la maggioranza deipaesi era autosufficiente nella produ-zione di alimenti per i propri popoli,tranne alcune regioni dell'Africa congrandi problemi climatici, oggi, il 70%dei paesi dell'emisfero sud sonoimportatori di alimenti.

Dunque il cibo non manca, ma èdistribuito in modo non equo: se unmiliardo di persone soffre la fame,altrettante consumano molto più delnecessario, andando incontro a proble-mi di obesità e malattie metabolichelegate all’eccessivo consumo di cibo,soprattutto di origine animale.

Come afferma Vandana Shiva: “Lamaggiore resa dei prodotti agricoliindustriali si basa sul furto del cibo, aidanni delle altre specie e dei poverirurali del Terzo mondo. E questo spie-ga perché da una parte si producono esi commerciano più cereali a scala glo-bale, e dall’altra cresce nel Terzomondo il numero delle persone chehanno fame. Sul mercato globale, imercati hanno più merci da scambiare,perché il cibo è stato rubato ai poveri ealla natura”.

Tipi di agricoltura

Attualmente le diverse modalità diagricoltura presenti nelle varie parti delmondo possono essere riassunte in tretipi: l’agricoltura commerciale, l’agri-coltura di sussistenza e l’agricoltura dipiantagione. Se la produzione agricolaè destinata al consumo diretto, familia-re o comunque locale, si ha un'agricol-tura di sostentamento o di sussistenza,

una caloria di cibo consegnato al con-sumatore. Ciò significa che il sistemaalimentare statunitense consuma diecivolte più energia di quanta ne producasotto forma di cibo o, se si vuole, cheutilizza molta più energia fossile diquella che deriva dalla radiazione sola-re. Ma i maggiori consumi di energia eacqua riguardano la produzione di pro-dotti animali, soprattutto negli alleva-menti intensivi, dove gli animali sonoalimentati con mangimi a base di soia emais, spesso OGM. I mangimi impie-gati per ottenere una porzione di carnecorrispondono ad una quantità dicereali e legumi sufficienti per alimen-tare 8-10 persone. Se tutta l’umanitàvolesse consumare la stessa quantità dicarne pro capite degli Stati Uniti odell’Europa, occorrerebbe avere adisposizione una superficie doppia otripla di quella del pianeta Terra, daadibire tutta a pascolo e a coltivazionidi cereali.

Non si deve credere, però, che l’in-cremento di cibo ottenuto nel secoloscorso grazie alla “rivoluzione verde”,abbia risolto i problemi della fame odel sottosviluppo. Già nel 1981 LeMonde Diplomatique nel suo Dossier n. 8“Ricchezza e Fame” notava che “larivoluzione verde e l’applicazione dimodelli industriali di sfruttamentodella terra erodono le basi di sussisten-za autonoma di milioni di contadini,costringendoli ad emigrare verso lenuove megalopoli del terzo mondo”, esi chiedeva “ è la premessa di unanuova rivoluzione industriale o il per-petuarsi, sotto nuove forme, del sotto-sviluppo?”.

Dal 1960, quando ha incominciato adiffondersi la rivoluzione verde, la pro-duzione di cereali nel mondo è aumen-tata di 3 volte, mentre la popolazionemondiale è cresciuta poco più di 2volte, e la disponibilità di alimenti per

L’AGRICOLTURANEL MONDO

L’agricoltura è una tecnica nata oltre 10.000anni fa in grado di garantire alle popolazioni

umane più cibo a parità di territorio. In prece-denza i raccoglitori-cacciatori dovevano utiliz-zare un’area molto ampia per trovare bacche,frutti, radici e qualche animale da cacciare in

quantità sufficiente da sfamare una tribùnomade di piccole dimensioni.

di GIANNI TAMINO

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agricoltura e mondializzazione

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condotta con tecniche tradizionali enon molto produttiva. Quando, invece,la produzione è destinata al mercato siha un'agricoltura commerciale, il cuifine è produrre per vendere e massi-mizzare i profitti.

L’agricoltura commerciale, fondatasu tecniche avanzate e di tipo indu-striale, è presente soprattutto nelleparti ricche e industrializzate delmondo. I proprietari terrieri produco-no vari prodotti (soprattutto cereali esoia) a costi tendenzialmente bassi econ basso utilizzo di mano d’opera.

L’agricoltura di sussistenza è pre-sente soprattutto nel Sud povero delmondo, dove i contadini hanno pocaterra, non hanno macchine per lavo-rarla e producono solo quanto bastaper la loro famiglia; in questo tipo diagricoltura, che coinvolge l’intera fami-glia, l’agricoltore e i suoi famigliariconsumano direttamente quanto pro-ducono. Si tratta sostanzialmente diun’economia chiusa e chi la praticavive in una situazione di equilibrio pre-cario: basta infatti una calamità natura-le come una siccità prolungata, pioggeeccessive, un’invasione di cavalletteperché l’equilibrio si spezzi e se il rac-colto va perso è la carestia, la fame.

L’agricoltura di piantagione èanch’essa presente nel Sud del mondo,ma per produrre prodotti tropicalimolto usati nei paesi ricchi (caffè,cacao, banane). È moderna e ricca, mai guadagni non sono dei contadini, madelle grandi imprese, spesso multina-zionali, che hanno la terra e che prati-cano una monocoltura intensiva suvasti spazi. I prodotti sono destinati aimercati d'esportazione, perpetuandocosì un legame commerciale di tipocoloniale. Come afferma Emrys Jones(Enciclopedia delle Scienze Sociali,Treccani) all’origine “si tratta comun-que di una forma di agricoltura pratica-ta esclusivamente nelle zone tropicali esu vasta scala, che comporta un certotrattamento del prodotto. Il suo carat-tere 'intrusivo' dipende dal fatto cheessa viene organizzata da un'autoritàstraniera e implica l'assoggettamentodella popolazione indigena: il control-lo, da parte degli occidentali, dellesocietà tribali”.

Questo sistema agricolo nascondegravi rischi per i paesi che lo praticano:anzitutto la monocoltura impoverisce i

re al massimo la fertilità dei suoli ed hacome fine le alte rese per ettaro.Nell'agricoltura estensiva le rese perettaro sono modeste e gli incrementi diproduzione sono sostenuti dal conti-nuo aumento delle aree coltivate.

Vanno poi considerate le diverseforme di organizzazione della proprie-tà fondiaria. Una prima distinzionepuò essere fatta fra le terre di proprie-tà privata, presenti nelle economie dimercato, e quelle di proprietà collettivaa struttura tribale o comunitaria pre-senti in numerosi paesi del terzomondo.

La produzione agricola

La produzione mondiale di cereali(Tilman et al., Nature, 2002) tra il 1960e il 2000 è sempre cresciuta, ma a par-tire dal 1980 questa crescita è divenutapiù lenta fino a stabilizzarsi nell’ultimodecennio, mentre il consumo di ferti-lizzanti azotati e di acqua è cresciutocostantemente come la produzione el’importazione di pesticidi. Ciò signifi-ca che per mantenere costante la pro-duzione agricola si consuma semprepiù prodotti chimici di origine fossile(fertilizzanti, pesticidi e combustibiliper irrigazione e trasporti).

Non stupisce dunque che l’anda-mento dei prezzi dei cereali segua quel-lo del petrolio, con gravi problemi col-legati alle impennate dovute alla crisieconomica in atto e alle speculazionitramite i contratti “futures” sui cerealistessi (cioè acquistando ora per avere icereali fra vari mesi, sperando nell’au-mento del loro valore); questo tipo dicontratti è cresciuto esponenzialmentenegli ultimi 15 anni. Così si è avutaun’impennata dei prezzi tra il 2007 e il2008, seguita da una repentina caduta esuccessivi aumenti e diminuzioni, chehanno reso incerto sia il reddito degliagricoltori che il prezzo finale dei pro-dotti derivati. In particolare il recenteaumento del costo dei cereali, che hafatto lievitare il prezzo del pane, hainnescato la rivolta in Egitto.

Negli ultimi anni la produzione dicereali è passata (in milioni di tonnella-te, sulla base dei dati FAO e del GrainMarket Report) da 2.241 nel periodo2008/2009, a 2.224 nel 2009/2010, perpassare a 2.256 2010/2011: in pratica èrimasta costante.

suoli, crea dipendenza nei confrontidei fertilizzanti di sintesi ed accelera iprocessi di erosione, in particolare inambienti fragili quali gli ambienti tropi-cali. Inoltre le multinazionali sottrag-gono i terreni migliori alle comunità divillaggio, che praticano un'agricolturadi sussistenza, e tendono ad allargare laloro frontiera agricola in misura diret-tamente proporzionale alle richiestedel mercato ed alla caduta in fertilitàdei suoli.

L'agricoltura nei paesi del terzomondo è spesso caratterizzata da unaeconomia a più facce, dove l'agricoltu-ra di sussistenza si contrapponeall’agricoltura di piantagione e di mer-cato, organizzata in forma di monocol-tura speculativa, dove la piccola pro-prietà deve confrontarsi con la grandeproprietà terriera e la produzioneinterna è minacciata dai prodottiimportati. La presenza, in uno stessopaese, di due sistemi agricoli cosìdiversi quali la piantagione e l'agricol-tura di sussistenza innesca pericoloseconflittualità, a causa delle quali leaziende agricole familiari sono semprepiù in difficoltà. Le immense proprietà,eredità della conquista coloniale, sonosfruttate al di sotto delle loro potenzia-lità da proprietari che hanno a disposi-zione un'abbondante manodopera abasso costo. Spesso i contadini “senzaterra” sono costretti, per necessità, adindebitarsi ed alla fine si trovano obbli-gati a lavorare per numerosi anni senzasalario: rinasce così una nuova formadi schiavitù, la “schiavitù per debito”.

Oltre e all’interno dei tre principalitipi di agricoltura distinguiamo ancheforme di coltivazione basate o sullamonocoltura o sulla policoltura. Nelprimo caso la specializzazione coltura-le è estrema, su vasti spazi domina lacoltivazione di una sola specie, solita-mente praticata in maniera estensiva.Nel secondo caso invece, anche nel-l’ambito di una stessa azienda, siriscontra una varietà di colture più omeno forte. I paesaggi policolturalidanno inoltre origine alle colture pro-miscue nel caso in cui su un appezza-mento di terreno coesistano due o piùspecie diverse; un tipico esempio diagricoltura promiscua è dato dalla tra-dizionale agricoltura mediterranea.

Un’altra distinzione va fatta tra agri-coltura intensiva ed estensiva.L'agricoltura intensiva tende a sfrutta-

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Per avere un confronto con il passa-to si può ricordare che la produzione èstata (sempre in milioni di tonnellate),932 nel 1961 (all’inizio della rivoluzio-ne verde) e 2.244 nel 2005, più o menoi valori riscontrati negli anni successivi.Analogamente la produzione del solofrumento tra il 2004 e il 2009 è statarispettivamente di 633, 629, 606, 607,683, 682 milioni di tonnellate, mentrenel 1961 era di 223 milioni di tonnella-te.

In Italia, nel periodo tra il 1999 e il2009, il frumento ha avuto produzionioscillanti tra un minimo nel 2003 e unmassimo nel 2008 (rispettivamente 6,2e 8,9 milioni di tonnellate), partendoda 7,3 nel 1999, per tornare a 6,3 nel2009.

Le prospettive per il futuro nonsono rose, infatti la Coldiretti riportavanel 2009, sulla base di dati ONU, cheun quarto della produzione alimentaremondiale potrebbe andar perso entro il2050 per l'impatto combinato del cam-biamento climatico, degrado dei suoli,scarsità di acqua e specie infestanti.

Va inoltre ricordato che, secondo laFAO, il 36% di tutti i cereali prodotti almondo viene impiegato per nutrire glianimali da carne e da latte, con diffe-renze che vanno dal 4% in India, al25% in Cina, al 65% negli Stati Uniti.Un ettaro coltivato a soia produce1.800 chili di proteine vegetali, lo stes-so terreno adibito a pascolo e alleva-mento produce appena 60 chili di pro-teine animali. In Italia oltre il 95% delmais prodotto serve a produrre mangi-mi.

Ruolo delle multinazionali

Per capire il ruolo delle multinazio-nali, di cui si è già accennato a propo-sito dei diversi tipi di agricoltura, valela pena di fare il caso della più impor-tante di queste aziende, la Monsanto.Si tratta di un’industria statunitenseche si è affermata un secolo fa comeindustria chimica, e, dopo la secondaguerra mondiale, ha messo a profittotale esperienza producendo defolianti(l’agente “orange”), utilizzati nellaguerra in Vietnam. Finita la guerra, hariciclato la tecnologia bellica in tecno-logia agricola ed ha iniziato a produrrediserbanti e pesticidi in genere. Il busi-ness agricolo era così conveniente(grazie alla “Rivoluzione Verde”), che

pianeta. Le multinazionali biotecnolo-giche stanno brevettando geni di pian-te utilizzate nella medicina e nell’agri-coltura tradizionali, senza coinvolgere ipopoli che per secoli hanno utilizzatoqueste piante: siamo di fronte ad unavera azione di “biopirateria” dei geni,che dovrebbero essere patrimonio col-lettivo dell'umanità.

Se si pensa che tre piante (riso, fru-mento e mais) rappresentano oltre il50% della produzione agricola mon-diale, qualora una multinazionale riu-scisse a brevettare queste tre piante,potrebbe avere un potere di controlloe di ricatto non solo economico maanche politico su tutto il pianeta. LaMonsanto sta già controllando il mer-cato del mais e sta cercando di brevet-tare piante di riso e di frumento, men-tre oltre il 50% di tutti i brevetti con-cessi negli USA appartengono a treaziende (Monsanto, DuPont eSyngenta).

Agricoltura e lavoro

La meccanizzazione dell’agricolturaha provocato nei paesi industrializzatiuna forte riduzione degli occupati, pas-sati da circa 117 a 48 milioni. Nei paesimeno sviluppati, invece, dove lamodernizzazione è meno diffusa emaggiore è la crescita demografica, ilnumero di addetti è raddoppiato (dacirca 700 milioni a 1,3 miliardi). Neipaesi poveri le attività agricole impie-gano la maggior parte della popolazio-ne attiva (l’85% nell’Africa sub-saha-riana), che pratica soprattutto un’agri-coltura tradizionale di sussistenza,destinata a soddisfare il fabbisogno ali-mentare delle famiglie contadine.

Nei paesi più sviluppati l’agricolturaoccupa una piccola percentuale dipopolazione attiva (dall’1 al 5%) e noncostituisce la principale fonte di reddi-to. L’agricoltura di sussistenza è scom-parsa ed esiste solo un’agricoltura dimercato, in cui le coltivazioni sono rea-lizzate da aziende agricole che vendo-no i propri prodotti sui mercati nazio-nali e mondiali. Le colture sono orga-nizzate, come già detto, in base amodelli industriali: le aziende produco-no grandi quantità di una o di pochepiante agricole utilizzando molti mac-chinari, prodotti chimici, sofisticatisistemi di irrigazione. In Italia all’iniziodel secolo scorso la situazione era simi-le a quella descritta per l’agricoltura di

acquisisce le industrie sementiere percreare un unico comparto agro-chimi-co-sementiero. Negli anni ’80 del seco-lo scorso acquisisce anche le aziendebiotecnologiche e realizza sementiOGM brevettate, resistenti ai propriprodotti chimici. Così il ciclo è chiusoe il diritto dei popoli ad utilizzare leproprie sementi e prodursi il propriocibo, viene subordinato agli interessi eai profitti della multinazionale.

Gli OGM (o piante transgeniche)sono l’ultimo capitolo della rivoluzioneverde, partita con la chimica ed appro-data alle manipolazioni genetiche dellepiante. Molte ricerche hanno eviden-ziato rischi per l’ambiente e per la salu-te derivati dall’utilizzo di OGM, ma lalobby delle aziende che produconoorganismi transgenici hanno adottatostrategie di propaganda indirizzate anascondere o sopprimere la verità, uti-lizzando in modo scorretto fonti d'in-formazione che ispirano fiducia e dif-fondendo un'informazione distorta enon obiettiva con l'intento di cambiarel'opinione pubblica e far sì che i legisla-tori favoriscano l'interesse dell'indu-stria. Non è affatto vero, come qual-che volta si afferma, che l'alternativaalle coltivazioni transgeniche è l’uso dipesticidi. Anzi uno dei prodotti agrico-li transgenici più diffusi è la soia che èstata modificata geneticamente dallaMonsanto per essere resistente ad unamaggiore quantità del proprio pestici-da “roundup” (ad oggi oltre l’80%delle piante transgeniche coltivatesono tolleranti ad un erbicida). Le mul-tinazionali biotecnologiche voglionofar credere che gli OGM salveranno lepopolazioni dalla fame. Peccato che inArgentina nel 2002 in piena crisi dadefault, mentre i bambini morivano difame, le multinazionali esportavano inEuropa la soia transgenica prodotta inquel paese, per farne mangimi.

Ma ancor più pesante può essere ilcondizionamento attuato dalle aziendebiotecnologiche grazie alle norme bre-vettuali. Con il termine “brevetto bio-tecnologico” si intende la protezionecommerciale sia di un organismo gene-ticamente modificato, che delle tecni-che per ottenerlo e riprodurlo, maanche di geni utilizzati per ottenere ilnuovo organismo. In tal modo tutti ipaesi più ricchi del pianeta possono,grazie alle loro tecnologie e alle normesui brevetti impadronirsi del patrimo-nio genetico di tutti gli organismi del

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sussistenza: su 33 milioni di abitanti,gli addetti all’agricoltura rappresenta-vano il 44% della popolazione attiva.Ancora nel 1940, in conseguenza dellapolitica autarchica, nel mezzogiornogli addetti all’agricoltura erano più del60%. Nell’ultimo dopoguerra in tuttaItalia gli occupati in agricoltura rappre-sentavano il 42% della popolazioneattiva e nel ’60 erano ancora il 29%,mentre nel 1971 erano scesi al 17%.

Nell’ultimo decennio l’occupazionein agricoltura (compresi silvicoltura epesca) era rispettivamente del 4,9% nel1999 e del 3,9% nel 2009 (INEA, rap-porto sullo stato dell’agricoltura 2010),con netta prevalenza di occupati al sude isole (poco meno della metà degli874.000 occupati); tuttavia a questivanno aggiunti gli stagionali (raramen-te in regola, emersi in parte solo recen-temente, con l’utilizzo dei voucher) siaitaliani, ma soprattutto stranieri:L’ISTAT calcola che gli irregolariammontino a oltre il 35% del totaledegli addetti del settore.

Problemi sociali e ambientali postida un’agricoltura globalizzata

Il settore agricolo sta oggi vivendo,a causa della crisi, una fase di intensapressione, che si sta traducendo in unaprogressiva compressione dei redditi,che in alcuni settori sta mettendo arischio la continuità di ampie fasce diimprenditorialità agricola. La fotogra-fia scattata dall’Eurostat segnala per il2009 una diminuzione dei redditi agri-coli per unità lavorativa pari all’11,6%rispetto all’anno precedente. Riduzioniche si sono rivelate sensibili soprattut-to in alcuni contesti come Ungheria (-32,2%), Italia (-20,6%), Germania (-21%) e Francia (-19%).

La politica agricola comunitaria(PAC) ha favorito le grandi aziende,soprattutto del nord Europa, penaliz-zando l’Italia, caratterizzata da piccoleaziende con pochi addetti; solo 1/3delle nostre aziende presenta una red-ditività reale soddisfacente in quantouguale o superiore alle remunerazioniottenibili in occupazioni alternative.

L’Italia, inoltre, dipende sempre piùdall’importazione di prodotti agricoli;ad esempio per il grano duro, di cui èimportante produttrice, dipende dal-l’estero per un terzo dei circa 6 milionidi tonnellate consumate; ciò dipende

blocco degli accordi in sede WTO, ènecessario pensare ad un futuro perl’agricoltura e per l’alimentazione delpianeta basati sulla sovranità alimenta-re, sulla difesa del suolo e sul pieno uti-lizzo della biodiversità disponibile. Ilsuolo agricolo e il cibo vanno conside-rati beni comuni, che devono esseregestiti direttamente dalle comunitàinteressate. Ma anche il sapere, com-presi i saperi contadini, sono benicomuni da difendere e da mantenereall’interno delle comunità.

Sempre più spesso i contadini chepraticano un’agricoltura di sussistenzain un’economia di villaggio, soprattut-to nel sud del mondo, vengono espro-priati delle proprie terre, per effetto diun processo di accaparramento (o landgrabbing). In Africa centrale, ad esem-pio, notabili locali si fanno dare, spes-so con l’inganno, terreni che apparte-nevano da sempre ai villaggi agricoli,dove la gente si sfamava coltivandomiglio e arachidi e allevando capre, perpoi rivendere queste terre a multina-zionali o a paesi stranieri, sia per estrar-re materie prime che per produrre bio-carburanti, mentre le popolazioni loca-li restano senza mezzi di sussistenza,costrette a migrare.

L’accaparramento massiccio diterre, praticato da stati terzi o da inte-ressi privati per acquisire cibo, energia,risorse minerarie e ambientali, maanche a fini speculativi o per interessigeopolitici, viola i diritti umani dei pro-duttori di cibo (comunità locali, indige-ne, contadine, pastorali o di pescatori)poiché limita la loro possibilità diaccesso alle risorse naturali, ne condi-ziona le scelte in materia di produzio-ne e aggrava le disuguaglianze di acces-so e controllo alla terra per le donne.

Il secondo aspetto, conseguenzadell’agricoltura globalizzata, è la perdi-ta di sovranità alimentare. Secondo ViaCampesina la sovranità alimentare è “ildiritto dei popoli a definire le propriepolitiche agricole e alimentari. Il dirittodi ogni nazione a mantenere e svilup-pare le sue capacità di produrre ali-menti di base, rispettando le diversitàculturali e produttive. Il diritto a pro-durre il proprio cibo sul proprio terri-torio”.

Il concetto di sovranità alimentarecontiene quello di sicurezza alimenta-re, inteso come la “possibilità/diritto

anche dalla volatilità dei prezzi, che,dopo improvvise crescite (che spingo-no i nostri agricoltori ad aumentare laproduzione), ha portato a valori pocoremunerativi, favorendo le importazio-ni. Siamo poi forti importatori di pro-dotti orticoli e di frutta, soprattutto“fuori stagione” rispetto all’Italia.Siamo, invece, esportatori di vino, main caso di crisi delle produzioni agrico-le mondiali, sarà difficile riconvertirequesto settore, per produrre alimentiessenziali, da consumare vicino alluogo di produzione.

La futura PAC, che partirà dal 2013,dovrebbe essere più attenta ai proble-mi della sostenibilità ambientale, socia-le ed economica; sulla base dei discor-si ufficiali del Commissario europeo, lanuova PAC dovrà essere pensata “perrispondere alle diverse agricolture checontraddistinguono il territorio allar-gato dell’Unione e dovrà conseguire gliobiettivi legati alla sicurezza alimenta-re, il cambiamento climatico, la prote-zione dei suoli e delle risorse naturali,la crescita economica delle aree rurali”(Ciolofl, 2010). Ma l’esperienza inse-gna che a Bruxelles hanno sempre pri-vilegiato l’agricoltura del nord Europarispetto a quella mediterranea e laquantità rispetto alla qualità.

Nello scenario dell’agricoltura euro-pea globalizzata, quella italiana mostrasempre più difficoltà, a fronte di unaconcorrenza estera (soprattutto extra-comunitaria) sempre più agguerrita edorganizzata. Anche per questo l’impre-sa agraria italiana, secondo uno studiodi Mazzarino e Pagella (2003), è tantopiù competitiva quanto maggiormenteriesce a contribuire al successo del pro-dotto finale, attraverso il controllodella qualità, e quanto più vantaggiosa-mente riesce a stabilire un rapportodiretto con il cliente, che diviene cen-trale per il successo dell’azienda. Tuttociò sta favorendo un’agricoltura soste-nibile come quella biologica (di cuil’Italia è il primo produttore inEuropa) e la filiera corta, attraverso lavendita diretta in azienda, i mercatinilocali e il rapporto con i Gruppi d’ac-quisto solidale (GAS).

Movimenti contadini per il dirittoalla terra e alla sovranità alimentare

Anche alla luce della attuale difficol-tà del processo di globalizzazione, evi-denziato dalla crisi finanziaria e dal

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di ogni Paese a produrre una quantitàsufficiente di alimenti, rendendoliaccessibili a tutti”. Ma la sovranità ali-mentare è qualcosa di più, perchéaggiunge il diritto a quale cibo, a comelo si produce, dove e per chi. In altritermini “La sovranità alimentare è ildiritto dei popoli a definire le propriestrategie sostenibili di produzione,distribuzione e consumo di cibo, chegarantiscano a loro volta il dirittoall’alimentazione di tutta la popolazio-ne”.

Sulla difesa del proprio territorio, difronte ad un crescente accaparramentodelle terre, e sul principio della sovra-nità alimentare, sono sorti nel mondovari movimenti di difesa dei contadini.Il movimento, o meglio la rete deimovimenti contadini più famosa è lagià citata Via Campesina, presente intutto il mondo. Come scrivevaGiuseppina Ciuffreda su Alias(30/12/2000) “Via Campesina nasceper coordinare la resistenza dei movi-menti contadini di Europa, Asia, eAfrica. A Seattle nel 1999, ViaCampesina chiede che l’agricoltura siafuori dall’Organizzazione mondiale delcommercio (WTO), il guardiano dellibero mercato, perché non si possonoaffamare i popoli, e rivedica i “dirittidei contadini” che aveva presentato aRoma, nel vertice mondiale della Faodel 1996. Per sfuggire ai debiti esopravvivere, l’autosufficienza alimen-tare garantita dalle economie di sussi-stenza con il ritorno a metodi di colti-vare tradizionali organici, è la strategiapiù realistica per i due miliardi di con-tadini e popoli tribali del TerzoMondo”. Oggi la battaglia di ViaCampesina è incentrata sulla difesadella sovranità alimentare di ciascunpopolo e contro l’accaparramentodelle terre. Oltre Via Campesina, che èuna rete mondiale, si battono per que-sti obiettivi i “Sem terra” in Brasile, ilmovimento Navdanya, promosso daVandana Shiva, in India, e molti altri invarie parti del pianeta.

Partendo dal presupposto che l’agri-coltura contadina a conduzione fami-liare, cui appartiene la maggior partedegli agricoltori del mondo, è quellache meglio assolve alla funzione dinutrire il pianeta, generare svilupponelle aree rurali e garantire la conserva-zione delle risorse naturali a beneficiodelle generazioni future, i movimenticontadini chiedono di porre immedia-

duzione agricola, cioè della sovranitàalimentare, è anche il miglior modo perfavorire l’indipendenza e la sovranitàalimentare degli altri popoli, a partireda quelli sfruttati del sud del mondo,costretti a produrre cibo per noi, attra-verso l’agricoltura di piantagione.

Consumare prioritariamente pro-dotti agricoli del proprio territorio,valorizzando le varietà locali, ridurre iconsumi di prodotti di origine animale,eliminando i mangimi OGM, maanche favorire la diffusione di orti col-lettivi e l’autogestione dei consumi, è ilmodo migliore per rifiutare un’iniquaglobalizzazione, che non solo trasfor-ma in merce ogni conoscenza ed ognibene comune, ma sta minando le basistesse degli equilibri ambientali, indi-spensabili per ogni essere vivente,uomo compreso.

tamente fine a qualsiasi appropriazionedi terre in corso o futura, con lo slo-gan: “Contadini del mondo control’accaparramento delle terre: terra a chila lavora e nutre il mondo”.

Ma la sovranità alimentare non è unproblema che riguardo solo il Sud delmondo: anche da noi la cosiddetta“rivoluzione verde” ha trasformatol’agricoltura e il territorio, rendendosempre più difficile l’obiettivo dell’au-tosufficienza alimentare, mentre laspeculazione edilizia e recentemente laproduzione di energia da biomasse el’utilizzo del fotovoltaico sui campi, stariducendo drasticamente la superficieagricola utilizzabile.

Ogni Paese, compreso il nostro,dovrebbe riportare l’agricoltura, conmodelli sostenibili e utilizzando la bio-diversità, alla produzione di cibo ingrado di soddisfare le esigenze alimen-tari locali, delle comunità.Riappropriarci del controllo della pro-

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L’agricoltura familiare moder-na, che domina in Europaoccidentale e negli Stati Uniti,

ha ampiamente dimostrato la propriasuperiorità rispetto ad altre forme diproduzione agricola. La produzioneper lavoratore/anno che la caratterizza(l’equivalente di 1000-2000 tonnellatedi cereali) non ha equivalenti e permet-te che un segmento minimo dellapopolazione attiva (circa il 5%) riesca anutrire abbondantemente il paese inte-ro e anche di produrre degli eccedentiesportabili. L’agricoltura familiaremoderna ha dimostrato d’altra parteuna eccezionale capacità di accoglierele novità e molta flessibilità nell’adat-tarsi all’evoluzione della domanda.

1. Al Nord: un’agricoltura familiareefficiente perfettamente inserita nelcapitalismo dominante

L’agricoltura non condivide con ilcapitalismo ciò che costituisce la speci-ficità per eccellenza del suo modo diorganizzazione del lavoro. Non si pra-tica in genere nessuna divisione dellavoro fissata in via definitiva e i lavorida svolgere sono polivalenti e variabili.In questo senso, l’agricoltura familiarenon è capitalistica. Tuttavia questaagricoltura familiare moderna costitui-sce un segmento indissociabile dal-l’economia capitalistica nella quale ètotalmente inserita…

Nella logica del capitalismo, l’agri-coltore è insieme un lavoratore e uncapitalista e il suo reddito dovrebbecorrispondere alla somma del salariodel suo lavoro più il profitto derivantedalla proprietà del capitale investito.Non è così. I redditi medi degli agricol-

abolita con la riforma agraria delloZimbabwe). Se ne ritrovano formediverse in America Latina, poco“modernizzate” da una parte, molto“modernizzate” (cioè meccanizzate),altrove, come nel Cono Sud. Ma l’agri-coltura familiare è predominante negliStati Uniti e in Europa.

Le esperienze di “socialismo real-mente esistente” avevano dato vita aforme “industriali” di produzione agri-cola. Il “marxismo” all’origine di que-ste scelte era quello di Karl Kautsky,che alla fine del XIX secolo aveva“profetato” non la modernizzazionedell’impresa agricola familiare (leattrezzature e la specializzazione), mala sua scomparsa a vantaggio dellegrandi unità di produzione su modellodella fabbrica, che si supponeva doves-sero beneficiare dei vantaggi di unadivisione interna del lavoro spintacome quella industriale. La profezia diKautsky non si è avverata né inEuropa né negli Stati Uniti. Ma si èinvece creduto al mito che essa veico-lava, sia in Unione Sovietica chenell’Europa dell’Est (con qualchedistinguo), in Cina e in Vietnam (inmodalità proprie a quei paesi), e per unbreve momento a Cuba.Indipendentemente da altre ragioniche hanno favorito la sconfitta di que-ste esperienze (la gestione burocratica,l’inserimento in una pessima pianifica-zione macro-economica, lo sfaldamen-to delle responsabilità per mancanza didemocrazia ecc.), l’insuccesso è dovutoin primo luogo all’errore di giudizioriguardante i vantaggi della divisionedel lavoro e della specializzazione,estrapolato senza giustificazione dacerte forme industriali e applicato adaltri campi della produzione e dell’atti-

tori sono paragonabili al salario medioguadagnato nell’industria dei rispettivipaesi. Le politiche nazionali di inter-vento e di regolazione in Europa enegli Stati Uniti, dove domina questaforma di agricoltura, hanno l’obiettivoconclamato di garantire (attraverso ilsistema delle sovvenzioni) l’uguaglian-za fra reddito dei “contadini” e redditodegli “operai”. I profitti del capitaleimpiegato dagli agricoltori vengonodunque intercettati dai segmenti delcapitalismo industriale e finanziariosituati a monte…

L’efficienza dell’agricoltura familia-re deriva anche dal fatto che essa sfrut-ta (in regime di proprietà o meno) dellesuperfici adeguate di terra fertile: nétroppo piccole, né inutilmente grandi.Il controllo della produzione agricolaopera anche a valle mediante il com-mercio moderno (soprattutto i grandisupermercati). In definitiva dunquel’impresa agricola familiare, per quantoefficiente (e lo è) non è che un lavora-tore in subappalto preso in una tena-glia: da una parte l’agro-business (cheoggi gli impone le sementi selezionate,domani gli imporrà gli OGM), l’indu-stria (che fabbrica attrezzature e pro-dotti chimici), e la finanza (che gli con-cede i crediti necessari), e dall’altra icolossi della commercializzazione.

Questa forma di agricoltura non èl’unica nel mondo capitalistico moder-no. Esistono le grandi imprese del-l’agro-business, a volte delle “grandiproprietà” che impiegano un numerorilevante di salariati (quando non sonopiù concesse in affitto ad agricoltorifamiliari). E’ stato così nei paesi colo-niali ed è ancora così in Sud Africa(questa forma di latifondo era stata

AGRICOLTURECAPITALISTE OAGRICOLTURE NEL CAPITALISMO? Le riforme agrarie necessarie in Asia e in Africa

Le analisi e le proposte avanzate in questostudio riguardano solo l’Asia e l’Africa. Le que-stioni agrarie dell’America Latina e dei Caraibi

comportano le loro particolarità e a volte sin-golarità. Nel Cono Sud del continente america-

no (Brasile meridionale, Argentina, Uruguay eCile) il latifondismo modernizzato, meccanizza-to e beneficiario di manodopera a buon merca-to costituisce la forma di sfruttamento più adat-

ta alle esigenze di un sistema capitalisticomondializzato, e si rivela ancora più competiti-

vo dell’agricoltura statunitense ed europea.

di SAMIR AMIN

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vità sociale. Bisogna notare che se ilfallimento qui è ormai riconosciuto,ciò non succede per le forme di agri-coltura capitalistica di alcune regionid’America Latina e dell’Africa australeche abbiamo menzionato. Eppureanche qui il fallimento è evidente, mal-grado la competitività e la redditività diqueste forme di moderno latifondi-smo, poiché la redditività deriva da unospaventoso spreco ecologico (distru-zione irreversibile del potenziale pro-duttivo e delle terre coltivabili) e socia-le (salari miserabili).

2. Al Sud: agricolture contadinepovere come componenti di uncapitalismo periferico dominato

Le agricolture contadine del Sudradunano circa la metà dell’umanità:tre miliardi di esseri umani. Questeagricolture a loro volta si dividono fraquelle che hanno beneficiato della“rivoluzione verde” (concimi, pesticidie sementi selezionate), per quanto assaipoco motorizzate, la cui produzionerisulta fra 100 e 500 quintali per lavo-ratore, e quelle che si situano prima diquesta rivoluzione, la cui produzione siaggira intorno ai 10 quintali soltantoper persona attiva. Il divario fra la pro-duzione media dell’agricoltore delNord e quella dell’agricoltore contadi-no, che era di 10 a 1 nel 1940, oggi è di100 a 1. In altri termini, il ritmo deiprogressi della produttività nell’agri-coltura hanno ampiamente superatoquelli delle altre attività, comportandouna riduzione dei prezzi reali da 5 a 1.Anche l’agricoltura contadina dei paesidel Sud risulta ben inserita nel capitali-smo locale e mondiale. Ma l’esamedella situazione fa emergere immedia-tamente le convergenze e le differenzefra le due specie di economia “familia-re”.

Differenze gigantesche, evidenti eincontestate: l’importanza dell’auto-consumo nelle economie contadine,unico mezzo di sopravvivenza per lepopolazioni rurali di quei paesi; la scar-sa efficienza dell’agricoltura, che nondispone di trattori e di altri materiali,ed è spesso esercitata su micro-fondi;la povertà del mondo rurale considera-to (tre quarti delle vittime della sottoa-limentazione sono rurali); l’incapacitàcrescente dei sistemi di garantire ilrifornimento di viveri nelle città; la gra-vità dei problemi, dato che l’economiacontadina in questione riguarda circa la

tale (“modernizzazione della produ-zione agricola”) bisognerebbe distrug-gere – in termini umani – intere socie-tà. Cinquanta milioni di nuovi produt-tori efficienti (duecento milioni diessere umani con le rispettive famiglie)da una parte, tre miliardi di esclusi dal-l’altra. Ne concludo che il capitalismoè entrato nella sua fase senile discen-dente: la logica che governa questosistema non è più in grado di assicura-re la semplice sopravvivenza di metàdell’umanità. Il capitalismo diventabarbarie, invita direttamente al genoci-dio. E’ più che mai necessario sostituir-vi altre logiche di sviluppo, di unarazionalità superiore. Allora, che fare?

Bisogna accettare che per tutto ilfuturo prevedibile del XXI secolo con-tinui ad esistere un’agricoltura contadi-na. Non per ragioni di nostalgiaromantica del passato, ma semplice-mente perché la soluzione del proble-ma passa per il superamento delle logi-che del capitalismo, inserendosi nellalunga transizione secolare al socialismomondiale.

Bisogna dunque immaginare dellepolitiche che regolino i rapporti fra il“mercato” e l’agricoltura contadina. Alivello nazionale e regionale, questaregolamentazione, particolare e adatta-ta alle condizioni locali, deve protegge-re la produzione nazionale, garantendol’indispensabile sovranità alimentaredelle nazioni e neutralizzando l’armaalimentare dell’imperialismo – in altritermini, sganciare i prezzi interni daquelli del mercato detto mondiale – edeve anche permettere – attraversouna progressione lenta ma continuadella produttività dell’agricoltura con-tadina – di controllare, limitando, il tra-sferimento della popolazione ruraleverso le città. A livello di quel che sidefinisce il mercato mondiale, la rego-lazione auspicabile passa probabilmen-te per accordi inter-regionali cherispondano alle esigenze di uno svilup-po inclusivo e non escludente.

4. Non ci sono alternative allasovranità alimentare

Il consumo alimentare, su scalamondiale, è fornito all’85% dalla pro-duzione locale. Vi corrispondono peròdei livelli di soddisfazione dei bisognialimentari che sono molto diversi:eccellenti per l’America del Nord el’Europa occidentale e centrale, accet-

metà dell’umanità. Malgrado questedifferenze, l’agricoltura contadina inquestione è già inserita nel sistemacapitalistico globale dominante. Nellamisura del suo contributo al mercato,essa dipende da inputs acquistati(almeno prodotti chimici e sementiselezionate) ed è vittima degli oligopo-li che controllano la commercializza-zione dei prodotti. Per le regioni chehanno “beneficiato” della “rivoluzioneverde” (la metà dei contadini del Sud) iprelievi operati sul valore dei prodotti,da parte del capitale dominante amonte e a valle, sono estremamentepesanti. Ma lo sono anche, in terminirelativi, per l’altra metà dei contadinidel Sud, tenuto conto della debolezzadella loro produzione.

3. E’ possibile e augurabile moder-nizzare l’agricoltura del Sud per“via capitalistica”?

Poniamo l’ipotesi di una strategia disviluppo dell’agricoltura che cerchi diriprodurre sistematicamente nel Sud ilpercorso che ha prodotto l’agricolturafamiliare moderna del Nord. Si puòfacilmente immaginare che circa cin-quanta milioni di tenute moderne inpiù, aventi accesso alle superfici dimisura adeguata (togliendole alle agri-colture contadine e scegliendo i terrenimigliori) e con il supporto del mercatodei capitali per dotarsi delle miglioriattrezzature, potrebbero produrretutto ciò che i consumatori urbaniacquistano ancora dalla produzionecontadina. Ma che cosa succederebbedei miliardi di produttori contadininon competitivi? Verranno inesorabil-mente eliminati in un tempo storicorelativamente breve di qualche decinad’anni. Che cosa possono diventarequesti miliardi di esseri umani, già perla maggior parte poveri fra i poveri, mache riescono a nutrirsi bene o male,anzi male per un terzo di loro? Nelgiro di cinquant’anni nessuno sviluppoindustriale, più o meno competitivo,potrebbe assorbire neppure un terzo diquesta riserva, perfino nell’ipotesi fan-tastica di una crescita continua del 7%annuale per tre quarti dell’umanità. Ilche significa che il capitalismo è persua natura incapace di risolvere la que-stione contadina e che le uniche pro-spettive che offre sono quelle di unpianeta di bidonvilles e di miliardi diesseri umani “eccedenti”. Siamo dun-que giunti al punto in cui, per aprirenuovi territori all’espansione del capi-

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tabili per la Cina, mediocri per il restodell’Asia e per l’America Latina, disa-strosi per l’Africa. Si può osservareanche che esiste una forte correlazionefra la qualità alimentare e i livelli diindustrializzazione delle diverse zone: ipaesi e le regioni più avanti con l’indu-stria sono anche quelli che riesconomeglio a nutrire correttamente lepopolazioni con la propria produzioneagricola.

Gli Stati Uniti e l’Europa hannocolto perfettamente l’importanza dellasovranità alimentare e l’hanno realizza-ta, con successo, mediante politicheeconomiche sistematiche. Ma sembrache quel che va bene per loro non vadabene per gli altri! La Banca mondiale,l’OCSE e l’Unione Europea cercano diimporre un’alternativa definita “sicu-rezza alimentare”. Secondo loro, ipaesi del terzo mondo non avrebberobisogno della sovranità alimentare edovrebbero ricorrere al commerciointernazionale per coprire il deficit –anche se crescente – dei loro bisognialimentari. Ciò può sembrare facileper i paesi che sono grandi esportatoridi risorse naturali come petrolio e ura-nio, Per gli altri, il “consiglio” dellepotenze occidentali è di specializzare lerispettive agricolture nella produzionedi derrate agricole per l’esportazione(cotone, oli, bevande tropicali, domanigli agrocombustibili). Che questa spe-cializzazione, praticata dai tempi dellacolonizzazione, non abbia permesso dimigliorare le misere razioni alimentaridei popoli coinvolti (contadini inprimo luogo) non è affatto preso inconsiderazione dai difensori ostinatidella “sicurezza alimentare” (degli altri,non per se stessi). Non più di quantosia presa in considerazione la correla-zione segnalata prima.

Ai contadini che non sono ancoraentrati nell’era industriale (come inAfrica) si consiglia dunque di nonavviare un processo ritenuto “demen-ziale” di industrializzazione. Sono i ter-mini usati da Sylvie Brunel che arrivaad attribuire il fallimento dello svilup-po agricolo in Africa a questa scelta“demenziale” dei governi. Che precisa-mente i paesi che hanno fatto questascelta (Corea, Taiwan e la Cina) sianodiventati “paesi emergenti” e nellostesso tempo riescano a nutrire meglio(o meno male) le loro popolazioni, eche precisamente quelli che non l’han-

costruzione di una mondializzazionealternativa negoziata e non più impo-sta unilateralmente dal capitale tran-snazionale dominante, con l’imperiali-smo collettivo della triade (Stati Uniti,Europa, Giappone) e l’egemonia degliStati Uniti.

L’accesso alla terra è regolato dallenorme sulla proprietà. Bisogna inprimo luogo distinguere due famigliedi “statuto fondiario” (o “regime fon-diario”): quelle fondate sulla proprietàprivata della terra e quelle che non losono.

5.a. I regimi fondiari basati sulla proprietàprivata della terra

Il proprietario dispone qui, perusare i termini del diritto romano, del-l’usus (diritto di mettere in valore), delfructus (proprietà dei prodotti dellamessa in valore) e dell’abusus (dirittodi alienare). Il diritto è “assoluto” nelsenso che il proprietario può coltivareegli stesso la sua proprietà, darla inaffitto, o anche non coltivarla. La pro-prietà può essere concessa o venduta,ed entra nel complesso degli attivi deldiritto d’eredità. Senza dubbio talediritto è spesso meno assoluto di quan-to sembri. In ogni caso, l’uso è subor-dinato alle leggi che regolano l’ordinepubblico (ne vietano l’uso illegale percoltivare stupefacenti, per esempio) e aregole per la tutela dell’ambiente. Inalcuni paesi che hanno realizzato lariforma agraria, viene fissato un massi-mo di superficie per la proprietà di unindividuo o di una famiglia. I diritti deilocatari (durata e garanzia del contrat-to, ammontare della rendita fondiaria)limitano quelli dei proprietari, a gradidiversi che possono peraltro arrivare adare al locatario il vantaggio importan-te della protezione dello Stato e dellesue politiche agricole (è il caso dellaFrancia). La libertà di scegliere le coltu-re non è sempre la regola. In Egitto, dasempre, i servizi statali dell’agricolturaimpongono di destinare proporzioniprecise dei terreni alle diverse colturein funzione delle loro esigenze in fattodi irrigazione.

Questo regime fondiario è modernonel senso che è il risultato della costitu-zione del capitalismo storico (“real-mente esistente”) a partire dall’Europaoccidentale (Inghilterra in primoluogo) e dalle colonie europee in

no fatta (l’Africa) siano sprofondatinella malnutrizione e nella carestia cro-nica, sono fatti che non sembranodisturbare la difesa del principio della“sicurezza alimentare” (bisognerebbedire più correttamente “non sicurezzaalimentare”).

Inoltre la crisi economica iniziatacon il crollo finanziario del 2008aggrava già, e aggraverà ulteriormente,tutti i dati dell’equazione. E’ triste con-statare che nel momento stesso in cuila crisi in corso dimostra il fallimentodella politica di sicurezza alimentare, ipaesi dell’OCSE (fra cui le istituzionidell’Unione Europea) continuano per-vicacemente a sostenerla.

Ma se non ci sono alternative allasovranità alimentare, e per realizzarla ènecessario impegnarsi per la costruzio-ne di un’economia diversificata e per-ciò stesso industrializzata.

5. La riforma agraria al centro delleopzioni per il futuro delle societàcontadine

L’asse centrale del dibattito relativoal futuro delle agricolture contadinegira intorno alla questione delle normeche regolano l’accesso alla terra. Leriforme dei regimi agrari necessarie inAfrica e in Asia devono porsi nellaprospettiva di uno sviluppo che vada abeneficio di tutta quanta la società, inparticolare delle classi lavoratrici epopolari e naturalmente dei contadini,e che sia orientato verso la riduzionedelle diseguaglianze e lo sradicamentototale della “povertà”. Questo paradig-ma di sviluppo implica la combinazio-ne di una macro economia “mista”(che associ l’impresa privata e la piani-ficazione pubblica) fondata sulla dupli-ce democratizzazione della gestionedel mercato e di quella dello Stato e deisuoi interventi, con l’opzione a favoredi uno sviluppo agricolo fondato sullosfruttamento contadino familiare.

Attuare questo insieme di principifondamentali – di cui andranno evi-dentemente definite le modalità con-crete e specifiche di ogni paese in ognifase del suo sviluppo – significacostruire “l’alternativa” nelle suedimensioni nazionali. Ciò va accompa-gnato evidentemente da ulteriori ini-ziative per sostenere il sistema, sia alivello regionale che mondiale, con la

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America. E’ stato instaurato distrug-gendo i sistemi “comunitari” di uso delsuolo anche in Europa. L’assalto hapreso la forma delle “enclosures” inInghilterra, imitata in maniere diversenel resto d’Europa nel corso del XIXsecolo. Marx ha denunciato molto pre-sto questa trasformazione radicale cheha escluso la maggioranza dei contadi-ni dall’accesso all’uso del suolo, - perfarne proletari emigrati nelle città (perforza di cose) o che restavano sullaterra in qualità di braccianti agricoli (omezzadri) – e che egli ha posto nellafamiglia delle misure di accumulazioneprimitiva che espropriavano i produt-tori della proprietà o dell’uso dei mezzidi produzione…

La retorica del discorso del capitali-smo – l’ideologia “liberale” – non haprodotto soltanto il mito della “conti-nuità occidentale”, ma ne ha prodottoun altro ancor più pericoloso: quellodella “razionalità assoluta e superiore”della gestione economica fondata sullaproprietà privata ed esclusiva dei mezzidi produzione cui il terreno agricolo èassimilato…

Non è affatto così, e altre forme diregolamentazione del diritto di usopossono produrre risultati equivalenti.Infine, questo discorso dominanteestende le conclusioni che crede dipoter trarre dalla costruzione dellamodernità occidentale, per proporlecome uniche “regole” necessarie per ilprogresso di tutti gli altri popoli. Fareovunque della terra una proprietà pri-vata nel senso attuale del termine,come si pratica nei centri del capitali-smo, significa generalizzare al mondointero la politica delle “enclosures”,cioè accelerare l’espropriazione deicontadini...

5.b. I regimi fondiari non basati sulla pro-prietà privata della terra

Questa definizione, come si vede, ènegativa e non può quindi indicare uninsieme omogeneo. Di fatto, in tutte lesocietà umane, l’accesso alla terra èregolamentato. Ma la regolamentazio-ne è gestita o da “comunità fondatesulla consuetudine” o da “collettivitàmoderne”, o dallo Stato. O più esatta-mente e più spesso, da un insieme diistituzioni e di pratiche che coinvolgo-no gli individui, le collettività e loStato.

zatori (salvo in Egitto) avevano con-cesso ai loro coloni (o ai Boeri, in SudAfrica) delle proprietà private “moder-ne”, in genere di tipo latifondistico.Questa eredità è stata completamenteliquidata in Algeria; ma qui i contadinierano praticamente spariti, proletariz-zati a causa dell’estensione delle terrecoloniali, mentre in Marocco e inTunisia la borghesia locale ne ha presola successione (come in parte anche inKenia). Nello Zimbabwe, la rivoluzio-ne in corso, ha rimesso in questionel’eredità coloniale e la terra è andata inparte a nuovi medi proprietari di origi-ne urbana più che rurale, e in parte a“comunità di contadini poveri”. Il SudAfrica resta ancora fuori da questomovimento.

In tutte queste situazioni, le lotte deicontadini (ed eventualmente delleorganizzazioni che li animano) vannoben esaminate: si tratta di movimenti edi rivendicazioni di “contadini ricchi”,in conflitto con qualche orientamentodella politica statale (o degli influssiche il sistema mondiale dominanteesercita su di essa), oppure si tratta dicontadini poveri o di senza terra? Gliuni e gli altri possono entrare in una“alleanza” contro il sistema dominante(neo-liberista)? A quali condizioni? Inquale misura? Le rivendicazioni –dichiarate o meno – dei contadinipoveri e dei senza terra possono venir“dimenticate”?

La Cina e il Vietnam offronol’esempio, unico, di un sistema digestione dell’accesso alla terra nonfondato sulla proprietà privata e nep-pure sulla “consuetudine”, ma su undiritto rivoluzionario del tutto nuovo, eignorato altrove, che dà l’accesso ugua-le (insisto sull’aggettivo “uguale”) allaterra a tutti i contadini (definiti comeabitanti di un villaggio). E’ la più bellaconquista della rivoluzione cinese e diquella vietnamita.

Mao è stato il primo – e senza dub-bio l’unico, seguito solo dai comunisticinesi e vietnamiti – a definire una stra-tegia rivoluzionaria fondata sulla mobi-litazione della maggioranza dei conta-dini poveri, senza terra e senza mezzi.La vittoria della rivoluzione cinese hapermesso di abolire la proprietà priva-ta della terra – sostituendovi la pro-prietà dello Stato – e di organizzarenuove forme di accesso alla terra,uguale per tutti i contadini.

La gestione “consuetudinaria”(espressa in termini di diritto consue-tudinario e detto tale) ha sempre oquasi sempre escluso la proprietà pri-vata (nel senso moderno) e ha sempregarantito l’accesso alla terra a tutte lefamiglie (piuttosto che agli individui)che costituivano una “comunità di vil-laggio” distinta e che si identificavacome tale. Ma essa non ha mai (o quasimai) garantito un accesso “uguale” allaterra... Non è dunque il caso di fare unelogio sconsiderato dei diritti consue-tudinari, come fanno molte ideologiedei nazionalismi antimperialisti. Il pro-gresso esigerà certamente di rimetterliin questione. La gestione consuetudi-naria non è stata mai – o quasi mai –quella di “villaggi indipendenti”. I vil-laggi sono sempre stati inseriti in com-plessi statuali più o meno stabili, solidio precari secondo le circostanze, maassai raramente assenti. I diritti d’usodelle comunità e delle famiglie che lecomponevano sono sempre stati limi-tati da quelli dello Stato, che percepivaun tributo (per quello io ho definito“tributaria” la vasta famiglia dei modidi produzione premoderni). Le formecomplesse della gestione “consuetudi-naria” sono diverse secondo i paesi e leepoche, ma ormai non esistono più senon in forme estremamente degradateche hanno subito l’assalto delle logichedominanti del capitalismo mondializ-zato da almeno due secoli (in Asia e inAfrica), o addirittura da cinque (inAmerica Latina). L’esempio dell’Indiaè probabilmente uno dei più illuminan-ti.

Per questa ragione, la proprietà pri-vata della terra riguarda ormai la mag-gior parte delle terre coltivabili – inparticolare le migliori – in tutta l’Asia,con l’eccezione della Cina, del Vietname delle ex repubbliche sovietiche inAsia centrale, e resta solo qualchelembo di sistemi para-consuetudinaridegenerati, soprattutto nelle regionipiù povere e meno interessanti perl’agricoltura capitalistica.

Questa struttura è ampiamente dif-ferenziata, e giustappone grandi pro-prietari (capitalisti delle campagne,nella terminologia che ho proposto),contadini ricchi, medi, poveri e senzaterra. Non esiste alcuna “organizzazio-ne” né “movimento” contadino chetrascenda questi acuti conflitti di clas-se. Nell’Africa araba, in Sud Africa,nello Zimbabwe e in Kenia, i coloniz-

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L’organizzazione è passata per variefasi successive, fra cui quella ispirata almodello sovietico delle cooperative diproduzione. I limiti dei risultati cosìottenuti hanno spinto i due paesi a tor-nare allo sfruttamento familiare.Questo modello risulta davvero prati-cabile? Può produrre un continuomiglioramento della produzione senzaprovocare un eccedente di manodope-ra rurale? A quali condizioni? Qualipolitiche di sostegno sono necessarieda parte dello Stato? Quali forme digestione politica possono risponderealla sfida?

Idealmente, il modello implica laduplice affermazione dei diritti delloStato (unico proprietario) e dell’usu-fruttuario (la famiglia contadina). LoStato garantisce la spartizione ugualedelle terre del villaggio fra tutte lefamiglie. Vieta ogni altro uso, eccettola coltura familiare, come per esempiola locazione. Garantisce che il prodot-to degli investimenti effettuati dall’usu-fruttuario gli ritornino immediatamen-te mediante il diritto di proprietà sututta la produzione (commercializzataliberamente, anche se lo Stato con isuoi acquisti garantisce un prezzominimo) e a più lungo terminemediante l’eredità dell’usufrutto abeneficio esclusivo dei figli rimastisulla terra (chi emigra definitivamenteperde il proprio diritto di accesso allaterra, e la sua parcella ritorna nelpaniere delle terre da distribuire).Trattandosi di terre ricche ma anche diparcelle minime, il sistema può funzio-nare solo se l’investimento verticale (larivoluzione verde senza una grandemotorizzazione) permette un aumentodella produzione per lavoratore attivorurale almeno uguale a quello dell’inve-stimento orizzontale (estensione dellecoltivazioni accompagnata da fortemotorizzazione). Questo modello“ideale” è stato mai realizzato? Vi si èindubbiamente avvicinati (per esempioall’epoca di Deng Xiaoping in Cina).

Bisogna notare però che se il model-lo ha prodotto un alto grado di ugua-glianza all’interno di ogni villaggio,non ha mai potuto evitare però le dise-guaglianze fra una comunità e l’altra, infunzione della qualità dei terreni, delladensità di popolazione, della prossimi-tà di mercati urbani, e nessun sistemadi redistribuzione (anche attraverso lestrutture delle cooperative e dei mono-poli commerciali statali, all’epoca

non c’è stata una “riforma agraria” insenso stretto, ma – come ho detto – lasoppressione della proprietà privatadella terra, l’affermazione della pro-prietà dello Stato e la realizzazione delprincipio dell’accesso “uguale” all’usodella terra per tutti i contadini.

Altrove, le vere riforme hannoespropriato solo i grandi proprietari avantaggio dei proprietari medi o anchericchi (a lungo termine) ignorando gliinteressi dei poveri e dei senza terra. E’stato il caso dell’Egitto e di altri paesiarabi. La riforma in corso nelloZimbabwe rischia di porsi in una pro-spettiva simile. In altre situazioni, lariforma continua a essere all’ordine delgiorno: in India, nel Sud-est asiatico, inKenia.

La riforma agraria, anche dove restaun’esigenza immediata e ineludibile,costituisce comunque un progressoambiguo per i suoi effetti a lungo ter-mine, giacché rafforza l’attaccamentoalla “piccola proprietà”, che diventa unostacolo al superamento del regimefondiario basato sulla proprietà priva-ta. La storia della Russia è un buonesempio di questo dramma.L’evoluzione iniziata con l’abolizionedella servitù della gleba (1861), accele-rata con la rivoluzione del 1905 e conle politiche di Stolipin, aveva già deter-minato una “domanda di proprietà”che la rivoluzione del 1917 ha sancitocon una riforma agraria radicale. E –come si sa – i nuovi piccoli proprietarinon hanno rinunciato con entusiasmoai loro diritti in favore delle disgraziatecooperative promosse poi, negli annitrenta. Sarebbe forse stata possibileun’“altra via” di sviluppo, a partire dal-l’economia familiare contadina fondatasulla piccola proprietà generalizzata,ma non si è fatto il tentativo.

Ma che succede nelle regioni (diver-se da Cina e Vietnam) dove il regimefondiario non è (ancora) fondato sullaproprietà privata? Alludo precisamenteall’Africa intertropicale. Qui si ritrovaun vecchio dibattito. Verso la fine delXIX secolo Marx, nella corrisponden-za con i narodniki russi (con VeraZasulich, fra gli altri), osava affermareche l’assenza della proprietà privatapuò rappresentare un vantaggio per larivoluzione socialista, permettendo ilsalto a un regime di gestione dell’ac-cesso alla terra diverso da quello

“sovietica”) è mai stato all’altezza dellasfida.

La gestione di questo sistema diaccesso alla terra è stata garantita fino-ra dallo Stato e dal partito che è tut-t’uno con esso. Si potrebbe immagina-re che a livello di villaggio sia garantitada assemblee realmente elette. E’ unacosa necessaria, perché non ci sonoaltri mezzi per determinare l’opinionedella maggioranza e ridurre gli intrighidelle minoranza di eventuali profittato-ri di un’evoluzione capitalistica piùmarcata. La “dittatura del partito”si èdimostrata ampiamente permeabile alcarrierismo, all’opportunismo e allacorruzione. Le lotte sociali in corsonelle campagne cinesi e vietnamite siesprimono con la stessa forza chealtrove nel mondo. Ma qui restanoampiamente “difensive”, cioè legatealla difesa dell’eredità rivoluzionaria –il diritto uguale di tutti alla terra. Ladifesa è necessaria tanto più che l’ere-dità è più minacciata di quanto sembri,malgrado le affermazioni dei duegoverni che “la proprietà statale dellaterra non verrà ‘mai’ abolita a benefi-cio della proprietà privata”. Ma oggiper questa difesa è necessario ricono-scere il diritto a esercitarla mediantel’organizzazione di coloro che vi sonoprimariamente interessati, cioè i conta-dini.

5.c Il quadro delle forme organizzative dellaproduzione agricola e degli statuti fondiari ètroppo vario su scala continentale asiatico-africana perché si possa raccomandare a tuttiun’unica formula di “costruzione dell’alterna-tiva contadina”.

Per “riforma agraria” bisogna inten-dere la redistribuzione della proprietàprivata quando la terra sia ripartita inmaniera troppo diseguale. Si resta per-ciò nei limiti di un regime fondiariogestito in base al principio di proprie-tà. Tuttavia la riforma si impone sia persoddisfare la domanda, perfettamentelegittima, dei contadini poveri e senzaterra, sia per ridurre il potere politico esociale dei grandi proprietari. Ma lad-dove è stata attuata, in Asia e in Africadopo la liberazione dalle vecchieforme del dominio imperialista e colo-niale, l’operazione è stata gestita dablocchi sociali egemonici non rivolu-zionari, nel senso che non è stata diret-ta dalle classi povere e dominate, checostituivano la maggioranza, salvo chein Cina e in Vietnam, dove peraltro

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governato dalla proprietà privata. Maegli non precisa quali forme il nuovoregime potrebbe assumere, restandoinsufficiente - ancorché giusta - la defi-nizione di “collettivo”. Kautsky gene-ralizzava il modello dell’Europa capita-listica moderna e pensava che i conta-dini fossero destinati a “sparire” pereffetto dell’espansione capitalistica insé. In altri termini, il capitalismo sareb-be stato capace di “risolvere la questio-ne agraria”. L’affermazione, vera(all’80%) per i paesi capitalistici (la tria-de: il 15% della popolazione mondia-le), risulta del tutto falsa per il “restodel mondo” (l’85% della popolazione).La storia dimostra non solo che il capi-talismo non ha risolto la questione perl’85% dell’umanità, ma anche che, nellaprospettiva della sua continua espan-sione, non ci riuscirà mai (salvo checon il genocidio: bella soluzione!). Si èdovuto aspettare Mao Zedong e i par-titi comunisti di Cina e Vietnam perdare una risposta adeguata alla sfida.

La questione si è ripresentata neglianni sessanta, con l’indipendenzadell’Africa. I movimenti di liberazionenazionale del continente, gli Stati e gliStati-partito che ne sono usciti, aveva-no beneficiato – a gradi diversi – delsostegno delle masse contadine deirispettivi popoli. La loro naturale pro-pensione al populismo li portava aimmaginare una “via specifica (africa-na?) al socialismo”. La si poteva defini-re assai moderatamente radicale, neirapporti sia con l’imperialismo domi-nante sia con le classi locali associatealla sua espansione. Veniva tuttaviaposta la questione della ricostruzionedelle società contadine, in uno spiritoumanista e universalista, spesso moltocritico rispetto alle “tradizioni” che ipadroni stranieri avevano tentato diusare a proprio profitto. Tutti, o quasi,i paesi africani hanno adottato lo stes-so principio, formulato come un “dirit-to di proprietà prioritariamente delloStato” sulla terra. Non mi pongo fracoloro che considerano ciò un “erro-re”, motivato da un estremo “statali-smo”.

L’analisi dei modi reali di funziona-mento del sistema attuale, della manie-ra in cui inquadra e inserisce i contadi-ni nell’economia mondiale capitalisticapermette di misurare l’ampiezza dellasfida. L’inquadramento è assicurato daun sistema complesso che fa ricorsoinsieme alla “consuetudine”, alla pro-

rative allora create non erano coopera-tive di produzione. La produzione erarimasta responsabilità esclusiva dellefamiglie contadine, che costituivanouna forma di potere collettivo moder-nizzato, sostituendosi alla pretesa“consuetudine” sulla quale si eraappoggiato il potere coloniale. Il parti-to che assumeva il nuovo poteremoderno aveva chiara coscienza dellasfida e si era fissato l’obiettivo di abo-lire le forme consuetudinarie del pote-re – ritenute “reazionarie” se non “feu-dali”. Indubbiamente il nuovo poterecontadino, formalmente democratico(i responsabili venivano eletti) era talein realtà solo nella misura in cui loerano lo Stato e il partito. In ogni casoperò esercitava delle responsabilità“moderne”: vegliava che l’accesso allaterra fosse garantito “correttamente”,cioè senza “discriminazioni”, gestiva icrediti, controllava la ripartizione degliinputs (forniti dallo Stato) e la com-mercializzazione dei prodotti (in parteper via statale). Nella pratica certo nonsono mai stati sradicati i fenomeni dinepotismo e corruzione. Ma l’unicarisposta agli abusi sarebbe stata lademocratizzazione progressiva delloStato, non il suo “arretramento” comeha imposto poi il liberismo (medianteuna dittatura militare di estrema vio-lenza) a vantaggio dei commercianti(dioulas).

Nelle zone liberate della Guinea-Bissau (per impulso delle teorie diAmilcar Cabral) e in Burkina Fasoall’epoca di Sankara, altre esperienzehanno combattuto frontalmente que-ste sfide e hanno prodotto talvoltaprogressi incontestabili che oggi sitenta di far dimenticare. In Senegal larealizzazione di collettività rurali elettecostituisce una risposta che io difendosenza esitazioni. La democrazia è unapratica il cui apprendistato non ha fine,in Europa come in Africa. La “riformadel sistema fondiario” come la intendeil discorso dominante attuale va esatta-mente in senso opposto alla costruzio-ne di un’alternativa autentica fondatasu una prospera economia contadina.Questo discorso, veicolato dagli stru-menti di propaganda dell’imperialismocollettivo – la Banca Mondiale, moltienti di cooperazione e anche molteONG riccamente fornite sul pianofinanziario – intende per riforma fon-diaria l’accelerazione della privatizza-zione della terra, e niente altro.L’obiettivo è evidente: creare le condi-

prietà privata (capitalistica) e ai dirittidello Stato. La “consuetudine” in que-stione è degenerata e serve solo comeornamento retorico ai dittatori chefanno appello alla “autenticità”, unavera foglia di fico con cui credono dicoprire la sete di rapina e il tradimentoa favore dell’imperialismo. La propen-sione a espandere la proprietà privatanon trova alcun ostacolo serio, tranneeventuale resistenza delle vittime. Incerte regioni, più favorevoli alle coltu-re privilegiate (zone irrigue, orti subur-bani) la terra viene comprata, venduta,affittata senza alcun titolo fondiarioformale.

La proprietà prioritaria dello Stato –principio che io difendo – diventaanch’essa veicolo dell’appropriazioneprivata. Lo Stato può così “dare” i ter-reni necessari per un villaggio turistico,per un’impresa di agro-business localeo straniera, o per una fattoria di Stato.I titoli fondiari necessari per accedereai terreni sono oggetto di distribuzioniraramente trasparenti. In ogni caso, lefamiglie contadine che occupavano iluoghi sono pregate di andarsene erestano vittime di pratiche molto simi-li all’abuso di potere. Ma in realtà nonè possibile “abolire” la proprietà prio-ritaria dello Stato per trasferirla aglioccupanti (bisognerebbe accatastaretutti i territori dei villaggi!) e nellamisura in cui lo si tentasse, permette-rebbe ai notabili rurali e urbani di acca-parrarsi i bocconi migliori.

La risposta corretta alla sfida dellagestione di un sistema fondiario nonbasato sulla proprietà privata (almenoin maniera dominante) passa per lariforma dello Stato e il suo impegnoattivo per realizzare un sistema digestione dell’accesso alla terra che siamodernizzato, efficiente (economica-mente) e democratico (per evitare, oalmeno ridurre, le diseguaglianze). Lasoluzione non è in alcun caso il “ritor-no alle consuetudini”, che è ormaiimpossibile e non servirebbe ad altroche accentuare le diseguaglianze e apri-re la strada al capitalismo più selvaggio.

Non si può dire che nessuno Statoafricano abbia tentato di avviarsi per lastrada che qui raccomandiamo. NelMali, l’Unione sudanese, subito dopol’indipendenza nel settembre 1961,dava avvio a un processo che è statomolto scorrettamente definito come“collettivizzazione”. Di fatto, le coope-

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zioni che permettano ai moderni rap-presentanti dell’agro-business (stranie-ro o locale) di impadronirsi delle terrenecessarie alla sua espansione...

5.d. E’ necessaria invece una riforma fondia-ria pensata nella prospettiva della costruzionedi un’alternativa reale, efficiente e democrati-ca, fondata su una prospera produzione fami-liare, che deve definire il ruolo dello Stato(proprietario prioritario principale) e quellodelle istituzioni e dei meccanismi di gestionedell’accesso alla terra e ai mezzi di produzio-ne

Non escludo qui la possibilità diformule miste e complesse, specifichedi ogni paese. Si può accettare la pro-prietà privata della terra – almeno doveè stabilita e considerata legittima.Bisogna invece rivedere la sua riparti-zione laddove necessario, procedendoa riforme agrarie. Neppure escludonecessariamente e in tutti i casi l’aper-tura di spazi – controllati – all’inter-vento di agro-business. Ma l’essenzialeresta altrove: nella modernizzazionedella produzione familiare contadina enella democratizzazione della gestionein vista del suo inserimento nell’econo-mia nazionale e nella mondializzazio-ne.

Non ho alcuna “ricetta pronta” daproporre in questo campo. Mi limiteròquindi a evocare alcuni grandi proble-mi che la riforma potrebbe sollevare.

La questione democratica costitui-sce l’asse indiscutibile della rispostaalla sfida. Si tratta di una questionecomplessa e difficile, non riducibile aldiscorso insipido della buona gover-nance e del pluripartitismo elettorale.La questione presenta un risvolto cul-turale indiscutibile: la democrazia invi-ta ad abolire le “consuetudini” che lesono ostili (i pregiudizi sulle gerarchiesociali e soprattutto il posto delledonne). Comporta inoltre dei risvoltigiuridici e istituzionali: la costruzionedi sistemi di diritto amministrativo,commerciale, personale, coerenti congli obiettivi del progetto di costruzionesociale, e la realizzazione di istituzioniadeguate (in genere elette). Ma soprat-tutto e in definitiva, il progresso dellademocrazia dipenderà dal potere socia-le dei suoi difensori. In questo senso,l’organizzazione dei movimenti conta-dini è assolutamente insostituibile.Solo nella misura in cui i contadinipotranno esprimersi, si riuscirà a far

convenienti (credito, sementi, inputs,accesso ai mercati). Le politiche nazio-nali e i negoziati internazionali volti adefinire il contesto in cui si determina-no i prezzi e i redditi agricoli, costitui-scono la materia di quest’altro risvoltodella questione contadina. Su questequestioni rinviamo i lettori agli scrittidi Jacques Berthelot, il miglior criticodei progetti di integrazione della pro-duzione agricola e alimentare nei mer-cati “mondiali”.

5.e. Alcune conclusioni

Qui ci limiteremo a ricordare le con-clusioni e le proposte principali cuisiamo pervenuti.

In primo luogo, non si può accetta-re di trattare la produzione agricola ealimentare e la terra come “merci”ordinarie, e perciò non si può concor-dare sulla necessità di inserirle nel pro-getto di liberalizzazione mondializzatapromosso dalle potenze dominanti edal capitale transnazionale. L’agendadell’OMC va puramente e semplice-mente rifiutata. L’opinione pubblica inAsia e Africa, a cominciare dalla orga-nizzazioni contadine, ma anche tutte leforze sociali e politiche che difendonogli interessi delle classi popolari (e inparticolare la sovranità alimentare) etutti coloro che non hanno rinunciatoa un progetto di sviluppo degno diquesto nome, vanno convinti che inegoziati avviati sotto l’egidadell’OMC non possono che esserecatastrofici per i popoli d’Asia e Africa.Il capitalismo è giunto a uno stadio incui la sua espansione esige politiche di“enclosure” su scala mondiale, analo-ghe alle “enclosures” del suo primosviluppo in Inghilterra. Salvo che oggila distruzione su scala mondiale delle“riserve contadine” di manodopera abuon mercato non sarà altro che ilsinonimo di genocidio della metà del-l’umanità.

In secondo luogo, non si può piùaccettare il comportamento delle prin-cipali potenze imperialiste (Stati Unitied Europa) oggi associate nei loroassalti contro i popoli del Sud permezzo dell’OMC. Queste potenze chetentano di imporre unilateralmente leregole del “liberismo” ai paesi del Sudnon si peritano di liberarsene esse stes-se, con comportamenti che non si pos-sono definire altrimenti che come truf-fe sistematiche. Il “Farm Bill” degli

breccia in direzione di ciò che si defini-sce la “democrazia partecipativa”(invece di ridurre il problema alladimensione della “democrazia rappre-sentativa”).

La questione dei rapporti fra uomi-ni e donne rappresenta una dimensio-ne non meno essenziale della sfidademocratica. Se si parla di “sfrutta-mento familiare” (contadino) si fa evi-dentemente riferimento alla famiglia,che almeno fino a oggi e quasi ovun-que è caratterizzata da strutture cheimpongono la sottomissione delladonna e il sovrasfruttamento della suaforza-lavoro. La trasformazione demo-cratica non è possibile senza la presen-za dei movimenti organizzati delledonne.

Bisogna poi richiamare l’attenzionesulla questione delle migrazioni. Ildiritto “consuetudinario” in genereesclude gli “stranieri” (tutti coloro chenon appartengono ai clan, lignaggi,famiglie che costituiscono la comunitàdi villaggio) dal diritto alla terra, o necondizionano l’accesso. Le migrazionicausate dallo sviluppo coloniale e post-coloniale hanno assunto a volte delledimensioni che sconvolgono i concettidi “omogeneità” etnica delle regioniinteressate dal fenomeno. Gli emigratidi origine esterna allo Stato in questio-ne, o anche se formalmente cittadinidello stesso Stato ma di origine etnicadiversa, vedono i loro diritti sulla terrache coltivano rimessi in discussione damovimenti politici sciovinisti, moltospesso appoggiati dall’esterno.Sconfiggere sul piano ideologico epolitico i “comunitarismi” in questionee denunciare i discorsi para-culturaliche li sostengono è diventata ormaiuna condizione primaria per passiavanti autenticamente democratici.

L’insieme delle analisi e delle propo-ste che sono state oggetto delle rifles-sioni precedenti riguarda solo lo statu-to della proprietà e le regole dell’acces-so alla terra, che di fatto costituisconol’asse principale nei dibattiti sul futurodella produzione agricola e alimentare,delle società contadine e degli individuiche le compongono. Ma non copronotutte le dimensioni della sfida.L’accesso alla terra resta privo del suopotenziale di trasformazione sociale seil contadino che ne beneficia non è ingrado di accedere ai mezzi indispensa-bili per la produzione in condizioni

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Stati Uniti e le politiche agricoledell’Unione Europea violano proprio iprincipi che l’OMC pretende di impor-re agli altri. I progetti di “partenariato”proposti dall’Unione Europea per dareseguito alla convenzione di Cotonou, apartire dal 2008, sono veramente “cri-minali”, per usare l’espressione fortema giusta di Jacques Berthelot.

L’alternativa passa per politichenazionali di costruzione/ricostruzionedei Fondi nazionali di stabilità e disostegno alle produzioni stabilite, econ la realizzazione di Fondi interna-zionali comuni per i prodotti di base,permettendo una riorganizzazionealternativa efficiente dei mercati inter-nazionali dei prodotti agricoli.

I contadini d’Asia e Africa si sonoorganizzati nella tappa precedente, perle lotte di liberazione dei loro popoli.Hanno trovato il loro posto all’internodi potenti blocchi storici che hannopermesso di conseguire la vittoria sul-l’imperialismo di allora. Quella paginaè ormai chiusa, la sfida del nuovoimperialismo collettivo della triade sipuò affrontare solo costituendo inAsia e in Africa dei blocchi storici, cheperaltro non possono essere un rema-ke dei precedenti. Definire, nella nuovasituazione, la natura dei blocchi, lestrategie e gli obiettivi immediati e alungo termine, è la sfida che devonoaffrontare i movimenti detti altermon-dialisti e le loro componenti che costi-tuiscono i forum sociali. Una sfidamolto più seria di quanto immaginino imovimenti impegnati nelle lotte oggiin corso.

6. Una sfida complessa e multidi-mensionale

La via della modernizzazione capi-talistica è veramente così “efficiente”come pretendono gli economisti con-venzionali? Immaginiamo di ottenere,con questo mezzo, un raddoppio dellaproduzione (passando dall’indice 100 a200), al prezzo però dell’eliminazionedell’80% dei contadini eccedenti (l’in-dice del numero di agricoltori attiviscende da 100 a 20). L’apparente gua-dagno, misurato con l’aumento dellaproduzione per agricoltore attivo, èconsiderevole: viene infatti moltiplica-ta per 10. Ma in rapporto all’insiemedella popolazione interessata, si molti-plica solo per 2. Bisognerebbe dunquedistribuire gratuitamente tutto questo

Evitiamo di “condannare” molte orga-nizzazioni e molti movimenti perchénon mobiliterebbero le maggioranzerurali su programmi radicali. In questocaso si rischierebbe di ignorare lanecessità di alleanze larghe e di strate-gie di fase. Ma bisogna anche evitare ildiscorso dell’altermondialismo naive,che spesso dà il tono ai forum e ali-menta l’illusione che il mondo sarebbesulla buona strada solo perché esistonoi movimenti. Un discorso condiviso damolte ONG – forse anche di buonavolontà – più che dalle organizzazionicontadine e operaie.

E non ho l’ingenuità di pensare chetutti gli interessi che le alleanze potreb-be riunire siano naturalmente conver-genti. Fra tutti i contadini del mondo cisono i ricchi e i poveri (a volte senzaterra). Le condizioni di accesso allaterra sono il risultato di percorsi stori-ci diversi che per gli uni l’hanno anco-rato alla proprietà privata, per altrihanno protetto il diritto di accesso allaterra per tutti. I rapporti con i poteristatali sono anch’essi il prodotto dipercorsi storici diversi, in particolareper quel che riguarda i movimenti diliberazione nazionale in Asia e inAfrica: populismi, democrazie contadi-ne, autocrazie di Stato anti-contadinetraducono la diversità di queste eredità.Le modalità di gestione dei mercatiinternazionali favoriscono gli uni epenalizzano gli altri. Le divergenze diinteressi trovano eco a volte nella mol-teplicità delle organizzazioni contadi-ne, spesso anche nella divergenza dellestrategie politiche che si adottano.

aumento della produzione per mante-nere semplicemente in vita i contadinieliminati, che non troveranno impieghialternativi nelle città. Così si manifestacon molta esattezza ciò che Marx scri-veva a proposito della pauperizzazioneassociata all’accumulazione del capita-le. La sfida (fondare lo sviluppo sul rin-novamento delle società contadine) hadimensioni molteplici. Mi limiterò quia richiamare l’attenzione sulle condi-zioni della costruzione delle alleanzepolitiche necessarie e possibili per faravanzare delle soluzioni (naturalmentenell’interesse dei contadini) ai proble-mi che abbiamo posto: accesso allaterra e ai mezzi per valorizzarla, giustaremunerazione del lavoro contadino,miglioramento della remunerazioneparallelo a quello della produttività,regolazione dei mercati a livello nazio-nale, regionale e mondiale.

Esistono in Asia e Africa nuoveorganizzazioni contadine che animanonuove lotte in corso. Spesso, quando ilsistema politico rende impossibilecostituire organizzazioni formali, lelotte sociali nelle campagne assumonola forma di “movimenti” senza dire-zione apparente. Bisogna analizzarepiù a fondo le azioni e i programmi,quando esistono. Quali forze socialidelle campagne rappresentano, e qualiinteressi difendono? La massa maggio-ritaria dei contadini? Oppure le mino-ranze che aspirano a trovare un postonell’espansione del capitalismo mon-dializzato dominante? Bisogna diffida-re delle risposte troppo rapide su que-sti aspetti complessi e difficili.

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Una classe operaia giovane,politicamente vergine, nonpoliticizzata a maggioranza

sotto i 32 anni, con un bacino di pro-venienza spalmato sulla intera regionee anche sui paesi confinanti dellaPuglia. Il “sogno di“mezza estate delcapitalismo italiano” in gran partefinanziato con soldi pubblici ed impor-tanti deroghe ,in accordo con i sinda-cati, al contratto nazionale dei metal-meccanici come quella sul salario (infe-riore agli altri stabilimenti Fiat) e sullavoro notturno anche per le donne.L’ultimo Romiti che già annuncia l’ar-rivo del “filosofo in maglione”Marchionne. Un sogno che ben prestosi trasforma in incubo: ritmi asfissian-ti, turni notturni allucinanti, lunghi tra-gitti per portare i lavoratori nel luogodi lavoro con una strada tra le più peri-colose, per numeri d’incidenti, d’Italia,controllo e gerarchia asfissiante di capie capetti.

Quella giovane classe operaia, dopola formazione a Torino una volta infabbrica non regge, cominciano lefughe, i licenziamenti volontari, i gio-vani operai che “sbroccano” sonoalcune centinaia già dopo due anni. LaFiat ha fatto bene i suoi conti non c’ècoscienza politica e l’opposizione èindividuale ed individualistica non creaproblemi, per uno che va via sonodecine i disoccupati che chiedono unposto di lavoro. Poi man mano la“classe in sé” diventa “classe per sé”,nasce il conflitto, in fabbrica entra “lapolitica” grazie soprattutto all’impe-gno, all’inizio minoritario, del sindaca-to Fiom Cgil. Li “volevano con la terzamedia” (per parafrasare il titolo dellibro di Giovanni Barozzino, il delega-

briche dell’auto”, CaliceEditori, 2003)e svelavano già le criticità dell’insedia-mento: il fatto cioè che “i punti dimaggior debolezza del gruppo risulta-vano, e continuano a rimanere, iseguenti: a) elevata anzianità deimodelli; b) la modesta presenza inalcune nicchie del mercato; c) la forteconcentrazione delle vendite sul mer-cato nazionale; d) la scarsa presenzadelle vetture di gamma alta, se si faeccezione per i modelli Alfa e Lancia”.Dubbi e previsioni che smentivano lamission iniziale dello stabilimento Satariconfermati nel 2003 dal “Rapportosull’indotto auto della Fiat Sata diMelfi e degli stabilimenti Fiat diCampania e Molise” promosso dallaFiom e dalla Cgil di Basilicata, dove tral’altro si afferma che “se il Piano diristrutturazione della Fiat presentatonell’ottobre ha formalmente escluso lostabilimento Sata di Melfi, effetti diquel Piano sono risultati, comunque,visibili nell’intenzione della Fiat, a par-tire dagli ultimi mesi del 2002, di modi-ficare il modello organizzativo dellostabilimento, con il passaggio dalmodello della Fabbrica integrata aquello della Fabbrica modulare.

Seppure formulato in modo ancorateorico dall’azienda, l’applicazioneconcreta di questa modificazione com-porterebbe la riorganizzazione radicaledello stabilimento, smentendo i conte-nuti dell’Accordo che la Fiat siglò nel1993 con le organizzazioni sindacali”.Anche se bisogna evitare le semplifica-zioni, infatti non si tratta di un passoindietro come pure qualcuno ha ipotiz-zato, ma di qualcosa di più complessoche guarda ad una sorta di evoluzionecon accomodamento del modello

to Sata licenziato, con altri due operaiFiom, con una provocazione del-l’azienda), ma questa giovane classeoperaia continuerà gli studi in fabbricaarrivando a produrre uno dei momen-ti di lotta di fabbrica più alti degli ulti-mi decenni in Italia, la “primavera diMelfi”: 21 giorni di blocco della fabbri-ca nell’aprile del 2004 contro l’ennesi-ma provocazione aziendale che tentavadi mettere gli operai gli uni contro glialtri. Infatti, la direzione aziendale,come risposta agli scioperi per il con-tratto di alcune aziende dell’indottoche non approvvigionavano la Sata,invece di richiedere la cassa integrazio-ne per gli operai dichiarava il “senzalavoro”.

Una lotta durissima fatta di picchet-ti, tensioni, cariche della celere davantiai cancelli, ma con una unità mai incri-nata degli operai a cui si aggiunseanche la presenza di operai Fiat di altristabilimenti (Termini Imerese ePomigliano in particolare), la solidarie-tà dei cittadini e delle amministrazionidei comuni circostanti e porterà ad unavittoria dei lavoratori con il raggiungi-mento della equiparazione salariale traSata e gli altri stabilimenti Fiat, il supe-ramento della doppia battuta e il ritirodi tutti i provvedimenti disciplinaricomminati nel periodo di lotta. Il“prato verde” si trasforma in un“prato rosso” di lotta e coscienza ope-raia. Per la verità le trasformazioni chehanno prodotto la lotta dei 21 giornierano già state ben colte da un’inchie-sta condotta dal 2000 al 2002 e pubbli-cata nel 2003 da un gruppo di ricerca-tori (Bubbico, J. Pratschke, A. M.Riviello, D. A. Summa, “La Rincorsa -Melfi Inchiesta sulle operaie delle fab-

E UN’ ASTRONAVESBARCÒ NELLAPIANA DI SANNICOLA DI MELFI

Quando nacque, nel 1993, era la novitàassoluta del nuovo modello industriale italia-no, a partire dal nome, non Fiat ma Sata (unacronimo per segnare un tratto di innovazio-ne e discontinuità): più tecnologia, robotica,

toyotismo, “just in time”, ricerca, prodottiinnovativi. La fabbrica verde, integrata nel

territorio, con una maggiore partecipazionedegli operai al processo produttivo, aziendali-smo alla “giapponese”, la più grande fabbrica

Fiat a sud di Torino, 7.000 posti di lavoro(che in realtà saranno meno) per una produ-

zione annuale di oltre 400.000 vetture.

di ANTONIO CALIFANO

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industriale, opportuna a tal propositola puntualizzazione di Piero Di Sienache “non si tratta di un ritorno indietroal modello fordista, né corrisponde alvero l’affermazione di quanti sosten-gono che la “fabbrica integrata” siasolo un inganno.

Ma il tratto fondamentale dellanuova fabbrica diventa gradualmente ilprocesso di “terziarizzazione”, cioè ilpassaggio – a cominciare dai servizi edalla manutenzione per arrivare aimportanti operazioni di assemblaggiodel motore e del cambio – a impreseterze di momenti della lavorazione cherimangono dentro lo stesso stabili-mento Fiat. Ma anche questo processodi terziarizzazione, almeno nelle sueforme estreme, non ha vita lunga.Precarizzazione e contratti a terminediventano, poi, la forma principale concui si affrontano le fasi alte della pro-duzione. La “quantità”, comunque,ritorna a prendere il posto della “quali-tà”, la riduzione del costo del lavoro ilprincipio guida dell’intera organizza-zione aziendale” (Piero Di Siena,“Alternative per il Socialismo”, 11,2009).

La storia della Sata di Melfi puòessere assunta come un paradigmadella evoluzione del “capitalismo italia-no” e di come la crisi del settore auto ela crisi generale siano il prodotto enello stesso tempo il risultato di sceltesbagliate, poco coraggiose e di unmanagement che ormai esce dalla fab-brica e si propone come modello all’in-tero paese. L’ultima vicenda, in ordinedi tempo, legata alla Sata in qualchemodo lo sintetizza in maniera emble-matica anticipando in qualche modo ilcambio di passo di Marchionne chepresentatosi come il manager del dialo-go e della modernità si rivela essereuna versione rivisitata dal “valletti-smo”: la fabbrica che si fa stato. Dopola sconfitta dei 21 giorni la direzioneaziendale ha costruito lentamente lapropria vendetta dei confronti deilavoratori e della Fiom in particolare,utilizzando la crisi economico finan-ziaria. “La crisi nel nostro paese è uti-lizzata, in questa fase, per smantellare idiritti delle persone. Nel nome dellaglobalizzazione e della concorrenzamondiale si sta attuando il progetto dicambiare le relazioni industriali, rom-pendo l’equilibrio tra gli interessi di chilavora e quelli di chi fa impresa, infavore degli imprenditori. L’idea è

di due stabilimenti in Italia) da quelledel paese in cui pure è nata e da cui haricevuto miliardi di contributi pubblici,decidendo di non investire sulla ricercae lo sviluppo perché quello che interes-sa è il mercato dell’est, di cui la Serbiaè la testa di ponte, che garantisce pro-fitti senza investimenti. “Sconfiggerel’ultima resistenza organizzata e l’ulti-mo residuo del movimento operaiosignifica rompere l’ultimo argine.Piegata la Fiom e i metalmeccanici,soprattutto nell’ultima esperienzaindustriale più simile a quelle del seco-lo scorso, prenderà definitivamentecorpo una nuova idea del lavoro chenon sarà più in linea con il percorsotracciato dai nostri Costituenti.

Ma perché questo progetto si com-pleti i padroni devono distruggerel’unità dei lavoratori,e perché questo sipossa compiere occorre partire dailuoghi di lavoro. Giovanni, Marco,Antonio e tutti i loro compagni hannopiena coscienza della partita che sigioca a Melfi, una partita che riguardasolo in parte la fabbrica ma in manierapiù drammatica l’intera società italiana.Ma la politica, anche il centrosinistrache governa saldamente la regione incui si trova la Sata, l’ha capito?

quella di cancellare il diritto delle per-sone a contrattare la propria condizio-ne di lavoro collettivamente. Il casoFiat è esemplare” (Maurizio Landini,Prefazione di “Officina Italia” di FabioSebastiani, Altrimedia Edizioni, 2011).

La vicenda ultima legata al licenzia-mento dei due delegati e dell’operaioFiom, di cui la cassazione in questigiorni con sentenza ha ordinato il rein-tegro, giudicando l’atto dell’aziendaillegittimo, è solo il proseguimento diuna strategia decisa a tavolino che sce-glie ancora una volta il conflitto e l’ar-bitrio e oltre che il disprezzo delleleggi, una strategia del resto ben coltadalla Cgil: “Quello che sta avvenendooggi è la continuazione di un disegnoche approfittando della crisi economi-ca e dei valori, vuole cancellare defini-tivamente le conquiste degli ultimi 40anni dallo Statuto dei diritti dei lavora-tori al Contratto nazionale di lavoro,passando sopra anche allaCostituzione e alle leggi dello stato. E’questa la fase finale di una restaurazio-ne che è iniziata in Italia negli anni ’80e che rischia di veder cancellato il lavo-ro come elemento di costruzione del-l’emancipazione sociale. Il ricatto dellaFiat con l’accordo separato diPomigliano mette in luce che la com-petitività senza diritti ci porta semprepiù a competere con i paesi emergentiCina, India etc. dove di fatto non visono regole e gli stessi lavoratoridiventano una merce” (D. Bubbico, E.De Nicola “Il piano industriale FIAT2010-2014 e l’industria dell’auto regio-nale:l’organizzazione del lavoro, lecondizioni di lavoro in FIAT-SATA enell’indotto e le proposte della FiomBasilicata”, Settembre 2010).

La protervia con cui la Fiat si oppo-ne anche ad una sentenza della magi-stratura italiana, la disponibilità a paga-re lo stipendio mantenendo gli operai acasa, quasi che fossero portatori di unvirus pestilenziale, fa il paio con l’usci-ta da Confindustria e la disdetta di tuttii contratti. E’ la fabbrica che si fa stato,appunto. Ma sarebbe un errore politi-co considerarlo un segno di arcaicitàdella Fiat e di sua arretratezza. E’ unaprecisa strategia che detta i tempi allapolitica, come già in passato per altro,che dichiara la completa autonomiadelle scelte economiche (come ribaditonella recente intervista di Marchionneal Corriere della Sera dove si rilanciapaventando la possibilità della chiusura

È uscito il numero 1 del 2012

TortorellaI tecnici e la politica

SaiI ceti medi di oggi: cambiamenti

culturali e politiciBandoli

Politiche del territorio: l’ora di scelteanti liberisteSarasini

Di cosa parliamo quando parliamo di cura

BorianiQuale welfare in Danimarca

DuranteGramsci e la soggettività politica

delle donneCoutinho

Lukacs e Gramsci: un'analisi comparativa

www.criticamarxista.net

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Presso lo stabilimentoMichelin di Alessandria da tremandati consecutivi la

Filcem-Cgil ottiene la maggioranzaassoluta, ciò che le consente di espri-mere 5 membri in esecutivo (2 vannoalla Cisl e 1 alla Uil). Si tratta di unrisultato importante, che inoltre avvie-ne in uno stabilimento con un buonlivello complessivo di sindacalizzazio-ne.

Il 2 dicembre 2008 viene sottoscrit-to l’accordo riguardante il PianoSociale (il piano di riorganizzazionedella Michelin Italia), che prevede laconferma dell’investimento di 200milioni di euro nel quinquennio 2009-2013, finalizzato al consolidamentoproduttivo e occupazionale, sancendoparimenti che per tutta la durata delpiano non sono previsti ridimensiona-menti.

L’accordo inoltre definisce gli stru-menti per una gestione non traumaticadegli esuberi attraverso:

- l’utilizzo di Cassa IntegrazioneGuadagni per riorganizzazione

- l’utilizzo, a partire dal mese di gen-naio 2009, dello strumento della mobi-lità per coloro che matureranno irequisiti per il pensionamento

- un piano di incentivi che guardaalla mobilità infrasito, cioè a sostegnodei lavoratori che opteranno per solu-zioni esterne (outplacement e creazio-ne di nuovi siti), quali l’affitto agevola-to per 5 anni, un’indennità di trasferi-mento e altre misure di accompagna-mento

- la creazione complessiva tra160/190 posti di lavoro nella logisticadi Torino, a cui si aggiungono ulteriori350 opportunità di lavoro a Cuneo.

Il risultato conseguito per lo stabili-mento di Alessandria, cioè la sanzionenell’accordo della sua continuità pro-duttiva, non era affatto scontato, anzi.Si è trattato di una grossa conquista dei

zionali. Per dare un’idea, su 200 milio-ni di euro di piano industriale ben 160saranno investiti a Cuneo. Cuneo haricevuto macchine e impianti daTorino Stura (presse), ha ampliato lecapacità di cottura e grazie agli ulterio-ri investimenti diventerà l’unità di pro-duzione più importante per pneumati-ci, turismo, alto di gamma in Europadell’ovest, assorbendo fino a 350 nuoviposti di lavoro, con la risoluzione quin-di di parte degli esuberi di Torino Sturae di parte dei contratti a termine pro-venienti dal sito di Alessandria.

Lo stabilimento di Fossano è desti-nato a produzioni metalmeccaniche eper questo è organizzato sindacalmen-te dalla Fiom-Cgil. Il fatto che si trattidi una categoria sindacale diversa nonimpedisce affatto l’esistenza di unbuon livello di coordinamento, tantoche lo stabilimento di Fossano parteci-pa a pieno titolo al coordinamento sin-dacale del Gruppo Michelin. Il coordi-namento e la collaborazione sul pianosindacale vengono definiti come“molto buoni” dalle RSU. Più in gene-rale il complesso dei rapporti sindacaliè buono. Viene citato espressamente ilcaso dello stabilimento di Cuneo che,essendo oggetto dei principali investi-menti, “avrebbe avuto anche interessea non fare una vertenza dura con laMichelin, invece ha partecipato a tuttala vertenza condividendo la costruzio-ne di una posizione per l’intero grup-po. Insomma: il fronte sindacale èstato molto compatto”.

Il forte livello di sindacalizzazionedello stabilimento di Alessandria hafatto in modo che in produzione nonci siano cooperative o altre forme diesternalizzazione: “tutti i lavoratori inproduzione sono dipendentiMichelin”. A questo si aggiunga l’im-portante risultato della stabilizzazionedi 40 tempi determinati, inoltre il fattodella ricollocazione dei restanti 20 tra

lavoratori e delle loro organizzazionisindacali. Ad Alessandria sono occupa-ti circa 1.000 lavoratori (926 operai e143 impiegati); tre anni fa erano circa1.300; nel 1997 addirittura quasi 1.700,che lavoravano su 21 turni. Il PianoSociale quindi ha ridotto i livelli occu-pazionali anche se, come vedremo inseguito, si aprono possibilità di loroaumento. Al tempo stesso l’accordo haportato alla stabilizzazione di circa 200contratti a tempo determinato, di cui160 a Cuneo e 40 ad Alessandria.

L’accordo è avvenuto dopo una ver-tenza piuttosto dura con MichelinItalia (l’impresa). Gli esuberi dichiaratida quest’ultima erano 680, dei quali600 a Torino Stura, 40 a Vercelli e 40ad Alessandria.

Torino Stura ha pagato il prezzo piùalto. In questo stabilimento si produce-vano i pneumatici 14 e 15 pollici desti-nati alle auto di media e piccola cilin-drata: si tratta del settore maggiormen-te esposto alla concorrenza low-costdei produttori asiatici, che hanno giàconquistato grosse fette di un mercato.Per questo, nonostante siano stati rico-nosciuti i recuperi di produttività delsito di Stura, esso è stato dichiaratoormai incapace di reggere la concor-renza asiatica. I dipendenti di TorinoStura sono quindi passati da circa 900a 400. Ormai qui rimangono solo l’at-tività di calandraggio a caldo e ilmagazzino Amont. Inoltre il magazzi-no generale vi è stato trasferito daVercelli: il sito di Vercelli è stato tuttosmantellato e trasferito a Torino.

Cuneo è così diventato lo stabili-mento più importante del Gruppo: ilpolo europeo del prodotto Turismo edelle mescole. Nonostante la chiusuradel prodotto Avio a Cuneo la produ-zione è stata potenziata (è la produzio-ne mescole e pneumatici vettura), econ essa lo sono stati i livelli occupa-

LA MOBILITAZIONEHA EVITATO LACHIUSURA DELLAMICHELIN

Michelin Italia esce da un processo di pro-fonda e dolorosa ristrutturazione con chiu-sure di stabilimenti, trasferimenti di produ-zioni da un sito all’altro, cadute occupazio-

nali. Ad Alessandria il lavoro delle RSU edella Filtem-Cgil è stato in grado di salvare

lo stabilimento e di gestire gli accordi piùdelicati con l’impresa.

di MATTEO GADDI

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Cuneo e Fossano. Non solo: nel marzoscorso nello stabilimento diAlessandria sono stati inseriti 65 lavo-ratori in somministrazione. Di questipoi 2a sono stati trasformati in con-tratti a tempo determinato, dandoavvio ad un processo di stabilizzazione(ciò d’altronde è anche convenienzadell’impresa: dopo aver fatto lavorareper diverso tempo dei precari e averglifatto acquisire professionalità, ha inte-resse a tenerli).

Ad Alessandria (le cui produzionisono destinate a camion, veicoli indu-striali ecc.) i settori erano tre: le mesco-le, il rechapage (DL), il reparto “O”(dove si produce il nuovo). Il primo diessi è stato chiuso e trasferito a Cuneo.I lavoratori che vi erano occupati, chenel corso del tempo erano calati da 80a 60, sono stati ricollocati o in CassaIntegrazione in base all’accordo deldicembre 2008. Adesso le mescolevengono prodotte a Cuneo, che èdiventato lo stabilimento fornitore diAlessandria. Il secondo settore – rico-perto o rechapage – è rimasto: in essonon si producono nuovi pneumaticima si recuperano quelli usati attraversoun lavoro di copertura. Le carcassevecchie, cioè, vengono recuperate edopo essere state ricoperte fungono dapneumatico “recuperato”. Esso occu-pa 70 operai in produzione e 4/5 indi-retti: si trattava di un reparto che lavo-rava molto e pareva essere destinato aduna futura espansione, vista la mole dirichieste. Ma attualmente si manifesta-no difficoltà a reperire pneumatici“vecchi” da recuperare. In esso si lavo-ra su 16 turni con 3 squadre, dal lune-dì al sabato mattina. E’ rimasto infineanche il reparto dove si produce ilnuovo, chiamato “O” (oppure “pesolordo”). Riguardo a questo repartol’accordo nel 2009 sulle flessibilità,valido fino al 2013, ha comportato dilavorare in 8 domeniche, nel giorno delpatrono e il 2 giugno. E’ un repartoche si compone di diverse fasi di lavo-razione, però non organizzate secondoil metodo della catena: CF Gomma(preparazione dei prodotti in gomma)e CT (preparazione del cerchiettometallico). Nel CF Tele vengono mon-tate le prime componenti dello pneu-matico, arrivando così al CX, che cicompone di due fasi, la confezionedella carcassa e la finizione dello pneu-matico. A questo punto il prodottosemifinito passa alla cottura, quindi allaverifica qualità e al magazzino. Non si

turni e mezzo. Esistono quattro squa-dre (una squadra è costituita da 150-160 lavoratori), ma una di esse nelperiodo estivo (luglio-agosto) viene“smontata” e “spalmata” sulle altre tre,ovviando così al fatto che il 20% deilavoratori va a rotazione in ferie; pari-menti si passa da un orario settimanaledi 32-33 ore uno di 42; infine i giornidi lavoro passano da una media di 18 almese a una media di 22. Ciò infine sicombina a una modesta riduzione del-l’attività lavorativa (di 16 ore globali)degli altri impianti. L’accordo funzio-na: sia dal punto di vista della produ-zione (90% di risultato in luglio, 100%in agosto), ma soprattutto dal punto divista dei lavoratori, che hanno “strap-pato” all’impresa la fruizione estivadelle ferie. Anche dal punto di vista deiritmi di lavoro l’accordo sulla “stagio-nalità” ha evitato conseguenze negati-ve per i lavoratori: trattandosi di unalavorazione molto manifatturiera aogni operaio corrisponde un livello diproduzione che formalmente corri-sponde alla saturazione dell’impianto acui egli lavora, dunque se qualche lavo-ratore non viene a lavorare la sua man-cata produzione non può essere carica-ta sugli altri. Nel reparto del “rechapa-ge” invece non esiste la “stagionalità”,si lavora normalmente durante tutto ilcorso dell’anno.

Attualmente nello stabilimento diAlessandria si applica un accordo diCassa Integrazione Guadagni: in gen-naio si è tenuto un solo giorno di CIG,grazie alla gestione delle ferie delperiodo natalizio, ma in febbraio i gior-ni sono diventati 4, 10 in marzo e se nepreannunciano almeno 8 in aprile. Sitratta della gestione di quel PianoSociale che nel 2008 ha scongiurato lachiusura di Alessandria. La vicenda delrischio di chiusura dello stabilimentodi Alessandria si è intrecciata stretta-mente con la questione dell’ingresso dilavoratori interinali, alcuni dei quali,24, come già visto, sono stati trasfor-mati in lavoratori a tempo determinatocon possibilità di stabilizzazione. Eccoperché. Nel piano di ristrutturazionepresentato dall’impresa nel 2008 nonc’era futuro per Alessandria. Non acaso l’impresa ha proceduto da subitoalla chiusura del reparto mescole, tra-sferito a Cuneo. Il Piano Sociale, sem-pre come già visto, garantiva il futurodel solo sito di Cuneo. Per questoFiltem e RSU hanno deciso di non gio-care sulla difensiva, ma hanno avanza-

tratta, come già detto, di una catena:esiste una buona “polmonatura” trauna lavorazione e l’altra, ci sono 3pause da 15 minuti l’una, a cui siaggiungono 30 minuti di mensa. Laproduzione viene calcolata per turno:ad esempio vengono assegnati 1.000pezzi da realizzare, e il tempo necessa-rio per questa produzione lascia unmargine alla gestione da parte dei lavo-ratori (“con manualità ed esperienzariesci a “strappare” più tempo possibi-le all’azienda, raggiunto l’obiettivo diproduzione puoi fiatare”). Proprioquesto servizio (che occupa la maggiorparte della forza lavoro, circa 900 per-sone su 976) è stato oggetto di dueaccordi interni in materia di flessibilitàe stagionalità.

Ad Alessandria si è discusso seaccettare o meno il lavoro al sabato e ladomenica, ma grazie agli accordi sotto-scritti la questione è stata gestita otte-nendo un forte controllo del sindacato;si sono anche ottenuti turni miglioriper le donne. A questo risultato, diprincipio, nulla toglie il fatto che la loropresenza numerica nella produzionediretta è bassa, data la pesante “fisici-tà” del lavoro. Benché in questa sedenon siano tuttavia mancati migliora-menti rispetto agli anni 70, per ledonne continuano a esistere problemisignificativi di tunnel carpale e diperiartrite. Più in generale, la contratta-zione di secondo livello in Michelinvede una buona capacità sindacale siadi confronto alle richieste dell’impresa(di aumento della produttività, di mag-gior flessibilità, ecc.), sia di ottenimen-to di risultati riguardo al complessodelle condizioni di lavoro (sicurezza,ritmi, condizioni tecnico-organizzati-ve, ecc.). Sicché l’accordo sulla flessibi-lità del 2009 ha anche consentito buonirisultati, grazie al forte controllo che ilsindacato esercita nell’impresa.

D’altra parte una certa flessibilitàcorrisponde a una necessità obiettiva.Nel periodo estivo si registra infattiun’impennata degli ordini, poiché apartire da settembre devono esseredisponibili i pneumatici invernali. Perquesto, per esempio, il reparto del“nuovo” è stato oggetto di un accordodetto di “stagionalità”, che attraversouna modifica delle turnazioni e dellacomposizione delle squadre consentedi raggiungere obiettivi estivi più alti diproduzione. Ma senza compromettereil godimento delle ferie. Si lavora su 16

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to una proposta di svolta: lo svecchia-mento del personale, inserendo giova-ni operai in grado di reggere la “fisici-tà” del lavoro. Senza questo passaggioAlessandria non avrebbe mantenutoaperta nessuna chance di sopravviven-za. E’ dunque per questo che è statoconcordato con l’impresa l’inserimen-to prima di 24 e poi di altri 45 lavora-tori interinali. E poi a seguito di que-st’inserimento Filtem e RSU hannoavviato iniziative orientate ad arrivarealla stabilizzazione di questi interinali,contando anche sul fatto che per for-mare un operaio servono almeno 4mesi e che quindi stava nell’interessestesso dell’impresa tenerli dentro. Nonsi è trattato tuttavia di una soluzionefacile: come visto è operante la CIG,un fatto che immediatamente pesanegaticamente sulle buste paga, ciò chesignifica che non era scontato che unaparte dei lavoratori accettasse di buongrado l’inserimento di altri lavoratori.Ma il ragionamento che tra i lavoratoriha prevalso è stato quello riguardante ilfuturo dello stabilimento.

A fine anno ci sarà il momento deci-sivo, in quanto condizionato dallaripresa o meno dei volumi produttivi(il “rechapage” lavora 83.000 pezziall’anno a fronte di una potenzialità di85.000; il “peso lordo” produce 3.000pezzi al giorno a fronte di una capaci-tà di quasi 4.000). Si tenga conto dicome la gestione del Piano Sociale si ètrovata dinanzi all’imprevisto di queilavoratori anziani che prima della rifor-ma delle pensioni avrebbero potutoagganciare l’età pensionistica grazieagli ammortizzatori sociali. Ora cosasuccederà? L’impresa continuerà, inipotesi, a tenerli, benché molti isultinofisicamente provati dal carattere delleattività lavorative a cui sono addetti, elascerà a casa i giovani interinali in atte-sa di stabilizzazione? In ballo c’è ancheun investimento sul reparto CF chefarebbe sparire parte del reparto CFTele, grazie a un impianto in automati-co, Ciò determinerebbe una riduzionedi 50 posti di lavoro (i due reparti con-tano 140 + 80 postazioni per turno).Quest’investimento consentirebbe diportare ad 1 milione e mezzo all’annole coperture realizzate, con una ricadu-ta sul reparto successivo, il CX, chepotrebbe passare a un potenziale piùalto, cioè dai 3.000 pezzi/giorni attualia 3.900. Ciò potrebbe consntire,domanda permettendo, di recuperarenel CX i 50 posti di lavoro sostituito

Michelin, un ambito nel quale tuttavia“tutti si stanno attrezzando per difen-dere gli stabilimenti dei loro paesi. Si sache in Europa ci sarà una ristruttura-zione tesa a ridurre l’elevato numero disiti, e tutti vogliono evitare che la scurecada in casa propria”. I tedeschi inoltreuna strategia l’hanno già adottata: unarinuncia – dal 2005 al 2010 – agliaumenti contrattuali nella misura del30%, in cambio della conferma deglistabilimenti esistenti e di consistentiinvestimenti. I tedeschi, dall’alto deiloro salari, possono anche permettersidi perdere qualcosa: ma così facendoinnescano una pericolosa corsa alribasso sulle condizioni dei lavoratoridei vari stabilimento dislocati inEuropa.

dal nuovo impianto nel CF. Gli stabili-menti italiani si collocano nello scac-chiere mondiale di Michelin. EMichelin continua a denunciare unapropria sovraccapacità produttiva inEuropa, quindi valuta se mantenere omeno tutti gli stabilimenti di cui dispo-ne. Questa valutazione viene effettuataguardando ai costi di produzione e allaproduttività di ogni stabilimento, quin-di mettendoli in concorrenza tra loro(“da noi non ho mai sentito parlare diconcorrenza con Pirelli, Goodyear;Bridgestone, ma solo di concorrenzatra stabilimenti Michelin”).

Stabilimenti Michelin sono presentiin Europa Occidentale (Francia,Germania, Irlanda, Spagna oltre cheItalia) e Orientale (Polonia, Romania,Ungheria, Serbia), inoltre in Asia(India, Cina) e in Brasile. La messa inconcorrenza tra gli stabilimentipotrebbe quindi avere effetti moltopesanti sui lavoratori in Italia.

Al momento non esiste nessunaforma di coordinamento internaziona-le sindacale, fatta eccezione per il“Comitato Aziendale Europeo”

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La Fiber è una impresa diArcene, località della bassabergamasca, presente sul ter-

ritorio da oltre 60 anni (in un primoperiodo a Treviglio), che producedispositivi elettromeccanici ed elettro-nici per l’automazione industriale:moduli di sicurezza, dispositivi dimonitoraggio, temporizzatori, motorie motoriduttori per piccole movimen-tazioni, programmatori a camme,schede elettroniche. Lo stabilimento ècostituito dai reparti di stampaggioplastica e motori, dall’assemblaggio edal magazzino (a Treviglio è rimastauna officina che serve il reparto distampaggio). Lo scorso anno la pro-prietà ha comunicato l’intenzione didelocalizzare la produzione inRomania, sostenendo che i costi eranodiventati insostenibili. In caso contra-rio l’impresa sarebbe finita in fallimen-to. E prima di Natale è stata comunica-ta ai dipendenti l’intenzione di metter-ne in mobilità 43 su 51. La delocalizza-zione non costituisce una novità per laFiber: i macchinari del reparto di pro-duzione di motori (il cuore dello stabi-limento) è già stato trasferito inRomania. Ma l’annuncio della messageneralizzata in mobilità, quindi delladismissione completa dello stabilimen-to, ha suscitato una immediata reazio-ne dei lavoratori, che con un presidiodi 24 ore al giorno hanno cominciato abloccare l’uscita delle merci e chehanno chiesto all’impresa di fare mar-cia indietro.

“Siamo stati tutti uniti fin dal primomomento, questa è stata la nostraforza… Abbiamo bloccato l’uscitadella merce ma al tempo stesso abbia-mo continuato la produzione, in mododa mantenere in vita la fabbrica”.

ha determinato problemi pure allacatena internazionale della Fiber: nonsono più arrivate da Arcene le fornitu-re ad un’impresa svizzera la cui pro-prietà è riconducibile alla proprietariadell’impresa (e suo amministratoredelegato ora dimissionario).

Ed è proprio questa figura cheviene ritenuta responsabile del rischiodi fallimento della Fiber. “Ha ereditatol’impresa dopo la morte del padre 20anni fa, ma non si è mai interessatadelle produzioni, non ha mai realizzatoun solo investimento... Ha trattatol’azienda come qualcosa da spremeresenza metterci niente, anzi, togliendo ilpiù possibile”. E’ dunque questagestione ad avere portato la Fiber sul-l’orlo del collasso. “L’azienda ha resi-stito per 20 anni grazie a due cose: acome era stata lasciata dal padre del-l’amministratore delegato, ma soprat-tutto alla bravura dei dipendenti, chehanno fatto di tutto per mandare avan-ti l’azienda, spesso sostituendosi adessa che, al contrario, metteva i basto-ni tra le ruote”. L’ennesimo tristeesempio di un’imprenditoria che stop-pa i progetti che le vengono proposti eche addirittura cerca di impedire l’ac-quisizione di ordini da parte degli uffi-ci commerciali (in questo caso, dulcisin fundo, che pure diversifica la produ-zione investendo… in un centrobenessere!).

In breve, nessuna delle possibilità diespansione e di diversificazione pro-duttiva è stata mai colta, ma sono stateosteggiate o ignorate dalla proprietà.“Il prodotto è molto tecnico… quindibisogna conoscerlo per poter valutarele scelte da compier, .ma l’amministra-tore delegato non ha mai capito questa

I lavoratori della Fiber non si sonolimitati alla difesa di quel che rimanevadello stabilimento: hanno anche riven-dicato che venissero riportate nellostabilimento le macchine già trasferitein Romania. Nel frattempo, infatti, laproduzione che si teneva in Romaniafaceva arrivare in Italia primi pezzi lacui qualità era molto bassa. Di questosi erano resi conto per primi i maggio-ri clienti industriali della Fiber, che ave-vano protestato ed esercitato pressionisulla Confindustria di Bergamo affin-chè agisse nel senso che le lavorazionidelocalizzate venissero riportate adArcene.

Tra l’altro questi clienti, abituati allagrande qualità dei prodotti Fiber, nonerano nemmeno stati avvisati dellospostamento delle produzioni. Tra essifigurano imprese multinazionali comeElectrolux e imprese del territoriocome la NW di Val Brembo. Dellaprima la Fiber contribuisce alle produ-zioni per i settori industriali (il cosid-detto elettrodomestico “grigio”, cioècucine e mense di grandi dimensioniper ristoranti, ospedali ecc.); allaseconda fornisce i piccoli motori dainstallare nei distributori automatici dibevande e snack. Per di più accanto alpeggioramento della qualità dei motoriprovenienti dalla Romania ci furonoanche i ritardi nella consegna di altriprodotti, rimasti in capo ad Arcene, adesacerbare la situazione. La Fiber e igrossi clienti industriali sono legati daaccordi di fornitura basati su precisiquantitativi di consegne settimanali:“per cui fu sufficiente una settimana dipresidio per far saltare le forniture pre-viste e creare grossi problemi anchealle produzioni dei nostri clienti”.Inoltre il blocco dell’uscita della merce

EVITATA DAI LAVORATORI LADELOCALIZZAZIONEDELLA FIBER DIARCENE

Soltanto la lotta dei lavoratori dellaFiber, sostenuti dalla Fiom di

Bergamo, ha impedito l’ennesimadelocalizzazione industriale. La Fiber

ora è in concordato preventivo e siattendono le offerte di imprenditori

interessati ad acquisire lo stabilimen-to. Dai piani industriali che verranno

presentati dipenderà dunque unaconclusione che riguarda

51 lavoratori.di M. G.

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azienda, i primi tempi non veniva nem-meno, quindi non dava mai rispostealle opportunità di crescita che si pre-sentavano, né era in grado di valutaregli investimenti da fare”.

Solo in parte da qui la situazione dipesante indebitamento della Fiber.Essa infatti è dovuta anche all’apparte-nenza a una struttura societaria estre-mamente complessa, cioè fatta didiverse società: oltre alla Fiber, laBigatti (una ex concorrente acquistata),la Gap (che si occupa soltanto di servi-zi commerciali – i dipendenti, infatti,hanno il contratto di lavoro del com-mercio), la Infib (società immobiliare).“Insomma, quest’amministratore dele-gato aveva in testa un modello societa-rio simile a quello della FIAT, ma con51 dipendenti…”. In breve questocastello societario ha reso possibilimovimenti finanziari da una scatolaall’altra basati sull’impoverendo dellaFiber, e questo anche con scelte logisti-che inspiegabili: la produzione, adesempio, avviene in un capannoneormai obsoleto, con grande dispersio-ne energetica e costi elevatissimi.Sicché in occasione degli incontri con irappresentanti dei lavoratori successivialla dichiarazione della loro messa inmobilità, le giustificazioni addotte dallaproprietà riguardavano i costi relativialla tassa rifiuti, alle spese di affitto e a

prare e sulla base di quale piano”. Sonoassai frequenti, infatti, i casi di stabili-menti che in concordato preventivovengono frazionati o spolpati, consen-tendo agli acquirenti di recuperare persé a prezzi vantaggiosi solo parti dellaproduzione e, soprattutto, soltantoparte della forza lavoro. Questo rischioinoltre riguarda non solo i 51 dipen-denti diretti della Fiber ma anche i 9della Bigatti, quelli della Gap, oltreall’indotto costituito da almeno 15 pic-cole imprese, che svolgono una fun-zione di terzisti rappresentata di attivi-tà di premontaggio o anche di realizza-zione di parte dell’assemblaggio (sitratta quindi di una esternalizzazionedi un certo volume di attività svolteanche all’interno).

Gli effetti di una chiusura nonsarebbero perciò indolori per il territo-rio: per questo il comune di Arcene siè attivato subito anche sostenendo ilpresidio dei lavoratori ovvero fornen-do la tenda e le attrezzature necessarie.Il comune di Treviglio, invece, a guidaleghista, si è dimostrato assente. Tra leforze politiche che si sono attivate dallato dei lavoratori, infine, va ricordataRifondazione Comunista, che con icircoli di Treviglio, Caravaggio eDalmine ha organizzato una raccoltadi fondi a sostegno.

quelle per il riscaldamento dell’immo-bile… Nessuna ammissione di respon-sabilità propria, invece, per esempioper il fatto che i prodotti sono rimastigli stessi di 20 anni fa, che non è statorealizzato nessun investimento, chel’impresa è rimasta sostanzialmente lastessa ereditata dal padredella proprie-taria, senza alcun miglioramento oammodernamento.

Il disastro economico ha portatoalle dimissioni dell’amministratoredelegato e dunque a un concordatopreventivo che conta di arrivare acoprire fino al 90% del debito accumu-lato grazie alla vendita dello stabili-mento. Cinque o sei imprenditorihanno dichiarato la disponibilità all’ac-quisizione dell’impresa, i cui ordinativinel frattempo, paradossalmente, sonolievitati, complice anche la chiusura(sempre per delocalizzazione inRomania) dello stabilimento svizzero.“Adesso abbiamo una montagna dilavoro, talmente tanto che facendo 2ore di sciopero a settimana per reggereil presidio siamo stati costretti a fare 6nuove assunzioni”.

Il destino della Fiber e dei suoi lavo-ratori, a questo punto, dipende daipiani industriali che verranno presenta-ti dai possibili acquirenti. “Dobbiamovigilare, capire bene chi intende com-

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Liberato Norcia

COSA HO CHIESTO TRENT’ANNI FA ALL’ONOREVOLE ENRICOBERLINGUER E QUELLOCHE CHIEDEREI OGGIALL’INGEGNER SERGIOMARCHIONNE

Legma Edizioni,pp. 110, 10 Euro

Il lettore non si lasci ingannare daltitolo: questo è ben più di un libro sui“35 giorni” della Fiat nel 1980. Certo,questi costituiscono per certi versi ilculmine della narrazione – e il titoloricorda l’episodio di cui Norcia fu pro-tagonista, quando chiese a Berlinguer,davanti ai cancelli di Mirafiori, come sisarebbe comportato il PCI se gli ope-rai con i loro delegati avessero decisodi occupare la fabbrica; così come la“domanda a Marchionne” è un riferi-mento all’attualità che Norcia sentivadi dover fare, chiedendo a Marchionnese non ha mai pensato che il suo regi-me oppressivo possa produrre un’on-data di ribellione operaia simile a quel-la prodotta dal regime oppressivo diValletta.

Ma, al di là di questo, il libro è unaffascinante racconto di una vita ope-raia al tempo stesso “atipica” ed esem-plare.

Liberato Norcia è nato in uno diquei paesi del Mezzogiorno, Greci, chesono enclaves di nazionalità albanese –e ancor oggi parla l’arbresh, cioè la lin-gua albanese antica che li caratterizza.Ma parla anche il tedesco: infatti, comemolti lavoratori del Sud, ha dovutoemigrare e ha lavorato in Germaniaper molti anni. E il libro si riferisce aitre periodi fondamentali della sua vita:quello di emigrato in Germania, quellodi operaio e delegato alla Fiat, per arri-vare poi – non all’inizio, ma in conclu-sione – a raccontare la sua infanzia egiovinezza nel paese natale.

come si sono formati i delegati e suicriteri su cui lui come delegato costrui-va i rapporti con gli altri lavoratori.

Naturalmente, poi si arriva ai “35giorni”. E qui mi permetto di fare unacritica. Nella pagine dedicate a quellagrande lotta e a come si concluse, pre-vale – nel ricordo di Norcia – l’amarez-za e il senso di essere stati in qualchemodo traditi. Ciò è comprensibile: malo stesso Norcia – in un’intervista chegli feci per il Manifesto poco dopo i 35giorni – aveva sviluppato un’acuta ana-lisi dei fattori che, già in un paio di anniprecedenti, avevano corroso il rappor-to tra delegati e lavoratori; cioè si chie-deva perché si era arrivati a questo. E,mi sembra, il fatto che i 35 giorni sisiano tradotti in una “sconfitta storica”non dipende tanto dai contenuti del-l’accordo conclusivo (forse, a quelpunto, inevitabile), ma dal modo in cui,poi, i sindacati hanno interpretatoquella vicenda e dalle “lezioni” spessosbagliate che ne hanno tratto.

Il libro però non si ferma ai 35 gior-ni. Norcia non fu tra i compagni“messi in mobilità”, ma presto dovettelasciare la fabbrica anche per motivi disalute. Tentò, senza fortuna, un impe-gno sindacale nella CISL (va ricordatoche Norcia, come molti altri delegati“di punta”, ricevette la “copertura sin-dacale” dalla FIM-CISL, che in queglianni era più aperta verso le posizionipiù radicali in fabbrica).

La seconda parte del libro comincia“ritornando all’infanzia”, agli anni nelpaese natale (dove oggi, tra l’altro,Liberato ritorna con sua moglie perlunghi periodi dell’anno). E, nel rac-contare quegli anni, il libro raggiungeanche punte di alta poesia. Questaparte finisce “rimandando all’inizio”del libro, cioè all’arrivo in Fiat.

Credo sia importante che questolibro venga letto da chi non ha vissutodirettamente quegli anni.

Tutti siamo d’accordo sull’impor-tanza politica della “memoria”; ma,spesso, il tipo di memoria che vieneofferto ai giovani o è intriso di retoricae dominato dalla nostalgia (e crea unareazione di rigetto – ricordo le reazio-ni di noi giovani di allora alla “retoricadella Resistenza”) o è intriso di rielabo-razioni ideologiche fatte “col senno dipoi”. Il racconto di Norcia è inveceautentico, realistico – e quindi di gran-de capacità comunicativa.

(Vittorio Rieser)

Norcia è approdato alla Fiat nellaprimavera del 1969, ed è allora che l’hoconosciuto: io ero ai cancelli, comemilitante della “assemblea operai-stu-denti” allora molto attiva (e spesso conposizioni di “estremismo infantile”).Lui mi parlò subito della sua esperien-za di lavoro in Germania, dove – ad es.– come lavoratore era molto più rispet-tato dai capi di quanto non avvenissenel regime militaresco della Fiat; edisse che questo era dovuto alla pre-senza e alla forza del sindacato tede-sco, e che lui lottava per costruire allaFiat una forza sindacale capace di farealtrettanto. Questo riferimento positi-vo al sindacato tedesco era un punto dicontrasto, se non con me personal-mente, con le posizioni sostenutedal”movimento” e poi dai gruppi disinistra che si formavano in queglianni. Ma tutto ciò non impedì un pro-ficuo dialogo con Norcia, che si tra-dusse poi in un suo impegno nel CUBMirafiori, e anche nel Collettivo Lenine in Avanguardia Operaia.

Ma torniamo al libro. Norcia dedica(nella parte conclusiva del libro) moltepagine alla sua esperienza tedesca, dilavoro, di vita familiare (fu raggiuntodalla moglie), di relazioni con i conna-zionali e con i tedeschi. Non è ancoraun periodo di suo impegno sindacalediretto, ma è decisivo nel formare ilsuo orientamento politico e sindacale.Però il libro comincia col suo arrivo aTorino e con il suo ingresso in Fiat.

Quando arriva in Fiat, Norcia sitrova di fronte a una situazione bendiversa da quella sperimentata inGermania (va detto che la sua inGermania è per certi versi una “storiafortunata” – altri hanno avuto espe-rienze più dure): condizioni di lavoromassacranti, sostenute da un regimeautoritario e repressivo. Si impegnadunque subito nella lotta: e buonaparte del libro è costituita da pagine,non di esaltazione retorica ma di acutaed attenta analisi, su come si è venutacostruendo la capacità di lotta, su

RECENSIONIe segnalazioni

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recensioni

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Eric J. Hobsbawm

COME CAMBIARE IL MONDOPerché riscoprire l’eredità del marxismo

Rizzoli,pp. 486, 22 Euro

Marx: un fantasma che si aggira peril mondo e di cui il mondo non riescea liberarsi. In tempi di anti-comuni-smo, di demonizzazione indiscriminatadi quanto il comunismo reale ha pro-dotto, potrà forse sorprendere che leopere marxiane non siano mai vera-mente finite “in soffitta”, come pole-micamente affermava Bordiga.

Il lavoro di Hobsbawn vuole essereun racconto più che una trattazioneaccademica o un manuale operativoper militanti.

Un racconto inevitabilmente serio,ma dal tono discorsivo, che ripercorrelo sviluppo della teoria marxiana e poidel marxismo documentando a partiredagli scritti giovanili la pervasività delpensatore Marx in tutta la cultura, laletteratura, le scienze umane. Una sto-ria che chi ha avuto a che fare, fossesolo a livello superficiale, con i movi-menti del XIX secolo, conosce peraverla vissuta, amata e talvolta ripudia-ta. Grazie a questo saggio Hobsbawnricorda a ragione a chi se ne è dimenti-cato, a chi ripete giudizi sommari, chein Marx si trova una autentica forma diumanesimo, essendo l’uomo conside-rato nella sua interezza, nella sua rela-zione con il mondo e con la natura:semplice eppure ineludibile osserva-zione che rende quel pensiero quantomai moderno e “necessario”pur rico-noscendone gli aspetti insufficienti eobsoleti.

La caratteristica dell’opera marxia-na, ciò che la rende più sorprendenteper l’Autore, è la sua natura di work inprogress, sulla base del quale hannolavorato i cosiddetti epigoni, Kautsky,Bernstein, Lenin, Plekhanov e viadicendo. Ciascuno a proprio modo,questi e gli altri che seguirono, hannopiegato, forzato quella teoria adattan-dola alla situazione storica, ai propripiani e alle proprie esigenze e a quellidi coloro che li seguivano. Fin dal-l’uscita del Manifesto del 1848, la pre-senza di Marx si è fatta sempre piùimportante grazie alla profonda analisidel sistema capitalista su cui è incentra-ta la sua opera. Ed è a questa che,

per la sua dignità smentiscono clamo-rosamente la vulgata che vuole il pen-siero marxiano confinato entro unarido economicismo. Sia Marx cheEngels hanno inteso conoscere afondo i meccanismi della storia umanaper giungere all’elaborazione di unateoria che potesse cambiarli.

La formazione e i campi di indaginedei due filosofi offrono indubbiamen-te un quadro di grande spessore cultu-rale. Non solo la filosofia idealista diimpronta hegeliana sta alla base dellavisione dialettica di Marx, bensì unaricerca storico/antropologica sull’evo-luzione dell’uomo come animale socia-le che opera - “lavora” - entro l’am-biente naturale e che con la divisionedel lavoro nel sistema capitalista, vieneridotto unicamente a forza-lavoro,quindi a semplice merce, subendo unasorta di grave disumanizzazione e diseparazione dalla natura stessa.

Inizialmente democratici, i due filo-sofi divennero comunisti poco primadella pubblicazione del Manifesto del1848 e parvero all’inizio abbastanzacauti nell’identificazione con la Legadei Giusti, poi divenuta Lega deiComunisti, che attraeva molti lavorato-ri già dagli anni trenta dell’Ottocento.Dopo la delusione del 1830, l’attenzio-ne verso il proletariato fluttuava findagli anni ’40 nella società, esprimen-dosi nella letteratura borghese di ispi-razione sociale (Zola, i Goncourt, per-fino il monarchico Balzac), nei fer-menti sociali. Attenzione a cui Marx edEngels non poterono sottrarsi, consi-derati i problemi dei lavoratori sorticon la Rivoluzione industriale. Inoltreil disagio prodotto dalla divisione dellavoro e l’esigenza di cambiare la con-dizione della donna in termini diemancipazione e di liberazione sessua-le, ad esempio, furono in parte sugge-riti da un socialista utopista moltoapprezzato da Engels, il rousseauianoCharles Fourier. Così come gli apportipiù interessanti alla elaborazione diun’idea socialista, secondo Hobsbawn,venne dai Fabiani inglesi, dall’analisidel “comunista” Owen, dai Cartisti,dal pensiero anarchico.

Non esistono epigoni corretti oscorretti del pensiero marxiano, esisto-no interpreti, poiché, questo sì, i duefilosofi, teorizzando intorno allacostruzione del socialismo non arriva-rono ad elaborare una dottrina dellostato. A ciò si dedicarono coloro chearrivarono a dar forma al sogno socia-

volenti o nolenti, molti economisti eteorici fanno ancora riferimento.Paradossalmente, chi ancora vuolecapire la natura del capitalismo, dellesue fortune e delle sue crisi, trova inMarx un preziosissimo strumento dianalisi.

Il saggio di Hobsbawn raccogliemolti degli scritti da lui pubblicati nelcorso del tempo su Marx e il marxismoe, in misura ridotta, su Engels, seguen-done tutto il percorso a partire dalleopere giovanili fino all’ardua lettura deiGrundrisse, la raccolta di appunti pro-pedeutica alla definizione delle operedella maturità.Cronologicamente ante-cedenti, ma a lungo trascurati ancheper la difficoltà di decodificazione diuna scrittura abbreviata poiché riserva-ta a un utilizzo personale del filosofo, iGrundrisse sono stati pubblicati intempi relativamente recenti (Berlino,1953) rivelandosi imprescindibili per inuovi preziosi elementi di interpreta-zione dell’intero canone marxiano.

Il tema annunciato da Hobsbawnnel titolo - Come cambiare il mondo -pone l’accento sulla novità insita nellafilosofia marxiana, quella di non rap-presentare una semplice interpretazio-ne del mondo, bensì un punto di par-tenza teorico per modificarne le basisocio-economiche in vista di un nuovorapporto tra gli uomini all’interno diuna società che ne rispetti il fonda-mentale diritto all’eguaglianza e il lega-me con la natura. E di conseguenzaviene evidenziata anche l’operazione dilettura e di “estensione” del pensierodei due filosofi operata da coloro chene hanno fatto i fondamenti di unanuova teoria della società e dello stato.

La scrittura di Hobsbawn mantieneil tono narrativo annunciato nel sotto-titolo (tales, racconti), evitando tortuo-sità e bizantinismi, con uno stile limpi-do e armonioso che ben si addice aun’opera dotta e al contempo divulga-tiva, frutto di una lunga consuetudinecon il pensiero di Marx. Sicché coloroche quel pensiero non hanno frequen-tato se non parzialmente, in un passa-to di studio o di militanza, apprendonocon quale profondità il filosofo tede-sco e il suo sodale Engels abbiano stu-diato le fasi della storia della civiltàumana, pur con alcune omissioni rela-tivamente a quello che oggi chiame-remmo “terzo mondo”. E quanto unostudio siffatto abbia influito sullo svi-luppo del loro pensiero appare eviden-te: la centralità dell’uomo, il rispetto

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lista, restando poi invischiati in tuttequelle difficoltà che non staremo qui agiudicare né ad analizzare, ma che coltempo resero alla fine asfittico quelprogetto. Separare Marx da Lenin, daStalin e dagli altri che come loroaffrontarono la sfida è indispensabileper distinguere il nucleo teorico dallaeffettiva costruzione di una nuovasocietà su basi socialiste.

Il dibattito su Marx che appassionòed impegnò gran parte del secolo scor-so portò a distinguere tra realtà socialie forme di stato che i due filosofi nonavevano prefigurato, fino a produrrelacerazioni all’interno dei movimenti aloro ispirati. La riflessione e lo scontroteorico si dispersero spesso nell’astra-zione di definizioni come quelle di statirivoluzionari e non, sulla socialdemo-crazia contrapposta alla rivoluzione -avente come incontrastato modellol’URSS – oppure intorno a categoriecome il revisionismo e l’imperialismo.

Il terzomondismo, l’interesse per ipaesi che al tempo di Marx ed Engelsrientravano ancora negli imperi colo-niali, non sfiorò neppure i due filosofi.Eppure anche in quest’ultimo casonon è stato possibile agli epigoni pre-scindere dalla riflessione marxiana.

In modo che oggi può sembrare sin-golare, durante l’Età della Catastrofe,quella che vide tra il 1914 e il 1940 ilcrollo del capitalismo ottocentesco,parve a molti che il sistema capitalistanon riuscisse a riprendersi, mentre inURSS il socialismo appariva produtti-vo e ben saldo, almeno fino agli annisessanta.

Come sappiamo, il capitalismo hainvece dimostrato la capacità di recu-perare in modo nuovo e con rinnovatavitalità il terreno perduto, come previ-sto dai due filosofi, i cui studi si con-centrarono sostanzialmente, specieper Marx, sull’analisi della nascita dellaclasse borghese e del capitale nelMedio Evo in Occidente.

Il tema della sovrapproduzionecome fattore di crisi causato dai ritmidi lavoro, che porta ai conflitti socialiall’interno del sistema capitalista rima-ne un caposaldo nelle discussioni sullarealizzabilità del socialismo, tenutoconto che per Marx il punto di parten-za era l’appropriazione dei mezzi diproduzione da parte dei lavoratori inseguito alla nazionalizzazione delleindustrie e il recupero del proprio rap-porto con la natura e con gli altriuomini.

affrontato, perché forse non era arriva-to ad immaginarne la portata dell’im-patto futuro.

Ciò che per Hobsbawn oggi restavalido del pensiero di Marx sono l’ana-lisi della “irresistibile” dinamica delcapitalismo e quella della sua crescitache genera “contraddizioni” che oggi,in epoca di devastazione globale neldominio supremo del mercato, cifanno capire come il capitalismo nonsia la risposta, bensì il vero problema.

“Non esiste alternativa alle catego-rie di Marx per comprendere la storia”affermò Sir John Hicks, Premio Nobelper l’economia nel 1972. Molti ancoroggi gli danno ragione.

Ma come cambiare il mondo? Ladomanda continua a tormentarci... Se èvero che non si riesce a intravedere unaalternativa al sistema attuale, al con-tempo si ha la sensazione che non sisia lontani da una sua implosione, dacui ancora non sappiamo quale potràessere la via d’uscita.

E neppure l’entusiasmo diHobsbawn arriva ad azzardare unarisposta soddisfacente, proprio perchéla teoria marxiana va considerata unmetodo e non propriamente un pen-siero compiuto. La cui indiscussa vita-lità è comunque confermata in questoomaggio a lui reso dallo storico ingle-se.

(Laura Cantelmo)

A questo punto certamente nonsorprenderà nessuno, se non pochioutsiders, l’evidente fatto che il pensie-ro di Marx torni utile proprio ai suoinemici, i capitalisti, in quanto studiosodelle dinamiche del sistema e della suacrescita che genera contraddizioni econseguenti fasi critiche come quellaattuale. E che comunque egli avrebbelucidamente individuato l’incapacitàdella piccola borghesia di trovare unapropria rappresentanza, se non in ter-mini autoritari e finanche il destinoglobale del capitalismo, vale a dire lasua insostenibilità economica eambientale che ne costituiscono il tal-lone di Achille.

La centralità della “politica” e delconsenso, occupano gran parte del rac-conto marxiano contenuto in questovolume. Ed è intorno a queste catego-rie che si sviluppano i capitoli suGramsci, la cui statura di pensatore distraordinaria originalità viene ricono-sciuta da Hobsbawn con una attentavalutazione dei suoi scritti e dell’ormaprofonda da lui impressa sulla storiadel pensiero marxista. Si comprendecosì come Gramsci goda di grandissi-ma considerazione fuori d’Italia,segnatamente nei paesi anglo-sassoni.Nel pensiero gramsciano sono la cen-tralità della “politica”, l’importanzadell’egemonia nell’organizzazione delpartito dei lavoratori e in particolare lanuova identità dell’intellettuale e il suoruolo “organico” a mostrarsi efficacinella costruzione del partito dei lavora-tori.

Per l’applicabilità concreta si dovet-te aspettare che Enrico Barone nel1908 elaborasse la prima teoria del-l’economia centralizzata e che la Russiarealizzasse in modo abbastanzaimprovvisato la propria economia pia-nificata sul modello dell’economia diguerra adottata nel primo conflittomondiale e basata su una rapida indu-strializzazione.

Che fosse proprio la Russia, con ilsuo sistema feudale organizzato intor-no alla piccola comunità agraria di vil-laggio, ad attuare per prima un sistemasocialista avrebbe sorpreso non pocoMarx ed Engels, che nutrivano speran-ze perché ciò avvenisse in paesi evolu-ti come la Germania e l’Inghilterradove si era già affermata la rivoluzioneindustriale.

L’elaborazione staliniana ha fatto sìche si parlasse di Marx in modo inap-propriato su temi che egli non aveva