LAVORO - puntorosso

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progetto LAVORO per una sinistra del XXI secolo 11 febbraio-marzo 2012 6 Euro Franco Calamida Umberto Carpi Leo Ceglia Luigi Greco Natalie Gupta Manuela Marcon Maria Rosaria Marella Luca Martinelli Corrado Morgia Nicola Nicolosi Gian Paolo Patta Mimmo Porcaro Monica Quirico Roberto Romano COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è rico- nosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la fun- zione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indenniz- zo, espropriata per motivi d'interesse generale... (Art. 42) Registrazione Tribunale di Milano n. 650 del 03-12-2010

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progetto

LAVOROper una sinistra del XXI secolo

1111ffeebbbbrraaiioo--mmaarrzzoo22001122

66 Euro

Franco CalamidaUmberto Carpi

Leo CegliaLuigi Greco

Natalie GuptaManuela Marcon

Maria Rosaria MarellaLuca Martinelli

Corrado MorgiaNicola Nicolosi

Gian Paolo PattaMimmo PorcaroMonica Quirico

Roberto Romano

COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANALa proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è rico-nosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la fun-zione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indenniz-zo, espropriata per motivi d'interesse generale... (Art. 42)

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Franco CalamidaIn ricordo di Pino Ferraris

Giorgio RioloIn ricordo di Giulio Girardi

Gian Paolo PattaRicostruire una sinistra popolare di massaNicola NicolosiNon si tratta sulla dignità del lavoroManuela MarconLo sciopero del 9 marzo nella metalmeccanica Luigi VinciDove prendere soldi … ce lo dice MediobancaS. S.Siamo tutti greciRoberto RomanoRimodulare la “domanda effettiva”

Cesare Salvi“Costi della politica” Umberto CarpiQuale sovversivismo oggi delle classi dirigentiLeo CegliaQuale forma di democrazia nel sindacatoRedazionaleCome le pensioni sono diventate un affare Luigi GrecoRicostituire la democrazia localeLuca MartinelliLa Cassa depositi e prestiti

Stefano SquarcinaIl senso reale del nuovo Trattato a 25S. S.La socialdemocrazia europea sta abbandonandoil liberismo? Roberto RomanoIl sogno segreto della GermaniaGiancarlo SaccomanCome ai disastri del liberismo l’UE aggiunga errori grossolani

Maria Rosaria Marella Lavoro bene comune?Mimmo PorcaroLezioni dalla crisiCorrado MorgiaRifondare la politica, ricostruire la sinistra

Monica QuiricoSvezia: una nuova fase del Partito della SinistraNatalie GuptaIndia: la liberalizzazione della distribuzione commercialeAntonio MorandiCipro: un’ isola divisa in due nella UE

Matteo GaddiLa Memc di Merano

Recensioni

RIVISTA MENSILE PROMOSSADALL’ASSOCIAZIONE PUNTO ROSSO E DALMOVIMENTO PER IL PARTITO DEL LAVORO

ESSA RITIENE CENTRALE NELLA CRISISISTEMICA IN CORSO LA RICOSTITUZIONEDEL VERSANTE POLITICO DI MASSA DELMOVIMENTO OPERAIO

Registrazione presso il Tribunale diMilano n. 650 del 03/12/2010

Edizioni Punto Rosso

DIRETTORE RESPONSABILEGiancarlo Saccoman

CONDIRETTORELuigi Vinci

DIREZIONE EDITORIALESilvana Cappuccio, Anna Cotone,Saverio Ferrari, Matteo Gaddi, SilviaGarambois, Roberto Mapelli, MariaRosaria Marella, Giorgio Mele, AndreaMontagni, Antonio Morandi, CorradoMorgia, Luca Nivarra, Roberto Passini,Gian Paolo Patta, Paolo Repetto,Giorgio Riolo, Vittorio Rieser, GiancarloSaccoman, Alberto Scanzi, Luigi Vinci.

COLLABORATORIMario Agostinelli, Anna Belligero, Paola Bentivegna, Elio Bonfanti,Giacinto Botti, Franco Calamida,Antonio Califano, Giovanna Capelli,Tatiana Cazzaniga, Bruno Ceccarelli,Leo Ceglia, Luca Ciabatti, Paolo Ciofi,Erminia Emprin Gilardini, MarcelloGraziosi, Paolo Hlacia, Igor Kocijancic,Gian Luca Lombardi, Emilio Molinari,Raul Mordenti, Gianni Naggi, NicolaNicolosi, Giuliano Pennacchio, RobertoPolillo, Mimmo Porcaro, RobertoRomano, Stefano Squarcina, GianniTamino, Leopoldo Tartaglia, Mauro Tosi.

SEGRETERIA DI REDAZIONE PRODUZIONE EDITORIALE E AMMINISTRAZIONE c/o Associazione Culturale Punto Rosso Via G. Pepe 14, 20159 Milano Tel. 02/874324 [email protected]

PREZZO e ABBONAMENTIPrezzo a numero 6 euro, abbonamentoannuo ordinario 50 euro, abbonamentosostenitore 100 euro, da versare sulconto corrente postale numero 7328171intestato a Ass. Cult. Punto Rosso -Rivista Progetto LavoroPer bonifico bancario IBAN IT78J0760101600000007328171

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Questo numero della rivista è statochiuso il 9 marzo 2012

NOTE DI POLITICA

DEMOCRAZIA E STATO

SOCIALE SOTTO TIRO

UNIONE EUROPEA

SINISTRA

ESTERI

INCHIESTE E RICERCHE

SUL LAVORO

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IN RICORDO DI PINOFERRARIS

Scrivere di Pino, quando la sua scomparsaè vicina, fa soffrire. Matteo Gaddi ha scrittobenissimo del suo pensiero politico (pensoche Pino ne sarebbe contento), e ha affer-

mato che “della sua vita scriverà chi l’haconosciuto meglio”. Io ne voglio scrivere

con serenità, non tanto di quel che hoconosciuto di Pino, ma di quello che con luiho vissuto. Racconterò di Pino a Chamois.

Ci eravamo incontrati in annilontani, in un convegno sin-dacale o in un’assemblea

operaia. Mi impressionò, non tanto peril suo parlare colto, saggio, di chi satante cose, molto ha studiato, eppure èquasi un bambino, ma soprattutto perla sua coinvolgente passione.

A quei tempi, un’assemblea seguival’altra, e le lotte, i picchetti, gli scioperi,e dentro a questo noi che volevamocambiare il mondo, e il nostro, anche ilmio, infantile, forse ingenuo, entusia-smo. Aborrivamo il cinismo e l’indiffe-renza. Amavamo la coerenza.

La nostra è stata una generazionefortunata: la politica dava senso allavita.

Per Pino era infatti la vita, ed eraun’incessante ricerca. Ripeteva spesso:“solo nel conflitto si disvela la realtàdella condizione operaia e delle com-plesse relazioni interne alla classe”.Nulla vi è definito una volta per tutte,tutto cambia, scorre, per capire biso-gna esserci, esserne parte, prenderviparte. Bisogna anche leggere, leggere,leggere. Il valore dello studio è immen-so. Per capire occorre anche fareinchiesta. Stare sempre dalla parte del-l’estremismo sociale ma mai da quelladell’estremismo ideologico. La societànon è una somma di individui, ma uninsieme di relazioni, l’opposto del ter-ribile detto della Thatcher “la societànon esiste”, che fu l’inizio di un gran-de disastro”.

Dopo la notizia della morte, ricevu-ta dal figlio Sergio, dopo un attonitosilenzio ho cercato nella memoria ilmio primo ricordo di Pino: un grandeprato in pendenza lieve, in montagna, a

Si conversava così tutte le mattineattorno alle 11, quando non piovevanel bar della piazzetta, un aperitivo e imonti di fronte, il sole che scaldava, ece n’era bisogno, con AlessandroCavalli, Daniela Garavini, Claudio eIlaria Lombardi, che cantava come unangelo, Rita Brivio, Leonida e AlbaCalamida, Laura Balbo, Michele Salvati(che studiava e scriveva sempre, ungiorno fece persino una passeggiata),Bianca Beccalli. Quanti amici avevaPino, che incontrammo a Chamois:Emilio Molinari, Luigi e MarinaFerrajoli e il loro figlio, Laura DeRossi, i Magnaghi, Sesa Tatò, più tardiLucetta e Mario Pucci, e tanti altri . Epoi, sul terrazzo di casa mia a Suisse,si pranzava su un gran tavolo che pog-giava su una radice di larice, non lonta-no le colline con le pinete, tutt’attornoil bosco. E l’allegria, il ridere, il vino,come fa bene il vino. Poi, nel primopomeriggio, musica: Vittorio Riesersuonava l’organo e Luigi Bobbio ilflauto traverso. Chi per caso passava aSuisse, paesino con un solo residente,Emilio, si fermava stupito e si sedevasui gradini a lato della casa. E rimane-va contento. Arrivava anche il caffècorretto a monte, basta mettere nellacaffettiera la grappa invece dell’acqua.

Fui ospite a casa sua, con VittorioFoa. Primi anni settanta o ancoraprima. Casa costruita dal padre di Pinoa la Ville, antica ed ospitale, i travi in

Chamois Valle d’ Aosta; il profumo delfieno. Su una stradina sterrata checorre sul lato, passato il torrente, allorac’erano le trote, saliva, di buon passo,Pino. Arrivava dalla Ville, una frazione,e veniva a Suisse a trovarci. Non è faci-le definire la felicità, ma i piccoli even-ti gioiosi che fan bella una giornata,quelli sì, e non si dimenticano. VederePino su quel sentiero era il preannun-cio di qualche ora di magnifica conver-sazione.

Ah, come raccontava bene, Pino.Parlava con slancio travolgente, siinfuocava. Di ogni fatto piccolo ogrande della realtà del mondo, o dellastoria, o della politica dava una origi-nale, inattesa lettura, acuta, coltissima,ma senza la minima traccia di suppo-nenza, della presunzione del “colui chesa”. Episodi di lotta operaia o contadi-na, un paesaggio o un quartiere di città,un’esperienza di vita prendevanoforma nella sua narrazione e colpivanol’immaginazione. Affascinante: sem-brava quasi la realtà stessa, scovata daPino e comunicata agli amici come undono. Spesso ti forzava a mettere indiscussione tue convinzioni. Ma quelche più mi incantava era il castellomagico di idee, la loro costruzione cheprendeva forma, l’accostamento diesperienze vissute a riferimenti a figu-re intellettuali. Come spiegarmi? Ecco,la narrazione di Pino era un quadro,con i suoi colori e i suoi contrasti.

di FRANCO CALAMIDA

Sono sconparsi nelle scorse settimane quasi contemporaneamentedue compagni che molti tra quanti hanno creato questa rivista hannoconosciuto e hanno amato e dalla cui intelligenza e umanità hannoimparato: Pino Ferraris e Giulio Girardi. Abbiamo chiesto a due com-pagni della nostra redazione che meglio di altri li hanno conosciuti discrivere una loro memoria.

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legno erano bassi, nessun problemaper Pino, qualcuno per me, che stavoattento, molti per Vittorio, che non civedeva benissimo e prendeva colpistoicamente, io gli consigliai un elmet-to. Di cosa Vittorio abbia rappresenta-to per Pino, dell’influenza del suo pen-siero, della sua dialettica appassionata,avrebbe dovuto scrivere Pino. Io dicosolo della profondità, intellettuale eumana, di questo rapporto, e dell’affet-to. Molti anni dopo andammo a trova-re Vittorio a Cogne, vi trascorreva levacanze estive, era fisicamente prova-to, ma lucidissimo; ci spiegò diversecose, premettendo “come sapete”, e ciparlo’ della libertà (superare gli ostaco-li, spezzare gli steccati, andare oltre imuri, eliminare ciò che ci limita). Sullavia, a tarda sera, del ritorno a Chamois,in macchina, guidavo lentamente sul-l’autostrada a fondo valle, dai fianchibellissimi, Pino pensieroso disse “ lalibertà, devo rifletterci”. Ne scrisse poiin diverse occasioni.

Scrisse molto. Mi raccontò Pino,divertito, che, in visita a Washington,alla Biblioteca del Congresso VittorioFoa consultò il computer per verificarese c’erano suoi scritti: quattro. Poi fecelo stesso per Pino: sei.

Pino amava la musica, l’architettura,la pittura: in ogni pinacoteca famosadiceva di avere quattro o cinque quadrisuoi “amici”, non guardava gli altri,solo quelli. All’Accademia di Veneziaabbiamo trascorso qualche giorno loscorso anno, con Mariella; Pino andò atrovare i suoi “quattro amici”, poi sullavia della toilette si imbattè in unosplendido Antonello da Messina, cheelesse a quinto amico.

Pino stimava Paolo Ferrero, molto,pur non condividendo per nulla le sueposizioni negli ultimi anni. Un giornoeravamo sulla cresta del Faliner, vistabella, salita facile, squillò il cellulare diPino (che strano suono lassù), eraPaolo, era il giorno del congresso PRCe della scissione, l’inizio del disastro diquesto partito. Pino gli parlò, poi com-mentò “farà l’opposto di quel che gliho detto” e ridemmo, sapevamo cheera grave, ma da lassù, che ci potevamofare.

Pino era goloso, certo di sapere maanche di dolci . Non era un grancuoco, invidiava Vittorio Foa, chesapeva cucinare un solo piatto ma

caro amico Luigi Ferrajoli, che tantodella vita e del pensare ha condivisocon Pino. Una volta Pino chiese a Luigiil numero di telefono, perché questil’aveva cambiato. Luigi, che non loricordava a memoria (eppure ha unaformidabile memoria per altre cose)consultò l’agenda e glielo diede. Pinotrovò occupato per molti giorni,incontrando Luigi chiese spiegazioni,lui riconsultò l’agenda ed esclamò“perbacco, ti ho dato il tuo numero”.Pino telefonava a se stesso. A Firenzeper un convegno Pino arrivò a casa didue giovani sposi compagni che loospitavano (allora non si andava inalbergo, e la sera non si era mai soli ).Era un luglio torrido. Disse Pino “misento la febbre, ho molto caldo”.Risposero “prova a toglierti il cappot-to”. Me lo raccontò ridendo.

Anche della morte parlavamo, omeglio solo dei suoi dintorni.Condividevamo il giudizio di WoodyAllen, che alla domanda “cosa pensadella morte?” aveva risposto “sononettamente contrario”. Mi raccontòanche di una sua stretta parente, cheera andato a trovare al suo paese . Leil’aveva portato al vicino, piccolo cimi-tero. C’erano la tomba del marito, coni fiori freschi, e la sua, già pronta. E leiera serena disse “qui staremo bene persempre”. Pino, e anch’io, invidiammoquella naturale accettazione della vitache si estingue nella morte.

Negli ultimi anni fu il nonno piùnonno di tutti i nonni del mondo. Lesue elaborazioni sulla nonnità merita-no uno scritto a parte. Il nipote è figliodi Sergio, l’altro figlio è Walter, tantiincontri a Chamois anche con lui.All’inizio la politica dava senso alla suavita, negli ultimi tempi il nipote era lacontinuazione e la trasmissione dellavita.

Qui finisce il mio raccontino. Senzasaluti. Sono tra quelli che per Pinohanno provato, e provano, una amici-zia così profonda, da assomigliareall’amore. Perché, va detto, a queitempi ci si voleva bene, e anche oggitra noi ce ne vogliamo .In questo nonsiamo stati sconfitti. Il mondo non ècambiato in meglio, per ora, ma ilmondo non ha cambiato noi nei nostriaffetti, nei valori e nella speranza digiustizia, nella rigorosa coerenza divita, nell’elogio della modestia. E que-sto lo dobbiamo anche a Pino.

bene, la peperonata. Ho trascorsoquasi tutti i capodanno con Pino, alme-no trenta, forse di più; un rito che siripeteva immutabile: buona cena con-viviale, camminata sotto le stelle e nelgelo fino alla piazza del paese, fiaccola-ta degli sciatori, falò, con salto delfuoco (da giovani), una cantata di tuttoil paese: “Bella ciao” i primi anni, poi,in quelli successivi, quel mazzolin difiori.

Una volta, la cena era prevista a casamia a Suisse, l’ aperitivo da Pino a laVille. Marilena aveva preparato unpanettone farcito di panna. Pino sen-tenziò “non mi fido di nessuno, loporto io”. Davanti alla porta lo atten-deva, perfida, una lastra di ghiacciovivo, azzurro, Pino scivolò, si sollevòper aria, ricadde sul panettone, lapanna schizzò tutt’attorno. Il suo voltolo ricordo bene. La cena fu come sideve, buon cibo, una bottiglia via l’al-tra, fuori freddo e neve, dentro un belcalduccio, in dodici in una stretta cuci-na, le pentole sul fuoco, e allegria. Aldolce Pino emise una sentenza chenon dimenticherò mai, breve, netta,espressione della sua capacità di sinte-si, sincera : “io sono per il socialismoalla panna”.

Un altro capodanno venne FelicePiersanti, con un tacchino di dimensio-ni mai viste. Si avviò sulla pendentestradina che porta a la Ville, ghiacciata,scivolò, con il tacchinone esagerato trale braccia. Ma eravamo dei duri, Felicenon mollò il tacchino, percorse in pic-chiata alcune decine di metri, comefosse su di una slitta e lo fermò a finecorsa Pino. Il tacchino fu messo nelforno, colò il grasso e il forno presefuoco. Che serata bellissima. Si dice“grasso che cola”, non sempre è unbene. Parlavamo, è ovvio, anche dipolitica, ma anche di tutto; parteci-pammo al tentativo di costruire unpartito: le cose non sono andate comesperavamo. In fondo, noi rivoluzionari,noi extraparlamentari, noi contro ilsistema dei partiti, noi libertari, siamostati bravi a fare i movimenti, meno afare i partiti. E fummo ottimi sindaca-listi, Pino bravissimo, maestro di sin-dacalismo, anche in Brasile.

Ci consolavamo, per come andava-no le cose, con questa modesta consi-derazione: “i partiti passano, i sindaca-ti restano”. Così è stato. Pino eradistratto, non quanto il nostro comune

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Il retroterra di questa costellazio-ne problematica: l’essere cristia-ni e l’aderire il più seriamente e

profondamente possibile all’autenticomessaggio di Gesù di Nazareth e delcristianesimo comunitario delle originicome vivere in questo mondo, parteci-pare dell’irrimediabile contraddizionedi un mondo ingiusto, fondato mate-rialisticamente e spiritualmente sull’in-giustizia. Giudicare e agire. Il capitali-smo, in sé, soprattutto su scala mon-diale, è profondamente ingiusto, e allo-ra occorre predisporre gli strumentiintellettuali e conoscitivi e gli strumen-ti organizzativi e operativi per colmarequesta ingiustizia, per porre fine allaviolenza intrinseca del suo sistema.Allora, prima il dialogo e poi l’incon-tro, problematico sempre, fino allafusione, nelle stesse persone, nei movi-menti storici da queste persone susci-tati, tra cristianesimo e marxismo, tral’essere cristiani e l’essere socialisti-comunisti. Con la, problematica anchequesta, sequenza che prima viene lavisione cristiana della vita e della storiae poi il marxismo e il comunismo;dunque una filosofia e una concezionedella storia in grado di spiegare, didisvelare le dinamiche economiche,sociali, culturali, la cosiddetta “struttu-ra” del sistema, non come materiainerte ma come ordito delle dinamicheinterumane e dei gruppi sociali coin-volti, e dei mezzi per liberare gli esseriumani dalla violenza del sistema stesso,dallo sfruttamento, dall’alienazione.

Il sistema è giudicato correttamente,non solo perché il giudizio non vienedall’alto, solo “dal rovescio della sto-ria” (Enrique Dussel), da chi il sistemasubisce, dai poveri, dai popoli coloniz-zati e oppressi, da chi è vessato dall’im-perialismo contemporaneo. Il cristia-nesimo evangelico impone dunque“l’opzione preferenziale per gli

to nel Concilio Vaticano II (tra i tanticonsulenti che quell’evento straordina-rio mise in moto). Questo rinnova-mento profondo della chiesa ufficialefaceva il paio con il rinnovamento cheinvestiva il mondo socialista e comuni-sta, dopo i tragici fatti dell’ottobre1956 in Ungheria e in Polonia. Da que-ste due parallele dinamiche si liberaro-no forze imponenti, in quantità e inqualità. Qui risiede l’origine di quelloche verrà denominato il dialogo deglianni sessanta tra credenti e non cre-denti, tra cristiani e marxisti, tra catto-lici e comunisti. Grandi speranze siattivarono e il soffio purificatore e libe-ratorio del Concilio Vaticano II agì alungo, fino alla restaurazione preconci-liare, di papa Woytila prima e di papaRatzinger poi. Così come la destaliniz-zazione agì, tra avanzate e arretramen-ti, tra profonde lacerazioni nel camposocialista, tra spinte al marxismo criti-co e spinte alla chiusura dogmatica,fino al crollo definitivo e rovinoso del1989.

Girardi insegnava nelle varie univer-sità cattoliche, e il frutto di questomagistero fu un lavoro che fece epoca,Marxismo e cristianesimo del 1965, appar-so nel 1966, che rivelò a molti di noiquello che ricercavamo (al pari dellaLettera a una professoressa di don Milaninel 1967 sul versante antiautoritario,della scuola alternativa), vale a dire lapossibilità di conciliare marxismo e cri-stianesimo, l’essere cristiani e l’esserecomunisti non solo più come entità indialogo, ma come entità agenti nellastessa persona, negli stessi movimentiche faticosamente cercavamo di creare,dalle comunità di base ai movimentiantisistemici più vasti. Le gerarchie cat-toliche, pur entro il generale clima dirinnovamento, non tardarono a reagi-re, come avvenne contro don Milani,contro la comunità dell’Isolotto a

oppressi” (più spesso nella teologiadella liberazione si dice “per i poveri”)come soggetti storici, come protagoni-sti attivi, e non come gruppi sociali dadifendere, assistere, proteggere.L’opzione preferenziale per il proleta-riato, tipica di marxismo e comunismostorici, è condizione necessaria ma nonsufficiente. La nozione di popolo èinfatti più vasta, non è riduttivamente“populista”, ma racchiude la possibili-tà dell’universalismo, dell’apporto deglioppressi in primo luogo, ma anche diesponenti o di settori di altre classisociali, anche provenienti dalle classidominanti, al processo di liberazione.

Giulio ha vissuto interamente entroquesta costellazione problematica eonestamente e intelligentemente hacercato la sua via, ha dato il suo contri-buto, ha messo a disposizione il suosapere, la sua passione, il suo impegnomilitante. Non si è sottratto e si è espo-sto alle conseguenze. Di essere bandi-to dalla Chiesa, quindi, e di condurre lavita minoritaria, esaltante e ricca sì, mapur sempre minoritaria, dell’altra chie-sa dei cristiani di base, della ecclesiaalternativa, e di condurre anche all’in-terno del movimento socialista ecomunista, di cui voleva essere parte,altrettanto minoritaria, la ricerca di unsocialismo e e di comunismo dal voltoumano, di un marxismo non dogmati-co e autoritario, bensì umanista e liber-tario, com’egli amava dire, sgombratodal dogmatismo, dall’economicismo,dal burocratismo, dall’eurocentrismo,dal maschilismo. Insomma un marxi-smo non divenuto teoria di legittima-zione di un’altra chiesa ortodossa eoppressiva, non divenuto marxismo-leninismo, socialismo reale ecc.

Giulio, ordinato prete nel 1950, eraun teologo e filosofo di prim’ordine e,come esperto di marxismo, fu coinvol-

GIULIOGIRARDIL’opzione preferenziale per gli oppressi

Assumiamo la vicenda terrena, la vita diGiulio Girardi, come esemplare vicenda diun individuo concreto e al contempo come

“metafora” di un’intera costellazione proble-matica, di una grande stagione carica di

speranze, di avanzamenti ma anche di sconfitte.

di GIORGIO RIOLO

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Firenze, contro don Enzo Mazzi ecc.Dapprima escluso dall’insegnamentonelle università italiane, si giunse a ban-dire Giulio dall’insegnamento a Pariginel 1973 e a Bruxelles nel 1974; e persolidarietà si dimisero dall’insegna-mento in questa università FrançoisHoutart, Gustavo Gutierrez, PauloFreire, come dire alcuni tra i più gran-di esponenti del cristianesimo di base.Questa dinamica repressiva si conclusecon la sospensione a divinis nel 1977.Dopo di allora Giulio ha insegnatofilosofia della storia soprattuttoall’Università di Sassari, fino al 1996.

Ma quella di essere teologo e filoso-fo, benché di grande levatura, non erache la metà di Girardi. Perché egli erasoprattutto un militante, un cristianodi base. Uno dei primi in Europa acogliere nella Teologia dellaLiberazione (a partire dal saggio Versouna teologia della liberazione del 1968 diGustavo Gutierrez), prima, e nel movi-mento dei Cristiani per il socialismo,iniziato in Cile nel 1972, poi, il segnodei tempi nuovi. Entrambi questimovimenti erano nati in AmericaLatina, si trattava di contribuire a inse-diarli in una realtà, quella europea,affatto diversa da quel continente. Nonsolo con libri e scritti ma soprattuttocon la presenza attiva in queste comu-nità di base, anche nella fase della col-laborazione con il sindacato a Torino, ametà anni ottanta, per produrrel’esemplare inchiesta sulla condizionedei metalmeccanici in quest’aerea.Inoltre con la sua vicinanza alla sinistrareale in Italia, investita naturalmente daqueste dinamiche del mondo cattolico,dal PCI e dal PSI fino alla articolata“nuova sinistra”. Con Giulio collabo-

del tempo suo, come luogo del potereeconomico (della ineguale redistribu-zione delle terre e dei beni), del poterereligioso, del potere politico.

Lo scandalo della povertà e dell’op-pressione, luogo teologico per eccel-lenza di questo cristianesimo, è sempreal’'origine di tutto, oggi come ieri. E ledispute teologiche, sempre racchiu-denti in sé tuttavia corpose tendenzestoriche e sociali, sulla povertà diCristo (e la correlata non-povertà dellaChiesa, allora come oggi potere secola-re per eccellenza) rimangono e nonsono solo all’origine delle eresie reli-giose del passato medioevale, da Fra’Dolcino ai francescani spirituali aThomas Müntzer. Con Giulio, e oltreGiulio, rimaniamo fermi nell’“opzionepreferenziale degli oppressi”. Neltempo in cui il capitalismo è eretto areligione monoteistica, unica e indi-scussa, i cui profeti sono le banche, ilcapitale finanziario, la BCE, il FMI, laBanca Mondiale (e in Italia il governoMonti), è il modo nostro per ringra-ziarlo e per rivendicare la sua eredità.

rammo molto dai tempi del CIPEC, ilcentro culturale di DemocraziaProletaria, e poi con l’AssociazionePunto Rosso, fino al momento dell’in-validità a causa dell’ictus che lo colpìnel 2006.

Ma la sua militanza aveva trovato illuogo d’elezione nella partecipazioneattiva al Nicaragua sandinista, nel suocontributo alla rivoluzione cubana e alsuo necessario rinnovamento, dopo lafase socialrealista, contribuendo allacostruzione dell’indigenismo, comepensiero e come movimento, soprat-tutto a partire dal 1992 e dalle contro-celebrazioni dei 500 anni della “sco-perta”, in realtà della conquista euro-pea, delle Americhe. Le sue riflessionisugli indigeni amerindi che riscopronola propria soggettività, la peculiaritàdella propria cultura e della propriavisione del mondo, le valorizzano enon le considerano più dal versantedegli sconfitti, come ultimi e subalterni(vedi Resistenza e alternativa, pubbli-cato nel 2002 dalle Edizioni PuntoRosso), rimangono una pietra miliaredella controcultura che confluirà inseguito nel movimento altermondiali-sta e nei Forum Sociali Mondiali.

Ricordiamo, infine, sempre perrimanere in America Latina, il suosostegno alla rivoluzione bolivariana inVenezuela e l’appello che nel 2002redasse, in collaborazione conl’Associazione Punto Rosso, a soste-gno di Chavez dopo il tentato golpeper rovesciarlo dell’aprile 2002.

Con l’ictus che lo colpì nel 2006 e lalunga degenza e malattia che locostrinsero a letto, penosamente, finoalla morte della fine di gennaio 2012,Giulio cessò di darci il suo apporto, didare il suo apporto al movimento cri-stiano e al movimento socialista. Oggiquel cristianesimo, a cui molti di noihanno attinto, si sono ispirati, è vivo evegeto. Vive nelle varie tendenze dellaTeologia della Liberazione, dei cristianidi base, delle comunità che ricercano ildialogo interreligioso e che con le altrereligioni sperimentano cammini diliberazione, parimenti nelle tendenzecontemporanee che ricercano la giusti-zia sociale non disgiunta dalla giustiziaambientale (nella Teologia dellaLiberazione di oggi si usa la locuzione“giustizia climatica”), nella simbiosinecessaria tra sseri umani e natura.Insomma nel rifarsi sempre alla lotta diGesù contro il Tempio, nella Palestina

note politiche

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Anche i più scettici riconosco-no che proiettando la pro-pria iniziativa oltre il 2013,

vedi fisco (2014) e mercato del lavoro(2017), questo governo nega il persi-stere delle ragioni emergenziali per lequali è nato. Se non ci fosse la scusadella riforma della legge elettorale sidovrebbero convocare immediatamen-te le elezioni politiche, considerataproprio l’assenza di provvedimentiurgenti nell’agenda di governo. Moltipoteri e diverse forze politiche voglio-no utilizzare, in realtà, il tempo da quialle elezioni del 2013 per un profondomutamento del quadro politico esi-stente, prendendo atto di un bipolari-smo PdL-PD ormai in crisi. La divisio-ne tra i “poteri forti” riguarda la sceltatra spingere il sistema verso un biparti-tismo sostanziale, operando in sede disoglie di sbarramento o con il maggio-ritario uninominale, oppure far rina-scere una sorta di più liberaleDemocrazia Cristiana capace di utiliz-zare i famosi due forni per garantirsi ilgoverno del paese, cioè scegliendo divolta in volta come cooperante subal-terno il “forno” di destra o quello disinistra.

La battaglia in atto sulla modificadell’articolo 18 e del mercato del lavo-ro è, quanto meno in questo momen-to, la levatrice, nelle intenzioni di moltiattori, della scomposizione e ricompo-sizione dei partiti.

Ci sono settori borghesi importantidella società che ritengono che leimprese italiane possano ritornare adessere competitive e a generare elevatiprofitti, abbattendo il salario globaledei lavoratori, cioè con un ridimensio-

tempo una ristretta oligarchia econo-mico-finanziaria e culturale (nei mass-media, nelle università) che ha già otte-nuto il ridimensionamento del poterepolitico reale dei rappresentanti delpopolo. Si tratta di capire se in questimesi riusciranno a decidere tutto loroo se troveranno sulla loro strada nonsolo la resistenza della CGIL ma ancheun progetto politico alternativo. Ilruolo della sinistra quindi potrà nonessere marginale, se riuscirà a superarei propri limiti.

La sinistra deve perciò riguadagnareun proprio profilo adeguato. Intantodeve darsi un’idea del cambiamentopolitico incombente e che definirà laforma nei prossimi mesi del governodel Paese; e darsi una posizione in fattodi riforma della politica, mirando allaricongiunzione tra sfera sociale e sferapolitica. Se la sinistra si limitasse arestare sul terreno della pur giustadenuncia e del sostegno al conflittosociale lascerebbe invece campo liberoai “poteri forti” sul terreno della rior-ganizzazione generale della politica.Limitarsi a conquistare uno spazioderivato dalla giusta opposizione aiprovvedimenti del governo Montisignificherebbe infatti non collocarsicome quelli che hanno l’ambizione diindicare alle classi popolari la via persuperare i gravi problemi nei quali ver-sano e più in generale quelli parimentigravi in cui versa il Paese. Oggi più chemai occorre quindi non attardarsi ingiudizi formalistici sulle formazionipolitiche in campo ma guardare alleragioni di classe che sottendono idiversi progetti politici e i vari scontripolitici in campo, compresi quelli piùopachi. Occorre lavorare a un’aggrega-

namento di quello dedicato alla solida-rietà sociale e attraverso un’intensifica-zione dello sfruttamento, da realizzareattraverso gli strumenti più tradiziona-li, dentro i luoghi di lavoro. La borghe-sia in crisi riscopre i mezzi del vecchiopadrone: intensificazione dello sfrutta-mento attraverso un maggiore utilizzodegli impianti, riduzione dei salari,comando assoluto su una forza lavoroimpaurita dalla crisi e dalla minacciadel licenziamento individuale immoti-vato. Per raggiungere quest’obiettivouna grossa parte del padronato forzaanche a danno di un livello di demo-crazia che sembrava consolidato perl’Italia. Via i sindacati di sinistra e igiornali democratici dai luoghi di lavo-ro. Del resto in tutto il mondo è aper-ta la discussione sul rapporto trademocrazia e economia globalizzata.Grecia docet.

Non tutta la borghesia condividequesta prospettiva: ne sono una provaanche le divisioni in Confindustriaprima sulla vicenda FIAT e ora quellesulla successione a Marcegaglia allapresidenza. L’ipotesi del governo èquella della borghesia dura, che quindiin questo momento sembra vincente.Il profilo del nuovo quadro politicodipenderà anche dall’esito di questapartita.

In pochi mesi si deciderà l’architet-tura di quella che può essere considera-ta, usando la periodizzazione che vaper la maggiore, la Terza Repubblica.Verranno definiti quelli che saranno iprotagonisti maggiori della scena poli-tica e della scena sociale, nonché laqualità della democrazia politica esociale. In Italia pesano molto e da

RICOSTRUIREUNA SINISTRAPOPOLARE DIMASSA

Condizioni popolari di vita e democrazia sono adalto rischio, occorre reagire. Molti ormai hannocapito che il governo Monti non è nato solo per

fare fronte all’emergenza determinata dagli attac-chi della speculazione finanziaria internazionale

all’Italia. Nessuno crede più che il governo Montisia un governo tecnico. Intanto, in realtà, i provve-

dimenti presi dal governo fino a questo momento equelli che dichiara di volere prendere, se non ci

fossero “intralci” da parte dei sindacati e della sini-stra, hanno una chiara impronta di centro-destra,

fanno gli interessi della grande borghesia. Ma prima di tutto questo governo è nato per cam-

biare il quadro politico.

di GIAN PAOLO PATTA

note politiche

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zione larga che si riconosca nella dife-sa del lavoro, dei suoi diritti, inoltre inuna prospettiva di nuovo sviluppo.Occorre comprendere che è proprioper ragioni di classe che si deve riven-dicare il ritorno a forti rappresentanzepolitiche, capaci di imporsi o dicostringere a mediazioni avanzate i“poteri forti”. Per quanto il PD abbiagravemente sbagliato nel non preten-dere una modifica dei provvedimentipiù iniqui del decreto cosiddetto “salvaItalia”, la sinistra non può dimenticareche il popolo che si riconosce nel PD èparte di quel popolo che essa vuolerappresentare. Solo sapendo tutto que-sto potremo partecipare anche noi disinistra da protagonisti alla nascita delnuovo sistema politico e delle sue for-mazioni.

La ricomposizione dei diversi sog-getti politici della sinistra deve partireda tutto questo. Per iniziare è indispen-sabile che si costituisca un polo traIdV, SEL e FdS e che tutto questo nesia la base portante. Inoltre solo unpatto fra queste tre forze e il coinvolgi-mento in esso di realtà locali e di movi-mento renderà possibile determinarel’esito in senso positivo della battagliain atto dentro il PD, alla quale non sipuò essere indifferenti. Ha ragioneVendola a dirsi più interessato al popo-lo e all’elettorato che si riconosce inquesto partito che alle posizioni e agliscontri del vertice e ha ragione a direche è sbagliato isolarsi da questo popo-lo. Ha ragione nel sostenere che la sini-stra non può abbandonare ad altri ilterreno del governo del paese, ma deveporlo al centro della propria prospetti-va. Un polo popolare e di sinistra forte,che assuma a fondo la responsabilitàdella soluzione dei gravi problemi chel’unità di crisi e governo Monti stafacendo ricadere sul popolo, inevitabil-mente avrebbe una influenza positivasull’esito del braccio di ferro in atto nelPD. Sbaglia però Vendola quandocostruisce steccati a sinistra. La divisio-ne a sinistra porta infatti a vanificare lacredibilità di un suo polo, soprattuttoin quegli strati popolari ai quali piùvogliamo rivolgerci. Con un polo dellasinistra forte, con un bacino elettoralecredibilmente verso il 20%, cadrebbe-ro tutte le alchimie intorno alla riformaelettorale, che in ultima analisi operanoaffinché non esista nella TerzaRepubblica una forte sinistra. Anche ilfatto di schierarsi con la CGIL nellabattaglia a difesa dell’articolo 18 non

spettiva della sinistra e dei lavoratoriitaliani. Purtroppo la crisi non è termi-nata in Europa, e in particolare inItalia, dove si annuncia un’altra cadutarecessiva senza che si sia usciti da quel-la del 2008-2009. Probabilmente cisaranno un’ulteriore ondata di licenzia-menti e un indurimento delle posizionipadronali. Se Bombassei prevalessenella corsa alla presidenza diConfindustria sappiamo come opererà:esattamente come Marchionne. Con ladifferenza che l’impatto non si limiteràad una sola impresa, pur grande, mainvestirà l’intero Paese. Bombassei hagià detto tutto della sua cultura quandoha parlato dell’Unità non più in bache-ca nei luoghi di lavoro, e Marchionneha già detto tutto promettendo, in casodi vittoria di Bombassei, il rientro diFIAT in Confindustria. Anche l’argineposto dalla CGIL con l’accordo del 28giugno del 2011 al dilagare in tutta l’in-dustria verrebbe spazzato via.

Tutti dobbiamo aver chiaro che inquesta congiuntura mondiale il conflit-to sociale è immediatamente conflittopolitico, dato che il capitalismo in crisinon riesce più ad operare nel quadro dicostituzioni democratiche a fortesignificato sociale, come quella italiana.Quando Draghi dice che lo “statosociale” europeo è finito dice che èfinita la mediazione tra socialisti-comunisti, popolari e organizzazionisindacali. Che è cominciata una nuovaera di abuso capitalistico senza freni. Ilproblema dei liberali contemporanei,liberisti, è che il libero mercato e l’indi-vidualismo radicale borghese non por-tano più nulla alla coesione sociale e albenessere popolare ma portano esclu-sivamente al malessere della società, alsuo immiserimento, alle guerre trapoveri. Con l’orientamento borghesecontemporaneo, che stiamo vedendoall’opera nella crisi greca, non sicostruisce un’Europa più unita, piùsolidale e più politica: si costruisce unanuova divisione dell’Europa; le corren-ti nazionalistiche che ovunque riemer-gono, il diffondersi in Europa di unclima di diffidenza verso la Germania ein Germania verso l’Europa non pro-mettono nulla di buono.

La nostra responsabilità è ritornatagrande.

può voler dire limitarsi alla partecipa-zione alle mobilitazioni, ma costringe-re tutti a sinistra a mettere in campo untale progetto politico unitario.

Dunque a sinistra va finalmenteaffrontato correttamente il nodo delgoverno del Paese. SEL ha avuto ilmerito di dimostrare come sia utile,oltre che possibile, il fatto di porsil’obiettivo del governo, quindi come sidebba, al tempo stesso, puntare ad alle-arsi con il PD e competere con esso sulprogramma. Da ciò è venuta a SELuna grande capacità di scomposizionee ricomposizione a sinistra. Sono intutta evidenza significativi in questosenso sia la rielezione di Vendola agovernatore della Puglia che i successi-vi risultati di operazioni unitarie forte-mente qualificate a sinistra in impor-tanti città italiane. Il quadro politico equello delle aspettative politiche popo-lari sono infatti da tempo estremamen-te mobili e aperti a nuove soluzioni.

In questo progetto deve essercianche una lotta unitaria ampia cheimpedisca al governo Monti di mano-mettere la Costituzione. La maggioran-za parlamentare è ancora quella di cen-tro-destra: essa è andata in crisi nelPaese ma è ancora seduta nelParlamento. Il contenuto delle riformealla Costituzione sarebbe tutto segnatoa destra anche per questo, e vista la lar-ghissima maggioranza parlamentaredel governo non ci sarebbe neanche lapossibilità di reagire nel contesto di unreferendum confermativo. Non c’èniente di tecnico, anzi non c’è niente dipiù politico che ridisegnare le istituzio-ni parlamentari e il potere degli esecu-tivi. Un tale compito quindi non puòche spettare a un Parlamento legittima-to dal voto popolare, e quello attualenon lo è più.

Ancora, per essere all’altezza dellasituazione la sinistra deve proporsi lapropria ricostruzione come partito dimassa, e deve vedere con favore chequesto riesca ad avvenire anche riguar-do alle altre forze politiche. Per quantoci riguarda dobbiamo diventare un par-tito che rappresenti primariamente etutta quanta la classe lavoratrice. Aquesto progetto occorre chiamare,come FdS, i militanti della CGIL, quel-li di sinistra del PD, SEL e IdV.Ritirarsi a lottare in Val di Susa potràessere di qualche utilità alla sua popo-lazione, ma è un danno recato alla pro-

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Governo e parti imprendito-riali, uniti dalla storica osti-lità di fondo della borghe-

sia italiana contro gli operai, appoggia-ti dagli esecutivi iperliberistidell’Unione Europea, hanno identifi-cato un obiettivo, sostanziale ma anchesimbolico, di una forza distruttivadirompente: il poter licenziare senzamotivazione i lavoratori da partepadronale. Lo vogliono fare mettendomano all’articolo 18 dello Statuto deilavoratori (oggetto, per fare il risultato,di una pesantissima campagna politicae mediatica). Con ciò parimenti inten-dono colpire uno dei pilastri dellaCostituzione repubblicana: il lavorocome fondamento della Repubblica. Ilnucleo specifico dell’operazione consi-ste nella cancellazione del diritto deilavoratori a non essere licenziati senzagiusta causa.

E’ questo dunque il senso dell’inten-zione di annullare la possibilità daparte di un giudice di reintegrare nelleimprese con più di 15 dipendenti ildipendente, in presenza di un suolicenziamento ingiustificato. L’articolo18 impedisce proprio che il poterepadronale possa essere esercitato neiluoghi di lavoro in modo arbitrario elesivo della dignità dei lavoratori.Perché, altrimenti, si vuol impedire algiudice persino un accertamento dilegittimità (non ancora di merito) sullemotivazioni addotte al licenziamento?Perché, altrimenti, si vuol consentire alpadrone di liberarsi di dipendentiadducendo una motivazione economi-ca, anche se non vera?

Anche quanto sta accadendo allaFIAT – l’impresa che farà ricorso inCassazione in seguito alla sentenza diappello che ha riammesso al lavoro aMelfi, per la seconda volta, tre delegatiFIOM-CGIL – ci induce a pensaremale. Questi tre lavoratori pur avendo

governo rispetto alle politiche diBerlusconi, a quelle dei suoi predeces-sori di centro-sinistra, sostanzialmenteidentiche, alle culture neoliberiste, alleculture populiste loro alleate, chehanno colpito sempre più e oggi disa-strosamente il mondo del lavoro,donne e giovani più di tutti, ma ancheoperai, pubblico impiego, piccolo lavo-ro fintamente autonomo. Occorreopporsi con radicale fermezza, in que-sto quadro, all’ignobile tentativopadronale e di governo di una guerratra generazioni, della mobilitazione deigiovani contro i non giovani in quanto“privilegiati”. Occorre mandare a casaalla svelta, dunque, questo governo.Abbiamo visto cosa è successo in que-sti anni: i diritti conquistati dalle gene-razioni lavorative passate sono statierosi a nome delle convenienze dellegiovani generazioni: ma l’indebolimen-to che ne è seguito del mondo del lavo-ro è stato usato come una clava pro-prio contro queste generazioni. E’ancora accaduto recentemente sullepensioni, dove siamo stati sconfitti.Solo l’unità del mondo del lavoro farisultati, e li fa per tutti.

La CGIL si è battuta in questi anniper l’estensione delle coperture dell’ar-ticolo 18. Nel 2003 essa promosse unreferendum in questo senso. OraLavoro-Società rilancia questa batta-glia, orientata dunque alla difesa didiritti ma anche alla conquista di nuovi.Siamo diventati rapidamente, con ilgoverno Monti, un paese a democraziaormai sospesa, e il rischio è una transi-zione a una postdemocrazia. AllaCGIL il compito di rilanciare i princìpidella Costituzione. E, di fronte a forza-ture di governo sull’articolo 18, il com-pito di una grande mobilitazioneorientata a determinare rapidamente lecondizioni di uno sciopero generaleche, bloccando il paese, fermi il gover-no.

avuto ragione in primo grado nonsono stati riammessi “realmente” allavoro, bensì confinati nella saletta sin-dacale, per non “nuocere”. La stessaimpresa ha messo all’indice l’Unità, ilgiornale fondato da Antonio Gramsci,proibendone l’esposizione nella bache-ca sindacale di un importante stabili-mento del gruppo, la Magneti Marelli.Insomma, all’attacco alla democrazia ealla dignità del lavoratore ha comincia-to a unirsi sui luoghi di lavoro l’attaccodiretto all’informazione democratica.Bombassei, futuro presidente diConfindustria, si è compiaciuto dellacosa e ha sostanzialmente auspicatoche la cosa si ripeta nelle altre grandiimprese.

Il governo Monti su queste cosedorme il sonno più profondo.Sostanzialmente, dunque, le condividee le appoggia. E dire (guardando a que-gli interessi “generali” di cui il governosi riempie la bocca, naturalmente senzamai declinarli) che l’ossessione iperli-berista della flessibilità ha creato inEuropa (e specificamente in Italia) unmostro: il 49% degli occupati europeiha un lavoro variamente precario, stia-mo parlando di circa 100 milioni diesseri umani. Per non parlare di circa70 milioni di lavori caratterizzati dascarsità professionale e di circa 26milioni di disoccupati.

Occorre ridare a molte parole il lorosignificato storico, stravolto dallamanipolazione avversaria. Occorronocioè vere riforme, non controriformespacciate per riforme. Occorronoriforme che ridiano sicurezza e qualitàal lavoro, capacità di crescita positivadella vita democratica e del sistema direlazioni sociali, invertendo dunque larotta di questi venti e più anni, dicendo“basta” alla precarietà e all’abusopadronale e di governo. Occorre rom-pere ogni continuità dell’azione di

NON SI TRATTASULLA DIGNITÀDEL LAVORO

Il sistema delle garanzie sociali ed elementi didemocrazia sostanziale e di civiltà giuridica edeconomica è stato messo in questo Paese for-

temente a rischio. Lo si evince dai ripetutiattacchi a diritti universali. Nel loro contesto è

oggi centrale il difficilissimo confronto tragoverno e parti sociali sul mercato del lavoro.

di NICOLA NICOLOSI

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In realtà nel nostro Paese questisono dettati che sempre menocorrispondono alla realtà.

L’imbarbarimento delle relazionisociali è evidente. Non possono essereabolite, d’altra parte, le conquiste diciviltà senza imbarbarire tutta la socie-tà. Ecco perché FIOM e CGIL fannobene ad affermare che riguardo all’art.18 dello Statuto dei lavoratori non siintende trattare.

L’Assemblea nazionale dei delegatidella FIOM del 18 febbraio ha, su que-sta linea, confermato la decisione presaall’unanimità dal Comitato Centrale dipromuovere lo sciopero generale dicategoria con manifestazione a Romaper venerdì 9 marzo: per rivendicaresia il confronto con Federmeccanicasul rinnovo del contratto nazionale,scaduto nel 2008, che l’applicazioneanche nella metalmeccanica dell’accor-do firmato da CGIL, CISL e UIL sullarappresentanza nei luoghi di lavoro.

Con l’espulsione della FIOM dallaFIAT la rappresentanza sindacale èstata infatti messa in discussione inItalia. Sarebbero gli imprenditori, pre-tende quest’atto, a decidere quali sianoi sindacati che rappresentano in fabbri-ca i lavoratori e che vi hanno spazio. E’un atto quindi di significato generale.E se alla fine delle contestazioni giudi-ziarie l’atto trovasse un avvallo anchesolo parziale da parte della magistratu-ra, non solo ci troveremmo di fronteall’aberrante esclusione del primo sin-dacato per numeri di iscritti dagli stabi-limenti FIAT, ma a una gravissimalesione della democrazia e del dettatocostituzionale. La legge in materia dilavoro non la farebbe più ilParlamento, ma le grandi imprese, aloro totale discrezione.

creazione forzosa di lavoro da partepubblica non ci sono prospettive.Servono nuove industrie a elevatolivello tecnologico e nei settori d’avan-guardia, opere utili, credito alle fami-glie e alle imprese, imposizione allabanche, che tanto hanno avuto, di farela loro parte. Serve abolire il “patto distabilità” sul versante dei comuni, chesono strozzati e non possono né inve-stire in opere necessarie né in servizi,con danno grave a imprese e lavoro.

Ancor meno possiamo accettare cheai lavoratori siano tolti strumenti qualila cassa integrazione straordinaria e inderoga, necessaria anche per farsopravvivere le imprese. Né che tantilavoratori rimangano esclusi da ognisostegno se privati del lavoro o dasempre disoccupati. Non può quindiessere elusa la necessità di reperire perle relative destinazioni nuove risorse,trovandole sia nella lotta all’evasione ein un’imposizione stabile sui grandipatrimoni, sia nella contribuzione delleimprese non partecipi al sistema deicontributi per cassa integrazione emobilità. Ancor meno possiamo accet-tare che rimangano le tante tipologiepseudocontrattuali che portano a lavo-ri sottopagati, precari, privi di qualsiasitutela.

Servono la forza, la mobilitazione,in più forme sciopero compreso,dinanzi alle posizioni inaccettabili chevengono o che verranno da governo epadroni. La FIOM chiede a tutti impe-gno in questo senso, chiede di prose-guire l’azione avviata il 9 marzo con lamassima determinazione.

*Segreteria FIOM-CGIL TrevisoQuest’articolo è stato ripreso

da Lavoro&Politica

Soprattutto va notato come a ciònon ci sia risposta né da parte delgoverno Monti, né delle forze politicherappresentate in Parlamento. Lo Statoappare sempre più complice del dispo-tismo padronale e disposto alla mano-missione antidemocratica dellaCostituzione. In essa infatti c’è ancheanche il diritto alla libera organizzazio-ne dei lavoratori. A indicare questaderiva c’è pure l’incapacità di affronta-re la crisi industriale e l’aumento delladisoccupazione.

Anche per questo la FIOM e tutta laCGIL sono a fianco senza riserve deilavoratori della FIAT. Aggrediti brutal-mente, essi hanno più necessità chemai del sindacato di classe. La loroquestione, inoltre, è questione genera-le, riguarda tutti i lavoratori. Esserestati indicati da Eurostat tra i paesi chepagano meno i propri lavoratori con-ferma una realtà da essi ben conosciu-ta, sopratutto dagli operai e dai preca-ri. Ma conferma anche un problemadel sindacato, che necessita di riflessio-ni e risposte più adeguate in sede dipolitica economica da proporre alPaese. Il tentativo di eliminare di fattoil contratto nazionale è un ulteriorecolpo grave sul terreno della redistri-buzione sociale della ricchezza. E’anche evidente che aver puntato pervent’anni da parte di tutti i governi suriduzione del costo del lavoro e dello“stato sociale” e sulla “flessibilità” (laprecarietà) non produce nessuno svi-luppo, anzi solo un peggioramentogenerale della situazione dell’econo-mia. Non a caso i paesi dell’euro con lepiù basse retribuzioni (Italia, Grecia,Spagna, Portogallo) sono anche i paesimaggiormente in crisi. Senza una poli-tica orientata alla ripresa industrialebasata su investimenti pubblici e sulla

LO SCIOPERODEL 9 MARZOha posto questionigenerali di tutela dellavoro e di democrazia

Il lavoro è fondamento della nostraRepubblica. Attraverso il lavoro una persona sirealizza, è utile alla società, mantiene se stes-

sa e la propria famiglia. O così dovrebbe esse-re, leggendo la nostra Costituzione.

di MANUELA MARCON*

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DOVE PRENDEREI SOLDIsenza continuare a colpire lavoratori e pensionati, ce lo dice… Mediobanca

Un notevole articolo del 28 febbraio sul“Corriere della Sera” di Massimo Mucchetti

riassume un documento di Mediobanca,storica banca d’affari del capitalismo italia-no, consegnato al governo Monti (e a oggi,per quel che sappiamo, “semi-escluso” dal

dibattito politico e a maggior ragione daquello sui mass-media). Va aggiunto che il

documento fa seguito a una richiesta aMediobanca da parte del governo stesso.

di LUIGI VINCI

E’ un testo importante, e nonè un caso che sia opera diMediobanca: assieme a

Banca d’Italia e a poco altro essadispone di una capacità reale di analisie di ragionamento sulla situazione del-l’economia italiana, sui rapporti socialiche informa e sulla sua prospettiva diperiodo. Lo fa, beninteso, avendo aobiettivo la stabilità e l’espansione delsistema capitalistico di rapporti sociali,ma anche, a differenza ormai di granparte degli apparati politici e di molti diquelli che organizzano la grandeimprenditoria capitalistica, lo fa seria-mente. Se si vuole, è uno dei pochi luo-ghi residui nei quali si tenta di unire,per quel poco che è possibile, l’interes-se generale della società italiana e laprosecuzione del suo corso capitalisti-co.

Il documento di Mediobanca dicecose che in verità vengono dette damolto tempo, insieme ad altre pari-menti importanti, da economisti criticidel neoliberismo e del monetarismodell’Unione Europea, così come daquesta rivista. Ma è importante chevengano anche da un’istituzione accre-ditata del capitalismo italiano. Lo statoitaliano dispone nel complesso dellasua configurazione, dice Mediobanca,di un immenso patrimonio. Quelloimmobiliare ha un valore di mercatoche giunge ai 425 miliardi di euro: piùdel 22% del debito pubblico (gli assetimmediatamente vendibili valgono 42miliardi: più del 2% di questo debito).Le riserve in oro della Banca d’Italiasuperano i 130 miliardi: quasi il 7% deldebito pubblico. Ancora, le partecipa-zioni dello stato in imprese pubblicheo semipubbliche assommano a 132miliardi: quasi il 7% di questo debito.

Il 90% del nostro popolo è statotormentato e i lavoratori, i pensionati e

tagli alla spesa pubblica per 45 miliardi.E’ una prospettiva per il nostro paesedi tipo greco. Occorre dunque trovaresoldi che prima non si volevano trova-re. Fa parte di questa prospettiva, traparentesi, anche il sequestro da partedel Tesoro delle risorse finanziariedegli enti locali.

Mediobanca suggerisce al governoMonti anche come gestire la trasfor-mazione in entrate pubbliche dei “gia-cimenti” in questione. Essendo i prez-zi del mercato immobiliare depressi, néessendo possibile alienare se non inqualche anno e in quote relativamenteridotte gli immobili pubblici alienabili,Mediobanca suggerisce che la CassaDepositi e Prestiti (istituzione in manoper il 70% al Tesoro e per la quotarimanente a 65 fondazioni bancarieoperanti sul terreno del finanziamentoa enti e imprenditoria locali), che sifinanzia anche attraverso il risparmiopostale, nelle cui disponibilità patrimo-niali complessive sono oltre 450 miliar-di, acquisisca buona parte di partecipa-zioni e immobili pubblici e dello stessooro della Banca d’Italia, ed emetta altempo stesso obbligazioni, che potreb-bero arrivare nel loro complesso a 200miliardi, garantite da queste acquisizio-ni. Lo stato incasserebbe una barcatadi soldi, così molti enti locali, al tempostesso il rendimento di queste obbliga-zioni sarebbe assai basso, per la forzadelle garanzie. Sarebbero evitabilinuove massacrate antisociali.

Va da sé che Mediobanca di patri-moniale e Tobin tax non s’impiccia.Ciò non significa che essa non abbiascritto cose da assumere. Accadrannodavvero? La Banca Centrale Europea,sotto pressione tedesca, non obietteràall’alienazione dell’oro? I dubbi sonopotenti.

il piccolo lavoro autonomo più cheodiosamente vessati, in questi mesi, daoperazioni e balzelli di varia natura, trai quali quello, forse il più odioso, delrinvio dell’età del pensionamento, percui ci sono lavoratori che non percepi-scono più un salario o uno stipendio eche però prenderanno la pensione traun numero di anni che può arrivare asette, e che magari debbono finire dipagare il mutuo della casa o hanno figlisostanzialmente a carico, disoccupati oprecari. Alle classi ricche è stato invecefatto un po’ di solletico. Ma non c’eraneanche la necessità di fargli male,ancor meno di farne tanto a lavoratori,pensionati, ecc.: l’Italia sovrabbonda digrandi “giacimenti” di ricchezza.Andreotti disse che a pensar male si fapeccato ma si ha quasi sempre ragione:ci ostiniamo quindi a pensare chel’obiettivo primario vero di questogoverno sia la miseria popolare, attra-verso, in primo luogo, l’abbattimentodelle condizioni globali del mondo dellavoro.

Perché allora l’affidamento digoverno a Mediobanca della ricerca acui il documento fa capo? Ci è statoraccontato, dal governo Berlusconiprima e da quello Monti poi, che leprossime massacrate tramite finanzia-rie o “manovre” saranno moderate dalfatto che l’Unione Europea terrà contodi un nostro dato macro-economicopositivo: il forte risparmio privato,ovvero che il nostro debito complessi-vo (pubblico+privato) è il secondo vir-tuoso dopo quello tedesco. Ma neltesto del nuovo Trattato europeo a 25non c’è una sillaba a tale proposito:quindi l’Italia come tutti gli altri paesifirmatari dovrà rientrare ogni annodello 0,5% della quota di debito in rap-porto al PIL eccedente il 60%: in paro-le semplici, per vent’anni ci toccheran-no finanziarie e “manovre” fatte di

note politiche

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Vaghezza a parte di molte for-mulazioni (l’UE si è data dasubito un orientamento

dominante liberista antagonista a que-sti obiettivi), la realtà europea è oggi disegno totalmente contrario. La Greciaed il suo popolo sono ridotti come ilPartenone di Atene, un cumulo dimacerie; la disoccupazione nell’euro-zona è ai suoi massimi storici; la pover-tà riguarda nell’UE almeno 120 milionidi persone; l’Italia e molti altri Paesisono nettamente in recessione, ecc. Sitratta del risultato, non del fato, nonastrattamente della crisi, ma di decisio-ni politiche delle complicate struttureche governano la UE; di decisioni con-divise o subite, inoltre, dalla totalità deigoverni dei suoi paesi. Valgano pertutti le parole del Presidente dellaBCE, Mario Draghi: “il modello socia-le europeo è morto” (per quanto siastato tentato, soprattutto primadell’UE, in Europa occidentale).

Tre anni di Grecia e di “rigore”,allos copo di ridurre drasticamentel’indebitamento pubblico, stanno ridi-segnando a fondo l’UE. La crisi è statautilizzata dai poteri capitalistici fonda-mentali, industriali e finanziari, e dalladestra, al governo quasi ovunque esoprattutto nei tre paesi principali,Germania, Francia e Gran Bretagna,per ridefinire in senso radicalmenteantisociale l’impianto delle politiche dibilancio dei vari Paesi, che la strutturapolitica centrale dell’UE, in manoormai quasi monopolisticamente alConsiglio dei Capi di Stato e diGoverno e, in esso, all’accordo tra ledestre di Germania e Francia. LaCommissione Europea, d’altra partecorriva, è stata messa a fare da passa-carte, il Parlamento Europeo sostan-zialmente silenziato. L’unica cosa aoggi che non funziona è la possibilitàdi un cambiamento del corso politicoin Francia, più avanti, forse, inGermania. Ma per ora i governi dei

delle strutture di governo europee.Essendo la Grecia il paese più debole efragile ed essendo stato scelto dalladestra tedesca come bersaglio per farcapire chi è il padrone, non solo è statoimpedito alla sua popolazione di espri-mersi con un referendum sui piani dicosiddetto salvataggio della troika UE-FMI-BCE, ma anche la decisione dielezioni generali anticipate in aprile èstata irrisa e bloccata. Questo paesesubisce quindi sia il commissariamentodel suo governo economico, tramite lapresenza nei ministeri di funzionaridella troika e di tecnici tedeschi e laloro riduzione a uffici riscossioneimposte o svendita pezzo dopo pezzodel paese, che l’impedimento alla suaautodeterminazione politica. Insommaè diventato una specie di protettoratodelle strutture esecutive dell’UE, oforse è meglio dire tedesco.

Non è esattamente così in Italia,paese ben più forte economicamentedella Grecia: ma la sostanza al fondonon è molto diversa. La differenza trasubire in forma colonialista una politi-ca brutale e subirla per un’iniziativainterna che finge che continui a esserciuna determinazione ultima da parte delParlamento non è molto grande, anzisul piano degli effetti sociali è presso-ché nulla, così come, chiacchiere sullacrescita prossima ventura a parte, èpressoché nulla guardando al corsoreale dell’economia, in (necessaria)recessione. In altri termini, MarioMonti in Italia e Lucas Papademos inGrecia non sono che punte identichedell’iceberg di una riorganizzazionegenerale antisociale e antidemocraticadei poteri in Europa.

Non illudiamoci: in Europa siamooggi tutti greci, chi più chi meno, e noiitaliani più di altri. La solidarietà con laGrecia, che deve crescere, non è soloun fatto morale, ma anche una conve-nienza basilare.

due paesi stanno agendo senza guarda-re in faccia nessuno.

All’inizio della crisi, si disse, si dove-va evitare il rischio di un default gene-ralizzato, soprattutto per via dellasituazione di insolvenza in cui eravenuta a trovarsi la Grecia. Ma gli aiutia questo paese sono stati rinviati mesedopo mese, ciò che da un lato harichiesto aiuti più massicci e ha ingras-sato la speculazione, messo in gravidifficoltà altri paesi e la stessa monetaunica, dall’altro ha messo definitiva-mente in ginocchio un paese che rap-presenta meno del 2% del PIL euro-peo, buttandone gran parte della popo-lazione nella miseria e nella disperazio-ne. A parte la lunghissima campagnaelettorale tedesca, giocata dalla destradi governo sul tema delle cicale medi-terranee e delle formiche nordiche, si ètrattato da parte di questa destra diaffermare, appunto con la ferocia el’assurdità stesse dei suoi ordini, chicomanda in Europa.

Questa gestione della crisi greca haprodotto anche una seconda vittima: lademocrazia, oltre che a livello europeo,dove è sempre stata pochissima, intutti i paesi con le maggiori difficoltà dibilancio. Tra essi, l’Italia. Politichepesantissime di “rigore” finanziariosono state imposte a popolazioni le cuinecessità e le cui richieste andavano intutt’altre direzioni, attraverso la pres-sione dei grandi apparati informativi ela conseguente vittoria elettorale delledestre politiche, avvantaggiate anchedal fatto che le socialdemocrazia pre-cedentemente al governo avevano teo-rizzato e avviato le medesime politiche(Portogallo, Spagna), oppure attraver-so il commissariamento di fatto deiparlamenti e la formazione di governiappoggiati, se non composti, dallatotalità delle principali forze politiche(Grecia, appunto Italia), per imposizio-ne diretta (Grecia) o indiretta (Italia)

SIAMO TUTTIGRECI

Tra i compiti fondamentali che i Trattati euro-pei, ultimo quello di Lisbona, assegnano

all’Unione Europea ci sono la “promozione delbenessere dei suoi popoli”, la “lotta all’esclu-sione”, la “protezione sociale” dei cittadini, la

“coesione economica” del territorio, “la solidarietà tra gli stati membri”.

di S. S.

note politiche

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Se la grande depressione potevaessere risolta con una crescitadella domanda (effettiva),

aumentando la domanda di beni e ser-vizi che al momento erano indisponi-bili per un’ampia fascia di popolazione,quest’ultima crisi non può essere risol-ta con una migliore distribuzione delreddito o uno stimolo della domandavia intervento pubblico. Infatti, la dif-ferenza tra la grande crisi e quella dioggi è direttamente proporzionale allasaturazione del mercato di beni e servi-zi. Se nel ’29 il mercato o la domandapotenziale era “infinita”, oggi siamo inpresenza di una domanda di sostituzio-ne che inibisce le politiche espansive.

Retroterra delle politiche economi-che per lo sviluppo e la crescita

La recente crisi del sistema econo-mico internazionale potrebbe modifi-care in profondità il sistema capitalisti-co. Utilizzando uno spunto di P. Leon,possiamo sostenere che “dobbiamoancora capire come il sistema capitali-stico si trasformerà di nuovo, spintodall’ulteriore aggravamento della crisidi domanda effettiva, e in quale rap-porto con lo Stato, ad oggi usato cini-camente, prima come stampella e poicome oggetto di speculazione”. Inmancanza di una risposta adeguata daparte delle istituzioni preposte allasoluzione dalla crisi, in primisl’Europa, sembra di leggere le crona-che del tempo della grande crisi.Riprendendo Minsky: “Nel tormenta-to periodo che va dal 1929 al 1936 glieconomisti accademici …. non aveva-no saputo offrire pressoché nessunsuggerimento politicamente accettabi-le circa un piano d’azione governativo,in quanto essi erano fermamente con-

il punto centrale è il risparmio intera-mente speso nel processo cumulativo.Più precisamente, l’accumulazione èpossibile destinando una parte delsovrappiù, di ciascun periodo, in nuoviinvestimenti. Anche Marx accetta que-sta tesi di fondo quando propone il cir-cuito D-M-D, cioè la “legge generaledello sviluppo capitalistico”.

In questo senso il dibattito sullanecessità di adottare politiche keyne-siane nel breve periodo, e politiche uti-litaristiche nel medio-lungo periodo, èabbastanza privo di senso. Leggendocon maggiore attenzione Keynes,Pasinetti e, soprattutto, P. Leon… (alcrescere del reddito il consumo varia lapropria struttura…e nuove tecnologiee nuovi prodotti alterano le convenien-ze relative delle diverse attività econo-miche…), è più corretto sostenere chele politiche di “gestione dello squili-brio” sono la “politica economica”. Enon potrebbe essere diversamente.Infatti, il flusso d’innovazioni checompare in un determinato periodonon riguarda tutti i settori: è localizza-to, nel senso che si concentra in deter-minati prodotti e/o industrie. Lo spo-stamento della funzione del progressotecnico (FPT) coinvolgerà essenzial-mente solo una parte dell’output. Piùin generale, se il sistema economico èin grado di portare avanti con successouna redistribuzione settoriale dell’oc-cupazione da settori in declino versosettori in espansione, il profilo del pro-gresso tecnico, del reddito, anche delfattore lavoro, tenderà a essere virtuo-sa nel lungo periodo. Le caratteristicheintrinseche del modello di sviluppo,cioè l’accumulazione di sapere e cono-scenza, ha modificato i fattori che con-corrono alla dinamica dello sviluppo.

vinti della capacità d’autoregolamenta-zione del meccanismo di mercato …..l’economia prima o poi si sarebberipresa da sola, a patto che la situazio-ne non venisse aggravata ulteriormen-te dall’adozione di un’errata politicaeconomica, inclusa la manovra fisca-le”.

Lo scontro politico, economico eculturale è di enorme portata; in qual-che misura l’oscillazione dell’analisieconomica tra equilibrio-squilibrio-equilibrio e squilibrio-equilibrio-squili-brio, ripropone la stessa domanda, cioèse il sistema capitalistico produce equi-librio o accumulazione: ci troviamo inun regime di scambi (scarsità), oppurein un sistema economico capitalisticoche produce squilibrio per crescere?

Anche un’istituzione come il FMI(Fondo Monetario internazionale) si èfatta la stessa domanda. DominiqueStrauss-Kahn, ex direttore del FMI,analizzando la grande crisi e la crisi del2007, riprende il tema della domanda(effettiva) come fondamento della cre-scita. Sostanzialmente si consiglia pru-denza nell’adottare misure di conteni-mento della spesa pubblica, soprattut-to in una fase in cui a livello internazio-nale si registra una contrazione delladomanda. Non è sorprendente, quindi,la riproposizione della domanda effet-tiva come linea di politica economica.Il fenomeno del disequilibrio comemanifestazione tipica del capitalismo èstato ampiamente discusso da Keynesquando sosteneva nella TeoriaGenerale il “fatto che è nella fase ditransizione (tra posizioni d’equilibriomai raggiunte) che viviamo realmen-te”, cioè un’analisi “classica” dei feno-meni economici, sociali e istituzionali.Infatti, per tutti gli economisti classici,

RIMODULARELA “DOMANDAEFFETTIVA” per uscire dalla crisi

La crisi che attraversa il capitalismo nonè un fenomeno inedito. Le crisi sono in

qualche misura salutari e necessarieper ri-accumulare. Se questa crisi ricor-da la grande depressione del ‘29, cioè

un’accentuata polarizzazione del reddi-to, bassi tassi di crescita dei salari e delPil, le diversità sono profonde e inedite.

di ROBERTO ROMANO

note politiche

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Non a caso, “il mutamento divieneprogressivo (e) si propaga in modocumulativo, ovvero esistono delleforze che spingono a mutamenti conti-nuativi (endogeni)”. Sostanzialmentequesti processi-mutamenti sono gene-rati all’interno del sistema economi-co”, perché qualsiasi aumento nell’of-ferta di beni allarga il mercato di altremerci (A. Young). Per le stesse ragioniKlin e Rosenberg (1986) sostengonoche “è un grave errore quello di tratta-re l’innovazione come una cosa bendefinita, che entra nell’economia in ungiorno preciso, o che diventa disponi-bile da un certo momento in poi … Leinnovazioni più importanti, durante ilcorso della loro vita attraversano dra-stici cambiamenti, che a volte possonotrasformare totalmente il loro signifi-cato economico. I miglioramenti cuiviene sottoposta un’innovazione pos-sono avere un valore economico moltopiù rilevante dell’invenzione stessanella sua forma originale”.Diversamente sarebbe difficile inter-pretare i cicli economici, che sonodirettamente proporzionali all’innova-zione tecnologica.

Crescita via economie di scala

Quindi i cicli economici sono diret-tamente proporzionali all’aspettativeintrinseche del sistema capitalistico nelprodurre discontinuità (tecnologica);ma senza discontinuità tecnologicapuò crescere il reddito?

La risposta è si, ma solo a determi-nate condizioni, che in qualche modointeressano sempre l’innovazione tec-nologica, il mercato di riferimento(diversamente non sarebbe spiegabilela crescita del 25% del PIL europeo trail 1996 e il 2010) e la capacità di matu-rare degli attivi commerciali.

Come? Consolidando i settori matu-ri per ridurre i costi (fissi) e, per questavia, ridurre i competitors nel settore.Infatti, ancor più della crisi economica,è stata la domanda di sostituzione dellefamiglie a determinare una crescitadelle barriere all’entrata via rafforza-mento delle strutture produttive.Sostanzialmente gli operatori econo-mici, in assenza di un vero progressotecnico, hanno consolidato le proprieeconomie di scala per ridurre i prezzi,garantendosi le quote di mercatolasciate libere dai player troppo piccoliper ridurre i costi fissi di produzione(quanto accade nel settore delle auto-

sità di una politica industriale capace dianticipare la domanda. La stessa politi-ca industriale europeae, soprattutto,“Europa 2020” delineano la possibilitàdi svincolare la crescita economicadalle emissioni di carbonio e dall’im-piego delle risorse. Ai più sfugge larilevanza tecnologica della sfidaambientale ed energetica. Il nuovoparadigma tecnologico condiziona ladivisione del lavoro e della produzioneinternazionale. Sostanzialmente lafrontiera delle clean energy technolo-gies si adatta benissimo al modelloschumpeteriano del ciclo economico:si esce da una depressione solo quandoun “grappolo” d’innovazioni riesce aformarsi e si traduce in nuove oppor-tunità di crescita, investimento e pro-fitto, con una crescita del sapere tecno-logico. Infatti, il nuovo grappolo diconoscenze necessario per uscire dallacrisi si aggiunge a quello precedente,formando un back ground indispensa-bile per rilanciare il sistema economi-co. Infatti, l’approccio schumpeterianosulla competitività internazionalemette al centro gli sforzi innovativi chetrovano uno sbocco nel commerciointernazionale. Sostanzialmente l’inno-vazione tecnologica e la concorrenzagenerano un gioco a somma positivastabilendo nuovi ambiti di creazione divalore, cosicché le innovazioni espan-dono le dimensioni del commercio edel mercato internazionale. Infatti, chiproduce nuovi beni e servizi innovativiaumenta la propria quota di commer-cio internazionale, non perché sottrag-gono quote di mercato ad altri, ma per-ché intercettano la nuova domanda dibeni e servizi.

L’Italia nel consesso europeo

Per comprendere il posizionamentointernazionale dell’Italia, occorre adot-tare il modello di Schumpeter, il qualemetteva al centro del ciclo economicol’innovazione e le imprese che indu-strializzavano l’innovazione. Comeabbiamo già osservato, la sfida tecno-logica-industriale internazionale impo-ne delle riforme di struttura del tessu-to produttivo dal lato della specializza-zione produttiva. Le domande cheoccorre indagare è la seguente:

1. Se le imprese italiane non posso-no intercettare il nuovo mercato dibeni e servizi ad alto contenuto tecno-logico per ragioni di struttura, possia-mo immaginare un soggetto pubblico-privato che industrializzi la ricerca pre-

mobili, in particolare alla FIAT, è unottimo esempio del fenomeno appenadescritto). È quello che è successo inEuropa con l’ingresso della monetaunica. Senza nessuna vera innovazionetecnologica, senza lo sviluppo di beni eservizi a domanda crescente, la possi-bilità di mantenere dei tassi di crescitaadeguati era ed è legata alla capacità diconcentrare la produzione, eliminandoi concorrenti meno competitivi, e perquesta via soddisfare l’intera domanda.Anche in questo modo si spiga l’attivocommerciale di alcuni paesi europei.

Per questo è fondamentale svilup-pare delle politiche industriali capaci diagire almeno su due livelli:

1. Il primo è legato ai settori maturicon una domanda di sostituzione esostanzialmente declinante;

2. Il secondo è legato ai settori amaggiore contenuto tecnologico, cheregistrano tassi di crescita significativi,con un mercato potenziale tutto daoccupare.

La necessità di sviluppare una politi-ca industriale adeguata per affrontarel’instabilità del sistema economico. Aparità di condizioni (finanziarie emonetarie), sono le politiche industria-li pubbliche, con il consenso del tessu-to produttivo privato innovativo, agovernare i cambiamenti tecnologici econdizionare le traiettorie dello svilup-po. Ecco perché il governo del checosa e del come produrre è diventatostringente per tutti i paesi europei. Glieffetti delle buone politiche pubblichesi possono osservare via distribuzionedel reddito, riduzione della propensio-ne marginale al consumo, bilanciacommerciale in attivo o comunque sta-bile, con tassi di crescita economicaequilibrati. Queste politiche eranoancor più importanti se consideriamol’esaurimento del ciclo-paradigmatecno-economico fondato sui consumidi massa e sull’ICT (tecnologia dell’in-formazione e della comunicazione). Inqualche misura la nascita dell’euro hafavorito lo sviluppo di un mercato e diuna struttura produttiva più aderentealla necessità di creare delle economiedi scala adeguate per affrontare unadomanda sostanzialmente stabile, esempre più fondata sulla conoscenza.

Nuove politiche per uscire dalla crisi

Il mercato e la crisi hanno già modi-ficato i “criteria” per l’uscita dalla crisi.In qualche misura si ripristina la neces-

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competitiva realizzata nei centri diricerca, siano essi pubblici o privati?

2. E’ possibile recuperare il sensoultimo di “The end of laissez-faire” diKeynes quando sostiene che "La cosapiù importante per un governo non èquella di fare un po' meglio o un po'meno bene quello che già viene realiz-zato dall'iniziativa privata, ma di fareciò che l'iniziativa privata assolutamen-te non fa"?

Se compariamo l’Italia alla mediaeuropea, è possibile sostenere quantosegue: il sistema produttivo italianonon può soddisfare la domanda delleimprese e dei consumatori nel campodelle macchine utensili, dei nuovimateriali, della chimica fine, del tessilenon tessile, delle tecnologie FER di IIIgenerazione, ecc..., mentre l’evoluzio-ne del mercato internazionale e lo svi-luppo del paradigma tecnologico fon-dato sulle green technology suggeriscedelle politiche industriali abbastanzadiverse da quelle fino ad oggi promos-se. La politica industriale dovrebbecaratterizzarsi per un sostegno a quelleattività che sono capaci di anticipare ladomanda attraverso la ricerca pre-competitiva. Diversamente, la mancatacapacità di produrre le tecnologie dicui sopra, sovraespone i beni e serviziitaliani ad una concorrenza (spietata)fondata sulla variazione di prezzo.Come è già stato ricordato, per i beni eservizi maturi si realizza una concor-renza di tipo neoclassico, mentre per ibeni e servizi ad alto contenuto inno-vativo si realizza una concorrenza lega-ta alle barriere all’entrata (tecnologica).

Indicatori della debolezza di struttu-ra dell’industria italiana sono tanti, mail più rappresentativo, e non a caso ilmeno indagato dagli opinion maker, ècertamente legato agli investimentifissi lordi (tanto più la domanda è tra-scinata dagli investimenti, tanto più lacrescita del PIL dovrebbe essere soli-da). Domanda: tutti gli investimentisono uguali?

In realtà l’output può essere mag-giore o inferiore in ragione della spe-cializzazione produttiva. La serie stori-ca degli investimenti di Italia edEuropa (area euro) rappresenta benelo stato dell’arte: solo con la riduzionedegli investimenti l’Italia riduce lospread dei tassi di crescita del PILrispetto a quelli medi dell’UE. Tra il1996 e il 2005 le imprese italiane

Mentre in Germania gran parte delvalore aggiunto arriva da ciò che si rea-lizza all’interno, da noi le PMI che for-nivano input alle imprese maggioriincorporano sempre di più beni inter-medi provenienti dall’estero. Infatti,dal 1993 al 2010, l’incidenza delleimportazioni sul valore aggiunto è cre-sciuta complessivamente di oltre il60%, a fronte di un incremento delpeso delle esportazioni di poco più del30%. Le perdite occupazionali e sala-riali per l’Italia potrebbero essere com-pensate a livello europeo, ma gli effettiin termini di produttività, salari ebenessere sociale, in Italia, sono dram-matiche. In qualche misura le politichepubbliche di sostegno agli investimen-ti privati, con un tasso di elasticità parialla metà di quello medio europeo, tro-vano un vincolo proprio nella struttu-ra produttiva che incorpora sempre dipiù valore aggiunto proveniente dal-l’estero.

hanno tentato di recuperare il ritardodalle imprese europee adottando-importando le innovazioni tecnologi-che, ma l’incapacità di produrre sul ter-ritorio questi investimenti-innovazionihanno ridimensionato il moltiplicatore(keynesiano). Si può dire, quindi, chein Italia le politiche keynesiane hannoun impatto molto più contenuto diquanto non avvenga nei paesi europei.

Ma anche le esportazioni hanno unvincolo estero abbastanza recente.Dopo la crisi del 2007 la quota d’im-portazioni di beni intermedi torna acrescere. Si potrebbe forse trattare diun fenomeno congiunturale, ma lanostra ripresa economica trainata dalleesportazioni, in vero molto contenuta,ha dilatato il peso degli input importa-ti, mentre la domanda interna ha com-presso i beni di consumi. L’esito èquello di un sistema produttivo mani-fatturiero sempre più bisognoso divalore aggiunto prodotto all’estero,erodendo il nostro saldo commerciale.

democrazia e stato sociale sotto tiro

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Sarebbe profondamente sba-gliato non vedere gli effettinegativi profondi che tutto

ciò, accompagnato dall’incapacità delsistema politico di avviare una seriaautoriforma, determina tra i cittadini,aumentandone la diffidenza o il rifiutodella politica in quanto tale, tanto piùin un momento in cui questa si mostraincapace di affrontare i drammaticiproblemi sociali, economici e finanzia-ri dell’Italia, affidandone la soluzione atecnici, che a loro volta in buona parteprovengono dal sistema para-politicodi potere.

Ecco la prima ragione per la quale lasinistra di alternativa non può essereindifferente a questo tema, anzidovrebbe essere portatrice, molto piùdi quanto accada, di un punto di vista,appunto, alternativo.

Anche perché, diversamente, si pro-pongono o vengono adottate pretesesoluzioni al problema che vanno nelladirezione esattamente opposta a quelloche sarebbe giusto.

Il vero problema, infatti, è quello diuna democrazia malata, e ad esso sirisponde allargando gli spazi di parteci-pazione democratica. Le uniche misu-re fin qui prese, per restare per ora allivello istituzionale, vanno invece nelladirezione diametralmente opposta. Miriferisco in primo luogo alla riduzionedei componenti dei consigli comunali.Il problema della democrazia e della“politica pulita”, a livello territoriale,era ed è invece esattamente opposto:l’eccesso di personalizzazione, la ridu-zione dei poteri dei consigli a vantag-gio di quella degli esecutivi, e poi daquesti alla persona dell’eletto dal popo-lo, e al suo staff di consulenti e diesperti. I consigli comunali vedonooggi ristretto lo spazio di presenze

tecnici? Infila in un decreto legge il rin-vio delle prossime elezioni provinciali,delinea una soluzione pasticciata epriva di possibilità operative, tanto chelo stesso Presidente della Repubblicaha espresso perplessità sull’inconclu-dente stato dell’arte. Fatto gravissimo,quand’anche fosse stato giusto: non sirinvia un appuntamento democraticoper decreto legge; speriamo che nonvenga in mente a qualcuno di rinviareanche l’elezione del Parlamento del-l’anno prossimo. In attesa della rifor-ma elettorale e magari dichiarandoguerra a qualche “stato canaglia”: che èl’unica possibilità costituzionale per ilrinvio delle elezioni.

Viene il dubbio, mettendo insiemel’intervento di Berlusconi sui comuni equello di Monti sulle province, che ciòche dà fastidio non sono i costi dellapolitica, ma gli spazi di partecipazionee di democrazia.

Quando con Massimo Villone scri-vemmo un libro sul costo della demo-crazia, ormai nel 2005, e parallelamen-te da parlamentari proponemmo algoverno Prodi interventi sui costi dellapolitica, già dicevamo le stesse cose. Lasordità di Prodi e della sua maggioran-za a questo problema (come dimenti-care il governo più pletorico della sto-ria, non solo italiana!) fu a mio avvisouna delle cause della sua sconfitta, chesi verificò per la perdita di consensonel paese, prima ancora che nell’auladel Senato.

Qualcosa di simile sta accadendoper quanto riguarda le conseguenze delcaso Lusi. Anche su questo temaVillone ed io individuammo il proble-ma (il finanziamento pubblico didimensioni eccessive e privo di ognigaranzia di trasparenza e di controllodemocratico) e indicammo la soluzio-

diverse, ridotto il pluralismo, incrinatala possibilità di controllo e di traspa-renza. Lo stesso errore si sta facendoper quanto riguarda il numero deimembri del Parlamento: dimezzare ilnumero dei parlamentari è diventata laparola d’ordine comune dei politici incerca di popolarità, salva poi la diffi-coltà di riuscire a imporla. Ma è unaparola d’ordine sbagliata. Il problemanon è quello del numero, ma della fun-zione e del ruolo del Parlamento e deisingoli parlamentari; tanto più in unmomento in cui la progressiva sottra-zione di poteri, dallo stato nazionalealla tecnocrazia europea e dalParlamento all’esecutivo (il governoMonti prosegue con baldanza nellatecnica decisionale della SecondaRepubblica: mega-decreti legge affolla-ti ed eterogenei, mega-emendamenti,voti di fiducia).

Secentotrenta deputati non sonoaffatto troppi; il problema semmai è ilbicameralismo paritario, ma allora vaaffrontato sul serio: con il monocame-ralismo, secondo la vecchia propostadel PCI, e una seconda camera chepotrebbe benissimo essere l’attualeConferenza delle Regioni e delleAutonomie, naturalmente senza poteripolitici, ma con esattamente gli stessipoteri che ha oggi la Conferenza.

Altro esempio di pessima risposta aun problema vero: la questione delleprovince. La mai abbastanza deprecatariforma del Titolo V della Costituzioneha creato un unicum mondiale: quattrolivelli territoriali costituzionalmentegarantiti. Personalmente, sono per ilsuperamento delle Province. Ma fattoin modo serio: modificando laCostituzione e decidendo lo strumentopiù efficace e democratico per garanti-re le funzioni intermedie tra Regione eComune. Che fa invece il governo dei

“COSTI DELLAPOLITICA” segnale di una democrazia malata

Con andamento carsico emerge periodi-camente, e poi scompare dall’agenda

pubblica, il tema dei costi della politica.Dalla “casta” di Stella&Rizzo al casoLusi, passando per scandali legati a

corruzione o sospetti di corruzione, alladenuncia di sperperi più o meno

ingiustificati.

di CESARE SALVI

democrazia e stato sociale sotto tiro

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ne, con la proposta di una legge diattuazione dell’art. 49 dellaCostituzione. Attenzione, ora tutti neparlano, ma il gattopardo è in agguato!Se continuano così i partiti rischiano dibuttare, con l’acqua sporca dello scan-daloso uso privatistico dei contributi, ilbambino del principio del finanzia-mento pubblico della politica. Il siste-ma attuale riproduce, sotto mentitespoglie, quello che fu bocciato nel refe-rendum popolare del 1993.

A questo punto si aprono due stra-de: o si fa la riforma dei partiti, garan-tendone il carattere democratico inter-no, oppure sarà inevitabile la spintaverso il finanziamento privato – comegià proposto in questi giorni dal segre-tario del PdL Alfano. Egli dice: faccia-mo come in America. Ma è proprionegli Stati Uniti l’esempio del paese nelquale il denaro privato sta sommergen-do ogni residua autonomia della politi-ca. Nel 2010 la Corte Suprema, conuna sentenza molto criticata, ha stabili-to che nessun limite o tetto può essereposto alle campagne di società perazioni e grandi imprese a sostegno diun candidato, purché formalmentedistinte dai contributi dati direttamen-te al candidato. Ciò sta determinandoun ulteriore enorme afflusso di denaroda parte soprattutto di finanzieri ecomunque di miliardari che nelle pri-marie repubblicane vengono utilizzatiin spot televisivi per demolire i candi-dati rivali al prediletto dell’establi-

ha reso nota la sua prima relazione.Molto si è parlato – e quasi nulla si èfatto – sulla parte riguardante i guada-gni dei parlamentari; poca attenzione siè data a una tabella agghiacciante sulleautorità e agenzie costituite sui temipiù diversi in Italia, e sul raffronto conquelle europee. Se si va a vedere la rela-tiva tabella, risulta che, delle ventisei“entità” censite, ben dodici non hannoomologhi in nessun altro paese euro-peo, e su altre sette non si hanno noti-zie, oppure esistono solo in uno o duepaesi.

Il governo Berlusconi ne ha aggiun-ta un’altra, l’Autorità Garante perl’Infanzia e l’Adolescenza, e ora ilGoverno Monti ne ha aggiunte altredue, l’Autorità dei Trasporti e quella diVigilanza sulle Fondazioni Bancarie.Alcuni di questi enti non servono aniente, se non a sistemare gli amicidegli amici. Con retribuzioni moltoelevate. Altre, a questa “funzione”aggiungono quella di sottrarre impor-tanti poteri decisionali, in materiemolto rilevanti, al potere politico e alcontrollo democratico del Parlamento,per attribuirli ad enti apparentementetecnici ed autonomi, ma che in realtàsono collegati da rapporti inscindibilicon il potere economico e molto spes-so proprio con il potere che dovrebbe-ro controllare. Al tempo stesso, si per-petuano in questo modo situazioni dimonopolio o oligopolio (pensiamo aiconcessionari autostradali, alle compa-

shment Romney. Ora anche Obama haannunciato di voler far ricorso a questosistema, al quale pure si era finoradetto contrario. Eppure, non è stato un“indignato” ma il commentatore dieconomia del Financial Times MartinWolf, in un articolo dedicato al capita-lismo in crisi, a scrivere che oggi “pro-teggere la politica democratica dallaplutocrazia è una delle maggiori sfideper la salute delle democrazie”, e haaggiunto che “la difesa della politicadal mercato si ottiene regolando l’usodel denaro alle elezioni”, auspicandoun almeno parziale finanziamentopubblico dei partiti e delle elezioni.Mentre Alfano rivendica la trasparenzadelle fidejussioni di Berlusconi al suopartito, e mentre il PD e gli altri partitidel centro e del centrosinistra balbetta-no di imminenti riforme, cresce il pesodel denaro, si riduce la partecipazione,aumenta il rifiuto della politica.

Affronto ora un terzo tema, dopo leassemblee elettive e il finanziamentodei partiti, nel quale sprechi e costiingiustificati si accompagnano allariduzione della democrazia e al perse-guimento da parte del governo dei tec-nici di soluzioni ulteriormente peggio-rative: il tema delle cosiddette autoritàindipendenti.

Il 31 dicembre dello scorso anno laCommissione Governativa sulLivellamento Retributivo Italia-Europa(cosiddetta Commissione Giovannini)

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gnie di assicurazione…), che sono l’ef-fetto – molto spesso – delle tantodecantate privatizzazioni e liberalizza-zioni fasulle dell’Italia della SecondaRepubblica, della quale sotto questoprofilo il Governo Monti è degno con-tinuatore. I controllati catturano il con-trollore, dicono gli americani; control-lori e controllati colludono con il pote-re politico in modo poco trasparente, epoi la sera vanno tutti insieme a cena.Il conto è pagato dai contribuenti.

Ho parlato di tre temi apparente-mente diversi, ma collegati da un filonero: lo spreco aumenta il potere delleoligarchie, rende opache decisioni rile-vanti, restringe gli spazi della democra-zia. Quando poi, come per i consiglicomunali e le province, si interviene innome della lotta alla “casta”, i risparmi– se ci sono – sono minimi, e in realtàsi riduce ulteriormente la partecipazio-ne democratica.

Non ho parlato della corruzione,che il sistema certamente agevola. Nonsi capisce perché nessuno affronti condeterminazione il tema delle leggi cri-minogene introdotte nella SecondaRepubblica – e purtroppo non solo nelcentrodestra – che hanno depenalizza-to comportamenti socialmente gravis-simi (il falso in bilancio è solo unesempio), contribuendo a sottrarre albilancio pubblico cifre rilevantissime.O forse lo si capisce persino troppobene.

In queste settimane si è ricordato ilventennale di “mani pulite”. Molti sisono domandati perché da allora lecose siano andate peggiorando, invecedi migliorare. Molto ci sarebbe da direal riguardo, ma per stare al filo delnostro ragionamento, ritengo che laSeconda Repubblica abbia dato larisposta sbagliata alla questione cheEnrico Berlinguer aveva posto quandosollevò la “questione morale” comequestione politica e democratica. Egliaveva indicato nel degrado della fun-zione dei partiti, divenute macchine dioccupazione del potere, il nodo centra-le della crisi italiana. Non fu compresofino in fondo, nemmeno nel suo parti-to. Egli stesso non ebbe il tempo didelineare le conseguenti risposte ancheistituzionali. Fu preso per moralista (siraccomanda in proposito la lettura delrecente “Elogio del moralismo” diStefano Rodotà). In realtà se i partitinon svolgono più il compito di con-

La retribuzione dei parlamentari nefa parte, ma è un discorso monco senon si accompagna all’iniziativa peruna legge elettorale basata sul plurali-smo e sulla partecipazione e alla richie-sta che al Parlamento siano dati poteriche non si limitino alla ratifica di deci-sioni prese altrove: siamo minus quammerdam, ha detto un parlamentare delPdL. Se si diffonderà nell’opinionepubblica un concetto analogo a quelloelegantemente enunciato da questoesponente della “casta”, saranno guaiper la democrazia e per la sinistra.

Naturalmente buone idee e propo-ste ci sono a sinistra, anche se a volte siha l’impressione che siano consideratitributi dovuti al senso comune e nontemi decisivi per la democrazia. Madiciamo la verità, c’è la battaglia politi-ca, ci sono le proposte istituzionali, male lavoratrici e i lavoratori guardanoanzitutto alla pratica politica. E, anchea sinistra, la nostra pratica non sempreè tale – temo – da rendere evidentel’indispensabile differenza.

correre con metodo democratico adeterminare la politica nazionale, comedice la Costituzione, il problema –avvertiva Berlinguer – riguarda lasostanza stessa della democrazia. LaSeconda Repubblica, invece di rinno-varli e riformarli, ha destrutturato ipartiti come associazioni volontarie dicittadine e cittadini, e vi ha sostituito lapersonalizzazione della politica a tutti ilivelli, il maggioritario interpretatocome pseudo-presidenzialismo, il fede-ralismo inteso come riserva di cacciadei potentati locali, il finanziamentopubblico come strumento (nellamigliore delle ipotesi) nelle mani deivertici per mantenere il controllo deipartiti. Anche la legge elettorale è statausata a questo fine: il giustamente vitu-perato “porcellum” non è che il dispie-gamento verace di come davvero fun-zionava la Legge Mattarella, come sachi ha partecipato ai tavoli delle tratta-tive.

La denuncia degli sprechi e dei costiingiustificati della politica rischia alloradi essere strumentalizzata, se non la siinserisce in un discorso complessivo dirinnovamento della democrazia italia-na.

democrazia e stato sociale sotto tiro

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QUALE SOVVERSIVISMOOGGI DELLE CLASSI DIRIGENTI

Ha avuto molta circolazione e fortuna asinistra, nelle settimane scorse, il passag-

gio contro la natura antidemocratica (e pericolosamente politica) dei cosiddetti

governi tecnici tratto da un vecchio discor-so parlamentare di Palmiro Togliatti

(9 luglio 1963): mirabile discorso, e tuttaviadavvero troppo lontano per essere oggetto

altro che di contestualizzazione e riflessione storica.

di UMBERTO CARPI

Del resto, la riesumazione diquella frase non viene dasinistra, dove Togliatti è in

genere accantonato alla stregua di unavo impresentabile, bensì dall’ex mini-stro Martino, un falco-liberale rigoro-samente critico del governo Monti,però – pare impossibile – da destra.

Vale la pena precisare che Togliattiinterveniva sulla fiducia al governoLeone, allora usualmente non definito(né definibile, data la composizione, adifferenza dell’attuale, tutta di eletti,essendo lo stesso Leone Presidentedella Camera) governo “tecnico”,bensì governo “di affari”. Una defini-zione, del resto, che potrebbe benessere riesumata, data la sua squisitanatura bancaria, per il governo Monti:governo “tecnico di affari”.Comunque, quell’occasione togliattia-na era molto particolare: caduto ilprimo governo Fanfani di avviamentoal centro-sinistra per le violente resi-stenze della destra democristiana e deiliberali a quanto di progressivo erastato già realizzato o si stava profilan-do (scuola media unica, nazionalizza-zione elettrica, volontà programmatricidel repubblicano La Malfa e del socia-lista Lombardi, però – si badi ?entrambi provenienti dal Partitod’Azione), la DC aveva posto condi-zioni molto pesanti per il PSI (e ancheper il PRI): dunque un governo ditransizione o di affari (e di minoranza,“fiduciato” con una tormentatissimaastensione socialista), in attesa di unnuovo accordo fra i partiti (arriveràpresto il governo Moro-Nenni). Moltoparticolare, l’occasione, sia perchéTogliatti si rendeva conto che quellache si profilava era una sostanzialeregressione, donde un giudizio aperto,se non un’apertura di credito, nei con-

sia pur timidissima politica. E comesorprendersene, quale esito nazionale,in un’Europa a mera trazione finanzia-ria, priva di Costituzione politica, conParlamento e Governo affatto virtuali?

La verità è che, per questa Europabancaria e acostituzionale, unaCostituzione e una centralità parla-mentare istituzionalmente “forti”come le nostre non sono più – voglia-mo dire? – funzionali. Donde la preci-pitante tendenza presidenzialista, l’in-sofferenza per le garanzie del lavorocosì intrinsecamente connaturate alnostro dettato costituzionale (artt. 1,39, 40, 41).

Non dunque al così datato discorsodi Togliatti sarà il caso di appellarsi, maai protagonisti del nostro presente: edunque, antico comunista per anticocomunista, trovo se mai più attuale,ancorché meno gratificante, richiamar-mi al Presidente Giorgio Napolitano. Ilquale medesimo del resto, nel discorsodi fine anno, ha voluto alludere a quel-la sua esperienza politica sia per accre-ditare le ragioni anche autobiografichedella propria particolare sensibilità aisacrifici imposti ai lavoratori (del chenon c’era alcun motivo di dubitare), siaper rammentarci la capacità e volontàdi partecipazione consapevole mostra-ta dai lavoratori stessi – fin dalla rico-struzione postbellica – nei momenticruciali di sforzo nazionale: il che èperfettamente vero, salvo la scarsissi-ma pertinenza del richiamo. Allorainfatti il mondo del lavoro, diciamomeglio il popolo italiano nel suo com-plesso e nella sua unità, era guidato (e,dopo il ventennio, rieducato) alla poli-tica da grandi partiti di massa e ancheda partiti piccoli ma tutti di forte iden-tità e idealità, in un contesto di ritrova-to entusiasmo parlamentare e costitu-

fronti del primo centro-sinistra; siaperché in quei giorni (proprio i giornianche di una memorabile visita ufficia-le del presidente Kennedy) si stavaconsumando la clamorosa rottura fraURSS e Cina. Dunque la necessità, perTogliatti, di rompere l’isolamento poli-tico in Italia, anche in considerazionedi prospettive internazionali che ren-devano sempre più impellente lo svi-luppo di un’autonomia politica “nazio-nale” del PCI. Di lì, due anni dopo, leestreme riflessioni del memoriale diYalta. Ecco il contesto del suo duroattacco alla concezione stessa di ungoverno senza maggioranza politica,con un programma non condiviso daipartiti, dunque in certo senso “irre-sponsabile”: e aveva ben ragione, soloche si rifletta all’altroieri di quei giorni(il governo Tambroni) e a quello chesarebbe stato il dopodomani, la dram-matica conclusione della PresidenzaSegni e l’affaire De Lorenzo.

Non è, questa, una poco pertinente(e frettolosa) divagazione storiografica.Bensì la conferma che nella storiarepubblicana un governo “tecnico” diquesta fatta non c’è stato mai, cheanche in situazioni di estrema crisipolitica e istituzionale fu dentro ilParlamento e nella dialettica fra i parti-ti che si cercarono uomini e soluzioni,non fuori e nell’annullamento di quelladialettica. Un annullamento che oggi,anche in forza di un continuo ricorsoai voti di fiducia pur in presenza d’unamaggioranza tanto ampia quantoprona, suona minaccioso esperimentoper il futuro: certo non c’è più la vol-garità del fastidio per gli intralci parla-mentari esibito dal governo “azienda-le” di Berlusconi, ma, nella sostanza, la“tecnica” di Monti mostra allo stessomodo di non tollerare i tempi di una

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zionale e insieme, però, capaci diasperrima conflittualità ideologica esociale. Insomma, di piena vita demo-cratica: della quale il mito bipartisan acui di continuo veniamo richiamati perresponsabilità patriottica è in realtà lanegazione. Che poi la situazione inter-nazionale imponesse scelte di campodivaricanti non comportò mai lacera-zioni sostanziali, secessioniste, nel tes-suto unitario dello Stato: dalla stessadrammatica crisi-Tambroni del 1960 siuscì col grande esperimento del cen-tro-sinistra.

Sacrifici sì, in quegli anni, bastiricordare il fenomeno – e le sue conse-guenze ? dell’emigrazione dal Sudverso il Nord e verso l’Europa setten-trionale, Svizzera, Germania, Belgio:però in un contesto complessivo dicrescita economica, di sviluppo socia-le, di arricchimento complessivo delPaese, di discussione e di slancio perl’elaborazione prima, per la sua attua-zione poi, della nuova Costituzionerepubblicana. Quando Togliatti esalta-va il modello dell’Emilia rossa non eraper adombrare secessioni antinaziona-li, ma al contrario per indicare una stra-da di riforme e di amministrazionecapaci di realizzare una superiore eprogressiva saldatura fra classi lavora-trici e ceti medi, come ci si esprimevanel quadro sociologico e culturale diallora. Quando De Gasperi venivarichiamato da Oltretevere (e forseanche da Oltreoceano) a perverse alle-anze neofasciste in pura funzione anti-comunista, sapeva resistere – pagandoaltissimi prezzi anche personali – innome della laicità della politica e del-l’indipendenza nazionale.

Oggi accade il contrario, e il richia-mo storico del Presidente Napolitano,pur generoso, suona stridente nelmomento stesso che i sacrifici vengo-no chiesti in un contesto affatto oppo-sto: governo tecnico (a prevalente tec-nicità bancaria, impropriamente dettodei professori), messa in mora dei par-titi e in discussione della Costituzione,depressione del Parlamento, cessionedi larga parte della sovranità non già aduna superiore entità statuale a pienoregime costituzionale e democratico,ma ad una autorità bancaria dalla logi-ca strettamente finanziaria. Il che fral’altro getta luce ancor più inquietantesulla pretesa neutralità efficientista delcosiddetto “governo tecnico”, che hatutta l’aria di essere invece a suo modo

versivismo delle classi dirigenti italiane:nel caso, depotenziamento dell’istitutoparlamentare, stravolgimento nei fattidi punti sostanziali della Carta, perse-guimento della scompaginazione deidiritti del lavoro. Accesso tanto piùpericoloso per la sua funzionalità aquesta Europa monetariamente rigo-rosa, ma priva di anima costituzionale.Valga oggi mentre scrivo, a non desi-derata conferma, il caso della Grecia,anche per la quale dalla Germania verocentro finanziario-politico europeocominciano a giungere inviti a fare –testuale – come in Italia, a darsi cioè ungoverno “tecnico” senza partiti e consospensione della dialettica politica:messa allo stremo economicamente, laGrecia deve adesso venir rimodellata,messa in sicurezza anche politicamen-te. Inquietante invito a due mesi dalleelezioni! Per ora la Presidenza grecarisponde con fierezza nazionale difen-dendo la propria sovranità, ma quantopotrà resistere?

Comprendiamo dunque come ilPresidente Napolitano si preoccupi dirassicurare ad ogni passo che siamodentro la Costituzione, che la demo-crazia parlamentare non è stata sospe-sa né la sovranità nazionale lesa dalleintimazioni tedesco-europee, che sitratta solo di una situazione ecceziona-le dovuta alla gravità di una crisi eco-nomica incompatibile con una chiama-ta alle urne e relativa campagna eletto-rale (ma la Spagna?): il nostroPresidente è di troppo salda culturacostituzionale e parlamentare, di trop-po antica milizia politica di partito e frai partiti per non avvertire che l’Italiademocratica è su un filo di rasoio(parallelamente, che l’UE si sta trasfor-mando da speranza in incubo e l’euroda conquista in maledizione). E’ pro-prio questa sua insistenza a conferma-re che siamo ai limiti, e io aggiungo chea quei limiti abbiamo cominciato adavvicinarci non da ieri ma già da ieril’altro, almeno da quando poco più diun anno fa il voto sulla fiducia allaCamera venne fatto rinviare di unmese, durante il quale ci fu il tempo dimettere in piedi fra Arcore e palazzoGrazioli (mentre in Spagna per usciredalla crisi si indicevano le elezioni) lasciagurata operazione dei “responsabi-li”. Miserabile operazione, che ci haulteriormente affondato in situazionedi effettiva emergenza dentro una crisieconomica, morale, istituzionale senzaprecedenti (nulla dico dell’obbligata

(al modo dell’attuale Europa a dittatu-ra BCE) tutt’affatto politico, autentico“comitato d’affari” per conto. La suadirezione e composizione, statura esobrietà a parte, suona – esperienze ecarriere ? a conferma. Senza dire che,quanto alla sobrietà (molto apprezzatadopo l’incontinente stagione berlusco-niana), Marx ci ha messo in guardiasull’ascetismo inerente al danaro: asce-tismo per accumulazione in alto, asce-tismo per privazione in basso. Lo stilee la fame. Stile chiesastico di Monti,stile laico di Einaudi a capo della Bancad’Italia nel dopoguerra (però a suavolta chiesastico in De Gasperi capodel Governo), quando si oppose allaseria patrimoniale proposta da comu-nisti e socialisti nella forma radicale del“cambio della moneta”, contropropo-nendo con Costa di Confindustria lasoppressione del calmiere sul prezzo,appunto, del pane! Sacrifici per sacrifi-ci e stile per stile (da Sella con la tassasul macinato …), è toccato e toccasempre al pane.

Quanto poi alla statura, bisogna direche per ora i professori hanno cavatodalla loro scienza – ennesima manovraad alto tasso recessivo ed ancor piùalto tasso di iniquità, lavoratori e cetomedio uniti sì, però a degradare nelcomune tartassamento – nient’altro senon imposte (pensioni, casa) e balzelli(la solita benzina…), che non denota-no alcuna superiore tecnicità o fanta-sia, ma una tradizionalissima e faciledurezza classista in nulla diversa e anziancor più cruda dei “massacri sociali”già giustamente imputati al governoBerlusconi-Bossi: per di più esercitata,lo ripeto per la gravità del fatto, colsolito metodo berlusconian-bossianodella “fiducia”. “Fiducia” che, impostaad (nemmen più da) una fittizia mag-gioranza-non-maggioranza, equivalealla mera, già ricordata, tacitazione delfastidio parlamentare. Parlamentari aloro volta mediamente mediocrissimi espesso peggio, è vero, piuttosto nomi-nati che eletti, ma strumentalmenteesposti come casta privilegiata al ludi-brio plebeo in vista d’un futuroParlamento “sobrio” e “gratuito” for-mato di soli ricchi (l’esempio ipocritaquanto insidioso di Monti che rinunciaallo stipendio…): ogni stagione didecadenza cerca di rianimare comepuò la sua aula sorda (muta) e grigia.Dovessi riassumere la situazione in unaformula, richiamerei la sentenza diGramsci sui periodici accessi di sov-

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china presidenzialista su cui stiamooggettivamente scivolando in una coldepotenziamento dell’istituto parla-mentare, e il futuro non ci promettedavvero gli Scalfaro, i Ciampi, iNapolitano tutti eredi diretti, il demo-cristiano l’azionista il comunista, dellacultura resistenziale-CLN, organiciall’essenza costituzionale).

Certo, si può ben obbiettare, fu unascelta obbligata perché non si vedeva enon si vede quale credibile governoalternativo avrebbero potuto esprime-re il Parlamento o lo stesso ricorso alleurne, per di più con una tal legge elet-torale. Ma di qui due considerazioniinevitabili: la prima, il vuoto (o peggio)a sinistra: su questo punto bisogneràtornare, interrogandoci senza reticenzesu un PD che deve ancora decidersi seesserlo davvero un partito di sinistralaico e vocato a rappresentare il nuovomondo del lavoro (per intenderci allabuona, Ichino e Letta o Fassina eBersani?) e sulle attitudini di governod’una sinistra-sinistra pullulante direduci non pentiti dai disastri della sta-gione Bertinotti-Pecoraro Scanio e perora inattendibile, fuor dalla vocazionepan-protestataria, come cultura digoverno (essenziale anche per saperessere eventualmente opposizione).Né con la cultura di governo ha a chefare certo demagogico professionismodelle “primarie” oggi autolesionistica-mente in voga. Non c’è un solo puntostrutturalmente decisivo per la difesa elo sviluppo dell’occupazione, dellostato sociale (politiche della ricerca edell’innovazione, fonti di energia,regolazione del mercato ecc.) in cui siodano, quando non meri silenzi, piùche vaghi auspici di novità o difensiviarroccamenti nel vecchio. C’è la CGIL,è vero: ma talune velleità di farne unasorta – se non di partito – di incubato-re d’un partito politico, quasi cinghia ditrasmissione alla rovescia, mi sembra-no per molti motivi su una strada sba-gliata.

La seconda considerazione, chepure imporrà una riflessione appro-fondita, riguarda il fatto che questonon è solo un governo bancario, mabancario-clericale, il che dico senzaalcuna sfumatura spregiativa: certo èche, dalla cosiddetta sinistra di Riccardi(Bazzoli) alla destra neoguelfa diOrnaghi, questo governo “tecnico”sembra preparare il terreno ad unanuova forza cattolica trasversale agli

testa sgombra dai condizionamentimediocremente correntizi e autorefe-renziali dell’ultimo trentennio. Perchésiamo ad uno spartiacque storico, aduna resa dei conti “costituzionale” (visi è messa in gioco la stessa primaautorità repubblicana) che investeaspetti essenziali del futuro di questoStato, della sua essenza medesima diStato fondato sul lavoro e costituzio-nalmente vocato al perseguimento diobiettivi di uguaglianza: chi si illudeche il governo Monti sia una parentesioperativa, una sospensione ecceziona-le, e che passato l’inverno tutto torne-rà come prima (ma quale prima?),commette un tragico errore. Essogoverno, fra deboli ragioni nazionali eprepotenti ragioni europee, si ponecome un momento di transizioneverso uno Stato altro: per questo l’ap-poggio “tecnico” in Parlamento, accor-dato “senza se e senza ma” per di piùin subalterna convergenza di fatto conla destra, mi sembra ogni giorno di piùun (estremo) errore “politico”.Politico, istituzionale, culturale.

attuali partiti e organica – ma niente ache vedere con la DC ? all’egemoniache la Chiesa, nel generale sfaldamen-to delle ideologie e dei valori laici sialiberali che marxisti, è venuta manmano acquisendo; la polemica sulletasse risparmiate alla Chiesa e daBerlusconi e da Monti (ma anche daProdi…), ancorché sacrosanta, è debo-le e marginale: facciamo pagar l’ICIalla Chiesa come è giusto, però consa-pevoli che da questo “sacrificio” il suoruolo uscirà più forte, meno condizio-nato. Il problema vero è quello delruolo del Vaticano oggi in Italia, dellasua battaglia forte per l’egemonianazionale contro i cedimenti deboli deilaici di varia estrazione, una progres-sione in corso da cinquant’anni, daquando Giovanni XXIII dichiarò uffi-cialmente ad uno sbalordito Fanfaniessere disegno provvidenzialequell’Unità italiana già per decenni sen-tenziata disegno del demonio. Dicenulla che in questo centocinquantena-rio probamente ma scialbamente cele-brativo (inno e bandiera nazionali, insostanza e giustamente, contro il gros-solano antirisorgimentalismo leghista,non poco nei tempi berlusconiani,però scarsi stimoli al ripensamentostorico-critico) abbia fatto spicco lapresenza patriottica delle autorità vati-cane sempre a fianco dei generosi, assi-dui sforzi del Presidente Napolitano?Abbiamo benedetto insieme perfino lapresa di Porta Pia: una breccia attraver-so la quale oggi sembra essere piutto-sto il protagonismo cattolico a dilagareper l’Italia unita con i suoi principî nonnegoziabili, dalla Vita alle Banche alleOpere.

Alla fine, Banche più Chiesa edipendenza dall’Europa finanziaria,questo governo non è un malvolere deldestino bensì la conseguenza di decen-nali andamenti politici, economici, cul-turali, e fra essi la progressiva perditadi ragioni e di orizzonti da parte dellasinistra. Chi voglia far sviluppare unpartito legato alle ragioni del lavoro edei lavoratori, capace di ridare a questeragioni prospettiva e capacità egemoni-ca, quegli andamenti della storia italia-na, fra essi questo declino della sini-stra, dovrà ? insieme alla lotta control’economia di questo governo e controla cultura di questa destra, insieme auna sostanziale, non meramente “sin-dacale”, riflessione sulla nuova naturadel lavoro e delle relazioni sociali ?ripercorrerli con severa autocritica e

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In quell’articolo, tra le altre cose,si può leggere: “Sulla centralitàdella funzione dei sindacati per

la democrazia economica, per la tuteladei diritti e la dignità del lavoro, per losviluppo della persona umana nonabbiamo mai avuto dubbi. Abbiamoperò ritenuto e riteniamo che la rap-presentanza sindacale, perché specifi-camente inerente agli interessi econo-mici dei lavoratori e delle lavoratrici neiloro rapporti di lavoro, debba essereeffettiva, credibile, vissuta, verificabile.Non è come quella politica che si con-ferisce ogni quattro o cinque anni, cheha carattere generale ed è sanzionabilesolo con il rifiuto della rielezione, mapur trova nei referendum abrogativi ilcontrollo sugli atti dei rappresentati.Iscriversi ad un sindacato non com-porta assolutismo fiduciario, non com-porta delega senza mandato specificosui contenuti del contratto di lavoro”.Si tratta dell’unico commento a miaconoscenza che richiama una vecchia emai risolta disputa teorica sulla diffe-renza, se radicale e irriducibile oppureno, tra democrazia politica e democra-zia sindacale. Essa viene richiamatadagli autori per meglio dispiegare leloro critiche al merito dell’accordo.

In quel che segue vorremmo abboz-zare, proprio a partire dal tema delladifferenza tra la democrazia sindacale equella politica richiamato da Cofferati-Bertinotti-Ferrara, un ragionamentoopposto al loro. Sosterremo cioè chequest’accordo accoglie per la primavolta, nello stesso testo, nella storiadella democrazia sindacale del nostropaese, l’architettura costituzionale tipi-ca della democrazia politica e in ciò stail merito principale, e storico, dell’ac-cordo stesso. Chiunque mastichi unpo’ la materia sa che storia e dottrinahanno da tempo consolidato la teoriache la democrazia politica non possa

La democrazia sindacale (o del lavo-ro), al contrario, non ha mai beneficia-to di analoghe regole. La storia, oltreche la dottrina, ha voluto diversamen-te. Noi siamo un paese dove il sindaca-to unitario ha dato un contributo deci-sivo alla sconfitta del nazifascismo ealla nascita della Repubblica e dellaCostituzione. Oltretutto nel sindacatounitario, e anche dopo, il movimentosindacale ha avuto una fortissima com-ponente comunista e socialista, e per-ciò anche l’appartenenza ideologica ciha messo del suo. A fronte di paroled’ordine quali “proletari di tutto ilmondo unitevi” l’unità dei lavoratoriera “sacra” e altrettanto lo era l’unitàsindacale. Così l’articolo 39 dellanostra Costituzione ha consegnato aisindacati “rappresentati unitariamentein proporzione dei loro iscritti, (di) sti-pulare contratti collettivi di lavoro conefficacia obbligatoria per tutti gliappartenenti alle categorie alle quali ilcontratto si riferisce”.

In questo contesto storico-ideologi-co e costituzionale (salvo sporadici esterili tentativi) a nessuno è mai venu-to in mente di mettere realmente incompetizione e in discussione le forzefondamentali del movimento sindacaleitaliano. E nessuno comunque ne haavuto la forza. Così fino agli inizi deglianni 90 il movimento sindacale italianoha goduto di una rendita di rappresen-tatività e di rappresentanza dell’interomondo del lavoro del tutto presunta enon verificabile anche se veritiera: inol-tre assolutamente senza regole. E pertutto questo periodo la democraziasindacale è stata un fatto squisitamenteendosindacale. Poi, come sappiamo,qualcosa è cambiato. Fino alla cosid-detta Legge D’Antona del 1997, cioè lalegge sulle RSU nel pubblico impiego:questa legge ha segnato un punto disvolta.

essere assimilata alla democrazia sinda-cale, e questo per ragioni sostanziali.Detto in termini assai semplici, laprima permette di esercitare azione digoverno, la seconda permette la rap-presentanza al tavolo delle trattative.L’una, la rappresentanza politica,rimanda al “cittadino uguale”: quindi siattiene al principio “una testa unvoto”. L’altra, la rappresentanza sinda-cale, rimanda al “lavoratore di mestie-re”, di questa o quella categoria, “por-tatore di interessi particolari e perciòdiseguali tra le diverse categorie”: quin-di è per definizione democrazia dise-guale (non può essere di conseguenzaedificata sul principio “una testa unvoto”). O almeno così vorrebbe unadottrina consolidata.

Come è noto la democrazia politicaha potuto costruirsi una architettura diregole che sono generali e uguali pertutti. Questa architettura, nota come“democrazia delegata e rappresentati-va” (nelle sue varie forme proporzio-nale, maggioritario, ecc.) è accettata datutti nei paesi democratici. Si tratta didue e a volte tre pilastri coessenziali eindissolubili tra loro. Relativamente alparlamento, ad esempio, il primo pila-stro stabilisce “chi rappresenta chi”attraverso una competizione tra partitiin cui i cittadini, in elezioni periodichee sottratte ad ogni arbitrio, selezionanoe delegano da chi farsi rappresentare. Ilsecondo pilastro stabilisce “chi decideche cosa”. Esso consente ai partitiselezionati e rappresentati in parla-mento (spesso attraverso coalizioni digoverno) di prendere decisioni di por-tata generale secondo il principio dimaggioranza semplice. Il terzo pila-stro, quando esista, prevede il “dirittoal dissenso” attraverso referendumabrogativi o confermativi attivabili acondizioni determinate.

QUALE FORMADI DEMOCRAZIANEL SINDACATO

Tra le tantissime critiche che mi è statopossibile leggere all’accordo interconfede-

rale del 28 giugno 2011 mi ha colpito parti-colarmente quella a firma Cofferati-

Bertinotti-Ferrara apparsa su il Manifestodel 5 luglio successivo.

di LEO CEGLIA

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Per la prima volta, infatti, due dei trepilastri della democrazia politica sonostati utilizzati per regolamentare lademocrazia sindacale nel pubblicoimpiego. Con buona pace degli oltran-zisti della dottrina tradizionale, lademocrazia sindacale è stata rimodella-ta attraverso la democrazia politica:con delle modifiche molto significati-ve, nel bene e nel male, ma di questo siè trattato. E conviene richiamare perl’ennesima volta quali sono state que-ste modifiche, perché le conseguenzeculturali (per chi scrive positive) impli-cite sono notevoli, anche se non sonoancora purtroppo patrimonio e sensocomune. Il primo pilastro della demo-crazia politica recepito nella LeggeD’Antona è quello del “chi rappresen-ta chi”. Le norme ci dicono che a rap-presentare le lavoratrici e i lavoratoripubblici sono quelle sigle sindacali chein elezioni periodiche (ogni tre anni)superano la soglia del 5% con il meto-do proporzionale, e che questo avviene“pesando” i voti presi da ciascuna siglacon quello degli iscritti alla medesimasigla.

Dal punto di vista pratico è termina-to il proliferare delle sigle sindacali, cheerano ormai centinaia: ne sono rima-ste, a seconda dei comparti, da cinquea sette. Dal punto di vista politico,inoltre, è iniziata una competizione trale sigle sindacali che ogni giorno chepassa fa apparire l’“unità a prescinderetra la triplice” una pura nostalgia. Altempo stesso le sigle cosiddette extra-confederali (CUB, COBAS, CISAL,ecc) sono ormai sempre più una realtàistituzionale del movimento sindacale(anche se esse stesse sembrano leprime a non capirlo). Sul piano teoricoe costituzionale la novità è particolar-mente importante. Il mix tra via eletti-va e dimensione associativa che “pesa”la rappresentatività delle sigle sindacalivìola il principio costituzionale “unatesta un voto”, cioè del pari peso diciascun voto, valevole invece per lademocrazia politica. Questa “violazio-ne” è sino ad oggi accettata da tutti edè scritta in una norma di legge. E’ stataaccettata perché altrimenti bisognereb-be riscrivere l’art. 39 dellaCostituzione, che assegna un ruolo eun potere di firma alla sola dimensioneassociativa, come si è visto. E’ cosabuona o no il mix tra dimensione asso-ciativa e via elettiva? Per chi scrive ècosa buona. Perché comunque teorica-mente e praticamente questo sistema

“completata” con le regole del “dirittoal dissenso”. Con un’unica legge sullademocrazia sindacale, valida nel pub-blico e nel privato, mutuata secondol’architettura della democrazia politica,si diceva, si sarebbe attuato nel miglio-re dei modi l’art. 39 della nostraCostituzione. Lo diceva ancheCofferati (si rileggano gli atti del suoultimo congresso come segretariogenerale CGIL).

Poi c’è stato l’accordo separato sulmodello contrattuale del 22 gennaio2009 e tutto è sembrato svanire. Lacrisi e il governo Berlusconi hannoaggredito lavoratori, pensionati,donne, giovani, fasce deboli. La CGILha infilato uno sciopero generale die-tro l’altro da sola. Molti la vedevanonell’angolo. Sacconi, Brunetta,Marcegaglia, Bonanni e Angeletti ven-devano un nuovo slogan per i lavorato-ri: “separati, senza la CGIL, si vince”.Poi ci sono stati i diktat di Marchionnesu Pomigliano e Mirafiori e allaBertone e la straordinaria resistenzadei lavoratori e delle lavoratrici interes-sati e della FIOM, poi finalmente leelezioni amministrative e i referendumhanno mostrato che “il vento sta cam-biando”. Così si spiega la svolta repen-tina di Bonanni, Angeletti eMarcegaglia. E siamo all’accordo inter-confederale del 28 giugno 2011.

Fino al giorno prima si temeva unaccordo separato che sigillasse il desi-derio di Marchionne e di altri nellaConfindustria e soprattutto di Sacconidi sostituire il CCNL con contrattiaziendali. Si temeva, con la fine delcontratto nazionale, quella di ognilivello unificato della contrattazione,cioè l’anarchia dei contratti aziendali.Angeletti e Bonanni sembravano lorovolta correre spediti su un modello disindacato e di democrazia sindacalefondati sul primato degli iscritti. Einvece l’accordo del 28 giugno, chenon è un accordo sul nuovo modellocontrattuale, che andrà scritto per inte-ro e sostituirà quello separato del 2009,ha ribadito i due livelli di contrattazio-ne, ha confermato il primato del con-tratto nazionale, e ha fissato regolesulla democrazia sindacale nel privatoche segnano una sconfitta dei sosteni-tori del sindacato degli iscritti, impen-sabile fino a un attimo prima.

Sul dettaglio dei contenuti dell’ac-cordo si è già detto molto e non mi

mette fine alla rendita storica (diCGIL, CISL e UIL) di cui si diceva, eper il futuro chiunque abbia filo da tes-sere potrà, democraticamente, tessere.Infine, la Legge D’Antona stabilisceche le elezioni siano valide solo se avotare si reca il 50% + 1 degli aventidiritto al voto (non è così nelle elezio-ni politiche).

Il secondo pilastro della democraziapolitica che entra nella democrazia sin-dacale nel pubblico con questa legge èrelativo al potere di firma, cioè al “chifirma che cosa o chi decide che cosa”.La norma dice che coalizioni di siglesindacali che raggiungono almeno il50%+1 possono sottoscrivere contrat-ti nazionali (CCNL) con validità ergaomnes. Il perché è ovvio. Quell’almenoil 50%+1 rappresenta certamente lamaggioranza dei lavoratori e delle lavo-ratrici interessati (significa quindi lavalidità effettiva delle elezioni). Quellesigle sindacali sono state selezionate edelegate a firmare il CCNL perchésono delegate e rappresentative infatto di maggioranza del loro specificopezzo del mondo del lavoro. Lo dico-no inequivocabilmente i numeri. Laconseguenza di ciò nel pubblico, comeè noto, è stata che le denunce rispettoagli accordi cosiddetti “separati” sonodivenute un semplice “lamento politi-co”. So di essere brutale. So che l’uni-tà del mondo del lavoro e dei sindaca-ti continua a rimanere un bene prezio-so. Tuttavia sono convinto che l’unitàattraverso la competizione di idee eproposte sindacali sia megliodell’“unità a prescindere” di anticamemoria.

E il terzo pilastro della democraziapolitica in questa legge sulle RSU nelpubblico? Quello che con le regole sulreferendum abrogativo garantisce il“diritto al dissenso”? Esso è rimastofuori. E questo è stato definito il vul-nus alla democrazia di quella legge. Unbel vulnus: perché con tre pilastri lademocrazia sta in piedi stabilmente,con due invece è dura.

Ugualmente, da quella legge in poi,e rimediando a quel vulnus (che dice-vano in pochi), si è detto (tutti, inCGIL e non solo, almeno sino al 2008)che essa dovesse essere estesa anche alprivato. A completare le regole unichee uguali della democrazia sindacale pertutto il mondo del lavoro, doveva esse-re una legge come quella nel pubblico

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pronuncio in questa sede. Ora mi sof-fermerò su quanto detto all’inizio, ecioè sul fatto che in un accordo sinda-cale con Confindustria per la primavolta compaiono assieme i tre pilastridella democrazia politica Vi compaio-no in modo “precario”, ma vi compa-iono, e ciò costituisce una novità stori-ca che potrà essere foriera di sviluppipositivi in futuro.

Il primo pilastro che vi compare èquello del “chi rappresenta chi”.Abbiamo per la prima volta nel privatola medesima regola che nel pubblico.La linea del modello di sindacato fon-data sul primato degli iscritti cara allaCISL ha fatto un passo indietro e ilavoratori e le lavoratrici in quanto taliun passo avanti.

Il secondo pilastro, “chi decide checosa o chi firma che cosa” fa capolinonegli accordi aziendali dove siano stateelette le RSU. Gli eletti RSU sono tito-lari esclusivi della firma degli accordiaziendali, che possono siglare a mag-gioranza semplice (esempio: 7 RSU sifirma 4 a 3). Qui vanno fatte alcuneconsiderazioni, perché questo puntodell’accordo è particolarmente “preca-rio”. E’ “precario” laddove si affermache le elezioni RSU si svolgono secon-do “le regole interconfederali vigenti”.Queste regole prevedono ancora laquota di 1/3 degli eletti a beneficio diCGIL, CISL e UIL. In sede di regola-mento per la prima tornata elettoralequesta “quota regia” dovrà sparire:sarebbe un vero controsenso visto chelo stesso voto per le RSU misura larappresentatività sindacale senza la“quota regia” di 1/3. Aspetto interes-sante e positivo di questo pilastro è inogni caso che alle RSU venga conse-gnato il potere di firma sugli accordiaziendali senza l’ingerenza dei sindaca-ti. C’è un cessione di potere dai sinda-cati (depositari di potere associativo)agli eletti RSU di tutti i lavoratori iscrit-ti e non iscritti (depositari di potereelettivo). Infine una grossa e negativadifferenza rispetto al pubblico: le sigleselezionate con le elezioni RSU sulpiano nazionale non possono firmareCCNL a maggioranza (che invece ven-gono siglati con le procedure derivantida precedenti intese intersindacali). E’una incomprensibile differenza rispet-to alla legge nel pubblico. E anche inquesto caso il diritto al dissenso non èprevisto.

interamente applicate, per la primavolta, alla democrazia sindacale. E’ cosìdifficile immaginare che quest’accordopotrà aprire la strada (la rende infattipercorribile) alla democrazia sindacalea tutti i livelli, facendo cioè giungereanch’essa a essere delegata e rappre-sentativa? E’ così difficile immaginareche tutto ciò possa divenire un proget-to di legge e che si chieda ai parlamen-tari che quel che vale per i loro man-danti sarebbe bene che valga per i lavo-ratori sui luoghi di lavoro? E nonsarebbe questa, dopo lo Statuto deiLavoratori, una conquista storica per ilmovimento dei lavoratori e delle lavo-ratrici?

Per finire. Stiano tranquilliCofferati-Bertinotti-Ferrara. La demo-crazia di mandato non gliela toglie nes-suno, e tutti in CGIL ci sentiamoimpegnati a sottoporre a verifica quo-tidiana la nostra rappresentatività sin-dacale. Ma non si confonda questaquestione con la necessità di regole chevalgano per tutti, per i lavoratori e lelavoratrici e per le loro controparti cosìcome per il popolo e per il Parlamento.E, magari, se fino ad oggi la democra-zia sindacale di mandato ha fatto ameno della democrazia sindacale dele-gata e rappresentativa, un domani, spe-riamo vicino, la democrazia nel paese,delegata e rappresentativa, non potràfare a meno di quella di mandato.

Il terzo pilastro, quello fino ad oraassente da ogni legge o accordo, quel-lo sul diritto al dissenso, è dentro alpunto dell’accordo che attribuisce allerappresentanze sindacali aziendali(RSA) a maggioranza il potere di firmadi accordi aziendali dove non ci sonole RSU. Si dice qui infatti che i lavora-tori e le lavoratrici possono avere l’ulti-ma parola e “respingere l’intesa” (cioèabrogarla) se il 30% di loro o una siglasindacale, firmataria tramite i suoimembri RSA, dovesse chiedere il refe-rendum. In altre parole si fissano per laprima volte delle regole che fannocapo al voto dirimente dei lavoratori edelle lavoratrici.

Anche qui c’è però qualcosa di “pre-cario”. La possibilità di esercitare ildiritto al dissenso viene concessa nonperché una forte minoranza contestal’accordo aziendale, ma lo fa una siglasindacale, che quasi certamente dispo-ne di una rappresentatività minoritariasul totale delle lavoratirici e dei lavora-tori interessati (solo il 35% di lavorato-ri e lavoratrici è iscritto ai sindacati).

La prima considerazione che vieneda fare sul fatto che questo terzo pila-stro finalmente compare in un accordosindacale è che esso può autonoma-mente essere introdotto anche da cia-scuna RSU. Quest’accordo non loimpedisce. La conseguenza può essereche in aziende dove esistono le RSU leregole della democrazia politica siano

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Ma non si tratta di un feno-meno solo italiano. I fatto-ri critici che minacciano la

stabilità della spesa previdenziale sonola scarsa crescita, la sofferenza del mer-cato del lavoro e i mutamenti demo-grafici, per l’effetto congiunto dell’al-lungamento della speranza di vita edella riduzione della natalità.

Governi che odiano le pensioni(pubbliche)

Anziché rilanciare la crescita, dacirca vent’anni i governi europei occi-dentali hanno puntato, pur in presenzadi un’elevata disoccupazione, al conte-nimento della spesa e del debito, coneffetti recessivi ovvero che hannodeterminato il rallentamento della cre-scita. La pressione per il riequilibrio deibilanci ha spinto verso politiche diausterità, col ridimensionamento dellasfera pubblica e la privatizzazione dellaprevidenza. Con queste politiche si èanche inteso ricostituire maggiori mar-gini di profitto per le imprese. Una ten-denza rafforzata, a partire dal 2000,per l’ulteriore declino della crescitaeconomica, che ha determinato in tuttaEuropa un aumento tendenziale delrapporto fra spesa previdenziale e PIL(aumento che però in Italia è statocostantemente inferiore di circa lametà rispetto alla dinamica europea).

Per ridurre la spesa pubblica, colpretesto, del tutto incoerente, di accre-scere la competitività, la BCE e il FMIhanno chiesto, già da molti anni, untaglio consistente della spesa pensioni-stica sul PIL, da realizzarsi in particola-re attraverso la riduzione del numerodei beneficiari, con l’aumento dell’età

buzione della ricchezza aggiuntiva delpaese, proprio nel momento in cui illoro peso numerico e la loro crescentepartecipazione sociale (con lo sposta-mento in avanti della soglia di vecchia-ia) diventa sempre più rilevante. E’avvenuta anche una realtà di pensionid’annata, in quanto, a parità di condi-zioni, chi è rimasto al lavoro ha avutouna progressione retributiva più eleva-ta.

Le pensioni dei lavoratori dipenden-ti anzi subiscono in Italia una vera epropria persecuzione. Il sistema previ-denziale italiano è in equilibrio attua-riale strutturale, con un saldo attivo nel2009 di 27,6 miliardi, al netto del pre-lievo fiscale, che restituisce allo statooltre 45 miliardi, a cui vanno aggiunti iprelievi locali. Non vi sarebbe dunquebisogno di alcun intervento di riduzio-ne delle pensioni, che viene effettuatosolo per fare cassa e ridurre il debitopubblico. Sul piano fiscale, mentrenella maggior parte dei paesi europei lepensioni sono praticamente esentasse,i pensionati italiani pagano l’Irpef,addirittura con minori detrazioni deilavoratori dipendenti e, con il sostitutodi imposta, sono costretti a pagare perintero l’imposta sulla loro pensione:mentre fra i lavoratori autonomi proli-fera un’evasione finora tollerata a finielettorali, da loro giudicata quasi comeun diritto, consentendo loro non solouna consistente riduzione delle tassema anche un accesso gratuito ai servi-zi sociali soggetti alla prova dei mezzi.Inoltre da quest’accesso viene esclusauna larga fascia di pensionati (le agevo-lazioni per la terza età sono molto piùridotte in Italia che negli altri paesi) e ildrenaggio fiscale trasforma gli aumen-

di pensionamento, inoltre con la ridu-zione del grado di copertura pensioni-stica. Così in molti paesi europei laspesa previdenziale è stata significati-vamente ridimensionata. Ma ciò com-porta, in presenza d’un rapido invec-chiamento della popolazione, unaripartizione di risorse più scarse fra unnumero crescente di persone e dunqueporta ad una riduzione molto consi-stente delle prestazioni.

L’Italia non è un paese per i suoivecchi

In Italia come quasi ovunque altro-ve la riduzione del debito è stata perse-guita sia attraverso il taglio del valoredelle pensioni che con l’innalzamentodell’età di pensionamento. Già nel1992 il blocco biennale totale del recu-pero dell’inflazione ha comportato unaperdita permanente che perdura ancoroggi, e un effetto del tutto analogo cisarà a seguito del nuovo blocco attua-le. Esso determinerà perdite moltorilevanti e permanenti per i pensionati.Sempre dal 1992 è stato soppressol’aggancio alla crescita salariale (conuna sospensione temporanea divenutainvece definitiva), mentre l’indicizza-zione al costo della vita è solo parzialee regressiva ed è stata progressivamen-te indebolita (divenuta nel tempo dasemestrale ad annuale, limitata perfasce e posticipata, con un ritardo chene riduce l’efficacia). Ne è derivata unacrescente divaricazione fra la dinamicadelle retribuzioni e quella delle pensio-ni, che aumenta per ogni anno disopravvivenza, scendendo dopo 25anni della metà, comportando unaprogressiva emarginazione dei pensio-nati dalla società, esclusi dalla redistri-

COME LE PENSIONI SONODIVENTATE UNAFFARE (contro i pensionati)

Dopo un lungo periodo, iniziato dal 1969,di miglioramento delle prestazioni previ-

denziali, frutto delle lotte dei lavoratori, lasvolta politica degli anni 90 ha dato inizio

in Italia a un loro progressivo impoverimen-to, sia assoluto, per il mancato recupero

della perdita di potere d’acquisto, che rela-tivo, rispetto alla crescita della

ricchezza nazionale.

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ti nominali delle pensioni in riduzionireali del reddito. Ciò ha portato aun’erosione delle pensioni, la cui perdi-ta di valore dal 1992 è stimata attornoal 30%, e che è destinata ad aggravarsiin futuro, anche a causa dei recentiprovvedimenti, e dell’estensione delsistema contributivo, fino a scenderesotto il livello di sussistenza: una sortadi “soluzione finale” che promettemiseria per tutti.

Il sistema previdenziale è stato dun-que usato come un bancomat da cuiestrarre rapidamente risorse per copri-re il deficit pubblico, perché, dato l’in-gente numero dei pensionati, ogniriduzione dà risultati imponenti eimmediati, inoltre le vittime sonodepredate senza potersi sottrarre.Tutte le modifiche introdotte hannoanche prodotto l’effetto per cui in ogniposto di lavoro ciascun lavoratore haregole differenti dal lavoratore che ha afianco, rispetto al diritto e all’ammon-tare della sua futura pensione, per cuinon si è rotto solo il patto generazio-nale, ma le attese relative alle pensionesono state rese un fatto individuale, eciò ha notevolmente contribuito allapassività dei lavoratori rispetto allemanovre effettuate sul sistema pensio-nistico.

La massiccia espulsione dal lavorodegli ultracinquantenni (il cosiddetto“invecchiamento sociale”) con scarsis-sime speranze di trovare un nuovolavoro regolare, trasforma la crescitadell’età di pensionamento in una lun-ghissima disoccupazione anziana,costituendo anche una crescenteminaccia per l’adeguatezza e l’area dicopertura delle future pensioni.

Il potere della disinformazione

Molte sono anche le informazionisbagliate (volutamente) che influenza-no negativamente l’opinione pubblica.Napolitano, nel suo messaggio di fineanno, ha parlato di pensioni troppoelevate, e Cacciari ha sostenuto cheoccorre ridurre le pensioni italiane allivello medio europeo. In realtà le pen-sioni italiane sono molto inferiori allamedia europea, ma una comparazioneeffettuata da Eurostat su valori nonomogenei impedisce la percezione diciò, gonfiando i risultati. Nella spesaprevidenziale italiana viene inclusoinfatti anche il TFR (trattamento finerapporto: che non fa parte della previ-

ridurre il deficit del bilancio dello stato.Ai giovani quindi si prospetta, dopouna vita di precariato, una futura pen-sione da fame, con una forte decurta-zione dei rendimenti nell’ambito delsistema contributivo pubblico e unadurata contributiva irraggiungibile,senza neppure il sostegno di una pre-videnza integrativa, troppo costosa edalla dubbia convenienza. Il fattoredecisivo per la stabilità del sistema eper il conseguente grutto futuro deigiovani è la situazione del mercato dellavoro: con un lavoro regolare rag-giunto verso i 33 anni, con frequentiinterruzioni, e una espulsione precocedal lavoro attorno ai 50 anni, la vitacontributiva si riduce a 17 anni, mentreper avere una pensione completa oraoccorrono 42 anni di contributi. Per glianziani l’allungamento dell’età pensio-nabile verso i 70 anni, per l’aggancioalla speranza di vita introdotto daBerlusconi, non implica spesso unritardo nell’uscita dal lavoro, ma un piùlungo periodo di disoccupazioneanziana senza pensione. L’aumentodell’importo minimo da maturare peravere diritto alla pensione rischia dilasciare fuori dal diritto, almeno finoall’età di 70 anni, non solo i precari, maanche gran parte dei lavoratori a reddi-to basso.

Dunque è indispensabile lo sviluppodi una occupazione regolare. Anche inquesto caso la liberalizzazione deilicenziamenti, per sostituire disoccupa-ti giovani con disoccupati anziani,senza speranza, a parte l’iniquità dellacosa, non risolve nulla.

Il FMI s’è congratulato con l’Italiaperché “presenta la migliore perfor-mance tra le economie avanzate inquanto, grazie alle riforme, la spesapensionistica annua dovrebbe scende-re nei prossimi vent’anni dell’1,75%del PIL”, nonostante l’aumento delnumero delle pensioni. Il tutto è aspese dei pensionati ma, come è noto,questo al FMI non interessa.

Una manovra lacrime e sangue

Le manovra di fine anno del gover-no Monti è socialmente iniqua e inso-stenibile perché, tra tante cose, deter-mina anche una pesante erosione ditrattamenti previdenziali già moltobassi rispetto alla media europea espesso inferiori alla soglia di povertà.La previdenza integrativa, legata ai ren-

denza e altrove non esiste), una quotaimportante di assistenza e, soprattutto,viene effettuato al lordo del prelievofiscale che negli altri paesi europeivaria tra l’1 e il 2% (ad eccezione dellaSvezia).

Le prestazioni previdenziali deriva-no dai contributi versati dai lavoratori,mentre quelle assistenziali dovrebberoessere a carico del Tesoro, ma è sicura-mente una forma impropria di assi-stenza l’immissione nell’INPS, oltreche di parte dell’assistenza, anche dellecasse speciali privilegiate, che sonodeficitarie, in genere con ingenti disa-vanzi, per cui alla vasta schiera dei pen-sionati poveri viene imposto di aiutarepensionati molto più ricchi, come idirigenti d’azienda (Inpdai). I disavanzidi queste casse sono coperti dall’avan-zo annuo del fondo lavoratori dipen-denti, come risultato del mancato ade-guamento delle loro pensioni; e chevengono ora ulteriormente decurtate,nonostante ciò un avanzo annuocomunque di 10 miliardi. Quest’ultimosarà prossimamente chiamato a copri-re, a pié di lista, il deficit di 9 miliardiannui del fondo pensioni dei dipen-denti pubblici che è stato, a tal fine,sciolto nel super-INPS.

Viene criticata una nostra presuntabassa età di pensionamento, che era giàdi 66 anni (contro i 65 tedeschi e i 62francesi) e che aumenterà automatica-mente per effetto dell’aggancio allavita media. L’età effettiva di pensiona-mento maschile in Italia è 61,1 anni(61,8 in Germania e 59,1 in Francia),mentre è già decisa la graduale ma rapi-da parificazione delle donne.

Scalfari ha sostenuto la necessità diridurre le pensioni a causa dell’invec-chiamento della popolazione, ma evi-dentemente ignora che il suo effetto èstato cancellato in Italia dall’applica-zione del sistema contributivo, che conil meccanismo dell’aggancio automati-co all’aumento della speranza di vitataglia progressivamente sia la renditaprevidenziale sia l’aumento dell’età dipensionamento.

Molti ci spiegano che occorre“togliere ai vecchi per dare ai giovani”,ma si tratta di una mistificazione. Inrealtà si taglia ad entrambi, perché irisparmi derivanti dal taglio delle pen-sioni per i vecchi non sono accumulatiin vista del futuro, ma finiscono a

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dimenti finanziari, ha dato finora scar-si risultati: ma i provvedimenti gover-nativi prevedono la possibilità di spo-stare una parte dei contributidall’INPS ai fondi integrativi: trasparecosì anche da qui un progetto di rifor-ma complessiva della previdenza insenso neoliberista, che disegna per piùvie un diverso più ingiusto modello disocietà, fondato pure su una progressi-va privatizzazione e rimercatizzazionedelle pensioni, a favore di banche eassicurazioni. Si tratta di una sceltamolto selettiva, perché il suo costo èfuori della portata dei lavoratori preca-ri o meno remunerati e, a differenzadella previdenza pubblica, penalizza, aparità di versamenti, le donne, a causadella maggiore aspettativa di vita (cheinvece l’INPS non considera) e delfatto che le pensioni integrative sonoprevalentemente maschili.

C’è poi l’illusione, presente anchenel PD, di poter utilizzare i fondi peruna politica d’investimento, ma la real-tà è diversa, perché gli impieghi finan-ziari finiscono prevalentementeall’estero e sono finalizzati a guadagnia breve, cioè di carattere speculativo,non certo a investimenti produttivi.Anche il divieto di riscuotere la pensio-ne in contanti, oltre a creare difficoltàe maggiori costi ai pensionati, mira afavorire il sistema bancario, alimentan-done la liquidità.

Le proposte per un modello di pre-videnza più forte e inclusivo

La risposta sindacale deve muoversicontemporaneamente su due pianidiversi, rivendicando alcune indispen-sabili correzioni immediate e propo-nendo un diverso modello complessi-vo di sistema previdenziale.Nell’immediato occorre sbloccare ilcongelamento del recupero dell’infla-zione e consentire l’uso del contantenel pagamento delle pensioni, evitandol’onere dell’apertura di un conto cor-rente. Un disegno complessivo diriforma non può limitarsi ai soli conte-nuti previdenziali che possono risulta-re sostenibili solo con una ripresa del-l’economia e dell’occupazione regola-re. Il riassetto complessivo del sistemaprevidenziale perciò:

- Deve prevedere un potenziamentodel sistema pubblico, rendendolo piùinclusivo attraverso la sua estensionealla platea di coloro che ne sono attual-mente sostanzialmente esclusi o margi-

dai contributi) e assistenza (che pre-scinde dalla contribuzione).

- Deve introdurre elementi di soli-darietà, la difesa delle pensioni direversibilità, il superamento delle disu-guaglianze contributive (da portare allivello dei lavoratori dipendenti, con uncontributo di solidarietà per le pensio-ni molto elevate e per i fondi specialiprivilegiati) e una armonizzazione delleprestazioni (innalzamento e revisionecomplessiva del sistema dei coefficien-ti di rendimento, reintroducendo crite-ri solidaristici e redistributivi).

- Deve realizzare un blocco dell’in-cremento automatico dell’età di pen-sionamento legato alla speranza di vita(evitando penalizzazioni per le usciteanticipate, favorendo i lavoratori pre-coci e calcolando l’effettiva speranza divita per i lavori usuranti). In ogni caso70 anni sono troppi per tutti.

- Deve costituire un governo demo-cratico dell’INPS, restituendo un ruologestionale ai lavoratori sul propriosalario differito.

- Deve realizzare la revisione delruolo del Ministero del Tesoro, bloc-cando la facoltà per esso di utilizzare adiscrezione i fondi e gli attivi dell’INPSper la spesa pubblica corrente.

Occorre impegnarsi per una fortemobilitazione su questo terreno: esso èessenziale per ricomporre l’unità degliinteressi di classe contro le attuali frat-ture.

nalizzati (giovani, donne, immigrati).Occorre evitare il trasferimento diquote contributive ai privati e consen-tire la possibilità di versare il TFRall’INPS, con l’obiettivo di integrare lapensione pubblica tramite l’aumentodel montante contributivo. Occorreinoltre cancellare l’obbligatorietà delversamento del TFR nei fondi pensio-ne: il rifiuto della gestione della previ-denza integrativa da parte dell’INPSrende inevitabile un utilizzo di fondipubblici a favore dei fondi privati.Deve infine prevedere l’utilizzo delTFR versato all’INPS dalle aziendecon più di 50 dipendenti per i fini pre-visti dalla legge e non per la spesa cor-rente come ora.

- Deve prevedere l’accantonamentodegli attivi di bilancio dei fondi e utiliz-zare entrate fiscali prima di tutto per ilripiano dei fondi in deficit e poi ancheper un fondo di garanzia per il futuro.

- Deve parimenti prevedere il ripri-stino della doppia perequazione dellepensioni, con un pieno recupero dellaperdita di potere d’acquisto e un recu-pero reale agganciato alla crescita del-l’economia, attraverso l’aggancio allacrescita del PIL; e prevedere una ridu-zione del prelievo fiscale, la neutraliz-zazione del drenaggio fiscale, il ripristi-no dei minimi pensionistici.

- Deve prevedere la garanzia di unapensione adeguata per le future gene-razioni, coprendo con interventi pub-blici le discontinuità previdenziali, laseparazione fra previdenza (sostenuta

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RICOSTITUIRELA DEMOCRAZIALOCALE

La caduta del fascismo mise in discussionetutto l’assetto dello Stato. I lavori della

Costituente si conclusero con l’approvazio-ne di una Costituzione che delineò il

Parlamento nella sua attuale forma bica-merale e le strutture di decentramento

(regioni, comuni, province, cui si aggiunse-ro nel tempo comunità montane e

città metropolitane).

di LUIGI GRECO

Le due camere, da sempre inbase al loro potere di autore-golamentazione si disciplina-

no con i rispettivi regolamenti, chehanno funzione di legge; le regioni sindal loro insediamento generalizzato,nel 1970, si dotarono di appositi statu-ti, in ottemperanza alla cosiddettaLegge Scelba; i comuni e le province,dopo la prima riforma del 1990, adot-tarono anch’essi statuti.

Il 25 aprile 1945 si unificarono ledue Italie che avevano dovuto convive-re durante gli anni della Resistenza.Quella meridionale e parte di quellacentrale avevano tentato di ripristinarei vecchi comuni e le vecchie provinceunificando, nel 1943, il testo unico del1934 (quello dei podestà, per intender-ci) con quello del 1915, tramite l’elimi-nazione dei podestà e la nomina, nonl’elezione, dei sindaci (da parte deiCLN, o dei partiti che nazionalmentefacevano riferimento al CLN), in atte-sa di elezioni democratiche. Le elezio-ni poi ci furono, ma la riforma deglienti locali, intesi come comuni e pro-vince, dovrà aspettare molti decenni.La prima riforma risale, per la precisio-ne, al 1990, con l’approvazione primadella legge 142 e, poi, della legge 241sul procedimento amministrativo.Ovviamente, la ricostruzione di questiavvenimenti è qui fatta con molta sin-tesi, non essendo questo lo scopo pri-mario di queste note.

Quale definizione sintetizza il ruolodi un comune? Ne cito alcune fra quel-le maggiormente riconosciute: eroga-tore di servizi, cellula dello Stato,primo filtro fra cittadino e governocentrale… Se dovessimo sbizzarrirci,ne potremmo citare a iosa ed ancheinventarne. Personalmente sono con-vinto di alcune cose, che in sintesi cer-cherò di esporre.

scontato che sia sempre stato così, masolo cinquant’anni fa non era così. Icomuni si resero protagonisti dell’anti-cipazione delle riforme di strutturadell’assistenza, della sanità e della scuo-la. Al suo X Congresso (nel 1960) ilPCI aveva scelto di essere il partitodelle riforme di struttura e ciò chefecero i comuni contribuì a dare spes-sore alla battaglia parlamentare. Nonessendo ancora attuate le regioni, icomuni cosiddetti rossi dovettero svi-luppare quasi in contemporanea azionidi rottura della rigidità dei bilanci. Intanti ricordiamo, ovviamente, Bologna,ma anche Parma o Reggio Emilia oModena, ma dimentichiamo la rete deicomuni minori come Carpi, famosanel mondo per la vivibilità della rete diasili nido e per la difesa dello sviluppopsicofisico e pedagogico della primainfanzia.

Un elemento facilitante fu la scelta,subito dopo la guerra, di una leggeelettorale di ampia rappresentanzasociale. Il numero dei consigliericomunali era ampio. Il sindaco e gliassessori municipali erano scelti inseno al consiglio comunale, cioèoccorreva essere eletti consiglieri, equindi rappresentanti di fasce dell’elet-torato. La rappresentanza era mera-mente proporzionale. In pochi pensa-vano, nel 1945-1948, al successivogrande esodo di milioni di persone dalSud o dal Nord depresso verso le cittàindustrializzate: che la legge elettoraleconsentirà dunque di rappresentareadeguatamente nei nuovi insediamenti.Pensiamo ad un solo dato, per nonannoiare chi legge. Nel 1975 circal’80% dei siti industriali dellaLombardia era concentrato nell’8% delterritorio di questa regione, a Milanomaggiormente. Se facciamo delle sem-plici medie di tipo matematico, verifi-chiamo che un consigliere comunale di

I comuni sono uno strumento poli-tico ed istituzionale per attuare unaforte redistribuzione del reddito attra-verso la creazione prima e la gestionepoi di servizi universali. Gli utenti sidifferenziano in base alle tariffe di frui-zione, che in genere sono rapportatealla media del reddito o tramite lSEE(Indicazione Situazione EconomicaEquivalente), che raccoglie e catalogatutte le risorse (salariali, di risparmio epatrimoniali), definendo così la condi-zione dell’individuo o della famiglia(intesa sempre come famiglia reale).

Per poter svolgere questo ruolo eprima delle riforme legislative, i partitidi sinistra hanno dovuto violare, trafine anni 50 e prima metà anni 60, ilTesto unico della legge comunale eprovinciale allora vigente (che, ricordo,era la sintesi di due precedenti leggi,fatto salvo il metodo elettorale) e lenorme di contabilità. Ricordo, in sinte-si, che un bilancio comunale alla voce“spesa” prevedeva quelle “obbligato-rie” con un lungo elenco minuzioso(giustizia, pubblica istruzione – solo,però, per la manutenzione e gestione ladegli edifici scolastici, ecc.) e quelle“facoltative”, dove non c’era teorica-mente limite, come per la fantasiaumana. Peccato, però, che il bilanciodoveva essere chiuso in pareggio e lespese obbligatorie dovevano esseregarantite in forma prioritaria. Di fatto,voleva dire una gestione normalissima,senza alcuna forma di sperimentazionedi servizi innovativi. La violazione deltesto unico quindi fu, per numeroseamministrazioni, la rottura del pareg-gio di bilancio, l’avvio di nuovi servizie la battaglia per il mantenimento diquei nuovi servizi. Sto parlando, peresempio, di asili nido, assistenza domi-ciliare per gli anziani, scuola a tempopieno, mensa scolastica, scuola mater-na, cultura. Solitamente diamo per

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Milano rappresentava, alle elezioni del1953, circa 19mila cittadini. In realtàquesto dato era più basso se ci rappor-tiamo agli abitanti effettivi, e non aisoli cittadini. Oggi, elezioni del 2011,lo stesso consigliere rappresenta pocomeno di 40mila abitanti. Con le modi-ficazioni prima della legge elettoralepoi della legge comunale e provincialesono stati introdotti una prima riduzio-ne dei consiglieri comunali ed un siste-ma di rappresentanza diverso. Serestiamo al Comune di Milano ilConsiglio risultava formato da 80 con-siglieri dalla Liberazione al 1990, annoin cui si ha una prima riduzione a 60consiglieri. Con la cosiddetta riformaCalderoli oggi Milano conta 48 consi-glieri. Inoltre il sindaco oggi è elettodirettamente dal corpo elettorale e pernon più di due mandati. E’ stato con-statato che nel secondo mandato avolte i sindaci sfuggono alla logicadella coalizione e si pongono al difuori di ogni controllo democratico.

Le motivazioni addotte dal lato delcambio della legge elettorale sonostate, nella sostanza, due. La prima:occorre ridurre il numero dei consi-glieri perché così si risparmia. Lacosiddetta riforma Lanzillotta (secon-do governo Prodi – 2006-2008) vietòdi sostituire il gettone di presenza concompensi mensili di natura forfettaria,un’indennità più simile ad uno stipen-dio sia pure senza pensione o qualcosadi simile. Se abuso ci poteva esserestato in sede di compensi mensili, lanorma Lanzillotta lo abolì. Ma alcunipossibili abusi ci potevano ancoraessere. Per esempio un consiglierepoteva risultare aver partecipato ailavori di una commissione semplice-mente firmando il foglio di presenzaall’atto dell’appello, allontanandosi poiindisturbato a fare altro. Il Comune diBologna (sindaco Cofferati) per ovvia-re a tali furbate instaurò la firma d’in-gresso e quella di uscita. Uno potevaevitare di dare un contributo di idee,ma non poteva permettersi l’assenzadall’aula della commissione. La secon-da motivazione: un sindaco che puòessere rieletto senza alcun limite diven-ta una sorta di boss della città, quindimeglio porre un limite. Anche qui cipossono essere le furbate. Treviso: ilsindaco leghista Gentilini ha fatto duemandati, poi è ritornato in giunta comeprosindaco e garante di una politicamolto personale, che si caratterizzasoprattutto per la mancata integrazio-

Io non sono nostalgico di quelperiodo. Avendo vissuto direttamentequesta situazione per anni come con-sigliere comunale, so bene quantotempo si perdeva in aula per ratificarecentinaia di deliberazioni d’urgenza.Ma oggi la situazione è completamen-te rovesciata: le competenze dei consi-gli sono ridotte ai grandi fatti ammini-strativi, quali i bilanci e gli atti di con-trollo sulla loro gestione, i piani digoverno del territorio, le piante organi-che. Un programma di lavori pubblicieconomicamente importante non èoggetto di voto d’aula, ma di giunta. E’uno svuotamento completo dellademocrazia locale, lesivo della demo-crazia in generale, sia essa rappresenta-tiva, sia popolare.

Insomma, in medio stat virtus, sel’obiettivo è di far funzionare demo-craticamente gli enti locali ed i lorogoverni. Se invece ci si pone, come èstato nella realtà, l’obiettivo di trasfor-mare gli enti in consigli di amministra-zione in nome della governabilità edella velocità di adozione delle decisio-ni, il risultato è quello che abbiamosotto gli occhi: i sindaci (e i presidentidi provincia) che possono ignorare irapporti con i consiglieri, inoltre ricat-tarli (se un sindaco si dimette, l’interoconsiglio comunale è sciolto), gli asses-sori trasformati in tecnici collaboratoridel sindaco (molti statuti e regolamen-ti degli enti locali accentuano questacaratteristica addirittura con limiti allavoro in aula degli assessori: per esem-pio essi possono intervenire in aulasolo per rispondere ad interpellanze oper illustrare la proposta di delibera-zione presentata al consiglio, ma nonnel dibattito cosiddetto politico), i con-sigli comunali (e provinciali) trasfor-mati in luoghi dove esercitare soggetti-ve doti oratorie.

Ma non basta. Ci sono ulteriori ele-menti a comprimere la democrazia allivello degli enti locali:

a) Il patto di stabilità, esteso nel1999 dallo stato centrale agli organiperiferici, si è aggravato sempre piùfino a diventare un elemento di stran-golamento dell’autonomia di spesadegli enti locali. Nella prima fase si èposto un freno soprattutto a quelloche si definisce indebitamento deglienti, che in realtà è stato la contrazionedi mutui per realizzare gli investimentidi un comune. Se alcuni parametri sal-tavano, i mutui erano bloccati. Oggi si

ne degli immigrati non comunitari.Lecce: Adriana Poli Bortone è statasindaco per due legislature, poi vicesin-daco (per una sola, in quanto ruppecon il PdL fondando un proprio movi-mento, che ha oscillato un po’ a sini-stra un po’ a destra, e oggi, si collocanel terzo polo). La questione vera èinvece nei rapporti tra sindaco, giunta econsiglio comunale. Non essendocipiù la norma della elezione in seno alconsiglio, ma addirittura il divieto diessere consigliere da parte di sindaco edi assessori (un consigliere comunalenominato assessore decade dalla caricadi consigliere automaticamente – que-sta norma però non si applica neicomuni con meno di 15mila abitanti])ed essendoci la nomina degli assessorie anche la loro revocabilità da parte delsindaco, la dipendenza politica degliassessori è al sindaco anziché al consi-glio. Mi è capitato di sentire sindaci opresidenti di provincia rimproverareun proprio assessore perché “facevapolitica”.

Va poi ricordato come il nuovomeccanismo elettorale per gli enti loca-li preveda uno sbarramento di accesso.Si tratta di un punto che apparente-mente sembra tecnico, ma in realtà èun’ulteriore zeppa contro la democra-zia degli enti. Parimenti va ricordatoche, in nome della “governabilità”,l’assemblea elettiva è inficiata dal mag-gioritario, per cui la coalizione chevince porta a casa il 60% dei seggi ed ilrestante 40% va diviso fra le opposi-zioni.

La riforma dei consigli si è accom-pagnata da subito anche alla riformadelle competenze. Prima della riformadel 1990 il consiglio era l’organosupremo ed aveva competenza sututto, perfino sull’acquisto di matite.Le giunte, per poter andare avanti nellaminuta gestione, adottavano delibera-zioni che erano dichiarate d’urgenza eche erano sottoposte alla convalida deiconsigli. Nell’ordine del giorno si tro-vavano lunghi elenchi di ratifiche diqueste deliberazioni d’urgenza, gover-nate dall’art. 140 dell’allora Testounico. In genere le deliberazioni eranoratificate senza alcun intervento dimerito. Ma quando si decideva di fareostruzionismo perché in seduta sidovevano trattare argomenti più pre-gnanti, era durante la fase di ratificache si sviluppava questa pratica.

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impedisce la spesa anche se il comuneha i quattrini in cassa. Potrei citarenumerosi esempi, ma ne basta uno. Ilcomune di mia residenza non puòasfaltare le strade o avviare un piano dimanutenzione straordinaria degli edifi-ci scolastici, ma ha un avanzo di ammi-nistrazione di 6milioni per il 2010 e di7milioni per il 2011. Se intendiamoquesto un comune virtuoso, il prezzodella virtù è l’immobilismo impostoper legge, che è stato lo strumento diTremonti per operare i tagli lineari aicomuni. Per usare un proverbio dellemie parti, “anche il prete senza soldinon dice messa”.

b) La tesoreria unica (cioè in manoalla Banca d’Italia) serve solo a imper-dire al comune di spendere i proprisoldi. Essa è stata introdotta con l’ap-provazione del decreto sulle… libera-lizzazioni! Siamo di fronte ad una ulte-riore stretta nei confronti dei comuni.Inoltre, per memoria, il collegio deirevisori del conto si è trasformato neltempo ed è diventato, oggi, un veroorgano di controllo dei comuni con ildovere di segnalare al ministero le pos-sibili discrasie di bilancio.

c) Alcuni provvedimenti del cosid-detto “decreto salva Italia” sono unavera mazzata. I comuni devono appro-vare il regolamento dell’IMU, ma sitratta alla fine di una farsa. Infatti le ali-

la stessa tecnica. Se non fosse perché lasituazione è ripugnante verrebbe dadire che chi è causa del suo mal e quelche segue. I tagli lineari hanno scon-quassato le casse degli enti locali. Laprotervia di Castelli aveva esplicitatoche l’obiettivo era lo svuotamento delwelfare locale. Secondo il senatoreleghista i comuni dovevano fare l’ana-grafe. Il patto di stabilità aveva reso icomuni come le vacche hegeliane, chesono tutte bigie di notte. Calderoli vevaannunciato il taglio di 45mila “poltro-ne” (salvo rimangiarsi le parole) conl’accorpamento dei comuni fino a milleabitanti, dimenticando storia, usi, par-ticoarità locali. Ma dopo, con Monti, ilrimedio è stato peggiore del male. Lastessa cosa vale per l’abolizione delleprovince secondo Monti: la riduzionedei seggi consiliari ha diminuito ilpotere di rappresentanza e, quindi, lademocrazia. Lo svuotamento dellecasse mette in discussione con più vio-lenza di prima il ruolo dei comuni.

Io credo che occorra riprendere unabattaglia, che sarà dura, per ridare aglienti locali autonomia politica ed ammi-nistrativa e perché ne sia ricostituito ilruolo di redistribuzione dei redditiattraverso l’erogazione di servizi socia-li.

quote sono determinate dalla legge diconversione del decreto; se i comunidiminuiscono l’aliquota sulla primacasa, non possono intervenire sulleseconde case e sugli altri oggetti dellanuova IMU; un genitore che dà incomodato d’uso gratuito al figlio unappartamento pagherà una IMU comeseconda casa; le detrazioni sono stabi-lite per legge; le esenzioni idem. Cosaancora più scandalosa, il 50% dell’in-troito fiscale sulle seconde case e suglialtri oggetti deve essere versato allostato, con un ritorno dei comuni all’at-tività di gabellieri e non di erogatori diservizi. Nella realtà, il potere di autore-golamentazione dei comuni è statosoppresso con questo decreto.

L’attacco ai comuni ed agli altri entilocali si è sviluppato su fronti diversi,come abbiamo visto. Favorito dallacrisi della partecipazione alla politica edella sua credibilità sociale, da essostesso largamente determinata, ilGoverno Bossi-Tremonti-Berlusconisi è particolarmente distinto in que-st’attacco. Identica sorte questo gover-no ha destinato al Parlamento, umilia-to con la decretazione d’urgenza e coni voti di fiducia a ripetizione. La LegaNord, di ciò responsabile al pari e piùdel resto della destra, sta oggi prote-stando contro Monti, che ha adottato

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LA CASSADEPOSITI E PRESTITI.Nata per finanziare glienti locali, agisce comeun fondo di investimento

C’è una banca, in Italia, che ha una rete di14mila sportelli. A fine maggio 2011, ha delibe-rato un finanziamento da 830 milioni di euro afavore del principale gruppo al mondo nel set-tore “crociere” (Carnival), perché possa acqui-

stare due navi (da Fincantieri). E’ la stessabanca che, a inizio giugno 2011, ha guidato ilpool di istituti di credito che hanno concesso

un prestito di 4 miliardi di euro a favore delComune di Roma, come “contratto di finanzia-

mento del debito pregresso”. E che il 10 giugno 2011, infine, ha sottoscrittocon ENI il contratto d’acquisto dell’89% delleazioni di un gasdotto per un esborso di oltre

675 milioni di euro.

di LUCA MARTINELLI

Questa banca si chiama Cassadepositi e prestiti (CDP), èpresieduta da Franco

Bassanini (più volte titolare del dicaste-ro della Funzione pubblica), ed è oggila più “liquida” d’Italia, con una dispo-nibilità di circa 128 miliardi di euro.Sono risorse messe a disposizione da“clienti” ignari: tutti i cittadini italianiche sottoscrivono un libretto alle Posteo un buono fruttifero postale, e chemagari pensano che la “raccolta” dellaCassa serva ancora (ed esclusivamente)a garantire i mutui per gli investimentiche gli enti locali sono chiamati a rea-lizzare. Ma la Cassa è cambiata. Oggi èuna società per azioni partecipata al70% dal ministero dell’Economia edelle finanze e per il 30% da 66 fonda-zioni bancarie, ha chiuso il bilancio2010 con un utile di 2,74 miliardi dieuro (+ 59% sul 2009; 490 milioni dieuro in dividendi distribuiti al ministe-ro) e vanta partecipazioni azionarie innumerose società (anche quotate inBorsa, come ENI o Terna) e svariatifondi d’investimento.

La trasformazione in corso [cioè ametà 2011] ha obbligato la società a(ri)toccare anche lo statuto. Il 10 aprilela Cassa ha riunito in assemblea straor-dinaria i propri azionisti per approvarequelle modifiche che consentono diampliare “ulteriormente l’operatività diCDP, consentendole – come si legge inun comunicato diffuso dalla società –di assumere partecipazioni in società dirilevante interesse nazionale, a condi-zione che possiedano i requisiti chesaranno definiti con decreto del mini-stro dell’Economia e delle finanze a

nario bancario italiano, che è un siste-ma che soffre problemi di patrimonia-lizzazione e scarsa capitalizzazione deiprincipali attori. E’ in atto, così, un ten-tativo per far della Cassa un “fondosovrano”, a partire da una liquidità cheviene dagli enti locali [gli interessi suimutui], dai buoni postali, da una liqui-dità diffusa, popolare. Nei Paesi emer-genti, questi fondi rispondono a ragio-ni politiche, alla capacità di influenzarel’economia in settori strategici. Anchealcune operazioni della Cassa potreb-bero avere queste caratteristiche –spiega il professor Alessandro Volpi,che “legge” la Cassa depositi e prestitida due prospettive, quella di titolaredella cattedra di Geografia politica edeconomica alla facoltà di Scienze poli-tiche dell’Università di Pisa e quella diassessore al Bilancio del Comune diMassa. La Cassa finirà con l’acquisiretitoli, azioni od obbligazioni, con unalogica di “interessamento relativo” allesorti della società. Alla fine – spiegaVolpi – “conta il rendimento”.

Le operazioni in cui verrannoimpiegati i capitali della Cassa finiran-no con l’essere più brownfield (cioè par-tecipazioni in operazioni e attività giàesistenti) che greenfield (ovvero, progettida sviluppare), tema già visto in meritoa F2i, “il fondo onnivoro”, il fondod’investimento partecipato dalla Cassa.In mezzo, restano gli enti locali: “I pic-coli Comuni hanno enormi difficoltàdi accesso al credito, e la CDP non faeccezione rispetto alle altre banche.Chiede un numero di garanzie crescen-ti che molti enti locali non sono ingrado di avere – spiega Volpi –, la

norma del predetto decreto legge [ilnumero 34/2011], e che siano caratte-rizzate da una stabile situazione diequilibrio finanziario, patrimoniale edeconomico, e da adeguate prospettivedi redditività”. “Le suddette partecipa-zioni – continua la nota – potrannoessere acquisite anche attraverso veico-li societari o fondi di investimento. Nelcaso di acquisto mediante utilizzo dirisorse provenienti dalla raccoltapostale, le stesse sono contabilizzatenella gestione separata di CDP”. Allagestione separata afferiscono, ci spie-gano dalla Cassa, “gli investimentidella pubblica amministrazione (chevengono conteggiati nel debito pubbli-co), gli investimenti di interesse pub-blico fatti da società private (infrastrut-ture, servizi pubblici); le operazioni disupporto all’economia (piccole emedie imprese, export finance, social hou-sing)”. Il presidente della Cassa, FrancoBassanini, in un’intervista a FirstOnline ha spiegato che i settori strate-gici sono la Difesa, la sicurezza, l’ener-gia, le infrastrutture di trasporto ecomunicazione, i servizi pubblici,l’high tech e i servizi finanziari. Si trat-ta, in questo caso, di diventare (e com-portarsi) come azionisti. Non più daerogatori di mutui. Con buona pacedegli enti locali e dei “prestatori”, chesiamo ancora noi cittadini dato che –ancora oggi – la maggior parte dellerisorse utilizzate dalla Cassa dipendo-no dalla raccolta postale: oltre il 90%del “portafoglio” della Cassa è fruttodi libretti e buoni fruttiferi.

Cassa depositi e prestiti è uno deipochi colossi che circolano nello sce-

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Cassa guarda al rating dell’indebita-mento, concetto inapplicabile agli entipiù piccoli. Quando eroga mutui, inol-tre, la CDP tenta di fare operazioni ditaglie consistenti. Da 500mila a unmilione di euro. Inoltre, la Cassa nonconsidera “eligibili” i costi di progetta-zione, compresi gli strumenti urbani-stici, che non vengono più consideratispesa d’investimento”. Tra i criteri c’èanche l’aver rispettato il Patto di stabi-lità nell’anno precedente. In alcunicasi, può diventare troppo restrittivo,come spiega Franco Floris, sindaco diAndora (Savona) e presidente dellacommissione finanza locale dell’ANCI

700mila euro, va dai 30 ai 50mila euro.Ma siccome si tratta di debito pubbli-co, e abbatterlo è un interesse naziona-le, potrebbe essere interessante agevo-lare anziché ostacolare l’estinzioneanticipata dei mutui”.

La Cassa e il servizio idrico integra-to. Definire cos’è “interesse pubblico”aiuterebbe a sciogliere i nodi eviden-ziati del rappresentante ANCI. Il presi-dente della Cassa, Bassanini, si è impe-gnato attivamente contro i referendumin merito di servizio idrico integrato. Elo ha fatto spiegando, al Corriere dellaSera, che “se la CDP eroga un finan-ziamento a quelle società [pubbliche],Eurostat lo contabilizza nel debitopubblico facendo scattare la taglioladel rigore”. Secondo Bassanini, a fron-te degli investimenti necessari per l’am-modernamento della rete, si trattereb-be di “un disastro per il Paese”.Peccato che nell’elenco Istat dei sog-getti afferenti alla pubblica ammini-strazione (i cui debiti, cioè, fanno cre-scere il “debito pubblico”) non c’è – adoggi – nemmeno un gestore del servi-zio idrico, né verranno iscritti pereffetto del referendum. Le parole diBassanini rappresentano, perciò, unavolontà politica fatta di scelte che spet-tano al consiglio di amministrazione (oal comitato d’indirizzo) della Cassa,che nel caso dell’acqua, ad esempio, hadeciso d’investire “come un privato”,attraverso il fondo F2i. Non deve stu-pire: il management della CDP vienedal “privato”. Giovanni GornoTempini, amministratore delegato, èstato in Mittel, Hopa e nel consiglio digestione di A2a, in Intesa Sanpaolo ein Banca Caboto.

Nel consiglio di amministrazione c’èCristiana Coppola, vice-presidente diConfindustria; c’è Piero Gastaldo,segretario della Compagnia di SanPaolo; c’è Ettore Gotti Tedeschi, presi-dente delle IOR. Nel consiglio d’indi-rizzo (che formula gli “indirizzi strate-gici” della società) siede invece – tra glialtri – Carlo Colaiacovo. E’ il re umbrodel cemento, amministrato delegato diColacem. E di calcestruzzo son fatte leautostrade, cui la Cassa guarda coninteresse: tra marzo e maggio, mezzomiliardo d’euro hanno preso la stradadell’A4 e del Passante di Mestre.

da AE 129, 27 luglio 2011

(l’Associazione nazionale dei Comuniitaliani): “Un Comune dello spezzino,5.300 abitanti, che aveva risorse adisposizione, è andato “fuori Patto”perché è dovuto intervenire per mette-re a posto la scuola. Lo ha fatto conmezzi propri”, ma a questo punto nonpotrà più accedere ai mutui dellaCassa. Floris introduce un altro tema:“I Comuni che hanno risorse a dispo-sizione che non possono spendere, eallo stesso tempo pagano gli interessiper un mutuo con la Cassa depositi eprestiti, non sono incentivati ad estin-guere quel mutuo. Perché dovrebberopagare una penale. Per un mutuo sui

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Sono senza appello le previsioni2012 del Fondo MonetarioInternazionale. L’Unione

Europea, ed in particolare l’eurozona,composta da 17 tra gli stati membriUE, sarà quest’anno l’unica grandearea del mondo in recessione econo-mica: -0,5% di crescita per tutta l’euro-zona, addirittura -2,2% per l’Italia e -1,7% per la Spagna (entrambi i paesisaranno in recessione anche nel 2013),praticamente “crescita zero” inFrancia, non parliamo poi della diGrecia o Portogallo (entrambi a -3% segli va bene).

Destre liberiste e grandi borghesieall’assalto in Europa contro le clas-si popolari

Significativo, per spiegare il trend incorso, è il caso della Germania: dovràaccontentarsi di un +0,3%, dopo il+3% del 2011 e +3,6% del 2010, sem-pre che tutto vada per il verso giusto,cosa sulla quale nessuno può scom-mettere, se si tiene conto di come lalocomotiva tedesca sia passata anch’es-sa al rosso nell’ultimo quadrimestre del2011, il suo Prodotto Interno Lordo(PIL) avendo conosciuto una contra-zione di -0,4%. Per l’insieme dell’UEl’FMI parla di un “leggero calo dello0,1% del PIL”, risultato della compen-sazione con i (deboli) tassi di crescitadi altri paesi UE, come ad esempio il+0,6% della Gran Bretagna. In tutto ilresto del mondo, seppur tra mille diffi-coltà, si registrerà una crescita econo-mica: si va dal +1,8% degli Stati Unitie del Giappone fino al +8 o +9% dellaCina e dell’India, l’America Latina siattesterà tra il +3 e il +5% a secondadei paesi, persino l’Africa conoscerà unbrillante +5%. L’economia del pianeta(+3,3% nel 2012) sarà insomma trasci-nata quest’anno dai “paesi emergenti”

popolazione – si trovano “a rischio dipovertà”, “in situazione di privazionemateriale grave” o “in nuclei familiari abassissima intensità di lavoro”, le treforme di esclusione sociale alla basedell'indagine. I dati si riferiscono agliinizi 2011, ma Eurostat afferma che lacrisi dell’estate scorsa farà aumentarein modo significativo il numero deipoveri nell’UE.

Di converso, poiché l’Europa noncede valore ad altre aree del mondo,tutto questo significa un imponentetrasferimento di ricchezza dal bassodella società verso l’alto. Qui le statisti-che ovviamente dicono poco o nulla.Come bene si vede in Italia, mentre leclassi popolari vengono massacrate, inpiù modi, quelle ricche vengono amalapena sfiorate; e alla grossolanaostentazione di ricchezza del berlusco-nismo si sono sostituite un’apologiacalvinista della ricchezza, tramitel’ostentazione di quella dei ministri del-l’esecutivo Monti, e la beffa di questogoverno e di Emma Marcegaglia neiconfronti di quanti direttamente oindirettamente questa ricchezza hannocreato, giovani precari che aspirano“maniacalmente” al posto fisso, operai“ladri” e “fannulloni” che si “approfit-tano” dell’articolo 18 dello Statuto deilavoratori, tassisti “corporativi” privile-giati, ecc.

Ci sarà un motivo se l’UE si staimpoverendo sul piano economico esociale, giusto? E’ un’insopportabilepresa in gira anche il fatto che conti-nuino a raccontarci, governi, istituzio-ni esecutive europee, Banca CentraleEuropea, mass-media, che non è colpadi nessuno e che tutto è (ancora) impu-tabile alla crisi del 2008. Inoltre, ovvia-mente, che i sacrifici produrranno a uncerto momento ripresa economica e

(+5,4%), che controbilanceranno un+1,2% dell’insieme dei paesi industria-lizzati storici, quest'ultimi alle presecon una palla al piede che si chiamaeurozona.

Quanto sia economicamente esocialmente grave la situazione inEuropa, più di quello che ci viene rac-contato, lo dimostrano le statistiche digennaio di Eurostat sulla disoccupa-zione, che si riferiscono all’insieme del2011. 23 milioni di persone sono senzalavoro nell’UE, pari al record storicodel 9,8% della popolazione attiva. Diquesti, 17 milioni si trovano nell’euro-zona, il cui tasso di disoccupazionesale al massimo storico del 10,4%; e separliamo dei giovani sotto i 25 anni, lapercentuale schizza al 22% (31% inItalia), dato identico per UE ed euro-zona, fotografia drammatica dellasituazione di marginalità sociale che siapprestano a vivere milioni di giovanieuropei. C’è un altro dato inquietante,quello che riguarda i sottoccupati,ovvero i part-time e tutti coloro chenon hanno un impiego fisso ma lavo-rano alcuni giorni la settimana o incerti periodi, restando disoccupaticontro la loro volontà negli altri: sitratta di altri 18 milioni di uomini edonne. Per nulla rassicuranti sono leprevisioni 2012 di Eurostat: “I tassi dicrescita previsti per l’anno in corsonon produrranno miglioramenti nelmercato del lavoro europeo, la disoc-cupazione aumenterà”. Del resto nonbisogna essere dei maghi per capirlo:non c’è paese europeo in cui non passigiorno senza l’annuncio della chiusuradi una grande industria o della suadelocalizzazione (l’Italia è in primalinea). Impressionanti anche le cifreEurostat sull’esclusione sociale, pub-blicate l’8 febbraio 2012: 115 milioni dipersone nell’UE – oltre il 23% della

IL SENSO REALEDEL NUOVOTRATTATO A 25sulla “governance” europea

Recessione e miseria popolare perconto di rilancio della ricchezza

borghese e dell’egemonia del grande capitale tedesco.

di STEFANO SQUARCINA

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lavoro. Perché le cose vanno in sensoesattamente contrario? Perché l’euro-zona è la sola area del mondo in reces-sione? In breve, la responsabilità diquesta situazione è delle politiche di“austerità” e di “rigore” di bilancioimposte all’insieme dell’UE, e soprat-tutto all’eurozona. Sono queste politi-che a continuare a produrre depressio-ne e recessione, dati i loro effetti pro-ciclici su economie buttate in crisi dal-l’implosione nel 2007 della speculazio-ne finanziaria USA, in quanto, cioè,stanno portando alla miseria quote cre-scenti di popolazione e alla disoccupa-zione quote crescenti di forze di lavo-ro. Inoltre si tratta di politiche sullequali si continua a insistere, e che si statentando di trasformare in principiassoluti di politica economica.

Il nuovo Trattato sulla “governancerafforzata” (il “Trattato internazionalesulla stabilità, coordinamento e gover-nance rafforzata (TSCG) nell’UnioneEconomica e Monetaria”), appena fir-mato in gran pompa il 2 marzo scorsoda 25 dei 27 Stati Membri UE (GranBretagna e Repubblica Ceca si sonoauto-escluse) intende creare un mecca-nismo istituzionale e di gestione dellerisorse di bilancio dei vari paesi UEche riduce al lumicino – per non direcancella – il possibile finanziamento diqualsiasi politica pubblica orientata acreare lavoro. I testi obbligano a con-centrare l’uso delle risorse pubblichedisponibili nel rientro del debito e deideficit, inoltre a ciò vincolano gli statiaddirittura con sanzioni, infine con-sentono di avocare a Bruxelles i poterid’indirizzo generale delle politiche dibilancio dei singoli stati membri. LaGrecia è già stata commissariata, potràtoccare prossimamente al Portogallo. Itesti prevedono, ancora, la costituzio-nalizzazione del pareggio di bilancio (ilcui livello viene individuato nella pos-sibilità di un deficit strutturale massi-mo pari allo 0,5% del PIL ai prezzi dimercato. E’ il trionfo quindi dellagovernance così come immaginatadalla destra europea, da quella tedescain primo luogo, il cui governo haimposto, appoggiato da quello france-se, è stato l’artefice e l’impositore,anche con il ricatto, di questo Trattato.Ma com’è che gli autori e gli imposito-ri di questi testi non prendono atto dicome le politiche che questi testi inten-dono imporre di qui all’eternità inEuropa portino a effetti oppostirispetto a quelli dichiarati? La risposta

Il nuovo Trattato dunque assorbe erende estremamente più rigida e durala politica di Maastricht, che poneva ilimiti del 3% al deficit pubblico rispet-to al PIL e del 60% al debito. Ciò cheè nuovo, e da cui muove ogni cosa, è ilcarattere obbligatorio della riduzioneal 60%, per di più in tempi sostanzial-mente rapidi, del rapporto debito/PIL.Per la riduzione del deficit esiste giàuna possibilità procedura d’infrazioneper deficit eccessivo da parte dellaCommissione Europea, adesso ilnuovo Trattato la rende vincolante,inoltre spostando la possibilità di defi-cit dal 3% allo 0,5%. Vediamo meglioquesta cosa del rientro del debito al60% in rapporto al PIL. Si tratta, inlinea con il nuovo Trattato, di ridurre ildebito nella misura ogni anno del 5%della parte superiore al 60%. Solopochi paesi sono al di sotto di questacifra, il grosso è sopra. Alcuni lo sonomolto, come l’Italia. Questo significache essa deve apprestarsi a varare ognianno manovre finanziarie a minima di40-50 miliardi di euro l’anno di abbat-timenti di spesa o di nuove entratefiscali, e questo per 20 anni. Le conse-guenze sociali, assolutamente dramma-tiche, sono evidenti.

In Italia è stata data molta enfasi alfatto che sarebbero state riconosciuteal nostro paese alcune condizioni piùfavorevoli per il rientro del debito, inparticolare grazie alla presa in conside-razione di fattori macro-economici“rilevanti” come il dato dell’indebita-mento globale (cioè pubblico più pri-vato), il secondo inferiore nell’UEdopo la Germania (benché il risparmioprivato stia ormai crollando, poichéuna quantità di famglie spendono datempo i propri risparmi per mantenereil proprio tenore di vita, oppure perprovvedere ai figli precari, disoccupati,bisognosi di una casa, ecc.). Si tratta diun imbroglio, concepito per indorareuna pillola molto amara. In realtà nonc’è traccia di tutto ciò nel nuovoTrattato, e siccome “carta canta” quel-lo che conta è ciò che è scritto nei suoicapitoli e paragrafi. Il riferimento ai“fattori rilevanti” in questione puòvalere, per l’esattezza, solo affermandol’esistenza un riferimento giuridicoindiretto al precedente pacchetto sullagovernance (il cosiddetto six-pack),che fa riferimento a un meccanismo disorveglianza degli squilibri macro-eco-nomici in generale (“scoreboard”), chepuò portare a una situazione di allerta

è molto semplice: gli obiettivi dichiara-ti non sono quelli veri; questi ultimisono invece, come già detto, l’immise-rimento delle popolazioni, l’incremen-to della ricchezza borghese, in tutte lesue forme; inoltre, per il grande capita-le tedesco, l’egemonia in Europa, l’as-servimento subalterno delle altre eco-nomie europee ai proprie obiettivi diespansione mondiale delle esportazio-ni tedesche. Anche a questo la defla-zione, la miseria e la disoccupazioneeuropee sono cioè funzionali: allagrande industria tedesca servono eco-nomie europee subfornitrici, ovvia-mente a basso prezzo (quindi, a bassisalari, forte disoccupazione, ecc.).

Qualche precisazione sulle politi-che recessive di bilancio imposte aipaesi UE

Si impone una precisazione, vista lagrande approssimazione con cui igrandi media italiani hanno riportato lenotizie. Il deficit strutturale non hanulla a che fare con il deficit ciclico(quest’ultimo segue la congiunturaeconomica). Il disavanzo (il debito) asua volta è strutturale se le variabilimacroeconomiche assumono valoriper i quali diventa impossibile azzerareil deficit di bilancio anche in faseespansiva dell’economia; inoltre puòessere abbattuto solo agendo in sede ditasse, aumentandole, e di riduzionedella spesa pubblica, tagliandola,soprattutto nella sua dimensione di“stato sociale”. Sia chiaro dunque chela costituzionalizzazione del pareggiodi bilancio comporterà nuove manovreche intervengano in queste due sedi;una volta decisa quest’impostazione dibilancio non c’è alternativa. Ci attende,dunque, un’accentuazione ulterioredegli squilibri sociali in Europa, attra-verso nuovi tagli alle pensioni, allasanità, ecc. L’obiettivo del deficit zerorappresenta una novità importanterispetto alla precedente governanceeuropea, è un salto importante di qua-lità antisociale dell’azione di cosiddettorisanamento dei bilanci degli stati UE,in quanto rende le misure di questorisanamento obbligatorie, ne incentivala ferocia antisociale (vedi Grecia), sot-topone gli stati al potere di autoritàeuropee incontrollabili, plenipotenzia-rie, orientate dalla versione più rigidadel neoliberismo, subalterne alla destratedesca e ai suoi obiettivi imperiali inEuropa.

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e di messa in sorveglianza nei confron-ti di uno stato che vada oltre certi limi-ti preoccupanti in fatto di questo oquel tipo di squilibri. Ma la vedete unasituazione europea in cui qualcunoprenda l’iniziativa dell’allerta nei con-fronti della Germania, paese la cui eco-nomia è violentemente squilibrata inattivo, danneggiando così le altre euro-pee, sul piano delle esportazioni, quin-di della bilancia commerciale? L'Italiapuò solo appoggiarsi, quindi, su inter-pretazioni giuridiche incerte, mentre diconcreto c’è solo – nero su bianco –un Trattato che dovrà ratificare e checondizionerà lo sviluppo della sua vitaeconomica e sociale nei prossimidecenni, a meno di grandi sommovi-menti politici e sociali dello statu quo.In Italia viene anche detto che even-tuali manovre finanziarie di rientro deldebito verranno temperate da sicurepolitiche di rilancio della crescita, cherenderanno meno dure le prossimeleggi di bilancio: altro imbroglio evi-dente, dato che l’FMI ci dà in recessio-ne per i prossimi due anni e che tuttele stime – anche governative – confer-mano sostanzialmente quest’ipotesi.Tant’è che il 14 febbraio laCommissione Europea ha messol’Italia in una lista di 12 paesi UE consquilibri macro-economici pesanti,secondo la “procedura di allarme pre-ventivo”, ma in fatto di debito pubbli-co e basta.

L’altro grande punto contenuto nelnuovo Trattato è l’obbligatorietà, comegià detto, delle sue disposizioni, raffor-zata da un sistema di semi-automatici-tà di sanzioni (0,1% del PIL) contro glistati che non rispettino gli obiettivi dipareggio di bilancio: uno o più stati fir-matari del trattato, infatti, potrannoadire la Corte Europea di Giustiziacontro un altro stato per obbligarlo al“rigore” o perché, refrattario, vengasanzionato. Il Trattato, infine, si sbiz-zarrisce nel creare ennesime strutturedi governo dell’euro: almeno due volteall’anno ci saranno dei “vertici dell’eu-ro” a 17, e sono previste anche riunio-ni a 25 (è il numero degli stati UE chesi sono impegnati a ratificare il nuovoTrattato); né dimentichiamo i consuetisummit a 27. Da notare che laCommissione Europea – in tutto que-sto meccanismo – risulta assolutamen-te marginale. Manuel Barroso passeràalla storia dell’UE come il Presidentedella Commissione che (in tempi dicrisi!) non ha saputo (ancor meno

muoversi tutti i governi UE, indipen-dentemente dalla loro composizionepolitica. Viene così istituzionalizzato,per così dire, anche l’obiettivo chedestra o sinistra pari debbano essere,quando già non lo siano diventate:infatti dovranno promuovere tutti lastessa politica economica (e sociale).Chiunque avrà voglia o tenterà di fareuna politica diversa dovrà scontrarsicon il nuovo Trattato e i poteri sovra-nazionali ch’esso costituisce, e conogni probabilità perdere, a meno delricorso a operazioni di rottura tutt’al-tro che facili e indolori. E’ forse que-sto, esattamente, l’obiettivo sostanzialedell’operazione in corso. Non a caso icosiddetti poteri forti, cioè confindu-strie e banche, hanno salutato conentusiasmo i risultati del ConsiglioEuropeo del 30 gennaio.

L'Italia è da tempo un paese amemoria corta, ma farebbe davverobene a guardare un po’ indietro neltempo. Questa crisi dell’euro confortale ragioni di chi aveva lanciato l’allarmegià durante il processo di ratifica deltrattato di Maastricht sull’UnioneEconomica e Monetaria (1992-93)denunciandone l’impianto neoliberistae la dannosità sul piano stesso dellacrescita economica. Avevamo detto sinda allora, sinistre di classe, cheMaastricht disponeva di un’imposta-zione organica che avrebbe portatoallo smantellamento dello “stato socia-le” in Europa, giacché le esigenzemacrofinanziarie e macro-economichedi Maastricht per tenere in vita lamoneta unica sarebbero state in oppo-sizione frontale al “modello socialeeuropeo”. Nessuno volle ascoltare,anzi tutti diventarono neoliberisti. Lacontestazione non verteva sull’euroquale strumento monetario comune –anzi – bensì sulle condizioni in cuiMaastricht avrebbe gettato dapprimamolecolarmente, poi con passaggi bru-tali, le popolazioni dell’Europa. Cisiamo poi battuti contro il Trattato diLisbona (2007-09), e prima ancoracontro il progetto di Costituzioneeuropea (2003-04), abortito a seguitodi referendum che lo rifiutarono inFrancia e Olanda, non perché eravamoantieuropei –anzi – ma perché questiTrattati perpetuavano un modello poli-tico monetarista semplicemente inso-stenibile nel tempo in termini di benes-sere sociale. Anche queste critichefurono ignorate. Il problema si è ripro-posto con l’approvazione nel marzo

voluto) far prevalere il metodo comu-nitario sul metodo intergovernativo,portando l’Europa a subire le imposi-zione della destra tedesca e, anche perquesto, ai limiti del collasso politico, esenz’altro a quello di quel poco didemocrazia che la regolava. Parimentifuori gioco, conseguentemente, ilParlamento Europeo.

Kapitalismus Deutschlands überalles

Al di là delle disposizioni tecnichecontenute nel trattato, certamente fon-damentali, ciò che più conta è il conte-sto politico in cui è stato elaborato, e leconseguenze politiche e sociali che nederivano. Il testo è il frutto di unavisione germanocentrica dell’UE:Angela Merkel ha imposto la sua poli-tica di austerità e rigore di bilancio,rifiutandosi di prendere in considera-zioni misure di accompagnamento perla crescita e l’occupazione, salvo gene-rici rinvii a momenti successivi allamessa in campo del nuovo Trattato. IlConsiglio Europeo era stato convoca-to per fine gennaio formalmente sugliimpegni di rilancio dell’economia, ma aparte alcune affermazioni vuote disostanza non vi è stata traccia di stan-ziamenti reali di fondi. L’UE è a rimor-chio della campagna elettorale tedesca(l’anno prossimo si vota in Germania),e Angela Merkel sta imponendo unalinea economica che parla solo edesclusivamente al suo elettorato, anzi aquello più di destra. In tal senso sidevono leggere anche le sue parole –una vera provocazione – su un’ipotesidi commissariamento formale dellaGrecia, con un “super-commissarioeuropeo al bilancio” che dovrebbesbarcare ad Atene e prendere le redinidel paese. Si tratta peraltro anche diuna provocazione gratuita, nel sensoche la Grecia è già da molto temposotto la tutela politica e tecnica dellatroika UE-FMI-BCE.

Il nuovo Trattato, ancora, comportala messa al bando, di fatto l’illegittimi-tà, delle teorie keynesiane sul ruolo deipoteri pubblici in economia, a fini dioccupazione e crescita, comporta cosìla fine del modello sociale europeocosì come era stato concepito, e inqualche misura praticato. Non solo:cerca di liquidare l’idea stessa dellapossibilità di altre politiche economi-che possibili, imponendo una gabbiadentro la quale saranno costretti a

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2011 del “Patto Euro Plus” – una stra-tegia di vera e propria liquidazione del“modello sociale europeo” – e l’appro-vazione a ottobre del “six-pack” sullagovernance. Adesso ci risiamo conquesto nuovo Trattato sulla “gover-nance rafforzata”, a dimostrazione cheil primo pacchetto era inadeguato perla destra neoliberista, tedesca in specie.Chi ha orecchie per intendere intenda:questo nuovo trattato TSCG è la quin-tessenza di un modello monetario edeconomico antisociale, va semplice-mente respinto.

Bisogna respingere il nuovoTrattato, ce la si può fare

E non è detto che ciò non possaaccadere. Innanzitutto Nicolas Sarkozyha dovuto ammettere che la Francianon lo ratificherà prima delle elezionipresidenziali e legislative di maggio-giugno: ed è il candidato socialistaFrançois Hollande ad avere il vento inpoppa in questo paese, e a meno di cla-morosi eventi sarà lui il successore diSarkozy. Hollande ha già fatto sapereche intende rinegoziare i contenuti delTrattato, se eletto. Esiste poi un serioproblema in Irlanda, la cuiCostituzione prevede un referendum

ridotta a raschiare il fondo per trovaredelle noccioline da distribuire qua e là,senza nessun impatto sistemico; allaBCE viene impedito di intervenire asostegno diretto dello sviluppodell’UE; tramonta anche l’ipotesi chela Banca Europea degli Investimentipossa sostenere piani di rilancio dellacrescita e dell’occupazione; l’unicacosa su cui Commissione e Consiglioinsistono è la ratifica urgente delMeccanismo Europeo di Stabilità, unasorta di “trattato fratello”, come si èdetto, di quello sulla “governance raf-forzata”.

Tutto ciò avviene con la crisi grecaancora drammaticamente aperta, anziirrisolta, nonostante l’accordo di prin-cipio del 21 febbraio scorso, chedovrebbe mettere a disposizione dellaGrecia una seconda tranche di prestitiper 130 miliardi di euro, cifra che arri-va a 237 miliardi se si tiene conto dellariduzione “volontaria” da parte dellebanche del valore nominale delle por-zioni di debito greco nelle loro mani.Insomma, il gioco al massacro conti-nua, e i leader europei sembrano purefelici e contenti. In un certo sensofanno bene: sono dentro a quella partedel problema che ci guadagna.

popolare obbligatorio in materia ditrattati europei che contengano cessio-ni di sovranità all’UE: il governo irlan-dese “sta valutando la situazione” e hapromesso una risposta entro aprile. E’evidente che il risultato delle elezioniin Francia avrà un impatto importantesulla ratifica o meno del Trattato, sem-pre che il presidente Hollande – se taleegli sarà – mantenga gli impegni delcandidato Hollande.

Non si tratta di essere “disfattisti” o“antieuropei”, ma di riconoscere chenon è accettabile che il danno cheviene recato, sempre più pesante, sullemaggioranze sociali europee, e chebisogna reagire con durezza. A finefebbraio 2012, quando la avrà messo adisposizione del sistema creditiziocontinentale altri 1.000 miliardi di euroa basso prezzo, le banche europeeavranno intascato 6.100 miliardi in treanni e mezzo: con questi soldi sarebbestato possibile abolire per ben 17 voltetutto il debito pubblico greco, oppuretutti i debiti di Italia, Francia, Spagna,Grecia, Irlanda e Portogallo messiinsieme, e avremmo ancora dei soldi intasca. Sulla Tobin Tax non si sta facen-do nulla; niente neanche sugli euro-bond; la Commissione Barroso è

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Il disastro evidente dell’approc-cio alla crisi della Grecia daparte dell’Eurogruppo, e più in

generale della destra europea, che oggigoverna monopolisticamente l’UE, ètra quanto ha aperto questa divarica-zione. L’avvicinarsi di elezioni impor-tanti, soprattutto in Francia e, forseanticipate, in Germania a sua voltatende ad amplificarla, anche perché ipartiti socialdemocratici che si candi-dano alla vittoria in questi due paesisono tra quelli che dichiarano di volermodificare le linee base della gover-nance UE ovvero di volerne scardina-re l’asse franco-tedesco. E’ ormai chia-ro a tutti che il caso Grecia è statousato e manipolato dal merkozysmocon l’intento di far vedere all’Europachi comanda, inoltre per imporle unapiù generalizzata riduzione delle con-dizioni generali di vita del mondo dellavoro e che lo stato non sia più attoredi una regolazione sociale progressiva.Le socialdemocrazie sono oggi quindiobbligate a confrontarsi a una costru-zione politico-giuridica europea inprogress che rappresenta una gabbiaper chiunque voglia fare una politicache non sia puramente antisociale, amaggior ragione che abbia contenutiriformisti (nel senso storico, progressi-vo, del termine). Ne va altrimenti dellaloro sopravvivenza stessa come grandiforze. E sono soprattutto i socialistifrancesi, e un po’ quelli tedeschi, amarcare una differenza da ciò che dice-vano prima, anche se alle loro parolenon sempre corrispondono coerentifatti. Tutto ciò è evidente nelParlamento Europeo, sede naturale deldibattito e dello scontro tra famigliepolitiche diverse.

Quanto alle dichiarazioni generaliche vanno in questo senso si distinguo-

governi che non portano la disoccupa-zione sotto un limite prestabilito?”.Anche i socialisti francesi si stannofacendo sentire: “ma quale regolad’oro costituzionale!” (il riferimento èal principio del “deficit zero” da iscri-vere nelle carte fondamentali degli statiUE), hanno affermato, “una tale misu-re significa che è la regola d’oro dellademocrazia a essere calpestata. Ilnuovo Trattato è dannoso e non per-mette all’Europa di ritrovare la cresci-ta”.

Neanche i Verdi europei, che lavora-no a un’alleanza rosso-verde inGermania e Francia, si stanno tirandoindietro: il loro Copresidente inParlamento Europeo, il franceseDaniel Cohn-Bendit, accusa VanRompuy e Barroso di “essere i talibanidel neoliberalismo” e di “esercitarepressioni inaccettabili sulla Grecia”;l’altro Copresidente, la tedescaRebecca Harms, parla del nuovoTrattato come di “uno scherzo di catti-vo gusto” e assicura che “si vergognacome cittadina europea per i risultatidell’ultimo vertice”.

Tra i tentativi di presentarsi all’opi-nione pubblica europea come alterna-tive alla governance della destra euro-pea c’è anche la pubblicazione – il 21febbraio scorso – di un “Manifesto peruna alternativa socialista europea”, fir-mato da personalità politiche e istitu-zionali socialdemocratiche. Vi si puòleggere che “la storia ha subìto un’ac-celerazione in questi ultimi anni, ma isocialisti non hanno saputo stare alpasso”. Da ciò deriva “la necessità dipresentare un insieme coerente di pro-poste alternative per rispondere allacrisi”, dato che “le economie europee,come tutte le altre, sono state confisca-

no quelle del nuovo Presidente delParlamento Europeo, il socialdemocra-tico tedesco Martin Schulz. Nel suoprimo discorso davanti ai 27 Capi diStato e di Governo UE egli ha usatotoni non diplomatici: “L’UnioneEuropea è sottomessa ai diktat delmercato, i suoi ritmi politici vengonoscanditi dalle agenzie di rating... L’UEha bisogno di investimenti per rilancia-re la crescita economica, per rafforzarela domanda interna e ridurre così l’in-debitamento. L’UE ha bisogno di cre-scita per salvaguardare i posti di lavoroe, soprattutto, crearne di nuovi, 45milioni di disoccupati e sottoccupatisono un triste record”. Ai leader euro-pei Schulz ha poi detto che “non pos-siamo accettare una scissione dell’UE,l’Europa sociale si sta svuotando disignificato, quella a più velocità staprendendo il sopravvento”. In unaconversazione con i giornalisti egli haanche definito “inutile” il nuovoTrattato a 25 “sulla stabilità, il coordi-namento e la governance rafforzata”(TSCG), dando fiato istituzionale allecritiche crescenti dentro all’insiemedelle sinistre europee. Lo ha seguito ilnuovo Presidente del Gruppodell’Alleanza Progressista dei Socialistie Democratici Europei al ParlamentoEuropeo, l’austriaco Hannes Swoboda:“Il TSCG persegue obiettivi sbagliaticon metodi sbagliati”, ha detto a VanRompuy e a Barroso presenti in aula aBruxelles per discutere dei risultati delConsiglio Europeo del 30 gennaioscorso. “Angela Merkel interpreta maleil suo ruolo di guida, la Cancelliera nonha l’UE come prospettiva politica, cista portando al fallimento. Parlatetanto di sanzioni contro gli stati mem-bri che non rispettano gli impegni dibilancio: perché, invece, non prevedetesanzioni automatiche contro quei

LA SOCIALDEMOCRAZIAEUROPEA STAABBANDONANDO ILLIBERISMO?Cronaca di un travaglio aoggi irrisolto ma reale

Nel quadro dello sconquasso politico esociale generato dalle misure di gover-

nance di bilancio a base di “rigore” e“austerità” nei vari paesi dell’Unione

Europea si registra un fenomeno cheda vent’anni non si vedeva: il risorgere

di una dibattito divaricato tra destra esinistra, in specie sulle politiche da

promuovere per uscire dalla crisi.

di S. S.

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te dall’irresponsabilità quasi criminaledel settore finanziario mondiale”. Sitratta quindi, “per la sinistra”, di “svi-luppare una piattaforma comune per ilfuturo”. Seguono dieci proposte: traesse si annovera l’idea di “fare dellagiustizia sociale un obiettivo strategicodell’Unione includendola nei TrattatiUE, al pari di ciò che si fa oggi pergarantire le libertà economiche”; sievoca “un’evoluzione del mandatodella Banca Centrale Europea per rico-noscerle il diritto di acquistare le obbli-gazioni di uno stato quando quest’ulti-mo sia sotto attacco”; vengono citatiobiettivi come l’aumento del bilancioeuropeo, la tassa sull’energia e sulletransazioni finanziarie, l’emissione dieurobond, “una base più giusta per ilcommercio internazionale” e la “lottaalle ineguaglianze inaccettabili tra l’UEe i suoi vicini a sud e a est”, “una pre-senza più forte e unitaria sulla scenainternazionale” e – infine – “il raffor-zamento della democrazia europea”,attraverso una serie di proposte istitu-zionali. Quel che però pure colpisce inquesto “manifesto” è l’assenza di qual-siasi impegno a contrastare in sedeparlamentare europea l’attuale gover-nance della destra e in particolare i suoitre nuovi strumenti: il TSCG, che i par-lamenti di 25 stati dell’UE dovrannoratificare; il Trattato che istituisce ilMeccanismo europeo di stabilità(MES), sottoposto ai 17 parlamentinazionali dell’eurozona; i due nuoviregolamenti (two-packs) sulla discipli-na di bilancio elaborati dellaCommissione Barroso, che stanno perarrivare al Parlamento Europeo e che,una volta approvati, saranno di imme-diata applicazione in tutta l’UE, nonnecessitando di ratifiche nazionali.

Di conseguenza nei fatti parlamen-tari europei molto scompare delledichiarazioni critiche sugli orientamen-ti attuali della governance europea: vitorna quasi sempre a prevalere, infatti,lo storico spirito di cooperazione poli-tico-istituzionale tra i due grandi grup-pi parlamentari europei. Faccio unesempio, quello della discussione sulTSCG (il Trattato sulla stabilità, ilcoordinamento e la governance raffor-zata, cioè quello che vuole la costitu-zionalizzazione del principio “deficitzero).. A due riprese popolari, liberali,socialisti e verdi europei hanno presen-tato assieme proposte di risoluzionecomuni interpretabili come a favore diquesto Trattato. Esso per la sua natura

prima non avrà assorbito nella sua legi-slazione nazionale i contenuti di que-sto trattato. Non si può essere, insom-ma, a favore del MES e contro ilTSCG, l’uno è condizione dell’altro.L’hanno politicamente intuito i sociali-sti francesi che, il 21 febbraio scorso,all’Assemblée Nationale si sono aste-nuti sul voto di ratifica nazionale delMES. Anzi una ventina di loro per coe-renza di ragionamento ha votato con-tro, insieme ai deputati del Front deGauche-PCF.

Infine – ci risiamo – si apre unnuovo capitolo sulla governance: ilConsiglio Ecofin del 21 febbraio haattivato le procedure per “arrivareentro giugno ad un accordo con ilParlamento Europeo” su due nuoviregolamenti pro-austerità. E’ la nuovapuntata dell’offensiva antisociale delladestra europea.

Concludendo, un fatto negativoancor oggi cruciale è che la regolazio-ne economica e finanziaria nell’UE ètuttora condivisa, oltre che da popola-ri-conservatori e da gran parte dei libe-rali, da una parte cospicua di socialde-mocratici e verdi. I prossimi appunta-menti parlamentari – MES, TSCG,seconda ondata di governance – saran-no quindi molto importanti quanto asviluppi positivi sostanziali o menodelle posizioni di queste due aree poli-tiche europee.

giuridica di accordo tra stati sovraninon dev’essere ratificato dalParlamento Europeo: ma anche perquesto non ci si doveva “sporcare lemani”. A maggior ragione, anzi, non losi doveva fare, dato che la destra oggiha da sola la maggioranza nelParlamento Europeo. Più al fondodelle cose, sui rappresentanti in essodelle socialdemocrazie pesano le diret-tive spesso opache o subalterne al neo-liberismo di una parte dei loro gruppidirigenti nazionali o dei residui gover-ni di centro-sinistra. Il risultato èappunto l’incoerenza tra dichiarati eatti.

Un certo smottamento di voti nelcontesto del voto del 2 febbraio hacomunque segnalato la forza ormai deldisagio nei gruppi socialdemocratico everde. I socialisti francesi si sono aste-nuti, insieme a pochi spagnoli e tede-schi; il gruppo dei verdi è invece esplo-so in tre direzioni, c’è chi si è astenuto(soprattutto francesi), chi ha votato afavore (i tedeschi, seguiti dalla maggio-ranza del gruppo) e chi contro (in cin-que). Ma la battaglia contro il TSCG sipotrà fare soprattutto sul piano nazio-nale: stando alle affermazioni delmanifesto socialista è infatti impensa-bile a sinistra anche solo un’astensionesul testo. Ma c’è anche da scommette-re che molti partiti socialdemocratici –e il PD italiano, loro associato nelParlamento Europeo – voteranno afavore del TSCG, pur tutti aspettandodi vedere cosa succederà da parte dellaFrancia nel caso in cui alle elezioni pre-sidenziali vinca il socialista FrançoisHollande. Il quale ha detto che “stu-dierà la situazione” una volta eletto mache “in linea di principio” intendecomunque “rinegoziare l’accordo peraggiungervi ciò che manca, una strate-gia per la crescita”. Egli quindi tiene labarra a sinistra, pur senza appoggisignificativi, per ora, dentro alla suafamiglia politica europea.

Un buon banco di prova sarà il votosul MES (il Meccanismo europeo distabilità), Merkel e Sarkozy lo voglionooperativo entro fine giugno. Il “consi-derando 5” del MES afferma a chiarelettere che ogni assistenza finanziariaagli stati in difficoltà è subordinata allaratifica del trattato TSCG e in partico-lare al recepimento della costituziona-lizzazione del principio “deficit zero”.Uno stato in difficoltà non potrà dun-que accedere a fondi di solidarietà se

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Soprattutto, perché la Germaniaimpone a tutti gli stati europeil’equilibrio di bilancio (debito

e deficit), con delle politiche deflattivesenza precedenti, tanto da mettere arischio l’euro, cioè quella che fu unasvalutazione implicita del marco pari al40% del valore reale, convenientissimaper le esportazioni tedesche?

Forse dobbiamo vedere la realtà daun altro angolo. Se l’obiettivo dellaGermania e dell’area economica di suointeresse “industriale” puntasse a unnuovo equilibrio internazionale? Laprima cosa da mettere a fuoco è la par-ticolare struttura industriale tedesca,che riflette una struttura produttiva(soprattutto manifatturiera) semprepiù multinazionale, che compensa glielevati costi del lavoro con sofisticatifattori d’innovazione tecnologica con-tinua e di organizzazione commercialee con subforniture a basso prezzo dalresto dell’Europa. Una struttura che habeneficiato della svalutazione implicitadel marco. Questa ha permesso allaGermania e alla sua area economica diriferimento di consolidare avanzi com-merciali, pagati sostanzialmente daglialtri paesi europei.

In qualche misure l’industria tedescadeve affrontare il problema della com-petitività internazionale, ma si rendeconto che le politiche adottate nonsono più sufficienti. In particolare, lapopolazione tedesca non sarebbe maidisposta a sostenere politiche deflattivecome quelle adottate dall’Italia o daaltri paesi europei. La stessa industriatedesca le troverebbe insopportabiliperché incrinerebbero le buone rela-zioni sindacali e reddituali delle propriemaestranze. In altre parole, le politichedeflattive colpirebbero lavoro e classemedia tedesca, il vero cuore della

lare degli sforzi italiani, a cosa si riferi-va? La risposta dovrebbe guardare aquesta prospettiva. L’Italia sta proba-bilmente accettando di essere a dispo-sizione degli obiettivi economici delcapitalismo tedesco, chiede in cambiodi no essere trattata come la Grecia.

Lo stesso atteggiamento dellaFrancia ed anche della Gran Bretagnasono poco chiari. La Francia ha matu-rato un gap industriale rispetto allaGermania impressionante: che si ètraddotto in un meno 17% nella pro-duzione industriale, sostanzialmenterelativo ai beni strumentali. In altreparole la Francia, come l’Italia, non èpiù un partner (industriale) tedesco.Può ambire a fare da subfornitrice.Diverso è il ruolo finanziario e crediti-zio. Gran Bretagna e Francia stannoaccumulando tensioni, e l’idea dellaTobin Tax è forse l’ultima di una lungaserie a loro risposta.

L’impressione generale in fatto dipolicy adottate dai grandi della terra,Stati Uniti, Giappone, Germania, Cina,è quella di una battaglia senza esclusio-ne di colpi. Sostanzialmente gli attoricoinvolti agiscono in proprio. Comeinterpretare altrimenti la spesa di 140miliardi di dollari per rafforzare lastruttura pubblica della ricerca, dellascuola, delle infrastrutture, da parte diObama?

La crisi del 2007-2011 meritavaun’azione coordinata a livello interna-zionale. Per più ragioni è peggio diquella del 1929. Se non c’è stato coor-dinamento, con ogni probabilitàdipende dalla distanza reciproca deiprogetti dei principali attori economiciinternazionali coinvolti.

società tedesca. Soprattutto l’industriatedesca non potrebbe mai rinunciare alcuore oligopolistico della propria indu-stria, la quale ha maturato vantaggi intutti i settori produttivi di scala, asse-condati da ricerca e sviluppo senza pariin Europa, capaci anche di anticipare ladomanda. Si pensi alla green economy.

L’obbiettivo tedesco è dunque diconsolidare il proprio cuore oligopoli-stico, facendo leva su un’area economi-ca integrata di subfornitura che riforni-sca la propria industria a prezzi conte-nuti. In questo modo i prezzi finali deibeni e servizi tedeschi potrebberoaffrontare efficacemente l’approfondi-mento della competizione internazio-nale, senza “intaccare” la condizionemateriale dei propri cittadini. Nonsolo, l’avanzo commerciale dellaGermania, a questo punto non soloriferito all’Europa, continuerebbe adessere pagato dall’UE, ma con unruolo inedito della stessa Germania. Ilconsolidamento del settore dell’auto-motive tedesco, a discapito di quello dialtri paesi europei, fotografa perfetta-mente il “potere” tedesco. In questomodo si può spiegare il no dellaMerkel alla proposta di Marchionne diacquistare l’Opel. Perché avrebbedovuto accettare? In fondo la crisi delsettore avrebbe dovuto suggerire unriequilibrio a livello europeo sulmodello dell’aerospazio. L’idea era ed èun’altra. La Germania deve essere ilcuore oligopolistico industriale euro-peo, mentre tutte le altre economiepossono ambire a diventare soggettoprivilegiato della subfornitura.

Quando Mario Monti afferma chel’accordo europeo (Fiscal Compact) èquello che l’Italia voleva portare a casa,oppure la richiesta esplicita del ricono-scimento europeo e tedesco in partico-

IL SOGNOSEGRETO della destra e del capitalismo dellaGermania

Se la macroeconomia e il buon sensocontraddicono le politiche europee, seuna parte consistente degli economistiinsiste su un diverso ruolo della BancaCentrale Europea e dei bilanci pubblici,perché alcuni leaders europei insistono

su linee di politica economica liberiste estremiste?

di ROBERTO ROMANO

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Ciò vale per il divieto impostoalla BCE di agire come pre-statore di ultima istanza sul

mercato primario dei debiti sovrani,ma vale anche per le modalità dellaricapitalizzazione imposta alle bancheattraverso l’Autorità Bancaria Europea(EBA), avente sede a Londra, presie-duta da un italiano, Andrea Enria, pro-veniente dalla Banca d’Italia.

L’EBA, a cui partecipano tutte leautorità di vigilanza bancaria dell’UE,è un organismo creato d quest’ultima il1° gennaio 2011, per sostituire, conpoteri molto più ampi, il precedenteComitato dei Supervisori BancariEuropei (CEBS) nel compito di sorve-gliare il sistema bancario, la cui stabili-tà era stata messa a rischio dalla crisi, apartire dal fallimento della LehmanBrothers nel 2008 negli Stati Uniti.L’EBA fa parte del nuovo SistemaEuropeo di Vigilanza Finanziaria(SEVIF), assieme all’Autorità diVigilanza su Assicurazioni e Pensioni(EIOPA) e all’Autorità Europea diVigilanza sugli Strumenti Finanziari e iMercati (ESMA).

E’ stata dunque proprio l’EBA aindicare, su pressione del verticeMerkel-Sarkozy, avallato daCommissione ed Ecofin, i controversiparametri di ricapitalizzazione dellebanche europee, con l’intento dichiara-to di fare fronte alla crisi finanziaria, inrealtà facendo invece da sponda alleesigenze politiche del duo Merkozy.

La questione è che il problema deidebiti tossici privati delle banche non èstato affatto risolto, non solo in quan-to molte banche ne hanno stock moltoelevati, ma anche in quanto l’ammon-tare dei “derivati”, potenzialmente tos-sici, è ora pari a 14 volte il PIL mondia-le, cioè più elevato di prima della crisi,

ha mantenuto il suo profilo tradiziona-le di erogatore del credito al dettaglio,mentre gli altri sistemi bancari (i tre giàcitati più quello spagnolo) hanno subi-to una profonda mutazione in sensofinanziario. Essi da un lato di sono tra-sformati in semplici intermediari che,per aggirare i limiti posti in termini dipatrimonio di vigilanza (il rapportoposto fra volume del credito e capitaledi garanzia), hanno cartolarizzato evenduto i crediti da loro concessi percontinuare così a concederne di nuovi,con lo stesso meccanismo che ha por-tato alla crisi del 2007 negli Stati Uniti;dall’altro lato, hanno operato comespeculatori finanziari per conto pro-prio con una forte leva finanziaria(ovvero con operazioni a debito),finanziandosi sul mercato interbanca-rio, esponendosi perciò a rischi ingen-tissimi. S’è così creata una reciprocasfiducia tra banche, che ha portato alcongelamento del mercato interbanca-rio, con il conseguente blocco dell’atti-vità creditizia e, per conseguenza, del-l’intera attività economica.

L’instabilità italiana deriva quindidal fatto che, pur avendo subito unrigonfiamento del debito pubblicoassai minore di quello avvenuto neglialtri paesi, l’Italia partiva da un livellomolto più elevato. La moltiplicazionedel numero di paesi che chiedonofinanziamenti al mercato primario(cioè all’atto dell’emissione), che siregge sugli acquirenti bancari, ha com-portato un aumento dei tassi che si èripercosso sul premio di rischio, ren-dendo dunque sempre più caro il servi-zio del debito, ovvero il pagamentodegli interessi. Nel lungo periodo ildebito è sostenibile solo se i tassi diinteresse nominali sono inferiori altasso di crescita del PIL: ma l’austeritàimposta dalla Germania porta allarecessione economica, cioè alla ridu-

ciò che continua a compromettere lastabilità del sistema finanziario mon-diale e a ingolfare i bilanci delle ban-che, nonostante i massicci interventi disalvataggio operati negli Stati Uniti e inFrancia, Germania e Gran Bretagna,che hanno compromesso i bilanci pub-blici a spese dei cittadini. Ne è deriva-to così anche un carosello perverso: lebanche sono state salvate ingolfando idebiti sovrani che, dati i limiti statutaridella BCE, a cui è vietato, come giàscritto, il ruolo di prestatore di ultimaistanza, sono finanziati proprio dai cre-diti bancari: per cui le banche devonoessere nuovamente salvate attraversoulteriori finanziamenti della BCE enuovi interventi pubblici. L’ultimo,recentissimo esempio è il costosissimosecondo salvataggio della Dexia, gran-de banca franco-belga, già precedente-mente salvata con la nazionalizzazione.Parimenti va considerato il fatto che isistemi bancari degli stati minacciati dainsolvenza sovrana seguono ovvia-mente la stessa sorte degli stati a cuiappartengono.

L’Italia è rimasta sostanzialmenteestranea a questi salvataggi bancari, pernon avere un sistema bancario che si èesposto come in altri stati alla specula-zione, e presenta un bassissimo debitoprivato (il debito delle famiglie italiane,secondo i dati del FMI, ammonta al50% del PIL, contro il 70% dellemedia europea): per cui, se si conside-rasse, come sarebbe corretto fare, ildebito complessivo (pubblico+priva-to), si troverebbe in condizioni assaimigliori della media europea: ma ciònon avviene, perché non conviene aitre maggiori paesi europei (Germania,Francia e Gran Bretagna), i cui sistemibancari risultano di gran lunga piùesposti.

Il motivo della peculiarità italiana stanel fatto che il suo sistema bancario ha

COME AI DISASTRIDEL LIBERISMO L’UEAGGIUNGA ERRORIGROSSOLANI

Il direttorio franco-tedesco alla testadell’Unione Europea ha inanellato, in solido

alle sue imposizioni liberiste, anche unalunga serie di errori (ha massacrato in parteinutilmente la Grecia, ritardando gli aiuti), a

cui si sono prontamente allineatiCommissione ed Ecofin, con incrementi

ulteriori al disastro, tra i quali elementi didestabilizzazione finanziaria.

di GIANCARLO SACCOMAN

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zione del PIL, mentre l’affollamentodelle emissioni richieste fa aumentare itassi. Ne deriva (operazione speculati-ve a parte) un giudizio di insostenibili-tà del debito da parte delle agenzie divalutazione (rating) che fa esplodere ilpremio di rischio (spread) e il serviziodel debito, peggiorando la situazione ecreando in un circuito vizios o, cheperesempio ha portato il costo del debitogreco al 27%.

La cosa più assurda è che se la BCEoperasse, come fanno tutte le altrebanche centrali, come prestatore diultima istanza sul mercato primario, laspeculazione scomparirebbe come perincanto e con essa anche l’enormecosto economico e sociale scaricato suipaesi più deboli: ma finora ciò non èstato possibile per il veto tedesco. Lealtre misure invece non eliminano ilproblema del premio di rischio.Occorre considerare come nel 2012-13è previsto in Europa il collocamentod’una enorme quantità di rinnovi deiprestiti pubblici in scadenza, assoluta-mente insostenibile in assenza di unintervento della BCE come prestatoredi ultima istanza, per cui o si riesce arimuovere il veto tedesco o il fallimen-to è assicurato per tutti, compresa laFrancia e forse la stessa Germania (ameno di un ricorso massiccio ai capita-li cinesi, vendendo i “gioielli di fami-glia”).

Veniamo all’EBA. A complicareulteriormente la situazione l’EBA hastabilito l’obbligo di rafforzare entro il

rischio proprio del patrimonio di titolipresente nelle banche orientate al cre-dito al dettaglio tradizionale: livello dirischio assai minore rispetto a quellodelle banche orientate all’attività finan-ziaria a leva (grosso modo, orientateall’effettuazione diretta di investimen-ti).

Ma il problema maggiore è costitui-to dal modo in cui l’EBA ha stabilito lacontabilizzazione dei titoli pubblici nelpatrimonio delle banche. Ha impostouna valutazione non al prezzo d’acqui-sto, in base alla prassi abituale (d’altraparte con una valutazione prudenziale,perché non considera il valore dellecedole), ma al valore di mercato (markto market) al 30 settembre 2011, uno deimomenti più bassi delle quotazioni,con una svalutazione dunque dei titolie il conseguente obbligo di ricapitaliz-zazione. Inoltre l’EBA non ha distintofra l’investimento in titoli sovrani este-ri (che è una libera scelta di portafo-glio) e quelli del proprio paese, per iquali le banche sono gli acquirenti pri-mari e vi investono anche come prassioperativa per detenere liquidità (homebias). Obbligando le banche a conta-bilizzare le perdite potenziali sui titolidi stato le si è così costrette a venderlianche con forti perdite, inoltre a diser-tare gli acquisti nelle successive aste,determinando un aumento dello spre-ad. Come sottolinea l’ABI(Associazione Banche Italiane), in talmodo “si rende molto problematicocontinuare a detenere o acquistare tito-li di stato da cui potrebbero derivarenuove necessità di capitale”.

Ne derivano alcune gravissimeinsensatezze. Non ha senso imporreuna valutazione al prezzo di mercatoper titoli che sono detenuti fino a sca-denza, ed è inoltre assurdo assimilare ititoli del proprio paese, che, con fun-zione pressoché istituzionale, vengonoconservati in portafoglio almeno al90% fino a scadenza, a quelli specula-tivi su altri paesi. Infatti se fallisce ilproprio paese, non si salvano certo lesue banche, quale che sia la loro capi-talizzazione, perché, anche se nondetenessero titoli pubblici, subirebberole conseguenze dell’inevitabile crisi diliquidità, dell’aumento del costo dellaraccolta, e delle enormi insolvenze chene deriverebbero. Ma ancora più gravee assurdo è il fatti che questo criterionon è stato usato per gli investimentiin titoli privati di “livello 3”, ad alto

2012 la patrimonializzazione delle ban-che (al 9% del Core Tier 1, il principa-le indice di solidità bancaria), per com-plessivi 115 miliardi (di cui 30 per laGrecia, 26,1 per la Spagna e 15,36 perl’Italia), attraverso aumenti di capitaleo cessioni di attività, che tendono aprosciugare il mercato finanziario, conl’effetto a breve di una stretta creditiziaben maggiore dell’attuale, inoltre for-nendo un’arma potentissima alla spe-culazione.

Ciò porta a svariati problemi. Ilprimo è che, dato l’ingolfamento deimercati finanziari, gli aumenti di capi-tale comportano costi molto onerosi evengono immediatamente bruciati dalcalo delle quotazioni, obbligando adulteriori interventi. L’alternativa è unaforte restrizione dell’attività(downsizing), vendendo i titoli di stato ele partecipazioni in portafoglio erestringendo i crediti concessi alleimprese, con il mancato rinnovo deiprestiti, che in Italia sono generalmen-te concessi a breve termine anche pergli investimenti a lungo termine, con iltacito impegno del rinnovo a scadenza,che ora non viene più rispettato, deter-minando l’insolvenza anche di impresesane che stanno investendo nello svi-luppo futuro. In tal modo una reces-sione gigantesca è assicurata.

Il secondo problema è relativo aicriteri con cui è stata misurata talecapitalizzazione da parte dell’EBA,senza distinguere il diverso livello di

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rischio, dove sono compresi i titoli tos-sici, specie statunitensi, che infestano ibilanci delle grandi banche europee masono pressoché assenti da quelle italia-ne.

E’ evidente l’uso di due pesi e duemisure, sulla base di valutazioni deter-minate unicamente dalla rispettivaforza politica. Vengono favoriteFrancia e Germania, le cui banchehanno svolto un’attività finanziariarischiosa che le ha riempite di titoli tos-sici, mettendone tuttora a rischio lastabilità, nonostante gli enormi salva-taggi effettuati e gli ulteriori sostegniappena decisi dalla Germania. Vienepenalizzata in particolare l’Italia, le cuibanche non hanno ricevuto aiuti dallostato e svolgono un’attività prevalentedi credito al dettaglio e perciò nonsono ingolfate da titoli tossici, mahanno acquistato, anche dietro solleci-tazione della Banca d’Italia, i titoli deldebito italiano: e vedono ora una sva-lutazione forzosa e del tutto ingiustifi-cata del loro patrimonio, che le costrin-ge a ricapitalizzarsi con estrema diffi-coltà, rischiando assalti stranieri, e arazionare il credito. Si tratta, nellasostanza, di un invito a disfarsi dei tito-

alle banche italiane): per evitare ulte-riori danni insensati all’economia euro-pea.

“Viene da pensare che siamo nelcampo o della demenza o della cattivafede” (Enrico Cisnetto), ovvero “ilsospetto che tutto ciò costituisca unattacco all’economia italiana, magaricon la finalità di acquistarne a prezzi disaldo alcuni pezzi pregiati” (GiuseppeDe Filippi). Infatti la caduta delle quo-tazioni delle banche italiane, a seguitodi questi provvedimenti, è stataimpressionante: tutte assieme valgonoin borsa meno della sola Bnp-Paribas.Essa, avendo ricevuto aiuti di stato per7,7 miliardi, pur versando in condizio-ni problematiche, stracarica com’è dititoli tossici statunitensi e di titoli distato greci, ha subito perdite moltoinferiori nelle quotazioni, mentre lebanche italiane, che non hanno ricevu-to aiuti di stato, valgono meno di unterzo del loro capitale proprio, per cuisono una preda molto ambita, facile elucrosa, in quanto acquistabili a prezzidi saldo, e poi basterebbe rivenderle apezzi per ottenere guadagni favolosi.

li italiani per recuperare liquidità, cosache hanno puntualmente fatto le ban-che estere, spingendo in tal modo adun aumento dello spread dei nostrititoli. Tutto ciò penalizza, giova sotto-lineare, proprio l’attività tradizionale dierogazione del credito, molto più sicu-ra, e favorisce invece l’attività finanzia-ria speculativa del modello anglosasso-ne, esteso a Francia e Germania, cheha fatto esplodere una crisi finanziariaed economica ormai quinquennale.

Ma non è finita. La stanza di com-pensazione dei titoli di stato sul merca-to aperto ha alzato improvvisamente esenza preavviso, sulla scia di questecose, il margine iniziale obbligatorioper la compravendita di titoli italiani,con un sovrapprezzo che ha costituitoun segnale di sfiducia e creato ulterioriproblemi di liquidità.

Oltre all’ABI e al governo italiano,anche la BCE ha fortemente criticato,ma senza che ciò finora abbia prodot-to alcun effetto, le decisioni dall’EBA.Ecco perché, dunque, la BCE ha prov-veduto a fornire credito all’1% allebanche, in due tornate (ormai siamo aquasi 1.000 miliardi, di cui un quarto

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Ora, l’espressione benecomune associata a lavoronon ha un significato

immediatamente comprensibile, non lastessa nitidezza che il sintagma assumequando è riferito all’acqua, al sapere, oallo spazio urbano. Compare per laprima volta, che io sappia, propriocome slogan della FIOM durante lamanifestazione nazionale del 16 otto-bre 2010, in risposta alla politica indu-striale messa in campo da Marchionne.E appare subito problematica: in unafase un cui l’espressione “bene comu-ne” è adoperata per la sua capacità dievocare un modello di società e di eco-nomia alternativo a quello attuale, laformula lavoro bene comune suonaper contro come una sorta di idealizza-zione del lavoro, quasi si trattasse di unbene di cui tutti devono giovarsi, comel’acqua, appunto. Ma il lavoro non è unfattore neutro, o almeno non è questala visione maggiormente condivisanella tradizione politica europea, non èquesta la lettura che ne danno i mag-giori interpreti della modernità, daKarl Marx, a Hannah Arendt, a MichelFoucault; e si tratterebbe, ove nonaltrimenti esplicitata, di una concezio-ne tutto sommato nuova rispetto allastessa cultura politica del sindacato ita-liano, che classicamente interpreta illavoro come termine di un conflitto –col capitale, col padronato, o comun-que con una controparte che dallosfruttamento di quel lavoro trae il pro-prio potere economico, sociale e, fral’altro, contrattuale.

Del resto questa idealizzazione – sedi ciò si tratta - non trova una spondaneppure nella Costituzione repubblica-na la quale, nel fondare la Repubblicasul lavoro (art. 1), pragmaticamentemarca un mutamento antropologico,cioè il superamento del modello del

dell’intera società, la crescita e l’educa-zione delle nuove generazioni? E’ unqualcosa di cui l’intera società benefi-cia? Se così è, allora non possono esse-re i singoli genitori a farsene esclusiva-mente carico in senso tanto economi-co quanto organizzativo come se fossesolo un loro interesse, cioè un interes-se individuale e privato. Parimenti – sipotrebbe ragionare – la difesa del lavo-ro interessa tutta la società e non devo-no essere perciò solo quegli operai col-piti dal peggioramento delle condizio-ni di lavoro (e le loro famiglie) a farsicarico del problema. Con una differen-za: che l’idea della cura dei bambinicome public good corrisponde al tentati-vo di dar risalto ad una importantecomponente della produzione sociale,che è di regola ignorata, travisata enascosta, ancorché sia normalmentetradotta in valore dal sistema attuale;mentre una sollecitazione analoga nonemerge dalla difesa in quanto benecomune del lavoro (materiale) salaria-to, quale lavoro produttivo per antono-masia. In altre parole: se dalla declina-zione in termini di comune della curadelle nuove generazioni emerge una ri-valutazione piena del rilievo economi-co della sfera riproduttiva e del suosignificato di produzione di valoreall’interno del sistema capitalistico,dalla declinazione del lavoro produtti-vo come bene comune non emergeaffatto il contesto di cooperazionesociale dentro il quale si colloca l’attua-le sistema di divisione del lavoro e siperde anche il suo carattere strutturaledi elemento di conflitto col capitale.

E ciò tanto più che la visione chel’espressione lavoro bene comuneevoca impedisce uno sguardo criticosul lavoro stesso, uno sguardo checolga immediatamente le sue odiernearticolazioni e i suoi cambiamenti: pos-

cittadino borghese proprio dello statoliberale e l’avvento dello stato pluri-classe, che dei lavoratori promuove lapartecipazione politica (art. 3, 2° co.)oltre a garantirne la condizione sociale(art. 36).

Allora perché parlare del lavorocome di un bene comune?

L’uso dell’espressione non è qui evi-dentemente riferito allo sfruttamentoe/o alla gestione di una risorsa, e evocapiuttosto – come per formule similiinvalse nella cronaca politica: democra-zia bene comune o informazione benecomune – un’istituzione o un comples-so di istituzioni, di relazioni politichee/o di rapporti economici che hannodignità costituzionale e funzione costi-tutiva di un dato ordine sociale e poli-tico che si intende preservare.

Più semplicemente l’idea di benecomune richiama in questo contesto ladimensione generale, più che collettiva,dell’interesse della società alla tuteladel lavoro. Nella lingua inglesel’espressione più appropriata sarebbequi non quella di commons, ma di publicgood, concetto economico, più che giu-ridico, che indica un bene dal qualederivano utilità non suscettibili diappropriazione esclusiva. L’aggettivopublic non richiama in questo caso loStato, ma dà invece il senso di quelladimensione generale, dell’essere ditutti, del riguardare l’interesse di tutti.Uno schema forse analogo si ritrovanella rivendicazione ad opera di unagiurista liberal americana, AnneAlstott, del carattere di public good dellacura e dell’istruzione dei figli (No Exit.What Parents Owe Their Children andWhat Society Owes Parents, OxfordUniversity Press, 2004). Ci si chiede:corrisponde all’interesse di tutti, cioè

LAVORO BENECOMUNE?

Nel manifesto di presentazione dellamanifestazione del 18 febbraio indetta

dalla FIOM, così come in alcune pubbli-cazioni e in molti dibattiti “di movimento”

dedicati alla crisi e alla difesa dei com-mons, è ripetuta l’affermazione secondo

cui il lavoro è un bene comune.

di MARIA ROSARIA MARELLA

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siamo infatti dire che sia un benecomune il lavoro precario? Il lavoroche invade la vita e i suoi tempi? E’urgente, piuttosto, andare oltre e inter-rogarsi sul lavoro gratuito e su tuttequelle attività comunemente percepitecome non-lavoro che invece sonoparte integrante dell’universo-lavoro.Un esempio per tutti, il lavoro dome-stico svolto in favore dei propri fami-liari: che cos’è, a quale statuto giuridicorisponde? E, prima ancora, qual è ilmodo in cui è concettualizzato rispettoalla categoria lavoro? quale, di conse-guenza, il suo apprezzamento sociale?E’ non-lavoro? E’ invece lavoro gratui-to? E il tirocinio di uno studente comesi qualifica? E’ lavoro gratuito o inveceapprendimento professionalizzante?Sono anch’essi lavori da difenderecome beni comuni o invece il lavoromateriale salariato merita uno statuto aparte?

Si noti peraltro come quelle, comealtre situazioni lavorative, ponendosifuori dal lavoro convenzionalmenteinteso, si pongano altresì fuori dal pro-

de e pone questioni la cui soluzionenon può essere affidata a formule faci-li.

E’ necessario insomma gettare sullacorrente nozione di lavoro e sulla suadeclinazione in termini di bene comu-ne uno sguardo critico. E’ necessariofarlo per restituire al lavoro la sua“naturale” dimensione di conflitto eper cogliere il potenziale di conflittoproprio di tutte quelle situazioni che sicollocano al di fuori del lavoro mate-riale salariato.

getto costituzionale, ossia da quel cor-redo di garanzie che riguardano nonsoltanto le condizioni materiali di vitadel lavoratore (la garanzia del diritto allavoro degli artt. 4 e 35; la retribuzioneatta ad assicurare un’esistenza libera edignitosa dell’art. 36, la proprietàaccessibile a tutti dell’art. 42 2° co.), maqualcosa di più e di ulteriore: l’accessoo, meglio, la partecipazione attiva allasfera pubblica, cuore della (promessadella) pari dignità sociale dell’art. 3, 1°co., poi esplicitata nel comma successi-vo, dove si prescrive l’obiettivo dellarimozione degli ostacoli di natura eco-nomica e sociale che “impedisconol’effettiva partecipazione di tutti i lavo-ratori all’organizzazione politica, eco-nomica e sociale del Paese” ed è assi-curata nella sua effettività dal ricono-scimento dell’organizzazione sindacale(art. 39) e del diritto di sciopero (art.40). Essendo questi – l’attività sindaca-le, lo sciopero - strumenti che contri-buiscono alla dimensione della vita acti-va, il solo fatto che essi non riguardinooggi milioni di persone, interroga lademocrazia nelle sue strutture profon-

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L’inefficacia di quel modello èevidente in primo luogoriguardo al populismo. La

mobilitazione democratica delle asso-ciazioni altruistiche non è in grado diintercettare problemi, umori e linguag-gi della parte più deprivata delle classisubalterne. Questa parte, fatta di lavo-ratori dipendenti a bassa qualificazio-ne, di autonomi che sono in realtà piùdipendenti dei primi (si pensi al lavorodell’autotrasportatore, strettamentelegato – a rischio della vita – ai tempidell’impresa) e di ceto medio forte-mente impoverito dalla crisi generale,si allea ad alcune frazioni, meno forti,della borghesia anche perché l’altraparte del popolo, quella composta didipendenti ed autonomi ad alta qualifi-cazione, si allea di fatto alla frazioneforte, globalista ed europeista delnostro capitalismo. Rompere questealleanze, e costruirne una, nuova, tra lediverse frazioni popolari, è decisivoper la lotta egemonica: lo si può faresolo se, tra l’altro, non ci si ritrae difronte al linguaggio populista dei nuoviconflitti. E se si trovano figure unifi-canti che, pur radicate in una analisi diclasse, sappiano rivolgersi ai diversisoggetti sociali ed alle diverse forme divita degli stessi “proletari”. In questoquadro diviene opportuno parlare disovranità popolare e nazionale, comecollante di un nuovo blocco sociale ebase di una nuova politica.

Sovranità nazionale non è nazionali-smo. E’ ridiscutere democraticamentequale sia lo spazio sovranazionale incui il Paese di deve in ogni caso farparte. Qui si fa sentire un altro deglieffetti della crisi: la progressiva dissolu-zione dello spazio “globale” ed “euro-

lunque strategia popolare. Di questecose si parla nelle note che seguono.

1.1. Conflitti anomali

La crisi ha inaugurato, o portato allamassima evidenza, quello che propon-go di chiamare “capitalismo a sommazero”. Se in precedenza, ed anche neglianni della crescita drogata, al massiccioaumento della ricchezza dei capitalisticorrispondeva un ben minore, macomunque sensibile, aumento della ric-chezza (reale o apparente) dei lavorato-ri, oggi avviene il contrario: il capitali-smo sopravvive grazie all’incrudimen-to del tradizionale sfruttamento diclasse e grazie all’espropriazione diret-ta delle risorse pubbliche e di ciò cheprima spettava al lavoro (pensioni, ser-vizi, beni comuni, ecc.). Oggi è semprepiù chiaro che ciò che gli uni acquisi-scono gli altri perdono: da ciò lo scate-narsi di numerosi e diversificati conflit-ti. Ma si tratta di conflitti ben diversi daquelli a cui eravamo abituati: alla lotta“ordinata” dei lavoratori sindacalizzati,delle associazioni civili e delle stesseaggregazioni reticolari dei lavoratoriprecari (più fluttuanti e instabili, mapur sempre “disciplinate” in un quadroideologico relativamente chiaro edidentificabile), si affiancano lotte digruppi mai mobilitatisi prima d’ora ocostretti a constatare l’inefficacia delleprecedenti mobilitazioni: da ciò ilcarattere quasi sempre informe e spu-rio di queste lotte

E’ bene dirsi con chiarezza che nes-suna delle attuali forze della sinistrasociale e politica possiede al momentogli strumenti per comprendere questelotte e per intervenirvi. Eravamo abi-

peo” nel quale eravamo soliti muover-ci. Il multipolarismo è, in questo senso,uno spazio più favorevole della (pre-sunta e parziale) globalizzazione, per-ché è l’unica griglia che possa sotto-porre a controllo i flussi altrimentidevastanti dei capitali transnazionali. Enon è più possibile trasformarel’Unione Europea in qualcosa di piùparitario, cooperativo, democratico: èpiuttosto necessario iniziare da subitoa definire e costruire uno spazio medi-terraneo-mediorientale in cui inserire ilnostro Paese, prima come prospettivada far balenare nelle trattative comuni-tarie, poi come concreta alternativaall’Unione monetarista.

Infine se la crisi è davvero crisi di unintero modo di produzione e dei rap-porti sociali e geopolitici che lo sosten-gono, la si può attraversare solo aven-do un modello alternativo forte, chenon può ridursi alla sola economiadecentrata, sociale e cooperativa.Bisogna quindi ritrasformare il nostrocomunismo da ideale ad idea, da lonta-no orizzonte a forma realisticamentepossibile di una nuova produzione e diun nuovo Stato. Bisogna dunque pen-sare da subito ad un concreto sociali-smo, basato sull’intreccio tra proprietàpubblica, sociale e privata, gestito dauno Stato rinnovato, controllato daautonome istituzioni popolari. E quin-di (ulteriore e forse più importantelezione della crisi) bisogna tornare aconsiderare la conquista-trasformazio-ne del potere di Stato (non a caso con-fiscato in questi anni dai capitalisti,mentre noi si chiacchierava di “auto-nomia del sociale”) come uno snodosenz’altro non sufficiente, ma comun-que assolutamente necessario di qua-

LEZIONI DALLA CRISI Elementi di una politica comunista

Ci diciamo spesso che la crisi ha confermatole nostre idee. Ma ciò è vero solo in parte. Haconfermato che il capitalismo, oltre ad essereiniquo, “non funziona”. Ma ci costringe a cam-biare o aggiornare molte delle nostre più radi-

cate convinzioni sul blocco sociale anticapitali-sta, e sullo spazio e gli obiettivi della sua azio-ne. In sintesi, si può dire che il modello matu-

rato a Porto Alegre e Genova agli inizi delnuovo secolo è ormai superato dai fatti: se ne

vogliamo custodire e tramandare le acquisizio-ni fondamentali, soprattutto quelle relative alla

democrazia ed alla molteplicità dei soggettidell’emancipazione, dobbiamo inscriverle in un

quadro concettuale del tutto nuovo.

di MIMMO PORCARO

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tuati alle lotte per il welfare, gestite dalnesso sindacato/partito/Stato. Questesono poi state integrate o sostituite dalotte che andavano oltre il welfare eoltre la figura centrale dello stato socia-le (il lavoratore stabile, maschio, adultoe sindacalizzato), ed erano gestite daassociazioni orientate a culture dettepostmaterialiste (femminismo,ambientalismo, diritti civili, pacifismo),ma comunque dotate di una solida tra-dizione culturale e passibili, pur nonsenza contrasti, di integrazione conl’ideologia della sinistra. Oggi siamo difronte a lotte senza il welfare, prive,cioè, degli usuali canali di espressionepolitica e di trasmissione istituzionale:lotte dagli obiettivi troppo ristretti otroppo generici, dall’ideologia incerta,aperte a diverse declinazioni politicheo impolitiche. E’ illusorio tentare diridurre l’ultimo, incerto “modello” aquelli precedenti. Per lungo tempo i tremodelli saranno compresenti e contra-stanti: potranno essere unificati soloda un modello superiore. Soprattutto, èun grave errore prendere le distanzedalle ultime lotte tacciandole di populi-smo: nelle attuali condizioni è quasiinevitabile che le nuove mobilitazioniassumano un carattere populista, efuggire il populismo significherebberifiutare di radicarsi nella realtà delleespressioni di massa. Bisogna starcidentro, comprenderle, distanziarsene,se necessario, solo dopo che si è fattodi tutto per trasformarle

1.2. Questioni di classe

Un ipotetico “fronte” dei lavoratoridovrebbe unificare figure notevolmen-te diverse.

Le principali linee di divisione cor-rono tra stabili e precari, qualificati edequalificati, uomini e donne, dipen-denti, semiautonomi e autonomi, auto-nomi che servono imprese e autonomiche servono consumatori individuali.Gli intrecci tra queste diverse divisionipossono dar luogo a numerose combi-nazioni. Tutti questi lavoratori hannodi certo un avversario in comune: tuttisono infatti soggetti ad un processo diproletarizzazione, gestito dall’insiemedel capitalismo italiano, che si traducenella perdita di garanzie per gli occupa-ti stabili, nella diminuzione delle pro-spettive dei precari, nella crescente sot-tomissione alle imprese committentidegli autonomi di seconda generazio-ne, nel rapido declassamento degli

cratico e popolare di questo interven-to. Nulla di serio si può fare senza lasostituzione dell’attuale intreccioputrescente fra Stato ed interessi priva-ti (nel quale naufragano anche moltigruppi della “società civile”) con ladistinzione tra uno Stato autorevole(capace di riprendere la propria funzio-ne di indirizzo e redistribuzione) e unasocietà indipendente (fatta di associa-zioni capaci di controllare, criticare eall’occorrenza sostituire i gruppi diri-genti dello Stato). Ma tutto questocomporta necessariamente l’espropria-zione (e comunque la drastica riduzio-ne del potere) di quei gruppi privati acui sono state svendute industrie ebanche pubbliche, e che saccheggianole amministrazioni centrali e periferi-che con la spregiudicata gestione diappalti e concessioni. Parlare di nuovapolitica economica senza parlare diquesto è illudere sé stessi e gli altri.Questa è la precondizione per un pro-gramma popolare che usi le risorsecosì ottenute per una politica program-mata di innovazione, di ricostruzionesociale ed ambientale, di sostegnoall’aggregazione delle piccole ed aldinamismo delle medie imprese e,anche per questa via, alla domanda dibeni di consumo. Solo un programmadel genere può unire i “piccoli” controi “grandi” e contemporaneamenteaffrontare i problemi fondamentali delPaese.

1.4. Sovranità popolare (e naziona-le) vs populismo

Un simile programma può essereattuato solo da un forte governo popo-lare. Per accumulare le forze necessariea costituire un tale governo è necessa-rio iniziare a superare fin da ora la divi-sione fra i diversi gruppi di lavoratori.Tali divisioni sono di ordine sia mate-riale che simbolico e riguardano essen-zialmente la questione fiscale, leforme di organizzazione e le forme diautorappresentazione ideologica.

Puntando tutto su una generica lottaall’evasione i lavoratori sindacalizzati equelli comunque “colti” appoggiano difatto il progetto del capitalismo“forte” che intende stringere il cappioattorno ai piccoli evasori nella consa-pevolezza che le grandi imprese inter-nazionalizzate possono facilmente gio-varsi dei meccanismi di elusione. Pursapendo che l’elusione fiscale dellegrandi imprese potrà essere ostacolatasolo dal loro passaggio nelle mani pub-

autonomi di prima generazione. Almomento, però, tutti costoro (salvopoche e fluttuanti eccezioni) sono pur-troppo alleati a questa o quella frazio-ne delle classi dominanti. Una parterilevante lavoratori sindacalizzati(soprattutto quelli pubblici) ed unaparte rilevante dei precari o autonomiad alta o media qualificazione (e, traquesti, soprattutto quelli addetti ai ser-vizi alle imprese, che hanno più diffi-coltà ad evadere il fisco) sono di fattoalleate alla parte “forte”, europeista emondialista del nostro capitalismo,nell’illusione che questa possa comun-que consentire, oggi o domani, unnuovo sviluppo. Gli altri, molti dipen-denti e precari dequalificati, disoccupa-ti, lavoratori autonomi “tradizionali”,sono alleati alla parte “debole” e sedi-cente “nazionale” o regionalista (quan-do non ne sono elemento subordinatointerno), perché più permeabili aldiscorso populista, più carenti di strut-ture di protezione, più propensiall’evasione fiscale.

Date queste differenze, la costruzio-ne di un blocco sociale che comprendatutte le figure del lavoro oggi subalter-no non può essere l’effetto di un pro-getto sindacale (anche se “one bigunion” capace di comprendere tutti èin futuro possibile) ma solo di un pro-getto politico di alto profilo che, par-tendo dal fatto che nessuna delle fra-zioni della classe dominante è in gradodi assicurare un futuro, si presentiespressamente come rottura dellediverse alleanze subalterne con la clas-se dominante e come efficace riduzio-ne del potere di queste ultime. Infatti,tutte le diverse proposte di uscita “asinistra” dalla crisi (beni comuni, red-dito di cittadinanza, rilancio delladomanda di beni di consumo, politicaindustriale e via elencando) non hannoalcun senso se si concepiscono e sipresentano come semplici alternativedi politica economica e non, piuttosto,come causa ed effetto di una trasfor-mazione dei rapporti sociali, di un’alleanza delle diverse frazioni di unaclasse contro le diverse frazioni dell’al-tra, al fine di ridurre il potere dei domi-nanti.

1.3. Espropriare gli espropriatori

Nessuno stabile sviluppo è possibilein Italia senza un pesante ritorno del-l’intervento pubblico nell’economia esenza un immediato controllo demo-

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bliche, bisogna sin da ora presentareprogrammi fiscali che concentrino lepolitiche di recupero sulle ricchezzepatrimoniali di ordine superiore (l’as-senza di uno straccio di imposta patri-moniale grida vendetta), mentreaumentano gli sgravi alle piccoleimprese (e soprattutto a quelle indivi-duali) e riducono le sanzioni contro lapiccola evasione. Questo è il perno diuna politica di riconquista di risorse daparte dei ceti popolari (fatta anche dicancellazione delle grandi opere, dellespese militari, della privatizzazione deibeni comuni) che serva ad unire questiceti, evitando con estrema cura dicostringere il piccolo evasore ad allear-si col grande.

Nell’emersione dei nuovi conflitti lapartita dell’egemonia si gioca, oltre chesulla questione dei programmi, sullacapacità di essere i primi a proporreforme di organizzazione efficace. Ilmodo in cui questo conflitti vengonoorganizzati oggi condizionerà inmaniera decisiva il modo in cui si svi-lupperanno domani, entrerà a far partedel DNA di un intero movimentopopolare. Vanno certamente tentatemodalità organizzative di tipo sindaca-le. Ma l’iniziale eterogeneità delle figu-re e degli obiettivi suggerisce piuttosto,come modello organizzativo di base, icomitati popolari contro la crisi. Talicomitati possono sorgere ex novo, opossono appoggiarsi a precedentistrutture sindacali e partitiche, madevono in ogni caso sia accoglierel’eterogeneità attraverso il massimoricorso alla democrazia interna, siasuperarla attraverso il mutualismo e lacostruzione di una ideologia unifican-te.

Tale ideologia non può esserel’ideologia classista a cui siamo abitua-ti, e nemmeno può nascere dall’inte-grazione tra classismo e associazioni-smo civile che è stata tentata dal movi-mento altermondialista, ma non èpenetrata nella grande massa dei cetisubalterni. Deve piuttosto essereun’ideologia popolare, dove “popolo”indica tutti coloro che lottano noncontro la libertà altrui, ma per la pro-pria libertà e dignità (Machiavelli), tutticoloro che rivendicano dignità e liber-tà non contro altri segmenti del popo-lo (come vorrebbe il populismo), masolo contro i potenti. “Popolo”, oggi,può raccogliere ed unire più di “clas-se”: perché non è solo la classe a mobi-

2.1. Multipolarismo

Dobbiamo abbandonare decisa-mente l’idea della “globalizzazione dalbasso”, ossia l’illusione che la globaliz-zazione possa essere democratizzata. Ilmovimento antagonista deve conti-nuare a costituirsi globalmente, ma lasua politica non può più essere globa-lista. Infatti la globalizzazione è essen-zialmente liberalizzazione completadei movimenti del capitale, e questacrea un continuo dumping sociale chedistrugge l’organizzazione dei lavora-tori e dei cittadini e dunque rendeimpossibile la democrazia. Volere laglobalizzazione democratica è comevolere il capitalismo democratico, ossiaqualcosa che era assai difficile ottenerenell’epoca del capitalismo nazionale edel patto socialdemocratico, e chediventa impossibile ottenere adesso,nell’epoca del capitalismo “assoluto” e“senza compromessi”, assoluto perchéglobalizzato.

L’unica strada per tentare la costru-zione di un ordine economico politicocooperativo e pacifico è il multipolari-smo, ossia la creazione di vaste regionieconomico-politiche che non elimini-no i flussi di capitale ma li sottoponga-no a vincoli e a contrattazioni di tipopolitico, rendendo così possibili al pro-prio interno scelte pro labour. E’ unavia irta di rischi: protezionismi, guerre(che peraltro sono il leit motiv dellaglobalizzazione). Ma è l’unica condi-zione che possa assicurare gli equilibrinecessari alla creazione di una monetacomune che non sia strumento del-l’egemonia di un polo (come avvienecol dollaro) ed alla costruzione di uneffettivo diritto internazionale(Ferrajoli) che non si limiti ad assicura-re il libero movimento del capitale e agiustificare tutte le più infami guerre.

Per ridurre i rischi e favorire le pos-sibilità positive del multipolarismo, ilmovimento antagonista, reso più fortedalla possibilità di crescere, in ciascunaregione, al riparo dalla violenza deiflussi di capitale incontrollati, deveperò continuare ad esprimere la pro-pria vocazione globale, ed anzi la deverendere più forte concretizzandola conla costruzione di una V Internazionale(Samir Amin), più vicina al pluralismodella I che al centralismo della III, macapace di darsi quegli obiettivi politiciunitari che il Forum Sociale Mondialenon vuole e non può darsi.

litarsi, perché molti segmenti crescentidella classe si concepiscono più comepopolo che come lavoratori organizza-ti, e soprattutto perché anche la mobi-litazione di classe, per porsi all’altezzadi uno scontro che ribalta la costituzio-ne formale e materiale del Paese, devepresentarsi come rivendicazione dellasovranità popolare. Non si tema diperdere, con questo spostamento lessi-cale, la capacità di nominare e contra-stare il capitalismo, anzi. In alcune fasistoriche, come nella seconda metà delXX secolo, lottare come classe signifi-cava immediatamente opporre un'altraeconomia politica all’economia politicadominante. In altre fasi, però, lottarecome classe può significare allearsi coipropri padroni, su base aziendale oregionale, contro altri padroni e altrisegmenti del proletariato: ed è anche acausa di questa tendenza subalterna delcomportamento di classe che Marx hapotuto affermare che, lottando perabolire il capitalismo, il proletariatoabolisce sé stesso in quanto classe.

Per lottare contro l o strapotere delcapitalismo odierno non si può faraffidamento solo sull’iniziativa di lavo-ratori strutturalmente indeboliti, e sidevono piuttosto mobilitare tutte lerisorse politiche, giuridiche ed istitu-zionali che hanno in passato arginato ilcapitalismo stesso. Il “riassunto ideolo-gico” dell’epoca attuale, la chiave peraggregare strati sempre più vasti di cit-tadini, deve essere quindi la lotta per lasovranità popolare.

E ciò implica immediatamente lalotta per la sovranità nazionale.Sovranità popolare non significa ditta-tura della maggioranza e rottura delloStato costituzionale di diritto (come, dinuovo, vorrebbe il populismo), ma sot-trazione del potere di decidere alle oli-garchie finanziarie (Ferrajoli).Sovranità nazionale non significa affat-to nazionalismo, ma difesa di uno spa-zio in cui sia possibile assumere deci-sioni democratiche e quindi ridiscutereliberamente il modo in cui si intendeessere partecipi di uno spazio sovrana-zionale. Ma poiché a parlar di nazionesubito si affacciano pericolosi equivo-ci, che vanno dal neofascismo allesciocchezze “rossobrune” e da questeai più immediatamente pericolosigoverni di unità nazionale per la sal-vezza della Patria e la dannazione deilavoratori, converrà, su questo punto,essere più precisi.

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2.2. Oltre l’Europa

L’Unione Europea, come progettorealmente unitario e unificante, è finita.Nel futuro avremo l’Europa “a duevelocità”, o l’esplosione dell’Unione.Ciò equivale a dire che i PIIGS saran-no condannati ad una lunga recessioneed alla definitiva integrazione subalter-na nelle economie “forti”, e che i citta-dini di tutto il continente saranno con-dannati a pagare un modello fondatosulle esportazioni. In queste condizio-ni l’ “altra Europa”, l’Europa “socia-le”, costruita “dal basso” è una puraillusione: è impedita dalla struttura isti-tuzionale dell’Unione, dalla culturadelle sue burocrazie, dall’orientamentodelle classi dominanti delle nazioni piùforti, dall’inesistenza di una realisticaalternativa socialdemocratica, dall’ine-sistenza di un efficace movimentopopolare continentale, reso ancor piùdifficile dalle prospettive di recessione.Dobbiamo dunque uscire dall’Europa?

No, o comunque non subito.Dobbiamo però uscire dall’ ”europei-smo senza condizioni” che ci accomu-na all’ideologia ed alla politica delle fra-zioni “forti” del capitalismo italiano.Queste frazioni hanno scelto decisa-mente l’Europa, costi quel che costi,essenzialmente perché essa consenteloro di operare, grazie alla coercizionedel “vincolo esterno”, quelle politicheantipopolari rese altrimenti impossibilidal loro storico difetto di egemonia: ilgoverno Monti è la massima espressio-ne di questa strategia. Anche noi abbia-mo scelto l’Europa, ragionevolmenteconvinti che un progetto di tipo socia-lista fosse possibile solo in un ambitosovranazionale.

La convinzione era giusta, ma l’am-bito scelto no: continuare cionono-stante ad insistere sull’ “altra Europa”equivale, in questa situazione, ad aderi-re all’ “europeismo senza condizioni”.Dobbiamo quindi puntare su una solu-zione nazionalista? No. Il nazionali-smo non è sempre e comunque unmale. Quando serve a reprimere lalotta di classe interna sviandola nellalotta contro presunti nemici esterni èun male. Ma quando la repressionedella lotta di classe avviene attraversouna particolare forma di internaziona-lizzazione, il nazionalismo può essere,momentaneamente, una parte dellarisposta: tutte le più importanti espe-rienze progressive di questi anni hannouna qualche componente nazionalista,

quindi non è detto che ogni passoindietro rispetto a quella forma sianecessariamente reazionario. Non èdetto che la globalizzazione e l’UnioneEuropea, astrattamente progressiverispetto alla nazione ed al nazionali-smo, siano progressive anche concreta-mente: ed in realtà mostrano di essereregressive. Lo spazio nazionale puòdunque momentaneamente tornare adessere progressivo, ma a due condizio-ni: 1) che sia definito a partire dagliinteressi popolari e 2) che si apraimmediatamente ad una forma di coo-perazione sovranazionale, costituendouna delle aree regionali dell’equilibriomultipolare.

Dobbiamo quindi prendere lemosse dagli interessi del blocco socialea cui ci riferiamo, e subito dopo trova-re il punto di intersezione fra questiinteressi ed i problemi oggettivi delPaese (quelli, per intenderci, che ogniclasse che voglia divenire egemonedeve, a suo modo, risolvere). Gli inte-ressi popolari si riassumono sostanzial-mente, oggi, nella riconquista delladignità del lavoro (nuova e stabileoccupazione, riconoscimento delruolo centrale del lavoro nel processoproduttivo), in un mutamento dellastruttura dei consumi che punti a sod-disfare i bisogni essenziali, in una tute-la generale dell’ambiente naturale esociale. I problemi oggettivi del Paesesi riassumono nella necessità di opera-re un salto verso l’economia dellaconoscenza e di inserirsi in uno spaziosovranazionale paritario che consentauna relativa sicurezza energetica, uninterscambio di lavoratori, merci ecapitali, una salvaguardia della pace.Ebbene, le classi attualmente domi-nanti non sono in grado di affrontareseriamente i problemi nazionali perchéi capitalisti che si sono appropriatidelle aziende e delle banche pubbliche(che erano ormai degenerate, ma costi-tuivano pur sempre un potenziale vola-no economico ed innovativo) preferi-scono l’arricchimento patrimonialeall’investimento produttivo, gestisconole imprese con capitali esigui, sufficien-ti a controllarle, ma non a svilupparle(fatte le debite proporzioni, il “nani-smo” industriale è malattia non solodelle piccole imprese, ma anche diquelle grandi), e perciò, quando inve-stono in produzione e non in specula-zione, preferiscono la facile via delsupersfruttamento del lavoro dell’ambiente e della ricchezza pubblica a

quando non indigenista-comunitarista(Venezuela, Colombia, in parte lo stes-so Brasile). Ma il nazionalismo non èuna risposta valida per l’Italia, sia per lacultura fortunatamente antisciovinistadel Paese sia, e soprattutto, per la suastruttura economica: ogni pur parzialepolitica nazionalista deve essere infatticompensata dall’esportazione di unaqualche risorsa peculiare del Paese,particolarmente richiesta dal mercatomondiale, come l’energia (Venezuela,Colombia) o i prodotti agricoli(Argentina), ma di tali risorse noisiamo privi. Che fare, dunque? Lanostra unica speranza, che peraltro siriallaccia a storiche tendenze del Paese,sta nella creazione di un nuovo spaziosovranazionale, centrato sul mediterra-neo, aperto alle dinamiche progressivedel nordafrica e del medioriente eponte verso l’Asia e la Cina. Uno spa-zio estremamente ricco di capitali, dilavoro, di energia, il cui sviluppo sareb-be anche condizione per la rinascita delnostro Mezzogiorno, e quindi delPaese intero. La costruzione di questospazio (che può avere diverse varianti –si vedano al proposito le tesi di BrunoAmoroso o di Luciano Vasapollo – eche deve essere iniziata da subito,anche dall’opposizione) deve esseregiocata in un primo momento all’inter-no delle dinamiche europee, come ele-mento che aumenti il nostro potere dinegoziazione, ma deve essere vista, inprospettiva non remota, come alterna-tiva all’Unione Europea ed alla suaderiva monetarista e recessiva.

2.3. Dignità del lavoro, dignità delPaese

Non dobbiamo, dunque, esserenazionalisti. Eppure dobbiamo reinse-rire nel nostro lessico la “nazione”come categoria economica, politica edideologica. Non la nazione come etnia,come deposito di una storia o comecomunità linguistica, ma la nazionecome spazio di diritti, come luogo dipossibile decisione democratica dicontro alla chiusura tecnocratico-capi-talistica degli spazi sovranazionali. Lanazione come punto di partenza di unapolitica e di una dimensione sovrana-zionale alternativa, e non come puntodi arrivo di una illusoria autarchia.

Come notava Gramsci, non è dettoche una forma storicamente superioredi Stato, più conforme all’evoluzioneeconomica mondiale, sia necessaria-mente positiva anche per i lavoratori, e

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quella più onerosa dell’innovazione edel rischio imprenditoriale. Inoltre,tutto ciò si traduce in una gracile ege-monia sociale, che cerca sostituti o nelvincolo esterno europeo, o nel lassi-smo fiscale, nelle immaginarie comuni-tà regionali, o in uno pseudonazionali-smo che si trasforma rapidamente inservilismo ad ogni seria crisi interna-zionale. Il governo Monti, divenutimomentaneamente inservibili innazionalismo berlusconiano ed ilregionalismo, esercita chiaramenteun’egemonia per vincolo esterno e neapprofitta per proseguire nella viamaestra del capitalismo italiano, libera-lizzando davvero solo il mercato dellavoro, i servizi pubblici e (meno) qual-che ordine professionale e qualche arearesiduale, lasciando per il resto sostan-zialmente intatte qualche le concentra-zioni di potere industriale e finanziario.Una via maestra che riproduce le con-dizioni che impediscono l’innovazione:le odiose tirate contro il “posto fisso”occultano il fatto che l’innovazionerichiede rapporti stabili tra lavoro edimpresa, “fidelizzazione” del lavorato-re come condizione di una lettura coe-rente del processo di lavoro, delle tra-sformazioni necessarie, della loroimplementazione. E’ solo un esempio,ma è il più importante: la dignità dellavoro è condizione della dignità delPaese perché l’innovazione è essenzial-mente effetto di un clima sociale real-mente cooperativo; l’innovazionesociale, insomma, è condizione dell’in-novazione tecnologica. Inoltre, la

realizzazione si intrecci con i conflittimondiali. Senza questa idea non saran-no possibili né programmi di fase néprogrammi immediati, e la stessa pro-spettiva popolare e nazionale si troveràsguarnita di fronte alle evoluzioni edalle precipitazioni della crisi.Dobbiamo avere, insomma, un chiaroobiettivo storico, ed organizzare lenostre forze e la nostra politica in rela-zione ad un tale obiettivo. Propongo,in conclusione, alcune prime riflessionisu questo punto.

3.1 Crisi, capitalismo di Stato,socialismo

Il nostro obiettivo storico deve tor-nare ad essere il comunismo. E poichéquest’ultimo può esistere solo comecombinazione concreta di produzionesociale e privata, di democrazia autor-ganizzata e rappresentativa, di societàautogovernata e di Stato costituzionaledi diritto, è al socialismo che dobbiamopuntare come forma effettiva di realiz-zazione della tendenza comunista. Difronte alla crisi non basta, infatti,rivendicare diritti, democrazia, politi-che economiche progressive. La crisinon dipende solo dalla finanza, maanche da una struttura proprietariadelle imprese; non deriva solo daldeficit di domanda “popolare”, maanche dalla diminuzione degli investi-menti industriali, sempre meno profit-tevoli, nonostante la continua com-pressione del lavoro, dato l’alto costodell’innovazione, della ricerca e dellacommercializzazione. Solo rastrellan-do la maggior massa possibile di ric-chezza sociale il capitalismo può uscireda quest’ultima, cruciale, difficoltà.L’ha fatto con l’intervento degli “inve-stitori istituzionali” (fondi pensione,ecc.), ma questi hanno piegato leimprese alla logica del ritorno imme-diato per gli azionisti, in spregio diqualunque logica produttiva. L’ha fattocon la creazione di capitale fittizio (di“denaro privato”) attraverso la finan-ziarizzazione, e si è visto come è anda-ta a finire. Ora lo fa, e lo farà sempre dipiù in futuro, ricorrendo direttamenteallo Stato, per creare moneta, per dre-nare ricchezza popolare (la c.d. crisi deldebito pubblico e le conseguenti misu-re recessive), per salvare e gestire leimprese che richiedono maggiore capi-tale e così orientare l’intera produzio-ne. Questo aperto ricorso allo Stato,dopo decenni di ricorso occulto allamano pubblica, è il riconoscimento de

sostituzione, nei settori strategici, del-l’intervento pubblico a quello privatonon è solo sostegno all’occupazione,ma superamento della scarsità di capi-tali che impedisce l’innovazione stessa.E infine, la dignità del lavoro coincidecon la dignità del Paese perché imponela ricerca di uno spazio sovranazionalecooperativo che superi l’attuale subal-ternità italiana.

E’ in tal modo che un programmapopolare diviene programma naziona-le (nazionale perché popolare –Gramsci), diviene nuova politica inter-nazionale e aumenta, anche per questavia, la propria capacità di egemoniaall’interno del Paese stesso.

Un programma popolare e naziona-le può radicarsi stabilmente all’internodi una determinata formazione territo-riale solo se prende le mosse daun’analisi delle classi e del loro rappor-to con le dinamiche internazionali. Edè quanto abbiamo cercato di tratteg-giare in queste note. Ma tutto ciò nonbasta. In situazioni di crisi epocale,come quella che stiamo vivendo, siconfrontano e si confronterannoancor di più, sulla scena globale, diver-si possibili modelli di soluzione dellacrisi stessa. Noi dobbiamo avere unnostro modello alternativo, per nonrestare prigionieri di quelli altrui.Dobbiamo insomma avere una piùprecisa e concreta idea di quel comuni-smo e di quel socialismo di cui sempreparliamo e di come la loro pur parziale

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facto della giustezza della previsione diMarx: ad un certo punto la produzionediviene talmente socializzata da nonpoter più essere gestita dal singolocapitale e da richiederne l’assunzionediretta da parte della società stessa.Solo che, in assenza di un movimentosocialista internazionale, questo rico-noscimento avviene in forma capitali-stica, e si presenta come un colossalespostamento di reddito dai cittadini alcapitale, come completo soggioga-mento dello Stato al capitale stesso, ocome creazione di una burocrazia sta-tale che assume in prima persona ilcompito della valorizzazione capitali-stica. Socialismo per i padroni, merca-to per i lavoratori! : questa è la parolad’ordine del nuovo capitalismo diStato.

A noi tocca invece iniziare e con-durre con decisione la battaglia per farsì che tutto ciò che funziona grazie allerisorse sociali venga proporzionalmen-te gestito dalla società stessa, si trasfor-mi in proprietà pubblica, sociale ecomune attraverso lo spossessamentodei capitalisti. Questo, e niente dimeno.

Non basta rivendicare i beni comu-ni se non si comprende che il capitalestesso è un bene comune in quantoprodotto sociale, ed è quindi giustoriappropriarsene. Non basta rivendica-re l’economia sociale e cooperativa, sequesta lascia intatte le grandi imprese ela loro logica. Non serve la retoricadella lotta sociale, l’autocelebrazionedelle capacità creative della coopera-zione, della moltitudine, del lavoro, seil lavoro vivo non si riappropria di quellavoro morto (macchinari, struttureorganizzative, denaro: ossia imprese ebanche), che pur essendo un suo pro-dotto, continua ad ergersi contro illavoro stesso come una potenza estra-nea ed ostile (Marx). Nessun erroresarebbe più grave, di fronte al ritornodel capitalismo di Stato, del reagire conla solita contrapposizione tra Stato esocietà, rifugiandosi nella seconda pertentare di “condizionare” il primo.

3.2 Importanza dello Stato

Lo Stato contemporaneo è un insie-me di istituzioni pubbliche e private,nazionali, sovranazionali e regionaliche, attraverso norme legali o regolepattizie stabilite tra organizzazioni pri-vate aventi funzioni pubbliche, assicu-

stere sull’autonomia del sociale,dimentica che l’idea stessa (e la pratica)di autonomia del sociale, nelle sueforme contemporanee, nasce propriocome effetto paradossale dell’espan-sione del Big Government: solo sulla basedella sicurezza e delle risorse fornitedallo Stato la società ha potuto in molticasi “far da sé”.

Ed è proprio perché le erogazionidel welfare erano da tempo garantite,tanto da sembrare ovvie e addirittura“naturali”, che la società ha potutopensare, ad un certo punto, di esseredel tutto autonoma dallo Stato e dipoter sussistere senza l’ausilio di politi-che pubbliche, dunque autoritative, diredistribuzione. Ma quando questepolitiche cessano, ed anzi assumonosegno inverso, si vede chiaramente chesenza una trasformazione diretta del-l’orientamento dello Stato le organiz-zazioni sociali sono condannate ad unsemplice ruolo di resistenza. Un ruolocomunque importantissimo, certo:non solo perché senza resistenza nonc’è controffensiva, ma perché è pursempre fuori dallo Stato, e quindi nelleautonome istituzioni sociali, che deve epuò costituirsi un soggetto antagoni-sta, ossia capace di elaborare ed inparte sperimentare rapporti socialialternativi. Fuori dallo Stato oggi (per-ché è Stato capitalistico) e domani(perché anche uno Stato socialista, purdemocratizzato, tenderebbe inevitabil-mente a riprodurre relazioni gerarchi-che): ma fuori dallo Stato per accumu-lare le forze ed il sapere necessari aconquistare e trasformare lo Stato stes-so, rimanendone pur sempre distinti. Ilnostro “comunismo di società” quindi,pur facendo sempre perno sull’autono-mia delle istituzioni di movimento,non può limitarsi ad essere un pensie-ro del “non-Stato” e deve divenireanche pensiero del nuovo Stato, ossiadella nuova combinazione di organi,pubblici e no, capaci di assicurare con-tinuità (Gramsci) alla nuova forma diriproduzione sociale.

3.3 Programmi per il tempo breve,medio e lungo

Posso ora riassumere il senso delmio ragionamento.

Come parte potenziale di una VInternazionale tutta da costruire, ilmovimento comunista italiano (e conesso tutta la residua sinistra) deve bat-

ra una relativa continuità alla riprodu-zione di determinati rapporti sociali.Questa dispersione, questo polimorfi-smo dello Stato ha fatto risorgere tra dinoi l’idea che lo Stato sia irrilevante, onon esista più, o (in singolare coinci-denza col liberismo radicale) che inogni caso non dovrebbe più esistere.La crisi, conviene ripeterlo, ha toltoogni credibilità a queste tesi. Nelle fasiascendenti si può delegare alle struttu-re sovranazionali una buona parte delledecisioni, anche per allontanare l’atten-zione dai luoghi fondamentali dellapolitica.

Ma quando il gioco si fa duro, lecose cambiano, e molto. Nel momentodecisivo della crisi stessa gli apparatipubblici nazionali sono tornati ad esse-re il perno dello Stato intero e dellastessa economia, in quanto primidepositari della possibilità di batteremoneta socialmente validata (mentre lagran massa della moneta “privata” –titoli, derivati, ecc. – mostrava d’esserecarta straccia o puro segno elettronico)e di drenare risorse spostandole mas-sicciamente da una classe all’altra.Senza il loro saldo potere sui governinazionali, pazientemente costruitomentre noi teorizzavamo l’irrilevanzadel “politico”, le stesse classi capitali-stiche transnazionali non sarebberoriuscite ad operare quel colossale spo-stamento di reddito dal lavoro al capi-tale (salvataggi bancari, emissioni dimoneta a debito ripagate con tagli alwelfare) che ha loro consentito disopravvivere e addirittura di costituireconcentrazioni di capitale più forti diquelle sono state concausa della crisi.Se ne deve dedurre che senza condi-zionare, influenzare, conquistare e tra-sformare il potere dei governi naziona-li (come premessa della presa e trasfor-mazione degli apparati statali in gene-rale) le classi subalterne resteranno persempre tali. Il che comporta (oltre allaconsapevolezza che si tratterebbecomunque solo di una parte della tra-sformazione necessaria) che la politicadelle classi subalterne non può consi-stere solo nella crescita progressivadella democrazia sociale e delle sueistituzioni autorganizzate, ma deve tor-nare ad essere anche azione coordinataper spostare, in congiunture determi-nate, i rapporti di forza tra le classi alfine di conquistare i diversi “pezzi” diStato di volta in volta decisivi, ed inparticolare i governi nazionali (Lenin).Chi, ciononostante, continua ad insi-

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tersi per un programma immediato diricostruzione di un blocco sociale anti-capitalista, per un programma interme-dio di governo popolare, e in prospet-tiva per un programma socialista. Nellacornice della rivendicazione dellasovranità popolare e nazionale, il pro-gramma immediato punta a romperel’alleanza subalterna delle diverse fra-zioni popolari con le diverse frazionicapitaliste. Lo fa proponendo unaforte redistribuzione del reddito dal-l’alto in basso, con particolare atten-zione a non colpire ulteriormente lecategorie intermedie in via di proleta-rizzazione, che sono la vera posta ingioco di una lotta per l’egemonia. Lo fainiziando a costruire autonome istitu-zioni di movimento in cui si unifichinoi diversi strati popolari. E proponendoun ripudio delle politiche europee, unnuovo spazio sovranazionale per ilPaese, un immediato “piano del lavo-ro” per la manutenzione del nostropaesaggio ambientale e sociale e per leconnesse innovazioni.

Il programma di un governo popo-lare, la cui possibilità dipende dallacreazione del blocco antagonista e dal-l’acutizzarsi della crisi d’egemonia delcapitalismo italiano ed europeo, iniziaa modificare la struttura della produ-zione, soprattutto grazie ad una parzia-le espropriazione delle grandi concen-trazioni capitaliste ed all’interventodiretto ed indiretto dello Stato, sotto-posto a tutte le forme possibili di con-trollo dal basso ed integrato all’eco-nomia sociale e cooperativa.

Sulla base di questa modifica trovale risorse per rilanciare innovazione,occupazione e domanda interna.Contemporaneamente lavora in con-creto per un nuovo spazio sovranazio-nale, negoziando duramente conl’Unione Europea e preparando un’al-ternativa ad essa. Un simile governopopolare non può far altro, in unaprima fase, che dar vita ad un capitali-smo di Stato democratico, che, pur raf-forzando la posizione dei cittadini edei lavoratori, non riuscirà a modifica-re che parzialmente il fine generaledelle imprese (ossia la spinta alla mas-sima valorizzazione possibile), laforma salariata del lavoro, la forte dif-fusione della proprietà privata ancheoltre i settori in cui essa è comunqueopportuna. Esso deve essere quindiconsiderato come un momento di

gruppi dirigenti, strumento di contra-sto alle inefficienze ed alle involuzionioligarchiche e burocratiche dello Statostesso; elaborazione statuale e socialedi una economia programmata cheorienti l’innovazione non verso la con-tinua creazione di beni di consumo, maverso tecnologie di gestione razionaledelle risorse, delle energie, dell’ambien-te sociale e naturale (tecnologie chediverranno in futuro decisive anche nelmercato mondiale) .

Si può certamente avere un’altraidea di socialismo ed un'altra idea disocietà. Ma chiunque voglia affrontarela crisi per quello che essa effettiva-mente è deve proporre comunque unavisione forte del futuro, l’idea di unanuova situazione per la quale lottare.Solo così un partito comunista potràtornare ad essere qualcosa di più delricettacolo di differenti famiglie politi-che, del vessillifero di qualche genero-so e confuso ideale, e potrà tornare adessere un’idea che diviene organizza-zione, e quindi senso comune.

accumulazione delle forze per un saltoulteriore, i cui tempi e le cui forme nonpossono essere predeterminati, ma chel’evolversi della crisi mondiale potreb-be rendere necessario, oltre che possi-bile. La sua evoluzione verso il sociali-smo potrà essere misurata, oltre chedalla capacità di espropriare gli espro-priatori aumentando, e non riducendo,democrazia e pluralismo, dalla rispostaalle seguenti sfide: riduzione della spin-ta alla massima valorizzazione del capi-tale, possibile solo in uno spazio multi-polare che freni la mobilità del capitalestesso; riduzione della dipendenza deicittadini dal lavoro salariato, attraversola riduzione del tempo di lavoro subal-terno, l’aumento del tempo di lavorosociale gratuito e la conseguente frui-zione gratuita di beni e servizi; svilup-po di un apparato amministrativo dia-logico, la cui azione sia basata sul prin-cipio del coinvolgimento obbligatoriodei soggetti sociali nella definizionedelle politiche che li riguardano; cresci-ta di istituzioni popolari, dotate dicapacità e potere di controllo sulleimprese e sullo Stato, ma necessaria-mente autonome dallo Stato in quantofonte continua di rinnovamento dei

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Giustamente ValentinoParlato si chiede: e l’equitàdov’è? Infatti perché, inve-

ce che sempre e soltanto all’art. 18,non si pensa a un piano per il lavoro aigiovani, a colpire la rendita fondiaria,che è il vero laccio che strangola ilpaese, come sostiene giustamentePaolo Berdini, o a elaborare un pro-gramma poliennale per la salvezzadella scuola e dell’università, il recupe-ro del territorio, la tutela dell’ambientee dei beni culturali e il trasporto pub-blico?

La risposta è evidente e quindilasciamo parlare i fatti, basta vederecosa succede ogni volta che piove oquando nevica.

Accanto a queste considerazionicredo che se ne possa proporre un’al-tra, ancora più di fondo. Il governoMonti sembra configurarsi sempre piùchiaramente sia come l’epilogo di unventennio, quello apertosi all’inizio dei90 del secolo scorso, con il crollo dellacosiddetta Prima Repubblica e lascomparsa e/o il suicidio dei partitiche ne erano stati i fondatori e i prota-gonisti, ma anche come l’apertura diuna fase che può essere nuova se, asinistra, ci sarà la capacità per coglierel’occasione di ripensare se stessa equindi di rinnovarsi radicalmente.

Io penso che quella che è stata chia-mata la (interminabile) transizione ita-liana si stia concludendo con un cla-moroso fallimento. Monti infatti è ilfiglio coerente di un triplice disastro:economico, politico e istituzionale.Voglio dire subito che le responsabilitàdi tale naufragio ricadono, prevalente-mente, ma non solo, sul blocco socialeche è stato fondamento e artefice diquesto processo e sui governi di cen-

me ad una sistematica occupazione ditutti gli spazi di potere possibili, haconsolidato e cementato intorno a séun sistema di alleanze, di cui hannofatto parte anche ceti popolari e setto-ri del mondo del lavoro, egemonizzatoe guidato dagli artefici di una econo-mia parassitaria e di rapina, spessoprosperata ai margini o apertamentefuori dalla legalità.

A dimostrazione di ciò si vedanoalmeno alcuni indizi che sommaria-mente richiamo. La crescita del debitopubblico durante i governi di centro-destra, testimonianza di elargizioni aceti, categorie e zone del paese fedeli aipartiti di quella maggioranza, dallaLombardia alla Sicilia; l’aumento del-l’evasione fiscale, triplicata negli ultimianni; la redistribuzione alla rovesciadelle risorse, con lo spostamento diquote notevoli di ricchezza nazionaledal mondo del lavoro dipendente edelle pensioni medio-basse a quellodelle classi alte e dei percettori di ren-dite.

Infine ricordo lo svilimento delleassemblee elettive, a tutti i livelli, con ilrisultato di ridurre a volte ilParlamento a qualcosa di ancora peg-giore della Camera dei Fasci e delleCorporazioni, determinando una crisidi sfiducia dell’elettorato verso gliorgani della rappresentanza e di conse-guenza una fuga di massa dalla politica,almeno quella che si incentra sui parti-ti tradizionali. Il tutto nel quadro diuna lotta senza quartiere a ogni cosache potesse anche solo alludere a undiverso tipo di sviluppo, lavoro, welfa-re, cultura, ambiente, ricerca scientifi-ca, tutti problemi che sembrano stare acuore al governo dei professori, e allaimpresentabile maggioranza che losostiene, solo per ridurre diritti e tute-

tro-destra che ne sono stati l’espressio-ne. Per questo motivo il nostro paese,in estrema intesi, ha perso più o menoventi anni; infatti, come in un tragicogioco dell’oca, oggi siamo tornati alpunto da cui eravamo partiti: primogoverno Amato del ’92-93. Le mano-vre economiche subite dal popolo ita-liano in tutto questo periodo nonhanno avuto altro risultato che tenerciinchiodati su quelle cifre iniziali: debi-to al 120% del PIL. I tagli, le tasse, isacrifici, quasi sempre a carico dellavoro dipendente e del reddito fisso,le liberalizzazioni ecc. ecc, non hannoavuto altro effetto, mentre l’opinionepubblica, almeno in molte sue parti, èstremata, sfiduciata e senza prospetti-ve.

Naturalmente, sottolineo, l’aggra-varsi di tutti nostri problemi e l’acuirsidi tutti i nostri antichi e recenti malipoggia in larghissima misura sulle spal-le dell’uomo di Arcore, che ha asse-condato, e a volte suscitato, le più scia-gurate e infauste pulsioni provenientidalla pancia del paese, come quellalegata alla infausta opzione federalista,malamente introdotta, anche perresponsabilità del centro-sinistra, inuna Costituzione che già prevedeva, secorrettamente applicata, o ancheaggiornata, ampie e più che sufficientiautonomie locali e regionali, senza tut-tavia cancellare, come si sta facendo, iprincipi di universalità e di eguaglianzadei diritti e dei doveri dei cittadini ita-liani.

Berlusconi dunque, attraverso lapreventiva, e non adeguatamente con-trastata, conquista di una egemoniasottoculturale, raggiunta attraversol’uso spregiudicato delle sue televisionie un progressivo imbarbarimento disettori ampi della nostra società, insie-

RIFONDARE LA POLITICA,ricostruire la sinistra

Il governo Monti con il passare del tempo esoprattutto con l’esame più attento dei provve-dimenti presi e di quelli annunciati, si sta rive-

lando per quello che effettivamente è, nono-stante la maggiore dignità individuale delle

persone che lo compongono rispetto al recen-te passato, e cioè un governo reazionario, che

fa del liberismo il suo credo e del sostegnoindiscriminato alle banche, e quindi alla

finanza, la sua pratica quotidiana.

di CORRADO MORGIA

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le e per mantenere lo statu quo. Questaimpresa, si fa per dire, che ha sprofon-dato l’Italia in un purgatorio apparen-temente senza fine, non sarebbe statapossibile in tutta la sua ampiezza senon fosse stata facilitata dalla debolez-za e dalla povertà ideale, culturale eprogrammatica della sinistra, con gradidiversi di responsabilità, ma senzaeccezioni, e anche dalle incertezze, avolte dal balbettio, dei vari governiAmato bis, Prodi e D’Alema, nonchéal contemporaneo smarrimento, senon alla scomparsa, di ambienti dellasocietà italiana, storicamente moltoimportanti, anche se spesso minoritari.Mi riferisco ai silenzi del cattolicesimosociale, della borghesia laica che untempo si riconosceva nel partitorepubblicano, e di larghi settori delmondo intellettuale, oggi quasi intimo-riti dalla prepotenza degli economistidi regime.

Naturalmente la scomparsa delPartito Socialista, provocata dallagestione Craxi, e l’autoaffondamentodel Partito Comunista, causato dallaincapacità di Occhetto, sono alla basedelle sconfitte di questi anni: il mondodel lavoro è stato lasciato senza ade-guata rappresentanza, il pensiero unicoliberista l’ha fatta ovunque da padrone,con differenze che sono state solo diintensità o di gradazione, conseguente-mente ciò che è rimasto di una sinistragloriosa e a volte persino maggioritariaè risultato subalterno o eteroditrettodal gruppo editoriale che fa capo all’in-gegner Debenedetti, che ha dettato lalinea, a volte anche in modo contrad-dittorio, senza quasi trovare ostacoli,almeno fintanto che la CGIL, unicovero baluardo a difesa di ciò che rima-ne della democrazia e dello stato socia-le nel nostro paese, sarà in grado direggere.

Certamente in questo quadroandrebbe meglio affrontato di comeposso fare io l’esame degli sviluppiconcreti della nostra economia, nelcontesto della congiuntura europea emondiale e della nuova divisione inter-nazionale del lavoro. Qui mi limiterò adire che in un paese come il nostro,caratterizzato da una cronica penuriadi capitali e da conseguente gracilitàdell’imprenditoria privata, tanto che dasempre le fasi più importanti dellanostra industrializzazione, o in altricasi ricostruzione, sono state accom-pagnate e favorite da un massiccio

totem del mercato ha provocato lo sfa-scio dei servizi pubblici, l’appropria-zione da parte di gruppi privati, pren-ditori più che imprenditori, di un patri-monio frutto di decenni di lavoro e diinvestimenti dello stato, cioè di tuttinoi, l’abbassamento della qualità diogni infrastruttura, dalle ferrovie alleautostrade, a favore di un profitto pri-vato famelico e irresponsabile.

Di fronte a tutto ciò si pretende dicontinuare con le vecchie ricette, men-tre il futuro si presenta non solo densodi incognite, ma gravido di pericoli, siasul versante dell’economia che su quel-lo della politica, con le forze di destra,dalla Lega di Bossi ai populismi di ognigenere, fino a tutti i tipi di neofasci-smo, che soffiano sul fuoco di un giu-stificato e diffuso malcontento con gliargomenti più classici della demagogiae dell’eversione. La buona politicaviceversa ha rinunciato a pensare, acostruire programmi, a indicare finali-tà, a lavorare per il progresso e per losviluppo, anche se conosco bene le dif-ficoltà legate al primo come al secondoconcetto, con l’unica, ma importante esignificativa eccezione, di movimentiche sorgono fuori dei partiti e che avolte riescono a cogliere anche sbocchiistituzionali e successi significativi.

Intanto i tre fallimenti di cui ho par-lato potranno pure essere momenta-

intervento statale, lo smantellamentodell’IRI e delle banche pubbliche e ilmodo con cui state fatte le privatizza-zioni hanno rappresentato scelte irre-sponsabili, se non addirittura criminali,che hanno finito con l’aggravare lanostra già pesante condizione.

Si è finito infatti, come si suole dire,con il gettare il bambino insieme conl’acqua sporca, smantellando quell’eco-nomia mista che era stata un vanto delnostro paese, con il bel risultato, comeci ha insegnato Luciano Gallino, cheoggi l’Italia è fuori, forse definitiva-mente, da molti settori strategici dellaproduzione.

L’intervento pubblico in economiaandava risanato, rinnovato e riqualifi-cato e non come invece è stato fatto,cancellato senza che a sostituirlo cifosse una politica industriale seria.Tanto più oggi questa carenza si notaquanto più la crisi morde con le conse-guenze della disoccupazione e delladeindustrializzazione. La verità è che lafuria antistatalista, provocata dallaubriacatura neoliberista, è stata nelnostro paese particolarmente virulen-ta, benché non abbia prodotto, in unventennio, quei miracolosi risultati chevenivano profetizzati, e che tuttoravengono periodicamente annunciati.Infatti non c’è concorrenza, non c’èavanzamento tecnologico, la produzio-ne ristagna, il lavoro diminuisce. Il

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neamente occultati dai provvedimentidi un governo autoproclamatosi “tec-nico” o di emergenza, ma sta di fattoche senza un grande, nuovo, massiccioimpegno di tipo civile l’Italia non usci-rà dalla stagnazione e dalla crisi in cui èda tempo precipitata. Occorre alloratornare a ragionare in grande di politi-ca, ma per far questo è necessario pre-liminarmente ricostruire le sedi classi-che, proprie dell’agire politico, se que-sto non vuol essere soltanto ammini-strazione o peggio puro avanzamentopersonale. E’ indispensabile dunque amio parere ricostruire i partiti, o qual-cosa di simile ad essi, e in primo luogoun vero, grande partito di sinistra, chesi mostri come tale sul piano program-matico, ideale, culturale e organizzati-vo. Attualmente il panorama è micidia-le. Si scorgono infatti quasi soltantomacerie, o tentativi generosi ma chenon sembrano destinati ad avere buonesito. Conseguentemente, appunto,l’appeal della politica è sceso nelnostro paese ai livelli più bassi, mentrela polemica contro la cosiddetta“casta” va al di là delle sue pur giusteragioni, i costi eccessivi della politicadenunciati già qualche tempo fa da unbel libro di Salvi e Villone, per diventa-re attacco qualunquistico alla rappre-sentanza e alla vita democratica ingenere.

La conseguenza è che coloro chedesiderano dedicarsi nonostante tuttoalla vita sociale cercano da un lato dispezzare le logiche burocratiche diapparati autoreferenziali, facendo sal-tare vecchi schemi, come è successo aMilano, con Pisapia, o a Napoli, conDe Magistris, oppure guardano allaCGIL, ai sindacati di base o a queimovimenti, che come quello sui benicomuni ha condotto alla vittoria nelreferendum sull’acqua e si sta organiz-zando in forme nuove di progettualità,di collegamento e di militanza. Nelvalutare positivamente queste iniziati-ve, che al di là dei risultati indicanocome nella società italiana vi siano tut-tora energie, idee, progetti che sioppongono al principio del mercatocome misura di tutte le cose, credopure che tutto questo fermentopotrebbe essere ancora più produttivoe foriero di risultati, se potesse interlo-quire, in totale autonomia, con unvero, grande partito politico, in grado asua volta di agire come forza di lotta edi governo.

qualcosa di più. La crisi del sistemapolitico italiano deve andare fino infondo per superare completamentel’attuale assetto, quello di un bipolari-smo coatto e di un parlamentarismoazzoppato. Questo se si voglionocogliere i due obiettivi, strettamenteuniti e collegati fra loro e che ho citatonel titolo di questo intervento: rifonda-re la politica e ricostruire la sinistra.altrimenti sono dietro l’angolo ulterio-ri possibili involuzioni autoritarie.,come quelle che l’innaturale connubioPdL-PD sembra prospettare ripropo-nendo leggi elettorali manifestamenteliberticide. Viceversa bisogna tornarealla Costituzione del 1948, ricostruirela sinistra e rifondare la politica, solocosì la democrazia italiana potrà rimet-tersi in cammino.

Certamente obiettivi del genere,dopo tutto quello che è successo inquesti anni, non saranno facili da rag-giungere, ma credo che valga almeno lapena di provarci. Mi pare che il tentati-vo di dar vita a un Movimento per ilPartito del Lavoro, quale quello che sista cercando di mettere in piedi, daqualche tempo in qua, da parte dellearee che fanno capo a Patta e a Salviall’interno della FdS, vada in questadirezione. Ma se l’ambizione è quellache ho cercato di ricordare, e che mipare implicitamente o esplicitamentepresente in tanti interventi e dichiara-zioni del gruppo dirigente delMovimento, dobbiamo liberare il ter-reno da ogni pretesa di autosufficienzae guardare in primo luogo, come èovvio, ai compagni di Rifondazione edei Comunisti Italiani, al movimento diVendola e a vari settori dell’IdV, maanche, e senza pregiudizi, all’internodello stesso PD.

In realtà questo partito, cui peraltroanche nelle sue difficoltà ed estremecontraddizioni, bisogna guardare conrispetto, in alcuni suoi aspetti sembranon essere mai nato. In molte zone delpaese infatti si presenta più come unasomma non sempre ben amalgamatadi gruppi dirigenti che come un parti-to, al punto che anche la dialetticainterna appare spesso più un dialogotra sordi che un confronto tra membridi una stessa comunità. Evidenti sonole incertezze programmatiche, tantopiù in questa fase di sostegno al gover-no Monti, ed anche le differenze tra leopzioni strategiche, determinando cosìuna situazione che a volte sembra di

Ritengo infatti che sia stata una scia-gura la scomparsa dei partiti storicidella sinistra, e in particolare del PCI, eanche se mi rendo perfettamenteconto che indietro non si torna, pensoche non si possa nemmeno più anda-re avanti in questo modo, con un siste-ma politico governato da una leggeelettorale truffaldina e con partiti chenon rappresentano più o rappresenta-no molto male la società, basta pensa-re al fatto che non c’è più nessuno, trai partiti presenti nell’attualeParlamento, che dica esplicitamente diportare avanti le esigenze, gli interessie i bisogni del mondo del lavoro.

Il passaggio dalla prima alla cosid-detta Seconda Repubblica, favorito daleggi elettorali sempre più antidemo-cratiche, in primo luogo per la sommadi premi di maggioranza, di soglie disbarramento e di maggioritario, hacondotto a questo bel risultato: l’assen-za dal Parlamento italiano di qualun-que organizzazione politica che esplici-tamente facesse riferimento a unaquasi bicentenaria tradizione socialista,quella di Nenni, De Martino eLombardi, o comunista, quella diGramsci, Togliatti e Berlinguer, eanche quella delle parti migliori dellanuova sinistra.

E non è solo questione di nomi, madi sostanza, non è male infatti ricorda-re che nomina sunt consequentiarerum. L’Italia, dopo essere stato ilpaese con il più forte partito comuni-sta d’occidente, un partito che sapevaunire, almeno nei suoi momentimigliori, una prospettiva anticapitalisti-ca con una pratica riformatrice, non hapiù nemmeno un partito che si collo-chi nel campo del socialismo europeo.I Democratici infatti non aderiscono alPSE. E non si sa dove si collocano. Ilcollasso della politica nel nostro paesederiva anche da qui: l’anomalia italianadi fronte a tutti i paesi dell’Europaoccidentale, dalla Germania allaFrancia, dal Regno Unito alla Spagna,consiste nel fatto che non c’è nemme-no un partito socialdemocratico ingrado di fare coalizioni di sinistra oalmeno di centro-sinistra, come succe-de ovunque, perché il bipartitismo per-fetto in Europa non esiste, e di dialo-gare con i movimenti e con il sindaca-to. La generosa ma faticosa esperienzadella Federazione della Sinistra, cosìcome il tentativo di SEL, dimostranoche per ricostruire la sinistra occorre

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paralisi. Questi contrasti sono emersicon tutta evidenza nel referendum sul-l’acqua, di cui i vertici del PD si sonoaccorti solo dopo la vittoria, e nellescorse elezioni amministrative, vediancora i casi di Milano e Napoli, maanche di Cagliari e prima ancora dellaregione Puglia. Penso che dobbiamofare in modo che queste divergenzeemergano sempre di più anche nelleprossime tornate elettorali amministra-tive, per questo dobbiamo incalzarequesto partito, sul piano programmati-co ma anche su quello degli uomini edelle donne da sostenere, senza accet-tare discriminazioni nei nostri con-fronti, ma anche cercando ogni occa-sione il raggiungimento di nuovi equi-libri e se occorre la divisione come neicasi che ho citato

Ciò significa puntare esplicitamentealla spaccatura del PD? A me pare chenon sarebbe male superare finalmente,anche con una nuova legge elettorale,tendenzialmente proporzionale, l’as-setto bipolare che si è voluto a tutti icosti imporre in Italia. Penso pertantoche sarebbero un bene, non solo ilritorno di un vero, grande partito disinistra di ispirazione socialista e rap-presentativo del mondo del lavoro, maanche la ricostruzione di un centrodemocratico, con cui poter eventual-mente sviluppare alleanze.

I moderati del PD si sentono attrat-ti da un centro siffatto? Ebbene neguadagnerebbe di molto la chiarezzadelle varie posizioni se coerentementesi muovessero per ricostituirlo. Si è cri-

di no, anzi a me pare che il sindacatodovrebbe essere protagonista di questoprocesso di ricostruzione della sinistra,nei modi e nelle forme che potrannosembrare più opportune, ma con l’oc-chio fisso all’obiettivo da raggiungere.Io credo che non ci sia più tempo daperdere, non possiamo preveder pas-saggi e modalità di questo processo,ma certamente fermi non si può staree, come suole dirsi, ognuno deve assu-mersi le proprie responsabilità. D’altrocanto le difficoltà del sindacato nell’in-dividuare un interlocutore sono statein molte occasioni più che evidenti,date le incertezze del PD, e questo nonha certo aiutato, e non aiuta, né unalotta di resistenza né, tanto meno, unapossibilità di controffensiva. Per que-sto mi pare che dalla CGIL nel suocomplesso debba venire una sollecita-zione alla rifondazione della politica ealla ricostruzione della sinistra, penaun avvento di una situazione ancorapeggiore di quella che stiamo vivendo.

Per sostenere questa mia sollecita-zione voglio concludere con una rifles-sione storica. A me pare che la situa-zione politica oggi in Italia sia simile,non identica sia chiaro, a quella inglesetra la fine dell’ottocento e quella delnovecento, allorché furono proprio gliesponenti di un già forte movimentosindacale a fondare, prima su scalalocale e poi su quella nazionale il movi-mento laburista, che ebbe il suo primobattesimo elettorale nelle elezionigenerali del 1906. Il resto poi è storianota. Fu il sindacato in altri termini adar vita al partito.

Con ciò non voglio dire, lo ripeto,che si possano percorrere le stessestrade percorse allora nel Regno Unito,voglio dire che in una situazione com-pletamente diversa da quella del secoloscorso i vecchi principi che hannocaratterizzato scelte storiche del sinda-cato italiano, per esempio l’autonomia,non possono essere più meccanica-mente applicati, vanno ripensati ancheperché oggi l’autonomia rischia didiventare l’isolamento del sindacato.Questo dovrebbe spingere tutti ariflettere e ad agire di conseguenza.Forse il tempo a disposizione non èmolto.

ticata la cosiddetta Prima Repubblicaper l’alto numero dei partiti che sareb-bero stati allora presenti in Parlamento,frutto avvelenato, si diceva, del pro-porzionale, ma il bipolarismo coatto,insieme al maggioritario, ne ha prodot-ti molti di più, frutto degenere dellacrisi della politica e della personazza-zione che, nel vuoto ideale e culturale,ha sostituito i grandi obiettivi e le gran-di speranze: la crisi delle ideologie,come la crisi della ragione, ha prodottomostri, da Razzi a Scilipoti!

Ben vengano dunque, se questo ser-virà a rimettere in moto una situazionestagnante, scomposizioni e ricomposi-zioni, l’importante è che la sinistratorni ad essere tale, forza autonoma,radicata socialmente, forte organizzati-vamente e culturalmente, quindi nonsubalterna o eterodiretta. Indietro nonsi torna, abbiamo detto, ma la ricostru-zione dei fondamenti di un agire poli-tico di sinistra non può non partire dalrinnovato riconoscimento delle con-traddizioni storiche dello sviluppocapitalistico: quella tra capitale e lavoroin primo luogo, cui si uniscono quellatra uomo e natura e quella di genere,contraddizioni che non possono piùessere semplicemente elencate, ma chevanno organicamente elaborate tantoin una riflessione teorica, quanto inuna elaborazione programmatica.

Il sindacato, mi riferisco ovviamen-te alla CGIL, l’unica vera grande orga-nizzazione classista di lavoratori oggiesistente in Italia, può stare a guardarein una situazione del genere? Io penso

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Per paradossale che possaapparire, alla luce del rappor-to simbiotico fra sindacato e

partito socialdemocratico in Svezia, èla prima volta che un esponente delprimo viene insediato alla guida delsecondo.

Il Partito della Sinistra ha tenuto agennaio il suo congresso, molto attesoda tutti coloro che, dopo l’ennesimorisultato elettorale deludente ottenutoda Lars Ohly (il predecessore diSjöstedt), ritenevano urgente una rifor-mulazione della linea del partito, chedoveva necessariamente passare attra-verso l’elezione di un nuovo leader.

Fondata nel 1917 come PartitoSocialdemocratico di Sinistra (SKV), inseguito a una scissione dal SAP decisadai dirigenti dell’organizzazione giova-nile del partito (su tutti Zeth Höglund)in risposta alla deriva “ministeriale” deicompagni più anziani, la nuova orga-nizzazione assume nel 1921 il nome diPartito Comunista (SKP), aderendoalla III Internazionale. Nel 1924 siverificò una nuova scissione (fu pro-prio la corrente di Höglund ad andar-sene, facendo ritorno al SAP), sul ter-reno del rapporto con Mosca. Nel1929 un’ulteriore scissione portò il lea-der Karl Kilbom a fondare il partitosocialista (SP), su posizioni antistalini-ste.

Nel 1964 viene eletto presidente (lamassima carica partitica, in Svezia)Carl-Henrik Hermansson, che ancoraoggi partecipa, dall’alto dei suoi 95anni, all’attività del Centrum för marxi-stiska samhällsstudier (Centro marxista

cia un discorso che suscita grande scal-pore: sostiene infatti che le stessenorme e gli stessi modelli di dominiomaschile si ritrovano tantonell’Afghanistan dei talebani quantonella modernissima e civilissimaSvezia.

A costarle il posto tuttavia non èquesta uscita (certo non apprezzata inun paese dove femminismo e political-ly correct sono indissolubilmenteintrecciati nell’auto-rappresentazionenazionale), bensì uno “scandaletto”,secondo i parametri italiani, che lainduce a lasciare la sua carica nel 2003.L’anno dopo esce dal partito, e lo fasbattendo la porta: da allora non haperso occasione per lanciare dardiavvelenati contro il VP; lo ha fattoanche recentemente, in occasione del-l’elezione di Sjöstedt come presidente,e di Aron Etzler come segretario, ossianumero due. Due uomini al top, nessu-na donna: segno inequivocabile, secon-do Schyman, dell’inattendibilità delPartito della Sinistra come espressionedelle battaglie femministe. Peraltro ilmovimento fondato da Schyman nel2004, Iniziativa Femminista, ha mietu-to consensi davvero esigui: 0.68% nelleelezioni politiche del 2006, 2.2% nelleelezioni per il Parlamento Europeo e dinuovo giù allo 0.4% nelle ultime politi-che (2010).

Dopo la breve parentesi di UllaHoffmann, nel 2004 diventa presiden-te Lars Ohly, che negli otto anni in cuiricoprirà la carica dovrà fronteggiareripetuti attacchi, da parte dei mediaborghesi, sulla continuità del suo parti-to con quella che viene presentata

per lo studio della società), da lui fon-dato. Durante gli undici anni della sualeadership il partito compie un rinno-vamento decisivo, per un verso rece-pendo i fermenti antiautoritari e fem-ministi della “nuova sinistra”, che inSvezia si coagula a partire dal 1965, perun altro verso cominciando a prenderele distanze dall’URSS (senza tuttaviarinnegare l’ideologia comunista). Nel1967 la denominazione diventaComunisti del Partito di Sinistra(VPK); ogni riferimento al comunismoviene infine abbandonato (almeno nelnome) nel 1990: rimane solo Partito diSinistra.

Nel 1993 si apre la lunga era diGudrun Schyman, prima donna a rico-prire la massima carica nell’organizza-zione: è la vittoria dell’ala dei “rinnova-tori”, che vogliono liquidare definitiva-mente ogni filiazione dal comunismo.Lo scontro con i “tradizionalisti”(l’una e l’altra etichette mediatiche,ovviamente) si fa aspro; gli elettoriperò premiano il nuovo corso diSchyman, con il 6.2% dei voti nel 1994(dal 4.5% del 1991) e addirittura unostorico 12% nel 1998 (per poi ridiscen-dere all’8.3% nel 2002, un risultato pursempre invidiabile alla luce dell’oggi).

Personalità brillante, e insiemeingombrante (viene accusata di pensa-re più alla sua immagine che non all’at-tività concreta del partito), Schymanriesce a consolidare il femminismocome asse portante dell’identità delVP, che infatti da allora si presentacome un partito “socialista e femmini-sta” (e in terza battuta ecologista). Nelcongresso del 2002 Schyman pronun-

SVEZIA: UNA NUOVA FASE DEL PARTITODELLA SINISTRAE per i socialdemocratici?

Nelle prime settimane del 2012 la sinistra sve-dese ha imboccato una fase di ridefinizione,benché naturalmente sia ancora presto per

dire se si tratta di un’operazione strategica omeramente tattica. Tanto il Partito della

Sinistra (VP) quanto i socialdemocratici (SAP)hanno infatti eletto nuovi leader; in entrambi i

casi, ad assumere il timone sono stati ex ope-rai, rispettivamente Jonas Sjöstedt (1964), con

un passato di metalmeccanico alla Volvo, poieuroparlamentare, e Stefan Löfven (1957),

che, dopo aver fatto per anni il saldatore, hascalato la piramide sindacale fino a diventare

(nel 2006) il segretario generale dei metalmeccanici (IF Metall).

di MONICA QUIRICO

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come un’ideologia responsabile dimilioni di morti; si tenga a mente che ilgoverno di centro-destra in carica dal2006 darà impulso a una storiografiamolto “a tesi”, dedita cioè, nell’ambitodi una generale denuncia degli orroriinsiti nell’intolleranza, a deploraresoprattutto i crimini del comunismostalinista.

Per il resto, se Schyman era statacapace di attirare nuovi gruppi di elet-tori, non così si può dire di Ohly: i votiscendono al 5.9% nel 2006 (-2.4%) edarretrano ulteriormente nel 2010(5.6%). Indubbiamente il Partito dellaSinistra risente, in queste ultime duetornate elettorali, della sconfitta deisocialdemocratici, cui ha sempre forni-to, nei momenti decisivi (anche quellipiù controversi), i voti parlamentarinecessari: pur rifiutando la formuladell’alleanza di governo, ha sorretto gliesecutivi socialdemocratici di minoran-za che si sono succeduti dal 1970 inpoi, compresi quelli degli anniNovanta e Duemila, certo non estraneialla svolta (neo)liberale del riformismoeuropeo.

Insomma, comunismo a parole,supporto a lla socialdemocrazia (sem-pre più a destra) nei fatti. Una posizio-ne ambigua (né partito di opposizionené partito di governo), che ha finitoper minare la credibilità del VP. Einfatti alle elezioni del 2010 il partito siè presentato ex-ante insieme con isocialdemocratici e i verdi, ma il per-corso è stato molto tortuoso. In unprimo tempo infatti l’allora leader delSAP, Mona Sahlin, ha cercato di sba-razzarsi dell’alleato (post)comunista,ma ha dovuto fare marcia indietro per-ché a gran parte degli elettori socialde-mocratici operai non andava giù chedall’alleanza fosse escluso il Partitodella Sinistra (e non piuttosto i Verdi,che in fatto di politica economica emercato del lavoro hanno una posizio-ne più vicina al centro-destra che nonalla sinistra).

Dopo la sconfitta (definita storicaperché ha segnato la forse definitiva“normalizzazione” elettorale, conpoco più del 30% dei voti, del partitoche a lungo ha rappresentato la social-democrazia nel mondo), si sono peròscatenate le ire di chi non ha mai dige-rito che il SAP non si sia presentatoalle urne da solo; l’alleanza di governo,insomma, è stata considerata come un

di quanto accade in Italia, in un tracol-lo di consensi (fino a toccare il 25%delle intenzioni di voto), con un gros-so travaso, soprattutto nelle regionisettentrionali del paese (tradizional-mente “rosse”), a favore del rinnovatoPartito della Sinistra di Sjöstedt.

Che cosa potrà fare il successore diJuholt, Stefan Löfven, criticato perchépoco “femminista” (il che, non saràsfuggito, costituisce un crimine piutto-sto grave nell’arena pubblica nordeu-ropea) e disposto ad accettare, comesegretario generale dei metalmeccanici,accordi al ribasso (per salvare posti dilavoro, si difende l’interessato)? E checosa ci si può attendere da Sjöstedt,rispetto alla sorte di un partito sclero-tizzato da tempo (Ohly ha semprebloccato sul nascere un autenticodibattito interno) nella difesa di unsocialismo che sembra la fotocopia deiprogrammi socialdemocratici deglianni Cinquanta?

Cominciamo dai socialdemocratici.L’elezione di Löfven (che, così comequella di Juholt, è giunta inattesa: nonera uno dei papabili) presenta dueaspetti positivi: venendo dal sindacato,il nuovo leader non è compromessocon la gestione tecnocratica e neolibe-rale del partito, che ha provocato, dallametà degli anni Novanta, un progressi-vo distacco dell’elettorato. Per giunta,potrebbe ricucire almeno in parte lostrappo fra partito e sindacato, intesoquest’ultimo non solo come il suo esta-blishment (che è supinamente fedele alpartito, da cui in cambio è stato margi-nalizzato), ma come movimento deilavoratori. Per inciso, il dubbio che lascelta di un dirigente del sindacato siastata una reazione all’elezione diSjöstedt alla presidenza del Partitodella Sinistra è assai fondato.

Quanto alla linea programmatica,tuttavia, sarebbe azzardato attendersida Löfven un ripensamento/rinnova-mento degno di nota: espressione diuna burocrazia sindacale che ha man-tenuto un’impostazione “produttivi-sta”, non sembra la persona giusta perriformulare quel possibile punto diintersezione fra socialismo e ambienta-lismo che viene additato dalla sinistradel partito come la grande occasionemancata della socialdemocrazia svede-se: che continua infatti a ruotare intor-no al paradigma della crescita (anche secome conditio sine qua non della sicu-

annacquamento dell’identità socialde-mocratica, una scelta rinunciataria.

La “commissione crisi” insediata dalSAP per diagnosticare le cause dellasconfitta e suggerire una terapia ade-guata, ha indicato nella trasformazionedei socialdemocratici da partito deimovimenti sociali a partito di profes-sionisti della politica uno dei fattorideterminanti del declino. Che rispostaè stata data? L’elezione, nel marzo2011, di un nuovo leader, HåkanJuholt, salutata (da alcuni) come latanto attesa svolta a sinistra del partito,al punto che il quotidiano liberaleDagens Nyheter ha commentato consarcasmo come i socialdemocratici diJuholt e il Partito della Sinistra di Ohlysiano ormai indistinguibili.

Quella che sembrava l’inizio di unanuova fase si è tuttavia trasformata inuna sorta di farsa. Juholt, parlamentaredi lunga esperienza ma sconosciuto alivello nazionale, è stato oggetto diun’aggressione mediatica ai limiti dellostalking; prima per i suoi baffi, poi per imodi naive, e ancora per la sua inespe-rienza, ma in realtà perché si temevapotesse spostare il partito socialdemo-cratico su posizioni troppo… sociali-ste.

D’altra parte, Juholt ci ha messo delsuo: non ha consultato il gruppo parla-mentare prima della presentazione delcontro-budget autunnale, da cui halasciato fuori la battaglia sull’ammon-tare dell’indennità di disoccupazione,facendo così infuriare sia i suoi parla-mentari, sia il sindacato; ha accusato ilcentro-destra di alimentare con la suapolitica quell’ostilità verso gli stranieriche premia il partito xenofobo deiDemocratici di Svezia (entrato inParlamento nel 2010) – e francamentedi tutte le accuse che si possono muo-vere al governo di Reinfeldt, questa èuna delle più improbabili. Dulcis infundo, si è ritrovato coinvolto in uno“scandaletto” (sempre secondo i crite-ri nostrani) relativo ai rimborsi per l’af-fitto di un’abitazione. Risultato: Juholtsi è dimesso nel dicembre 2012, aneanche un anno dalla sua nomina;una meteora, nella storia di un partito icui leader hanno mediamente avutouna longevità politica con pochi equi-valenti nelle democrazie occidentali.La catastrofe mediatica si è tradotta, inun paese in cui i sondaggi sembranocondizionare la vita politica non meno

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rezza sociale), senza riuscire a immagi-nare un’economia alternativa. Certo,Löfven potrebbe riconquistare votioperai (ma proprio per questo, ammo-nisce qualcuno, faticare ad attrarre ivoti della classe media dei grandi cen-tri urbani).

Dovrà però fare i conti con il Partitodella Sinistra di Sjöstedt, credibilecome partito dei lavoratori e nello stes-so tempo, per impulso del nuovo lea-der, intenzionato a rivolgersi tutti colo-ro (non solo operai) che risultano col-piti dalla politica del centro-destra.Spiega Sjöstedt: non possiamo essereun “museo politico”, un partito chedice no e basta, che non osa sperimen-tare e si rifugia nell’alleanza rosso-verde (quella con socialdemocratici everdi). Oltre a insistere sul femmini-smo, il nuovo leader indica nella politi-ca per l’ambiente la questione decisivaper il suo partito, perché l’uguaglianzae il socialismo democratico non posso-no più sottrarsi a questa sfida.

Ha scritto nel 2010 Göran Greider(l’influente poeta e giornalista cherivendica la componente prettamente

Quando si ascolta la sua voce da unaradio

è un’altra epoca, un’epoca passata.Ma quest’altra epocaha la forza di irrompere nella mia, di

epocacosì che questa si fa estranea,così che noi possiamo vederla più

chiaramente.[…]Olof Palme non capirebbe questo

mondoe capirebbe tuttavia questo:l’arroganza del capitalismo globale.E la nuova arroganza della classe da cui egli stesso veniva.

Fraterni auguri a Jonas Sjöstedt, perla sfida che lo attende, fra Palme e ilfuturo.

socialista del movimento socialdemo-cratico svedese ) che nel partito diSjöstedt (all’epoca già indicato da molticome successore di Ohly) vedel’espressione più convincente, nellaSvezia di oggi, di quel socialismodemocratico così ben rappresentato daPalme, anche se poi aggiunge: se Palmefosse vivo, non voterebbe il VP perchéquello che gli stava a cuore era un par-tito di massa, non un’organizzazionepolitica ai margini (nel bene e nelmale).

Sembra di assistere a un curiososcambio di parti: il SAP che rincorremodernizzazione e competitività (idogmi del centro-destra), ripetendo alcontempo come un mantra “difendia-mo il welfare state pubblico” (cheperaltro ha contribuito a ridimensiona-re), e il VP che di fatto si pone comel’erede della forma più alta di socialde-mocrazia, pur tentando di aggiornarlaall’emergenza ambientale.

Ancora fermi a Palme, potrebbechiedersi il lettore malizioso?Rispondo con i versi che gli dedicaGreider:

Jonas Sjöstedt

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Attualmente in India ci sonomilioni di piccoli commer-cianti e centinaia di super-

mercati e ipermercati di proprietà fon-damentalmente indiana. Il settorecommerciale “organizzato”, cioè isupermercati e gli ipermercati, è anco-ra piccolo. Meno del 10% dei consu-matori si serve in negozi medio-grandi,principalmente nelle grandi città. Giàoggi giganti come Metro AG,Carrefour, Walmart operano nel paesetramite permessi per il commercioall’ingrosso o licenze esclusive conpartner indiani. Alternativamente, altrihanno “indianizzato” le proprie strut-ture manifatturiere e quindi sono potu-ti entrare nel commercio come impre-se indiane. La proposta di aumentare lequote di investimento estero nel setto-re vorrebbe dire trasmettere un con-trollo maggioritario a partner stranieriinvece che a investitori indiani.

L’India, facendo parte del TrattatoGenerale sui Servizi nel Commerciodell’Organizzazione Mondiale delCommercio, ha già implementato varieliberalizzazioni nel settore. Dal 1997 ilcapitale estero può entrare fino al100% di proprietà nel commercioall’ingrosso (prima tramite autorizza-zione del governo, e liberamente dal2006). Sempre nel 2006 è stato autoriz-zato un massimo di 51% di capitaleestero per negozi mono-marca.

La proposta di liberalizzare il com-mercio “pluri-marca”, quindi al detta-glio, è supportata da varie parti, tra cuiil governo, le principali organizzazionipadronali, come la Confederation ofIndian Industry (CII) e la Federation

livello mondiale di frutta e verdura, maha anche un alto margine di sprechipost-raccolta) e migliorerebbe la distri-buzione del reddito contadino, appun-to togliendo di mezzo i margini dei“middle-men”. Allo stesso tempo,questo sistema abbasserebbe i prezziper i consumatori, quindi attenuerebbel’inflazione altissima (circa 8% per iprodotti alimentari) che caratterizza ilpaese. Infine, si creerebbero posti dilavoro in più.

La seconda posizione, direttamenteopposta alla prima, spiega che nonsolo i benefici della liberalizzazionesarebbero minimi, ma che gli effettinegativi sarebbero gravi. In primoluogo, i margini dei “middle-men”sicuramente non diminuirebbero, maprobabilmente aumenterebbero, anchese le figure sarebbero diverse. Comedimostrato dall’esperienza di altripaesi, i margini dei “middle-men”attuali sarebbero rimpiazzati da quellidei vari controllori, agenzie, mediatori,consulenti, ed altre figure più o menoprofessionali nella catena commerciale.La distribuzione del reddito quindinon si “razionalizzerebbe” in modo daessere più transparente.

Riguardo le infrastrutture, il gover-no promette che la maggior parte degliinvestimenti andranno verso il miglio-ramento dei sistemi nelle catena dilavoro, contenimento e trasporto pergli alimentari e non solamente nellavendita al dettaglio. La definizione diinvestimenti in questi processi puòcoinvolgere “investimenti” pagati fuoridall’India a compagnie e managementesteri, e le infrastrutture saranno pro-

of Indian Chambers of Commerceand Industry (FICCI), sia pure a certecondizioni, le grande imprese e, ovvia-mente, le grandi marche estere ed irelativi governi (particolarmenteWalmart e il governo statunitense).Contro ci sono il maggior partitonazionalista di opposizione, il BJP (cheperò nel suo manifesto del 2004 pro-metteva di attuare tale riforma), i parti-ti di sinistra, tra cui quelli nella coali-zione di governo, varie organizzazioninon-governative, e le organizzazioniche rappresentano gli interessi di gros-sisti e commercianti medio-piccoli.

Ci sono tre principali posizioniriguardo alla proposta. La prima, delgoverno, afferma che incrementare lapercentuale di investimenti esteri nelsettore “multi-branding” costituisceuna opportunità perché beneficerà sia icontadini che i consumatori. Sarebbeanche un modo per creare posti dilavoro. In primo luogo, gli investimen-ti esteri cancellerebbero i marginipagati ai “middle-men”, che nei sistemicommerciali caotici attuali organizza-no gli scambi dei prodotti agricoli tracontadini e grossisti trattenendo per ségrossi guadagni. Gli investimenti esterifaciliterebbero lo sviluppo di sistemilogistici di ammasso e trasporto deiprodotti direttamente dagli agricoltoriai consumatori. Questi investimentisarebbero particolarmente necessarinello sviluppo di infrastrutture nei vil-laggi utilizzabili nella produzione, nellostoccaggio e nel trasporto delle mercimerci, come le catene del freddo, cheora sono limitatissime. Questo dimi-nuirebbe gli sprechi di prodotti agrico-li (l’India è il secondo produttore a

INDIA:la liberalizzazione della distribuzione commerciale

L’iniziativa del governo indiano di avanzare leliberalizzazioni nel settore della distribuzione

commerciale è stata occasione di interessantidibattiti. Poche volte come in questo caso è

esistita una così netta manifestazione deidiversi gruppi di interesse. L’iniziativa, la cui

legiferazione risulta adesso sospesa perqualche mese, propone l’apertura di negozi

multi-marca (supermercati e ipermercati) conun 51% di capitale estero. Questo tipo di

liberalizzazione già esiste in altri grandi paesiin via di sviluppo come il Brasile,

la Cina, l’Indonesia.

di NATALIE GUPTA

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babilmente solo una piccola parte degliinvestimenti, anche perché questoaspetto del settore è già stato liberaliz-zato da anni, benché con poco succes-so.

In secondo luogo, sia i grossisti sia ipiccoli commercianti o kirana (circa 13millioni), sia gli agricoltori più piccoli emarginali, sarebbero negativamentecolpiti. I primi e i secondi perderebbe-ro quote di mercato, e quindi anchetanti posti di lavoro sarebbero persi. Igrossisti perderebbero i loro clienti (ipiccoli commercianti) ed i piccoli com-mercianti non riuscirebbero a compe-tere a livello di prezzi al dettaglio. Perdi più gli agricoltori avrebbero pochesperanze di poter vendere i loro pro-dotti a prezzi di mercato, visto il pote-re dei grandi supermercati ed ipermer-cati. La “corporatizzazione” del setto-re porterebbe le grande multinazionaliad un livello di potere nel mercato chenuocerebbe il paese sia a livello dell’oc-cupazione (visto che il piccolo com-mercio insieme al settore edile assorbela grande maggioranza dei migrantidalle aree rurali) sia a livello della distri-buzione del reddito. Un esempio alriguardo è il fatto che mentre il settoredel commercio in India è grande quan-to quello statunitense in termini di red-dito, in India i posti di lavoro sonocirca 44 milioni, mentre negli StatiUniti sono poco più di 2 milioni.

Per di più la stragrande maggioran-za dei consumatori comunque nonavrebbe la necessità di comperare daisupermercati, visto che i soldi in casa

ticolarmente interessanti. Il governoha incluso nella proposta di legge varieclausule, affermando il diritto di primoapprovvigionamento dal lato del siste-ma di distribuzione pubblico. Uno deicontenuti della proposta è di assicurareche almeno 30% dei prodotti sia com-perato da piccoli o medi commerciantiindiani. Le clausole sono però pococonvincenti. Le regole del commerciointernazionale proibiscono la protezio-ne dei settore domestici in vari modi. Igoverni dunque non possono dettareregole riguardanti i luoghi nei quali igrandi supermercati devono compera-re le loro merci. La grande preoccupa-zione in India è quindi che parta unflusso di prodotti provenienti da altripaesi, come la Cina, nell’ambito agro-alimentare.

Un ultimo dato interessante è ancheil fatto che nonostante la grande oppo-sizione che incontra la liberalizzazioneandrà avanti, se pure con qualche mesedi ritardo. D’altra parte si tratta diun’iniziativa di liberalizzazione tra letante, molte della quali passano conpochissima discussione. Già l’iniziativadi permettere il 100% di investimentiesteri nel “single retail brand” (vediIKEA o GAP) è passata con pocaopposizione. Altre iniziative riguarda-no l’incremento degli investimentidiretti esteri nel settore delle assicura-zioni (dal 26% al 49%) e nell’aviazionecivile e la regolazione dei fondi pensio-ni, che metterà in mano privata i fondidel governo. Quella per i multi-brandsarà ripresentata al parlamento dopo leelezioni regionali, che si terranno allafine di marzo 2012. La cosa preoccu-pante è il fatto che il dibattito è statocondotto sulla base di ideologismiinvece di analisi precise. Il governo ècollocato in questo dibattito come ilpromotore degli interessi dei grandiinvestitori a scapito dell’India, veloce-mente svenduta a favore dei grandipoteri capitalistici. Le forze contrariesono viste, a loro volta, come anti-pro-gressiste, che vogliono difendere gliinteressi dei piccoli commercianti con-tro quelli dei giovani e dei consumato-ri. L’analisi dell’impatto della concen-trazione capitalistica dei sistemi didistribuzione e di commercio degliagro-alimentari sulla condizione socia-le in altri paesi analoghi all’India è stataignorata, così come l’insostenibilitàeconomica e sociale della monopoliza-zione del commercio degli alimentarinel nord del mondo.

non bastano per comperare per più diuno o due giorni di consumo e tantis-simi non hanno veicoli propri. I picco-li commercianti poi danno un servizioche i grandi supermercati non danno,ed il cambiamento che ne verrebbefuori non sarebbe in positivo. I piccolicommercianti sono nelle vicinanze equindi importanti per le persone chenon hanno un veicolo o che sonoanziane e non si possono muovere. Ipiccoli commercianti sono anche radi-cati nella comunità, e quindi i loro pro-dotti controllati, e comunementedanno credito ai consumatori che nonhanno i soldi disponibile nell’immedia-to. L’India nel suo insieme non habisogno, almeno per ora, dei grandisupermercati e ipermercati. La fasciasociale che ne beneficerebbe è ancoramolto piccola.

Esiste anche una terza posizione,che accetta il principio della liberalizza-zione, ma spiega che questa deve esse-re implementata sotto condizionidiverse da quelle attuali. Il potere di cuidisporrebbero i grandi investitori este-ri sarebbe, nelle condizioni attuali,devastante per tantissimi commercian-ti. Prima di liberalizzare bisognerebbecercare di migliorare le infrastrutture ei sistemi attuali nel paese, così che lacompetizione non devasti gli interessidei commercianti indiani.

Le questioni che si sono poste sonodiverse: le infrastrutture, l’inflazione,l’occupazione, il monopolio di merca-to. L’aspetto del monopolio di merca-to e quello dell’occupazione sono par-

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Una divisione che permeatutta la vita di quest’isola,terza del Mediterraneo

(grande più della Corsica), consideratada sempre asiatica come collocazionegeografica ed europea come storia ecultura.

La realtà di oggi fotografa unarepubblica auto-proclamata nel 1983in seguito all’occupazione nel 1974 daparte dell’esercito turco e non ricono-sciuta dalla comunità internazionale:3.334 kmq sul lato nord dell'isola,dove abitano 270 mila persone, con ungoverno autonomo, supportato dallaTurchia, e con capitale Nicosia, l’ulti-ma capitale europea divisa dal muro edal filo spinato. La maggioranza deinord ciprioti è data da turchi di religio-ne musulmana sunnita. L’altra partedell’isola, a sud, è il 60% dell'intero ter-ritorio (9.250 kmq), e ci vivono800mila abitanti, greci di religioneortodossa con qualche minoranzaarmeno-gregoriana, arabo-maronitacattolica e armena.

La storia

Cipro deve proprio alla sua posizio-ne, oltre che alle sue risorse naturali,una ricca storia, che parte da una lon-tana preistoria, passa dal dominioromano sull’isola e dalle lotte traVenezia e Impero Ottomano peraggiudicarsi il controllo dell’isola. Nel1878, dopo tre secoli di occupazioneottomana, ottiene l’indipendenza. Nel1869, quando è aperto il Canale diSuez, l’Inghilterra manifesta grandeinteresse per Cipro, luogo strategicoper il controllo di quella parte delMediterraneo. In cambio del controllo

Dhekelia e ad Akrotiri. Oggi l’isola èattraversata da una green line, cioè dauna linea di separazione tra la parteturca e quella greca, controllata da unamissione delle Nazioni Unite denomi-nata UNFICYP. Questa forza, di pea-cekeeping, è stata creata nel 1964 ed èformata da un contingente multinazio-nale composto da un migliaio di milita-ri e da una squadra dell’aeronauticaargentina.

La stessa capitale Nicosia è divisa: lazona sud è amministrata dallaRepubblica di Cipro (greco-cipriota) ela zona nord dalla Repubblica Turca diCipro del Nord.

Vedere da vicino la divisione dellacittà riporta la mente a Berlino. Il con-fine è costituito da un vero e propriomuro con fili spinati, torrette e pattu-glie militari. In mezzo a Nicosia c’è unbreve tratto di terra di nessuno, dovesono installati caschi blu dell'ONU.

A metà 2012 sarà di Cipro laPresidenza di turno dell’UnioneEuropea

Nel secondo semestre di quest’annola Presidenza europea a rotazione toc-cherà a Cipro: verrà dopo laDanimarca e prima dell’Irlanda. Unascadenza di non poco conto per laRepubblica di Cipro, entrata a fareparte della Unione Europea nel 2004 eche ha adottato l’euro nel 2008, sosti-tuendo la sterlina cipriota.

E’ una scadenza che ha già sollevatoproblemi sul versante del governoturco, che sostiene che procederà alcongelamento delle relazioni con

dell’isola l’Inghilterra garantisce la pro-pria alleanza militare all’ImperoOttomano nella guerra contro laRussia. Quest’accordo non a caso fuformalizzato nella Conferenza diCipro. Cipro fu annessa infine formal-mente all’Impero Britannico nel 1913 ediventerà ufficialmente colonia britan-nica nel 1925, in seguito alla dissolu-zione dell’Impero Ottomano.

L’isola otterrà l'indipendenza dalRegno Unito il 16 agosto 1960: la cartacostituzionale cipriota, per prevenirepossibili attriti tra greco-ciprioti eturco-ciprioti, stabilì che il Vice-presi-dente dello Stato ed il 30% delParlamento dovessero essere turco-ciprioti. Fu il giorno stesso dell’indi-pendenza che nacque la bandiera, conlo sfondo bianco e due rami d’ulivo,simboli della pace, che avrebbe dovutosimboleggiare la pacifica convivenzatra greco-ciprioti e turco-ciprioti.

Nel 1974, dopo un tentativo dicolpo di stato di destra fomentato esorretto dal regime dittatoriale deicolonnelli greci, la Turchia occupamilitarmente il nord dell’isola e dà vitaalla Repubblica Turca di Cipro delNord, che come primo atto espelle igreco-ciprioti (che costituiscono l’80%della popolazione) dal proprio territo-rio, mentre contemporaneamente iturco-ciprioti della parte sud si riversa-no a nord. Va anche ricordato come ilRegno Unito abbia continuato a consi-dere strategica per sé la posizione del-l’isola (le coste di Siria, Libano eTurchia sono a poca distanza), tantoche nel 1959, all’atto della concessonedell’indipendenza, pensarono bene diconservare due grandi basi militari, a

CIPRO: un’isola divisa in dueprossima allaPresidenza dell’UE

A Cipro la divisione in due è la questione dellequestioni. In ogni momento della vita quotidia-

na, in ogni ragionamento, che sia politico osportivo, quella frontiera che divide l’isola è

un’angoscia sempre presente. Appena arriviall’aeroporto di Larnaca, il principale aeroporto

dell’isola, e ti avvii verso la capitale Nicosia,vedi un'immagine grande, distesa sui monti

nello sfondo: la mezzaluna con la stella dellabandiera della Repubblica Turca di Cipro del

Nord. Una bandiera che di notte diventa lumi-nosa e si spegne e si accende ad intermitten-

za, rossa e bianca, a ricordare in ogniistante la divisione dell’isola.

di ANTONIO MORANDI

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l’Unione Europea se non vi sarà inprecedenza una soluzione dei negozia-ti sulla ricomposizione dell’isola.Secondo la Turchia, la repubblica diCipro è soltanto espressione dellacomunità greco-cipriota, non avrebbequindi il diritto di rappresentare l’inte-ra isola in ambito europeo.

A seguito di questa congelamento,in realtà, i negoziati per l’accesso dellaTurchia all’Unione Europea potrebbe-ro arenarsi definitivamente.

Alla fine di ottobre, quindi, presso leNazioni Unite c’è stata una serie diincontri tra il Presidente dellaRepubblica di Cipro DemetrisChristofias e il leader turco-cipriotaDervis Eroglu, alla presenza di BanKi-moon. Nessuna convergenza suquestioni di fondo, ma comunque unavvio di disgelo.

Quella di Cipro è un’area ad alta ten-sione: vi è un intreccio di questioni chevi concorrono: quella palestinese, quel-la curda, le rivoluzioni democratiche inEgitto e Siria, il ginepraio iracheno,quello caucasico. Si aggiunge loro lostallo nei negoziati riguardanti l’adesio-ne della Turchia all’Unione Europea ela crescita di ruolo e di ambizioni degliestablishment politici di questo paese,crescita basata sulla stabilità politica, lagrande forza militare, i rapporti conl’area turcofona in Asia centrale, unadelle maggiori riserve di energia delpianeta, la crescita economica, che hafatto della Turchia uno delle economieemergenti più importanti.

L’incidente della Freedom Flotilla ela rottura delle relazioni diplomatiche edella cooperazione militare con Israelerappresentano, infine, gli elementiaggiuntivi più “vicini” a Cipro, proba-bilemente connessi, a loro volta, allascoperta di importanti giacimenti digas (Tamar1 e Leviathan) nelle acquemediterranee dell’area interessanteLibano, Israele, Cipro e Siria. Israele eCipro hanno raggiunto un accordoufficiale per la delimitazione dellerispettive zone economiche esclusive ele ricerche e l’estrazione nella zona diCipro saranno gestite da NobleEnergy, impresa USA. La Turchia e ilgoverno della Repubblica Turca diCipro del Nord hanno però fatto sape-re che il gas dell’isola appartiene nonsolo ai ciprioti greci della Repubblicadi Cipro, ma anche ai ciprioti turchi di

caria situazione finanziaria di Cipro,aggravata dall’esplosione di Mari, cheha distrutto la centrale elettrica diVasiliko, struttura che forniva il 53% ditutta l’energia necessaria al paese.L’orientamento sociale del governoinoltre risulta condizionato dallerichieste di misure restrittive da partedei vertici dell’Unione Europea, infinevi è il rischio che le banche cipriote,molto esposte sul versante della situa-zione greca, abbiano bisogno di unpiano di salvataggio.

A conferma dei forti legami storicitra Cipro e Grecia, va precisato come il40% circa del totale dei prestiti conces-si dalle tre banche maggiori cipriote(Banca di Cipro, Marfin Popular Banke Hellenic Bank) siano diretti adimprese greche. Un anno fa Moody’saveva tagliato il rating dell’isola di duepunti, mentre l’agenzia Fitch lo avevaportato da AA- ad A-, motivando conil rischio di un contagio dalla vicinaGrecia a danno del sistema bancarionazionale. Vi è infatti anche una eleva-ta esposizione delle banche greche suldebito pubblico greco.

Sono quindi forti le preoccupazioninel sindacato per la crisi e i suoi effet-ti. Tra essi è rilevante la pesante situa-zione giovanile: i dati resi noti alla finedel 2011 dicono che la disoccupazionedei giovani con meno di 25 anni è aCipro del 22,6%, quindi sopra la mediaeuropea (che è al 21,4 %). Parimentirilevante è la questione della tenuta delsistema pensionistico, sotto tiro.

Cipro Nord. La Turchia infatti consi-dera le aree in cui hanno luogo le ricer-che cipriote come “acque internazio-nali”, quindi ricerche, estrazioni e rela-tivi benefici non possono escludere lacomunità turco-cipriota. Occorrequindi preliminarmente un’intesa tra ledue comunità cipriote.

Non solo: il primo ministro turcoRecep Tayyip Erdo€an ha dichiaratoad AlJazeera che “la Turchia non per-metterà lo sfruttamento esclusivo dellerisorse del Mediterraneo da parte diIsraele”, e che tre fregate erano prontea partire per affrontare le navi militaridi Israele.

Il Congresso del sindacato cipriotaSEK e l’impegno per il lavoro

Nelle settimane scorse si è tenuto aNicosia il XXVII Congresso del SEK(Synomospondia Ergaton Kyprou), lapiù importante confederazione sinda-cale della Repubblica di Cipro (gli altridue sindacati sono il Deok(Democratic Labour Federation ofCyprus) ed il Peo (PancyprianFederation of Labour), mentre nellaparte turco-cipriota è presente ilTURK-SEN (Turkish Workers TradeUnion Federation).

Al SEK aderiscono circa 70milalavoratori, organizzati in 7 federazionidi categoria.

E’ stato un congresso tenuto in unasituazione che risente pesantementedella crisi globale e di condizioni didisagio economico e sociale qualiCipro non conosceva da anni. La crisimorde duro anche qui, tra disoccupa-zione in aumento, rallentamento dellamacchina del turismo (che qui è l’indu-stria principale), inoccupazione giova-nile e abbandono scolastico, indeboli-mento dello stato sociale, perdita delpotere d’acquisto di salari e pensioni,aumento dei prezzi, anche a seguitodell’introduzione dell’euro, nel 2008, edel mancato controllo sulle dinamichedei prezzi.

Per tre giorni 546 delegati in rappre-sentanza delle categorie e dei 5 “centridel lavoro” territoriali (le nostre came-re del lavoro) hanno discusso sullasituazione di Cipro e delle prospettivedi ripresa di uno sviluppo economico,che negli anni passati era stato rapido.A preoccupare è in parrticolare la pre-

inchieste e ricerche sul lavoro

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AMerano sono attivi il repartodove si produce il siliciopolicristallo (Poli), attraver-

so un processo chimico, per il fotovol-taico, e il reparto del monocristallo(Mono), che funziona attraverso unprocesso simile a quello siderurgico,per l’elettronica. A questi è aggiuntoun terzo processo industriale, quellodella Evonik: si tratta di impianto chi-mico che produce la materia prima tri-clorosilano (TCS).

Si tratta di una filiera abbastanzacompleta: la Evonik produce la mate-ria prima TCS, che viene acquistatadalla Memc per produrre silicio sia poliche monocristallo.

La Memc occupa complessivamentecirca 550 dipendenti, dei quali circa200 coinvolti nella produzione Poli.Una parte consistente della sua produ-zione quindi dipende dalla politica digoverno in fatto di incentivi al fotovol-taico.

In passato proprio il meccanismodegli incentivi aveva fatto esploderequesta produzione, tramite una fortedomanda di tutte le componenti degliimpianti fotovoltaici. Fino al 2008-2009 il mercato era risultato “drogato”a tal punto che la Memc aveva potutovendere il silicio a 463 dollari al kg.Parimenti ne erano derivati alti profitti,che la Memc aveva in parte usato perrealizzare un grosso investimento nellostabilimento di Merano (190 milioni dieuro per le linee Poli). In aggiunta c’èche i produttori cinesi non erano anco-ra partiti con le loro produzioni di sili-cio a basso prezzo. Nonostante la loroqualità non elevata, essi invaderannoperò rapidamente in questi anni il mer-cato mondiale forti, giocando sul bas-sissimo prezzo, anche in quanto aiutatidal sostegno finanziario dello stato. Lo

denza il gruppo aveva mandato segna-li incoraggianti. Aveva acquistato laSunEdison, impresa operante essapure nel fotovoltaico (aveva costruitooltre 300 centrali di energia solare per80 MW di capacità di generazione, conclienti in USA, Canada ed Europa).Aveva realizzato, a partire dal 2006, uninvestimento nella produzione di sili-cio per circa 190 milioni di euro, il cuiobiettivo era di raddoppiare le quantitàprodotte, diversificando i prodotti esfondare nel fotovoltaico, settore con-siderato di grandi potenzialità di cre-scita. Tuttavia i lavoratori lamentanol’assenza di informazioni chiare: cosasignifica abbassamento dei costi? diquanto devono essere abbassati? chemargini di autonomia dispone la filialeitaliana rispetto al gruppo?

Le ragioni addotte dalla Memc perla sospensione della produzione Poli siriferiscono principalmente al costodella materia prima. Infatti il 70-80%dei costi di produzione riguardanomateria prima (TCS) ed energia. Ilcosto del lavoro è assolutamente mar-ginale, salvo che nello stabilimento diNovara, prevalentemente manifatturie-ro. Sulla voce di costo TCS è in corsoattualmente una trattativa tra Memc ela fornitrice Evonik, quindi all’internostesso del gruppo. Per quanto riguardail costo dell’energia le cose sono inve-ce in alto mare. In passato le impreseche producevano silicio fruivano deldecreto cosiddetto “salva Alcoa” (cheprevedeva la fornitura di energia aprezzi bassi ad alcune industrie “ener-givore”): ma da un giorno all’altro que-ste imprese ne erano state escluse. Altempo stesso, però, è proprio questoriguardo che si potrebbe intervenire insede politica. Le due imprese produt-trici di energia nel territorio, AE eSEL, sono partecipate dagli enti locali.Essi hanno dunque la possibilità effet-

stesso vale per la Corea del Sud. Altempo stesso il Decreto Romani nelmaggio scorso tagliava pesantementegli incentivi al fotovoltaico.Conclusione: concorrenza asiatica etaglio degli incentivi apriranno la crisidi Memc e di Evonik, la crisi deldistretto del fotovoltaico in provinciadi Padova, ecc. “E’ stata anche un po’colpa nostra”, dicono alla Memc:“abbiamo mandato i nostri tecnici inCina per insegnar loro come produrresilicio… in questo modo abbiamoregalato competenze”.

Lo stabilimento di Merano alcunesituazioni di crisi le aveva già vissute: visi era ricorso a CIG e mobilità neglianni 2002, 2004 e 2006. Questi stru-menti erano stati in grado di conteneregli effetti sociali di difficoltà di merca-to. Anche l’attuale situazione di crisi inun primo momento è stata ritenuta diquesto tipo e affrontata con i medesi-mi strumenti. Ma già da ottobre è vistoda più segnali come si trattasse di unmomento eccezionale. In precedenza ilsilicio veniva spedito per via aerea, rite-nendo che la spedizione via mareavrebbe comportato troppo tempo,oltre ai costi dell’uso di container.Negli ultimi mesi, invece, la Memc hadovuto sospendere, per rispariare, laspedizione per via aerea. Infine hadovuto sospendere la produzione Poli.La decisione della direzione del grup-po a questo riguardo è stata assuntacon un comunicato, nel dicembre scor-so, che annunciava l’intenzione di unariorganizzazione su scala internaziona-le del gruppo, comprendente questasospensione. Esattamente, la Memcnon ha dichiarato l’uscita da questaproduzione: la sua sospensione, alme-no al momento, a causa dei costi diproduzione elevati. Se avvenisse unloro abbassamento la produzione Polipotrebbe quindi riprendere. In prece-

LA MEMC DIMERANO

La Memc è una multinazionale, con sede negliUSA, leader globale in prodotti per l’industria

del solare fotovoltaico (wafer di silicio e semi-conduttori). Inoltre produce per l’elettronica.

In Italia dispone di due stabilimenti: uno aNovara, dove vengono tagliati i wafer di silicio,

e uno a Merano (Bolzano), dove il silicio viene prodotto.

di MATTEO GADDI

inchieste e ricerche sul lavoro

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tiva di realizzare un’intesa in fatto diprezzi più ridotti della fornitura aMemc di energia. Esiste in Memcanche l’idea di realizzare una centraledi produzione di energia per sé, manon c’è ancora niente di preciso in ter-mini di progetto. Si parla anche dellacostruzione di una linea elettrica dicollegamento con l’Austria, che impor-ti energia a basso prezzo. E anche sulfronte del mercato esiste la possibilitàdi un intervento politico: riprendendocon gli incentivi e realizzando pro-grammi industriali in sede di energierinnovabili. Va da sé che senza questotipo di iniziative il mercato non è ingrado, tenendo conto della situazionedell’economia italiana, di ripartire.Purtroppo però in questa sede di poli-tiche industriali, come in tutte le altre,ciò che si palesa è la totale assenza diiniziative. Il governo Monti è a questoriguardo la copia in carta carbone delgoverno Berlusconi. L’irresponsabilitàè evidente: il silicio, sia per l’elettronicache per il fotovoltaico, costituisce unprodotto strategico per molte filiereindustriali.

Ovviamente la mancanza, ormaicronica in Italia, di politiche industrialifa sì che il silicio già prodotto in Italiavenisse trasferito all’estero per la pro-duzione di pannelli solari, con dannograve anche alla bilancia commercialedel paese. Una seria politica economi-ca, oltre che industriale, avrebbe dovu-to prevedere da tempo la realizzazionein Italia di una filiera completa delfotovoltaico.

Anche per il territorio della provin-cia di Bolzano il problema è grave: inessa esistono pochissime imprese didimensioni quali quelle della Memc, trai cui vantaggi ci sono anche ingentiintroiti fiscali, oltre a quelli, ovvi, del-l’occupazione. A questo riguardo sideve anche tener conto di come ilvenir meno della Memc coinvolgereb-be immediatamente la Evonik e tuttoun indotto.

Le RSU Memc ipotizzano ancheuna legislazione a sostegno del foto-voltaico in ambito edilizio, ad esempioimponendo che le nuove costruzionisiano dotate di impianti fotovoltaici.Anche ponendo quest’obiettivo i lavo-ratori della Memc sabato 28 gennaiohanno manifestato alla Fiera di CasaClima (Klimahouse), la cui intenzione

mercato; a sua volta la Memc forniscealla Evonik il TCS grado elettronicoche poi la Evonik commercializza nelmondo: il rapporto quindi è comples-so e andrebbe e a scapito di entrambiuna rottura delle forniture)

- la fornitura di energia, che puòavere tre soluzioni: un accordo con leimprese pubbliche o semipubblichelocali; la realizzazione di un impiantoper l’autoproduzione; un soluzionepolitica sul modello del Decreto “salvaAlcoa”

- il fatto che non è chiaro se allachiusura del reparto Poli farà seguito ilmantenimento o no del reparto Mono

- l’estensione o meno della filieraproduttiva del fotovoltaico con l’instal-lazione in loco della lavorazione inter-media del silicio (attualmente in Cina).

Dal punto di vista dell’azione a pro-pria tutela i lavoratori della Memc sisono trovati ad affrontare una situazio-ne nuova. Il loro è un territorio conscarsa tradizione di lotte sindacali, alconflitto si è sempre preferita la con-certazione con l’impresa. Alcuneforme di lotta rappresentano perciòun’assoluta novità. Questo però nonsignifica che non vengano ormai utiliz-zate (cortei, scioperi, presidi, volanti-naggi). Nello stabilimento di Meranoesistono forti e diffuse competenzeprofessionali, motivo di orgoglio tra idipendenti della Memc. E proprio laprofessionalità viene utilizzata comestrumento di lotta e di sensibilizzazio-ne dell’opinione pubblica (meno inve-ce viene utilizzata per immaginaresoluzioni alternative a quelle ipotizzatedal gruppo). Non pochi, d’altra parte,sono tuttora i lavoratori che preferi-scono le modalità più soft di lotta,temendo di indispettire troppo la pro-prietà.

primaria era di sensibilizzare i cittadinisul loro problema occupazionale. Aquesta fiera partecipano almeno dieciimprese internazionali operanti nelcampo del fotovoltaico, a testimonian-za di come il settore sia tutt’altro che indeclino strutturale. Anche uno svilup-po dell’intera filiera del fotovoltaico ètra le ipotesi che i lavoratori dellaMemc, tra i quali eccellenti tecnici,hanno valutato. Attualmente il silicioprodotto a Merano finisce, nel caso delMono in parte a Novara e in parte inMalesia, nel caso del Poli in Cina peruna prima lavorazione, tornando poi inEuropa per l’allestimento degli impian-ti fotovoltaici. Un piano industriale chetenda a una filiera completa è proprioquello che manca.

Da parte delle RSU, come già accen-nato, è fondamentale capire cosa inten-da il gruppo per “sensibile riduzionedei costi”. Di quanto concretamente didovrebbero abbassare i costi di produ-zione per riprendere la produzionePoli? la chiusura del reparto Poli com-porterebbe anche la chiusura della pro-duzione Mono? La direzione italiana fatrapelare poco (fors’anche sa poco); leistituzioni locali sanno ancora meno,pur avendo manifestato immediatadisponibilità ad incontrare le RSU. Ilavoratori tuttavia lamentano che lapolitica locale si è sempre scarsamenteinteressata dei destini della Memc.L’unica notizia positiva è che almomento sono in corso trattative traMemc ed Evonik per la fornitura aprezzi ridotti del TCS e tra Memc emunicipalizzate locali per la fornituradi energia. Al momento si è fatto fron-te alla sospensione della produzionePoli con lo smaltimento delle feriearretrate e con il ricorso alla CIG. Laichiarazione di crisi però potrebberapidamente precipitare. Un ulterioreproblema è dato dal fatto che la Memcha cominciato a perdere le figure piùprofessionalizzate, dagli ingegneri aimanutentori. Si tratta di figure che piùpassa il tempo più cercheranno unasistemazione occupazionale altrove, senon ci sarà chiarezza sui destini dellostabilimento di Merano.

I problemi aperti, quindi, sono:- il rapporto di fornitura della mate-

ria prima TCS che lega Evonik eMemc (non tutto il TCS usato dallaMemc viene prodotto dalla Evonik,circa il 30-40% viene acquistato sul

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Ernesto LaclauChantal MouffeEGEMONIA E STRATEGIASOCIALISTAVerso una politica democraticaradicaleGenova, il melangolo,2011, pp. 284.

Si è spesso sostenuto che in passatosi traducesse in Italia troppa saggistica«di sinistra». Poi con il «riflusso» l'indu-stria editoriale ha bruscamente mutatoregistro: è diventato difficile pubblica-re libri legati alla riflessione marxista, eancor più tradurli. Nonostante ciò,desta sorpresa il fatto che un libroimportante come Egemony andSocialist Strategy di Ernesto Laclau eChantal Mouffe, apparso in linguainglese nel 1985 e tradotto in moltipaesi, esca da noi solo ora, per i tipi delMelangolo (Egemonia e strategiasocialista. Verso una politica democra-tica radicale, pp. 284, euro 20) e permerito soprattutto dei due studiosi –Fortunato Cacciatore e MicheleFilippini – che lo hanno tradotto, fir-mando anche una impegnata introdu-zione, utile guida al testo e alla com-prensione dei suoi rapporti con laFrench School.

Se il «post-marxismo» ha un atto dinascita, esso è in quest'opera, famosama anche molto controversa, originalemistura di influenze derridaiane, dialthusserismo e di una lettura diGramsci che, allontanandosi consape-volmente dall'autore dei Quaderni, nesegnò paradossalmente la grande dif-fusione (anche se distorta e frammen-taria) nel mondo anglofono, almenoper quel che concerne l'indirizzo deicultural studies divenuto da allora pre-dominante, nonché per i subaltern stu-dies nella loro versione statunitense,molto influenzata da GayatriChakravorty Spivak. Ma cosa vuol dire«post-marxismo»? Secondo i due auto-ri, la «riappropriazione di una tradizio-ne intellettuale e allo stesso tempo il

xista. Ciò che tuttavia allontana il librodalla tradizione gramsciano-togliattia-na (come dal marxismo tutto) è il rifiu-to di leggere la società come segnatadalla lotta per l'egemonia tra «classifondamentali», soggetti ultimi inelimi-nabili dell'egemonia per Gramsci. Ilproblema non è per i due autori quellodi legare i «nuovi movimenti» alla clas-se lavoratrice comunque intesa: anzi,concepire ancora un soggetto comeprivilegiato nel teatro della lotta per ilcambiamento vuol dire cadere nel pec-cato capitale che il libro, come tutta lacultura post-moderna, denuncia inces-santemente: l'essenzialismo, ovvero ildefinire l'identità dei soggetti «ontolo-gicamente», «a priori» - in realtà (per ilmarxismo) a partire dalle dinamichesistemiche in cui essi sono inseriti. Èinvece la «politica» che dovrebbe darvita – per Laclau e Mouffe – a un«blocco» di soggetti antagonistici, con-fluenti in un progetto di cambiamentoche ha per gli autori i connotati di una«democrazia radicale», che non escludea priori misure di tipo socialista, mache di fatto ne prescinde grandemente.

Molti gli spunti e le pagine interes-santi del libro, come la critica al «carat-tere fondativo dell'atto rivoluzionario»a favore del carattere processuale delcambiamento (guerra di posizione) o iltema centrale della ideologie, delleidentità e dei soggetti, di cui si dà unarappresentazione complessa, dinamicae sfaccettata che non sarebbe dispia-ciuta a Gramsci, per il quale i soggettinon sono una pura espressione del-l'economico, anche se da esso non pre-scindono. Certo, gli individui concretivivono sulla propria pelle più contrad-dizioni nello stesso tempo, come illibro sottolinea. E in alcune contingen-ze non è detto che quella di classe sia lacontraddizione principale, anche perun/una subalterno/a. Ma – a parte ladifferenza di genere, che ha uno statu-to molto particolare – si è sicuri chequeste contraddizioni «non di classe»non siano superabili nell'ambito delsistema sociale dato?

In molti paesi la situazione delleminoranze etniche o sessuali, ad esem-pio, è notevolmente migliorata, ed essehanno perso radicalità e carica innova-trice. A oltre un quarto di secolo dal-l'uscita del volume, invece, nonostantetutti i cambiamenti registrati, la centra-lità del «fattore economico» nella vitadegli individui non sembra venutameno, come il problema del lavoro (o

suo superamento», nella convinzioneche «molti antagonismi sociali, molteproblematiche cruciali per la compren-sione delle società contemporanee,appartengono a campi di discorsiesterni al marxismo, e non possonoessere riconcettualizzati nei terminidelle categorie marxiste».

Tre gli elementi principali chehanno «surdeterminato» questa con-vinzione: la crisi del peso (numerico epolitico) della classe operaia inOccidente; l'emergere dei «nuovimovimenti» in lotta per obiettivi par-ziali, per quanto avvertiti come vitalida porzioni più o meno larghe dipopolazione (minoranze razziali, ses-suali, soggetti in cerca del riconosci-mento dei rispettivi diritti); e il temadel superamento dello strutturalismo,nella convinzione che non vi sia alcunastruttura sottesa alla realtà storico-sociale, e men che mai un insieme dia-letticamente concepibile, ma «differen-ze» ognuna impegnata nei propri per-corsi.

Prendendo le mosse dalla tradizionemarxista, di cui venivano criticate nonsolo le versioni più economicistiche,ma anche le teorie basate sulla «deter-minazione in ultima istanza» dell'eco-nomico (vizio nel quale sarebbe cadu-to alla fine lo stesso Althusser), gliautori vedevano nella categoria gram-sciana di egemonia quanto meno laconsapevolezza delle difficoltà delmarxismo di spiegare la «contingenza»sulla base della struttura e il tentativodi trovare una soluzione all'impasseteorico sul terreno dell'azione politica.Una convinzione a cui non è estraneala riflessione sul peronismo (esperien-za difficilmente catalogabile in chiavemarxista) dell'argentino Laclau. E unesito che in qualche modo può essereaccostato alla tradizione del comuni-smo nostrano: non a caso, l'unico,impegnato tentativo di interlocuzioneitaliana con le tesi del libro fu compiu-to al suo apparire da Nicola Badalonisulla rivista teorica del Pci Critica mar-

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del non lavoro: è lo stesso) continua adavere una incidenza innegabile. In unprogetto socialista la rilevanza di que-sto «fattore», e la sua decisività socialee individuale, sembra ancora oggi evi-dente. Laclau e Mouffe segnalano dun-que problemi reali del marxismo, manon sembrano offrire più avanzati ter-reni di analisi e di lotta. Disegnano uncampo in cui tutte le micronarrazioni etutte le identità appaiono uguali: dadove nasca la possibilità che esse fac-ciano «blocco», che – per dirla nel lin-guaggio degli autori – si formi una«catena di equivalenze», ovvero (percapirci) si formi una «coalizione arco-baleno» alla Jessi Jackson fra tutti imovimenti in cerca di diritti, una coali-zione capace di cambiare il sistemaradicalmente, come il libro auspica,non si capisce.

(Guido Liguori)

Paolo CiofiLA BANCAROTTA DEL CAPITA-LE E LA NUOVA SOCIETÀEditori Riuniti,pp. 182, euro 15

Questo di Ciofi è un libro osereidire prezioso. In ogni caso di straordi-naria utilità, non solo per me che dapiù di quarant’anni faccio il giornalistaal manifesto, ma per tutt coloro chevogliano capire qualcosa, non solo delmondo (Italia compresa) ma anchedella propria vita.

Dato per scontato che a pagare leconseguenze della bancarotta del capi-tale, siano sempre i lavoratori e i cetipiù deboli e i singoli che non hanno unsanto in paradiso (oggi l’importanza diquesti santi e del potere clientelaresono cresciuti di molto). Ma Ciofi nonsi ferma, anche se analizza le conse-guenze di questa crisi capitalistica, cisegnala che il capitalismo va spesso incrisi. Qualcuno pensa che non ce lafaccia più, invece, dopo avere provoca-to danni enormi e magari guerre e,soprattutto, ridotto alla disperazionemilioni di lavoratori e anche di cetomedio benpensante, poi ripiglia e tornasano e forte. Viene da dire che le crisisono connaturate al capitalismo, cometante persone che hanno febbronigravi e ricorrenti, ma poi si ripiglianosenza neppure pagare le spese d’ospe-dale, tanto a pagare è sempre il poveroPantalone. Peraltro anche quando il

rie di Marx sono messe in relazionecon le grandi lotte politiche e socialiche hanno segnato il ventesimo secoloe con le molte e contrastanti interpre-tazioni che ne sono state date, daHabermas a Derrida, da Bourdieu aFoucault. Un testo per leggere «IlCapitale» e per riscoprirne l’attualità.Jacques Bidet è uno dei più originalipensatori neomarxisti contemporanei,è professore emerito dell’Università diParis-X (Nanterre); ha fondato e diret-to la rivista Actuel Marx ed è presiden-te del Congrès Marx International. Trale sue opere: Teoria della modernità(Editori Riuniti), Théorie générale (puf1999), Que faire du Capital? (puf2000) e Altermarxisme (puf 2007). Isuoi libri sono tradotti in tutto ilmondo.

CINEMALE IDI DI MARZO di George Clooney.Con Ryan Gosling, George Clooney,Philip Seymour Hoffman, PaulGiamatti, Marisa Tomei.Durata 101 minuti, USA 2011

Oltre la trama che segue percorsiapparentemente scontati (candidatoalle primarie democratiche di sinistracon storia segreta con la stagista edesito imprevisto), il film è molto belloe per niente scontato. Vi si descrive lapolitica Usa oltre gli stereotipi. Il cini-smo impera, ma anche i valori forti chenon si vendono; i collaboratori politici(i veri protagonisti del film) sono spre-giudicati, ma non disposti a qualsiasicompromesso; il familismo americanoe il puritanesimo fanno capolino, manon sono l'unico orizzonte possibile.Ed infine la dignità riemerge e anche ilvalore della politica, benché non ci sialieto fine. Attori bravissimi e Clooneycome sempre gran regista di sinistra.Soldi del biglietto ben spesi e val lapena di comprare il dvd.

capitalismo sta in buona salute e puòfrequentare alberghi di lusso non è mailui a pagare. A governare come hadetto Chomsky è «il senato virtuale», lagrande finanza, Wall Street, che tiene abada il Congresso americano.

Ma leggete questo libro, ne saretepresi; io, leggendolo non so più quan-te sottolineature ho fatto e che mi vadoa rivedere.

Ma a Paolo Ciofi debbo riconoscereun altro grande merito. Forse esagero,ma dico che ha resuscitato Marx. IlMarx, intensamente citato (Capitale,Critica al programma di Gotha, Il capi-talismo e la crisi, Manifesto del partitocomunista, L’iedologia tedesca,Grundrisse, Miseria della filosofia eancora ) è assolutamente attuale, inter-viene nel nostro dibattito. Tutto il con-trario di una certa, ossificata, venera-zione del santone.

E ancora, venendo al nostro paese,Ciofi ci richiama alla forza propulsivache dovrebbe avere la nostraCostituzione, mutilata e piuttostomessa da parte, nel corso di questianni, soprattutto in quelli più recenti; equindi la Cgil e del quasi dimenticatoPci, che, pur in un mondo bipolare e inpresenza della grande forzadell’Unione sovietica, non lottavanoper la realizzazione in tempi brevi delcomunismo, ma per la realizzazioneappunto della Costituzione di unarepubblica «fondata sul lavoro».

Insomma non voglio farla troppolunga, leggete e rileggete questo librosarà molto utile al vostro penare e alvostro che fare.

(Valentino Parlato, dal Manifesto)

Jacques Bidet «IL CAPITALE» SPIEGAZIONE E RICOSTRUZIONE Manifestolibri 2010, pp.288, 32 euro

Nel momento in cui la crisi econo-mica e finanziaria riporta il pensiero diMarx al centro dell’interesse attuale,questo libro fornisce una chiara edesauriente introduzione alla lettura del«Capitale». Nel rileggere l’opera diMarx l’autore non si limita a interpre-tarla. La riattraversa criticamentemostrando a quali trasformazioni essadeve essere sottoposta per compren-dere meglio il nostro presente. Le teo-