Lavoro e globalizzazione dei Mercati
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAMERINO
MASTER UNIVERSITARIO DI I LIVELLO ON LINE IN
DISCIPLINE GIURIDICIHE-ECONOMICO AZIENDALI
“LAVORO E GLOBALIZZAZIONE DEI MERCATI”
Anno Accademico 2008-2009
TESI FINALE Candidato:
Maurizio Putaggio
le Leggi sul lavoro e la globalizzazione dei mercati
(il Terzo Settore)
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INDICE
1. Descrizione generale del Mercato del lavoro Pag. 2
2. L’impatto occupazionale del Terzo Settore Pag. 4
3. Economia sociale e peculiarità occupazionali del Terzo Settore Pag. 12
4. Differenziazione delle forme organizzative e retributive del Terzo Settore
Pag. 19
5. Salari e occupazione nel Terzo Settore Pag. 22
6. Note conclusive Pag. 24
Bibliografia Pag. 27
Appendice Pag. 29
1. Descrizione del Mercato del lavoro
Il lavoro ha un’importanza fondamentale sia per l’individuo sia per la società, dal momento che
l’uomo dedica al lavoro la maggior parte della sua vita e da esso dipende la possibilità di avere un
reddito per soddisfare i suoi bisogni. Il lavoro è un fattore di produzione, contribuisce a produrre
beni e servizi per tutta la collettività e favorisce lo sviluppo economico.
Le origini del mercato sono legate al modo di produzione capitalistico e con la rivoluzione
industriale i lavoratori si sono potuti confrontare liberamente con gli imprenditori per trovare un
punto d’incontro: così è nato il mercato del lavoro. I soggetti di questo mercato sono i lavoratori, i
quali offrono servizi lavorativi agli imprenditori; le prestazioni lavorative sono l’oggetto e il prezzo
è dato dalla retribuzione (il compenso che il lavoratore riceve). Nel mercato del lavoro si incontrano
la domanda e l’offerta di lavoro, il cui andamento risulta influenzato da diversi fattori tra i quali:
- La domanda di beni e servizi da parte delle famiglie
- Il costo del lavoro
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- Le tecnologie impiegate nel processo produttivo.
La domanda di beni e servizi influisce sulla produzione (in base ai consumi delle famiglie) e le
imprese possono programmare l’attività aziendale e la forza lavoro necessaria per ottenere la
quantità di prodotto richiesta.
Il costo del lavoro influenza la domanda di manodopera e il costo di produzione; al riguardo le
imprese hanno adottato una tecnica di produzione dove il fattore lavoro predomina sul fattore
capitale e di fronte ad un aumento del costo del lavoro gli imprenditori sono spinti a introdurre
nuove tecnologie e a diminuire la domanda di forza lavoro.
La dinamica dell’offerta di lavoro dipende dall’andamento demografico: la popolazione attiva é
costituita dagli individui occupati e non occupati, che sono in età lavorativa. Un aumento costante
della popolazione provoca effetti positivi sull’offerta di lavoro, composta in maggior parte da
giovani. Se la popolazione cresce ad un ritmo troppo elevato la forza lavoro (strutturata in base alla
realtà economico-sociale del paese) diventa maggiore rispetto alla domanda; al riguardo, se c’è un
decremento demografico l’offerta di lavoro diminuisce e per mantenere gli stessi ritmi si ricorre a
manodopera d’immigrazione.
Nel mercato del lavoro non si ha un'unica offerta, ma tante quante le categorie dei lavoratori, di
conseguenza non si avrà un unico prezzo; il prezzo del lavoro viene fissato per contratto e per
categoria, tenendo conto di una serie di fattori e partendo dal presupposto che il salario deve essere
socialmente giusto.
Nel nostro Stato il mercato del lavoro è stato sempre caratterizzato dall’eccedenza dell’offerta
rispetto alla domanda, ciò ha portato a due tipi di problemi: la disoccupazione e l’emigrazione. La
disoccupazione è dipesa da cause strutturali sia perché la popolazione è sempre stata in eccesso
rispetto alle risorse sia perché lo sviluppo non è avvenuto in maniera equilibrata. Fin dalle origini il
nord e il sud dell’Italia avevano un divario notevole: nelle regioni meridionali la popolazione era
impegnata nell’agricoltura e traeva dalla terra redditi miseri, ma a distanza di pochi anni dall’unità, i
contadini meridionali cominciarono ad emigrare, creando una forza lavoro, senza preparazione
culturale nè professionale, diretta verso oltreoceano (al momento per lo Stato è stato un sollievo, ma
a lungo andare ha avuto ripercussioni negative sullo sviluppo). Tra la fine dell’ottocento e l’inizio
del novecento hanno lasciato il nostro paese circa 150.000 persone con una punta massima nel 1913
di 900.000 persone. Questo flusso migratorio ha subito una flessione con la prima guerra mondiale
e con il regime fascista; dopo la seconda guerra mondiale la situazione occupazionale era tragica in
tutto il paese e la maggior parte della forza lavoro era occupata nel settore agricolo a livelli di
sottoccupazione. I lavoratori meridionali disoccupati si sono spostati al nord dove, trovando lavoro
nelle fabbriche, hanno contribuito al “Miracolo economico”. Nell’arco di due anni si erano spostati
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più di 4 milioni di persone, per il sud ha significato spopolamento e ristagno economico, al nord si
sono presentati problemi sociali. L’offerta di lavoro è rimasta elevata per circa un decennio, ma
dalla metà degli anni Sessanta ha preso a diminuire.
La crisi degli anni Novanta ha interessato anche il settore dei servizi, che ha contribuito ad
alimentare la disoccupazione. In una prima fase (all’aggravarsi della crisi economica) si è fatto
ricorso agli ammortizzatori sociali, al pensionamento anticipato o al licenziamento. I primi effetti
dei nuovi strumenti e delle nuove politiche del lavoro si sono avvertiti nel 2001, quando l’indice di
disoccupazione è sceso attestandosi al 9,6%, tra i nuovi occupati è aumentato il numero delle donne
e dei giovani.
In generale, possiamo sostenere che la domanda di lavoro riguarda in maniera particolare lavoratori
qualificati nel campo dei servizi, però la crescita ha interessato tutto il terziario mentre
nell’industria e nell’agricoltura si continuano a perdere posti di lavoro; senza dimenticare che
l’Italia, oggi, è diventato un paese di immigrazione e una parte della domanda di lavoro è
soddisfatta dagli immigrati.
L’evoluzione e la crescita del mercato del lavoro, caratterizzato dalla globalizzazione, oggi sollecita
i settori produttivi, le imprese e complessivamente i sistemi economici locali ad interrogarsi sulle
proprie capacità di adattamento e innovazione prefigurando nuove soluzioni istituzionali per la
produzione di beni e di servizi fondamentali per il loro successo.
Questa considerazione non esclude l’impresa sociale che sta assumendo un ruolo sempre più
importante nelle condizioni di continua evoluzione del mercato del lavoro e nella prospettiva
strategica di stabilire sinergie con gli altri attori dello sviluppo economico.
La grande attenzione rivolta all’impresa sociale come organismo che coniuga un orientamento di
utilità sociale ad una attitudine di mercato è motivata dal successo che questa formula incontra nel
creare nuova occupazione, a partire da un importante settore come quello dei servizi alla persona
che sta conoscendo in Italia, come in tutta Europa, nuovi dinamismi e sviluppi occupazionali.
Facendo una attenta analisi del mercato del lavoro, il Terzo Settore può offrire oggi rilevanti
opportunità d'occupazione, nel contesto di un nuovo rapporto con le pubbliche istituzioni fondato
sui principi della complementarietà, integrazione e sussidiarietà, intendendo quest'ultimo termine
come un forte legame fra diritti effettivamente fruibili e adempimento dei doveri di responsabilità e
di reciprocità da parte dei cittadini, soprattutto attraverso le varie forme di autorganizzazione della
società civile.
2. L’impatto occupazionale del Terzo Settore
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In Italia il Terzo Settore, oggi, fornisce il 4,7% dell’occupazione del paese. Nel 2001 era il 3%,
segno di una crescita quantitativamente rilevante e di un dinamismo che meritano più di una
riflessione. In Italia il Terzo Settore è ancora tra i meno sviluppati in Europa, ma la crescita del
comparto induce a ritenere che possa dare un apporto significativo alla creazione di nuovi posti di
lavoro.
Sull'esempio anglosassone, in Italia possiamo fare molto di più per accreditare il ruolo del no profit,
che è un volano di potenziale sviluppo del mercato del lavoro. Al di là delle percentuali, stiamo
assistendo ad una regressione degli interventi a carico del complesso statale a favore di interventi di
carattere associazionistico privato, anche nei servizi pubblici. È necessario far comprendere ai
giovani che il Not For Profit sarà per loro una grande occasione di inserimento, sviluppo e crescita
professionale di carriera con sistemi di retribuzione che sempre più si avvicineranno al profit. A
questa prospettiva non possiamo dimenticare il grandissimo contributo rappresentato dalla
“componente idealistica”, che costituisce uno stimolo fondamentale per intraprendere attività di
lavoro e ha consentito, in passato, l’ottenimento dei migliori risultati, dal punto di vista economico
e non.
Cogliere le dimensioni strutturali dell’occupazione nel Terzo Settore italiano non è impresa
semplice; si deve infatti fare i conti con l’elevata frammentarietà delle informazioni ufficiali di
fonte ISTAT, che verrà superata soltanto nel 2011, anno in cui con ogni probabilità verranno
pubblicati i dati del nuovo censimento generale, previsto per il 2009.
Gli ultimi dati disponibili relativamente alla struttura e alla distribuzione del lavoro nelle
organizzazioni di Terzo Settore, considerate nel loro insieme, sono quelli rilevati nel Censimento
Istat “Istituzioni no profit in Italia” (Istat 2001), con riferimento all’anno 1999, e quelli rientranti
nel Censimento generale dell’industria e dei servizi del 2001. Successivamente l’ISTAT ha
presentato dati più aggiornati relativamente alle organizzazioni di volontariato (per gli anni 2003 e
2001), alle cooperative sociali (per gli anni 2005 e 2003) e fondazioni (2007, relative all’anno
2005).
In totale le persone occupate all’interno delle 221.412 organizzazioni di Terzo Settore censite nel
1999 assommavano a poco più di 3.900.000 tra volontari (81,0%), dipendenti (13,4%),
collaboratori co.co.co. (2,0%), religiosi (2,3%), obiettori di coscienza (0,7%), lavoratori distaccati
da altre entità (0,6%). Riaggregando i dati relativi alle persone che avevano un rapporto di tipo
professionale (dipendenti, collaboratori, distaccati), il totale dei lavoratori nel Terzo Settore
assommava a circa 629.000 unità: essendo il totale degli occupati in tutti i settori produttivi
20.847.000, il peso occupazionale del Terzo Settore era dunque pari al 3,02%.
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Nel 2001 il Censimento dell’industria e dei servizi segnalava invece la presenza di 235.232
istituzioni no profit per un totale di 3.315.000 volontari e 592.791 occupati così suddivisi: 488.523
dipendenti, 100.525 collaboratori, 3.743 lavoratori interinali. Complessivamente, il peso
sull’occupazione italiana scende dunque nel 2001 al 2,74%.
Pur nella non perfetta comparabilità del dato (questa rilevazione non conteggiava ad esempio i
lavoratori distaccati), si evince un segnale di spostamento degli occupati verso forme di lavoro
flessibile: se nel 1999 il collaboratori pesavano per il 12,7% del totale, nel 2001 le diverse forme di
lavoro atipico arrivano al 17,5%.
Per quanto riguarda il genere, il dato costante nel corso del decennio suddetto, è rappresentato dal
fatto che i due terzi di questa popolazione erano, stabilmente, rappresentati da donne (circa il 60%
dipendenti full time e circa l’80% dipendenti part time).
Per gli anni successivi è possibile ricostruire una serie storica completa soltanto per quanto riguarda
le cooperative sociali. Si tratta comunque di un dato molto significativo, da un lato perché la
cooperazione pesa molto all’interno del dato complessivo occupazionale del no profit (l’ultimo dato
del 2001 parla di quasi il 27% del totale degli occupati nel settore no profit, a fronte di una
consistenza numerica di 5.515 soggetti, pari al 2,5% del totale delle organizzazioni no profit),
dall’altro, poiché i cambiamenti sistemici intervenuti soprattutto nel settore dei servizi di welfare
hanno reso queste forme giuridiche protagoniste di primo piano nella gestione diretta di una larga
fetta di servizi alla persona, a seguito della riforma del sistema nazionale dei servizi sociali (legge
quadro n. 328/2000) e della sperimentazione in alcune regioni di forme di welfare mix orientate al
principio di sussidiarietà; queste ultime hanno visto un crescente coinvolgimento del Terzo Settore
e soprattutto delle cooperazione sociale nella gestione diretta dei servizi di welfare.
L’occupazione nelle cooperative sociali è dunque un indicatore particolarmente significativo dei
fenomeni che hanno investito il settore no profit nel corso del primo decennio del 2000.
Complessivamente il totale degli occupati è cresciuto dal 1999 al 2005, con un aumento dell’85,9%:
i dati mostrano come i dipendenti siano quasi raddoppiati, crescendo dai 121.000 del 1999 ai
161.000 nel 2003 a oltre 211.000 nel 2005. Sul versante degli atipici, i collaboratori sono cresciuti
da 7.500 a 31.629 del 2005, mentre gli interinali sono passati da 136 nel 2001 ai quasi 1.300 del
2005.
Come si può osservare, il peso degli atipici sul totale degli occupati in cooperative sociali nel 2005
è attorno al 13,5%, mentre i dipendenti sono passati dal 93,5% all’86,5%. Infine è utile osservare
che se nel 1999 le cooperative sociali fornivano lo 0,6% del totale degli occupati italiani, nel 2005
giungono all’1,1%.
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Per quanto attiene le fondazioni, è possibile ricostruire una serie storica relativamente completa
(con la sola eccezione del 2003). Nel 1999 gli occupati di questa forma giuridica erano oltre 56.000,
pari allo 0,27% del totale occupazionale italiano e a circa il 9% degli occupati nel settore. Nel 2005
il dato complessivo è quasi raddoppiato (106.251 occupati, pari allo 0,47% dell’occupazione
italiana). I dipendenti di questo settore erano 50.674, nel 1999 e sono diventati, nel 2005, 81.563,
con una crescita del 61%. Anche in questo caso si registra una forte crescita del lavoro atipico: nel
1999 era il 7,7% degli occupati in fondazioni, nel 2005 il peso è cresciuto al 18,4%, con una
conseguente contrazione del peso dei dipendenti, passati da oltre il 90% al 76,7 % del 2005.
Nel caso delle organizzazioni di volontariato iscritte nei Registri regionali è possibile registrare un
dato del 2003, non comparabile però con quello del 1999 in quanto in quel caso il volontariato era
ricompreso nella più ampia categoria delle “altre forme”. Si tratta comunque di numeri piuttosto
contenuti (circa 12.000 occupati nell’anno 2003, ma con una crescita del 77% rispetto al 1995).
Proviamo ora a svolgere qualche considerazione di approfondimento: nel farlo, utilizzeremo i dati
del Censimento 2001, mentre nel caso delle cooperative sociali e delle fondazioni analizzeremo in
alcuni casi dati relativi alle ultime rilevazioni 2005.
Secondo i dati del Censimento 2001, solo il 15,2% delle organizzazioni impiega almeno un
lavoratore dipendente e questi costituiscono l’unica tipologia di risorse impiegate nell’8% dei casi,
invece il numero medio di dipendenti calcolato sulle organizzazioni che ricorrono a questo tipo di
risorsa umana è pari a 16 unità. La grande maggioranza dei dipendenti lavora a tempo pieno (88%),
il resto (12% ) part-time.
Le cooperative sociali sono le organizzazioni che hanno il peso maggiore in termini di risorse
umane, sotto molteplici punti di vista:
- sono quelle che operano più frequentemente con personale retribuito: solo nel 2,7% dei casi non vi
è personale retribuito, mentre il 38,6% di esse hanno almeno 20 occupati (dato 2005);
- le cooperative sociali sono la prima forma giuridica in termini di dipendenti assunti: esse
assumono il 22,9% dei dipendenti, seguiti dalle associazioni riconosciute (21,9%) e non (19,3%) e
dalle fondazioni (9,5%);
- nelle cooperative sociali l’utilizzo dei dipendenti risulta mediamente molto più intenso rispetto
alla media e raggiunge 34 addetti per organizzazione (dato 2005). Al contrario, il numero di
dipendenti per organizzazione è pari a 14 per le associazioni riconosciute, a 7 per le associazioni
non riconosciute e a 3 per i comitati.
Per quanto riguarda le fondazioni, nel 30% dei casi non hanno personale retribuito, mentre il 4,1%
dei casi dichiara più di 100 addetti. Circa il contesto territoriale in cui le fondazioni operano, quasi
la metà dei dipendenti opera in Lombardia e Lazio; in Lombardia è occupato il 22,8% dei
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dipendenti e il loro numero medio per organizzazione è pari a 22, nel Lazio è occupato il 22,1% dei
dipendenti con un numero medio per organizzazione di 23.
In queste regioni sono presenti le sedi principali delle organizzazioni ed il ricorso più intenso a
lavoratori retribuiti può essere connesso allo svolgimento di attività di tipo amministrativo,
direzionale e di rappresentanza.
Il dato delle fondazioni vede prevalere quelle del Nord-ovest (con il 60,3% di dipendenti sul totale
degli occupati). A livello regionale si registrano picchi in Valle d’Aosta (69,9%), Veneto (64,2%) e
Lombardia (62,5%). Per effetto della minor presenza di personale volontario (solo il 20,2%) i
collaboratori sono anch’essi più presenti nel Nord-ovest (13,8%) in particolare in Piemonte
(15,4%), benché la regione con il maggior numero di collaboratori sul totale dei lavoratori in
fondazioni si registra in Abruzzo (32%).
Dati recenti, attestano che si è avuto dal 2001 al 2005, un aumento di occupati all’interno delle
fondazioni (+75%), nonostante la crescita del settore sia stata più ridotta rispetto alla media
nazionale (+ 45,3% dal 2001 al 2005).
Per quanto concerne, invece, le cooperative sociali (dato 2005) è ancora una volta il Centro ad avere
la quota proporzionale di dipendenti maggiore (79,2) seguita dal Nord-est (78,1). Gli atipici sono
invece molto più diffusi al Sud (17% sul totale degli occupati), mentre al Nord è la Lombardia ad
avere la maggior diffusione (13,8%).
I dipendenti sono diffusi maggiormente tra le organizzazioni più anziane rispetto a quelle più
recenti. La maggiore stabilità, conseguente alla più elevata maturità, sembra influenzare
positivamente l’utilizzo di lavoratori dipendenti. Le organizzazioni più anziane presentano un
rapporto tra dipendenti e organizzazioni molto più elevato delle più giovani.
In particolare, per le organizzazioni costituitesi anteriormente al 1971 il numero medio di
dipendenti assunti varia tra i 24 e i 44 dipendenti per singola organizzazione, mentre per quelle
sorte dopo il 1970 il rapporto scende tra le 10 e le 14 unità.
L’assistenza sanitaria, sociale e l’istruzione e ricerca hanno il peso maggiore in termini di
dipendenti, sotto molteplici punti di vista:
i dipendenti sono concentrati in questi tre settori per il 71,1% dei casi;
l’assistenza sociale impiega il 28,5% dei dipendenti, la sanità il 22,8% e
l’istruzione e ricerca il 19,8%.
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Riguardo alle dimensioni medie delle organizzazioni in termini di dipendenti, le differenze per
settore di attività prevalente appaiono ancora più significative. In media, ogni organizzazione con
dipendenti prevalentemente attiva nel settore sanitario impiega 74 dipendenti. Tale rapporto scende
al di sotto di 30 unità, pur mantenendosi su livelli superiori alla media nazionale, per le
organizzazioni operanti in via principale nell’assistenza sociale (27), nell’istruzione e ricerca (19) e
nello sviluppo economico e coesione sociale (17). Nei rimanenti settori si registrano valori sempre
più piccoli fino a raggiungere le 3 unità per le organizzazioni attive prevalentemente nella
filantropia e promozione del volontariato.
Volendo indagare il rapporto di maggiore o minore coesistenza di dipendenti e volontari all’interno
delle singole organizzazioni, è interessante notare qualche variazione. Le organizzazioni che
impiegano in modo cospicuo dipendenti, ma non volontari, sono più frequenti rispetto alla media
nell’istruzione e ricerca (il 42,9% delle organizzazioni opera con dipendenti e il 55,9% con
volontari), nelle relazioni sindacali e rappresentanza di interessi (44,8% con dipendenti - 53,2% con
volontari), nello sviluppo economico e coesione sociale (36,3% con dipendenti - 66,1% con
volontari) e nella religione (19,8% con dipendenti - 71,7% con volontari). Invece, il ricorso
consistente, sia a volontari che a dipendenti, è relativamente più diffuso tra le organizzazioni che
operano, in via prevalente, nella sanità (il 81,0% di esse opera con volontari ed il 17,1% con
dipendenti ), nella tutela dei diritti e attività politica (81,3% - 18,8%) e nell’assistenza sociale
(80,0% - 19,1%).
Le cifre relative ai lavoratori impiegati, collocavano nel 1999 il Terzo Settore italiano attorno al 3%
dell’occupazione complessiva del Paese e nel 2001 al 2,7%: si tratta di un ammontare paragonabile
a quello del settore della finanza e delle assicurazioni e dunque di assoluto rilievo per un sistema
economico che per lungo tempo è stato caratterizzato da tassi di disoccupazione a due cifre. Si tratta
altresì, dell’esito di un’inversione di tendenza nell’evoluzione del Terzo Settore che, nel corso degli
ultimi vent’anni, ha caratterizzato l’Europa e ancor più l’Italia, dopo che per più di ottant’anni
(dalla legge Crispi sulle Ipab), il numero e la rilevanza economica e sociale delle organizzazioni
private senza scopo di lucro si erano venuti progressivamente ridimensionando, anche a seguito di
interventi coercitivi di contenimento e di pubblicizzazione.
Seppure i dati messi in luce dal rilevamento dell’Istat, relativi all’anno 1999 e al 2001, non sono
comparabili con quelli rilevati precedentemente per l’anno 1996 (a causa dei diversi criteri di
definizione e classificazione utilizzati) le differenze in valori assoluti e percentuali sono tali da far
comunque supporre un trend di ragguardevole crescita per quanto riguarda gli occupati nel Terzo
Settore. Tale considerazione, unitamente al fatto che in Italia il Terzo Settore è ancora tra i meno
sviluppati in Europa, può portare a credere che nel nostro paese lo sviluppo di tale settore possa
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dare un significativo contributo alla creazione di nuovi posti. Del resto, anche su scala globale
autori come J. Rifkin e Beck attribuiscono al Terzo Settore un contributo importante alla creazione
dell’occupazione, mentre l’interesse dell’Unione Europea al mondo associativo risale già al Libro
Bianco della Commissione Europea su Crescita, Competitività e Occupazione (a cura di J. Delors) –
Anno 1993.
Il no profit ha avuto, in Italia, negli anni novanta una propulsione indipendente rispetto agli altri
settori produttivi del Paese. Si può dunque ipotizzare che vi sia un mercato del Terzo Settore che
viene spinto anche dai fenomeni di esternalizzazione dei servizi e di applicazione del principio di
sussidiarietà orizzontale, che crea con gli altri settori (in specie con il for profit) normali dinamiche
di interscambio di personale. Occorre, al riguardo, mettere in guardia dalla tentazione da parte delle
politiche pubbliche di intendere il Terzo Settore come “mucca da mungere”, anche con riferimento
alle sue potenzialità sul versante della creazione di nuova occupazione; infatti, l’inserimento
lavorativo rientra tra gli scopi dichiarati solo nel caso delle cooperative sociali di tipo B, mentre per
tutte le altre forme organizzative, esso è più che altro il sottoprodotto di attività svolte con finalità e
motivazioni diverse.
La teoria del mix di incentivi e la differenziazione delle forme organizzative di Terzo Settore
prendono forma dalla teoria economica di Borzaga, la quale mostra come il datore di lavoro attivo
nell’ambito dei servizi alla persona dovrà considerare due ordini di fattori per riuscire a gestire
ottimamente (efficienza ed efficacia) i rapporti lavorativi all’interno dell’organizzazione di cui è
responsabile:
innanzitutto esso dovrà considerare che la funzione di utilità dei lavoratori, da
cui deriva l’offerta di lavoro, è influenzata da una serie di variabili, delle quali
il salario rappresenta solo una componente tra le altre. Ovviamente ogni
lavoratore avrà delle preferenze differenti, dando peso maggiore o minore alle
diverse variabili in gioco, e pertanto indirizzerà la sua offerta lavorativa verso
ambienti lavorativi con caratteristiche non omogenee
in secondo luogo, il datore di lavoro dovrà tenere in adeguata considerazione le
dinamiche di fallimento del mercato relative ai rapporti di lavoro; infatti, nella
maggior parte dei servizi alla persona, specie quelli ad elevato contenuto
relazionale o svolti presso il domicilio dell’utente, la possibilità di controllare
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l’impegno (effort) dei lavoratori e la corrispondenza tra lo stesso, il salario e le
condizioni di lavoro pattuite, è molto limitata, se non addirittura inesistente.
I margini di libertà di cui gode il lavoratore nello stabilire il proprio impegno - e da cui dipendono i
costi di produzione del servizio e la sua qualità - sono molto elevati. In una simile situazione
all’organizzazione conviene basare il finanziamento dell’attività sulla base di un mix di risorse
pubbliche e private, a titolo oneroso e gratuito (volontariato, donazioni, ecc.). L’organizzazione
avrà però soprattutto la convenienza ad offrire un adeguato mix di incentivi in grado di attrarre quei
lavoratori con preferenze e motivazioni il più possibile in linea con la sua mission e i suoi obiettivi,
minimizzando il rischio di comportamenti opportunistici e i costi di controllo. E’ stato infatti
rilevato che il fallimento del mercato che si verifica tra imprese e consumatori (o donatori) quando
sussistono gravi asimmetrie informative, non è l’unico fallimento che caratterizza la produzione di
servizi di utilità sociale.
Provando a dettagliare più approfonditamente la prima affermazione – ovvero che il salario
contribuisce solo in parte a influenzare la scelta del lavoro e l’impegno in esso profuso – si può
affermare che il lavoratore prende in considerazione:
Tra le variabili legate a motivazioni estrinseche:
- L’orario di lavoro e la flessibilità, in relazione, per esempio, alla possibilità di
coniugare gli impegni di cura della famiglia.
- La possibilità di partecipare ad attività formative strutturate in ambienti che
accrescono il capitale umano del lavoratore.
- Il contesto relazionale offerto dall’organizzazione.
Tra le variabili legate a motivazioni intrinseche:
- La valenza sociale dell’attività svolta.
- Il modo di erogazione del servizio e di relazione con i clienti.
- Il desiderio di partecipare direttamente alla definizione degli obiettivi.
- L’equità distributiva e procedurale (percepita), cioè il modo con cui i diversi
incentivi sono distribuiti tra lavoratori con caratteristiche diverse per capitale
umano, anzianità di servizio e responsabilità.
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Sulla differenziazione del mix di incentivi attraverso la differenziazione delle forme organizzative,
tenendo conto di una funzione di utilità, il datore di lavoro può adottare, in contesti diversi, un mix
di incentivi diverso, che pertanto tenderà ad attrarre alcuni lavoratori e a respingerne altri.
L’attribuzione della proprietà dell’impresa ai lavoratori, l’assenza di proprietari che si appropriano
degli utili, una modalità di gestione democratica, un elevato livello di circolazione di informazioni,
diverse forme di definizione degli obiettivi ad alto coinvolgimento dei lavoratori, dinamismi che
pongano l’idealità dell’organizzazione al centro mediante il forte coinvolgimento di personale
volontario, possono garantire una maggiore soddisfazione di una certa categoria di lavoratori
attraendoli e mantenendoli all’interno dell’organizzazione di Terzo Settore (specie in contesti
lavorativi a basso tasso di disoccupazione in cui i lavoratori sono relativamente liberi di scegliere
l’occupazione desiderata).
In questo contesto la scelta della forma organizzativa e l’adozione di specifiche modalità di
organizzazione di Terzo Settore assume particolare rilievo, confermando, sotto un profilo
prettamente economico, l’importanza di tenere in adeguata considerazione la differenziazione
interna del Terzo Settore. In particolare, sembrano rispondere alle esigenze sopra delineate quelle
forme organizzative in cui prevale prioritariamente la funzione distributiva (organizzazioni di
volontariato formate e gestite dagli stessi volontari, fondazioni o associazioni donative fondate e
gestite dagli stessi donatori o da loro fiduciari) e, più in generale, quelle organizzazioni di Terzo
Settore impegnate nella produzione di servizi sociali, che operano spesso in collaborazione stretta
con la pubblica amministrazione e utilizzano forza lavoro sia remunerata che volontaria.
In Italia, tali organizzazioni assumono talvolta le forme dell’organizzazione di volontariato o della
fondazione, ma sempre più frequentemente adottano la forma dell’associazione (di promozione
sociale, ma non solo) o della cooperativa sociale. Tale punto di vista tende a superare la
considerazione del non distribution constraint quale unico elemento rilevante nella definizione di
un’organizzazione di Terzo Settore. Quest’ultimo approccio, infatti, tra le numerose altre aporie,
non è in grado neppure di rendere ragione dell’esistenza di forme differenziate all’interno del
mondo non lucrativo (un esempio su tutti la cooperativa sociale come forma di impresa di servizi).
L’approccio economico del mix di incentivi tende a sottolineare gli elementi di efficienza ed
efficacia di questo modello. Tuttavia, si rende necessario verificare più a fondo quale spazio nella
strutturazione del mix di incentivi possa avere, e nei fatti abbia, la funzione di valorizzare la
disponibilità a privilegiare il benessere degli utenti e la finalità sociale e pubblica dell’attività
svolta. Si ricorda che in Italia si contano complessivamente 33.600 organizzazioni non profit che
ricorrono a forza lavoro remunerata (Istat, 2001).
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3. Economia sociale e peculiarità occupazionali del Terzo Settore
Il Terzo Settore, oggi, non è un settore di transizione, ma un settore maturo che attrae per le sue
peculiarità: il 31,4% dei lavoratori ha, rispetto a prima, peggiorato la retribuzione, ma il 70% ha
migliorato relazioni e soddisfazione morale. Lo dimostra il fatto che molti lavoratori (74,7%)
provengono da una precedente occupazione; il 56,5% ha lasciato il precedente lavoro senza
interruzioni, e di essi l’84,6% lo ha fatto per scelta personale.
Caratteristica importante legata alle imprese del Terzo Settore è il possesso del titolo di studio dei
lavoratori del Terzo Settore, il quale risulta essere superiore in media a quello dei lavoratori di altre
tipologie organizzative attive nel settore dei servizi sociali (più del 20% i laureati contro il 12.5%
degli enti pubblici e il 13% nelle for profit), (Ricerca Fivol: Fondazione Italiana per il Volontariato
2008); inoltre, i lavoratori vengono selezionati rispettando i caratteri di professionalità e
competenza.
Date le premesse esposte, è chiara la necessità di una adeguata selezione (scelta ex-ante) e
incentivazione.
In particolare si rendono necessarie:
Una selezione che scelga soggetti che presentino caratteristiche di:
- professionalità, per rispondere alle esigenze di buona produttività, continuità della
produzione e efficienza interna (aspetti imprenditoriali);
- motivazione intrinseca, affinché aderiscano alla mission, sviluppino beni sociali e
relazionali (aspetti sociali); le ricerche condotte confermano la diffusione nel Terzo
Settore di meccanismi di selezione di lavoratori motivati dagli aspetti intrinseci del
lavoro e meno dal salario.
Un’incentivazione in grado di:
- puntare sul bilanciamento tra preferenze self- regarding, other- regarding e
process-regarding;
- incentivare con continuità affiancando aspetti estrinseci ed intrinseci del lavoro,
realizzando meccanismi di equità distributiva e procedurale;
- realizzare un contratto psicologico accanto a quello giuridico.
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Le ricerche condotte mostrano che le organizzazioni di Terzo Settore sembrano soddisfare i
lavoratori agendo sia su incentivi intrinseci che estrinseci e relazionali. La soddisfazione generale
dipende da tutti questi aspetti.
In sintesi, osservando la situazione reale dai dati disponibili si può concludere che:
- i lavoratori sono effettivamente selezionati per le loro motivazioni intrinseche;
- gli stipendi sono mantenuti bassi anche per avere selezione efficiente dei lavoratori
motivati;
- i lavoratori sono comunque professionalmente adatti, poiché la maggior parte ha
avuto precedenti esperienze lavorative (anche in altri settori o tipologie
organizzative);
- i lavoratori sono soddisfatti dei diversi aspetti del lavoro (e quindi l’incentivazione è
corretta).
I temi dell’Economia sociale (facendo riferimento ai problemi occupazionali) conquistano persone e
gruppi appartenenti all’intero territorio nazionale. Non c’è incontro sul Terzo Settore, sulle imprese
sociali, sull’economia, in cui non vengano collegate con enfasi le parole: “economia” e “sociale”.
Al Sud, dove la disoccupazione ha raggiunto picchi altissimi e non più tollerabili, occorre
evidenziare che si parla di Economia sociale in maniera ancora confusa e con contraddizioni che
andrebbero al più presto chiarite e risolte. Fortunatamente sui temi di economia locale vanno
emergendo negli ultimi tempi anche altri soggetti, tra cui nuove Amministrazioni e “illuminati”
rappresentanti del mondo economico: anche tra loro si estende la voglia di rinnovare la politica
economica e sociale. Ci si sta incamminando verso attività produttive e di manutenzione nel campo
ecologico, nell’utilizzo delle energie alternative, nel riciclaggio di vetro, legno, carta e dei vari
rifiuti, nel lavoro connesso con l’agricoltura biologica, l’agriturismo, il vivaismo, la produzione di
beni immateriali (come i software), i servizi alle imprese, la formazione per la imprenditorialità,
ecc.
Tutto ciò, gestito dalle organizzazioni no profit, si può definire Economia sociale, ma l’Economia
sociale non si limita qui. Anzi, proclamare che essa c’è se c’è il volontariato o le cooperative sociali
o il no profit, è darle un’accezione di chiusura, non di apertura, è sminuirne la portata, è collocarla
in un territorio come luogo e metafora di ciò che è residuale.
L’Economia sociale non sta nelle motivazioni delle nostre iniziative, risiede piuttosto nelle modalità
concrete di esprimere giustizia e regolazione sociale, di integrare nel lavoro e nel mercato anche le
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fasce più povere della popolazione, nel cercare di risolvere la divaricazione esistente tra sviluppo
sociale e sviluppo economico.
Inutile nascondere che dentro il sociale organizzato esistono due sponde culturali:
l’una che separa l’Economia sociale dall’Economia “normale”
l’altra che si rifiuta di restringerla alle attività del Terzo Settore ricercandone le
compatibilità con l’economia in senso ampio.
Il giro dei gruppi economici di impegno sociale, tra le due linee, sostiene di certo la seconda, quella
di non separarsi ma di interagire nel mercato, per far si che tutti i cittadini, anche quelli appartenenti
alle cosiddette fasce deboli, vengano aiutati ma non risucchiati nei circuiti del Terzo Settore; quindi
accompagnarli, prioritariamente, nelle situazioni e nei luoghi di vita comuni e normali, tra cui anche
quelli del lavoro, andando il più possibile dentro le compatibilità del lavoro, del mercato,
dell’economia, portando i bisogni dei cittadini in situazioni di disagio dentro i meccanismi dello
sviluppo, al fine di costruire economie reali e non banali.
Ma, a questo proposito, la partita non la giocheranno da sole le organizzazioni del no profit: soggetti
altri si vanno affacciando sulla scena dell’Economia sociale, e non per aiutarla a camminare con le
sue gambe, ma per surrogarla e governarla; infatti, quali scelte di politica sociale faranno le
Fondazioni delle banche e le banche stesse, con i contributi e i prestiti nei riguardi dei gruppi delle
due tendenze? Come si muoveranno le cooperative sociali stesse di fronte alle regole degli appalti,
ai principi del radicamento territoriale, ai criteri di qualità, ecc;? E cosa determinerà il governo con
la legge sulle imprese sociali, rispetto a tutto ciò?
La storia di parecchi gruppi economici ci offre delle indicazioni per affrontare lo scenario di politica
sociale. Per fare “azienda sociale” si dovrebbe:
- avere una strategia mirata al soddisfacimento della generalità dei bisogni della
popolazione (non solo appartenenti alle cosiddette fasce deboli);
- costruire soggettualità e ruolo nei destinatari delle attività sociali;
- prefigurare, più che si può, il superamento degli interventi clinici aggiungendo
obiettivi occupazionali per gli ex tossicodipendenti, i disabili, e così via.
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Per passare però da azienda a impresa sociale si dovrebbe valorizzare al massimo il contesto in cui
si opera, cercando di collaborare con soggetti molteplici, con più gruppi, più realtà, anche coi
diversi livelli istituzionali e di responsabilità; la stessa dovrà dichiarare gli obiettivi che persegue,
gestire servizi e al contempo elaborare cultura della e sulla solidarietà tra le persone e le
organizzazioni ed evitare di lavorare da sola, fomentando legami, moltiplicando gli attori sociali,
giocando alto il ruolo di responsabilità soggettuale nel territorio.
In definitiva, le imprese sociali dovrebbero assumersi un ruolo forte nella politica economica e in
quella sociale.
Il discorso fin qui esposto, mette in evidenza che molte iniziative sociali ed economiche debbano
sapersi difendere e resistere:
primo: resistere alle speculazioni, con tattiche di spezzettamento e di diffusione di
responsabilità, di proprietà, di imputabilità del denaro, ecc.
secondo: difendersi dalle lusinghe clientelari con politici o funzionari con ruoli di potere,
esigendo diritti e non favori, mantenendo i servizi negli standard previsti dalla legislazione in
materia, e innalzando il discorso e la collaborazione alla qualità dei beni e dei servizi da offrire.
Molte iniziative (al Sud più che al Nord) falliscono anche perché le agenzie finanziarie non
sostengono il mondo del no profit. L’evoluzione delle organizzazioni abbisogna di prestiti in denaro
per lo svolgimento continuativo delle attività, e questi prestiti debbono avere garanzie ragionevoli,
ma da parte delle banche tassi altrettanto ragionevoli e che non approfittino dei momenti difficili
per “sotterrarle”. Tutte le imprese sociali, pertanto, dovranno camminare al passo col resto del
Paese e costruire risposte non vecchie ma innovative e proiettate verso il terzo millennio.
Gli studi condotti dal Ministero del welfare (oggi Ministero del Lavoro, della Salute e delle
Politiche Sociali), stanno diffondendo, al riguardo, esperienze di partnership tra mondo economico,
Enti locali e gruppi sociali; tutto questo intreccio, tra molteplici soggetti, viene denominato impresa
sociale, sottolineando altresì collaborazioni di interesse per tutte le parti coinvolte, sperimentabili su
progetti precisi, definiti e condivisi alla pari. Questa modalità di collaborazione tra mondi tanto
diversi e con obiettivi convergenti e concertati, la ritroviamo nei vari patti territoriali per
l’economia, per il sociale, per la qualità della vita, ecc.
Di no profit si sente parlare sempre di più, o meglio, di associazionismo, volontariato,
cooperazione sociale ed altre realtà, che hanno come comune denominatore quello di svolgere
attività senza scopo di lucro. La vastità e l'eterogeneità delle esperienze che compongono questo
universo sono tali da porre, a chi si prefigge di studiarlo, non poche difficoltà.
Spesso gli obiettivi, le dimensioni, gli ambiti territoriali, le motivazioni e le aspettative che si
formano attorno alle varie attività, sono diversissime tra loro. Il fenomeno non ha ancora acquisito
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quei caratteri di unitarietà necessari per una più profonda comprensione delle questioni legate al suo
sviluppo e alla sua valenza economica, sociale e politica.
Se però, solo in tempi relativamente recenti, le scienze sociali si sono occupate del no profit, è
perché, l'attività privata senza scopo di lucro, ha raggiunto un livello fino ad oggi sconosciuto nelle
società umane, tanto da porsi come soggetto autonomo (antagonista o cooperativo) nei confronti
degli stati nazionali, intesi come espressione più compiuta dell'organizzazione sociale.
L. Salamon parla di global associational devolution: dando uno sguardo ai numeri ci si rende conto
dell'accelerazione che, a partire dagli anni sessanta, ha subito il numero di associazioni non
lucrative in tutto il mondo. Circa il 65% di quelle statunitensi è nata dopo il 1960, mentre il 40% di
quelle costituite in Italia hanno visto la luce solo dopo il 1977. La tendenza è ancor più accentuata
nei paesi in via di sviluppo e in quelli dell'est europeo, dove c'è stata una vera e propria esplosione
dell'associazionismo, anche come risposta allo sgretolamento dell'apparato statale delle economie
pianificate.
Anche se con notevole variabilità nei diversi paesi, il Terzo Settore è comunque una realtà ben
presente nelle economie, tale da giustificare la sempre maggiore attenzione che gli economisti
stanno dedicando al fenomeno.
Alla base di questo rinnovato interesse per il fenomeno dell’economia senza scopo di lucro ci sono
diverse ragioni, la crisi dei sistemi di welfare e il problema della sostenibilità del debito sono
senz’altro due di queste; un pò in tutta Europa, infatti, gli Stati sono alle prese con problemi di
bilancio, la cui soluzione impone delle pesanti cure dimagranti, specie dal lato delle spese,
comprese naturalmente, quelle che hanno assicurato la realizzazione dei modelli di protezione
sociale. In questo senso, ci si è rivolti allo studio del Terzo Settore come possibile soluzione per
queste difficoltà, senza dovere per forza rinunciare ai benefici del welfare che hanno assicurato
livelli di benessere mai conosciuti prima.
L’abolizione del welfare, o comunque una sua riduzione, non è solo un problema schiettamente
economico ma soprattutto politico e sociale. Accanto al miglioramento delle condizioni economiche
delle popolazioni, il welfare ha implicato la maturazione di diritti nuovi per i cittadini che non
sembrano potersi scindere, oggi, da una concezione moderna dello stato. Il no profit, a tal proposito,
offre oltre che una soluzione di tipo economico, anche una risposta politica, in quanto forma di
partecipazione attiva alla vita democratica e civile di una nazione. Spesso le organizzazioni senza
scopo di lucro possono assicurare la tutela di quei diritti acquisiti, se non addirittura l’acquisizione
di nuovi, in una maniera meno gravosa per gli apparati statali.
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Se si considera poi il no profit come una forma organizzativa che sorge come risposta autonoma a
nuovi problemi posti all’individuo, dalla società, il fatto che in questo periodo si assista ad un
rafforzamento della crescita del Terzo Settore, non stupisce.
La globalizzazione, e comunque il profondo mutare dei modi di produzione, legato ad una
molteplicità di fattori come l’avvento dell’era informatica e delle nuove tecnologie, pone, senza
dubbio, sotto stress le strutture sociali, istituzionali ed i processi politici tradizionali, che mostrano
sempre di più difficoltà alle quali non si riesce ancora a dare adeguata risposta. La maggiore
attenzione al fenomeno associativo e la rivalutazione dell’organizzazione come strumento
importante per risolvere i problemi della collettività è senz’altro frutto anche di questi sviluppi.
Le vivaci dinamiche di crescita del no profit stanno, inoltre, mutando la fisionomia del Terzo
Settore oltre che le sue dimensioni. Va così aumentando il numero ed il tipo di attività in cui le
associazioni senza scopo di lucro si impegnano, nonché il modo con cui operano nell’offrire i beni e
i servizi necessari al raggiungimento dei loro obiettivi.
Le no profit non sono certo un’invenzione dell’era moderna ma hanno radici storiche lontane nel
tempo, generalmente legate ad attività di assistenza e aiuto; oggi esse stanno assumendo una
pluralità di ruoli e, accanto alle attività tradizionali di carità e tutela di diritti, vanno sempre di più
realizzando attività di vera e propria produzione di beni e servizi, attraverso modalità di utilizzo
delle risorse che si differenziano da quelle proprie delle for profit orientate al profitto e da sempre
riconosciute e studiate dagli economisti.
Questa nuova dimensione è un’altra delle ragioni che spiega il perché, le no profit, siano diventate
oggetto dell’interesse degli economisti.
Finora abbiamo parlato del no profit come di un fenomeno non nuovo ma che sta assumendo delle
caratteristiche che fino ad oggi non sono state riconosciute proprie di una data forma organizzativa
e che, tuttavia, sta crescendo e assumendo un ruolo sempre maggiore nelle economie moderne.
L’universo no profit si presenta quanto mai variegato e difficile da comprendere in una definizione
che sia allo stesso tempo semplice ed utilizzabile in sede statistica e teorica. Non esiste un'attività
che sia peculiare delle associazioni senza scopo di lucro né un modello comportamentale che le sia
esclusivo. Da un punto di vista metodologico, anzi, l’attività senza scopo di lucro mette a dura
prova tutti gli strumenti di analisi dell’economista; così come si è sviluppata, infatti, la scienza
economica non prevede, nei suoi paradigmi, alcuna figura organizzativa che usi le risorse a sua
disposizione per produrre qualcosa che, poi, non sia in grado di offrire un ritorno in termini di
profitto.
L’homo oeconomicus, secondo alcune tesi economiche, è una stilizzazione logica di per sé
incompatibile con l’emergere del fenomeno no profit, inteso come modo razionale di creazione ed
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utilizzo delle risorse per il raggiungimento di un obiettivo diverso dal profitto. In realtà, con il no
profit si aggiunge un nuovo elemento alla lista dei fenomeni con i quali, da tempo ormai, gli
economisti fanno i conti, quando, accingendosi all’interpretazione delle realtà economiche sempre
più complesse ed interdipendenti, si accorgono dell'impasse che lo schema logico tradizionale
dell’economia politica soffre.
Non si riesce a spiegare, senza sconfinare in territori interdisciplinari, il perché un individuo od un
gruppo, decida di mettere in piedi una attività no profit, a meno di considerarlo del tutto irrazionale.
In realtà molte delle no profit sorgono in ossequio, non solo a considerazioni razionali ma anche di
tipo morale ed etico per assumere, poi, dimensioni e caratteristiche economiche di tutto rispetto,
talvolta superiori a tante imprese for profit gestite nella razionalità più assoluta.
4. Differenziazione delle forme organizzative e retributive del Terzo Settore
Quali sono le caratteristiche del lavoratore di Terzo Settore, che cosa lo motiva, lo lega, lo fa
muovere all’interno dell’organizzazione a cui appartiene? In che cosa egli si differenzia rispetto ai
lavoratori del settore pubblico e del settore privato? Le risposte a queste domande ci aiuteranno a
comprendere le dinamiche lavorative proprie delle organizzazioni di Terzo Settore.
In Italia, alcuni studiosi si sono dedicati ad approfondire questi interrogativi a livello sia teorico che
empirico. Tra questi in particolare si segnala il gruppo di economisti guidato dal Prof. Borzaga
presso l’Università di Trento, e i lavori condotti dalla SDA Bocconi nell’ambito del progetto di
ricerca Cres sull’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La ricerca empirica conferma che il mix di incentivi utilizzato dalle organizzazioni di Terzo Settore
per attrarre e motivare i lavoratori è effettivamente diverso da quello sia delle organizzazioni
pubbliche che delle imprese for profit che erogano gli stessi servizi.
Sintetizzando i risultati, si può affermare che rispetto alle altre forme organizzative, le
organizzazioni di Terzo Settore italiane utilizzano in particolare:
Tra gli incentivi destinati a soddisfare motivazioni estrinseche: maggiori
opportunità di formazione, maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro
e un contesto relazionale particolarmente positivo, conseguenza di buone
relazioni sia tra lavoratori e dirigenti che tra colleghi e con i volontari (è
interessante rilevare che la presenza di volontari tende ad accrescere, a parità di
altri fattori, la soddisfazione dei lavoratori)
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Tra gli incentivi destinati a soddisfare le motivazioni intrinseche: la
condivisione del contenuto sociale dell’attività dell’organizzazione e della sua
missione e la possibilità di influenzare la gestione dell’impresa attraverso la
partecipazione diretta. La possibilità di partecipare direttamente alla gestione
sembra in particolare favorire l’accettazione di salari più bassi di quelli offerti
da altre organizzazioni che operano negli stessi settori di attività.
Le indagini empiriche a livello internazionale mostrano che i salari praticati nel Terzo Settore sono
in genere inferiori a quelli delle altre forme organizzative; tuttavia, le differenze si riducono
sensibilmente quando ci si riferisce al contesto dei servizi alla persona.
Secondo quanto emerge dalle ricerche condotte in Italia da Borzaga, le differenze retributive tra
tipologie sono molto accentuate considerando le strutture salariali per titolo di studio, perché in
generale quelle dei dipendenti pubblici sono assai più sensibili ai livelli di scolarizzazione rispetto a
quelle delle altre tipologie organizzative.
Una ricerca pluriennale dell’Osservatorio sulle risorse umane nel no profit (su un campione di
organizzazioni, per lo più cooperative sociali e fondazioni) ha mostrato come le differenze
occupazionali, salariali in particolare, rispetto al settore for profit siano ancora molto significative.
Fatto 1000 il numero indice relativo alle retribuzioni nel no profit, un impiegato guadagna 1310
nell’industria e nel commercio e 1340 nella finanza, un quadro guadagna 1570 in entrambi i casi, un
dirigente guadagna 2130 nel primo caso e 2360 nella finanza. Soltanto nella pubblica
amministrazione i livelli salariali sono uguali nel caso dei quadri e inferiori nel caso degli impiegati.
Altre ricerche, che hanno preso in considerazione il livello di soddisfazione dei lavoratori, hanno
rilevato sia valori elevati nel Terzo Settore (e generalmente superiori a quelli degli occupati in altre
organizzazioni), sia una sostanziale indipendenza tra salario e soddisfazione.
I fattori che incidono maggiormente sulla soddisfazione, comunque, risultano essere:
1. il titolo di studio,
2. le relazioni interne all’organizzazione,
3. il coinvolgimento nelle attività dell’organizzazione,
4. gli aspetti intrinseci del lavoro,
5. la presenza di motivazioni intrinseche nella scelta dell’organizzazione.
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Inoltre, ad un elevato livello di soddisfazione corrisponde generalmente anche una maggior fedeltà
all’organizzazione, con percentuali particolarmente elevate di lavoratori del Terzo Settore che
dichiarano di voler restare il più a lungo possibile occupati presso l’organizzazione di appartenenza.
Gli studi condotti, soprattutto quelli comparati, confermano che i lavoratori occupati nel Terzo
Settore hanno una sensibilità sociale generalmente superiore a quella degli occupati in altre
organizzazioni; costoro generalmente dichiarano di aver scelto volontariamente l’organizzazione
anche (o soprattutto) perché interessati al contenuto sociale del lavoro e perché condividono la
missione sociale dell’organizzazione.
Solo quando i salari sono particolarmente bassi, essi influenzano negativamente la soddisfazione dei
lavoratori; al contrario, superata una certa soglia, la relazione tra salario e soddisfazione si attenua o
scompare e altri risultano essere i fattori che influenzano la soddisfazione. Tali studi, inoltre,
confermano che una caratteristica delle organizzazioni di Terzo Settore che influenza positivamente
la soddisfazione dei lavoratori, è costituita dalla maggior equità, effettiva e percepita, delle strutture
retributive e organizzative.
In altri termini, le organizzazioni di Terzo Settore non solo sembrano avere strutture retributive
(equità retributiva) caratterizzate da una minor dispersione delle retribuzioni e più coerenti rispetto
alle attese dei lavoratori (premiando, ad esempio, più delle altre forme organizzative l’anzianità e,
quindi, la fedeltà all’organizzazione), ma sembrano anche adottare modalità di gestione dei rapporti,
protocolli organizzativi, procedure di coinvolgimento, circolazione delle informazioni,
avanzamento delle carriere più trasparenti, più eque e meno conflittuali rispetto alle organizzazioni
pubbliche (equità procedurale).
Sotto questo aspetto, è interessante notare come l’equità procedurale assuma un rilievo ancora
maggiore nei confronti dell’equità retributiva, nel determinare i livelli di soddisfazione e lealtà
organizzativa, a dimostrazione che i lavoratori del Terzo Settore tendono a presentare una set di
motivazioni, preferenze, culture, orientato verso dimensioni più che strumentali.
I lavoratori delle organizzazioni no profit dichiarano che nella scelta dell’impresa sono motivati più
dei dipendenti delle altre tipologie organizzative dal grado di coinvolgimento nell’organizzazione,
dall’interesse per il settore e per il modo di lavorare verso gli utenti.
A fronte di questi risultati, coerenti con le tesi summenzionate, va tuttavia ricordato che gli equilibri
raggiunti da queste organizzazioni sono relativamente fragili. Essi dipendono dall’offerta di
lavoratori con motivazioni coerenti ai mix di incentivi offerti e dalla capacità delle organizzazioni di
Terzo Settore di conservare nel tempo l’equità delle strutture retributive e delle procedure
organizzative; inoltre, data l’importanza che assumono le relazioni fiduciarie tra lavoratori e
organizzazione, maggiori sono anche gli spazi per comportamenti opportunistici di queste ultime e
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dei loro dirigenti, ed è rispetto a tutto ciò che assume rilevanza il sistema di regole entro le quali
queste organizzazioni sono tenute a operare: regole societarie, regole relative alle forme di
governance, regole per la gestione dei rapporti di lavoro, cioè di quell’insieme di limiti e
opportunità direttamente influenzate dalla regolamentazione di tipo sia societario-civilistico che
giuslavoristico.
5. Salari e occupazione nel Terzo Settore
Negli ultimi dieci anni, il Terzo Settore, che come è noto comprende molteplici organizzazioni
produttrici di beni e servizi che operano per finalità diverse dal lucro, ha registrato una crescita sia
dell’offerta di servizi di utilità sociale che del numero di posti di lavoro creati. Nel 1991,
l’occupazione generata dalle organizzazioni no profit era pari a 416.000 unità e solo l’1,1 % del PIL
italiano era prodotto da tali organizzazioni. Nel 1999, i dati relativi alla contabilità nazionale
riferiscono che la quota del settore no profit sul totale delle unità di lavoro standard era passata al
2.7 %, pari ad oltre 500.000 addetti. Grazie a questa crescita, l’occupazione nel no profit in Italia si
è avvicinata alla media europea, superiore al 5 % dell’occupazione totale.
Il persistente gap rispetto alla media europea suggerisce che le potenzialità espansive del settore
sono ancora notevoli. Le potenzialità di sviluppo di tale settore sono, tuttavia, oggetto di un acceso
dibattito che vede contrapposti critici e sostenitori. Si è sostenuto con particolare enfasi che
l’espansione del Terzo Settore si sia accompagnata a forte precarietà delle condizioni lavorative,
salari inferiori a quelli medi, e più in generale bassa qualità del lavoro.
Le organizzazioni non lucrative, secondo la visione più critica, tendono a sostituirsi, anziché
aggiungersi a quelle private e statali: in questo modo esse non generano nuovi posti di lavoro poiché
sottraggono spazi di intervento sia al settore privato no profit che a quello pubblico; inoltre,
l’aumento del numero di soggetti produttori di servizi sociali genera, secondo questa
interpretazione, un peggioramento della qualità dei posti di lavoro in tutto il settore che,
inevitabilmente, si traduce in un impoverimento della qualità dei servizi erogati.
Questo lavoro si prefigge di individuare in modo qualitativo e quantitativo la dimensione e la
qualità dell’occupazione nell’ambito dei servizi sociali, settore che assume un peso considerevole
nella creazione di posti di lavoro generati da tutto il Terzo Settore. Si procederà quindi
all’individuazione dell’esistenza di differenziali salariali tra le diverse organizzazioni produttrici di
servizi sociali: pubbliche, private e no profit; inoltre, si assume che i salari siano una misura della
qualità dell’occupazione.
Seguendo il contributo pionieristico di Shapiro e Stiglitz, lo sforzo lavorativo di un individuo è
strettamente legato al livello salariale secondo una relazione positiva: aumentando il livello salariale
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si può incrementare anche la produttività dei lavoratori. La modellistica che si basa su tale
interpretazione, che viene molto spesso utilizzata come strumento di incentivo in molte
organizzazioni produttive sia di beni che di servizi, è nota con il nome di salari di efficienza.
Nelle organizzazioni for profit, la presenza di un elevato grado di dispersione salariale
costituirebbe, quindi, un incentivo per i lavoratori ad incrementare il proprio livello di produttività.
Va detto, tuttavia, che, nello svolgimento di particolari mansioni e quindi in particolari
organizzazioni produttive, la presenza di compensazioni non monetarie potrebbe assumere un ruolo
simile agli incrementi di salario, sostenuto da Akerlof e Yellen. Le compensazioni non monetarie,
possono essere combinate alle remunerazioni strettamente monetarie e influenzare in modo positivo
lo sforzo produttivo del lavoratore. Tale impostazione suggerirebbe che gli aumenti nei livelli di
produttività non siano necessariamente legati solo ai livelli salariali e che l’incentivo monetario
potrebbe non funzionare quando si è in presenza di compensazioni non monetarie legate soprattutto
al tipo di mansione svolta.
L’utilizzo della modellistica dei salari di efficienza per analizzare le compensazioni non monetarie
nel settore no profit assumono l’esistenza di un differenziale salariale a favore del settore for profit
e di un più alto grado di equità salariale nel settore no profit.
Le imprese no profit corrisponderebbero ai lavoratori ed ai manager compensazioni non monetarie
che allevierebbero il più basso livello salariale. In altre parole, i lavoratori occupati nelle imprese no
profit accetterebbero un salario più basso di quello medio, perché essi sono molto più legati al
proprio lavoro e perché percepiscono di essere trattati in modo più equo dai responsabili delle
organizzazioni; ciò aumenterebbe il grado di motivazione e soddisfazione così da incrementare il
livello di produttività.
Seguendo questa interpretazione, i lavoratori appartenenti ad organizzazioni no profit, hanno un più
alto grado di motivazione che contribuisce a mantenere elevato il grado di soddisfazione e, quindi,
anche il livello dell’impegno lavorativo (effort). Il risultato che emerge seguendo questa
interpretazione evidenzierebbe che i lavoratori occupati nel settore dei servizi sociali, e più in
generale nel settore no profit, possiedono una differente funzione di utilità: il salario monetario e il
costo sostenuto nell’attività lavorativa non rappresentano le uniche variabili che influenzano il
livello di utilità complessivo. Il trattamento che ricevono sul lavoro, il grado di adesione tra i propri
colleghi, la possibilità di partecipare alle decisioni dell’impresa e più in generale la possibilità di
essere produttori e consumatori di beni relazionali, si combinano alle variabili strettamente
monetarie influenzandone il livello complessivo dell’utilità.
Le indagini condotte sulle organizzazioni del Terzo Settore operanti nel settore dei servizi sociali in
Italia individua alcuni risultati sorprendenti: in contrasto alle aspettative basate sui modelli teorici
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dei salari di efficienza e all’evidenza empirica fornita da studi precedenti, relativi ad altri paesi, le
imprese no profit corrispondono in media ai propri lavoratori lo stesso livello di salario e salari più
differenziati delle imprese for profit.
Tali argomentazioni spiegano, in primo luogo, che questo risultato potrebbe essere influenzato dai
dati utilizzati che considerano in modo rilevante il settore dei servizi sociali. Altre indagini condotte
anche in altri Paesi evidenziano che nel settore dei servizi sociali le imprese no profit corrispondono
salari più alti e più differenziati ai loro lavoratori. Da ciò emerge che le imprese no profit
impiegano lavoratori con un livello di istruzione più elevato e un maggior livello di qualificazione
professionale rispetto alle imprese for profit. Questo suggerisce, pertanto, che le imprese no profit
basano le remunerazioni corrisposte ai lavoratori su una struttura di determinazione del salario che
differisce da quella delle imprese for profit. Lo studio evidenziato mostra che il settore no profit
corrisponde un premio più elevato (in termini di livello salariale) al capitale umano; i coefficienti
delle variabili relative agli anni di istruzione, all’esperienza, al grado di specializzazione ecc.
riportano valori significativi nel caso delle imprese no profit, ma non nel caso delle imprese for
profit.
Molti osservatori dichiarano che le imprese no profit pagano salari inferiori ai propri lavoratori e,
perciò, tendono ad impiegare una forza lavoro meno qualificata ovvero a pagare salari bassi a
lavoratori altamente qualificati. I risultati evidenziati sostengono, a tale riguardo, che il grado più
alto di motivazione dei lavoratori impiegati dalle imprese no profit, paragonati a quelli delle
imprese for profit in Italia (documentato nelle ricerche condotte da Borzaga), non è utilizzato da
questo tipo di organizzazione come uno strumento di compensazione non monetaria sostitutivo al
salario e, perciò, in grado di giustificare il pagamento di salari inferiori paragonati alle loro
controparti for profit. Le compensazioni non monetarie fornite dalle imprese no profit ai loro
lavoratori vanno considerate, piuttosto, come un elemento addizionale alle compensazioni salariali,
che ha un impatto sulla qualità dei servizi.
Infine, la diffusione all’interno del Terzo Settore di soggetti produttori di servizi sociali non può
rappresentare un elemento di preoccupazione sia per quanto attiene il livello di salario corrisposto
sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro offerte e la qualità del servizio erogato. Un’offerta
eterogenea di servizi sociali e di organizzazioni produttrici comporta la soddisfazione di domanda
di bisogni variegati e il raggiungimento di elevati standard di efficienza produttiva, che
contribuiscono così ad aumentare il livello di soddisfazione complessivo di un’intera collettività.
6. Note conclusive
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Al termine di questo lavoro, è possibile provare ad avanzare alcune note di sintesi, prefigurando i
percorsi per il rafforzamento di un settore che, come abbiamo mostrato, si segnala per un certo
dinamismo e per una crescita quantitativamente rilevante, che porta il Terzo Settore a fornire oggi
circa il 4,7% dell’occupazione del Paese.
Possiamo provare a raccogliere le idee attorno ad alcuni grandi nodi strategici, attorno ai quali
riteniamo si giochino le sorti future del settore. Un primo nodo è di tipo legislativo: le leggi di
riferimento del settore sono datate 1991 (la n. 266 sul volontariato, la n. 381 sulla cooperazione
sociale). L’avanzamento apportato dalla legge sull’impresa sociale è certamente un fatto positivo,
ma risulta urgente una legge quadro del settore, che semplifichi e ne incentivi ulteriormente lo
sviluppo.
Dal punto di vista del no profit, nessuna buona legge può però sostituire il necessario passo in
avanti di tipo culturale per giungere ad una visione imprenditoriale finalizzata allo sviluppo locale.
Perché ciò accada, il no profit deve essere capace di superare l’immagine di sé come settore “terzo”,
stampella dello Stato in crisi finanziaria e rimedio alle storture del mercato. La terzietà del settore
deve essere innanzitutto legata a un’autonomia strategica che ne faccia un partner paritetico tanto
delle amministrazioni pubbliche quanto degli attori for profit.
Perché ciò accada, è fortemente necessario che si raggiunga una più ampia autonomia finanziaria,
oggi largamente assente. Lo sviluppo professionale del settore sarà sempre più legato alla presenza
di figure manageriali: imprenditori sociali, fund raiser, responsabili marketing, progettisti ecc.
Infine, la capacità manageriale può creare spazi di partnership strategica con il settore for profit,
come evidenziano alcune buone prassi (si pensi all’esperienza della Borsa dei progetti sociali e a
quella della Fondazione Banco Alimentare - facilitatore nella raccolta e distribuzione delle
eccedenze dell’industria alimentare).
L’evidenza empirica mostra che il mercato del lavoro no profit non è oggi un “non mercato”, ma un
mercato sui generis, con elevati tassi in entrata e in uscita, alti livelli di formazione, ma basse
retribuzioni e soprattutto scarso ricorso a incentivi sui risultati. Vi potrebbe essere, dunque, un
avvicinamento di modello rispetto al for profit, ma con una più elevata incertezza contrattuale, una
scarsa attenzione alla gestione delle risorse umane, un basso livello di valutazione delle prestazioni.
Risulta però evidente che il tema della motivazione (assai presente) non può andare a discapito
degli elementi essenziali citati ovvero ad una corretta impostazione di tipo imprenditoriale,
disincentivando di fatto i più meritevoli e i lavoratori con titoli di studio e competenze più elevate.
L’individuazione dei vantaggi e svantaggi legati alla crescita del Terzo Settore passa attraverso due
impostazioni contrapposte che analizzano le peculiarità delle organizzazioni appartenenti a tale
settore individuandone potenzialità e limiti.
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Una parte della letteratura corrente ritiene che le organizzazioni appartenenti al settore no profit
riuscirebbero a soddisfare alcuni segmenti della domanda per i servizi sociali meglio di quelle
pubbliche. Le organizzazioni no profit, infatti, sono in grado di attrarre lavoratori più motivati e che
condividono la mission dell’organizzazione alla quale appartengono. In questo modo l’impegno
profuso nelle attività lavorative raggiunge livelli più elevati di quello dei colleghi appartenenti al
settore pubblico e privato for profit, contribuendo così a mantenere elevati i livelli di efficienza
raggiunti da queste organizzazioni; inoltre, l’espansione del settore di alcuni servizi, come quelli
sociali, che come è noto sono ad alto contenuto di prestazioni professionali, può creare domanda di
lavoro peculiare specialmente per lavoratrici donne, contribuendo in questo modo a ridurre il tasso
di disoccupazione.
Secondo un’altra accezione, le organizzazioni no profit sono in grado di attrarre disoccupati di
lunga durata anche come lavoratori volontari e in tal modo, esse, contribuiscono a mantenere
aggiornato il livello delle conoscenze lavorative, il cosiddetto capitale umano, soprattutto quello
generico e, perciò, più facilmente trasferibile da un’impresa e da un settore agli altri; ciò
permetterebbe ai lavoratori di aumentare le possibilità di trovare un posto di lavoro, riducendo così
il cosiddetto effetto di scoraggiamento (scarring effect), vale a dire la tendenza dei lavoratori
disoccupati a non cercare più lavoro e a rifugiarsi nell’inattività ovvero nel lavoro nero,
specialmente nel Mezzogiorno caratterizzato da una disoccupazione di massa e di lunga durata.
Infine, per completare egregiamente il presente lavoro, che ha cercato di conoscere meglio il Terzo
Settore, facendo opportuno riferimento alle proprie problematiche occupazionali, tra gli elementi
considerati negativi per la crescita e diffusione di organizzazioni no profit, quello posto
maggiormente sotto accusa dagli osservatori critici è rappresentato dal fatto che nell’ambito del
Terzo Settore, le organizzazioni corrisponderebbero, peraltro già evidenziato nei paragrafi
precedenti, un salario più basso rispetto alle concorrenti del settore privato for profit. Dal punto di
vista sindacale, tale possibilità viene vista come una seria minaccia al tessuto produttivo delle
regioni italiane, soprattutto di quelle meridionali, poiché tali organizzazioni contribuirebbero in
maniera determinante a ridurre ulteriormente il livello medio dei salari in quelle aree; inoltre, la
nascita di nuovi soggetti produttori di servizi sociali sottrae spazio di intervento al settore pubblico
e ciò comporterebbe una rinuncia ad alcune caratteristiche peculiari del sistema di welfare: carattere
di universalità delle prestazioni offerte per tipologia di bisogno, prestazioni uguali per tutti, ecc.
Ulteriore elemento negativo, determinato dal pluralismo sia dei servizi sociali che dei soggetti
produttori, sarebbe rappresentato dal fatto che all’aumento dell’offerta di servizi si associ il
peggioramento delle condizioni lavorative offerte che avrebbe come risultato finale un
impoverimento anche della qualità dei servizi erogati.
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forma giuridica: ISTAT, VIII° Censimento generale dell’industria e dei servizi, 2001.
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Anno 2003
Cooperativa sociale: ISTAT, Le cooperative sociali in Italia, Roma, 2003.
Anno 2005
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Organizzazione di volontariato: ISTAT, Le organizzazioni di volontariato in Italia, Roma, 2005.
Anno 2007
Cooperativa sociale: ISTAT, Le cooperative sociali in Italia, Roma, 2007.
Fondazione: ISTAT, Le fondazioni in Italia, Roma, 2007.
29
Appendice
Tabella 1 – Italia, occupati nelle cooperative sociali per tipologia contrattuale, vari anni 1999 2001 2003 2005
Dipendenti 121.894
149.147
161.248
211.307
Distaccati o comandati 871
Co.Co.Co 7.558
9.861
27.389
31.629
Interinali 136
497
1.287
Totale 130.323
159.144
189.134
244.223
% su totale occupazione Italia 0,63% 0,74% 0,85% 1,08% Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
Tabella 2 – Italia, occupati nelle fondazioni per tipologia contrattuale, vari anni 1999 2001 2005
Dipendenti 50.674 41.332 81.563 Distaccati o comandati 1.138 5.156 Co.Co.Co 4.333 5.906 19.531
Interinali 291 Totale 56.145 47.529 106.251 % su totale occupazione Italia 0,27% 0,22% 0,47%
Fonte: elaborazioni su dati ISTAT
30
Tabella 3 – Età al pensionamento per uomini e donne
FRANCIA 60 ANNI
IRLANDA 65 ANNI
ITALIA 60/65 ANNI
GERMANIA 65 ANNI (67, gradualmente, ENTRO IL 2029)
GRECIA 60/65 ANNI
SPAGNA 65 ANNI
SVEZIA 61 – 67 (FLESSIBILE PER TUTTI)
FINLANDIA 65 ANNI
REGNO UNITO 60/65 ANNI (65, gradualmente, ENTRO IL 2020)
Fonte: European Commission, Mutual Information System on Social Protection - 2007
Tabella 4: Redditi annui medi 2004 (in euro) Donne Uomini
Diplomati
11.956 17.683
Laureati
16.776 26.733
Differenza
4.820 9.050
Fonte: Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, Banca d'Italia